La riforma della giustizia divide giudici e pm di Dario Ferrara Italia Oggi, 9 maggio 2022 Si va verso un solo passaggio in carriera tra funzione giudicante e requirente. Arriva il fascicolo per la valutazione annuale della performance per i magistrati. Sono alcune delle novità previste dal disegno di legge firmato Cartabia. Separazione più netta fra giudici e Pm: si va verso un solo passaggio in carriera tra funzione giudicante e requirente. Arriva il fascicolo per la valutazione annuale della performance per i magistrati. Nei consigli giudiziari voto unitario espresso dalla componente degli avvocati sulla professionalità delle toghe. Stop alle nomine a pacchetto per gli incarichi di vertice negli uffici. Più poteri al procuratore nell’organizzazione dell’ufficio. È la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura, approvata alla camera e ora all’esame del senato: contiene la delega al governo ma anche disposizioni subito applicabili. Contro il disegno di legge l’assemblea nazionale dell’associazione nazionale magistrati ha deliberato un giorno di sciopero. “In questo passaggio abbiamo proposto la riforma migliore possibile, ben consapevoli che sempre tutto è perfettibile”, ha spiegato la guardasigilli Marta Cartabia durante il voto a Montecitorio. Sola andata. Sono oggi ammessi quattro passaggi tra giudicante e requirente nel corso della carriera. Con una norma immediatamente precettiva, il ddl introduce la regola per cui si può cambiare funzione una volta nel corso della carriera entro nove anni dalla prima assegnazione; trascorso tale periodo, è permesso per una sola volta al giudice di diventare Pm, a patto che l’interessato non abbia mai emanato verdetti nel penale, oppure al Pm di divenire giudice civile o del lavoro in un ufficio diviso in sezioni, a condizione che il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste; disposizioni specifiche sono dettate quando il cambio di funzioni avviene al conferimento delle funzioni di legittimità: resta fermo che il magistrato che svolge funzioni requirenti può diventare consigliere di Cassazione e di presidente di sezione. Sulla separazione giudici e pubblici ministeri pende uno dei cinque referendum previsti per il 12 giugno: in caso di approvazione del ddl spetterà alla Suprema corte decidere se sul quesito si voterà o no. Ed è probabile che piazza Cavour opti per la conferma della consultazione popolare sul punto, visti gli orientamenti degli ultimi anni: il quesito posto alle urne punta a eliminare ogni passaggio tra funzioni e ci sarebbe comunque una differenza significativa tra riforma e referendum. Folder personale. È introdotto il fascicolo per la valutazione del magistrato, da tenere in considerazione anche in sede di attribuzione degli incarichi direttivi e semidirettivi, oltre che in sede di verifica della professionalità. Presso l’ufficio di appartenenza della toga si tiene un folder personale che conterrà per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta dall’interessato, compresa quella cautelare; il tutto sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo, considerando la tempestività dell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio e ogni altro elemento rilevante. Sulla valutazione ora pesa il rispetto dei programmi annuali di gestione dei procedimenti. I fatti accertati in via definitiva nei procedimenti disciplinari, poi, devono comunque essere oggetto di valutazione per la progressione della carriera. Di più: reiterati giudizi negativi hanno effetto sulla progressione economica e sull’attribuzione delle funzioni. Accesso semplificato. Per il concorso in magistratura, via Arenula determina ogni anno il numero di posti che diventeranno vacanti nei quattro anni successivi e bandisce di conseguenza la tornata annuale entro il mese di settembre. L’obiettivo è abbandonare il modello del concorso di secondo grado, in modo da ridurre i tempi che passano tra la laurea e l’immissione in ruolo. Cambia l’esame: da riformare le prove scritte (tre, sulle capacità del candidato di inquadrare i problemi) e orali, con la riduzione delle materie. Tirocini formativi negli uffici giudiziari anche ai laureandi in giurisprudenza. Palazzo Chigi, fra l’altro, è delegato a ridurre gli incarichi direttivi e semidirettivi delle toghe, rivedendo i criteri di assegnazione. Per evitare le nomine