Fine pena, come non dire “mai” di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 10 marzo 2022 Sull’ergastolo ostativo la commissione Giustizia della Camera ha licenziato un nuovo testo, già approdato in Aula. Qualche parte è ancora discutibile: sui criteri per ottenere i benefici si può fare di più e meglio. Una premessa, utile soprattutto per i non addetti ai lavori. Con ordinanza n. 97 del 2021 la Corte costituzionale (in coerenza con la precedente sentenza n. 253/2019 in tema di ergastolo ostativo e permessi-premio) ha riconosciuto, ma non formalmente dichiarato l’illegittimità del divieto assoluto di accesso alla liberazione condizionale da parte dei condannati all’ergastolo “non collaboranti” con la giustizia. La Corte ha opportunamente rinunciato a emettere subito una pronuncia puramente demolitrice per porre il Parlamento in condizione di predisporre, entro un anno di tempo, una nuova disciplina legislativa atta a bilanciare in modo equilibrato le concorrenti esigenze in campo. Diversamente da quanto è accaduto rispetto alla vicenda costituzionale procedimentalmente analoga del suicidio assistito, in cui la Consulta è intervenuta una seconda volta con una pronuncia di incostituzionalità per inadempienza del potere legislativo, questa volta il legislatore parlamentare sembra invece intenzionato a raccogliere l’invito a (ri-)legiferare: la commissione Giustizia della Camera ha infatti licenziato un nuovo testo dell’art. 4 bis ord. penit. (insieme a modifiche di altre disposizioni rilevanti per connessione) oggetto di maturato accordo tra le forze politiche, e già approdato in Aula. A giudizio di uno studioso di lungo corso come chi scrive, le modifiche in discussione sollecitano rilievi in più direzioni. Nell’impostazione di fondo, le principali linee ispiratrici della nuova disciplina concordata recepiscono in larga misura indicazioni derivanti dalla più recente giurisprudenza costituzionale in materia. Si allude, innanzitutto, alla scelta di subordinare - in assenza di previa collaborazione - la concessione dei benefici penitenziari alla allegazione da parte dei detenuti interessati di elementi specifici che consentano di escludere non solo l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo di un loro ripristino. Invero, già i primi commentatori della sentenza costituzionale n. 253/2019 (che costituisce la fonte ispiratrice del doppio oggetto della verifica suddetta) avevano rilevato che è tutt’altro che facile verificare giudiziariamente il dato negativo dell’assenza del rischio di un futuro ripristino di collegamenti criminosi, dal momento che la logica probatoria postula la positiva materialità delle cose da provare. Ma le parti ancora più discutibili del testo normativo progettato sono quelle in cui si introducono requisiti aggiuntivi che possono apparire superflui o poco chiari, o addirittura privi di vera giustificazione sostanziale. Cominciando dalla parte superflua, alludiamo al punto in cui si richiedono elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti (non solo con la criminalità organizzata, ma anche) “con il contesto nel quale il reato è stato commesso”. Che significa? Una accertata mancanza di attuali legami con il crimine organizzato equivale, implicitamente, anche a una contestuale verifica dell’assenza di persistenti relazioni col contesto di riferimento della precedente attività criminosa. Oppure, il legislatore odierno vorrebbe altresì vietare che il condannato possa fruire delle misure ottenute (compresi i permessi-premio) nei contesti territoriali di provenienza, concependo una sorta di rieducazione per dir così extraterritoriale? Un punto non solo a nostro avviso poco felice, anche perché suscettibile di più interpretazioni, è quello in cui il nuovo testo presenta, a chiusura del comma 1 bis del modificato art. 4 bis ord. penit., la seguente formulazione: “Al fine della concessione dei benefici, il giudice di sorveglianza accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. Alla stregua di una interpretazione strettamente letterale, sembrerebbe che si richieda la effettiva realizzazione di iniziative a favore delle vittime quale ulteriore presupposto necessario. Senonché, la correttezza di tale ipotesi interpretativa può essere contestata per le seguenti ragioni. In linea generale l’attività riparativa, per potere davvero assurgere a elemento sintomatico di un affidabile percorso rieducativo, non può essere imposta ma deve essere (almeno in teoria) frutto di una opzione il più possibile spontanea. Non a caso, l’art. 13 del vigente ord. penit., nel definire le caratteristiche di un trattamento individualizzato, stabilisce - tra l’altro - che è offerta all’interessato l’opportunità di una riflessione anche “sulle possibili azioni di riparazione”: la prospettiva della riparazione dunque, lungi dall’essere in base ai principi del trattamento ritenuta doverosa, si prospetta piuttosto come una “possibilità” auspicabile. Inoltre, è da considerare che non tutti i condannati sono oggettivamente in condizione, per mancanza di capacità personali o di risorse materiali, di compiere significativi interventi a favore delle vittime, e ciò a prescindere da una effettiva disponibilità del singolo condannato a un autentico ravvedimento. Ancora, solleva qualche rilievo critico la specificazione che gli interventi suddetti sono realizzabili “sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. A ben vedere, questa formula specificativa dice troppo e, al tempo stesso, troppo poco. Senza potere qui spiegare le differenze tra riparazione in senso lato e giustizia riparativa in senso stretto (la prima già presente in diverse forme nel nostro ordinamento penale, la seconda in Italia poco sperimentata fuori dal circuito della giustizia minorile ma destinata ad avere maggiore spazio in futuro grazie alla recente riforma Cartabia del sistema sanzionatorio, ancora in corso di elaborazione), va in primo luogo notato che la riparazione latamente intesa non è circoscrivibile alle modalità risarcitorie in senso economico, ma può ben assumere forme immateriali anche a carattere ideale o simbolico. Quanto poi alla giustizia riparativa in senso proprio, di cui costituisce principale strumento operativo la cosiddetta mediazione tra autore e vittima gestita da un terzo esperto di procedimenti mediativi, è intuitivo come possa non risultare agevole farne diffusa sperimentazione nell’ambito di un sistema carcerario come il nostro, tradizionalmente privo di adeguate risorse non solo materiali. Si aggiunga che l’interazione mediativa presuppone, come condizione essenziale, il previo consenso non solo dell’autore ma prima ancora della vittima. Consenso che non è affatto scontato, essendo non pochi i casi in cui la vittima rifiuta, per motivi psicologici o morali, di confrontarsi con la persona che le ha causato danni e sofferenze: per cui la possibilità della mediazione rimane preclusa, quali che siano i passi avanti in direzione del ravvedimento compiuti dal reo. Se così è, il riferimento esplicito alla giustizia riparativa può anche apparire poco opportuno stanti le modalità assai generiche con cui è fatto e il contesto in cui è inserito. Pertanto, sarebbe forse preferibile modificare la formulazione normativa in discorso ad esempio nei seguenti termini: “Ai fini della concessione dei benefici, il giudice di sorveglianza accerta altresì se sussistano atti di riparazione o comunque iniziative dell’interessato a favore delle vittime” (una formulazione come questa rende chiaro che la dimensione riparativa non è obbligatoria, e l’uso dell’espressione “atti di riparazione” è a sua volta così ampia da poter includere l’eventuale ricorso a strumenti di giustizia riparativa in senso stretto). Priva di condivisibile ragione giustificatrice sembra, poi, l’assunzione a presupposto di ogni beneficio - a cominciare dal mero permesso-premio - dell’adempimento delle obbligazioni civili conseguenti alla condanna (adempimento finora richiesto ai fini della sola liberazione condizionale). Pur essendo ammessa la prova dell’impossibilità di adempiere, è già stato a ragione obiettato che anticipare l’obbligo in parola alle fasi iniziali di un processo rieducativo che comincia ad aprirsi alla realtà extracarceraria contraddice la ratio dei permessi, quale istituto finalizzato a favorire percorsi di risocializzazione potenzialmente sfocianti soltanto in momenti successivi in eventuali occasioni lavorative produttive di redditi utili anche per chiudere i conti con la giustizia. Ancora, è da porre in evidenza un punto assai nevralgico che riguarda di nuovo l’accertamento giudiziario della avvenuta rottura dei collegamenti con il crimine organizzato, e che letteralmente parrebbe introdurre una vera e propria inversione dell’onere probatorio, in contrasto con le regole che dovrebbero in teoria presiedere alla verifica probatoria in materia sia penale che penitenziaria. Cioè il testo esitato dalla commissione dispone che, qualora dall’istruttoria svolta emergano indizi di persistente collegamento con la criminalità, “è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria”. Perché addossare questo onere probatorio allo stesso soggetto interessato? In realtà, la giurisdizione di sorveglianza può ben esercitare di ufficio i poteri istruttori necessari per estendere e approfondire la verifica probatoria, senza farne carico al condannato. Forse, il legislatore mostra in tal modo una preventiva sfiducia nei confronti del giudice di sorveglianza e delle sue capacità di accertamento, esonerandolo da ulteriori verifiche che preferisce invece accollare alla stessa persona richiedente il beneficio così da farle per di più ‘pagare’ l’eventuale fallimento della prova contraria? Come che sia, sarebbe opportuna in proposito una disciplina legislativa più rispettosa dei principi generali. È troppo pretenderlo? Con più specifico riferimento all’istituto della liberazione condizionale, è previsto infine come novità rilevante - oltre all’esistenza delle condizioni richieste per la concessione dei cosiddetti benefici - un innalzamento delle soglie di pena detentiva che occorre aver scontato: cioè si passa da almeno metà (come è previsto fino ad oggi) ad almeno due terzi della pena temporanea inflitta, e dagli attuali 26 anni ad almeno 30 quando vi è stata condanna all’ergastolo per qualcuno dei delitti indicati nel citato art. 4 bis. Questo aumento dei limiti di pena appare non poco discutibile anche rispetto agli ergastolani. Non è infatti la semplice elevazione di quattro anni della pena carceraria scontata che, di per sé, può assicurare maggiori potenzialità rieducative e, di riflesso, una minore pericolosità residuale dei mafiosi che chiedono di tornare in libertà. Molto si giuoca, piuttosto, sul versante dei trattamenti rieducativi che si riescono a promuovere all’interno degli istituti penitenziari. Ma purtroppo non risulta che agli strumenti e ai metodi della rieducazione intramuraria sia stata negli ultimi anni dedicata una rinnovata e approfondita riflessione, peraltro in una ottica necessariamente multidisciplinare, e ciò ancor meno è avvenuto rispetto al novero dei criminali organizzati (per ulteriori considerazioni rinvio a un mio contributo contenuto nel recente volume collettivo “Contro gli ergastoli”, curato da S. Anastasia, F. Corleone e A. Pugiotto, Futura, 2021): essendo la prospettiva della loro risocializzazione rimasta fin troppo appiattita su quella - in sé stessa non univocamente sintomatica, come sappiamo, di autentica revisione critica del passato delittuoso - della collaborazione giudiziaria. Eppure, dovrebbe essere superfluo esplicitare che ideare percorsi di cambiamento adeguati alle caratteristiche criminologiche degli appartenenti alla criminalità organizzata non sarebbe un favore concesso al singolo mafioso, bensì tenderebbe a soddisfare l’interesse generale a contrastare anche per questa via la riproduzione della delinquenza mafiosa. Vi è di più. Se altresì si considera che la soglia dei 30 anni potrà valere, in forza del divieto di retroattività della disciplina sanzionatoria più sfavorevole (cfr. sentenza costituzionale n. 32/2020, nonché l’intervento di S. Anastasia nel “Manifesto” del 2 marzo scorso), soltanto rispetto a condanne temporalmente ancora lontane per reati commessi dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, finisce con l’appalesarsi con nettezza la valenza prevalentemente simbolica di questo innalzamento della soglia di pena detentiva. Insomma, sembrerebbe una sorta di espediente escogitato soprattutto per attenuare i timori contingenti dell’antimafia più radicale o tranquillizzare i settori più allarmati della pubblica opinione: mentre pressoché tutti gli odierni ergastolani ostativi hanno di fatto raggiunto il limite trentennale di pena, piaccia o non piaccia! In conclusione, si dovrebbe chiedere al Parlamento di migliorare nei diversi punti fin qui evidenziati il testo concordato in commissione. Il fatto che gli interventi riformistici su materie divisive siano inevitabilmente frutto di faticosi compromessi, non esime dalla responsabilità politica di approvare leggi dotate di solide ragioni giustificatrici e quanto più possibile chiare e univoche nel contenuto dispositivo. Un legislatore democratico all’altezza dei suoi doveri costituzionali dovrebbe, una buona volta, evitare di delegare alla giurisprudenza il compito di precisare in sede applicativa il senso e la portata di leggi che escono dalla fabbrica parlamentare simili a prodotti semi-lavorati da completare o a bozze bisognose ancora di correzioni. Se la tentazione della delega invece persiste, è ingiustificato accusare poi i giudici di eccedere in discrezionalità interpretativa; è il potere legislativo che tradisce, per primo, il suo (teorico) ruolo di produttore monopolista della legislazione penale. 41 bis: l’inferno in Terra dove lo Stato nega diritti e rieducazione di Mimmo Gangemi Il Riformista, 10 marzo 2022 Emblematico il rifiuto del carcere di Viterbo di fornire a un detenuto due libri: uno di Luigi Manconi e uno di Marta Cartabia. Segno di una civiltà che regredisce l’homo sapiens in direzione delle scimmie. Nel carcere di Vibo Valentia con il Partito Radicale, in visita ai detenuti nel regime di 14 bis - la sorveglianza particolare derivante da comportamenti che compromettono la sicurezza - il cuore agghiacciava ai rumori di ferraglia del chiavistello che si apriva e chiudeva al passaggio. Guardandoli e ascoltando le loro storie e le necessità, così diverse dalle nostre, mi è sorto che non sempre siamo padroni del nostro tempo, che talvolta è dato ad altri di tracciarci la via, che a deviarci può bastare un soffio di nulla: sfiorarsi di vite, ombre che si incontrano e fanno più scura la notte, passi svogliati che non si è guidati e che non conducono da nessuna parte, un momento in agguato, un giorno incattivito dalle ali di un destino annoiato che si trastulla con gli uomini, ne devia la rotta. E ho preso coscienza della fortuna di essere nato nel posto giusto, nella famiglia giusta, di non aver trovato per strada gli inciampi e le insidie che a tanti hanno mutato l’esistenza da così a così. Il regime del 14 bis mi è apparso terribile. Ma c’è di peggio e mi si è evidenziato con chiarezza dall’interpellanza parlamentare dell’on. Roberto Giachetti riguardante il rifiuto dell’autorità carceraria di Viterbo di fornire a un detenuto del 41 bis i due libri richiesti. Una limitazione incomprensibile e che sa di una civiltà che arranca, che regredisce l’homo sapiens in direzione delle scimmie. D’istinto, verrebbe da pensare che la negazione di un volume non sia poi granché, non sia il più crudo tra gli aspetti penalizzanti. Ma certamente essa è emblematica e significativa, è un punto di snodo per comprendere come si continui a disattendere la funzione educativa del carcere e, nel frangente, è lo spunto per affrontare la questione del 41 bis. Il 41 bis, che certamente castiga personaggi con colpe magari mostruose, finisce con l’apparire, più che una modalità di restrizione, l’anticipazione in terra dell’inferno, non tenendosi in conto un’umanità dolente che ha diritti da non dover disattendere, e invece spesso disattesi quasi che lo Stato abbia licenza di inadempienze a scomputo delle inadempienze, intesi crimini, dei ristretti. A una nazione civile compete creare occasioni di ravvedimento e di recupero, nell’ottica di restituire alla comunità uomini nuovi e consapevoli, non esacerbati dalla condizione di cattività nella quale vengono tenuti. I due libri erano “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” di Luigi Manconi e Federica Graziani e “Un’altra storia inizia qui”, di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti. Sul primo, non inganni il titolo, nessuna istigazione al delitto, sono riflessioni sul giustizialismo dilagante, sull’inasprimento delle pene e delle sanzioni e sulla necessità di innalzare il livello della civiltà giuridica, attraverso il ripristino dello Stato di diritto e della Costituzione. Ebbene, negato! Perché “la sottoposizione al regime del 41 bis comporta la sospensione alle regole di trattamento degli istituti… La direzione della casa circondariale ha evidenziato la non opportunità dell’autorizzazione all’acquisto del libro indicato…”. Nel secondo, gli autori, partendo dal magistero del cardinale Martini, che usava visite frequenti nelle carceri, e dal suo pensiero che la pena debba essere ricostruzione oltre che espiazione, si confrontano sul compito della giustizia di ricucire i rapporti con la società e non reciderli. Anch’esso, negato! Perché “il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”. Mah! Chi lo capisce è bravo e dovrebbe spiegarcelo. Sono motivazioni sconcertanti sia in termini giuridici, cozzando con la sentenza 122 del 2017 della Corte Costituzionale, che non limita il diritto dei detenuti del 41 bis di ricevere e tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, sia in termini costituzionali - art. 27, “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e un buon libro in questo soccorre - sia in termini di semplice buonsenso, evidenziandosi la grettezza mentale di non comprendere che la lettura, oltre ad avere forte valenza educativa, allarga gli orizzonti, apre la mente, forgia pensieri nuovi, crea stimoli di riflessione, ricostruisce, ed è una forma d’evasione (legale). Per intenderci, in Brasile, il Reembalzo prevedeva che ai detenuti per reati non di particolare gravità toccasse uno sconto di pena di 4 giorni in un mese, fino a un massimo di 48 giorni, per ogni libro letto. Chiudo con Daniel Pennac e Franz Kafka. Pennac: “Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa, persino da te stesso”. Kafka: “un libro dev’essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”. La nomina del capo del Dap è sempre più divisiva all’interno del Csm di Giulia Merlo Il Domani, 10 marzo 2022 La proposta di nominare il magistrato progressista Carlo Renoldi a capo del Dap ha suscitato scontro politico e divisione anche all’interno del Csm, dove la sua collocazione fuori ruolo è passata a maggioranza ma dopo un dibattito acceso. Il ruolo a capo del Dap negli ultimi anni è diventato sempre più delicato: al centro, il problema della gestione dei detenuti, soprattutto di mafia. Il vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è una poltrona sempre più scomoda: da nomina delicata e molto ben retribuita ma interna al ministero della Giustizia, negli ultimi anni ha assunto connotati sempre più politici. Proprio la scelta del nuovo capo del Dap, dopo il pensionamento di Dino Petralia, è diventato argomento di scontro sia dentro la magistratura che tra i partiti di maggioranza. A suscitare polemica è stata la scelta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, del consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza vicino a Magistratura democratica, Carlo Renoldi. Sotto accusa sono finite le sue posizioni a favore della modifica dell’ergastolo ostativo e la sua visione critica rispetto ad alcune posizioni dell’antimafia e non sono bastati i suoi chiarimenti scritti inviati alla ministra per calmare lo scontro. La divisione al Csm - La nomina al Dap è di tipo fiduciario perché si tratta di un incarico dirigenziale interno al ministero e la scelta del candidato spetta alla ministra della Giustizia. Tuttavia, l’indicazione deve essere ratificata dal consiglio dei ministri e, se il nuovo capo è un magistrato, il Csm deve approvare la sua collocazione fuori ruolo. Questo passaggio normalmente è quasi un pro forma sulla base del principio di collaborazione tra amministrazioni, visto che si tratta di un incarico ministeriale. Invece, il Consiglio superiore della magistratura si è diviso su Renoldi, il cui collocamento fuori ruolo è avvenuto a maggioranza e dopo un dibattito acceso. Al momento del voto, gli astenuti sono stati i due togati di Autonomia e Indipendenza, Nino di Matteo e Sebastiano Ardita, e il consigliere laico in quota Movimento 5 Stelle, Fulvio Gigliotti, mentre ha votato contro il laico della Lega, Stefano Cavanna. Tecnicamente i consiglieri erano chiamati ad esprimersi sulla collocazione di Renoldi fuori ruolo e non sull’opportunità del nuovo ruolo che andrà ad assumere, invece il dibattito ha riguardato questo secondo aspetto. A motivare il suo voto contrario è intervenuto duramente Cavanna, che ha definito legittima la richiesta di “una fuoriuscita dalla giurisdizione per un magistrato richiesto dal Governo per svolgere funzioni fuori ruolo”, ma in questo caso “mi sembra doveroso fare anche una valutazione di opportunità, perché una figura di questo tipo non può che essere divisiva”. Quindi Cavanna ha spiegato il suo voto contrario dicendo di aver valutato “l’utilità per la magistratura ed i riflessi sulla sua immagine dello specifico fuori ruolo”. Non diverso è stato il ragionamento di Di Matteo, che ha spiegato la sua astensione dicendo che Renoldi “Per illustrare le sue legittime opinioni in materia di concedilità di benefici penitenziari anche ai condannati all’ergastolo cosiddetto ostativo, ha utilizzato toni e parole sprezzanti nei confronti di coloro i quali, altrettanto legittimamente, avevano assunto posizioni diverse”. Un comportamento, questo, che secondo Di Matteo “delegittima gravemente perfino il Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti”. Meno duro ma comunque astenuto è anche Ardita: “Premetto che sono contrario all’attenuazione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e non condivido le critiche espresse dal dottor Renoldi all’antimafia militante. Ma la realtà carceraria è come un edificio in fiamme. Dentro le carceri ci sono pezzi in cui non comanda lo stato”. Lo specchio della maggioranza - Proprio queste divisioni espresse dentro il Csm non fanno altro che alimentare lo scontro politico che già era sorto, al momento della proposta di Renoldi. Di più: la divisione dei laici del Csm ricalca esattamente quella politica interna alla maggioranza. In Consiglio il voto negativo (di astensione o contrario) al fuori ruolo è arrivato da Gigliotti del Movimento 5 Stelle e da Cavanna della Lega e proprio grillini e leghisti - insieme all’opposizione di Fratelli d’Italia - sono stati i più duri nell’attaccare la nomina di Cartabia. Da fonti ministeriali è emersa la ferma volontà della ministra di proseguire con la nomina, che è appunto considerata fiduciaria e dunque di stretta responsabilità della guardasigilli. Tuttavia, è sempre più probabile che la contrarietà politica di M5S e Lega verrà manifestata anche in sede di consiglio dei ministri, che deve ratificare la nomina. Incerto, invece, è se questo produrrà conseguenze sulla già traballante stabilità della maggioranza di governo. Le ragioni dello scontro - Ad alimentare lo scontro tra le parti è uno scontro che affonda in un dibattito mai risolto interno all’amministrazione della giustizia: il modo di intendere la lotta contro la mafia e, di conseguenza, la gestione del carcere e dell’espiazione delle pene. Renoldi ha una visione del carcere molto simile a quella di Cartabia, che ha sempre posto l’accento sulla sua funzione rieducativa come indicata dalla Costituzione. A partire da questo, l’ormai ex consigliere di Cassazione si era espresso in favore della decisione della Consulta di dichiarare incostituzionale l’ergastolo ostativo nella parte in cui crea un automatismo tra benefici penitenziari e collaborazione con la giustizia. Proprio su questo tema e dopo la sentenza, è incardinata alla Camera una proposta di legge di modifica dell’ergastolo ostativo nel senso di eliminare l’automatismo e attribuire la scelta di attribuire i benefici alla valutazione dei magistrati, pur sulla base di parametri rigidi. Inoltre, sotto accusa sono finite le parole di Renoldi che durante un convegno del 2020 aveva parlato di “antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”, che ricorda solo la risposta repressiva e dimentica che “l’affermazione della legalità non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Su questo, Renoldi ha tentato inutilmente di smorzare le polemiche con una lettera alla ministra in cui scrive: “Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia”, costato la vita a tanti “servitori dello Stato e non ho mai messo in dubbio la necessità dell’istituto del 41bis”. Però, ricorda Renoldi, la piaga della mafia non può “far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato”. Per Lega e Movimento 5 Stelle la nomina di Renoldi rimane “inopportuna” e Fratelli d’Italia ne ha chiesto il ritiro perché “manca solo la nomina a capo del Dap di un magistrato che ha sempre contrastato il carcere duro per i mafiosi per dare l’idea della resa della Stato”. Anche i sindacati di polizia si sono dichiarati scettici se non apertamente contrari alla scelta di Renoldi, visto che il capo del Dap è anche il vertice della polizia penitenziaria. Perchè un incarico delicato - Il Dap è il dipartimento in assoluto più delicato dei quattro che compongono il ministero della Giustizia. È stato istituito nel 1990, in sostituzione della precedente Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, e il suo vertice gode dell’indennità più alta all’interno del ministero. I compiti del Dap sono di garantire l’ordine e la sicurezza dentro ai penitenziari, sovrintendendo l’esecuzione della pena e delle misure di sicurezza detentive, oltre che delle misure alternative alla detenzione. Di fatto, dunque, gestisce la vita carceraria dei circa 60 mila detenuti e a quella professionale dei circa 40 mila agenti della polizia penitenziaria. Inoltre - e questo è il ruolo più delicato - dirige la polizia penitenziaria ed è il crocevia di tutte le informazioni anche legate alla pubblica sicurezza che arrivano da dentro le carceri. Esiste una sorta di prassi per la quale il vertice del Dap sia sempre un magistrato: è così dal 1983, quando è stato istituito il dipartimento. Tendenzialmente la qualifica preferenziale per ricoprire il ruolo è di aver svolto attività nell’Antimafia, ma in realtà non esiste alcuna norma che vieti di indicare avvocati, professori o garanti dei detenuti per il ruolo. Negli ultimi anni il ruolo è diventato sempre più delicato ed è stato al centro delle polemiche. Il caso più eclatante è avvenuto nel 2020, in piena pandemia e durante il mandato di Francesco Basentini, nominato nel 2018 dall’allora ministro Alfonso Bonafede. Basentini ha dovuto dimettersi in seguito alla gestione delle rivolte carcerarie di Modena e alle cosiddette “scarcerazioni facili” a causa del Covid e il suo posto è stato preso da Petralia. Il caso Di Matteo - Lo scontro politico più forte, tuttavia, ha riguardato Bonafede e Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm astenuto sulla nomina di Renoldi. Proprio dopo le polemiche sugli errori gestionali di Basentini, Di Matteo ha dichiarato che Bonafede aveva offerto a lui il posto al capo del Dap, ma che - dopo il suo sì - il ministro gliela aveva negata. Nel frattempo, dal gruppo operativo mobile arrivano informazioni alla procura nazionale antimafia di cui Di Matteo fa parte, che descrivono “la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e altri stragisti, all’indiscrezione che potessi essere nominato capo del Dap. Quei capimafia dicevano: “se nominano Di Matteo è la fine”, dice Di Matteo. L’allusione è che Bonafede abbia fatto il passo indietro sulla nomina perché era anche lui al corrente di queste informazioni, che erano state trasmesse anche al ministero, e che quindi temesse reazioni mafiose. Il ministro ha sempre negato questa ricostruzione e di non aver ricevuto alcuna pressione esterna contro la nomina di Di Matteo. Tuttavia, non è mai stato chiarito né perché Di Matteo abbia aspettato due anni - dal 2018 al 2020 - per raccontare questi fatti e la ragione della ritrattazione di Bonafede. Tuttavia, il caso Di Matteo dà la dimensione della delicatezza del ruolo al Dap, del perché sia così nevralgico e ambito ma anche perché politicamente è sempre più incandescente. Sì a un garantista al Dap, ma i duri e puri si indignano di Tiziana Maiolo Il Riformista, 10 marzo 2022 Il Plenum dà l’autorizzazione con l’astensione, prevista, dei pm Ardita e Di Matteo e del laico Gigliotti (5s) e il voto contrario di Cavanna (Lega). Ora la parola passa al Cdm e potrebbe non essere una formalità Nella foto in alto Sebastiano Ardita e Nindo Di Matteo. Parte già con una bella corona di spine sul capo, il magistrato Carlo Renoldi, cui il plenum del Csm a larga maggioranza ha autorizzato ieri la messa fuori ruolo e la nomina a direttore del Dap. Solo un piede nell’uscio per ora, in realtà, perché l’ultimo passaggio, quello dell’approvazione del Consiglio dei ministri, potrebbe non essere solo un fatto formale. Infatti, delle tre astensioni che non hanno consentito un voto unanime, oltre a quelle previste dei togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, l’altra è quella dell’esponente laico in quota Cinque stelle Fulvio Gigliotti. E soprattutto l’unico voto contrario, quello di Stefano Cavanna, indossa la felpa della Lega, e forse ha dato un voto contrario più al governo che alla persona di Renoldi, che si limita a definire “figura divisiva”, la cui nomina addirittura potrebbe secondo lui danneggiare la reputazione della magistratura “oggi ai minimi storici”. Ma anche in un ex partito leninista come la Lega non mancano le contraddizioni. Infatti ha votato a favore l’altro consigliere nominato nella stessa quota politica, Emanuele Basile, un avvocato di Lodi, ex parlamentare, che ha sempre manifestato posizioni opposte a quelle del chiudere la cella e buttare la chiave. I consiglieri Di Matteo e Ardita, il cui voto non favorevole a Carlo Renoldi era ampiamente previsto, non hanno nascosto un pensiero dominato da una storia che ha molto a che fare con la costruzione del “Processo Trattativa” e dell’antimafia militante. Percorsi che confliggono apertamente con i comportamenti, le parole e la giurisprudenza di molti giudici di sorveglianza. I quali, proprio come Carlo Renoldi, conoscono bene le carceri e hanno studiato le leggi che hanno riformato gli istituti di detenzione e introdotto il trattamento individuale di ogni prigioniero come base per quel percorso di cambiamento tanto caro alla ministra Cartabia. Questi magistrati in gran parte condividono la giurisprudenza della Corte Costituzionale degli ultimi anni e soprattutto quella della Cedu, a partire da quella “sentenza Viola” che per prima svincolò il superamento dell’ergastolo ostativo dalla necessità per il detenuto di diventare un “pentito” e confessare, più che i propri, i (presunti) reati altrui. Il “la” a Di Matteo e Ardita pare averlo dato un antico leader di Magistratura Democratica, Giancarlo Caselli, il quale, prendendo vistosamente le distanze da un magistrato di quella che fu la sua corrente quando ancora indossava la toga, ha lanciato dal Fatto quotidiano una sorta di ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. Due i destinatari, il Parlamento che sembra aver già recepito l’indicazione e marcia fiducioso nella direzione opposta a quella tracciata dalla Corte Costituzionale che aveva dato un anno di tempo per la riforma, e il Csm che si è riunito ieri. Per ora, possiamo dire che si sono comportati meglio i magistrati, che hanno già battuto i politici uno a zero. Anche se quelle tre astensioni e quel voto contrario pesano, eccome. Tagliente l’accetta con cui il dottor Ardita ha colpito, qualora ci fossero ancora dubbi, la possibilità di qualunque forma di attenuazione all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e l’ergastolo ostativo. Impressionante però la sua visione delle carceri. Che evidentemente non conosce, e che descrive come “un edificio in fiamme”, così composto: al vertice il 41-bis, ma alla base “ingovernabilità, inciviltà e mancanza di regole”. Forse è per questo che un sincero riformatore come Carlo Renoldi non sarebbe adatto per migliorare la situazione? O si deve dedurre che a parere del consigliere Ardita, ci vorrebbe una mano forte? Non un pompiere a spegnere l’incendio e salvare vite umane, ma qualcuno che quelle celle le tenga sempre ben serrate? La totale ignoranza di che cosa sia una prigione da parte dei magistrati (quasi tutti) è impressionante, e grave, soprattutto perché i pubblici ministeri e i giudici del settore penale sono quelli che vi mandano i cittadini, anche prima delle sentenze. Chi potrebbe mai sbattere dentro una cella anche il peggior nemico sapendo di mandarlo in luoghi ingovernabili e incivili, addirittura palazzi in fiamme? Lo stesso ex magistrato Caselli, in quell’articolo sull’ergastolo ostativo, ricordava i suoi due anni di permanenza al Dap come il periodo più difficile della sua vita in toga. Eppure era stato un prestigioso procuratore. Evidentemente non si era mai posto il problema. Come del resto il consigliere Nino Di Matteo, che ancora una volta si è dimostrato il più politico, nella seduta di ieri. Già il mancato voto contrario è un segnale di capacità di incuriosire, di farsi ascoltare. Si è posto come leader e ha fatto un discorso da leader. Con una certa astuzia ha sostenuto prima di tutto di essere consapevole del fatto che il suo collega aveva tutte le carte in regola per avere la nomina alla direzione del Dap. “Ma ciò non si realizzerà anche con il mio voto”, ha poi buttato lì. Fare pure, ma non nel mio nome. Più politico di così. Poi è riuscito in un abile gioco di prestigio. Un po’ come quelli che usano la perifrasi negativa per lanciare contumelie: non dirò mai che il tale è un delinquente... e intanto l’hanno detto. Così Di Matteo sostiene che la sua contrarietà alla nomina di Renoldi è più un fatto formale che sostanziale. Cioè della persona non gli danno fastidio tanto i suoi pensieri, la sua visione della giustizia e del carcere, ma il modo in cui li manifesta. Così, nel frattempo, è riuscito a elencare per esempio, nel modo più demagogico possibile, la critica all’ “antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”, sapendo che l’argomento ha molta presa, soprattutto se ricordato sui quotidiani del giorno successivo. Ma astutamente eludendo il concetto della frase completa, quella in cui Renoldi diceva che delle vittime di mafia come Falcone e Borsellino non si ricordava mai niente di quel che erano stati e avevano fatto, ma li si usava solo come immaginette. Strumentalmente. Perché “vengono ricordati esclusivamente per il sangue versato e per la necessaria esemplarità della reazione contro un nemico irriducibile”. Queste frasi, uno come Di Matteo le ha capite molto bene, e sa che sono una critica non all’antimafia in generale, ma alle modalità con cui sono stati condotti in tutti questi anni i processi in Sicilia, peraltro con esiti disastrosi proprio per quelli come lui. Sono frasi che gli bruciano per il loro