Dap, Cartabia pronta a resistere nel governo sul nome di Renoldi di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2022 A sostenere la nomina potrebbero essere Pd, Italia Viva e Forza Italia, tra i contrari Lega e M5S: la titolare della Giustizia decisa a difendere la propria linea sul carcere. Che cosa succede se al prossimo Consiglio dei ministri Movimento 5 Stelle e Lega si oppongono alla nomina di Carlo Renoldi quale nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria? I forti indizi che ci spingono a pensare che non sarà un passaggio facile per la ministra della Giustizia Marta Cartabia, e quindi a porci la domanda, sono essenzialmente due: la campagna stampa alimentata dai due partiti contro il magistrato, la cui unica colpa è quella di essere costituzionalmente orientato sul tema carcere; il fatto che durante il plenum del Csm di due giorni fa, che ha approvato a larga maggioranza la delibera che dispone il fuori ruolo per Renoldi, il laico in quota M5S Fulvio Gigliotti si è astenuto, insieme a Nino Di matteo e Sebastiano Ardita, mentre ha votato contro Stefano Cavanna, in quota Lega. Che partita dovrà giocare la Guardasigilli al prossimo Cdm? Questa vicenda si intreccia sicuramente con quella più ampia che interessa la risposta politica all’emergenza carceraria. Ricapitoliamo brevemente: a fine novembre la ministra, nel corso di un evento pubblico organizzato dal Foglio, disse che “ci sono istituti penitenziari che gridano vendetta” ; a fine dicembre la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, presieduta dal professor Marco Ruotolo, le ha consegnato la relazione finale che individua diverse soluzioni per migliorare la quotidianità dell’intera comunità penitenziaria. Dopo qualche giorno, la stessa ministra ha promesso: “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità”. In che termini, non lo abbiamo saputo. L’ 11 gennaio con una intervista a questo giornale, il dem Walter Verini, uno tra i parlamentari più vicini alla ministra, tracciò nettamente i tre percorsi che si sarebbero potuti percorrere: “Non c’è dubbio - ci disse - che la situazione attuale delle carceri sia molto difficile al momento, ma oggi possiamo fare qualcosa di importante seguendo più strade: modifica del regolamento penitenziario, modifica delle leggi tramite percorso parlamentare, ipotesi di decreto d’urgenza del ministero. Che noi sosterremo pienamente”. L’assist non è stato colto da via Arenula e purtroppo nulla è accaduto per sanare qualche ferita delle nostre carceri. E intanto la popolazione carceraria, come ha ricordato la radicale Rita Bernardini, continua a crescere: “Siamo arrivati a 54.645. 273 in più rispetto al mese precedente. Sono testimone di tante ingiustizie e di tanta disperazione”. Che la nomina di Renoldi sia la prima azione concreta della ministra per iniziare ad imporre la sua linea sul carcere? Quasi sicuramente sì, ma allora dovrà difendere strenuamente la sua scelta durante un Cdm che si prefigura divisivo. Da quanto abbiamo potuto apprendere, la Guardasigilli manterrà il punto. Chi la conosce bene crede sia impossibile immaginare un suo passo indietro. Non potrà che sostenere la sua decisione, arrivata dopo una serie di colloqui con altri magistrati, e soprattutto perché è ricaduta su un giudice che proviene da dieci anni di Sorveglianza a Cagliari, il cui pensiero sul tema dell’esecuzione penale è in sintonia con il suo. Difendere Renoldi significa per la Cartabia difendere la sua cultura costituzionale sul carcere. Lo sappiamo, la maggioranza che sostiene il Governo è ampia, non tutti possono essere sempre d’accordo. Tuttavia questo non ha impedito comunque a Draghi e Cartabia di trovare la quadra su dossier forse più complessi della nomina del Dap, come la riforma del processo penale, ad esempio. Si presume, comunque, che in Cdm i favorevoli alla nomina di Renoldi saranno Pd, Italia Viva e Forza Italia, mentre tra i contrari vedremo Lega e M5S. Da quanto abbiamo potuto capire comunque non si andrà alla conta, dovrà prevalere il buon senso tra i partiti. Ma se la ministra riuscirà a far ingoiare il rospo ai contrari, come è probabile, dovrà pagare un prezzo? Non ci saranno più concessioni sul carcere? Ipotesi fantascientifica, ci dicono fonti vicine alla professoressa. Dap, la scelta di Renoldi piace a Cascini: “Grave criticarlo per le sue idee sul 41bis” di Davide Varì Il Dubbio, 11 marzo 2022 Il consigliere del Csm: “La vera responsabilità di chi va ad assumere l’incarico di direzione delle carceri, oggi, è fare in modo che la pena assolva alla funzione che la Costituzione le assegna”. “Sono contento del fatto che il ministro della Giustizia abbia scelto come capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria un magistrato che viene dalla Sorveglianza”. Lo ha detto il togato del Csm Giuseppe Cascini, di Area, che in plenum ha espresso le ragioni del proprio voto a favore del collocamento fuori ruolo di Carlo Renoldi per assumere l’incarico di capo del Dap, su proposta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Ritengo che sia un errore molto grave, nell’approccio al tema del carcere, preoccuparsi di temi molto simbolici, quali quelli dell’art. 41 bis o dell’art. 4 bis - ha proseguito Cascini. Una discussione seria e serena sul carcere impone la ricerca di un equilibrio giusto e ragionevole tra le inderogabili esigenze di sicurezza e le altrettanto inderogabili esigenze di garanzia della legalità e umanità della pena. La sicurezza, fuori e dentro il carcere, non si garantisce tenendo i detenuti chiusi nelle celle, separati dal mondo, ma si deve costruire attraverso il difficile percorso di risocializzazione, attraverso la scuola, l’educazione, la socialità dentro e fuori dal carcere, il lavoro. La vera responsabilità di chi va ad assumere l’incarico di direzione delle carceri, oggi, è fare in modo che la pena assolva alla funzione che la Costituzione le assegna”. “Una missione quasi impossibile nella drammatica situazione del sistema carcerario italiano - ha sottolineato Cascini - È su questo che si misura davvero la sfida dell’organizzazione e del funzionamento del carcere e su questo, secondo me, si dovrebbe, con minore contrapposizione, provare a fare una discussione più seria e meno ideologica. E invece, ho l’impressione che ogni volta che si parla di queste cose si riduca il dibattito a chi è pro o contro il 41 bis o pro o contro l’ergastolo ostativo. Come se poi questi strumenti fossero nella responsabilità del capo del Dap e non in quella del ministro, del governo e del Parlamento”. Il nuovo capo delle carceri non piace a tutti di Luca Sofri ilpost.it, 11 marzo 2022 Alcuni magistrati e sindacati della Polizia penitenziaria considerano troppo garantista Carlo Renoldi, nominato capo del Dap. Mercoledì il Consiglio superiore della magistratura ha votato a maggioranza la nomina di Carlo Renoldi a capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: uno dei quattro dipartimenti in cui è diviso il ministero della Giustizia, quello che si occupa dell’organizzazione e della sicurezza delle carceri. Il Dap gestisce il personale e i beni dell’amministrazione penitenziaria, ed è responsabile dell’esecuzione delle pene dei detenuti e della corretta applicazione delle leggi che le definiscono. Renoldi succede a Bernardo Petralia, che aveva presentato domanda di pensionamento, e a indicare il suo nome era stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia: ma fin da subito c’erano state discussioni e divisioni. Essenzialmente, la questione è che Renoldi è noto per avere posizioni garantiste e per aver insistito spesso sulla necessità che il carcere assolva alla funzione rieducativa prevista dalla Costituzione, opponendosi a chi invece dà la priorità a quella punitiva. Renoldi ha criticato spesso l’intransigenza di alcuni ambienti della magistratura, specialmente quelli impegnati nella lotta alla mafia, e ha preso posizione contro il giustizialismo in politica. Ed è da persone di queste aree politiche e culturali che sono arrivate le ostilità nei suoi confronti. Nella votazione del Csm il membro laico - cioè non magistrato - della Lega ha votato contro, mentre si è astenuto quello del Movimento 5 Stelle. Si sono astenuti anche tre magistrati: Sebastiano Ardita, Nino Di Matteo e Fulvio Gigliotti. Un altro magistrato, Stefano Cavanna, ha votato contro. Ora la nomina dovrà essere approvata dal Consiglio dei ministri. I motivi dell’ostilità da parte di alcuni magistrati ed esponenti politici sono principalmente le numerose prese di posizione di Renoldi sul tema del carcere duro per i mafiosi e sull’ergastolo ostativo. Quest’ultimo è quello che impedisce al detenuto condannato all’ergastolo di lasciare il carcere (per lavorare all’esterno, per i permessi premio, per il regime di semilibertà o le misure alternative alla detenzione) anche dopo 26 anni già scontati, a meno che non abbia collaborato con la giustizia. In particolare, il provvedimento di ergastolo ostativo si applica ai detenuti soggetti al regime di 41 bis, colpevoli di reati di terrorismo, mafia o appartenenti a organizzazioni criminali. Il 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano e originariamente consentiva al ministro della Giustizia di sospendere, in casi eccezionali di rivolta o di situazioni di emergenza, l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti. Dopo le strage mafiose del 1992, un decreto legge (il Martelli-Scotti) estese la possibilità di applicare le cosiddette “restrizioni necessarie” anche ai detenuti per mafia, con l’obiettivo dichiarato di impedire le comunicazioni tra mafiosi in carcere e le loro organizzazioni all’esterno. Le misure vanno dall’isolamento all’ora d’aria limitata e, sempre in isolamento, alla limitazione degli oggetti che si possono tenere in carcere e dei colloqui con i familiari. Sul 41 bis molti giuristi hanno espresso forti perplessità perché con la sua applicazione verrebbe meno, secondo loro, la funzione riabilitativa della pena. Sul tema si era espressa qualche mese fa anche la Corte Costituzionale, che aveva affermato in sostanza la cosiddetta polifunzionalità della pena e cioè la funzione rieducativa sancita dal comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, anche per i detenuti condannati all’ergastolo per i delitti di mafia e di terrorismo. La Corte Costituzionale aveva dato mandato al parlamento di approntare una riforma coerente con i principi della Costituzione. Renoldi, che ha 53 anni, è oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione e in passato è stato magistrato di sorveglianza a Cagliari. Non ha mai nascosto le sue perplessità su alcuni aspetti del 41 bis: in passato aveva detto di essere “per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”. Fin da quando si era parlato della possibilità della sua nomina, il Movimento 5 Stelle aveva parlato di “fatto grave”, mentre la Lega aveva espresso “seria preoccupazione”. In particolare, a Renoldi era contestato un discorso pronunciato durante un convegno a Firenze, nel febbraio 2019. Riferendosi al governo di cui all’epoca facevano parte Lega e M5S aveva detto: “c’è un ritorno nel discorso pubblico del mito reazionario della certezza della pena, che è un punto fondamentale del programma del governo del cambiamento. Un mito che in questa narrazione diventa una sorta di evocazione identitaria che mira alla costruzione dell’identità del blocco politico e sociale”. Molte altre dichiarazioni di Renoldi erano state poi ricordate su alcuni giornali, prima tra tutte una risalente al luglio del 2020 in cui si riferiva a una decisione della Corte Costituzionale che consentiva di concedere permessi premio agli ergastolani ostativi. Renoldi aveva definito la decisione “epocale”, spiegando che aveva riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario: “ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 41 bis”. A Renoldi viene anche contestato il fatto di essere stato estensore di sentenze come quella che apriva alla possibilità di colloqui via Skype ai detenuti con il 41 bis. Sulla nomina di Renoldi si era espressa tra gli altri Maria Falcone, sorella del giudice assassinato dalla mafia il 23 maggio 1992. “Mi auguro che nella lotta alla mafia, che vede nella tenuta del regime carcerario duro per i boss uno dei suoi cardini, non si arretri di un millimetro. Qualunque tentennamento nell’applicazione rigorosa di norme che sono costate la vita a uomini delle istituzioni come mio fratello sarebbe un segnale pericolosissimo che sarebbe interpretato dalle mafie come un pericoloso indice di debolezza”. Salvatore Borsellino, attivista e fratello del magistrato Paolo, a sua volta ucciso dalla mafia, aveva criticato esplicitamente la nomina: “che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la ministra Cartabia e il governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini della nazione dal cancro mafioso?”. Per capire a fondo l’ostilità che la nomina di Renoldi ha suscitato in certi ambienti è utile leggere un editoriale pubblicato sul sito della polizia penitenziaria, in cui si definisce Carlo Renoldi “l’uomo giusto al posto sbagliato” e “uno dei leader del movimento garantista italiano”. Dice l’editoriale: “Indubbiamente, le posizioni ideologiche di Carlo Renoldi, avvalorate dagli innumerevoli interventi pubblici, lo pongono in una situazione assolutamente inadeguata per il ruolo di Capo dell’Amministrazione Penitenziaria che, inevitabilmente, include anche la responsabilità di Comandante Generale del Corpo di Polizia Penitenziaria. Un po’ come nominare il Mahatma Ghandi Capo di stato maggiore dell’esercito indiano”. Il Sappe, maggior sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per contestare la nomina, ricordando che spesso Renoldi si è espresso in favore di quelle che il sindacato definisce “chiare forme di annacquamento del 41 bis”. Donato Capece, segretario del Sappe, ha detto che Renoldi “sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria”. D’altra parte, lo stesso Renoldi in passato aveva spesso criticato la polizia penitenziaria, i suoi sindacati e lo stesso Dap, l’istituzione che adesso dovrà dirigere. Li accusava di essere ostili o indifferenti a qualsiasi tentativo di umanizzazione degli istituti penitenziari: “Mi riferisco al Dap”, diceva Renoldi, “ad alcuni sindacati della polizia penitenziaria, ad alcuni ambienti dell’antimafia militante, ad alcuni settori dell’associazionismo giudiziario e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza. Un Dap che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti giustiziabili per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa”. Prima della votazione del Csm nella quale si è astenuto Nino Di Matteo, magistrato palermitano da sempre impegnato nella lotta alla mafia, aveva spiegato: “Non posso in coscienza esprimere voto favorevole all’autorizzazione al collocamento al vertice del Dap di un collega che in occasioni pubbliche ha dimostrato pervicace e manifesta ostilità nei confronti di ambienti e soggetti, anche istituzionali, che avrebbero quantomeno meritato un diverso rispetto”. Di Matteo ha ricordato una frase di Renoldi in cui si parlava di “alcuni ambienti dell’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri che vengono ricordati esclusivamente per il sangue versato e per la necessaria esemplarità della reazione contro un nemico irriducibile”. In realtà la frase pronunciata da Renoldi era più lunga e