a pacchetto per i posti di vertice si seguirà l’ordine di vacanza, vale a dire l’ordine cronologico delle scoperture, salvo deroghe per gravi e giustificati motivi e ad eccezione dei posti di primo presidente e procuratore generale della Cassazione, che hanno natura prioritaria. Arrivano norme di trasparenza, sul sito intranet del Csm saranno pubblicati gli atti e i curricula. Inoltre si prevede l’obbligo di audizione obbligatoria di non meno di tre candidati per il posto vacante. Vietato presentare contemporaneamente più di due domande per ciascun magistrato. Corsi di formazione per tutti dalla scuola superiore della magistratura: chi punta a incarichi semidirettivi e direttivi deve avere capacità di analisi e elaborazione dei dati statistici, oltre che organizzative. Criteri di priorità. Possibile diventare consigliere di Cassazione dopo dieci anni e non più 16 di esercizio delle funzioni di merito; quanto al massimario, metà dei componenti dell’ufficio può essere destinata dal primo presidente a svolgere funzioni giurisdizionali. Per gli uffici giudicanti di tutta Italia, poi, le tabelle organizzative valgono per quattro anni invece di tre. E quelli requirenti? Il procuratore deve predisporre un “progetto organizzativo dell’ufficio” con “le misure” necessarie a garantire “l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”. Il tutto indicando “criteri di priorità” le notizie di reato da trattare con precedenza nell’ambito dei criteri generali deliberati dal Parlamento. E tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specificità del territorio e delle risorse disponibili. Pagella legale. Risulta esteso il ruolo dei componenti laici nei consigli giudiziari e nel consiglio direttivo della Cassazione. Avvocati e professori universitari possono partecipare alle discussioni e assistere alle deliberazioni sui pareri per la valutazione di professionalità di giudici e Pm. La sola componente dell’avvocatura può esprimere un voto unitario in sede di decisione. Ma il presupposto è una specifica segnalazione, positiva o negativa, sul magistrato da parte del Consiglio dell’Ordine. Se i legali membri del Consiglio giudiziario vogliono discostarsi dalla segnalazione, esprimendo una valutazione di segno opposto, devono chiedere prima un’altra deliberazione al Coa. Nel referendum del 12 giugno sul quesito ad hoc si voterebbe comunque perché la norma non è subito applicabile ma rientra nella delega al governo. Meno fuori ruolo. Ridimensionato, infine, l’istituto dei magistrati fuori ruolo: vanno ridotti il numero delle toghe che può accedervi e la durata del collocamento fuori dalle funzioni. Rientra nei compiti affidati a Palazzo Chigi indicare gli incarichi extragiudiziari che possono essere svolti semplicemente mettendosi in aspettativa e dettare regole ad hoc per quelli da svolgere a livello internazionale. Sisto: “Ridare credibilità a tutto il sistema step non rinviabile” di Mimmo Mazza Gazzetta del Mezzogiorno, 9 maggio 2022 “L’astensione proclamata dai magistrati è legittima, ma ingiusta”. È protagonista nelle riforme sulla Giustizia del Governo Draghi, seguendo in Commissione e in aula fibrillazioni e riappacificazioni, fra coerenza dei principi ed obbligazione di risultato: Francesco Paolo Sisto, barese Doc, penalista di mille processi, sottosegretario di Stato alla Giustizia di Forza Italia, spiega alla Gazzetta stanno le cose sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che ha portato i magistrati a indire una giornata di sciopero per il prossimo 16 di maggio. On. Sisto, il 16 maggio i magistrati si asterranno dalle loro funzioni contro la riforma del Csm: come giudica questa scelta? Sinceramente ingiusta. Legittima, ma ingiusta. Chiarisco: l’Anm è stata convocata, ed ha direttamente interloquito con il Ministero per almeno sette volte, oltre all’audizione da parte della Commissione Luciani, ottenendo, come lo stesso presidente Anm Santalucia ha ammesso nel corso dell’assemblea del 30 aprile scorso, rilevanti risultati, in linea con le proprie richieste. Poi il Parlamento ha deciso. Non devo ricordare che, secondo l’art. 101 della Costituzione i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che la separazione dei poteri esige che ciascuno faccia il suo. Il Parlamento scrive le leggi, i magistrati, dopo essere stati doverosamente messi in condizione