contenuto profondo, e anche per la consapevolezza di aver perso tante battaglie. Renoldi è un magistrato di sinistra un po’ vecchio stampo, come il suo maestro Margara, che era tutt’altro che arrogante. Pure è questo il concetto con cui il consigliere Di Matteo ha tentato di demolire la figura del futuro presidente del Dap, descritto come arrogante, come uno “che usa toni e parole sprezzanti nei confronti di chi non la pensa come lui”. La corona di spine è pronta. Vedremo ora se la ministra Cartabia riuscirà a togliergliela senza pungersi a sua volta. Csm, Di Matteo si astiene sull’ok a Renoldi al Dap di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2022 “Ha delegittimato con parole sprezzanti persone e istituzioni che meritavano rispetto”. L’ex pm antimafia ha pronunciato un duro intervento durante il plenum chiamato a dare il via libera al collocamento fuori ruolo del giudice di Cassazione scelto dalla Guardasigilli Marta Cartabia per il vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: l’ok è arrivato con un voto contrario e tre astenuti. “Sono perfettamente consapevole che non sussistono formali motivi ostativi all’autorizzazione, ma non si realizzerà anche con il mio voto”, ha detto. “Non posso in coscienza esprimere voto favorevole all’autorizzazione al collocamento al vertice del Dap di un collega che in occasioni pubbliche ha dimostrato pervicace e manifesta ostilità nei confronti di ambienti e soggetti, anche istituzionali, che avrebbero quantomeno meritato un diverso rispetto”. È la dura conclusione dell’intervento di Nino Di Matteo al plenum del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a dare il via libera al collocamento fuori ruolo di Carlo Renoldi, il giudice di Cassazione scelto dalla Guardasigilli Marta Cartabia per succedere a Dino Petralia al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Una nomina che ha creato malumori all’interno di vari partiti della maggioranza, perché Renoldi - esponente di Magistratura democratica - è stato estensore di sentenze delicate, come quella che apriva ai colloqui via Skype per i mafiosi detenuti al 41bis. E soprattutto perché sono tornate a galla alcune sue passate dichiarazioni pubbliche, come quelle in cui definiva la certezza della pena un “mito reazionario” o criticava “l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”. Le polemiche avevano costretto Renoldi a rivolgersi per lettera alla ministra, sostenendo che le frasi fossero state “fraintese” ed “estrapolate” assicurando di non aver mai avuto “minimamente intenzione di sottovalutare la gravità del dramma della mafia”. “Sono perfettamente consapevole che non sussistono formali motivi ostativi all’autorizzazione” dell’assunzione dell’incarico da parte di Renoldi - ha esordito Di Matteo in plenum - “ma ciò non si realizzerà anche con il mio voto. Esprimerò una posizione di astensione e voglio spiegarne le ragioni. Non sono certamente legate al merito, che pur personalmente non condivido, delle opinioni espresse dal dottor Renoldi in tema di applicazione delle norme previste dagli artt. 4 bis (che disciplina l’ergastolo ostativo, ndr) e 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, né, tantomeno, al merito di provvedimenti adottati dal collega nell’esercizio di funzioni giurisdizionali. Le forti perplessità che impediscono alla mia coscienza di votare a favore”, spiega l’ex pm antimafia, derivano invece proprio “da talune sue esternazioni pubbliche. Per illustrare le sue legittime opinioni, in particolare in esito a ripetuti interventi della Corte Costituzionale in materia di concedibilità di benefici penitenziari anche ai condannati all’ergastolo c.d. “ostativo”, il dottor Renoldi ha utilizzato toni e parole sprezzanti nei confronti di coloro i quali, altrettanto legittimamente, avevano assunto posizioni diverse dalle sue, arrivando a delegittimare gravemente perfino il Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti”. Renoldi, prosegue Di Matteo, “ha parlato (leggo testualmente) di “spinte reattive di segno assolutamente opposto che convergono sinistramente verso l’idea di una chiusura rispetto alle istanze provenienti dal mondo dei detenuti”. Ha poi meglio specificato il concetto individuando l’origine di tali “spinte reattive sinistramente convergenti” nel Dap, indicato genericamente e senza alcun distinguo come “profondamente ostile al cambiamento” e (leggo sempre testualmente) “in alcuni ambienti dell’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri che vengono ricordati esclusivamente per il sangue versato e per la necessaria esemplarità della reazione contro un nemico irriducibile”. Nel precisare ulteriormente che con l’espressione antimafia militante aveva inteso riferirsi ad associazioni, movimenti, testate editoriali ed anche ad ambienti e soggetti istituzionali, il dottor Renoldi ha definito almeno alcune parti di tale “antimafia” come esempio di “ottuso giustizialismo” bollando ancora la costante invocazione da più parti del rispetto del principio di certezza della pena come esplicativa di un (cito testualmente) “vecchio retribuzionismo da talk show”. Per queste ragioni Di Matteo ha annunciato la propria astensione: l’autorizzazione è stata approvata dal plenum con tre astenuti (Di Matteo, il consigliere togato Sebastiano Ardita e il laico Fulvio Gigliotti) e un solo contrario. Nella città di Basaglia emerge il caso dell’impunità di un delitto di Franco Corleone Messaggero Veneto, 10 marzo 2022 È davvero una felice coincidenza che proprio a Trieste, la città conosciuta nel mondo per l’esperienza basagliana, divenga di attualità la presenza nel codice penale della incapacità di intendere e volere a cui segue il proscioglimento e infine la statuizione della pericolosità sociale e il ricovero in una Rems, la struttura per l’esecuzione della misura di sicurezza. Il caso nasce nell’ottobre 2019 nei locali della Questura nei quali Àlejandro Stephan Meran uccise a colpi di pistola due poliziotti, Pierluigi Rotta e Matteo Demenego. Il Codice Rocco, fondamento dello stato fascista e colpevolmente ancora in vigore, prevede che una persona che compie un reato essendo, al momento del fatto, incapace di intendere e volere non sia sottoposto a processo. Ora dopo molto tempo dal fatto una perizia asserisce quella condizione di impunità. Molti studi mettono in luce la non scientificità della perizia e il carattere imponderabile della definizione di pericolosità sociale affidata alla psichiatria. Una precedente perizia aveva detto il contrario. Toccherà alla Corte d’Appello di Trieste decidere. Il contrasto tra due perizie si verificò anche in Norvegia per la strage con settantasette vittime compita nel 2011 da Anders Breivik, estremista nazista e razzista. La Corte optò per l’affermazione della responsabilità penale e condannò l’assassino al massimo della pena (in Norvegia non è infatti prevista la pena dell’ergastolo). Negli anni novanta presentai due proposte per eliminare il cosiddetto doppio binario del Codice Rocco del 1930 con lo scopo di cancellare le misure di sicurezza che si eseguivano nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Finalmente gli Opg sono stati chiusi nel 2017, ma è rimasta la costruzione dell’incapacitazione del malato di mente. La Società della Ragione ha elaborato con giuristi, psichiatri e esponenti delle associazioni impegnate in questa campagna di civiltà, una nuova e aggiornata proposta di riforma in due seminari nel settembre del 2020 e del 2021 a Treppo Carnico. Sul muro dell’ex manicomio di Trieste campeggiava la scritta “la libertà è terapeutica”, richiamando quello slogan io sostengo che anche “la responsabilità è terapeutica”. In quasi tutte le patologie psichiatriche permane un margine di consapevolezza che deve essere riconosciuto e rispettato, proprio per dare alla persona la possibilità di una assunzione di responsabilità per l’atto compiuto. Il diritto al processo è fondamentale anche perla persona con disturbi mentali per l’elaborazione del delitto mentre il proscioglimento resta una decisione incomprensibile che non fa chiarezza. Anche le vittime e i famigliari hanno bisogno di una verità che sani la ferita subita. Questa strada non comporta necessariamente una esecuzione della pena in carcere. Infatti la proposta numero 2939 presentata dal deputato Riccardo Magi prevede misure alternative ad hoc, con l’obiettivo di tenere insieme diritti e bisogni di cura. La rivoluzione che abbiamo compiuto con la chiusura del manicomio giudiziario ha bisogno di una riforma radicale che superi le contraddizioni presenti. Mi auguro che nella tragedia di Trieste prevalga la giustizia. Armando Spataro: “Giusto che l’avvocatura giudichi noi pm, ora però il rispetto sia reciproco” di Errico Novi Il Dubbio, 10 marzo 2022 “Sì che serve, la collaborazione. È preziosa, e credo molto nell’idea che una maggiore condivisione, nell’autogoverno, fra magistratura e avvocatura possa consentire anche una difesa della giustizia più efficace. Nel senso di poterne tutelare l’autonomia da eventuali sconfinamenti della politica. In nome di tale scenario condiviso, trovo giusta la norma che prevede la possibilità per l’avvocatura, nei Consigli giudiziari, di partecipare alle valutazioni della professionalità dei magistrati. Vorrei solo che l’apertura fosse reciproca. Che anche ai magistrati fosse consentito di partecipare ad alcune delle decisioni delle istituzioni forensi, innanzitutto sulla formazione, che deve essere in gran parte comune”. Armando Spataro è una figura chiave nell’ordine: della magistratura inquirente (da ultimo come procuratore di Torino), dell’autogoverno della magistratura (ha fatto parte del Csm) e dell’associazionismo giudiziario (è stato ai vertici dell’Anm e leader della corrente “Movimento per la giustizia”). Soprattutto, Spataro va annoverato, con Bruti Liberati e Pignatone, in una ristrettissima élite di pm che hanno diretto le più importanti Procure d’Italia negli ultimi anni. Ed è, come gli altri due magistrati in questione, più aperto, di quanto non sia l’attuale Anm, alla riforma che riconosce agli avvocati il diritto di votare sulle “promozioni” dei magistrati, contenuta nella riforma del Csm. Ma lo è in una prospettiva di schietta reciprocità, appunto, con l’avvocatura. Intanto, lei è d’accordo sull’idea di un governo della giustizia condiviso fra magistrati e avvocati e, nello specifico, sul voto del Foro nei Consigli giudiziari? Sono d’accordo perché sono convinto che la giustizia vada difesa insieme. Ricordo che le richieste avanzate negli anni scorsi dall’avvocatura istituzionale, e innanzitutto dal Cnf già col presidente Mascherin, guardavano proprio a una difesa comune della giustizia nella sua autonomia anche rispetto ai condizionamenti della politica. Ma mi pare che la prospettiva richieda una volta per tutte reciprocità effettiva. Cosa intende dire? Che non è comprensibile, per esempio, una richiesta di partecipazione piena degli avvocati ai Consigli giudiziari in costanza di un attacco continuo di molti tra loro, e in particolare dell’Unione Camere penali, al presunto strapotere dei pm. Non c’è alcuno strapotere. Certamente esiste l’esercizio di un potere molto incisivo, qual è quello di richiedere misure cautelari. Ma siamo parti del processo, e soprattutto il nostro sistema di intercambiabilità fra le funzioni requirenti e giudicanti è apprezzato in tutta Europa, in formali risoluzioni, proprio perché permette passerelle tra le une e le altre. Lì dove la magistratura requirente è separata dai giudici, è anche assoggettata al controllo dell’esecutivo, tranne che in Portogallo. Non mi pare una prospettiva auspicabile, e vedo come anche il professor Coppi si sia dichiarato contrario alla separazione delle carriere in nome delle maggiori garanzie per i cittadini che l’attuale sistema consente... Ma troppo spesso i gip, per esempio, sembrano appiattiti sulle scelte dei pm: non è così? Senta, non è possibile considerare singoli casi come emblematici di comportamenti dell’intera magistratura. Certo che possono esserci specifiche criticità nelle valutazioni dei giudici. Ma quei casi riguardano l’intera magistratura giudicante? Non credo proprio. E poi la frequente convergenza riscontrabile fra gip e pm potrebbe spiegarsi in modo rovesciato. Com’è possibile? La quasi totalità dei giuristi sostiene che è meglio se il pm condivide col giudice la cultura della giurisdizione, e quindi chiedo: davvero si può escludere che gip e pm si trovino spesso d’accordo non perché il giudice è appiattito sull’inquirente ma perché l’inquirente è spesso in grado di condividere quella cultura? Torniamo al no dell’Anm sui Consigli giudiziari: insistono nel prefigurare un uso “vendicativo” delle valutazioni sui magistrati... Io chiedo ai colleghi di affrancarsi da timori del genere. Di convincersi che è importante, per la magistratura, accettare una graduazione nei giudizi, come previsto dalla riforma. Non è pensabile che dal sistema delle valutazioni esca un risultato in cui tutti i giudici e tutti i pm risultano bravi alla stessa maniera. Non va bene anche in vista degli incarichi direttivi. E aggiungo, sempre rivolto ai colleghi, l’invito a considerare utile il contributo valutativo dell’avvocatura. A maggior ragione visto che la norma, come formulata nell’emendamento governativo, supera con due soluzioni efficaci il rischio di soggettivizzare le scelte del Foro nei Consigli giudiziari. Si riferisce alla modifica prevista dal maxiemendamento Cartabia? Sì, una revisione dell’articolato che è stata oggetto nei giorni scorsi di una mia audizione in commissione Giustizia alla Camera, e che nel complesso mi pare apprezzabile. Nello specifico, la norma che riconosce agli avvocati il diritto di partecipare alle deliberazioni in merito alle valutazioni di professionalità dei magistrati prevede due condizioni. La prima è che quel diritto di voto sia possibile purché il Consiglio dell’Ordine forense abbia esercitato la propria prerogativa di inviare segnalazioni, su quel magistrato, al Consiglio giudiziario. La seconda è che il voto di tutti gli avvocati che fanno parte dell’organismo debba essere unitario. Così si evita in modo efficace il rischio, esageratamente paventato, che il singolo avvocato possa essere orientato nel voto in base a ragioni di precedenti contrasti in un processo con pm o giudici. Lo ripeto ancora una volta: sono stato avvocato, prima del concorso in magistratura, mio figlio era avvocato, e ho un rispetto evidentemente profondo per la funzione del difensore. Sono convinto che la collaborazione con l’avvocatura possa essere una strada utile per il futuro della giustizia. Ma come può avvenire questo, se l’avvocatura continua a radicalizzarsi in certe posizioni? Non le sembra che il dialogo costruito in questi anni fra istituzioni forensi e magistratura confermi già lo spirito di cui lei parla? Io da procuratore di Torino ho tenuto solo tre conferenze stampa, e una di queste era congiunta con l’Ordine degli avvocati. Ho sempre ascoltato e richiesto le osservazioni avanzate dai presidenti del Coa in materia organizzativa. Ma vogliamo parlare del referendum? Cosa non le piace, della linea assunta sul referendum dagli avvocati? Mi aspetterei una posizione apertamente contraria al quesito sulla separazione delle funzioni che, concepito in quella forma, porta in realtà a scindere definitivamente le carriere. Ma mi sarei aspettato meno passività dell’avvocatura, a essere sincero, anche sul cosiddetto sorteggio per la formazione del Csm. Una ipotesi incostituzionale e offensiva, che temo sarà riproposta a breve da varie forze politiche con altri emendamenti. La riforma del Csm è efficace nel rimediare alle distorsioni sperimentate di recente? Nel complesso mi sembra di sì. Riguardo ai dettagli, ho fatto numerose osservazioni a Montecitorio, ma ribadisco il giudizio positivo sulle valutazioni di professionalità, inclusa l’articolazione graduata del giudizio. Apprezzo molto il presidente dell’Anm Santalucia, conosco la serietà delle sue analisi, ma non credo sia da temere quell’ansia competitiva che lui intravede come conseguenza delle valutazioni graduate. Sono soddisfatto che sia scomparso il sorteggio anche nella formazione delle commissioni interne al Csm, condivido le novità sul disciplinare, trovo il sistema elettorale certamente complesso ma nell’insieme abbastanza equilibrato. Possiamo dire che dietro Palamara c’era una tendenza generale all’autoreferenzialità, e che insomma non era lui l’unico problema? Io continuo a rifiutarmi di esprimere considerazioni sul caso Palamara. Se non fosse per la seguente osservazione di carattere generale: ci sono quasi 10mila magistrati, in Italia, e davvero pensiamo che il comportamento di 20 persone o poco più su 10mila attesti una distorsione presente in tutta la magistratura? Davvero credete che dietro ogni contatto di un magistrato con un togato Csm ci sia l’illecito? Come si fa, a proposito del rapporto fra giudici e pm, quando i primi accolgono le tesi dei secondi, a sostenere che ciò derivi da un appiattimento culturale dei giudici sul ruolo dei pm? Borrelli, me lo consenta, parlava in proposito di “diffidenze plebee”! Mi piacerebbe che anche su questo si costruisse una nuova fase di verità sulla magistratura e sulla giustizia, e anche un più solido rapporto con gli avvocati, i quali dovrebbero interrogarsi sulle criticità che anche al loro interno spesso si manifestano. Abbiamo bisogno di collaborare, di camminare insieme. Ma devono farlo sul serio tutte e due le parti. Politici ineleggibili alla Consulta, spunta la norma anti-Amato di Stefano Iannaccone La Notizia, 10 marzo 2022 Alternativa propone una legge contro le porte girevoli. Pure per chi fa il percorso inverso, come la Cartabia. Mai più Giuliano Amato show, che sale in cattedra a impartire lezioni, nelle vesti di presidente della Corte costituzionale. Né possibili tentativi di fare politica, usando