articolata: “Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Le critiche e le polemiche hanno spinto Renoldi a scrivere una lettera alla ministra Cartabia in cui ha parlato di pubblicazioni di frasi estrapolate in parte e fraintese. In particolare, Renoldi ha spiegato che “nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti colleghi e servitori dello Stato”. Ha anche spiegato di non aver mai messo in dubbio l’utilità del 41 bis, definito essenziale nel contrasto della criminalità, spiegando che questa sua posizione “emerge da sentenze a cui ho contribuito della prima sezione penale della Cassazione, in cui si sottolinea la necessità che le singole misure restrittive siano specificamente finalizzate a tale esigenza”. Renoldi ricorda però anche che nonostante il problema della mafia, la stragrande maggioranza dei detenuti non è sottoposta al 41 bis (sono l’1% della popolazione carceraria), e che a loro vanno garantite carceri dignitose. Renoldi ha anche citato Papa Francesco: “Ogni condanna deve avere una speranza”. I mafiosi, il carcere e la Costituzione di Gian Carlo Caselli MicroMega, 11 marzo 2022 Il Parlamento entro maggio dovrà intervenire su un’ordinanza della Consulta di un anno fa che ha “aperto” la libertà condizionale anche ai mafiosi non pentiti. Con un’ordinanza pronunziata il 15.4.2021 la Consulta ha “aperto” ai mafiosi non pentiti l’ergastolo ostativo per quanto riguarda il beneficio della liberazione condizionale. Ma gli effetti della pronunzia di incostituzionalità sono stati differiti affinché il Parlamento possa intervenire. Il termine fissato è di un anno, giusto il tempo per arrivare al maggio 2022, quando cadrà il 30° anniversario delle stragi di mafia del 1992. Il differimento è stato motivato con il rischio “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. Perché - dice ancora la Consulta - la mafia ha una sua “specificità” rispetto alle altre condotte criminali associative; la collaborazione di giustizia è un valore da preservare. Si tratta in sostanza di paletti (sia pure generici) per indirizzare il legislatore, che non potrà non tenerne conto ragionando appunto a partire dalla realtà specifica della mafia. Il Parlamento ha elaborato un progetto di legge che all’inizio di marzo è ancora un cantiere apert0. Conviene pertanto tenere desta l’attenzione sul problema. Secondo l’ordinanza l’ergastolo ostativo per i mafiosi non pentiti è incostituzionale per violazione di tre norme: gli artt. 3 e 27 Costituzione e l’art. 3 Convenzione Europea Diritti dell’Uomo. Esaminiamo per cominciare la questione relativa all’ art. 3 della Carta. Uno degli argomenti per “aprire” ai mafiosi non pentiti si basa sull’enunciato che la costituzione o è uguale per tutti (mafiosi compresi) o non è. Argomento suggestivo. Però attenzione. La costituzione (art. 49) stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma a questo principio costituzionale è la stessa Carta (art. XII disposizioni transitorie e finali) che deroga, vietando “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.” Ora io non sono un costituzionalista e ho tutto da imparare da chi lo invece lo è, ma mi sembra di poter argomentare che la Costituzione vuole che ai nemici della democrazia sia dedicata un’attenzione particolare. Qual è il rapporto dei mafiosi con la democrazia? Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assogget­tamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di osta­coli di ordine economico e sociale che limita fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dell’articolo 3 su cui si fonda la Costituzione. Allora, si può dire che con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (art. 416 bis) i mafiosi si mettono sotto le scarpe tutti i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? Si può dire che per rientrarvi devono offrire prove certe di ravvedimento? Si può dire che la Costituzione non è un bancomat? Si può dire in sostanza che l’argomento della Costituzione che deve valere per tutti non può cancellare le specificità delle mafie di cui invece occorre razionalmente tener conto? Giustizia, pena e i mafiosi non pentiti di Gian Carlo Caselli MicroMega, 11 marzo 2022 Il principio dello scopo rieducativo della pena è sacrosanto. Ma può valere per chi, come i mafiosi non pentiti, non ha dato prova di volersi reinserire in società? Il Parlamento ha ancora un paio di mesi per approvare una legge che recepisca le linee indicate dalla Consulta in tema di ergastolo ostativo con un’ordinanza del 15.4.2021. Non è impresa facile: perché da un lato la Consulta ha stabilito che la collaborazione di giustizia (alias pentimento) non può essere “conditio sine qua non” per la concessione di benefici al mafioso ergastolano; ma nello stesso tempo ha riconosciuto che la collaborazione è un valore da preservare; il tutto entro un quadro di riconoscimento della “specificità” della mafia rispetto alle altre condotte criminali associative. In attesa delle scelte (non facili, ripeto) del parlamento, c’è ancora spazio per una riflessione sui principi che devono orientare tali scelte. 7 Occupiamoci ora dell’art. 3 Cedu, secondo cui nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Al riguardo si potrebbe osservare che l’angoscia del “fine pena mai” va rapportata alla realtà della condizione carceraria dei mafiosi, che è ben lontana dalla tortura, come dal trattamento inumano e degradante. Uno spaccato della situazione si trova nel volume “Lo stato illegale - Mafia e politica da Portella della Ginestra ad oggi” (G.C. Caselli e G. Lo Forte, ed. Laterza, 2020), dove risulta fra l’altro che ai mafiosi carcerati “spetta” un “mensile” per le spese correnti; e che un boss può arrivare a spendere somme imponenti al mese per avvocato, vestiti, ‘libretta’ e colloqui”. Ancorché al 41 bis, proprio una vita grama non è. Certo si tratta di uno spaccato che non fotografa la condizione carceraria dei mafiosi in tutta la sua complessità, ma è quanto basta per dubitare fortemente che si possano utilizzare le categorie della tortura o dei trattamenti vietati dalla Cedu. Resta da esaminare l’art. 27 Costituzione (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato). Senza dubbio è il profilo più delicato dell’intera questione, per cui è bene premettere fin d’ora alcune considerazioni di base. Prima c’era la legge del taglione, restituire al male ricevuto altrettanto male. Ora l’art. 27 Costituzione ci chiede, con il principio della rieducazione, di andare oltre il male. Attenzione: questo non significa affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il senso di una giustizia giusta, attenta anche alle esigenze della persona coinvolta in problemi di giustizia, è di evitare che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare. Se la pena scivola nelle spirali tortuose della persecuzione vendicativa finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto o sbaglio è stato ferito. Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se non capisce (anche con le modalità di esecuzione della sanzione) il perché del suo errore, la punizione finisce per servire a poco. Perché incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile. Sono princìpi sacrosanti di civiltà (non solo giuridica), basilari in un regime democratico. Ma che possono funzionare solo per i condannati che danno prove concrete, riconoscibili e sicure di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è questo - secondo la mia opinione - il caso dei mafiosi “irriducibili” che non si sono pentiti: quelli cioè che hanno rifiutato e rifiutano ogni forma di ravvedimento operoso attraverso la collaborazione con la giustizia (o pentimento) nel contrasto alla criminalità mafiosa. Anche la Cartabia si oppone ai video colloqui al 41 bis: la Cassazione la smentisce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2022 Cambiano i governi, cambia anche il ministro della Giustizia, ma non cambia la continua opposizione ai detenuti al 41 bis che ottengono la possibilità di usufruire, in tutta sicurezza, l’utilizzo della videochiamata con i propri familiari impossibilitati di effettuare colloqui in presenza. La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso del ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia in merito alla decisione del tribunale di sorveglianza. Andiamo con ordine. Con ordinanza del 13 maggio scorso, il Tribunale di Roma ha accolto il reclamo proposto da Ferdinando Cimato, sottoposto al 41 bis, avverso al silenzio dell’Amministrazione penitenziaria, alla quale il detenuto aveva chiesto di sostenere un video colloquio e un colloquio aggiuntivo con i familiari residenti in Calabria sulla loro utenza telefonica privata, essendo divenuti impossibili i colloqui visivi in carcere a causa delle limitazioni agli spostamenti determinate dall’emergenza sanitaria da Covid- 19 all’epoca in atto. È accaduto che con l’ ordinanza del 7 maggio 2020, il Magistrato di sorveglianza di Viterbo aveva disatteso la richiesta di video colloquio, ritenendo esclusa simile modalità in quanto non prevista dalla legge, in considerazione della possibile presenza di terzi occulti durante i video colloqui a distanza, mentre aveva autorizzato il colloquio telefonico aggiuntivo del Cimato con i familiari, annullando in parte la disposizione della circolare Dap del 27/ 3/ 2020 che vietava il colloquio telefonico aggiuntivo ai minori. Nell’impugnata ordinanza, il reclamo è stato ritenuto fondato nella parte in cui invoca la possibilità di sostenere un video colloquio a distanza: è stata quindi ammessa la modalità di colloquio, attraverso la piattaforma Skype for business, ogni qualvolta questo risulti l’unico strumento di esercizio del diritto al colloquio tra il detenuto e i familiari, quando vigono circostanze che rendono impossibile o gravemente difficoltoso il colloquio in presenza. Ed ecco che il ministero della Giustizia non ci sta a tale decisione. Ha quindi proposto ricorso in Cassazione, deducendo violazione di legge in relazione agli articoli 35- bis, 41 bis e 69 dell’ordinamento penitenziario, per avere riconosciuto il diritto ai colloqui in video- collegamento a favore dei sottoposti al 41 bis, “indebitamente estendendo a tale categoria di detenuti la disciplina dettata per i ristretti in media e alta sicurezza, nonostante l’esclusione operata dall’Amministrazione penitenziaria, alla cui esclusiva discrezionalità è rimessa la relativa valutazione”. In sostanza, il ministero della Giustizia sostiene che l’esclusione dei detenuti sottoposti al 41 bis dai colloqui in video- collegamento è in linea con la previsione dell’art. 221, comma 10, Citato Decreto legge, in quanto detta disposizione indica il ricorso al video- colloquio come una mera possibilità, evidentemente rimessa all’apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione, che deve continuare a considerare anche lo specifico profilo di pericolosità del singolo detenuto in relazione ai rischi - anche di eventuale intrusione informatica da parte di terzi - ai quali potrebbe dare luogo il colloquio a distanza. Ma con la sentenza numero 8181, la Cassazione respinge il ricorso del ministero. Parte dal presupposto che quello ai colloqui sia un diritto imprescindibile e, come tale, riconosciuto anche ai detenuti sottoposti al 41 bis: i giudici sottolineano che in questi casi è tuttavia necessaria l’applicazione di alcune restrizioni, definite dallo stesso art. 41- bis, relative al numero ed alle modalità di svolgimento dei colloqui medesimi. Infatti, com’è noto, il detenuto ha diritto ad un colloquio al mese con i familiari e conviventi, da svolgersi in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, con obbligo di controllo auditivo e di registrazione, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente. Le limitazioni sono giuste, ma la Cassazione sottolinea che hanno ragion d’essere “nella misura in cui siano effettivamente connesse a esigenze di ordine e sicurezza e che non siano, gestibili altrimenti, poiché, se così non fosse, avrebbero natura meramente ed ingiustamente afflittiva”. Viene inoltre ricordato che la giurisprudenza della Cassazione stessa ha consolidato questo: “Nella circostanza in cui sia impossibile o, comunque, estremamente difficile eseguire i colloqui in presenza, coloro che sono sottoposti al regime penitenziario di cui all’art. 41- bis possono essere autorizzati dall’Amministrazione penitenziaria ad effettuare detti colloqui in modalità da remoto, mediante mezzi di comunicazione audiovisivi”. Infatti, com’è noto, il mezzo di comunicazione Skype for business, tecnicamente validato dal Servizio telematico penitenziario, dalla Direzione Generale del personale e delle risorse del Dap e dalla Dgsia, è perfettamente idoneo a garantire la regolarità e la sicurezza del colloquio. Non solo. La Cassazione censura il ricorso del ministero, anche nella parte dove spiega che con l’esaurirsi della situazione emergenziale sanitaria, non avrebbe più senso l’utilizzo della videochiamata. Prende in prestito l’osservazione del procuratore generale, ovvero che “la situazione pandemica è ancora in atto e vi sono perduranti ragioni prudenziali legate all’acuirsi dei contagi che sconsigliano di eliminare la possibilità dei colloqui da remoto”. In carcere il lavoro può cambiare la vita di Laura Di Martino* collettiva.it, 11 marzo 2022 È uno dei presupposti per trasformare i percorsi devianti, e per dare piena attuazione ai principi costituzionali e dell’ordinamento penitenziario sulla funzione rieducativa della pena. La dignità umana va preservata dentro e fuori dalle carceri sempre, per cui rieducare le persone recluse significa aiutarle a tirar fuori la consapevolezza della possibilità di vivere diversamente, senza considerare il reato come unica possibilità di sopravvivenza a una situazione di disagio economico. Significa metterle nelle condizioni di riscattarsi attraverso il lavoro. Diffondere la cultura del lavoro all’interno delle carceri è uno dei presupposti per facilitare il cambiamento di percorsi di vita devianti, e per dare piena attuazione ai principi costituzionali e dell’ordinamento penitenziario sulla funzione rieducativa della pena. Il lavoro delle persone recluse rappresenta uno strumento educativo nel momento in cui è riconosciuto, è tutelato ed è retribuito nella detenzione stessa. L’organizzazione lavorativa in carcere deve rispecchiare quella della società libera, al fine di far acquisire una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative e dunque agevolare il reinserimento sociale. Per attuare l’anello di congiunzione tra il carcere e la società è necessaria un’attività costante che rompa la logica dell’assistenzialismo e metta al centro la persona e il raggiungimento dell’obiettivo dell’inclusione sociale nel rispetto delle pari opportunità. Bisogna partire dunque da percorsi di orientamento al lavoro, bilancio di competenze e percorsi di studio personalizzati, che diano sbocchi occupazionali concreti fuori dalle carceri. Occorre creare, altresì, figure professionali che il mercato del lavoro esterno richiede, favorendo l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Oggi, difficilmente si riesce a costruire un percorso di reinserimento che consenta alla persona reclusa di svolgere anche all’esterno l’attività che svolgeva in carcere, per cui è fondamentale che le istituzioni e le parti sociali lavorino in sinergia per attuare e favorire quel percorso flessibile e personalizzato