di dire la propria, sono tenuti ad applicarle, come tutti. Attenzione: la protesta dei giudici contro una legge può essere percepita dai cittadini come una sorta di autoprotezione ingiustificata, con qualche serio rischio almeno di inopportunità costituzionale. Montesquieu sarebbe molto, molto severo… Perché è importante riformare il Csm? La riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario è un tassello, rilevante, di un sistema di riforme. Nuovo processo penale, nuovo processo civile, intervento sulla crisi di impresa, norme sul rispetto della presunzione di innocenza e, prossimamente, revisione del processo tributario sono interventi strutturali, alcuni fondamentali per ricevere i fondi del PNRR, altri indispensabili per restituire al pianeta Giustizia credibilità ed efficienza. Il comune denominatore? I principi costituzionali, ripresi con vigore e coerenza, dopo qualche… amnesia. La Costituzione, per dirla con una meravigliosa espressione di Calamandrei, è un foglio caduto per terra: se non lo raccogli e lo vivifichi, i suoi insegnamenti restano lì. Ecco, noi, magari con qualche competenza in più, l’abbiamo raccolto e lo teniamo, saldamente, nelle mani. L’ordinamento giudiziario, Csm compreso, necessitava di un intervento, mai punitivo, ma che consentisse di percepire, plasticamente, “il vigore con vigore” dei pilastri della Carta. Qualche vicenda recente aveva offuscato l’immagine della Magistratura: si è cercato di restituirle il necessario smalto. Teme che possano esserci ripercussioni al Senato, con la commissione giustizia impegnata a valutare il testo del Governo? La prima lettura della Camera è stata un significativo esempio di grande maturità da parte di tutti i gruppi parlamentari di maggioranza, esclusa Italia Viva, che ha ritenuto di astenersi. Per dirla con le parole di Papa Francesco dinanzi al Csm, tutti hanno fatto un passo indietro per farne, insieme, due in avanti. Abbiamo passato ore ed ore a discutere, ragionare, mediare reciprocamente, fino a raggiungere un accordo che non esito a definire politicamente equilibrato. Qualcuno sostiene che è “troppo”, altri che è “troppo poco”: vuoi vedere che siamo nel giusto? Al Senato c’è il problema dei tempi di discussione in Commissione Giustizia, ma sono ottimista e resto convinto che il senso di responsabilità prevarrà su ogni perplessità. Cosa devono aspettarsi i cittadini dalla riforma della giustizia? La riforma presenta un Giudice dai contorni costituzionalmente più chiari e definiti. Il 104 e il 111 della Carta impongono alla Magistratura autonomia e indipendenza, imparzialità e terzietà. Alla luce di tali premesse, è giusto o no che il Magistrato che venga eletto o chiamato a rivestire ruoli politici non torni più ad amministrare la Giustizia nelle aule? E che se non eletto, abbia delle significative limitazioni di tempo e luogo per esercitare la giurisdizione? E che cautele simili siano riservate a coloro che rivestono ruoli di notoria matrice politica nei ministeri? Direi proprio di sì, a seguire la Costituzione. Come pure il cittadino, dopo nove anni dall’ingresso in Magistratura, avrà diritto di sapere se il suo interlocutore sarà accusatore o giudice? Ed è corretto ridurre il numero dei magistrati “fuori ruolo” ed il loro tempo di permanenza lontani dalle aule? Direi proprio di sì, a seguire la Costituzione. Quanto ai criteri di valutazione ed al fascicolo relativo, le patologie eventuali riguardano grandi numeri e “gravi anomalie”, senza che possano, a mio avviso, legittimare preoccupazioni o perplessità in chi, come tantissimi, dedica la vita al servizio Giustizia. Poi sia chiaro: da un lato, ogni cambiamento comporta una naturale e comprensibile resistenza da parte di chi deve cambiare, è la terza legge di Newton. Dall’altro, per dirla con Alfred de Vigny, “mi chiamate legge, ma sono la libertà”, questo è il Dna immutabile della democrazia parlamentare. Riforma della giustizia: critiche e proposte degli Osservatori Nazionali di Sara Occhipinti altalex.com, 9 maggio 2022 Sì al digitale come strumento per prevedere le decisioni, no alla giustizia predittiva. Ridefinire il perimetro della giurisdizione, valorizzare il ruolo della prima udienza, salvaguardare oralità e concentrazione del processo, estendere il gratuito patrocinio alla fase stragiudiziale, garantire la prossimità degli