il trampolino di lancio della Corte costituzionale, in stile Marta Cartabia. È questo l’obiettivo di chi mira a ridisegnare la Consulta, di recente protagonista di scelte cruciali, come quelle del no ai referendum sull’eutanasia e all’altro sulla legalizzazione della cannabis. Ma anche del contestuale via libera alle consultazioni sulla Giustizia La proposta di legge costituzionale è stata presentata alla Camera da Andrea Vallascas, deputato della componente l’Alternativa. La volontà è chiara: evitare che ex politici possano cercare di finire la loro carriera all’interno dell’organismo. L’idea alla base, dunque, è quella di porre fine al fenomeno delle porte girevoli tra politica e Corte. La proposta prevede alcuni semplici paletti. Su tutti l’ineleggibilità a vita per gli ex parlamentari ed ex consiglieri regionali. Mentre chi è stato giudice della Corte costituzionale, non potrebbe candidarsi per cinque anni dalla fine del mandato. L’iniziativa sarebbe quindi estesa anche a chi ha ricoperto incarichi governativi. Così, stando sul concreto, Amato non sarebbe mai diventato giudice, né tantomeno presidente della Consulta, e Cartabia non avrebbe potuto accettare l’incarico da ministra della Giustizia. Magari meditando un futuro politico. Inoltre, tra i componenti attuali della Corte, secondo la proposta, nemmeno Augusto Barbera sarebbe stato eleggibile: ha ricoperto il ruolo di parlamentare, più volte, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta. “Dobbiamo evitare che la politica si ricicli nella Corte, la cui importanza è sempre più centrale nella democrazia italiana come abbiamo visto con gli ultimi pronunciamenti”, dice Vallascas a La Notizia. L’idea è nata dopo che “abbiamo condiviso la posizione di vari giuristi su uno spostamento di sentenze che fanno prevalere un sentiment politico rispetto alla procedura tecnica”. Il testo depositato a Montecitorio sottolinea come questa tendenza sia “emersa in più circostanze e, in particolare modo, in occasione delle decisioni prese sulle materie elettorali”. Un riferimento all’impatto sulle leggi elettorali, che spesso sono state smantellate dalle sentenze. Ma la molla è sicuramente scattata dinanzi all’irrituale conferenza stampa di Amato nelle scorse settimane, quando è sembrato più politico che presidente della Consulta. “Amato molto amato da Berlusconi - incalza Vallascas - non ha smentito le sue origini. La prima mossa della Corte Costituzionale sui referendum sulla giustizia, danno una chiara idea del suo orientamento, ne sono stati approvati cinque su sei. Sulla giustizia l’unico bocciato è quello sulla responsabilità civile dei giudici”, attacca Vallascas. Da qui la spinta ad escludere l’eleggibilità degli ex onorevoli. Dal punto di vista tecnico, la nuova Corte sarebbe costituita da 21 giudici rispetto agli attuali 15. Secondo l’iniziativa di Vallascas, 6 sarebbero di nomina parlamentare (più uno spettante al Presidente della Repubblica), 7 dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative e altri 7 dalle professioni. “La politica - insiste il deputato di Alternativa - potrebbe affidarsi a profili ritenuti all’altezza, ma senza che abbiano precedentemente ricoperto incarichi elettivi”. “Assolti ma comunque colpevoli per la stampa: è ora di dire basta” di Simona Musco Il Dubbio, 10 marzo 2022 La denuncia dei difensori di Peppino Falvo, uno dei cinque imputati assolti a Milano nel processo “Krimisa” su un presunto voto di scambio. “Ci sono delle assoluzioni con formula piena, perché il fatto non sussiste, il massimo di quello che si può ottenere. Ma i giornali continuano a trattare gli assolti come colpevoli, sostenendo che l’hanno fatta franca per una manciata di giorni: la legge, a loro dire, non esisteva all’epoca. Ma oltre a non essere vero, questo giudizio arriva in assenza di una motivazione e per persone dichiarate innocenti”. A parlare sono Ramona Gualtieri e Gabriele Maria Vitiello, difensori di Peppino Falvo, ex coordinatore regionale dei Cristiano Democratici, uno dei cinque imputati assolti a Milano nel processo “Krimisa” su un presunto voto di scambio. Un’assoluzione che, però, non basta a lavare via l’onta dell’accusa, spiega Gualtieri, dal momento che secondo alcuni articoli di stampa a salvare gli imputati sarebbe stato la circostanza che i fatti, all’epoca in cui sarebbero stati “commessi”, non avrebbero rappresentato un reato. Ovvero nel 2014, prima delle modifiche introdotte nel 2014 all’articolo 416 ter, quello che punisce lo scambio politico-mafioso. “La verità non è affatto questa - spiegano -, in quanto già prima di allora lo scambio veniva punito, ma gli elementi costitutivi del reato erano diversi. Ciò che viene scritto è, perciò, del tutto infondato”. E si basa solo su un fatto: nel dispositivo della sentenza di assoluzione, affermano i due difensori, nonostante sia specificato che il fatto non sussiste, “il giudice ha indicato esplicitamente “così come commesso in data antecedente al 18 aprile 2014”“. Quanto basta per far dire alla stampa che sì, il reato non sussiste, ma comunque è stato commesso. “La formula utilizzata presuppone che il giudice non abbia ravvisato gli elementi a sostegno dell’accusa e non c’è possibilità di interpretazione alternativa - sottolineano -, sin dall’origine viene dunque negata l’ipotesi accusatoria. Ma nel contempo, senza attendere alcuna motivazione da parte del giudice, i giornali hanno dato una notizia errata, continuando ad additare le persone coinvolte nel procedimento come colpevoli”. Su questa vicenda sarebbe già pronta un’interrogazione alla ministra. Ma nel frattempo a indignare la difesa è l’idea che si possa violare la presunzione di innocenza perfino quando l’innocenza è stata certificata da una sentenza. “Le motivazioni dovranno chiarire necessariamente questo aspetto - concludono - ma ciò che è chiaro, allo stato attuale, è che viene completamente esclusa l’ipotesi che gli imputati abbiano commesso quel reato. Questa vicenda ha condizionato molto la vita del nostro assistito, finito anche in un servizio di Report che fu usato dall’ufficio di procura come prova. È ora di dire basta a queste anomalie”. Emilia Romagna. Buoni risultati con la campagna di vaccinazione fra i detenuti ravennawebtv.it, 10 marzo 2022 Il 64% di chi ha trascorso anche un solo giorno in carcere in Emilia-Romagna ha ricevuto almeno una dose di vaccino anti Covid. Sempre al capitolo “salute” salta all’occhio come al 38% dei reclusi vengano prescritti ansiolitici, al 17% antidepressivi, al 19% antipsicotici e al 18% ipnotici. Al 31 dicembre 2021, lungo la via Emilia persiste un sovraffollamento carcerario: le strutture esistenti potrebbero ospitare al massimo 2.998, i reclusi sono 3.281, di cui 141 donne e 1.560 stranieri. E’ questo il quadro sulla situazione nelle carceri emiliano-romagnole che è emerso nella relazione annuale presentata oggi in Assemblea legislativa da Marcello Marighelli, Garante uscente per i detenuti. “Le condizioni di vita delle persone detenute negli istituti di pena risentono delle condizioni degli edifici e della disponibilità di spazi per il lavoro, le attività culturali, sportive e ricreative e della disponibilità di aree verdi per la permanenza all’aperto. Inoltre, lo scarso rispetto del principio di territorialità nell’esecuzione della pena produce diverse difficoltà, sia nella vita quotidiana delle persone allontanate dai propri riferimenti famigliari sia rispetto alle possibilità di inserimento socio lavorativo o di accesso a una assistenza sanitaria che comporti la necessità di accoglienza in strutture residenziali”, spiega Marighelli che ricorda come “permane anche il problema dell’alto numero di detenuti assegnati agli istituti di Parma e di Reggio Emilia (in generale si registra nel 2021 in Emilia-Romagna un aumento del numero di detenuti, anche stranieri, in diversi istituti il tasso di sovraffollamento è stato sforato). Anche le condizioni dei servizi igienici a disposizione delle persone detenute nei diversi istituti della regione non sono buone (gli edifici del carcere di Reggio Emilia sono in pessime condizioni, con importanti infiltrazioni d’acqua piovana dalle coperture, incuria nei passeggi e nelle docce comuni; nella sezione femminile di Modena manca l’acqua calda nelle celle, mentre le docce al primo piano sono attualmente inagibili)”. Marighelli, inoltre, ha parlato delle misure alternative al carcere: “In Emilia-Romagna l’accesso all’insieme delle misure alternative ha registrato di anno in anno numeri in crescita, sia per le persone condannate sia per gli imputati, per coloro che sono sottoposti alla misura di sicurezza non detentiva e per chi accede ai lavori di pubblica utilità”. Il Garante ha poi riferito di avere partecipato alla commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla ministra Cartabia (la Ministra della Giustizia ha costituito una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, ndr): “Ho quindi parlato- ha rimarcato- dei ritardi nell’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, in particolare per quanto riguarda il lavoro dei detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e le criticità del centro clinico del carcere di Parma e dell’articolazione per la salute mentale di Reggio Emilia”. Ha citato gli episodi dell’8 marzo 2020 nel carcere di Modena: “L’amministrazione penitenziaria deve ricercare cosa nell’organizzazione del sistema penitenziario manca, anche per contrastare situazioni di rischio, ma anche per fermare il declino di un carcere che in questa fase di pandemia è stato costretto a momenti di sola contenzione e ora fatica a riaprirsi”. La relazione delle attività 2021 è stato anche il momento per un bilancio più complessivo dell’attività del Garante Marighelli nel corso dei 5 anni del suo mandato in Regione: “Ho voluto -spiega- garantire i diritti costituzionali, i diritti umani ma anche quelli di cittadinanza garantendo anche ai detenuti l’accesso ai servizi territoriali, in primo luogo quello al servizio anagrafe per vedersi riconosciuti il diritto alla residenza che è prioritario per il diritto alla salute”. Un carnet di iniziative ricco e segnato da una forte presenza negli istituti di pena, sia come iniziative di formazione che culturali. Il Garante, nel corso del quinquennio, ha ricevuto 1.035 richieste di intervento, ha incontrato 389 detenuti e svolto 125 accessi al carcere. Da segnalare l’attività durante il periodo straordinario del primo lockdown del 2020, quando Marighelli ha svolto 52 videochiamate, essendo impossibile tenere i colloqui in presenza a causa delle norme sul distanziamento sociale. L’attività del Garante ha anche puntato molto alla formazione del personale e al recupero dei detenuti anche con mirati progetti per contrastare tanto le violenze di genere quanto il radicalismo. Le parole di Marighelli sono state a vario titolo commentate dai gruppi assembleari. “Le nostre carceri rischiano il collasso, serve ripensare le stesse strutture correttive: ringrazio Marighelli per il prezioso lavoro svolto e la sua relazione”, ha spiega Fabio Bergamini (Lega), mentre Valentina Stragliati (Lega) ha sottolineato come “alla parola diritti bisogna sempre affiancare la parola doveri: è un diritto dei cittadini onesti vivere in sicurezza, così come è un diritto per chi ha scontato una pena uscire e riprendere una vita corretta. Purtroppo questo nella maggior parte dei casi non avviene: l’Italia ha uno dei tassi di recidiva più alti in Europa, quindi non funziona la rieducazione in carcere”. Dal canto suo Antonio Mumolo (Pd) ha ringraziato il Garante Marighelli e sottolineato come “l’emergenza da Coronavirus ha ridotto i diritti, anche sanitari, dei detenuti. Il sovraffollamento carcerario e la carenza di personale medico-sanitario sono un serio problema, anche nelle carceri minorili come sta avvenendo al carcere del Pratello di Bologna: si vuole passare da 25 a 50 posti per accogliere anche i detenuti che vengono da altre regioni, spero che questo non avvenga”. “Ringrazio il Garante Marighelli per il suo lavoro che ci dimostrano come ci sia molto da fare per affermare l’articolo 27 della Costituzione che prevede la pena non solo come reclusione ma occasione di recupero”, ha spiegato Federico Alessandro Amico (ER Coraggiosa) che ha ricorda come “serve più personale, non solo quello della polizia penitenziaria, e bisogna operare per aumentare le attività di formazione lavoro e quelle occupazionali”. Nel suo intervento Marco Lisei (Fdi) ha avuto parole dirette per il personale della polizia penitenziaria: “Spesso è dimenticato, serve più personale, serve più sostegno e più formazione: registriamo sempre più violenze ai danni del personale di polizia penitenziarie, in pochi anni sono triplicate le violenze ai danni degli agenti”. Parole a cui ha replicato Silvia Zamboni (Europa Verde): “È opportuno fare un quadro complessivo della situazione carceraria”. Modena. Trauma al volto e 2 denti rotti: il mistero del decesso di Hadidi, morto a S. Anna di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 10 marzo 2022 Ufficialmente il detenuto, due anni fa, fu vittima di overdose: caso archiviato senza autopsia. Ma il medico legale del Garante scrive che subì una violenta contusione in faccia. Due anni fa la rivolta nel carcere di Sant’Anna conclusasi con un incendio, devastazioni e nove detenuti morti e presunti pestaggi brutali. L’inchiesta sui responsabili della sommossa che quella domenica tenne sotto scasso il carcere è ancora in corso: la proroga concessa alla Procura scadrà in giugno: indagati sono più di settanta detenuti. Anche l’inchiesta per tortura sui presunti pestaggi denunciati dai detenuti è in corso. È chiusa solo l’indagine sui 9 morti. Archiviata. Anche se l’associazione Antigone e l’avvocato Luca Benedetti per i familiari di una vittima (Hafedh Couchane) si sono rivolti alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo contro l’archiviazione che ritengono frettolosa e inadeguata a fatti così gravi. Intanto continuano le ricostruzioni da parte di associazioni politiche e per i diritti dei detenuti. Tra questi, il sito carmillaonline.com che ha appena pubblicato una dettagliata sintesi di quanto finora emerso sulla morte di due degli otto detenuti, ufficialmente vittime di overdose di metadone e psicofarmaci. La documentazione di Ghazi Hadidi, tunisino morto durante il trasporto a Trento, mostra lati che restano totalmente nell’ombra nella ricostruzione delle autorità. Se il referto della morte indicava: “Non evidenti segni esterni di violenza”, il 26 marzo il medico legale indicava che in bocca c’era sangue e mancavano due denti: “In corso di ispezione esterna del cadavere sono state riscontrate multiple e diffuse escoriazioni a livello dell’addome e dei quattro arti, nonché avulsione degli elementi dentari 2.2 e 2.3. Tali lesioni sono da ricondurre ad azione lesiva di un corpo contundente”. Nonostante questa analisi, la Procura di Verona ha deciso di non fare l’autopsia ordinando una semplice ispezione esterna del corpo e un esame tossicologico (che comproverà la morte da overdose). Ma quei segni di violenze alla faccia e i due denti mancanti vengono presi seriamente da parti terzi che chiedono la verità. L’anatomopatologa Cristina Cattaneo docente dell’Università di Milano, consulente del Garante dei detenuti, scrive: “È dunque palese che Hadidi poco prima di morire aveva subito un trauma contusivo al volto di non scarsa entità vista l’avulsione di ben due denti. Risulta fondamentale chiedersi se non vi fosse stato anche un trauma encefalico. Un trauma al volto - è la motivazione addotta dalla specialista - può condurre ad una commozione cerebrale o peggio ad un’emorragia cerebrale, che a sua volta può portare al decesso in un arco di tempo anche di ore, con sintomi e segni confondibili, ad occhi non esperti, con quelli dell’intossicazione”. Le indagini di polizia non riportano niente di tutto questo. Anzi. Secondo un agente ascoltato, “il detenuto Hadidi non presentava alcun problema in viso, nessuna contusione o tracce che potessero farmi pensare ad una colluttazione nella quale potesse essere rimasto coinvolto, anzi, mi sembrava molto tranquillo visto che, come ben ricordo, addirittura fumava tranquillamente”. Roma. La situazione delle carceri dopo due anni di pandemia si è aggravata radiocolonna.it, 10 marzo 2022 La Garante “così lo Stato non cura”. La situazione delle carceri e dei detenuti di Roma, dopo due anni di pandemia, si è aggravata. “Dobbiamo ammettere che il carcere difficilmente cura”, è l’allarme lanciato dalla Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, oggi ascoltata nel corso della commissione Politiche sociali capitolina, presieduta dalla consigliera del Pd, Nella Converti. “Dal marzo del 2020 a oggi sono state interrotte tutte le attività, gli unici che potevano entrare in carcere eravamo io e il prete, ci andavamo ogni mattina, eravamo gli unici punti di riferimento per le relazioni con il mondo esterno e le famiglie”, ha spiegato la Garante. “Quando sono aumentati i contagi abbiamo dovuto aprire anche padiglioni inutilizzati, spazi in condizioni igieniche veramente scadenti: c’è stata una difficoltà di gestione che si è fatta sentire nella sua drammaticità”, ha aggiunto. Inoltre “nelle carceri romane continuano a entrare persone anziane, persone senza fissa dimora, il 30 per cento con problemi di tossicodipendenza: hanno bisogno di cure specifiche, arrivano con patologie” e la carenza di personale della polizia penitenziaria “spesso comporta che saltino le visite mediche prenotate all’esterno, perché servono le scorte per accompagnare il detenuto e mancano se non c’è il personale”, ha aggiunto. La problematica principale, tuttavia, sembra riguardare il vitto. I detenuti lamentano pasti insufficienti e di cattiva qualità. In particolare per l’alimentazione di una persona reclusa, la gara d’appalto in essere, aggiudicata