di reinserimento attivo nella collettività che elimini il senso di emarginazione dalla società, dovuto soprattutto al problema dell’etichettamento, e che aumenti la fiducia nelle proprie capacità e riduca drasticamente i rischi di recidiva. Nella mia esperienza di educatrice professionale presso la comunità del centro di giustizia minorile di Palermo, ho rilevato che la ricaduta nel reato è più alta nei vissuti di estrema marginalità e povertà e nei nuclei familiari altamente conflittuali, dove si consumano abitualmente atti di violenza e maltrattamenti. La recidiva aumenta se in famiglia ci sono componenti con precedenti penali e, quindi, oltre al progetto personalizzato dei giovani che include la scuola, sane opportunità di tempo libero, orientamento al lavoro, sono altrettanto importanti interventi di supporto e di affiancamento alle famiglie per rispondere al disagio che sfocia nel compimento di atti illegali. Occorre creare le condizioni per poter individuare e sviluppare con la persona un progetto di vita lontano dai circuiti criminali e agevolare le assunzioni stabili che permettano l’inclusione socio-economica, l’integrazione e l’inserimento nella comunità sociale. Serve un grande lavoro culturale che dimostri come i percorsi lavorativi che garantiscono dignità, diritti e autonomia sono un valore non solo per la persona che è stata reclusa, ma per tutta la collettività, perché il carcere è, e deve essere, parte della società civile, e non un’entità estranea. Questo lo scopo del Consiglio di aiuto sociale da poco riattivato presso il Tribunale di Palermo, che si occupa dell’assistenza penitenziaria e post penitenziaria perseguendo l’obiettivo di rispondere ai bisogni reali delle persone per agevolare il reinserimento nella vita sociale. Come Cgil porteremo il nostro contributo e impegno concreto, nel Comitato per l’occupazione degli assistiti, per la diffusione della cultura della legalità e del riconoscimento dei diritti, in un lavoro di rete volto a individuare gli interventi sul piano sociale necessari e alternativi al welfare mafioso. *Cgil di Palermo Riforma del Csm, braccio di ferro nella maggioranza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 11 marzo 2022 In ritardo rispetto alla tabella di marcia di Cartabia, che vuole il testo pronto per le prossime elezioni del Consiglio superiore a luglio, la legge si prepara a subire gli assalti contrapposti delle forze di governo. Oggi il termine per gli emendamenti, in arrivo un catalogo in grado di smontare la mediazione trovata dalla ministra. Come nel caso delle proposte di Azione +Europa. C’è un intero articolo (il 38) nel maxi emendamento presentato dalla ministra Cartabia alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, tutto dedicato ad abbreviare i termini per la definizione dei collegi elettorali e la presentazione delle candidature dei magistrati in occasione della prima applicazione della nuova legge. È lo strumento con il quale il governo spera ancora di riuscire a far tenere le prossime elezioni per il Csm con le nuove regole, pensate - si vedrà con quanta efficacia - per disarmare il “correntismo” delle toghe. Ma il tempo stringe, le elezioni sono fissate a luglio e la ministra ha detto esattamente un mese fa, quando sembrava che l’esame della riforma potesse finalmente partire, che il governo non vuole lo slittamento del voto a settembre. Eppure nulla si è mosso in commissione giustizia alla camera dove il provvedimento è in prima lettura, ieri è slittato il termine per i sub emendamenti dei partiti al maxi del governo (a oggi) ma è già evidente che la maggioranza si troverà su posizioni assai distanti. Sarà difficile marciare spediti e chiudere tra camera e - soprattutto - senato entro due mesi, termine ultimo per consentire di votare per il Csm a luglio. Tanto più che Draghi ha promesso che su questa legge non metterà la fiducia e che i cinque referendum sulla giustizia sopravvissuti alla Corte costituzionale vedranno le forze politiche che lo sostengono l’una contro l’altra. Proprio dei referendum si occupano, tra le altre cose, gli emendamenti già depositati ieri di Azione +Europa, una settantina di proposte di modifica utili a dare un’idea delle difficoltà davanti alle quali si troverà il governo. I deputati Costa e Magi, infatti, propongono non solo di introdurre nella riforma quella separazione della carriere di fatto (impedendo del tutto il passaggio da una all’altra funzione di giudice e pm, quando il testo Cartabia mantiene la possibilità di due passaggi) ma anche il recupero del quesito bocciato dalla Consulta, quello che avrebbe aperto il nostro ordinamento alla responsabilità civile diretta dei magistrati. Su questi argomenti, in attesa degli emendamenti degli altri partiti - e se ne annunciano di simili dal centrodestra, in particolare da Forza Italia - è prevedibile che torni a coagularsi quella maggioranza alternativa, fatta dal centrodestra e dai centristi, Italia viva compresa, che sulla giustizia si è già vista in passato. Gli emendamenti firmati da Costa sono l’indice degli ostacoli che dovrà superare Cartabia nell’esame in commissione (che comincerà la prossima settimana) e poi in aula. Chiedono, per esempio, una stretta ulteriore al collocamento fuori ruolo dei magistrati, il monitoraggio delle dichiarazioni pubbliche dei capi delle procure, la sottrazione al Csm dell’autonomia sulle nomine e un “fascicolo delle performance” per penalizzare giudici e pm quando le loro decisioni non reggono alla prova dei giudizi successivi. Difficile che il governo riesca a scansare questi ostacoli tenendo fede alla promessa di non mettere la fiducia, impossibile che possa farlo nei tempi rapidi in cui spera Così l’informazione vuol calare il sipario sui referendum di Giuseppe Rossodivita Il Riformista, 11 marzo 2022 La partita del quorum si fa sempre più dura. La Consulta ha cancellato i quesiti più popolari. I media hanno prima occultato i problemi della giustizia, poi le iniziative referendarie. C’è la guerra e siamo sconvolti, ma il voto popolare è un’occasione imperdibile. Bisogna resistere e reagire. È inutile negarlo, la partita referendaria si va facendo sempre più difficile, per via della difficoltà a raggiungere il quorum necessario a validare la consultazione. La Corte Costituzionale cancellando i tre quesiti più popolari ha fatto il suo lavoro, quello iniziato nel 1978 con la creazione, per via interpretativa ca va sans dire, di una inestricabile selva giurisprudenziale che nulla ha a che fare con l’art. 75 della Costituzione; il mainstream dell’informazione italica pure, prima nascondendo quanto più possibile al corpo elettorale i problemi e gli scandali della giustizia, poi occultando per benino i temi e le iniziative referendarie. L’emergenza Covid prima, l’elezione del Capo dello Stato poi, la solita questione della tenuta del Governo come valido intermezzo e ora la Guerra. E con la Guerra, con lo shock emotivo che una inattesa e terribile guerra in Europa ha prodotto in ciascuno di noi, si vorrebbe calare il sipario sui referendum. E invece no, occorre resistere e reagire; lo dobbiamo alla speranza di futuro, un futuro che va costruito per rendere il mondo migliore di com’è e, se futuro ci sarà, per rendere l’Italia un paese più giusto di quel che è. È possibile che tra un paio di anni l’Italia e l’Europa non siano più cosi come le conosciamo, ma se così non fosse, sarebbe davvero imperdonabile aver perso l’occasione referendaria per cambiare verso alla giustizia in questo paese. L’informazione ‘di guerra’ è parte della guerra stessa, lo stiamo imparando a comprendere in questi giorni: fake news, censure, narrazioni che non hanno nulla a che fare con la realtà, espressioni coniate ad hoc come ‘operazioni speciali’ per celare la verità delle parole ‘guerra’ o ‘invasione’. L’informazione di guerra è parte della guerra, anche in tempo di pace, ed è opera dei regimi. Per oltre 20 anni, da militante del Partito Radicale, ma soprattutto da avvocato di Marco Pannella, su indicazioni di quest’ultimo, ho presentato decine di denunce contro la Rai, contro i suoi vertici decisionali mutevoli come i Governi e i Partiti di maggioranza che da sempre la occupano, pretendendo poi, senza incontrare eccessive resistenze, un servizio privato di propaganda dei Partiti e dei leader che, con le loro nomine, determinano le alterne fortune professionali dei precitati vertici, oltre che dei Direttori di reti e testate, dei capi redattori, dei giornalisti semplici, fino ad arrivare anche ai conduttori e via discorrendo. Marco Pannella era convinto, non senza ragioni, che nella complessiva condotta della Rai - di promozione di alcune forze politiche e di censura di altre forze, ma anche dei temi politici che le forze minoritarie cercavano di far entrare nell’agenda politica del Paese, al fine di ottenere delle riforme - vi fossero gli estremi del reato di attentato contro i diritti politici del cittadino. È l’art. 294 c.p. “Chiunque con 4.4 inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno ad esercitarlo in modo difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da l a 5 anni”. Pannella era un liberale e il conoscere per deliberare di einaudiana memoria era uno dei suoi mantra, così come era molto ben consapevole degli obblighi informativi che la legge pone in capo alla RAI: obiettività, completezza, imparzialità nell’affrontare temi politici e sociali, con la vocazione speciale, propria del servizio pubblico, di dar voce a chi non ce l’ha. Tutto consacrato in leggi, regolamenti, contratti di servizio. Se la Rai non rispetta questi obblighi finisce per ingannare il cittadino, diceva Pannella, che sul rispetto di quegli obblighi invece confida. Una specie di gigantesca truffa contrattuale nella quale il mediatore nasconde ad uno dei contraenti - il corpo elettorale - delle informazioni che potrebbero fargli cambiare idea sull’affare da concludere con l’altra parte - i partiti politici - nel momento elettorale. Quando esposi questa tesi ad un Procuratore di Roma, parliamo di oltre venti anni fa, mi rispose con una domanda che presupponeva un raffinato ragionamento giuridico: “quant’è la pena prevista?” “Da uno a cinque anni” risposi. Con una risatina il Procuratore si allontanò. Stessa sorte per qualsiasi denuncia, per abuso d’ufficio o per peculato: quanto costerebbe sul mercato una campagna propagandistica a pagamento in luogo di quella gratuita che nel corso del tempo la RAI ha garantito a questo o quel partito? Niente da fare, la Procura di Roma, quella che pesa come due Ministeri - la competenza territoriale è vincolata - non ha mai voluto neppure indagare; quando i Pm di turno chiedevano l’archiviazione e andavo a consultare i fascicoli immancabilmente vi trovavo, in splendida solitudine, solo l’atto di denuncia con la richiesta di archiviazione, quasi sempre per mancanza del famigerato ‘dolo intenzionale’ richiesto dall’art. 323 c.p.. Solo una volta, in venti anni, furono fatte indagini e vi fu la richiesta di rinvio a giudizio per un intero Consiglio di Amministrazione della RAI oltre che per il suo Presidente dell’epoca, per abuso d’ufficio: c’era una campagna elettorale, la Lista Pannella era stata totalmente cancellata dai palinsesti. Un fatto enorme: la concessionaria del servizio pubblico a giudizio per aver cancellato, in un paese democratico, la presenza elettorale di un Partito politico. Un Partito piccolo, si dirà, ma quel Partito qualche anno dopo si pagò la campagna elettorale in tv all’epoca era possibile - comprò lo spazio per informare i cittadini della sua esistenza e divenne, per una stagione, il quarto Partito italiano: era il 1999. Della vicenda ne troverete traccia solo su Radio Radicale, Radio Londra in tempo di pace. L’informazione italiano cancellò la notizia, non ne parlò nessun giornale, nessun telegiornale, zero assoluto, benché i processi mediatici ai politici già imperversassero da tempo e i social all’epoca erano di là dal venire. Il Pm non la prese bene, ne rimase deluso, capi di essere isolato. Il Gup pronunciò il non luogo a procedere, perché il fatto non costituiva reato. Mancava il dolo intenzionale. e ad avviso di quel Gup non era neppure necessario andare a dibattimento per verificarlo. Strano no? Il filtro del Gup quella volta, una tra mille, funzionò a dovere. L’Aggiunto che aveva seguito l’indagine si appassionò comunque alla materia, aveva capito che con una informazione diversa questo paese avrebbe potuto essere realmente diverso, voleva andare avanti su altri filoni. Poi un giorno l’incontrai per i corridoi del Tribunale, mi fermò, mi disse sconsolato che il Procuratore Capo gli aveva tolto i fascicoli sulla Rai, la Procura di Roma non poteva, all’epoca, mettersi contro la Rai. E andò in pensione. Pannella non mollava e presentò altre decine e decine di denunce, in Procura come davanti all’Autorità per le Garanzie nella comunicazione. Sono state compendiate in un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo che nell’agosto del 2021 ha condannato lo Stato Italiano per la marginalizzazione operata dalla Rai a danno della Lista Pannella. Una decisione giunta con decenni di ritardo. Questa è l’informazione che ora vorrebbe calare il sipario sui referendum sulla giustizia, quella che vuole mantenere lo status quo, quella che va a braccetto delle Procure e con la quale le Procure hanno assunto il contando del Paese a colpi di avvisi di garanzia e processi mediatici. E l’informazione che nasconde e normalizza scandali come quelli raccontati dagli stessi protagonisti, che evita di far riflettere su quanto marcio sia un sistema in cui alcuni giudici, pervasi dal senso di onnipotenza che gli è stato consentito, si fanno legge al posto della legge, è l’informazione che nasconde e censura soggetti politici e iniziative referendarie, è l’informazione di guerra in tempo di pace, è l’informazione del regime. C’è la guerra, è vero, tutti ne siamo sconvolti e abbiamo paura, ma proprio per questo dobbiamo cercare di costruire un mondo migliore ed un’Italia in cui si possa pretendere Pace, Libertà e Giustizia. I referendum ci sono, possono cambiare il verso di una giustizia malata ed ingiusta: ora si alzi il sipario! “Porte girevoli”, il nodo non eletti con ruoli politici di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2022 Il termine per la presentazione in Commissione Giustizia dei subemendamenti sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario è stato posticipato a questa mattina alle 10. Ma la discussione tra i partiti è proseguita anche ieri. C’è un punto di convergenza tra M5S e Forza Italia: le porte girevoli tra politica e magistratura devono essere bloccate per tutti i magistrati, non solo quelli eletti, ma anche i non eletti che hanno assunto ruoli politici. Invece, il testo della Cartabia, dicono esponenti della maggioranza, è “ambiguo” rispetto alle toghe impegnate in un ruolo di governo. Non è chiaro se a fine mandato debbano andare fuori ruolo ma solo per 3 anni. E il pensiero va a Roberto Garofoli, sottosegretario a Palazzo Chigi e alla ministra dell’Interno Lamorgese. Il M5S vuole che non si tocchi il testo Bonafede: toga appesa al chiodo per tutti. E chiede di eliminare le pagelle ai magistrati con le diciture “discreto, buono, ottimo”. Enrico Costa (Azione) invece, è per “voti da 4 a 10”. FI e il centrodestra puntano alla separazione delle carriere. In carcere per 500 giorni da innocente. Ma ora lo Stato