uffici giudiziari. Sì al digitale come strumento per prevedere le decisioni, no alla giustizia predittiva. Sono alcune delle indicazioni (testo integrale in calce) che gli Osservatori Nazionali hanno inviato alla Ministra Cartabia, in vista dei decreti attuativi della Riforma della giustizia civile. La riforma della giustizia civile, i cui principi sono contenuti nella legge delega n. 206/2021, è in fase di attuazione attraverso il lavoro delle Commissioni nominate dal Ministero della Giustizia che stanno elaborando i decreti legislativi di prossima emanazione. E come si sa, la fase attuativa, quella dove si passa dal dire al fare, è una fase delicata, nella quale è indispensabile tenere conto, delle osservazioni e delle buone prassi degli operatori del mondo della giustizia. Va proprio in questo senso il lavoro degli Osservatori Nazionali, un movimento di base formato da avvocati, magistrati, professori universitari e personale di cancelleria. Gli Osservatori, sin dagli anni 90, si sono occupati di trovare soluzioni “a legislazione esistente”, formulando buone prassi, come quelle contenute nei Protocolli di udienza, oppure come la regolamentazione del sub procedimento di consulenza tecnica d’ufficio, o ancora come le tabelle sulla liquidazione del danno non patrimoniale. In merito all’attuazione della riforma civile, gli Osservatori Nazionali hanno fatto pervenire alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia le proprie osservazioni, evidenziando gli aspetti critici che richiedono maggiore attenzione. Alla base del documento, la richiesta di un vero cambio di prospettiva, per una riaffermazione della giurisdizione come “strumento di attuazione di una giustizia a servizio della persona e della sua dignità”. In quest’ottica, secondo gli Osservatori, occorre razionalizzare e ridefinire il perimetro della giurisdizione, puntando ad una revisione radicale del settore della volontaria giurisdizione e al trasferimento di certi compiti, come per esempio le ingiunzioni non esecutive e alcuni fasi dell’esecuzione forzata, a figure professionali esterne. Gli Osservatori mettono in guardia dal puntare troppo sulle modifiche del rito processuale, che in passato si sono rivelate foriere di una moltiplicazione del contenzioso, più che di una sua deflazione. Piuttosto occorrerebbe procedere alla razionalizzazione, al coordinamento e alla coerenza dei riti rispetto alle materie. Riguardo alle misure adottate durante la pandemia, andrà conservato ciò che si è rivelato utile, ma mantenendo ed anzi valorizzando il principio di oralità e il contatto tra le parti ed il giudice, accompagnato semmai da una “trattazione concentrata” del processo. Un ruolo centrale in questo senso potrà essere costituito dalla prima udienza, come sede nella quale favorire la tempestiva determinazione del thema decidendum e del thema probandum, la risoluzione delle questioni preliminari, l’esplorazione di risposte conciliative e l’innesto nel processo di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. Un punto importante per l’efficienza della giustizia, si legge nel rapporto inviato alla Ministra è costituito dall’organizzazione della macchina giudiziaria. Gli Osservatori invitano ad attingere alle risorse economiche del Piano nazionale di ripresa e resilienza per coprire le vacanze dei magistrati e del personale di cancelleria, e per strutturare l’ufficio del processo, immaginando nuove figure di assistenti del giudice, stabilmente inserite nell’organico, e specificamente formate nella materia di cui si occupa la singola sezione dell’ufficio giudiziario, cui sono applicate. Un punto trascurato dalla Riforma, è invece quello della prossimità della giustizia, che andrebbe assicurata, secondo gli Osservatori, non solo attraverso le piattaforme telematiche, ma soprattutto con sportelli fisici diffusi su tutto il territorio a seconda dei settori interessati e per materie specifiche. Il rapporto consegnato alla Ministra raccomanda cautela nel processo di digitalizzazione della Giustizia, ricordando il ruolo strumentale del digitale rispetto alla ricerca intellettuale del giurista. Sì quindi alle banche dati, alle raccolte di precedenti, alle tabelle ai calcoli, per assicurare la prevedibilità delle decisioni. No invece alle forme di giustizia predittiva, che affidano la decisione all’intelligenza