al massimo ribasso fin dagli anni Novanta, prevede un costo giornaliero di 2,39 euro per colazione, pranzo e cena, a fronte di una previsione di 5,7 euro di gara. “C’è il problema del vitto e del sopravvitto - ha spiegato Stramaccioni -. I pasti sono scarsi ma la stessa ditta eroga anche il sopravvitto, ovvero gli alimenti che i detenuti possono comprare in carcere e che hanno costi anche alti. Tra l’altro i detenuti per la permanenza in carcere pagano 120 euro al mese: se hanno una busta paga, perché sono inseriti in un programma di lavoro in carcere, la somma viene trattenuta; in alternativa quando escono dall’istituto penitenziario si portano dietro un debito di giustizia da onorare”. La questione è stata denunciata da Stramaccioni anche alla Corte dei conti. Bologna. Mumolo (Pd): “Carceri, il Covid ha ridotto anche i diritti sanitari” askanews.it, 10 marzo 2022 “Si trasferiscano madri e figli piccoli in case famiglia protette. L’emergenza da Coronavirus ha ridotto i diritti, anche sanitari, dei detenuti. Il sovraffollamento carcerario e la carenza di personale medico-sanitario sono un serio problema”. Come hanno recentemente denunciato i sindacati “al carcere della Dozza di Bologna sono presenti appena 4 medici per 800 detenuti”. Lo ha detto il consigliere regionale del Pd, Antonio Mumolo. “Nelle carceri dell’Emilia Romagna, già sovraffollate - ha aggiunto Mumolo commentando la relazione del garante regionale uscente per i diritti dei detenuti in Aula - non viene rispettato il principio di territorialità ovvero vengono detenute persone che arrivano da altre regioni e questo crea problemi ulteriori ai reclusi, ai loro parenti, ai loro avvocati e al personale degli istituti”. Un problema presente anche nel carcere minorile del Pratello di Bologna. Qui “si vuole passare da 25 a 50 posti - ha spiegato il consigliere dem - per accogliere anche i minori detenuti che vengono da altre regioni. Ritengo sia profondamente sbagliato e dannoso impedire ai ragazzi di poter stare vicino ai loro familiari”. Ingiusta, secondo Mumolo, la presenza di neonati in carcere con le madri: “si provveda in tempi brevi a trasferire madri e figli minori in case famiglia protette, strutture esistenti e già finanziate, per fare in modo che i bambini non debbano subire l’esperienza del carcere”. Brescia. Misure alternative al carcere, controlli potenziati e mirati di Mara Rodella Corriere della Sera, 10 marzo 2022 Siglato un protocollo tra Procura generale e forze dell’ordine. D’ora in poi, sarà forse più “difficile” - almeno per qualcuno - ottenerle. Di contro, più “facile” sarà invece distinguere chi merita di espiare la sua condanna (non sospesa e fino a quattro anni) fuori da una cella. Affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, liberazione anticipata o semilibertà: se concederle lo decide il Tribunale di Sorveglianza, che a Brescia conta 4 magistrati e che, proprio per evitare “incidenti di percorso” ha siglato un protocollo insieme a procura generale e forze dell’ordine, “in una logica di buon funzionamento della giustizia” precisa il pg Guido Rispoli, nella convinzione “la prospettiva sia il reinserimento in società”. I controlli saranno intensificati, mirati, calibrati sulla caratura dei singoli casi e, soprattutto, “standardizzati” in modo da avere “un flusso omogeneo di dati decisivi, sul piano quantitativo e qualitativo” spiega il presidente vicario del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, Gustavo Nanni. Che precisa: “Bisogna procedere per dare piena attuazione all’importanza e alla serietà di questi benefici nell’ottica della Costituzione, affinché siano accompagnati dall’acquisizione di elementi di giudizio che consentano di valutare in modo approfondito il grado di pericolosità del condannato, la sua condotta dopo l’illecito con particolare riferimento all’atteggiamento assunto a fronte di danni alle vittime e alla collettività tutta specialmente nel caso di reati finanziari, tributari o ambientali, l’idoneità dei riferimenti famigliari e sociali e la solidità delle attività lavorative o socialmente utili che sorreggono l’esecuzione della pena esterna al carcere”. Ad oggi a Brescia ci sono oltre 1.500 condannati in misura alternativa concessa in fase di esecuzione pena dall’ufficio. Ogni magistrato, di detenuti, ne segue circa 190. A Canton Mombello sono più o meno 200 i definitivi, 95 a Verziano. “Come Tribunale, ogni magistrato porta più o meno 25 fascicoli in udienza: detenuti che chiedono misure alternative o liberi in sospensione pena. All’anno, parliamo di 350 richieste di misure alternative per ogni magistrato davanti al collegio”. Il picco negli ultimi due anni causa pandemia. Dal primo luglio 2020 al 30 giugno 2021 al Tribunale di Sorveglianza sono stati definiti 6.454 procedimenti 85.418 l’anno precedente) a fronte di 6.513 sopravvenienze, con un tasso di definizione passato dal 79% al 99%. Il solo Ufficio di Sorveglianza di Brescia ha definito 11.084 procedimenti contro i 10.963 sopravvenuti. Rieducare quindi, ma anche rendere più efficienti gli uffici competenti. Per il questore, Giovanni Signer, questo protocollo è “uno strumento che renderà più performante il nostro lavoro sul territorio, una buona prassi di prevenzione”: competente per i reati di terrorismo, la questura focalizzerà l’attenzione su città e Desenzano, dove sorge il commissariato. “Noi presidieremo la provincia grazie alle stazioni”, aggiunge il colonnello Gabriele Iemma, comandante provinciale dei carabinieri, sottolineando come “la nostra attività non si esaurisca in fase di indagine”. Sul piano pratico, “l’accordo mira a rendere standard i processi di acquisizione delle informazioni, per evitare l’elusione della sanzione penale”, fa eco il comandante provinciale della Guardia di Finanza, colonnello Marco Tolla. Proprio in relazione ai reati fiscali, “è importante capire se la misura alternativa sia meritata anche con la disclosure della situazione patrimoniale”. I controlli saranno stringenti, prima e durante la fase di esecuzione, annuncia il procuratore generale, affinché non si perda mai “il senso” di tutto il lavoro svolto prima. Per rieducare. Ed evitare, precisa Nanni, le misure alternative sfocino in un’esecuzione scorretta: “Lavori inesistenti, non seri, datori che lanciano vere e proprie offerte di impiego, fittizio e di copertura (“schema tipico della criminalità organizzata” sottolinea il questore) senza alcuna volontà di reinserimento, tali da portare alla sospensione o alla revoca dei benefici”. Piacenza. “Percorsi rieducativi e lavorativi per i detenuti per abbassare il tasso di recidiva” piacenzasera.it, 10 marzo 2022 “Non solo diritti. Occorre di affiancare a questi anche di doveri. Sono due facce della stessa medaglia: il diritto dei cittadini onesti di vivere in sicurezza e il diritto dei carcerati di poter reinserirsi nella società una volta scontata la pena”. Così Valentina Stragliati, consigliere regionale piacentina della Lega, ha commentato la Relazione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. “Non dobbiamo dimenticare i dati allarmanti registrati dal nostro Paese: il 70% dei carcerati che torna in libertà torna a delinquere. L’Italia segna un tasso di recidiva di reato tra i più in alti in Europa. Ciò significa che qualcosa non funziona: all’aspetto repressivo va affiancato un serio percorso rieducativo” - ha ammonito l’esponente del Carroccio. “Spesso chi entra in carcere ne esce peggiorato a causa della subcultura carceraria. Su questo si deve lavorare in maniera concreta: è dimostrato che quasi il 70% di chi torna a delinquere non ha svolto attività lavorativa in carcere, contro l’1% di chi lo ha fatto. Occorre quindi fare in modo che i detenuti trascorrano tempo utile nei penitenziari, lavorando o compiendo lavori di pubblica utilità” ha aggiunto. In merito al sovraffollamento delle carceri, Stragliati ha ribadito la necessità di fare scontare la pena agli stranieri nei Paesi di origine: “Essendo i nostri istituti penitenziari per la maggior parte occupati da loro, la problematica potrebbe essere gestita in tal modo”. Palermo. La giustizia riparativa e la pratica della mediazione comunitaria e penale redattoresociale.it, 10 marzo 2022 Intervista a Piera Buccellato del centro diaconale valdese La Noce che a Palermo si occupa di accompagnare le persone in un percorso graduale di consapevolezza e responsabilità. Accompagnare e sostenere la persona che ha compiuto degli errori di varia natura (civile o penale) in un percorso graduale di consapevolezza, responsabilità e riparazione del danno a se stessi, alla vittima e a tutta la comunità. È quello che cerca di fare il percorso di giustizia riparativa con l’attivazione al suo interno dell’importante strumento della mediazione comunitaria e penale. A parlarci di questo è la coordinatrice di Casa Vale La Pena Piera Buccellato, pedagogista, criminologa e mediatrice comunitaria e penale del Centro diaconale valdese La Noce. Nei giorni scorsi il centro diaconale La Noce ha rinnovato la firma del protocollo d’intesa... Sì, è stato firmato il protocollo d’Intesa, tra il centro ed il comune di Palermo, per rinnovare l’impegno nei percorsi di giustizia riparativa e mediazione dei conflitti. Da anni, infatti, ci occupiamo, insieme all’unità operativa giustizia riparativa e mediazione del comune di Palermo, di avviare dei percorsi di giustizia riparativa all’interno di alcuni quartieri di Palermo. In quali quartieri avete operato? Negli ultimi anni, ci siamo impegnati molto nei quartieri Danisinni e Albergheria. Nello specifico, in circa 3 anni nel quartiere Danisinni - una realtà molto chiusa dal resto della città - è avvenuta la formazione di alcune donne, diventate coraggiosamente delle antenne sociali del territorio con l’apertura di uno sportello di mediazione e di giustizia riparativa. Nel quartiere Albergheria, invece, dopo 2 anni, è stato portato avanti un complesso e delicato lavoro di ascolto in termini di mediazione comunitaria che ha portato alla nascita dell’associazione Sbaratto composta da alcuni storici ‘mercatari’ venditori ambulanti. Si è aperta, in questo modo, una strada di possibile risoluzione dei conflitti sociali tra le diverse anime del mercato popolare con l’avvio anche di un percorso di regolamentazione che è ancora in corso di evoluzione. In tutti e due i casi le persone del quartiere sono diventate attori sociali in grado di generare il cambiamento, mettendosi con l’aiuto dei professionisti, in dialogo ed in ascolto dei diversi bisogni e interessi per il benessere del loro territorio. Una volta innescato il processo il mediatore deve prendere le distanze ed essere ‘biodegradabile’ affinché la comunità cammini da sola. Il rinnovo del protocollo vi porterà in altre zone della città? Certamente sì. Per il momento, si stanno individuando altre realtà che hanno chiesto di attivare percorsi di questo tipo. Siamo, quindi, in una fase di programmazione. Qual è il ruolo della mediazione comunitaria? E’ una pratica della giustizia riparativa che mette al centro e cerca di valorizzare e curare la relazione conflittuale tra le persone nella prospettiva di crescita del benessere personale e collettivo di tutta la comunità. La risoluzione dei conflitti porta al desiderio responsabile di impegnarsi concretamente per fare delle cose insieme. L’impegno dei percorsi di mediazione è quello di riuscire a condurre le persone, che si sentono riconosciute, perché ascoltate e viste nei loro diritti e nei bisogni, a pensare ad un futuro diverso per la realtà in cui vivono. Si generano in questo modo delle attività partecipative, propositive e costruttive che nascono tutte dal basso. L’altro ambito è quello della mediazione penale... In virtù sempre del protocollo, favoriamo e seguiamo in vario modo, l’incontro tra l’autore di reato e la vittima. La segnalazione viene fatta dalla procura che invia all’ufficio di mediazione e giustizia riparativa il fascicolo. Gli incontri di mediazione si svolgono nell’ufficio comunale di mediazione. Ci si preoccupa di contattare intanto la vittima adulta o se minorenne interpellando pure i genitori. La stessa cosa si fa nei confronti della persona autrice del reato. L’incontro di mediazione penale, che non è sempre facile, consente, per quanto possibile, di ‘scongelare’ a poco a poco il ruolo della vittima e il ruolo dell’autore del reato. Si cerca di restituire dignità in chi ha subito il reato ma anche in chi l’ha commesso. Chiaramente, occorre avere il consenso e la piena libertà della vittima e del reo: in alcuni casi si può fare anche un incontro tra l’autore del reato e una persona che è stata vittima di un reato simile. Nell’ottica dell’equo-prossimità avviene un avvicinamento tra vittima e reo che provano ad entrare in relazione. Avete operato in questo senso anche dentro il carcere? Sì, con l’associazione Spondè abbiamo avviato dei percorsi di giustizia riparativa dentro il carcere Ucciardone e al Pagliarelli. Questo ha permesso a questi detenuti di sentirsi riconosciuti come persone. È possibile con l’autorizzazione della magistratura di sorveglianza, anche l’incontro con la vittima in un’area specifica del carcere. Con i detenuti si può avviare un percorso di giustizia riparativa con l’intervento di tre mediatori che si impegnano in maniera corale. Il percorso che si intraprende a livello personale può anche non portare all’incontro di mediazione con la vittima. Perché è importante il percorso di giustizia riparativa? Perché, oltre alla violazione di una norma, la persona che commette un reato nei confronti della vittima viola la relazione con le altre persone della collettività. Nella persona detenuta avviene, quindi, attraverso l’ascolto, un percorso che porta alla sua consapevolezza e alla responsabilità per il danno che ha arrecato agli altri e alla società. È molto importante in questo senso ricucire i legami sociali. Al centro diaconale avete, inoltre, Casa Vale la Pena? Sì, questa è una realtà che accoglie 5 persone sottoposte a misure penali alternative. Nel 2015 è nata come forma di co-progettazione con l’Uepe (Ufficio di esecuzione penale esterna). Per la persona, segnalata dall’Uepe o dagli avvocati, l’obiettivo è quello del reinserimento sociale. In particolare, attraverso una serie di azioni, ci facciamo carico della persona detenuta affinché possa cambiare vita con un lavoro, con la possibilità di avere dei documenti per l’accesso ai servizi se immigrato, con la formazione professionale o scolastica e con altre opportunità. Nella casa, si crea un piccolo microcosmo formato dal gruppo, a volte anche di culture e nazionalità diverse, che riesce a vivere insieme. Anche dentro la Casa stiamo favorendo dei percorsi di giustizia riparativa con il supporto dei mediatori dell’ufficio di mediazione di Palermo. Siamo sempre davanti a una nuova possibilità che diamo alla persona che ci fa avvertire quanto privilegiato, delicato e prezioso sia il lavoro che facciamo. A volte, è necessario andare oltre la lettura delle carte per favorire l’incontro, l’ascolto e la relazione di fiducia che genera il cambiamento. Nel nostro contesto protetto ci rendiamo contro che la persona, vivendo in un piccolo gruppo, migliora visibilmente, a poco a poco. Tutto questo, oltre a darci una bella soddisfazione sul piano umano e relazionale, ci sprona ulteriormente ad andare avanti in questa direzione. Verona. Giustizia riparativa, il Tavolo permanente sale in cattedra all’Università univrmagazine.it, 10 marzo 2022 Giovedì 10 marzo il nuovo incontro. Si prosegue per costruire un nuovo approccio sociale alla giustizia. Nell’ultimo Bilancio Sociale CSV, sono 80 le persone che si sono rivolte allo Sportello dedicato, 245 le ore di servizio e accompagnamento erogate. L’obiettivo finale è di quelli ambiziosi: costruire un nuovo approccio culturale alla giustizia stessa, in cui tutta la comunità è coinvolta. È a questo che tendono, oltre ovviamente a informare e formare, gli incontri sulla Giustizia Riparativa che il Tavolo permanente per la Giustizia Riparativa - rete di Verona e il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona hanno organizzato in queste settimane. Il prossimo appuntamento, gratuito e dedicato agli studenti, è fissato per giovedì 10 marzo dalle 14 alle 17 nell’aula Megalizzi (ex aula T4), Palazzo di Lettere, con ingresso da via San Francesco 22. E si propone di approfondire, tra gli altri aspetti, il ruolo della comunità in un percorso riparativo, con un focus sul ruolo del volontariato nell’attività di accoglienza di persone in misure alternative e di comunità. Il CSV, Centro di Servizio per il Volontariato, è parte della rete di Verona del Tavolo permanente per la Giustizia Riparativa che conta l’adesione di sette istituzioni pubbliche e di altri sei enti del Terzo settore. Un ambito che in questi ultimi anni è andato sempre più strutturandosi fino a raggiungere numeri importanti. Dal Bilancio Sociale 2021, relativo all’anno precedente, emerge infatti che si sono rivolte allo Sportello di giustizia riparativa 80 persone tra cittadini, che hanno chiesto informazioni per lo svolgimento di misure di giustizia riparativa e di comunità, e avvocati. Le persone accolte al CSV di Verona in convenzione con il Tribunale di Verona per svolgere attività di pubblica utilità sono 2. Complessivamente, le ore di servizio e accompagnamento erogate sono 245. È nel 2020, inoltre, che è nato e ha mosso i primi passi il Tavolo permanente per la Giustizia Riparativa. L’incontro di giovedì 10 febbraio si intitola “La giustizia ripartiva e i suoi attori” e all’approfondimento interverrà Irene Magri dello Sportello Giustizia del CSV di Verona, con l’intervento “La comunità per la giustizia riparativa”. “Proporremo un focus sul particolare ruolo del volontariato nell’attività di accoglienza di persone in misure alternative e di comunità poiché le organizzazioni svolgono un ruolo sociale fondamentale