gli nega il risarcimento di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2022 Giancarlo Benedetti era finito in cella per alcune intercettazioni “depurate” dagli elementi che avrebbero potuto scagionarlo. Ma per i giudici la colpa è comunque sua. Ha trascorso circa 500 giorni in carcere da innocente, tutti in Alta Sicurezza; ha perso il lavoro di responsabile di una concessionaria di auto perché il proprietario, per il danno all’immagine causato dall’arresto di un suo dipendente, non gli ha rinnovato l’incarico; in carcere è stato colpito da depressione di forma bipolare, caratterizzata da dimagrimento, cefalee, insonnia (per questo l’ex deputata radicale Rita Bernardini presentò interrogazione parlamentare); è stato lasciato dalla sua compagna per colpa di tutta la situazione, la sua reputazione personale e professionale è stata lesa anche a causa di una feroce campagna mediatica. Nonostante questo, a Giancarlo Benedetti è stata rigettata dalla Corte di Appello di Roma l’istanza per riparare l’ingiusta detenzione. Facciamo un passo indietro per ricostruire la vicenda. Tutto parte da una indagine della Procura di Roma, Dda, su un gruppo di persone, ritenute vicine al clan dei Casalesi, accusate di una tentata operazione di riciclaggio per acquisire, mediante condotte estorsive, alcune quote societarie del presidente della Lazio Claudio Lotito. Secondo gli inquirenti Benedetti, in concorso con altri, avrebbe tentato prima di ostacolare l’identificazione di denaro riferibile ai casalesi e poi di usare tale denaro per scalare la squadra di calcio biancoceleste. Nell’interrogatorio di garanzia Benedetti non si è avvalso della facoltà di non rispondere e ha chiarito la sua posizione. Tale specificazione è doverosa, perché diverse istanze di ingiusta detenzione vengono rigettate perché l’indagato, tra l’altro, non ha voluto rispondere al gip. Il Riesame annulla la custodia cautelare poiché - hanno scritto i suoi legali Renato Borzone e Alessandro Artuso - “la contestazione mossa nei confronti del ricorrente era affetta da nullità per violazione del diritto di difesa”, in quanto “le attività criminali da cui sarebbe derivato il provento illecito non vennero in alcun modo specificate, così impedendo agli indagati di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa”. Tuttavia la Procura fa appello e un nuovo Riesame rimanda Benedetti in carcere. All’esito di un giudizio abbreviato l’uomo viene assolto per contraddittorietà delle prove a carico, sentenza poi passata in giudicato. Assolti come lui altri quattro imputati. Nel ricorso presentato dai legali si spiega che sono state le intercettazioni telefoniche a portare l’uomo in carcere per quasi un anno e mezzo. Tuttavia, “la fase cautelare - scrivono i difensori - fu caratterizzata dalla carenza in atti persino dei brogliacci informali della polizia giudiziaria. Tutti gli atti investigativi vennero strutturati sulla base di mere sintesi delle conversazioni che all’esito della vicenda si sono rivelate del tutto inattendibili. La polizia giudiziaria si è spericolatamente dedicata alla personale interpretazione di singoli spezzoni di telefonate”. Solo grazie alla difesa, il Gup dispose la perizia trascrittiva delle conversazioni captate che alla fine dimostrarono l’innocenza di Benedetti. Il giudicante è severo sul punto perché parla in sentenza di “non condivisibile chiave di lettura delle conversazioni telefoniche intercettate seguita dalla Pg nelle proprie informative, e fatta propria dal pm. Attraverso l’ascolto diretto delle telefonate emerge come siano stati trascurati alcuni fondamentali aspetti considerati forse come poco significativi nella logica di una successiva elaborazione volta a suffragare una certa linea interpretativa”. In pratica, sta dicendo il gup, sarebbero state omesse perché a favore dell’indagato. E non sarebbe la prima volta, come abbiamo visto anche nel caso Cerciello Rega. Tuttavia, secondo la Corte di Appello che ha rigettato l’istanza per ingiusta detenzione, alcuni comportamenti del Benedetti, desunti da quelle stesse intercettazioni, poi rivelatesi fallaci, hanno influenzato il giudice cautelare. “È allucinante - ci dice Benedetti - che si possa essere arrestato e detenuto per 17 mesi in carcere in attesa di giudizio per una farneticante ipotesi accusatoria basata su indizi basati su stralci di intercettazioni telefoniche. Poi, dopo dieci anni, arriva l’assoluzione, ma vengo nuovamente incolpato per aver indotto i pm nella loro farneticante ipotesi accusatoria. Eppure la mia vita è stata completamente stravolta immotivatamente”. Gli avvocati Artuso e Borzone concludono: “Suscita grave amarezza il fatto che i provvedimenti in materia di ingiusta detenzione siano guidati da una giurisprudenza che si aggrappa ad ogni pretesto per negare, a chi è stato detenuto illegittimamente ed investigato con modalità inquietanti, il pur giusto ristoro economico, anche se mai minimamente proporzionato ai danni e alle sofferenze prodotte dall’ingiusta detenzione e da vicende giudiziarie prive di fondamento probatorio”. Come ha ricordato il deputato di Azione Enrico Costa, “il 77 per cento di chi - arrestato ingiustamente - chiede l’indennizzo e non lo ottiene, secondo le Corti d’Appello, avrebbe “concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato”. Questa è una distorsione giurisprudenziale a cui porre rimedio”. Arrivano i taser. Pistole elettriche in diciotto città di Giuliano Santoro Il Manifesto, 11 marzo 2022 L’annuncio di Lamorgese. Salvini, che da ministro del governo gialloverde aveva cominciato la sperimentazione, esulta insieme ai sindacati di polizia. Da lunedì prossimo, la pistola elettrica taser entrerà ufficialmente a far parte dell’equipaggiamento in dotazione alle forze di polizia italiane. La ministra dell’interno Luciana Lamorgese ha annunciato che 4482 dispostivi a impulso elettrico finiranno nelle fondine di polizia, carabinieri e guardia di finanza nel territorio delle quattordici città metropolitane e nei capoluoghi Caserta, Brindisi, Reggio Emilia e Padova. A quel punti, nel giro di due mesi, l’uso del taser sarà esteso gradualmente ai reparti di tutt’Italia. “È un passo importante per ridurre i rischi per l’incolumità del personale” dice Lamorgese. L’idea è che il taser aiuti gli uomini in divisa a gestire “situazioni critiche” evitando l’uso delle pistole tradizionali. Come dire: meglio folgorare che colpire con un proiettile. Ieri Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, e Giuliano Giuliani, padre di Carlo Giuliani, hanno giustamente sottolineato che più che nuove armi servirebbero formazione psico-fisica e consapevolezza democratica perché le forze dell’ordine sappiano leggere le situazioni che si trovano di fronte. L’iter per l’introduzione della pistola elettrica, feticcio dei cultori della tolleranza zero di scuola statunitense, era stato avviato da Matteo Salvini, all’epoca dei decreti sicurezza del governo gialloverde. Auspicava che il taser potesse essere impiegato anche “sui treni e nelle carceri”. Oggi il leader leghista esulta, insieme ad alcuni sindacati di polizia. “Non risulta essere stato condotto (o, quanto meno, non è stato reso pubblico) uno studio rigoroso e indipendente sugli effetti sulla salute per stabilire le conseguenze dell’utilizzo della pistola Taser sulle persone, specie su soggetti potenzialmente a rischio - aveva protestato mesi fa la sezione italiana di Amnesty International - Di fronte a un uso standardizzato delle pistole Taser da parte delle forze di polizia, compresa la polizia locale, chiediamo che vengano adottate tutte le precauzioni e messi a disposizione i necessari studi medici onde scongiurare al massimo gli effetti letali di un’arma ‘non letale’”. Nel luglio scorso l’azienda Axon si è aggiudicata la gara nazionale per la fornitura delle prima quattromila pistole per 10,3 milioni di euro. Quella che l’Onu ha classificato come “strumento di tortura”, secondo le linee guida del Dipartimento della pubblica sicurezza è “un’arma propria”. L’indicazione è di sparare da una distanza che va dai 3 ai 7 metri, ma prima il taser “va mostrato senza esser impugnato per far desistere il soggetto dalla condotta in atto”. Se il tentativo fallisce si spara il colpo, “considerando per quanto possibile il contesto dell’intervento ed i rischi associati con la caduta della persona dopo che la stessa è stata attinta”. Bisogna inoltre tener conto della “visibile condizione di vulnerabilità” del soggetto (meglio non colpire una donna incinta, dice almeno il protocollo) e fare attenzione all’ambiente circostante per evitare esplosioni, scosse elettriche. Immigrazione clandestina, troppi 5 anni di carcere (minimo) per chi ha favorito l’ingresso Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2022 Lo ha deciso la Corte costituzionale nella sentenza n. 63, depositata oggi dichiarando fondata una questione sollevata dal Tribunale di Bologna. Il caso era quello di una donna nigeriana accusata di aver fatto entrare in Italia illegalmente la figlia e la nipote di tredici e otto anni. È manifestamente sproporzionata la pena da cinque a quindici anni di reclusione, prevista dal Testo unico sull’immigrazione per chi abbia aiutato qualcuno a entrare illegalmente nel territorio italiano utilizzando un aereo di linea e documenti falsi. Le elevatissime pene stabilite per le ipotesi aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione si possono ragionevolmente spiegare solo in chiave di contrasto al traffico internazionale di migranti, gestito da organizzazioni criminali che ricavano da questa attività ingenti profitti, ma sono evidentemente sproporzionate rispetto a situazioni diverse, nelle quali non risulta alcun coinvolgimento in tali organizzazioni. Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 63, depositata oggi (redattore Francesco Viganò), dichiarando fondata una questione sollevata dal Tribunale di Bologna. Il Tribunale doveva giudicare una donna nigeriana accusata di aver fatto entrare in Italia su un aereo di linea la figlia e la nipote, rispettivamente di tredici e otto anni, utilizzando documenti che ne attestavano falsamente la nazionalità senegalese. La Consulta ha rilevato che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione - punito nella forma base con la reclusione da uno a cinque anni - è funzionale al controllo dei flussi migratori e, quindi, alla tutela di interessi pubblici di grande rilievo, come gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse limitate del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica. Le ipotesi aggravate, per le quali sono previste pene assai più severe, sono invece a tutela - oltre che del controllo dei flussi migratori - degli interessi del migrante, che in queste ipotesi è la “vittima” del reato. Si pensi ai casi in cui lo straniero trasportato rischia la propria vita o incolumità, ad esempio in imbarcazioni di fortuna, o è sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, come quando viene nascosto in celle frigorifere destinate al trasporto di merci. Un caso come quello giudicato dal Tribunale di Bologna è, però, molto lontano da questi reati e non può ragionevolmente giustificare una pena stabilita, nel minimo, in cinque anni di reclusione. Da un lato, chi utilizza un mezzo di trasporto internazionale, come un aereo di linea, deve necessariamente sottoporsi a tutti gli ordinari controlli di frontiera, che rendono più facile identificare gli stranieri privi di autorizzazione all’ingresso nel territorio italiano. Dall’altro, è vero che usare un documento falso significa aver commesso un reato per procurarselo, ma i reati di falsità documentale sono ordinariamente puniti, nell’ordinamento italiano, con pene di gran lunga inferiori a quella prevista per il favoreggiamento aggravato. Pertanto, in assenza di altre circostanze aggravanti, fatti come quello giudicato dal Tribunale dovranno invece essere puniti - ha concluso la Corte - con la più contenuta pena della reclusione da uno a cinque anni prevista dal primo comma dell’articolo 12 del Testo unico, in concorso con quella prevista per il reato di utilizzazione di documenti falsi. Sondrio. Detenuto di 33 anni si suicida, era stato arrestato due giorni fa per una rapina di Michele Pusterla Il Giorno, 11 marzo 2022 Tragedia nel carcere sondriese di via Caimi. Un detenuto poco più che trentenne, David Selvaggio, arrestato pochi giorni fa dai carabinieri del Comando provinciale di Sondrio, in quanto dalle indagini è emerso che sarebbe stato lui l’autore di due delle rapine a mano armata messe a segno negli ultimi tempi in Bassa Valle ai danni di alcune donne e di un uomo, con una complice 34enne, Claudia Borzi, si è tolto la vita all’interno della sua cella. L’allarme è scattato poco prima delle 14 e la notizia si è però diffusa nella serata di ieri, quando alcune fonti hanno confermato l’episodio dando così spiegazione al grande movimento che si era notato nella zona centrale della città, vicina al Tribunale. A un certo punto, infatti, alcuni testimoni hanno visto sopraggiungere nella Casa di pena del capoluogo valtellinese, dopo l’ambulanza e l’automedica, personale in borghese della Squadra Mobile della questura di Sondrio, in particolare detective della Sezione Reati contro la persona e, poco dopo, giungere colleghi della Polizia Scientifica. Ogni tentativo di rianimare il recluso, da parte del personale sanitario, è risultato purtroppo del tutto vano. La notizia è blindatissima e le indagini in corso stabiliranno le modalità del tragico gesto ed eventuali responsabilità per la sorveglianza, con il personale della Polizia Penitenziaria che anche qui, come in quasi tutte le carceri italiane, ha spesso carenze d’organico e fa miracoli, per coprire i diversi turni. E più volte, in passato, la tempestività degli interventi degli agenti penitenziari ha evitato analoghi episodi. Ieri, invece, per Selvaggio in isolamento, per la normativa anti-Covid, essendo appena entrato nel penitenziario, sospettato anche di altri “colpi” oltre che dei due per i quali è scattata l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, firmata dal gip Antonio De Rosa, in accoglimento della richiesta del sostituto procuratore Stefano Latorre, non è stato possibile evitare che il suicidio si consumasse. Dalle poche notizie che sono trapelate parrebbe si sia tolto la vita impiccandosi. Con delle lenzuola annodate alle sbarre? Con altra modalità? Alle domande darà una risposta l’inchiesta aperta dalla Procura, guidata dal neo procuratore Piero Basilone. Oggi, alle 9.30, Selvaggio, problemi di tossicodipendenza, assistito dal suo legale, Giovanni Arduini, avrebbe dovuto sostenere l’interrogatorio di garanzia, come del resto la sua compagna, quest’ultima lo farà in audiovideo dal carcere Bassone di Como e il suo avvocato, Emanuela Stagni, si è raccomandata che venga tenuta all’oscuro di quanto avvenuto in Valtellina. La situazione è molto delicata. La ragazza, incensurata, è già molto scossa. Torino. Inchiesta sul “Sestante”, i Nas in Comune nell’ufficio della Garante dei detenuti di Federica Cravero La Repubblica, 11 marzo 2022 Nell’inchiesta sui presunti maltrattamenti nel reparto psichiatrico Sestante del carcere di Torino entrano anche i documenti raccolti dall’ufficio del garante dei detenuti, guidati da Monica Gallo. I Nas infatti, su delega dei pm Chiara Canepa e Gianfranco Colace, che coordinano le indagini, stamattina si sono