artificiale. “La decisione sul caso concreto”, scrivono gli Osservatori alla Ministra deve “essere lasciata al discernimento dell’umano per assicurare l’effettività della tutela richiesta dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali”. Altri due passaggi importanti del rapporto inviato al Ministero, riguardano l’implementazione delle ADR e la scrittura del diritto. La deflazione del contenzioso, si legge, deve essere correttamente inquadrata come conseguenza e non come causa della scelta legislativa che punta a valorizzare gli strumenti alternativi delle controversie. La ragione di fondo per implementare i riti alternativi al giudizio risiederebbe piuttosto nella natura di certi conflitti, che per il loro specifico oggetto o per la qualità delle parti coinvolte si prestano meglio ad essere definiti con la mediazione. Occorrerebbe in ogni caso “superare la cultura avversariale tradizionale” e valorizzare il “diritto collaborativo” e i “metodi partecipativi” promuovendo una formazione specifica di avvocati e magistrati, adeguati incentivi fiscali, e l’estensione del patrocinio a spese dello Stato non solo agli strumenti alternativi alla causa, ma anche alla fase stragiudiziale che spesso previene anticipatamente la nascita del conflitto. Riguardo alla sinteticità e chiarezza degli atti giudiziari, che certamente passa da una migliore formazione comune di avvocati e magistrati, gli Osservatori invitano il legislatore a fare la propria parte, migliorando la tecnica di scrittura delle norme che negli ultimi tempi è apparsa inadeguata rispetto agli obiettivi di chiarezza e certezza del diritto. Sciopero magistrati contro la riforma: per gli utenti della giustizia meglio cambiare di Francois-Marie Arouet pensalibero.it, 9 maggio 2022 La situazione è tale che la raccomandazione numero uno è di non entrare mai in un tribunale e non affidarsi mai alle decisioni di un giudice. E se dovesse essere impossibile non farlo, è importante la scelta dell’avvocato, nonché la chiarezza dei rapporti anche con quest’ultimo. L’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha proclamato sciopero il 16 maggio per protestare contro il testo della riforma (separazione delle funzioni, del disciplinare e delle valutazioni professionali) del Consiglio superiore della magistratura (Csm) approvato alla Camera e che passa al Senato. La riforma viene definita dall’Anm “contro i magistrati” e non “per la giustizia”. Ma è uno sciopero non sindacale (regolare i rapporti tra magistrati e datore di lavoro, lo Stato) bensì politico: si contesta la riforma e, fatto da un’associazione di rappresentati di un potere dello Stato, sembra la pretesa di volersi arrogare anche il potere legislativo. Se poi consideriamo che spesso la giurisprudenza svolge di fatto funzione suppletiva per leggi non aggiornate, non chiare, contraddittorie… sembra quasi che all’Anm abbiano fatto virtù di questa funzione, estendendola anche al processo legislativo vero e proprio. La riforma approvata dalla Camera (l’unica possibile dice il ministro della Giustizia, Marta Cartabia), e contestata da questo sciopero, non rimette in discussione alcuni aspetti fondamentali come, invece, accade coi referendum che andremo a votare il prossimo 12 giugno ma, interna al loro organismo di autogoverno (Csm), smuove leggermente le acque di alcuni poteri dei magistrati che contribuiscono a renderli scevri di responsabilità del loro operato. Da utenti del “servizio giustizia” siamo adusi a rilevare i risvolti pratici di questa situazione. C’è una sorta di equilibrio malsano che si percepisce e si subisce quando si entra in un tribunale. Un mix in cui, alla tradizionale mala-burocrazia di ogni ufficio pubblico, si aggiunge il disagio di essere, in un bene o male di cui non si percepiscono i confini, nonostante tutte le aule riportino la scritta “la legge è uguale per tutti”, nelle mani di chi: ha fretta; ci considera a sua totale disposizione; non si impegna ad approfondire le ragioni del singolo, incasellandole in modelli standard; ritiene scontato il corollario di burocrazia opprimente e incomprensibile che spesso lo circonda; agisce con certezza di impunità (noi siamo lì per rendere conto di qualche nostro errore, ma se lui sbaglia non rende conto a nessuno). Possiamo dire che è benvenuto tutto ciò che smuove questa situazione. Lo stagno