per la comunità: sono molte le persone che, dopo aver svolto il periodo, ci raccontano come l’esperienza ha cambiato il loro modo di vedere le cose”, spiega Magri. Tra i relatori anche l’assistente sociale Stefania Zambelli dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Verona che traccerà un focus su “I servizi sociali e la giustizia riparativa” mentre Alessandro Ongaro della Caritas Diocesana Veronese Cooperativa sociale Il Samaritano, e Silvio Masin, responsabile dei servizi e progetti sulla giustizia riparativa per l’Istituto Don Calabria, spiegheranno che cos’è e di cosa si occupano i facilitatori nel processo di riparazione. E ancora, l’Associazione Scaligera Vittime di Reato (Asav) segnalerà “I servizi per le vittime di reato”. Il successivo incontro “Vittima, reo, comunità: gli strumenti della giustizia riparativa” si terrà giovedì 24 marzo, medesimo orario e luogo. Lecce. Dikea, la barca confiscata alle mafie diventa barca “della giustizia” di Carlo Testa Corriere del Mezzogiorno, 10 marzo 2022 Parabita, assegnata a “Salento che pensa”, presieduta dalla professoressa Ada Fiore. Da due anni è stata assegnata a “Salento che pensa” Dikea, una barca confiscata alla mafia e che veniva utilizzata dagli scafisti. L’associazione di promozione sociale che la gestisce è rappresentata legalmente da Ada Fiore, docente di filosofia e già sindaco per due mandati di Corigliano d’Otranto. Nel 2020 l’Aps, in partenariato con il Comune di Parabita, l’istituto comprensivo, e altri enti di terzo settore ha risposto con un progetto all’avviso pubblico della regione Puglia denominato “Bellezza e legalità, per una Puglia libera dalle mafie” che prevedeva l’attivazione di laboratori destinati a minori di 18 anni in un luogo confiscato alla mafia. Proprio a tal fine è stata inoltrata richiesta alla Procura di Lecce per l’ottenimento dell’imbarcazione che è stata così assegnata e trasportata a Parabita all’interno di un luogo anch’esso confiscato da anni e intitolato ad Angelica Pirtoli, la bambina più piccola morta nel Salento per omicidio mafioso. “Dikea”, oggi, ha trasformato quel Parco in in un luogo in cui naviga la giustizia” denominato, appunto, Dikedromo. Il luogo da cui parte la rivoluzione per eliminare l’indifferenza di questa società e per la costruzione di un mondo migliore. A capo della rivoluzione un pesce di nome Tomas che, scappato dalla rete, ha deciso di mettere a disposizione degli esseri umani la sua capacità di risalire dagli abissi più profondi. Quattro gli strumenti a sua disposizione: un timone per cominciare ad assumersi le responsabilità; la bussola per cercare nuove direzioni, l’ancora per avere dei punti fermi, il salvagente per salvare gli esclusi. L’imbarcazione lunga 17 metri si compone di 3 cabine ognuna delle quali destinate ad attività di pensiero: 1. Diritti a poppa per conoscere la storia dei migranti e riconoscere i loro diritti negati; 2. Memoria a prua per scoprire le vittime di mafia e ricordare il loro impegno; 3. La stanza di Angelica per ricordare la bambina più piccola uccisa dalla mafia nel Salento. Mesi di lavoro con volontari dell’associazione e artisti, hanno reso la barca un luogo di “bellezza e legalità” che potrà essere visitata e nella quale si potrà esercitare il pensiero alla riflessione sul significato dei diritti e sul valore della memoria. All’allestimento della barca hanno contribuito le artiste Valentina d’Andrea e Alice Pietroforte, il filosofo Mario Carparelli e il collaboratore Paolo Matere. Il Dikedromo sarà inaugurato domenica 20 marzo alle ore 11.00. Latina. Presentato il libro “Non Tutti Sanno”. La voce dei detenuti di Rebibbia di Roberto Monteforte news-24.it, 10 marzo 2022 Si è discusso di carcere e condizione del detenuto nella sala delle conferenze della Curia di Latina. L’occasione è stata la presentazione del libro “Non tutti sanno”. La voce dei detenuti di Rebibbia”, una raccolta di testimonianze curata da suor Emma Zordan e pubblicata dalla Casa Editrice Vaticana, la LEV. Al centro del confronto la riflessione del cardinale Giuseppe Petrocchi, ora arcivescovo de l’Aquila, ma per quindici anni amato vescovo della città pontina, dedicata all’umanità e al diritto al futuro di chi è detenuto, il suo diritto alla speranza. Gli ha fatto contraltare la testimonianza autobiografica di Cosimo Rega, ora attore affermato, ma con alle spalle oltre 43 anni di detenzione. “Sono stato un camorrista. Sono ora un ex camorrista, ma resterò sempre un assassino e con questo devo fare i conti ogni giorno con la mia coscienza” ha esclamato Rega, raccontando la sua vita sbagliata. Non sarebbe cambiata, malgrado l’ergastolo - racconta - se non ci fosse stata la forza dell’amore di sua moglie a dargli speranza e, insieme alla passione per il teatro, a fargli cambiare definitivamente vita. Ora, scontata la sua pena e consapevole del male compiuto, l’attore ex ergastolano propone la sua testimonianza ai giovani per evitare che seguano strade sbagliate. Proprio sull’esigenza di prestare ascolto alla domanda di dignità e speranza, di chi sta pagando la sua pena dietro le sbarre, ha insistito il cardinale Petrocchi, che non solo ha curato la prefazione al volume “Non tutti sanno”, ma ha da sempre sostenuto l’attività di suor Emma Zordan e del suo laboratorio di scrittura creativa a Rebibbia. Dopo la lettura di alcuni brani del volume da parte dell’avvocato Antonella Pacifico, ha portato la sua di testimonianza a Rebibbia suor Emma. Ha parlato del suo rapporto profondo con i “fratelli detenuti” sottolineando il loro diritto alla speranza e al futuro che vuol dire reinserimento pieno nella società, quindi diritto al perdono, all’accoglienza e diritto al lavoro, al reinserimento pieno nella società. “L’ex detenuto non può avere per sempre sulla pelle il marchio della galera” ha affermato. Il libro “Non tutti sanno” ha proprio lo scopo di aiutare a superare ogni pregiudizio e ogni indifferenza verso questo mondo, ha concluso la religiosa. L’incontro, che si è aperto con un minuto di silenzio per la pace e contro la guerra in Ucraina, è proseguito con il saluto non formale del padrone di casa, monsignor Mariano Crociata, vescovo di Latina e con quello del sindaco della città, Damiano Coletta. Forte il coinvolgimento di tutti i presenti. Se l’obiettivo dell’incontro è stato suscitare umanità e sguardo nuovo sulla realtà carceraria, speranza e superamento degli stereotipi con una vera attenzione al reinserimento del detenuto nella società, pare proprio che sia stato raggiunto. Milano. Lucio Dalla e quei tre “amici” che si sono fatti dono per noi di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 10 marzo 2022 Un pomeriggio nel carcere di Opera, tre amici che vengono a cantare per i detenuti le canzoni di Lucio Dalla. E diventa una festa. Caro amico ti scrivo / così mi distraggo un po’ / e siccome sei molto lontano / più forte ti scriverò. Sarai stupito, mio caro amico, di una partenza così, con una citazione da Lucio Dalla. Il motivo si chiarirà subito. Sai bene con quanta fatica abbiamo vissuto questi due anni di pandemia nel carcere di Opera. A causa della chiusura più ferrea e delle sospensioni delle attività è stato un periodo di pesantezza continua nel quale trovare spazi per non abbandonarsi o perdersi era diventato una continua lotta individuale. Ecco perché vale la pena che ti racconti di sabato scorso. La cosa, prevista prima di Natale, era rimasta a rischio fino all’ultimo, ma per fortuna (o per Grazia: a me piace di più questa idea) la Direzione l’ha consentita. I volontari di “Incontro & Presenza” ci hanno fatto un regalo, organizzando un “evento” bellissimo, che è arduo definire concerto. Tre musicisti hanno suonato e cantato; ma anche recital perché i tre hanno letto e commentato parti dei testi presi dal patrimonio di Lucio Dalla, parole dense e poetiche; e spettacolo perché i tre chiacchieravano con noi, scherzavano con auto ironia, lanciavano messaggi traendoli da quei testi o frutto della loro rielaborazione. Siamo stati molto bene. Walter Muto - chitarra, canto, concertazione, arrangiatore; Carlo Pastori - tastiera, fisarmonica, canto, showman -; Carlo - violino, canto, recitazione - (mi accorgo che non ti avevo ancora scritto i loro nomi, forse perché mi sembra che siano “amici”, che siano “con noi”, non nel senso di galeotti, ma di “dono immanente”, proprio così!) ci hanno offerto circa due ore di emozioni. Musicisti con i controfiocchi e seri professionisti, hanno organizzato le scelte sceniche con maestria, alternando brani più allegri ad altri meno, componendo medley molto ben costruiti… insomma bravi. Già questo è una meraviglia. Ma oltre che bravi, sono stati veri, amabili, coinvolgenti, comunicativi. Non è da tutti. “Quanto è profonda Lucio”: così si intitola lo spettacolo, è una carrellata attraverso le canzoni di Dalla, scelte tra le più belle, dove l’aggettivo va a significare sia l’armonia musicale, che la forza dei significati; le hanno combinate secondo una logica che privilegiava il contenuto, con Carlo Pastori e Walter Muto che si alternavano nel canto mentre gli altri eseguivano seconde voci; Carlo, col suo violino, ha spesso ricamato note sul canto, accompagnando e introducendo effetti, un tocco di maestria che ha arricchito l’esecuzione. Mentre suonavano e cantavano io ho notato le facce dei miei compagni presenti. All’inizio c’era curiosità e attesa, ma anche un accennato timore che potesse essere pesante. Così tanto desiderato questo ritrovarsi in teatri dopo mesi e magari ora ci tocca una fregatura… Si vedeva l’esitazione serpeggiare. Ma piuttosto in fretta ogni remora si è dissolta, le persone hanno cambiato il modo in cui erano sedute, le espressioni. Applaudivano, ridevano alle battute, le rilanciavano. Ascoltavamo i passaggi seri non perdendoci niente. Abbiamo speso ritmato il canto con le mani e poco importa che fossimo fuori tempo, bene anche così e i musicisti sapevano rallentare, accelerare, ripescare il filo ritmico quando rischiava di sbandare. Più attenti a non perdere noi che non la canzone: grandi! Per questo alla fine non li lasciavamo andar più via: si era creato un clima di partecipata commozione che ha coinvolto tutti con saluti, pacche sulle spalle, ringraziamenti. Sembravamo un gruppo di amici che ha appena condiviso una cosa bella e rilassante. Persino il nostro Comandante, il commissario Fusco, dicendo due parole di saluto alla fine, si vedeva che era partecipe. E, guarda, si è capito che era lì, che era “dei nostri”, quando quei tre filibustieri gli hanno cantato Porta Romana, dove c’è una strofa tutt’altro che lusinghiera verso il “commissario” di San Vittore… Ma il nostro Comandante ci stava, si divertiva, e forse questo è stato uno dei risvolti più notevoli. Magari averne di occasioni così! “Quanto è profondo Lucio” è finito. Magari prima o poi i fantastici tre torneranno: credo di sì perché glielo abbiamo chiesto tutti. Ma intanto mi rimane un piccolo sfolgorante tesoro, che custodisco nella mente, nelle orecchie, nel cuore. Non si può che ringraziare. Quello che è mancato alla piazza pacifista di Roma di Gianni Cuperlo Il Domani, 10 marzo 2022 La guerra nel cuore dell’Europa ha riproposto la distanza tra chi al ventaglio di misure in difesa del popolo ucraino ha associato l’invio di un sostegno militare e quanti vi si sono opposti giudicando quella decisione fonte di altre sofferenze. Non è la prima volta che accade, basterebbero i Balcani a darne conto. In questo caso la divisione ha visto da un lato il mio partito, il Pd, e Articolo 1, entrambi parte della maggioranza di governo. Dall’altra la galassia della sinistra, Cgil, Anpi, la rete di associazioni che ha promosso la manifestazione di piazza San Giovanni a Roma. Riflettere sul punto può aiutare a capire meglio le differenze. Partiamo dalle posizioni più radicali. Parlo di un pacifismo integrale che rifiuta sempre e comunque il ricorso alle armi. In questa logica ogni operazione bellica è per definizione volta ad alimentare la spirale della guerra. Con una forzatura si può dire che la posizione speculare stia nell’idea che solo la sconfitta militare del “nemico” è in grado di porre fine al conflitto in essere. Vorrebbe dire attivare tutti i mezzi e risorse disponibili (dall’invio di armamenti alla no fly zone e alla sicura escalation militare) come via obbligata se si vuole sconfiggere Putin. La ricerca di un compromesso - Detto ciò esistono altre due letture che vanno prese in esame. Sono quelle più interne alla riflessione degli ultimi giorni. Ad accomunarle è un concetto: qualsiasi giudizio si dia sull’invio di armi alla resistenza ucraina - per inciso, chi scrive quella legittimità condivide - il conflitto non potrà che concludersi con una trattativa e un compromesso. Nessun altro scenario o esito è percorribile. Ma allora quale sarebbe il motivo razionale per aiutare gli ucraini a difendersi e resistere con maggiori armi e risorse? La risposta è rendere più credibile la volontà dell’Europa di non abbandonare al suo destino un paese militarmente occupato. In altri termini la scelta di esercitare una pressione sulla Russia a che receda dalla linea seguita e scelga di sedere a un tavolo dopo l’immediato cessate il fuoco. Ora, è possibile coltivare il medesimo obiettivo senza condividere l’aspetto (non di dettaglio) sull’assistenza militare. Lo ha fatto Mario Giro su queste colonne quando in un decalogo su come fermare la guerra di Putin ha spiegato perché a suo avviso “ogni iniziativa militare, anche indiretta, può farci fatalmente scivolare sulla china che pur diciamo di non volere”. In questo caso a emergere è una differenza di giudizio sull’efficacia della misura, ma mi sembra si tratti di altra cosa rispetto al contestare il principio in sé, vale a dire il diritto di un popolo a difendersi e ad avere il sostegno necessario per farlo. Insomma, se lo slogan diventa “nessun’arma da noi perché la guerra deve uscire dalla storia” bisognerebbe avere la coerenza di riconoscersi in un pacifismo integrale come molti hanno fatto nella storia e continuano a fare nel presente. Se invece la logica converge nel bisogno di spingere Mosca a una trattativa dove ciascuna delle parti dovrà sacrificare qualcosa, allora si possono avere valutazioni diverse sui mezzi da impiegare a quel fine sapendo però che il traguardo è per tutti lo stesso. Se una fragilità il corteo e la piazza di sabato scorso avevano è stato nel non avere chiarito a sufficienza questo punto. Invece credo sia giusto farlo nell’interesse stesso di quei sindacati, del movimento pacifista e di un popolo diffuso che avrà mille dubbi, ma che tra l’aggressore e l’aggredito sa distinguere ancora benissimo. Fine vita, c’è il sì a Montecitorio. E lo “ius scholae” fa il primo passo di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 10 marzo 2022 In Aula passano gli articoli sul suicidio assistito. In Commissione via al testo sulla cittadinanza. Sì in Commissione al testo base dello ius scholae. Sì in aula agli articoli che sono il cuore del provvedimento sul suicidio assistito. Sì definitivo in commissione al testo della cosidetta “legge Saman”, una via preferenziale per ottenere il permesso di soggiorno alle bambine e alle donne costrette al matrimonio. È successo tutto ieri alla Camera. Tutti passi avanti delle leggi sui diritti civili. L’Aula della Camera ieri ha sostanzialmente detto sì al suicidio assistito. Non è ancora il via libera alla legge, ma il via libera a due articoli, gli articoli 2 e 3, che sono il cuore del provvedimento perché definiscono i contenuti del provvedimento e i presupposti e le condizioni per poter accedere al suicidio. Il testo verrà votato oggi in mattinata. Le votazioni, a scrutinio palese, ieri hanno visto il centrosinistra prevalere di circa 80 voti, tanti gli assenti, molti del centrodestra, mentre il Pd è stato il più presente in aula con i deputati quasi al completo, tra di loro uno dei due relatori del provvedimento Alfredo Bazoli. Negli articoli approvati si prevede che il suicidio assistito abbia il supporto delle strutture del Servizio sanitario che devono operare nel rispetto della tutela della dignità e dell’autonomia del malato; della tutela della qualità della vita fino al suo termine; dell’adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia. Nell’articolo 3 è stato approvato un emendamento (a firma Riccardo Magi di +Europa) dove si dice che l’accesso al suicidio assistito potrà essere certificato dal medico curante o da uno specialista (e non più da tutti e due i medici come era previsto in precedenza). Per poter accedere al suicidio assistito bisogna avere una patologia “irreversibile e con prognosi infausta” che cagioni “sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili”. I due articoli sul fine vita hanno avuto il voto favorevole anche da un piccolo gruppo di deputati di Forza Italia. Il partito di Berlusconi, ieri, a sorpresa ha dato il suo voto favorevole allo ius scholae, spaccando così il centrodestra. Il provvedimento è una sintesi dei testi che erano in commissione Affari costituzionali fatta dal presidente (e relatore) Giuseppe Brescia (M5s). Una sintesi che non prevede un diritto di cittadinanza alla nascita dei figli di immigrati - ius soli - ma un diritto di cittadinanza per quelli che hanno frequentato cinque anni di scuola. E questo non vale soltanto per i bambini nati qui, ma anche per i bimbi che sono entrati in Italia prima dei dodici anni. Su questo voto è arrivato subito il commento del segretario del Pd Enrico Letta: “È un segnale di speranza, avanti con determinazione”. La Lega però frena: “Il percorso è appena iniziato”, afferma Igor Iezzi, la Lega “non consentirà uno ius soli mascherato”. E anche dentro FI Maurizio Gasparri assicura che al Senato la legge non passerà. Sempre in commissione Affari costituzionali è stata approvata la cosiddetta “legge Saman”, dal caso della diciottenne pakistana uccisa