presentati in Comune per acquisire materiale relativo agli ultimi quattro anni e a un centinaio di casi che secondo gli investigatori meritano approfondimenti. In questo periodo sono state diverse le segnalazioni di familiari che denunciavano condizioni disumane di reclusi nel padiglione dell’osservazione psichiatrica del Lorusso e Cutugno. Erano state fatte anche diverse ispezioni, non solo del Garante torinese, ma anche di quello nazionale, oltre che di associazioni comune Antigone e anche di istituzioni come il Cpt, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene del Consiglio d’Europa. Tutta documentazione che ora sarà valutato dagli investigatori, che intendono capire quali fossero le condizioni riservate a carcerati così fragili e come siano perdurate nel tempo, nonostante i vari allarmi lanciati dagli osservatori esterni. Il Sestante adesso è chiuso. Dopo l’ennesima denuncia a novembre sono partiti i lavori di ristrutturazione. Modena. Due giorni di iniziative per non archiviare le morti in carcere dopo le rivolte del 2020 di Alessandro Canella radiocittafujiko.it, 11 marzo 2022 Sono passati ormai due anni dai tragici giorni del marzo 2020 quando 14 detenuti persero la vita in diverse carceri italiane in seguito alle rivolte scoppiate per le preoccupazioni legate al Covid 19. Tra i 14 morti ben 9 riguardarono l’istituto di pena Sant’Anna di Modena. Tutti i decessi sono stati velocemente archiviati come morti per overdose di metadone, ma nella ricostruzione di quei momenti sono diversi i punti che non tornano, come testimoniano anche alcune inchieste giornalistiche. A restare aperti, anche grazie al clamore dei fatti di Santa Maria Capua Vetere, sono i fascicoli per il reato di tortura. Per tenere accesa l’attenzione venerdì 11 e sabato 12 marzo, a Modena, il Comitato Verità e Giustizia organizza una serie di iniziative intitolate “Noi non archiviamo”. L’iniziativa nasce anche su impulso di una rete nazionale che si è formata in seguito alle morti nelle carceri e di cui fa parte anche l’Associazione Bianca Guidetti Serra. Tutto il ricavato delle iniziative verrà impiegato per riportare in Tunisia il corpo di Hafedh, morto durante la rivolta del carcere di Modena. “Lo abbiamo promesso a sua madre”, osserva ai nostri microfoni Alice del comitato. Ecco il programma della due giorni: Venerdì 11 marzo al Circolo Arci Vibra - Viale IV Novembre, 40/a, Modena: 18.00: assemblea pubblica e presentazione del secondo dossier sulla strage del Sant’Anna 20.30: proiezione di “Anatomia di una rivolta”, servizio per RaiNews24 di Maria Elena Scandaliato e Giulia Bondi 22.00: Banda POPolare dell’Emilia Rossa / Dandy Bestia / giorgiocanali in concerto Sabato 12 marzo: 16.00: piazzale San Giorgio - Performance di danza contemporanea a cura di Rylab, mostra itinerante a cura di Associazione Antigone Emilia Romagna 17.00: largo Sant’Eufemia - Reading poetico del collettivo Modena city rimers 18.00: piazzetta Pomposa - poesie con Alberto Masala - Microfono aperto e birra per i detenuti presso Jutacafè Modena Fermo. Dopo l’emergenza Covid il carcere si torna alla normalità Il Resto del Carlino, 11 marzo 2022 Ripartono le attività e le visite dall’esterno dopo due anni di pandemia in cui almeno si sono evitati contagi. Il carcere al tempo del Covid ha recluso le persone due volte, per scontare la pena e per evitare il contagio. Sono riprese dopo due anni di emergenza le attività trattamentali, per mesi non è stato possibile organizzare corsi di formazione, incontri in presenza, i detenuti non potevano abbracciare le persone care. Il risultato è stato che si sono evitati focolai, nessuno è stato contagiato, oggi si vede una nuova normalità. La direttrice del carcere di Fermo, Daniela Valentini, insieme con la comandante della polizia penitenziaria, Loredana Napoli, hanno annunciato la ripresa delle attività del giornale dei detenuti, ‘L’Altra chiave news’, e la riapertura all’esterno. Il progetto di integrazione e di supporto alle persone detenute, di cui fa parte anche il giornale, è gestito dell’Ambito sociale XIX con il sostegno della Regione Marche, il supporto della Caritas e dei servizi sociali del Comune. “Oggi abbiamo 59 detenuti - spiega Napoli -, siamo in sovraffollamento rispetto alla capienza di 45 persone, una persona è in semilibertà e tre ci andranno a breve Questo è dovuto al blocco di trasferimenti per lo stato di emergenza che dovrebbe finire il 31 marzo”. Gli agenti sono 46, sotto organico l’area trattamentale, due anni fa il pensionamento di Nicola Arbusti che non è mai stato sostituito e c’è un educatore da Ascoli una volta a settimana. Il garante dei detenuti, Giancarlo Giulianelli, si è confrontato spesso col sindaco Paolo Calcinaro, per provare a capire come si può immaginare una nuova struttura carceraria fuori dal centro abitato o una seconda struttura d’appoggio all’ex convento: “Sono idee su cui si può ragionare, spiega il sindaco, ci sono fondi e possibilità, bisogna farsi trovare pronti coi progetti. Intanto sosteniamo quello che si fa a Fermo per costruire una serie di possibilità per le persone detenute che sapranno riprendere in mano la loro vita, ho seguito il progetto ‘L’altra chiave’ quando ero assessore ai servizi sociali, oggi sono lieto di salutare questa ripresa”. Giulianelli segue con attenzione le attività e le difficoltà del carcere: “Sappiamo della carenza di personale nell’area trattamentale, degli spazi ridotti di una struttura che è stata un convento. Il mio impegno è quello di farmi da mediatore per trovare risorse, per supportare progetti come quello del giornale. A breve vorrei attivare anche a Fermo uno sportello informativo, gestito dal volontariato, per offrire un punto di riferimento a chi ha bisogno di supporto burocratico, pratico. Progettualità che danno un senso all’articolo 27 della Costituzione che chiede la rieducazione del reo”. La direttrice Valentini parla di un piccolo miracolo, quello di riaprirsi all’esterno dopo la paura del Covid: “Abbiamo tenuto tutti fuori per 2 anni, nessun contagio tra i detenuti, ma questo ha avuto un costo molto alto, si potevano avere colloqui solo su skype, qualche telefonata in più e incontri con la separazione di un vetro. Il giornale che pubblichiamo di nuovo è un primo momento di normalità”. Milano. Baby gang, “Sfogano l’aggressività copiando online modelli sbagliati” di Massimo Pisa La Repubblica, 11 marzo 2022 Il procuratore minorile Cascone: “Confondono spesso reale e virtuale, sono attratti da azioni violente che vedono come goliardate: invece sono reati gravi”. “I numeri dei procedimenti penali sono ai livelli pre-Covid. È cambiata la modalità delle aggressioni. La qualità. Rapine in gruppi anche di sei, otto persone. E con le armi”. Ciro Cascone, procuratore capo del Tribunale dei minori di Milano, non nasconde la preoccupazione. Procuratore, da cosa dipende quest’impennata di episodi? “Un po’ è l’effetto della pandemia, delle restrizioni su palestre, oratori, discoteche e soprattutto scuole. Molti ragazzi si sono chiusi in sé, altri reagiscono sfogando una rabbia incontrollata dentro al gruppo, in queste bande molto fluide che nascono e si scompongono nei quartieri. Ma c’è altro”. L’esibizione sui social? “Gli adolescenti vivono una fase di costruzione dell’identità e la pandemia ha amplificato l’uso delle tecnologie. Così si mostrano, nel modo sbagliato. C’è confusione tra realtà fisica e virtuale, molti ragazzi si fanno attrarre da azioni violente che interpretano come goliardate. E invece sono reati gravi, sono rapine, c’è l’uso dei coltelli. Come Procura abbiamo deciso di dare una risposta tempestiva. Anche alle vittime: c’è ancora un sommerso di chi non denuncia per sfiducia nella Giustizia”. Carabinieri e polizia si trovano spesso di fronte adolescenti sfrontati, che già usano sostanze e si vantano degli arresti... “L’abbassamento dell’età per il consumo di droghe e alcol c’è ed è un effetto emulazione di quello che fanno gli adulti. C’è poi un altro tipo di imitazione, e mi riferisco ai testi e ai video di certi cantanti rap. Mi è capitato uno di loro come imputato, e rivendicava la sua forma di espressione, paragonandola a Gomorra. Intendiamoci, l’arte ha un potenziale positivo, ma certi messaggi vengono facilmente fraintesi. Come si interviene? Non certo con la censura, ma dando contromessaggi positivi, fornendo opportunità a questi ragazzi che sono spesso abbandonati dalle famiglie e vivono in contesti difficili”. Chi sono? “Italiani e stranieri, ma tra loro non fanno distinzione, sono ragazzi e basta. Spesso non sono accompagnati, vivono da soli e si arrangiano. Le carenze educative che riscontriamo sono fortissime. Noi stiamo intervenendo sui reati e del fenomeno verremo a capo: è stato debellato quello delle pandillas, ben più pericoloso e strutturato. Ma questi ragazzi vanno recuperati e non possiamo offrire loro solo parole, non sanno che farsene”. Napoli. Va in scena “Il colloquio”: quei legami che il carcere non può recidere La Repubblica, 11 marzo 2022 Lo spettacolo prende ispirazione dal sistema di ammissione ai colloqui periodici con i detenuti nel carcere di Poggioreale. Tre donne, tra tanti altri in coda, attendono stancamente l’inizio degli incontri con i detenuti. Portano oggetti da recapitare all’interno, una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. Questo il senso dello spettacolo “Il colloquio” del Collettivo LunAzione, alla Città del Teatro di Cascina (Pi) sabato 26 marzo alle 21. La vita quotidiana della città non si è ancora risvegliata e, dalla sospensione onirica della situazione, dagli scontri e dagli avvicinamenti reciproci, emerge la visione brutale di una realtà ribaltata. La galera, un luogo alieno, in larga parte ignoto ed oscuro, si rivela un riferimento quasi naturale, oggetto intermittente di desiderio e, paradossalmente, sede di libertà surrogata. In qualche modo la reclusione viene condivisa all’esterno dai condannati e per le tre donne, che se ne fanno carico, coincide con la stessa esistenza: i ruoli maschili si sovrappongono alle vite di ciascuna, ripercuotendosi fisicamente sul corpo, sui comportamenti, sulle attività, sulla psiche. Nella loro realtà, la detenzione è una fatalità vicina - come la morte, - che deturpa l’animo di chi resta. Pare assodato che la pena sia inutile o ingiusta. Nel corso delle ricerche ci siamo innamorati di queste vite dimezzate, ancorate all’abisso, disposte lungo una linea di confine spaziale e sociale, costantemente protese verso l’altrove: un aldilà doloroso e ingombrante da un lato e, per contro, una vita altra, sognata, necessaria, negata. La mancanza, in entrambe le direzioni, ci è sembrata intollerabile. Il collettivo lunAzione è un collettivo di attori, registi, drammaturghi e tecnici della scena nato a Napoli nel 2013 con finalità di creazione, studio e promozione del teatro, inteso come forma di espressione ad alta funzione sociale. L’attenzione della compagnia è stata da subito orientata alla portata comunicativa ed empatica dell’atto teatrale: una delle nostre principali finalità coincide con la riflessione critica del pubblico, auspicando una rigenerazione dell’interesse e della coscienza degli spettatori - e in particolare dei giovani, - rispetto all’evento teatrale. Il nostro lavoro creativo interroga registri e linguaggi vari, individuati nei rispettivi legami con le categorie di classico e tradizione, per poi farli reagire alla contemporaneità mediante gli strumenti del comico, del paradosso, dell’assurdo. Info: 050744400 biglietteria@lacittadelteatro.it Bologna. “Finché galera non ci separi”, poesie di un detenuto lette da Pierpaolo Capovilla radiocittafujiko.it, 11 marzo 2022 Finché galera non ci separi è la toccante lettura, che avrà luogo domenica 13 marzo al Tpo, delle poesie tratte dall’omonima raccolta del detenuto Emidio Paolucci, interpretate dal cantautore e attore Pierpaolo Capovilla, accompagnate dalle musiche di originali di Paki Zennaro e le illustrazioni di Andrea Chiesi. Il reading Finchè galera non ci separi ha la potenza di far entrare lo spettatore in quella che è la vita del detenuto, di raccontare il carcere, definito da Capovilla, fondatore dei One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori, “una condizione esistenziale terribile ed insopportabile”. La genesi dello spettacolo è da ritrovarsi nel legame tra Capovilla e il detenuto nel carcere di Pescara Emidio Paolucci, un rapporto nato tramite la poesia e la sua capacità di instaurare un senso di umanità, di vicinanza. L’amicizia profonda tra Paolucci e Capovilla nasce per caso, quando il cantautore riceve a casa la prima raccolta poetica “Senza speranza e senza disperazione”. “Dopo aver letto un paio di poesie” racconta Capovilla “mi emozionai immediatamente. Pensai: questo è un poeta vero”. La poesia di Paolucci è fatta di parole semplici, ma violente, che arrivano dritte al cuore e trasmettono il tentativo di trovare una ragione per sopravvivere tramite quest’arte. In Finchè galera non ci separi sono presenti anche le illustrazioni del pittore Andrea Chiesi, inoltre la lettura sarà accompagnata dalle musiche di Paki Zennaro. La collaborazione tra quest’ultimo e Capovilla è pluriennale e antecedente a questo spettacolo: Zennaro si è occupato della composizione musicale della maggioranza dei pezzi presenti nell’unico album da solista del cantautore, Obtorto collo, tanto che, afferma Capovilla “ad un orecchio raffinato, questo spettacolo può sembrare una continuazione di quell’album”. Per prenotare, visitare il link: https://www.musicglue.com/tpo/events/4fabbb6e-a2ab-4eda-a5a0-190c3234bf24 Guerre e diritti. Gli occhi di Gino Strada preziosi per un mondo da sanare di Checchino Antonini Il Manifesto, 11 marzo 2022 “Una persona alla volta”, a cura di Simonetta Gola per Feltrinelli. Le riflessioni radicali su guerra e diritto alla salute del fondatore di Emergency scomparso lo scorso anno che spiegava come “la costruzione e la pratica dei diritti umani sono il migliore antidoto, la migliore prevenzione della guerra”. È appena uscito per Feltrinelli Una persona alla volta di Gino Strada (pp. 176, euro 16), a cura di Simonetta Gola, responsabile della Comunicazione di Emergency, sposata con Strada dal giugno dello scorso anno. È il racconto in prima persona di una scelta radicale ma “Non un’autobiografia, un genere di cosa che proprio non mi piace, ma le cose più importanti che ho capito guardando il mondo dopo tutti questi anni in giro”, avverte il fondatore di Emergency, morto a 73 anni il 13 agosto 2021. Tuttavia, pur non essendo un diario intimo, il volume restituisce comunque il suo “modo straordinario di guardare il mondo”, come scrive Gola nella toccante postfazione che alla fine si tramuta in una lettera aperta al compagno scomparso a cui spiega che “ora più che mai serve dare una casa al alcuni dei tuoi pensieri perché non vadano smarriti”. Non sono solo i fatti del giorno a rendere “Una persona alla volta” un libro urgente, necessario. Anche se leggerlo mentre la macchina della guerra globale si dispiega di nuovo, e nel cuore dell’Europa, è quanto mai utile innanzitutto per confutare quello che a certa stampa con l’elmetto piace chiamare il “dilemma dei pacifisti” - appoggiare o meno l’invio di armi letali all’Ucraina. Il libro, con la sua scrittura precisa, verrebbe da dire “chirurgica”, è una riflessione radicale sull’abolizione della guerra e sul diritto universale alla salute, una