puzza. La situazione è tale che la raccomandazione numero uno è di non entrare mai in un tribunale e non affidarsi mai alle decisioni di un giudice. E se dovesse essere impossibile non farlo, a parte le poche procedure in cui è possibile fare da sé (quasi sempre rese difficili dalla burocrazia), è importante la scelta dell’avvocato, nonché la chiarezza dei rapporti anche con quest’ultimo. Referendum, Caiazza: “Qui è in gioco la libertà di stampa e la democrazia”. di Pino Nano primapaginanews.it, 9 maggio 2022 L’Unione delle Camere Penali Italiane e il suo Presidente Giandomenico Caiazza denunciano la “gravissima assenza di informazione sui referendum, in particolare modo da parte del servizio pubblico radiotelevisivo, che lede il diritto costituzionale dei cittadini elettori a conoscere per deliberare, e rende inattendibile l’esito della consultazione”. Il 12 giugno - ricorda il giurista - i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimere il proprio voto su cinque referendum in materia di giustizia, anche se non può essere esclusa la possibilità che, in caso di definitiva approvazione della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, alcuni dei quesiti proposti vengano ritenuti non più oggetto di consultazione. “Il passaggio istituzionale è quanto mai incerto non essendo ad oggi possibile prevedere se la reazione dell’Associazione Nazionale Magistrati riuscirà, magari all’ultimo minuto, a svuotare di reale significato la pur timida riforma licenziata dalla Camera dei Deputati”. Dunque, tra poco più di un mese si terrà in una sola giornata il voto referendario, ma ad oggi è assente qualsiasi dibattito politico sui quesiti. Gli organi di informazione - sottolinea il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane - e i Social Network non se ne occupano “privando così l’opinione pubblica della necessaria informazione. La RAI viene clamorosamente meno al proprio ruolo di servizio pubblico della informazione. La sensazione è che le stesse Forze Politiche che hanno concorso alla campagna referendaria non abbiano interesse alla discussione, probabilmente anche per la mancanza di coerenza politica tra le posizioni espresse in materia di giustizia nel corso della Legislatura e alcune delle indicazioni referendarie”. Giandomenico Caiazza non conosce mediazioni e quando c’è da difendere un principio costituzionale va giù dritto come una macchina da guerra: “L’UCPI - contesta duramente-non è stata coinvolta dai promotori nella elaborazione dei quesiti ed ha avuto modo di esprimere le proprie perplessità su alcune delle formulazioni referendarie che sono risultate non sempre immediatamente intellegibili rispetto all’obbiettivo dichiarato”. In ogni caso una considerazione si impone. E su questo non ci sono dubbi di nessun genere: “Aldilà dello schieramento proponente e della qualità dei quesiti, quando la proposta di referendum raggiunga il numero di sottoscrizioni richiesto o veda l’adesione degli attori Istituzionali ai quali la Costituzione consegna l’iniziativa referendaria, i cittadini meritano una informazione adeguata per poter consapevolmente esercitare il diritto di voto”. L’accusa alla RAI è forte, è diretta, è anche ampiamente motivata. Per il leader dell’Unione Camere Penali “Il silenzio della informazione, soprattutto da parte del servizio pubblico, è un fatto di inaudita gravità, che pregiudica il diritto dei cittadini ad essere informati, e al contempo, altera il significato ed il valore della consultazione, rendendo di fatto inintelligibile il senso ed il valore della volontà che il corpo elettorale esprimerà in questa importante occasione referendaria”. Da qui l’invito finale. La Giunta dell’Unione invita le Camere Penali territoriali a dare vita o a partecipare con impegno ad ogni iniziativa di dibattito e di informazione della pubblica opinione che possa contribuire,” pur nelle condizioni già proibitive che vanno determinandosi, alla consapevole espressione ed alla affermazione di una diffusa volontà di sostegno delle proposte referendarie di riforma in senso liberale della giustizia nel nostro Paese”. Si coglie con mano che per Giandomenico Caiazza e per l’Unione delle Camere Penali che lui guida si apre da oggi una battaglia di grande respiro istituzionale, di cui certamente sentiremo parlare nelle settimane che verranno. Noi stiamo dalla