perché rifiutava il matrimonio combinato: prevede il rilascio del permesso di soggiorno alle donne costrette al matrimonio. Spiega Brescia: “Quasi due vittime su tre sono straniere, con una forte incidenza di donne pakistane”. Migranti. Dopo due anni di Covid ancora segregati sulle navi quarantena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2022 Vengono trattenuti in una sorta di dispositivo galleggiante e fatti stare per il periodo di quarantena successivo allo sbarco in Italia. Sono le cosiddette navi quarantena, “create” due anni fa, all’inizio pandemia, per segregare, di fatto, i migranti. Numerose sono le criticità e da tempo è cresciuta l’insofferenza da parte della Croce rossa che aveva ventilato la possibilità di lasciare le navi quarantena. Le associazioni che si occupano dei diritti umani hanno lanciato un appello al governo affinché ponga fine a questo sistema di isolamento e adotti procedure che garantiscano la sicurezza, il diritto di asilo, la libertà personale e un’accoglienza degna delle persone in arrivo sul territorio italiano. Il dispositivo sul mare - La nave quarantena, di fatto, è un dispositivo che sembra poggiare su un discorso di salute pubblica e di emergenza per legittimare un rafforzamento del contenimento e dell’isolamento dei migranti in transito. A seguito della dichiarazione dello stato di emergenza per l’insorgere della pandemia e del successivo decreto interministeriale con cui le autorità italiane hanno chiuso i porti alle navi da soccorso, il 12 aprile 2020 il Dipartimento di Protezione Civile ha adottato un provvedimento per l’utilizzo di navi per lo svolgimento del periodo di quarantena delle persone salvate in mare. Queste misure di emergenza prevedono che, dopo il passaggio nell’hotspot di Lampedusa - dove si svolgono le procedure di identificazione e si effettua un primo screening sanitario - le persone straniere vengano sottoposte al periodo di isolamento nelle navi quarantena o, per alcune eccezioni - vulnerabili e minori stranieri non accompagnati (Msna) - nei centri per la quarantena adibiti all’interno di Cas, Cara, hotspot. Come detto, alcune associazioni (tra le quali l’Asgi e LasciateCIEentrare) lanciano un appello per chiedere procedure di la tutela della salute di tutte le persone, che non contemplino navi quarantena e che non diano luogo a trattamenti differenziati nei confronti dei cittadini stranieri, garantendo che le persone migranti in arrivo trovino immediata accoglienza e, in caso di positività, anche cure adeguate. Sottolineano che la tutela del diritto alla salute individuale e collettiva va garantita con altre misure che in primo luogo assicurino il rispetto dei diritti fondamentali delle persone in arrivo. Ancora attive dopo due anni - Sono trascorsi quasi due anni dall’istituzione delle navi quarantena e, nel tempo, sono emerse gravi criticità, confermate dagli stessi operatori della Croce Rossa. Per le associazioni firmatarie dell’appello le problematicità sono molteplici: ostacoli posti all’accesso alla richiesta di protezione internazionale in linea di continuità con le prassi attuate in frontiera in tempi precedenti alla pandemia; assenza di garanzie in materia di privazione della libertà personale; carenza dei servizi; periodi di permanenza immotivatamente lunghi; inadeguatezza della situazione igienica; permanenza a bordo di minori stranieri non accompagnati e persone in condizioni di vulnerabilità. Di fatto, le procedure non sono sostanzialmente mutate in questi mesi, permanendo gravissimi profili di criticità con riferimento al rispetto dei diritti delle persone in arrivo sul territorio. Le associazioni si rivolgono al governo, al ministero dell’Interno e della Salute e agli altri soggetti coinvolti perché pongano fine al sistema delle navi quarantena ed adottino procedure che garantiscano la sicurezza, il diritto di asilo, la libertà personale e l’accoglienza degna delle persone in arrivo sul territorio italiano. Denunciano che l’istituzione delle navi quarantena costituisce “una prassi, di natura discriminatoria, che pone in essere una grave violazione dei diritti fondamentali dei cittadini/ e stranieri/ e ad essa sottoposti, primo fra tutti il diritto alla salute, come dimostrano le tante testimonianze di migranti e operatori e operatrici a bordo delle navi e come racconta la morte di Bilal Ben Massaud, Abou Diakite e Abdallah Said”. Disparità di trattamento - Quella delle navi è una misura che appare tanto più discriminatoria se letta alla luce della recente ordinanza del ministero della Salute del 22 febbraio 2022 che in materia di ingresso sul territorio nazionale di persone provenienti da paesi esteri, siano essi cittadini italiani o stranieri, prevede che solo in assenza di specifica documentazione sia previsto un periodo di cinque giorni di quarantena. Ecco perché, sotto tale punto di vista, si accentua ulteriormente l’irragionevole disparità di trattamento, laddove le procedure attuate nei confronti dei cittadini stranieri in arrivo via mare, differiscono in maniera lampante dalle misure a cui sono sottoposte gli stranieri giunti in Italia con altri mezzi. Accade che le persone rimangono in una condizione di fortissimo isolamento senza accesso immediato al territorio e senza che sia garantito un accesso pieno e adeguato alle informazioni in merito ai propri diritti e al modo in cui esercitarli; senza che sia garantita una adeguata tutela legale attraverso personale specializzato; senza che sia garantita effettiva tutela ai soggetti in situazioni di vulnerabilità e l’accesso a servizi specialistici. “La necessaria preoccupazione di tutelare il diritto alla salute individuale e collettiva va garantita con altre misure che in primo luogo garantiscano il rispetto dei diritti fondamentali delle persone in arrivo e che, inoltre, non comporterebbe costi maggiori delle navi quarantena che, oltretutto, vengono utilizzate con criteri non sempre trasparenti, chiari ed efficienti”, viene sottolineato nell’appello rivolto al governo. Per questo le associazioni firmatarie osservano che appare opportuno stabilire procedure per la tutela della salute di tutte le persone, che non contemplino navi quarantena e che non diano luogo a procedure differenziate nei confronti dei cittadini stranieri e, garantendo che le persone migranti in arrivo trovino immediata accoglienza e, in caso di positività, anche cure adeguate. In questa fase, va in ogni caso garantita la possibilità di esercizio del diritto di asilo, consentendo l’accesso a mediatori culturali e Ong, del diritto alla libertà personale e del diritto di difesa. A due anni dallo scoppio della pandemia, le associazioni affermano che non hanno alcuna giustificazione misure d’emergenza lesive della dignità delle persone e dell’accoglienza, che costituiscono un ulteriore passo in avanti nell’evoluzione e amplificazione dell’approccio hotspot e delle violazioni da esso derivanti, con conseguenze gravi sulla vita delle persone coinvolte. “Per questo chiediamo al Governo la definitiva chiusura del sistema delle navi quarantena e l’adozione di procedure di accoglienza delle persone migranti all’altezza dello standard umanitario di un paese che “si dichiari” luogo di tutela del diritto d’asilo e dei diritti fondamentali delle persone tutte”, conclude l’appello. Ricordiamo che, attualmente, le navi da crociera usate per la quarantena, noleggiate dal ministero delle Infrastrutture da Gnv Spa e Moby Spa, gravitano attorno ai porti di Lampedusa, Porto Empedocle, Palermo, Trapani, Augusta e Catania. Migranti tenuti segregati in uno spazio “fuori” separato dal territorio. E accade che la condizione di salute possa aggravarsi durante la permanenza in queste navi. Così com’è accaduto con Bilal Ben Massaud e i minori Abou Diakite e Abdallah Said. Morti altrove, ma erano passati prima tramite questi “confini galleggianti”. Migranti. Il Buon Samaritano in ottica “mercantile” di Luigi Manconi La Repubblica, 10 marzo 2022 L’avvocato generale della Corte di Giustizia europea rilegge la parabola per un procedimento riguardante i migranti che attraversano il Mediterraneo. E segnala gli “obblighi” economici di chi vuole salvare vite umane. Negli atti relativi a un procedimento che oppone la ONG Sea-Watch alle capitanerie di porto di Palermo e di Porto Empedocle e al Ministero delle infrastrutture del governo italiano, si trovano le Conclusioni di Athanasios Rantos, l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiamato ad accompagnare e sostenere il giudizio della Corte. Giudizio che ancora deve arrivare. E tra le pieghe delle argomentazioni dell’avvocato generale - ovvero nella nota 44 - ecco una singolarissima lettura della parabola evangelica del Buon Samaritano. In sintesi, il racconto del Nuovo Testamento si fonda sulle categorie di misericordia e compassione e ispira - dovrebbe ispirare - un sentimento di empatia fraterna e un atteggiamento di solidarietà nei confronti di chi soffre. Ma, evidentemente, è cruciale la domanda che pone il dottore della Legge: “Chi è il prossimo tuo?”. In altri termini, a chi prestare soccorso? Gesù risponde indicando nell’uomo “spogliato” e “mezzo morto” il “prossimo”: il destinatario dell’atto solidale. Il senso della parabola è limpido, ed è questa una delle ragioni che ne ha fatto un archetipo dei valori universali. L’amore di cui parla Gesù non è quello ostentato nei riti religiosi del tempio dal sacerdote e dal Levita, ma è quello concretamente espresso dal Samaritano, appartenente a un popolo idolatra disprezzato dai giudei. L’amore, dunque, non risiede nelle cerimonie del culto tradizionale, ma negli atti dell’uomo che “fascia le ferite, versandovi olio e vino” e “si prende cura di lui”. L’amore è la piena oblatività dell’azione, indirizzata verso lo sconosciuto, il lontano, lo straniero. È motivata dalla compassione (la capacità, cioè, di patire insieme). Viene in mente un brano del bel libro di Eshkol Nevo, La simmetria dei desideri, pubblicato da BEAT (e come audiolibro da Emons), dove si racconta della solidarietà, in territorio israeliano, tra una ebrea e un arabo. Invece, e inaspettatamente, questo testo così radicale viene piegato dall’avvocato generale della Corte di Giustizia a una interpretazione “di mercato”. Sentite: “La vita umana e il suo salvataggio è, ovviamente, il valore prevalente (su qualsiasi altra considerazione). Tuttavia, il ‘dovere del Buon Samaritano’ non è esente da obblighi. Ad esempio, per quanto ciò possa avere un interesse, è ben vero che il Buon Samaritano del Testamento ha salvato la persona in pericolo senza esitazione. Tuttavia, egli l’ha trasportata in un luogo sicuro (una locanda) a proprie spese, con il mezzo di trasporto più sicuro (il proprio asino), si è preso cura di tale persona senza trasferire tale onere su altri e ha dato il proprio denaro al locandiere perché nel frattempo si prendesse cura di lei, promettendogli che ‘ciò che spenderai in più, te lo renderò al mio ritorno’. I confronti, talvolta, sono difficili...”. Come si è detto, siamo in presenza di uno dei brani evangelici più letti e discussi, ma credo che nella storia dell’esegesi del Nuovo Testamento mai era stata azzardata una interpretazione altrettanto economicistica: comicamente economicistica, direi. Colpisce che le vittime di una tale lettura possano essere gli ultimi tra gli ultimi: coloro, cioè, che muoiono sommersi dalle onde del mare Mediterraneo. Migranti. Il centrodestra si divide nel voto sullo ius scholae di Carlo Lania Il Manifesto, 10 marzo 2022 In Commissione affari costituzionali, Forza Italia a favore assieme a Pd, M5S, LeU e Iv. Centrodestra diviso sulla riforma della cittadinanza. La commissione Affari costituzionali della Camera ha infatti approvato ieri il testo base preparato dal relatore e presidente della commissione, il 5 Stelle Giuseppe Brescia, grazie anche al voto favorevole di Forza Italia, che sul tema per la prima volta ha preso una posizione diversa da Lega e Fratelli d’Italia, da sempre contrari. Astenuti i due deputati di Coraggio Italia di Giovanni Toti, mentre a favore, ma era scontato, si sono espressi Pd, M5S, Leu e Italia Viva. “Il voto favorevole di Forza Italia dimostra che questa questione non è ideologica ma di libertà e civiltà”, ha commentato Brescia al termine del voto. “Il testo proposto toglie ogni alibi a chi vuole strumentalizzare, non si discuterà dello ius soli, una parolina magica che ha creato solo contrapposizioni lasciando tutto così com’è”. La prossima settimana l’ufficio di presidenza della commissione fisserà i tempi per la presentazione degli emendamenti, ma di sicuro dopo due anni di stallo quello di ieri è un passo importante che lascia ben sperare per l’approvazione della legge. Il testo proposto si basa sul cosiddetto ius scholae, ovvero sulla possibilità per un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri, o arrivato nel nostro paese entro il dodicesimo anno di età, di poter diventare cittadino italiano al termine di uno o più cicli scolastici, a patto che abbia risieduto “legalmente e senza interruzione” nel nostro paese per almeno cinque anni. Per ottenere la cittadinanza è necessario che i genitori, anch’essi residenti legalmente in Italia, o chi esercita la responsabilità genitoriale, presentino domanda all’ufficiale di stato civile del comune di residenza. Nel caso la domanda non venisse presentata, l’interessato potrà farlo entro i due anni successivi al raggiungimento della maggiore età. Secondo le ultime stime la legge potrebbe riguardare più di un milione di ragazzi, e tra questi anche alcuni atleti che oggi non possono vestire, come vorrebbero, la maglia della nazionale. Il voto di ieri è stato giudicato come “un bel segnale” dal segretario del Pd Enrico Letta, che ha chiesto alla commissione di precedere “con determinazione” all’approvazione della legge. Soddisfazione espressa anche dal deputato di +Europa Riccardo Magi, per il quale “tra le tante leggi vecchie e non più adeguate alla società che vanno cambiate” c’è anche la legge sulla cittadinanza approvata nel 1992. A favore della legge anche Renata Polverini. La deputata di Forza Italia è autrice di una delle tre proposte di legge che sono alla base del testo unico preparato da Brescia (le altre due sono a firma dei dem Laura Boldrini e Matteo Orfini). “Il testo base del relatore Brescia approvato oggi in Commissione va nella direzione da me auspicata e pertanto sono soddisfatta e lavorerò insieme al mio gruppo per migliorarlo nel corso dell’iter parlamentare”. ha detto Polverini. Contraria, ma anche questo era scontato la Lega, con il capogruppo in commissione Igor Iezzi che invita Letta a “non festeggiare” troppo presto. Migranti. Il partito dello Ius Scholae di Carlo Bertini La Stampa, 10 marzo 2022 Forza Italia si smarca da Lega e FdI e in commissione vota il testo sulla cittadinanza. “È un primo passo e non era scontato”, fa notare il dem Matteo Mauri, soddisfatto come Enrico Letta che sui diritti si sia materializzata alla Camera una “maggioranza Ursula”. Il testo base della legge sulla cittadinanza - ribattezzata “Ius scholae” perché permette ai bambini stranieri di diventare italiani dopo un ciclo scolastico - ha superato infatti il primo scoglio. Con un colpo di scena, il centrodestra si è spaccato e il testo del presidente Giuseppe Brescia di M5s è stato approvato in commissione Affari Costituzionali: con i voti a favore di Pd, 5Stelle, Leu, Iv, Forza Italia e con l’astensione di Coraggio Italia. Sì, anche Fi si è allineata, grazie ad un pressing di Renata Polverini, che ha ringraziato Silvio Berlusconi per aver consentito un distacco da Lega e Fdi che si sono messi di traverso. “Un segnale di speranza, avanti determinati”, twitta Letta. Certo, ora si tratterà di concedere qualcosa agli azzurri quando si voteranno gli emendamenti (la prossima settimana verrà fissato il termine), per riuscire a trascinare il gruppo quando si voterà in aula: i giallorossi già si attendono alcune richieste. Come quella che il completamento di un ciclo scolastico sia certificato da promozioni o che la conoscenza dell’italiano sia dimostrata in qualche modo. Punti su cui si potrà discutere. Fatto sta che la base di partenza è condivisa da un asse trasversale, che rende possibile un traguardo positivo, almeno alla Camera. Lo “Ius scholae”, se approvato, consentirebbe di concedere la cittadinanza ai minori di origine straniera nati in Italia, o anche arrivati prima dei 12 anni, che abbiano compiuto almeno 5 anni di percorso scolastico in Italia. “Una scelta coerente con il principio di uguaglianza della nostra Costituzione”, la benedice Andrea Giorgis del Pd. “Non siamo davanti ad uno Ius scholae ma ad uno “ius insufficientiae”. Basteranno cinque anni di un ciclo scolastici, senza alcun risultato conseguito, per essere italiani”, è la critica di Fratelli d’Italia. “Letta eviti di festeggiare. La Lega non permetterà di usare i bambini per sanare le situazioni dei genitori, regalando la cittadinanza con lo Ius soli mascherato”, alza gli argini il leghista Igor Iezzi. E Maurizio Gasparri fa capire quale sarà il vero scoglio da superare: “Sono certo che al Senato modifiche alla legge sulla cittadinanza non passerebbero mai. Incoraggerebbero ancora di più l’immigrazione verso l’Italia”. Ma tutti prevedono un aspro scontro su un tema cruciale della campagna elettorale per le comunali e per le politiche del 2023. Se in 14 giorni ci sono due milioni di profughi di Filippo Grandi* La Stampa, 10 marzo 2022 Abbiamo superato lo scioccante traguardo di 2 milioni di rifugiati in fuga dall’Ucraina in soli 12 giorni, principalmente in cinque paesi confinanti. Più della metà è fuggita verso la Polonia. Dopo cinque giorni di missione sul campo in questa regione - dove ho incontrato rifugiati, operatori umanitari, soccorritori locali e governi - se da un lato sono rincuorato dall’accoglienza dimostrata, dall’altro sono profondamente addolorato