critica serrata alla miseria della geopolitica e alla ferocia del modello di produzione. E, mentre Buskashì (Feltrinelli, 2002) fu praticamente dettato via telefono dall’unico occidentale in corsa verso Kabul sotto le bombe, Una persona alla volta, è l’esito di un processo più lento al punto che nei dialoghi familiari, tra Simonetta e Gino, era soprannominato “l’incompiuto” o, addirittura “il maledetto”. Strada è il primo a laurearsi in una famiglia di operai, naturalmente antifascisti. “Sesto (S. Giovanni) era un buon posto dove diventare grandi”, confessa l’autore rivelando le comunità decisive per la sua formazione: da quella operaia e solidale sorta attorno alle grandi fabbriche fino al movimento studentesco, l’incontro con Raul Follereau e il “debito” verso Giulio Alfredo Maccacaro conosciuto grazie a Medicina e Potere, collana di Feltrinelli diretta proprio dal fondatore di Medicina democratica. Sarà la passione per la chirurgia a portare Strada in giro per il mondo, prima negli Usa poi nei teatri di guerra - Pakistan, Etiopia, Thailandia, Afghanistan, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia, Sierra Leone, Sudan - dove matura la consapevolezza di fondare Emergency che, dal 1994, ha curato più di undici milioni di persone. È dentro i pronto soccorsi, sfogliando i registri nei rari momenti di pausa, che Strada si rende conto che le vittime della guerra sono quasi tutte civili, quasi mai i “capitani coraggiosi in tuta mimetica o con il turbante che seminavano mine come fossero grano, per mutilare i bambini del nemico”. È la mutazione di quella che nelle Accademie si chiama “arte militare”: la guerra è soprattutto strage di civili, dal 60% della II guerra mondiale al 90% della guerra afgana. Per questo strada fa a pezzi ogni retorica bellicista, ogni narrazione nazionalista, ogni interventismo democratico - “La guerra è essa stessa terrorismo legittimato, ingiustizia assoluta, violazione irrimediabile di ogni diritto” - fino a denunciare che è permanente e pervasiva, la guerra, e che è sempre contro i poveri, legata intimamente alla riproduzione delle disuguaglianze. “Togliere risorse al pubblico somiglia più a un sabotaggio che a un incremento delle possibilità di cura”. Uno snodo che dirotterà Emergency portandola anche in Italia, ad esempio nel ghetto di Castelvolturno, per esempio nella Calabria nei giorni della pandemia. Eppure le risorse ci sarebbero per costruire l’esigibilità del diritto alla salute. Basterebbe fermare la privatizzazione e sottrarre risorse alle spese militari. Con gli occhi delle vittime Strada insegna che la guerra “si può solo abolire” e a chi ribatte che sarebbe solo utopia il fondatore di Emergency risponde che “Utopia è il nome di desideri, idee, progetti che possono diventare realtà”. Basta scegliere. “La costruzione e la pratica dei diritti umani sono il migliore antidoto, la migliore prevenzione della guerra”. Istat, il “ruolo-chiave” del non profit: già 88mila enti nel nuovo registro del Terzo settore di Giulio Sensi Corriere della Sera, 11 marzo 2022 I numeri raccontano “il ruolo-chiave del non profit”: lo ha detto il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, presentando la partenza del censimento 2022 sulle realtà del Terzo settore. L’indagine su 110mila enti e la reazione alla pandemia, 88mila sono già entrati nel nuovo registro unico della Riforma. Alla fine del 2019, pochi mesi prima dell’esplosione della pandemia, erano 362.634 le organizzazioni non profit attive in Italia ed impiegavano 861.919 dipendenti, ma l’85% di loro agiva esclusivamente con volontari. Stavano crescendo a un ritmo costante e creando nuova occupazione. La tempesta Covid ha trovato pronte ad agire le associazioni di volontariato e di promozione sociale, le imprese sociali e le altre organizzazioni sia sul fronte sanitario sia su quello sociale. Ma ne ha anche messo a dura prova la resistenza, nonché ostacolato le attività. Basti pensare che un’organizzazione su tre opera nell’ambito forse maggiormente messo in ginocchio dalla pandemia, quello dello sport. Fra pochi mesi, grazie alla nuova rilevazione del Censimento permanente Istat che parte oggi e sarà svolta su 110.000 realtà, si potrà sapere quale è stato il reale impatto dell’emergenza sul settore, ma anche misurare la loro tanto celebrata capacità di resistenza e resilienza. Sarà possibile, come ha spiegato il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo nel corso della conferenza online di lancio, “osservare il ruolo chiave del non profit nel sistema socio-sanitario nazionale e nei contesti territoriali di riferimento, grazie all’offerta di servizi essenziali e al modello economico che mette insieme sviluppo e coesione sociale”. “Una rilevazione - ha aggiunto Blangiardo - che vuole cogliere lo stato di salute alla luce dei mutamenti indotti dalla crisi sanitaria, sia in termini organizzativi sia di impatto sulle risorse umane e sulla situazione finanziaria”. Grazie alla rilevazione - che sarà fatta con la somministrazione di un questionario-, fra pochi mesi sarà possibile avere dati aggiornati sulla situazione economica del Terzo settore, la raccolta fondi, la digitalizzazione, il suo contributo agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030, la collaborazione con le istituzioni pubbliche, ma anche su molti altri aspetti fra cui, appunto, anche l’impatto reale della pandemia con un focus sulle situazioni di disagio nei territori. Ma la pandemia non è stato l’unico stravolgimento per il non profit: anche l’avanzamento della complessa riforma del Terzo settore sta mettendo alla prova il comparto con la necessità di adeguamento dal punto di vista organizzativo e burocratico. L’entrata in vigore del nuovo Registro unico nazionale (Runts) ha fatto trasmigrare 88.000 organizzazioni già iscritte ai registri locali e regionali e sono 3.400 le nuove nate che hanno chiesto di entrare. Numeri resi noti da Alessandro Lombardi, direttore generale del terzo settore e della responsabilità sociale delle imprese al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Un ambito su cui è impegnata la rete dei Centri di servizio per il volontariato, come ha ricordato la presidente di Csvnet, l’associazione nazionale dei Csv, Chiara Tommasini, “supportando le associazioni nella crescente fatica che stanno vivendo ad adeguarsi”. Tommasini ha sottolineato anche come “la rilevazione Istat possa portare un valore aggiunto importante alla lettura del volontariato come attore di sviluppo”, mentre la portavoce del Forum Nazionale del Terzo settore Vanessa Pallucchi ha ricordato come il Terzo settore si faccia trovare sempre pronto quando viene chiamato a dare un contributo sulle situazioni di bisogno o emergenza, “generando - ha detto - un valore di rafforzamento della funzione pubblica e integrandola sia nelle politiche sia nell’approccio partecipativo”. “Abbiamo l’ambizione - ha affermato dal canto suo il presidente dell’Alleanza Cooperative Maurizio Gardini - di essere architetti sociali, questa è la vera sfida anche per il Pnrr perché le risorse non sono mai abbastanza per tutti i bisogni del nostro Paese in particolare nel grande cantiere del welfare”. La nuova rilevazione può essere “una fotografia - ha sottolineato il direttore di Aiccon Paolo Venturi che ha moderato la tavola rotonda con attori ed esperti nazionali del terzo settore - della quantità di beni e risorse che spesso non vengono quantificati, ma che sono fondamentali per le sfide del presente e del futuro”. Di sfide ha parlato anche Gian Paolo Barbetta docente di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. “Questi dati - ha detto Barbetta - ci possono dire qualcosa anche sul futuro del non profit e la sua capacità di produrre innovazione”. Più armi, più guerra e vittime civili di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 11 marzo 2022 C’è davanti ai nostri occhi lo spettro sempre più evidente della Terza guerra mondiale, tutta insieme non più a pezzi come denunciava inascoltato papa Francesco. Questa va impedita, non è un ricatto è il baratro nel quale ci siamo inseriti. Scrivo come una persona che le guerre le ha viste e raccontate insieme al patire dei civili straziati sotto le bombe. E che per questo è contro ogni guerra. Così vedo in una sequenza temporale unica insieme all’elenco criminale delle stragi sanguinose in corso in questi giorni in Ucraina ad opera dei bombardamenti russi a Mariupol, Irpin Kharkiv, anche la memoria testimoniata dei tanti “effetti collaterali” dei bombardamenti della Nato nel 1999 sull’ex Jugoslavia - Surdulica e Grdelica, strage di bambini la prima e di viaggiatori di un treno la seconda -, e quelle delle vittime civili dell’ospedale afghano di Medici Senza Frontiere a Kunduz colpito dai raid della Nato nell’ottobre 2015. E proprio sotto l’effetto della tragedia delle donne e dei bambini dell’ospedale di Mariupol bersaglio delle bombe di Putin, mi interrogo rispetto alla scelta scellerata dell’Europa che, ringraziando Putin, riarma e su questo si ricompatta sotto l’egida della Germania che assegna 100 miliardi di spese militari alla Bundeswer - una svolta preoccupante all’indietro di 360 gradi della Storia europea -, e poi decide, Italia compresa, di inviare armi in sostegno a Kiev. Ma così si pensa davvero di fermare la guerra in Ucraina? Ce ne sono forse poche di armi in Ucraina? Oppure è vero il contrario che, nei tre mesi dell’ammassamento di truppe russe alla frontiera, ogni paese occidentale - Gran Bretagna in primis - ha inviato tonnellate di armi e istruttori a quel paese. Forse che sono pochi i foreign fighters in quella crisi che ne ha visti a migliaia combattere dal 2014, l’inizio del conflitto, visto che si esaltano ora “i combattenti internazionali”? È vero esattamente il contrario. Come è tragicamente vero che più armi servono solo ad allargare il conflitto: il paese che le invia diventa cobelligerante agli occhi del nemico o no? E peggio, servono a rendere questa guerra endemica, un Afghanistan nel cuore d’Europa, un altro Afghanistan dove l’invio di armi è servito a cacciare nel 1989 i sovietici, poi l’invio di armi ha sostenuto i mujaheddin, poi ha aiutato i talebani, ai quali abbiamo fatto guerra con una occupazione militare di 20 anni per restituire il potere nelle mani dei nemici. Che ha risolto quella guerra da noi scientemente alimentato se non a riempire di strumenti di morte gli arsenali dell’integralismo islamico, come in Siria? E se siamo tutti impegnati nell’accoglienza dei profughi e perché i civili possano fuggire con i corridoi umanitari, argomento vitale di ambigue trattative tra russi invasori ed ucraini, che cosa produrrà nei confronti dei civili in fuga, l’esistenza parallela di “corridoi per le armi” che diventeranno obiettivi militari da colpire? Tanto per essere chiari: le armi italiane e di altri Paesi saranno allocate -se già non lo sono - in Polonia e poi ci saranno “corridoi” per andare a prenderli e consegnarli a quali paramilitari? Saranno o no occasione di nuove battaglie in un territorio che a quel punto non sarà solo l’Ucraina? Inviamo armi per la resistenza degli ucraini, ma quali? Perché l’arma più efficace sarebbe quella aerea, nelle due opzioni: la no-fly zone, corridoi aerei di interdizione ai jet nemici, quelli russi, e invio di caccia militari sempre alla Polonia da inviare (come?) in Germania e poi in Ucraina sul fronte di guerra. Zelensky ad ogni pié sospinto lo chiede, ma è la stessa la Casa bianca a dire no, spiegando che la decisione porterebbe ad un confronto militare diretto con la Russia. In buona sostanza solo una soluzione negoziata del conflitto in corso, con un ruolo dell’Ue non appiattita alla Nato e delle scomparse Nazioni unite, potrà fermare la guerra. E invece nuove armi - vere non simboliche - inviate tanto per costruire il martirio altrui che ci salvi dai nostri sensi di colpa, responsabilità e colpevole ignoranza di questa crisi durata 8 anni di guerra civile, allargheranno la guerra al punto che “non sarà possibile più nessun compromesso” scrive sul New York Times Thomas Friedman. Perché c’è una domanda, la più importante, che aleggia nell’aria: come mai le belle promesse di tenere la guerra lontana dall’Europa, “mai più la guerra”, promesse sono rimaste avendo l’Europa delegato la propria sicurezza e politica estera a Washington e alla Nato? C’è davanti ai nostri occhi lo spettro sempre più evidente della Terza guerra mondiale, tutta insieme non più a pezzi come denunciava inascoltato papa Francesco. Questa va impedita, non è un ricatto è il baratro nel quale ci siamo inseriti. Ma dichiarare questa verità è “pacifismo cinico”? Rispetto per tutti, ma attenzione a non indossare l’elmetto invece di comprendere la tragedia che stiamo vivendo, come fanno in Europa solo Podemos, Syriza, Linke in piazza come noi contro l’aggressione di Putin. E poi basta con il doppio standard: perché gli Stati occidentali non inviano allora armi anche ai palestinesi, ai kurdi, agli yemeniti - popoli abbandonati come paria -, oppure è impossibile perché magari è proprio l’Occidente ad essere l’aggressore o a sostenere gli aggressori? E Il Vietnam? Il Vietnam vinse perché aspirava ad una sua rivoluzione e a riunificare legittimamente un Paese insidiato da una divisione artificiale sostenuta dagli Usa invasori. Una memoria personale. Quando i vietnamiti impegnati nelle trattative di pace di Parigi passarono per Roma per parlare con il Pci, chiesero di incontrare Aldo Natoli che nel frattempo era stato radiato con il gruppo del Manifesto. L’incontro ci fu e a conclusione ricordo le parole di Aldo: i vietnamiti non voglio armi, né combattenti, vogliono che intensifichiamo le manifestazioni per la pace perché la guerra deve finire altrimenti non fanno più la loro rivoluzione…E quelle manifestazioni, quella potenza mondiale di milioni di giovani in tutte le piazze del mondo - credo che sia nata allora - pesò sui destini della guerra molto più di ogni invio di armi. Ultimo interrogativo. Ma che farebbe in queste ore Gino Strada, strumentalizzato spesso come un santino ma poi dimenticato, non un pacifista a chiacchiere ma un uomo che per tutta la vita è stato “contro la guerra” - così amava definirsi - non dal divano di casa ma lì dove la guerra distrugge le vite degli esseri umani: invierebbe e porterebbe ospedali da campo e aiuti sanitari e umanitari, oppure chiederebbe all’Italia di inviare mitra, sistemi antiaereo e proiettili anticarro? Ma sono “ecologiche” anche le industrie belliche? di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 11 marzo 2022 Gli economisti di Citi insistono: sapersi difendere è una precondizione per perseguire progressi in altri campi, compresa la tutela del clima. Inserire le industrie che producono armi nel portafoglio dei fondi specializzati in investimenti per la tutela ambientale? Sembra lo sberleffo di un negazionista del global warming che sfrutta la devastazione della guerra in Ucraina e la crisi energetica che ne deriva per bollare chi è impegnato a promuovere la transizione verso le fonti rinnovabili come un sognatore ingenuo. E invece la proposta, dal tono assai serio, vien dagli analisti di Citi, una delle maggiori banche americane, secondo i quali “difendere i valori liberaldemocratici e creare un deterrente militare capace di preservare la pace e garantire maggiore stabilità internazionale” è un obiettivo perfettamente compatibile con quelli dei fondi Esg (i cosiddetti