sua parte. Melillo, Gratteri e il Csm: perché le logiche di corrente non si fermano? di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 9 maggio 2022 Il modo in cui in Csm Ardita e Di Matteo hanno sostenuto Gratteri (sconfitto da Melillo) alla Dna denota una visione fortemente correntizia. Dato per favorito alla vigilia, nonostante avesse ricevuto solo una preferenza dalla commissione incarichi direttivi del Csm, l’attuale procuratore di Napoli (ed ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia) Gianni Melillo è stato eletto pochi giorni fa nuovo procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Iscritto alla corrente progressista di Area, il neo capo della Direzione nazionale antimafia (Dna) ha ottenuto i 13 voti, ovvero la maggioranza assoluta dei plenum, sconfiggendo così il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che di voti ne ha ricevuti 7, mentre 5 sono stati quelli raccolti dall’attuale procuratore aggiunto della Dna Giovanni Russo. Figura di grande prestigio e innato carisma, il procuratore di Napoli in passato ha già lavorato a lungo alla Procura nazionale antimafia, vantando inoltre anche una parentesi all’ufficio giuridico del Quirinale. Gratteri, da sempre in prima linea nella lotta contro la ‘ndrangheta, era l’unico che poteva contendergli la poltrona, potendo contare sulla notoria incisività con la quale ha sempre dato corpo all’azione di contrasto al fenomeno mafioso; tuttavia la sua candidatura non è andata oltre i 7 voti di cui era accreditato alla vigilia. Molto scalpore hanno suscitato le parole pronunciate in suo favore, durante il dibattito in plenum, dai consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. L’ex pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia ha infatti ricordato che la nomina di cui si discuteva rappresentava “una scelta di politica giudiziaria alta, che non deve essere condizionata da giochi di potere di nessun tipo”, evidenziando come di recente siano state “acquisiste notizie circostanziate di possibili attentati nei suoi confronti poiché in ambienti mafiosi ne percepiscono l’azione come un ostacolo e un pericolo concreto. In questa situazione una scelta eventualmente diversa suonerebbe inevitabilmente come una bocciatura del dottor Gratteri e non verrebbe compresa da quella parte di opinione pubblica ancora sensibile al tema della lotta alla mafia e agli occhi dei mafiosi risulterebbe come una presa di distanza istituzionale da un magistrato così esposto”. Ciò che tuttavia ha più impressionato è stato l’esplicito richiamo a non cadere negli errori che in passato, troppe volte, hanno tragicamente marchiato le scelte del Csm in tema di lotta alla mafia e che in certi casi hanno creato quelle condizioni di isolamento istituzionale che hanno costituito il terreno più fertile per omicidi e stragi. Concetto fortemente ribadito dal consigliere Ardita, il quale ha sottolineato che ove non si fosse optato per la nomina di Gratteri, se ne sarebbe dovuto ricavare che la storia non ci abbia insegnato nulla, rafforzando la tradizione poco lusinghiera del Csm ad essere considerato organo abituato a deludere le aspirazioni professionali dei magistrati particolarmente esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, finendo per contribuire indirettamente al loro isolamento. L’esclusione di Gratteri sarebbe stata, pertanto, non solo la bocciatura del suo impegno antimafia, ma un segnale devastante a tutto l’apparato istituzionale e al movimento culturale antimafia. È apparso chiaro il riferimento al voto con cui, nel 1988, lo stesso plenum del Csm preferì Antonino Meli a Giovanni Falcone per succedere ad Antonino Caponnetto nel ruolo di consigliere istruttore della Procura di Palermo. Per la verità, nulla di più lontano esiste fra la figura di Meli e quella di Melillo. Non siamo del tutto convinti che le suggestioni adoperate dai due prestigiosi consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura, pur comprendendone lo scopo, vadano nella giusta direzione. La figura di Melillo deve essere annoverata fra quelle caratterizzate da un’elevatissima professionalità e un’alta preparazione oltre che giuridica anche organizzativa, con particolare attitudine ad esercitare l’arte del comando e del coordinamento di uomini e mezzi. Alcuna ombra deve quindi essere alimentata, anche indirettamente, nei