per l’Ucraina ed il suo popolo. Ai confini ho visto un esodo di persone, soprattutto donne e bambini, insieme a rifugiati anziani e persone con disabilità. Sono arrivati sconvolti e profondamente colpiti dalla violenza e dai loro viaggi difficoltosi in cerca di sicurezza. Tante famiglie sono state separate senza alcun senso e, a meno che la guerra non venga fermata, la stessa tragedia colpirà molti altri. La risposta dell’Europa è stata importante; la direttiva di protezione temporanea dell’Ue offre ai rifugiati sicurezza e opportunità, una possibilità concreta di stabilità in un momento di grande sconvolgimento. La Polonia ha visto arrivare più di 1,2 milioni di rifugiati. Sia il governo polacco che le comunità locali hanno organizzato un’accoglienza lodevole e ben organizzata. Lo stesso si può dire sia della Repubblica Moldova che della Romania, che ho visitato durante la mia missione, così come di altri Paesi vicini, che hanno generosamente tenuto aperte le loro frontiere. Ai confini con l’Ucraina, ho visto un’impareggiabile manifestazione di solidarietà spontanea da parte delle comunità e degli operatori umanitari di ogni paese: soccorritori locali indaffarati, montagne di donazioni raccolte, il tutto organizzato efficacemente dalle autorità di frontiera, dalle istituzioni locali e dalle comunità. Anche l’Unhcr ha intensificato la sua risposta, sostenendo il coordinamento della risposta umanitaria, oltre a schierare decine di esperti e decine di milioni di dollari di aiuti per sostenere la risposta dei governi attraverso la fornitura di assistenza materiale e in denaro. Abbiamo anche rafforzato i nostri team di protezione per affrontare i bisogni di donne e bambini, per i quali siamo particolarmente preoccupati. Tuttavia, è imperativo che la comunità internazionale si faccia avanti per fornire molto più sostegno ai rifugiati e alle comunità ospitanti, in particolare in Moldavia. Tutti gli stati europei devono continuare a mostrare generosità. Anche altri Paesi, oltre all’Europa, hanno un ruolo importante da svolgere per aiutare le persone in difficoltà e condividere la responsabilità internazionale per milioni di rifugiati. Va tenuto presente che, nonostante il caldo benvenuto ricevuto i rifugiati vivono disperazione e sofferenze inimmaginabili. Chi è fuggito ora si trova al sicuro dalla violenza, ma nessuno è stato risparmiato da enormi perdite e traumi. Dietro le statistiche monolitiche ci sono 2 milioni di storie di separazione, angoscia e perdita. Per quanto riguarda le segnalazioni di discriminazioni inaccettabili nei confronti delle persone che fuggono dall’Ucraina, ho sollevato le mie preoccupazioni con le autorità competenti, poiché ogni atto di discriminazione o razzismo deve essere condannato e tutte le persone devono essere protette. Tutte le autorità sono state pienamente d’accordo e tutti mi hanno rassicurato, dai più alti livelli di governo a coloro che operano sul terreno, che gli Stati non stanno discriminando e non discrimineranno né respingeranno le persone in fuga dall’Ucraina. All’interno dell’Ucraina il quadro è scioccante. Le persone sono in fuga o si riparano dalla brutalità della guerra come meglio possono. Team dell’Unhcr, Agenzia Onu per i Rifugiati, insieme ai partner locali, stanno fornendo aiuti dove e quando possono, ma l’accesso è limitato e non sicuro. Con il Comitato Internazionale della Croce Rossa, l’Onu sta cercando di negoziare passaggi sicuri, ma per farlo abbiamo bisogno che le armi tacciano. *Alto commissario per i rifugiati dell’Onu Lo scempio del diritto. La guerra e la sconfitta della civiltà giuridica di Michele Ainis La Repubblica, 10 marzo 2022 Questa guerra non fa solo strage di bambini, com’è avvenuto a Mariupol. Fra le vittime della guerra in Ucraina c’è anche il diritto, le regole interne e internazionali. Parrebbero mute, impotenti dinanzi alla potenza delle armi. Invece parlano, disegnano precetti e procedure, ma queste parole restano poi incollate sulla carta, senza mai risuonare sul teatro degli eventi. Ed è una sconfitta, per la civiltà giuridica e per la civiltà tout court. Le parole che si leggono nello Statuto delle Nazioni Unite, per cominciare. L’articolo 2, par. 4, vieta l’uso della forza “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Eppure è questo il delitto che si consuma sotto gli occhi del mondo: una guerra d’aggressione. Il 2 marzo l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato una risoluzione di condanna, con 141 Stati a favore e soltanto 5 contrari. Ma per passare dalle parole ai fatti occorre una delibera del Consiglio di sicurezza. Secondo l’articolo 42 dello Statuto è quest’ultimo, difatti, che “può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione necessaria”, comprendendovi “dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni”. Sennonché la Russia, in seno a quell’organismo, dispone d’un potere di veto; per consentirne la reazione, dovrebbe quindi dichiarare guerra con se stessa. E c’è poi la Corte penale internazionale, che ha raccolto l’eredità di Norimberga. Punisce i crimini di guerra, categoria alquanto indecifrabile, dato che ogni guerra è un crimine. E punisce gli individui, non le nazioni. Fra costoro, i dirigenti politici o militari di uno Stato che abbia deciso d’aggredire un altro Stato. È la fotografia di Putin, e infatti la Corte ha già acceso un faro. Ma sta di fatto che serve il via libera del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anche in questo caso. E sta di fatto che un terzo dei 193 Stati membri dell’Onu non ha aderito alla Corte penale. Non l’ha fatto la Russia, né d’altronde gli Usa, l’India, la Cina. Non vi ha aderito nemmeno l’Ucraina, benché in questi giorni ne reclami l’intervento. Mentre il crimine di aggressione è stato ratificato da 43 Paesi appena (fra cui l’Italia, da gennaio). Per forza: è il crimine più politico, giacché la guerra non è che la prosecuzione della politica, diceva von Clausewitz. E la politica vuole le mani libere, specie se governa una grande nazione. Sicché la Corte penale può procedere contro i signori della guerra africani, ma non può nulla contro i potenti della Terra. Rimangono però le regole interne, che vincolano gli stessi governanti. E dunque la regola suprema, quella scolpita nella Carta costituzionale d’ogni Stato. Qualcuno ha riletto in queste ore la Costituzione russa? Vi si trovano i principi dello Stato di diritto, a partire dalla separazione dei poteri cara al vecchio Montesquieu: “Gli organi del potere legislativo, esecutivo e giudiziario sono indipendenti” (articolo 10). Eppure Putin regna incontrastato da vent’anni. Vi trova altresì spazio il primato del diritto internazionale sul diritto nazionale: “Se un trattato internazionale della Federazione Russa stabilisce norme diverse da quelle previste dalla legge, si applicano le norme del trattato internazionale” (articolo 15). Invece non è vero, adesso la Russia applica soltanto la legge dei cannoni. Insomma, durante una guerra le regole giuridiche si svuotano come corpi esangui. E non solo nei regimi autoritari, che peraltro - avverte Freedom House - coprono ormai i quattro quinti del pianeta. Anche l’Europa ha dovuto smentire un suo principio fondativo, “la libertà dei media e il loro pluralismo” (articolo 11 della Carta di Nizza), censurando due agenzie di stampa russe. Succede perché ogni guerra mette in crisi il diritto vigente, lo rende opaco (“Chi comanda in caso di guerra?” chiese Cossiga nel 1986, dopo i fatti di Sigonella), ne mette a nudo i limiti. Ma questa crisi del diritto - ha osservato Alan Dershowitz (Rights from wrongs, 2004) - genera poi nuovo diritto, un altro ordine interno e internazionale. È accaduto dopo la seconda guerra mondiale, con l’approvazione dello Statuto dell’Onu (1945) e della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948). Accadrà di nuovo. Non sappiamo come, su quali altri fondamenti. Una lezione, però, dovremmo averla appresa: le norme camminano sulle gambe degli uomini. Per ottenere pace, serve un popolo che la sostenga. A cominciare dal popolo russo. La guerra è l’alibi per perdonare le derive illiberali di Polonia e Ungheria di Francesca De Benedetti Il Domani, 10 marzo 2022 La battaglia dell’Europarlamento per la rule of law è sempre più solitaria L’invasione dell’Ucraina congela le azioni Ue a difesa della democrazia. “Timing is not good”. Il momento non è quello opportuno, dice Manfred Weber. Presiede il gruppo politico più ampio dell’Europarlamento, quello popolare, e si riferisce alle prese di posizione dell’Unione europea sul tema dello stato di diritto in Polonia e in Ungheria. Fino a poche settimane fa, ogni alibi per evitare di applicare il meccanismo che vincola i fondi Ue al rispetto della rule of law sembrava caduto: se mai fosse stato necessario, anche la Corte di giustizia europea ha ribadito il 16 febbraio che la Commissione Ue non ha ragioni per non applicare quel meccanismo. Ma poi c’è stata l’invasione dell’Ucraina. Tra gli effetti della guerra nella politica europea, c’è anche quello di annichilire il dibattito sul rispetto dei valori democratici in Polonia e in Ungheria. Il fronte sovranista, che sembrava allontanarsi da Bruxelles, tra le polemiche su Polexit e le relazioni pericolose di Viktor Orbán con Mosca e Pechino, ora si stringe attorno alla bandiera Ue. In cambio chiede indulgenza, e trova comprensione non solo nei sodali più a destra, come Lega e Fratelli d’Italia, ma pure più al centro. Fosse per i popolari, la risoluzione approvata ieri all’Europarlamento anche col loro voto sarebbe stata da rinviare. Per dirla con Weber, “questi paesi stanno accogliendo i rifugiati: non è un buon momento”. Le partite politiche - Finora Bruxelles non ha dato il via libera ai piani di ristoro (recovery plan) polacchi e ungheresi: quei fondi sono al momento congelati, e la squadra del commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni conferma che su questo punto non ci sono novità per ora. Ma la partita politica si gioca anche sull’applicazione del “meccanismo di condizionalità”, e cioè la leva che vincola l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto. Proprio su questo dossier si è espresso ieri l’Europarlamento. Il meccanismo sulla carta è già in vigore da oltre un anno, ma la Commissione europea temporeggia e non lo ha ancora attivato. Alla base dei ritardi c’è un accordo politico stretto ai tempi della presidenza di turno tedesca tra l’allora cancelliera Angela Merkel, i premier ungherese e polacco; anche nei Consigli europei di ottobre e dicembre, i governi hanno spinto per la linea del compromesso. La battaglia solitaria dell’Europarlamento per attivare il meccanismo ha trovato una sponda nella sentenza di febbraio della Corte, e subito gli eurodeputati hanno lavorato a una risoluzione per sollecitare Bruxelles. Ieri è stata approvata. Ma il dato politico è che un’azione incisiva dell’Ue per lo stato di diritto si allontana sempre più. La svolta bellica - Witold Waszczykowski è l’emanazione del governo polacco in Ue: ex ministro degli Esteri, espressione dello stesso partito del premier, il Pis, siede come eurodeputato tra le file dei conservatori (Ecr), le stesse di Fratelli d’Italia. Per lui, quella sullo stato di diritto è “una battaglia ideologica: c’è ben altro a cui pensare. Bisogna fermare l’aggressione russa, assistere l’Ucraina e i rifugiati; già oltre un milione è arrivato in Polonia”. L’argomento della guerra, e l’idea che si debba soprassedere sulla rule of law in virtù di uno sforzo di accoglienza polacco, non è usato solo da Varsavia e dai compagni di gruppo meloniani di Ecr. La Lega, e i sovranisti di Id, hanno votato contro la risoluzione perché “in un momento in cui la Polonia è sotto pressione, è una cosa vergognosa”. La cooperazione tattica avviata da conservatori e popolari a gennaio con le elezioni di metà mandato dell’Europarlamento si vede anche dalle considerazioni di Weber sui “tempi opportuni”. Chi in aula si è più speso sul tema, come il verde tedesco Daniel Freund, prende atto che “la guerra ha condizionato il dibattito” ma non condivide gli esiti: “Gli ucraini sono in guerra anche per difendere lo stato di diritto; e questa guerra di Putin dimostra proprio quali conseguenze porti assecondare le derive autocratiche”. L’eurodeputata dell’opposizione ungherese, la liberale Katalin Cseh, sottolinea anche che per l’accoglienza dei rifugiati andrebbero premiate Ong e società civile, più che i governi. “Tutto poggia sulle spalle delle iniziative dal basso”, confermano giornalisti come Marta Glanc di Onet: sindaci, volontari, più che azioni del governo polacco. Ma le obiezioni d’aula contano poco se, come dice Waszczykowski, “alla fine la direzione la decidono i governi”. E se - constata l’eurodeputata liberale Sophie in ‘t Veld - “Ursula von der Leyen si comporta come il cagnolino del Consiglio europeo”. Russia. Dissidenti in fuga: criticare la guerra in Ucraina può costare 15 anni di carcere di Anna Zafesova La Stampa, 10 marzo 2022 Scrittori, manager, informatici in cerca di una vita all’estero. A Istanbul e Tbilisi si parla russo. “È come ai tempi di Lenin”. “Dove posso scappare, adesso, domani, immediatamente?”. Irina Lobanovskaya risponde a migliaia di queste domande ogni giorno. Esperta di IT, cittadina del mondo da anni, da quanto è iniziata la guerra sta gestendo una chat dal titolo “Guida a come rilocarsi dalla Russia”. Partita da 20 partecipanti, ora ne conta 40 mila, e ogni giorno si aggiunge un altro migliaio. Il loro obiettivo è uno solo: lasciare la Russia, il prima possibile, prima che il Cremlino chiuda le frontiere, prima che la vita diventi impossibile, prima che la legge sui “fake nei confronti dei militari russi” cominci a funzionare a pieno regime e chi parla di guerra o protesta contro la guerra rischi di venire condannato a 15 anni di prigione. Prima che i loro figli vengano mandati a morire al fronte. Prima che finisca quel poco che resta di libertà individuale. Nella tragedia immensa dei profughi che scappano dalle bombe russe in Ucraina, il dramma dei russi che fuggono passa quasi inosservato. Ma è un esodo di dimensioni colossali. Qualche giorno fa, l’aeroporto di Erevan ha battuto il record di 42 voli arrivati dalla Russia in un giorno. La frontiera con la Georgia è stata attraversata in due giorni da 20 mila cittadini russi. Il treno da Pietroburgo per la Finlandia ha il tutto esaurito da due settimane. Gli aerei per Istanbul, Dubai, Tbilisi, le poche destinazioni non ancora bloccate - i voli tra la Russia e l’Europa sono stati chiusi quasi subito dopo l’inizio della guerra - e che non richiedono un visto per i russi, sono stati presi d’assalto, con prezzi per i biglietti che raggiungevano cifre con tre zeri. Molti non avevano il visto, tanti nemmeno il passaporto, posseduto solo dal 28% dei russi, ma dopo due anni di pandemia anche il ceto medio globalizzato di Mosca e Pietroburgo aveva i documenti scaduti. I giornalisti - in pochi giorni, quasi 200 grandi firme russe e internazionali hanno lasciato la Russia per non correre rischi - raccontano di ristoranti di Tbilisi e Istanbul dove si parla russo, e si discute di dove andare e cosa fare. Gli aerei che atterrano sono pieni di intellettuali, scrittori, designer, attori, che annunciano l’emigrazione sui social. “Siamo partiti per diversi motivi, ma in realtà per uno solo, la criminale guerra in Ucraina”, scrive su Instagram Anton Dolin, il più popolare critico cinematografico russo. Sulla porta del suo appartamento era apparsa una grande zeta bianca, il simbolo che marchia i mezzi russi in Ucraina, un avvertimento sinistro ai nuovi “nemici del popolo”. La tolleranza verso il dissenso è sotto zero, lavorare è impossibile, versare aiuti alle vittime della guerra è un crimine, “ho già twittato abbastanza per un processo per alto tradimento”, dice Lobanovskaya a Meduza, il giornale online dell’opposizione oscurato in Russia. È la riedizione surreale della grande fuga dalla rivoluzione bolscevica, dei “piroscafi dei filosofi” che salpavano nel 1922 dalla Crimea, con a bordo quelli che Lenin definiva “non il cervello della nazione, ma la sua merda”. Come allora, si fugge spesso con quello che si ha addosso: le banche e le carte di credito sono sotto sanzioni occidentali, il rublo si è svalutato quasi della metà, e Putin ha praticamente bloccato i bonifici per l’estero. Gli oligarchi si erano attrezzati vie di fuga da anni, gli intellettuali scappano con pochi contanti e una valigia. Un gesto disperato, che molti non hanno il coraggio di fare, per non abbandonare i genitori o i figli, perché non hanno i mezzi per sostenersi nemmeno i primi tempi: “Anche se i confini venissero chiusi, non sarebbe per sempre”, è il messaggio che Irina lascia a chi le scrive terrorizzato di rimanere nella prigione che la Russia è diventata. Nelle chat di Linkedin gli informatici trovano proposte di lavoro al volo, ma gli intellettuali legati alla cultura russa non sono molto richiesti dalle multinazionali. La possibilità di farsi finanziare dai lettori/spettatori non esiste più: le carte di credito dei russi sono bloccate, e YouTube ha proibito ai canali russi di monetizzare pubblicità. È una fuga senza gloria infatti, mentre “tutto quello che è associato alla Russia diventa tossico”, si rammarica il popolarissimo scrittore Boris Akunin. Essere russi è diventata una vergogna, e Dolin spiega di essere fuggito anche “per non diventare complice”: “Non avremo né possibilità, né diritto a dimenticare. Siamo marchiati”. Il discorso della vergogna è tra i più dolorosi, soprattutto per chi aveva fatto opposizione a Putin per vent’anni. Memorial Italia ha fatto un appello per concedere ai dissidenti russi asilo in Europa come a vittime del regime di Putin. Ma il senso di colpa non si cancella, dice Dolin: “Gli ucraini vinceranno, hanno già vinto... Noi, viviamo una catastrofe morale... La Russia non esiste più”.