investimenti responsabili che puntano su imprese la cui azione dovrebbe produrre effetti positivi in campo ambientale, sociale e di governance). Molti fondi ambientali e attivisti della finanza verde hanno bollato questa ipotesi come assurda, ma gli economisti di Citi insistono: sapersi difendere è una precondizione per perseguire progressi in altri campi, compresa la tutela del clima. Che si trovi o meno ragionevole un simile argomento, il caso è solo la punta dell’iceberg di cambi di prospettiva indotti in pochi giorni dalla guerra: gli obiettivi di abbandono di gas e petrolio discussi solo quattro mesi fa alla conferenza Cop 26 di Glasgow ora appaiono troppo affrettati. I consumi di carbone, che va messo al bando al più presto, cresceranno invece a dismisura con l’Asia impegnata a costruire decine di nuove centrali che usano la fonte più inquinante. E la decisione di Biden di bloccare il completamento del gasdotto Keystone XL che avrebbe dovuto portare petrolio canadese negli Stati Uniti ora è criticata anche da molti democratici. La prospettiva potrebbe cambiare anche sulle armi, soprattutto in Europa dove l’introduzione di criteri Esg nelle scelte d’investimento di molte banche aveva portato questi istituti a eliminare dal loro portafoglio azioni di gruppi che producono sistemi per la difesa: in Svezia la Seb, la maggiore banca scandinava, ha appena capovolto la sua politica in questo campo. Dal primo aprile tornerà a investire in aziende della difesa, eliminate dal portafoglio un anno fa. E in Germania Rheinmetall, abbandonata dalle sue banche di riferimento, sta per essere “riabilitata”. Suicidio assistito, la Camera dice il primo sì. “Passo storico” di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 marzo 2022 Con 253 voti a favore e 117 no, la pdl “imperfetta” spacca Fi, Iv e Ci. Esultano Letta e Conte. Per l’Associazione Coscioni e +Europa è il risultato delle lotte di Welby, DjFabo e Trentini. Ora la parola al Senato. Dopo tre anni di gestazione parlamentare, dopo un milione e 240 mila firme che spingevano sull’eutanasia attiva (bocciata però dalla Consulta), dopo anni di battaglie nelle aule di tribunale promosse dall’associazione Luca Coscioni in favore di Piero Welby, Dominique Velati, Davide Trentini, Fabiano Antoniani, i marchigiani “Antonio” e “Mario”, e tanti altri ancora, la Camera ieri ha finalmente approvato la legge che introduce in Italia la morte volontaria medicalmente assistita con 253 voti a favore, 117 contrari e un astenuto. Per qualcuno non è ancora abbastanza, per altri è troppo. Di sicuro il testo prevede qualche paletto in più di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2019 Cappato/Dj Fabo, ma per certi versi sul terreno dei diritti qualche norma è perfino un po’ più avanzata di quelle vigenti in altri Paesi europei, vedremo perché. Hanno votato a favore gli interi gruppi del Pd, Leu e M5S; i contrari sono stati i deputati di Lega e Fd’I. In difformità dal proprio gruppo che ha lasciato loro libertà di coscienza, hanno votato sì 7 deputati di Forza Italia (Cassinelli, Giannone, Novelli, Polverini, Vito, Prestigiacomo, Spena) e 5 di Coraggio Italia (Berardini, Carelli, De Girolamo, Rizzone e Scanu), mentre 7 deputati di Italia viva si sono opposti al provvedimento (Baldini, Colaninno, D’Alessandro, Ferri, Frate, Gadda e Toccafondi). Da annotare ancora che le assenze più numerose si sono registrate tra le fila dei contrari alla legge (il 44,36% dei leghisti, il 47% degli azzurri e il 39% di Fd’I non ha partecipato al voto). Ora la parola passa al Senato dove però teoricamente il testo - che ha pochi mesi a disposizione di questa legislatura per diventare legge - potrebbe incontrare perfino qualche difficoltà in più di quelle già ardue che i relatori Alfredo Bazoli (Pd) e Nicola Provenza (M5S) hanno dovuto affrontare alla Camera. Il testo di legge licenziato ieri (emendato in molti casi a scrutinio segreto e quasi sempre con il governo che si è rimesso all’Aula), composto di nove articoli, concede la possibilità di accedere al suicidio assistito al malato maggiorenne, capace di intendere e volere, che abbia esplicitato “nelle forme dell’atto pubblico” la propria libera decisione, “attuale e consapevole”, adeguatamente informato, e che sia stato “previamente coinvolto in un percorso di cure palliative e le abbia esplicitamente rifiutate”. L’aspirante suicida deve essere affetto da una patologia o trovarsi in una condizione clinica irreversibile, con “prognosi infausta” attestata dal “medico curante o dal medico specialista” (un emendamento di Riccardo Magi, +Europa, ha introdotto solo l’alternativa), ed “essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente”. Condizioni queste “che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili” (per la sentenza 242/2019 della Consulta le sofferenze potevano essere invece solo fisiche oppure solo psicologiche). Ricevuta la richiesta del paziente, il medico, che può avvalersi di altri specialisti, dovrà redigere un rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche e psicologiche e inviarlo entro tre giorni al Comitato di valutazione clinica competente che ha un mese di tempo per rispondere. Un altro emendamento di Magi ha fortunatamente eliminato l’obbligo del medico di redigere un rapporto anche sulle condizioni “sociali e famigliari” del malato, ma è stato bocciato invece quello che stabiliva tempi certi per i successivi passaggi burocratici. La morte, che può avvenire presso il domicilio del paziente o presso una struttura ospedaliera, sarà “equiparata al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge”. Un emendamento di Lisa Noja (Iv), della commissione Affari sociali, ha invece introdotto per le persone totalmente prive di autonomia fisica la possibilità di ricorrere a tutti gli strumenti possibili, anche tecnologici, per compiere l’atto. Una opportunità che elimina ingiuste discriminazioni esistenti invece in altri Paesi europei dove pure è legale il suicidio assistito. Però l’emendamento che introduceva l’eutanasia attiva è stato bocciato l’8 marzo, ma ha ottenuto comunque 52 voti a favore. L’obiezione di coscienza è riconosciuta a medici e personale sanitario per le “attività specificamente dirette al suicidio”, ma non per l’assistenza antecedente l’intervento. Deve essere comunicata dal personale ospedaliero entro tre mesi dalla data di adozione del regolamento, può essere revocata ma entra in vigore dopo un mese dalla presentazione. In ogni caso, la struttura ospedaliera e la Regione devono garantire il servizio richiesto, anche se l’emendamento (di Magi) che prevedeva la mobilità tra regioni non è passato. La non punibilità dei condannati, anche in via definitiva, per l’aiuto medico al suicidio è retroattiva alla legge. È prevista una relazione annuale al Parlamento del ministro della Salute. Malgrado la “legge imperfetta”, il passo compiuto ieri alla Camera è comunque un “passo avanti” per l’associazione Coscioni, per + Europa e per il leader del M5S Giuseppe Conte. Di “fatto storico” parla invece il segretario del Pd, Enrico Letta. Mentre Pro Vita e Famiglia promette una grande manifestazione nazionale di protesta contro “la “cultura dello scarto” denunciata da Papa Francesco”. Moriremo di burocrazia e ipocrisia. Non di eutanasia di Massimo Villone Il Manifesto, 11 marzo 2022 Per una parte, il nostro Paese ritiene che si possa per legge obbligare a vivere chi piuttosto vuole liberamente morire. Una pretesa incivile. In Camera dei deputati l’assalto del centrodestra contro il suicidio assistito si può considerare complessivamente arginato, con 253 a favore e 117 contrari nel voto finale. Ma la pressione messa in campo ha condotto a un testo che non merita lodi. Potevamo aspettarcelo. Con ordinanza 207/2018 la Corte costituzionale rinviava di quasi un anno nel caso Cappato la trattazione della questione relativa all’articolo 580 codice penale, mettendo in mora il parlamento. Con la sentenza n. 242 del 2019 la Corte, preso atto dell’inerzia del legislatore, scriveva alcune condizioni per la non punibilità. Condizioni anche molto - forse troppo - stringenti, come ha successivamente dimostrato il caso di Mario, paziente tetraplegico, e l’anno di battaglia legale sulla sua richiesta di suicidio assistito. Il punto focale si trova nel bilanciamento tra l’autodeterminazione garantita dall’art. 32 della Costituzione, e la necessità - fortemente sottolineata dalla Corte - di tutelare in specie i soggetti deboli e vulnerabili. Ma questo approccio giustifica l’accertamento di una volontà liberamente e correttamente formatasi. Non giustifica invece condizioni a ciò estranee, né la sovrapposizione della valutazione di soggetti terzi sulla volontà di chi decide di porre fine alla propria vita. Qualche cedimento la Corte lo manifesta. Perché, ad esempio, si ritiene indispensabile vi sia un trattamento di sostegno vitale? Perché il comitato etico? Cosa avrebbe potuto fare il parlamento dopo la sentenza 242/2019? Una domanda che appassionerà i costituzionalisti, ma che intanto riceve in parlamento una risposta: era già difficile, per qualche punto sarà un po’ più difficile. Per dirne una, le sofferenze “fisiche o psicologiche” poste come condizione nella sentenza 242 diventano “fisiche e psicologiche”. E quando è che le sofferenze diventano “assolutamente” intollerabili? Dove si colloca l’asticella della tollerabilità, e chi lo decide? E meno male che si è sancita la possibilità di rifiutare cure palliative non volute. Mentre rimane la condizione necessaria di un sostegno vitale in atto. Da questo punto di vista il legislatore sembra avere perso l’occasione di semplificare da un lato, e completare dall’altro, il quadro normativo disegnato dalla Corte costituzionale sul fine vita. Certamente avrebbe potuto farlo, pur in condizioni politiche sfavorevoli. Ma introdurre nel testo approvato per via emendativa l’omicidio del consenziente è stato impossibile, ed è improbabile che il tentativo possa in seguito avere successo. Pesa sul fine vita la posizione della Corte costituzionale, che non si è limitata a un bilanciamento tra il principio di autodeterminazione e la tutela del bene vita. Si vede già nella sentenza 242/2019, e forse più chiaramente si coglie nella sentenza 50/2022 sulla inammissibilità del referendum sull’omicidio del consenziente. Contesti diversi, ma legati da un filo rosso, dato dalla individuazione di una tutela minima costituzionalmente necessaria del bene vita. Esiste o no, per converso, una tutela minima costituzionalmente necessaria della libera volontà di porre fine alla propria vita? Oggi, non c’è sanzione né per il suicidio, né per il tentativo di suicidio fallito. Alla persona malata ma compos sui, per dire la parola fine, basta rifiutare un trattamento salvavita, come ad esempio una banale trasfusione di sangue. Ma domani se arrivasse alla Corte una questione sollevata contro la mancata sanzione del tentativo di suicidio fallito? O una legge volta a imporre l’obbligo della trasfusione di sangue laddove medicalmente richiesta? E se fosse approvata una legge riproduttiva della normativa di risulta del referendum non ammesso sull’omicidio del consenziente? E se la Camera avesse oggi previsto la cura palliativa come passaggio preliminare necessario per il suicidio assistito? In tali ipotesi, a quale esito giungerebbe la Corte partendo dal requisito della tutela minima costituzionalmente necessaria della vita? E di esempi potremmo farne molti. Alla fine, vogliamo pensare che abbiamo il diritto di porre fine ai nostri giorni. Ma potremo agevolmente farlo, lietamente o disperati, purché soli e in grado di staccare autonomamente la spina. Diversamente, è probabile che moriremo comunque, ma sepolti dalla burocrazia e dalla ipocrisia dei benpensanti. Vale di più la vita o la libertà? La guerra costringe a scegliere di Vito Mancuso La Stampa, 11 marzo 2022 La bioetica e la tragedia che accade in Ucraina interrogano la nostra coscienza morale: decidere quale sia il valore più alto delle nostre esistenze significa conoscere se stessi. Apocalisse letteralmente significa “rivelazione”. Ci sono momenti nei quali la Storia bussa alla porta della coscienza e impone domande decisive, rispondendo alle quali si ha una rivelazione. Sono i momenti “apocalittici”. Io penso che noi ne stiamo vivendo uno e la domanda apocalittica o rivelativa che sento premere dentro di me è la seguente: vale di più la vita o la libertà? Vita e libertà sono i due valori decisivi per l’esistenza di ognuno di noi: la vita è la nostra dimensione fisica, la libertà è la nostra dimensione morale. Tra di esse dovrebbe sempre esserci armonia perché è chiaro che senza vita non c’è libertà e che senza libertà non c’è vita umana, per questo ognuno di noi aspira a una vita libera. A volte però la Storia non permette questa naturale armonizzazione e impone di scegliere, e in questo caso ognuno deve chiarire a se stesso qual è il valore-guida per lui: se la vita o la libertà. Penso che sia esattamente la medesima alternativa che si pone alla coscienza di fronte alla sofferenza estrema quando il territorio invaso non è l’Ucraina ma il nostro corpo, e l’invasore non è Putin ma una malattia irreversibile e invalidante che trasforma progressivamente la vita reale in una specie di tortura. Che cosa vale di più in quel momento apocalittico sul piano esistenziale: la vita o la libertà? La sacralità della vita fisica o la sacralità della vita libera? Ieri la Camera, approvando la proposta di legge sulla morte volontaria medicalmente assistita, ha implicitamente risposto che è più importante la libertà, proseguendo nell’affermazione dei diritti del singolo sopra la propria esistenza iniziata nel 1974 con la legge sul divorzio. Ma, dal 24 febbraio scorso, l’invasione dell’Ucraina e la sua progressiva distruzione hanno trasferito anche nel campo dell’etica sociale l’alternativa che di solito consideriamo nel campo della bioetica, chiedendo anche qui: vita o libertà, quale delle due ha la precedenza? È chiaro che vi sono delle differenze, perché nel caso dell’eutanasia si decide solo sulla propria vita e non su quella di altri, mentre nel caso della guerra si mettono in gioco anche le vite altrui e accettando di partecipare al conflitto (anche solo indirettamente inviando armi) non ci si sottrae al togliere la vita a degli esseri umani. La somiglianza però è maggiore della differenza, perché il cuore del problema è il medesimo e consiste nel chiarire quale debba essere il principio-guida dell’esistenza, se la vita o la libertà. Vi è chi risponde la vita ed è disposto per questo a sottomettere la sua libertà, piegandosi all’invasore e accettando la sottomissione, pensando magari poi di resistere in modo non violento mediante forme di disobbedienza civile. Chi agisce così lo fa o perché non potrebbe mai abbracciare un’arma per sopprimere anche solo una singola vita, fosse pure quella di uno spietato mercenario ceceno; o perché, calcolando l’entità delle forze in gioco, pensa che resistere è inutile, anzi aumenta di molto il numero delle vittime. Vi è invece chi risponde la libertà, ed è disposto per questo a mettere in gioco la vita propria e altrui, contrastando con le armi l’invasore perché avverte il dovere morale di difendere il proprio Paese e i propri cari, e mai accetterebbe di perdere la libertà. Meglio morire, dice, che vivere come schiavo. Fa lo stesso ragionamento di chi su un letto di ospedale dice prima a se stesso e poi al mondo: staccate la spina di questa macchina, questa non è vita per me, lasciatemi affrontare la morte come decido io e aiutatemi a morire. Si tratta di due opzioni entrambe legittime e rispettabili, dietro le quali vi sono filosofie e spiritualità degne della più alta considerazione. La domanda giusta quindi a questo punto non è “chi ha ragione?”, perché non lo sapremo mai: non c’è un tribunale assoluto della storia (per i credenti c’è il Giudizio universale, che però è alla fine, al di fuori della storia). Qui e ora c’è solo il tribunale relativo della coscienza di ognuno di noi e quindi la domanda giusta è: tu, da che parte stai? che cosa è più importante per te, la vita o la libertà? La dimensione fisica o la dimensione morale dell’esistenza? Se per te è più importante la vita, aiuterai chi è alle prese con una condizione terminale mediante le cure palliative, ma mai accetterai la sua richiesta di suicidio medicalmente assistito; allo stesso modo aiuterai gli ucraini dal punto di vista umanitario e diplomatico, mai però dal punto di vista militare, perché questo per te equivale a gettare benzina sul fuoco, aumentando la perdita di vite umane. Se invece per te è più importante la libertà, accoglierai la richiesta di chi vuole andarsene dal suo corpo perché non ce la fa più, e allo stesso modo vorrai che gli ucraini, oltre che umanitariamente e diplomaticamente, siano aiutati anche militarmente. Chi, come me, segue questa seconda via, lo fa perché ritiene che la via diplomatica e la via militare si rafforzino reciprocamente, e soprattutto perché ritiene che per un essere umano non vi sia nulla di più importante del senso di giustizia, di dignità e del desiderio di libertà. È la lezione di Bella ciao: il fatto cioè che qualcuno, trovando l’invasore, dica a se stesso “mi sento di morir” e divenga partigiano. Laddove è chiaro che quel “mi sento di morir” non esprime un desiderio di morte ma un desiderio di vita, di vita libera però, perché chi canta così sente che, se non è libera, la vita non è umana. Mi vengono in mente le parole che Dante fa pronunciare a Virgilio in risposta a Catone. Era successo infatti che costui in quanto custode dell’accesso al Purgatorio si era opposto all’ingresso di Dante, vivo, in quel regno di morti, al che Virgilio in difesa di Dante gli disse: “Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio, I, 70-72). A volte, per la libertà, si può anche rifiutare la vita, come peraltro aveva fatto lo stesso Catone, suicida per non cadere nelle mani di Cesare, e che Dante, la cui fede cristiana era intensissima, non pone, a differenza di Pier della Vigna e degli altri suicidi, all’Inferno, ma in Purgatorio, attestando così che a volte, per la dignità della propria esistenza, è lecito scegliere di andarsene prima. Sia in un letto di ospedale, sia in un campo di battaglia. Operare questo discernimento nel teatro della propria coscienza morale significa affrontare il più alto lavoro filosofico e spirituale a cui oggi siamo chiamati dalla danza macabra che la Storia sta conducendo sulle città e le campagne ucraine e sugli esseri viventi (umani, animali, vegetali) che le abitano, o le abitavano. Oggi più che mai il compito del pensiero consiste nel sollevare questioni di principio, radicali, esistenziali, e non importa che magari non si dorma o ci si svegli nel cuore della notte: non siamo nati per dormire. È vero altresì che il lavoro serio su di sé alla fine ripaga, conduce a liberarsi dalla rabbia e dall’angoscia, dona la luce buona che proviene dall’onesta conoscenza di sé. “Conosci te stesso” era la massima incisa sul tempio di Apollo a Delfi, base della filosofia di Socrate, e oggi si può giungere a conoscere se stessi affrontando la domanda imposta dalla guerra in Ucraina, identica a quella della materia bioetica, su quale sia il valore più alto tra la vita e la libertà. Ma i profughi non sono tutti uguali? di Paolo Storelli La Regione, 11 marzo 2022 Il bene è bene da qualunque parte arrivi. Lode, dunque, alla locale sezione dell’Udc che in una interrogazione al Municipio di Losone chiede di riaprire l’ex Caserma san Giorgio per destinarla ai rifugiati ucraini. “Siamo tutti rimasti scioccati da questa terribile e sanguinosa guerra alle porte dell’Europa che ha visto costretto il popolo ucraino, soprattutto donne a bambini, a fuggire all’estero per trovare rifugio”, dicono gli interpellanti. E aggiungono: “Il senso di responsabilità e solidarietà presente in tutti noi ci impone di reagire e attivarci per accogliere e aiutare la popolazione ucraina che sta scappando”. È una richiesta molto importante quella dell’Udc che mette in evidenza la necessità di agire. Di fronte all’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina non basta ridursi a esprimere dispiacere e solidarietà, parole estremamente vuote se non sono seguite da un’azione di aiuto concreto. Le immagini che continuamente la televisione ci porta in casa giorno dopo giorno non possono non suscitare una grande tristezza: disperati in fuga, edifici sventrati o totalmente distrutti, ospedali e orfanotrofi bombardati, macerie ovunque. E i molti morti, e la gente nascosta nei rifugi senza poter uscire pena il rischio di essere ammazzata, e la mancanza di scorte di cibo e di acqua, e la paura che si legge sulle facce dei bambini, i loro pianti disperati nel salutare i padri che, con un coraggio indicibile e armati alla bell’e meglio si battono per la difesa della loro libertà… Sono azioni che riportano col pensiero alla Resistenza italiana, ai partigiani che sulle montagne al confine con il nostro Paese si batterono per sconfiggere il nazifascismo. Allora non stiamo a guardare, non tentenniamo come ha fatto il Consiglio federale di fronte alle sanzioni volute dall’Ue. Dunque la Svizzera sia in prima fila nell’accogliere quei poveri disperati. Non solo quelli che giungeranno spontaneamente da noi, ma andando a prenderli nei Paesi confinanti già sommersi dai fuggiaschi, soprattutto in Polonia. Gino Strada, il medico fondatore di Emergency che ha dedicato la vita alle cure dei feriti in guerra e nelle catastrofi in ogni parte del mondo, diceva: “Solo dei cervelli poco sviluppati, nel terzo millennio, possono pensare alla guerra come uno strumento accettabile per la risoluzione dei conflitti”. Il che ci autorizza a dire che in questo caso almeno un “cervello poco sviluppato” c’è, eccome. Contestato, in parte, anche nella Russia stessa. Purtroppo sono migliaia le persone finite in carcere per aver manifestato solidarietà con l’Ucraina e apertamente criticato Putin. Ma la guerra è sempre la guerra in qualsiasi parte del mondo la si combatta. E sempre ci sono e ci saranno genti disperate costrette a fuggire dopo aver patito immani sofferenze. Fuggono dal nemico e anche dalla fame. Perché anche la fame è una guerra, una guerra per la sopravvivenza. Complice, molte volte, l’atteggiamento occidentale che ha sempre sfruttato, e lo fa tuttora, quello che usiamo chiamare il terzo mondo. Lavoro minorile, miniere in cui gli operai sono impegnati fino allo sfinimento, distruzione delle terre fonte di sostentamento per le popolazioni per far posto a coltivazioni e raccolti che nulla lasciano alla gente del luogo. E anche i profughi sono sempre profughi da qualsiasi parte del mondo provengano. Non ci sono rifugiati di serie A e di serie B. E allora fa un po’ specie il cambiamento fatto dall’Udc che è sempre stata in prima linea, quando la caserma ospitò i rifugiati, a dirne peste e corna. Forse non i dirigenti della sezione, ma sicuramente molti dei suoi aderenti i quali si sono adoperati in lungo e in largo raccogliendo le firme per far sì che la caserma non fosse più adibita a centro di accoglienza per richiedenti asilo. La stessa caserma che ora si vorrebbe giustamente riaprire per ospitare gli Ucraini. Non vorremmo che nel fondo una spiegazione ci fosse: gli Ucraini sono Europei, condividono la nostra cultura occidentale. Gli altri giungevano da continenti lontani, da guerre nascoste ai nostri occhi e avevano la pelle di colore diverso. Il che è una grave colpa per certa nostra gente. Putin può essere processato per crimini di guerra in Ucraina? di Michele Farina Corriere della Sera, 11 marzo 2022 Per la vicepresidente Usa Kamala Harris “si deve indagare”, Londra mette in guardia i militari russi. All’Aja la Corte Penale Internazionale ha aperto un procedimento, ma spunta l’ipotesi di un tribunale speciale per l’Ucraina. Putin come Milosevic? Generali russi un giorno sul banco degli imputati, alla stregua di Charles Taylor o dei signori della guerra congolesi? L’ex presidente serbo, ricercato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia creato dall’Onu, fu arrestato dalla polizia del suo Paese e spedito all’Aja nel 2001, sei anni dopo il massacro di Srebrenica. L’ex leader della Liberia fu condannato dalla Corte speciale per la Sierra Leone nel 2012, a un decennio dalla sua caduta. La giustizia non si muove al passo della cronaca e (ammesso che arrivi a destinazione) è molto più lenta dei massacri che è chiamata a giudicare. O dei proclami dei politici: ieri la vice presidente Usa Kamala Harris ha detto che “dovrebbe assolutamente esserci un’indagine sui crimini di guerra” attribuiti ai russi in Ucraina. Nelle stesse ore il governo britannico ha messo in guardia anche i militari dell’esercito invasore: “Tutti saranno chiamati a rispondere dei crimini di guerra commessi, a ogni grado della catena di comando”. Parole forti, orizzonte incerto. Le mamme e gli infermieri dell’ospedale di Mariupol saranno mai chiamate a testimoniare in un’aula di tribunale? E per quali reati, davanti a quali giudici? Quali sono i reati? I crimini di guerra sono quelli messi nero su bianco dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, e più recentemente dallo Statuto di Roma, che fu approvato presso la sede della Fao (nella capitale italiana) nel 1998, e che nel 2002 portò all’inaugurazione della Corte penale internazionale, dopo la ratifica di 60 Stati firmatari. Sono considerati war crimes gli attacchi deliberati sui civili, gli attacchi che causano un numero di vittime civili sproporzionato rispetto all’obbiettivo militare, gli attacchi a ospedali, scuole, monumenti storici. Cosa si dice sull’utilizzo delle armi chimiche e termobariche? Il diritto internazionale proibisce anche l’uso di armi chimiche, mentre l’uso delle devastanti bombe termobariche (che Mosca ha ammesso di impiegare in Ucraina) potrebbe costituire reato soltanto se fosse provato che non si sono adottate misure per evitare vittime civili. Per le atrocità commesse in Bosnia negli anni Novanta, Milosevic fu messo sotto accusa per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questi ultimi comprendono un ombrello vasto di “atti” criminali (dallo sterminio alla tortura, dagli stupri alle deportazioni). Ma tali atti, prevede lo Statuto di Roma, devono essere “estesi” e “sistematici”, condizioni che non sono sempre facile da provare. È stata già aperta un’indagine? Il procuratore generale della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, già il 28 febbraio aveva annunciato l’apertura di un’indagine ritenendo fondati i sospetti su crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Ucraina. Diversamente dal 2014 (quando nessun Paese aveva chiesto un’iniziativa simile per fatti legati all’annessione russa della Crimea), questa volta una quarantina di nazioni (Italia compresa) ha sollecitato l’intervento della Cpi. Anche l’Unione Europea ha deciso di collaborare alla raccolta di prove, attraverso l’Unità di cooperazione giudiziaria nota come Eurojust. “Ciò che Putin e Lukashenko stanno facendo in Ucraina è un crimine di guerra”, conferma la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, sollecitando un processo “quando sarà il momento”. Certo la Cpi non brilla per dinamicità: 900 persone da 100 Paesi nello staff, sede all’Aja (Olanda), bilancio di 150 milioni di euro, sei lingue ufficiali (tra cui il russo), 30 casi trattati, 35 mandati d’arresto, 10 condanne (la prima nel 2012, ai danni di un capo milizia congolese) e 4 assoluzioni. Chi sostiene la Cpi? A sostenere la Cpi sono 124 (sui 193 rappresentati all’Onu). Non si tratta di un tribunale delle Nazioni Unite, anche se il Consiglio di Sicurezza può chiedere di attivarsi su casi specifici. Ma tre dei cinque membri permanenti (con diritto di veto) non hanno ratificato lo Statuto di Roma. Oltre a Cina e Russia, anche gli Usa. Addirittura nel 2020 Trump firmò un decreto per imporre sanzioni economiche ai funzionari della Cpi, dopo l’annuncio di un’inchiesta dell’Aja su possibili crimini contro l’umanità commessi in Afghanistan a partire dal 2003. Un tribunale speciale per l’Ucraina? Quando Kamala Harris chiede un’indagine sui crimini di guerra dopo l’attacco russo all’ospedale di Mariupol, evidentemente non può pensare a una Corte in cui Washington non si riconosce. Nel recente passato, l’Onu ha creato tribunali ad hoc (da quello per l’ex Jugoslavia a quello per il Ruanda). Un tribunale speciale anche per l’Ucraina? Impensabile per Putin e i suoi generali, fino a che lo zar dormirà sonni tranquilli al Cremlino. Ma il tempo non gioca per forza a loro favore. Nel 1995 Milosevic mai avrebbe pensato che da lì a sei anni, dopo una sconfitta elettorale, il premier serbo Zoran Dindic lo avrebbe spedito all’Aja. Giustizia, la Corte costituzionale polacca contro la Cedu di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 11 marzo 2022 Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I giudici bocciano l’articolo 6: “Incostituzionale”. La Polonia riaccende il contenzioso con il Consiglio d’Europa nel giorno in cui Mosca annuncia la propria uscita dall’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo. Era già accaduto a novembre scorso quando il Tribunale costituzionale (Tk), fedele alla linea del governo della destra populista di Diritto e giustizia (Pis), aveva messo in dubbio la validità dell’articolo 6 della Cedu in merito alle competenze di Strasburgo sulla valutazione dell’operato dello stesso Tk. Nella sentenza di ieri è stato dichiarato anticostituzionale il medesimo articolo che sancisce il diritto a un equo processo. Questa volta però il verdetto della corte filo-Pis fa riferimento alla presunta imparzialità del Consiglio nazionale della magistratura (Krs), in cui 15 membri su 25 vengono eletti dal Sejm, la camera bassa del parlamento, dove la formazione fondata dai fratelli Kaczynski ha la maggioranza. Dietro ai pronunciamenti del Tk, c’è ancora una volta lo zampino del “superministro alla giustizia” e procuratore generale Zbigniew Ziobro, secondo il quale il testo impugnato dalla Cedu, in alcune delle recenti sentenze sfavorevoli al governo polacco, non era presente nella versione iniziale della convenzione così come ratificata dalla Polonia nel 1993. Il quotidiano Gazeta Wyborcza ha parlato di “putinizzazione” della giustizia citando l’opinione dell’ex membro del Tk Ewa ?etowska: “Nel 2015 anche la Russia aveva rifiutato di adeguarsi ai verdetti della Cedu”, ha commentato in un podcast la giudice in pensione. Sul fronte Consiglio d’Europa, nel mirino di Ziobro anche la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Difficile prevedere gli effetti della sentenza di ieri destinata a mettere ancora più in cattiva luce il governo polacco nell’interminabile scontro tra Varsavia e Bruxelles su stato di diritto e giustizia.