confronti di un uomo che sarà chiamato a ricoprire un ruolo centrale nelle strategie di contrasto ai fenomeni mafiosi, soprattutto in considerazione della imminente stagione dell’attribuzione delle risorse del Pnrr che tanta gola fanno agli ambienti criminali. Tuttavia, al di là delle parimenti degne figure personali di Melillo e Gratteri, non può non osservarsi che anche in questa circostanza la logica delle correnti sembra avere prevalso sugli alti meriti personali dei contendenti. Per il procuratore di Napoli hanno votato, compattamente e prevedibilmente, i cinque consiglieri di Area (la corrente di sua appartenenza), i consiglieri di Unicost (la corrente di centro) e i due capi della Cassazione, oltre ai due membri laici indicati dai M5s, e il membro laico in quota Forza Italia, noto avvocato napoletano. Per Gratteri si sono invece espressi, oltre agli già citati consiglieri Di Matteo e Ardita, gli altri due togati della più giovane delle correnti, Autonomia & Indipendenza, i due laici in quota Lega, nonché il terzo laico in quota M5s. A Russo, terzo candidato, sono andati i voti dei togati della corrente di appartenenza, ovvero Magistratura indipendente, e quello dell’altro laico in quota Forza Italia. Se pertanto i voti dei consiglieri laici non si sono mossi per blocchi granitici, per i consiglieri togati è valso l’esatto opposto, con il conseguente (e per certi versi naturale) sostegno indirizzato al proprio candidato di corrente. In quest’ottica, i voti raccolti da Gratteri, non iscritto ad alcuna corrente, hanno un peso particolare e rendono di ancora più plastica comprensione la difficoltà di sganciarsi da certe logiche di parte a favore di quelle legate al merito e ai contenuti. Al neo procuratore nazionale vanno i migliori auguri di buon lavoro, certi che, come sempre accaduto nel corso della sua carriera, egli saprà attuare la capacità di coordinamento, senza sottrarsi dall’azione di forte impulso investigativo di cui la lotta alla mafia nel nostro paese ha ancora, dopo trent’anni dalle stragi mafiose, straordinario bisogno. Marco Alessandrini: “Il terrorismo è ancora un rischio. Le tensioni sociali possono esplodere” di Grazia Longo La Stampa, 9 maggio 2022 Oggi la giornata in ricordo di tutte le vittime. Il figlio del magistrato ucciso a Milano dalle Br: “Non diamo per scontata la democrazia, per evitare degenerazioni la memoria va coltivata”. Marco Alessandrini ha 50 anni, una professione di avvocato civilista, un passato da sindaco di Pescara per il Pd e un ricordo indelebile: l’omicidio del padre Emilio, magistrato a Milano, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1979. Che valore ha al giorno d’oggi la celebrazione della giornata delle vittime del naufragio terrorismo? “Enorme. Non solo per l’importanza di non dimenticare quella pagina buia della nostra storia, ma anche perché, come assistiamo in questi ultimi giorni, ci sono ancora reminiscenze di insidie alla democrazia”. Si riferisce alla stella a 5 punti sul pannello dell’ascensore della Rai? “Proprio così, si tratta di un episodio da non sottovalutare tanto più che è avvenuto all’interno del mondo della comunicazione. Ma penso anche all’esibizione, il 25 aprile scorso, della band P38 in un circolo Arci qui a Pescara con canzoni inneggianti alle Br. Mi lasci dire che quei ragazzi sono dei cretini, non saprei come altro definirli. Come diceva il grande Ennio Flaiano, la mamma dei cretini è sempre incinta. Ma mi vengono in mente anche le parole del grande Fabrizio De Andrè quando cantava “qualche assassino senza pretese lo abbiamo anche noi qui in paese”. E comunque anche solo il nome P38 è da condannare. Per non parlare poi della stella a 5 punte alla Rai. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di una bravata ma non è così. Quindi sia questo fatto sia la band P38 non rappresentano bei segnali”. Crede che siamo di fronte ad avvisaglie pericolose per la democrazia? “Non bisogna essere dei sociologi per capire che stiamo attraversando un periodo di tensioni sociali. Lo ha detto da poco il ministro del lavoro Andrea Orlando, ma è sotto gli occhi di tutti. Dalla crisi economica post pandemia a quella scaturita per il conflitto bellico in Ucraina, non mancano purtroppo le condizioni che possono far esplodere tensioni sociali. E così va a finire che qualcuno pensa che ci siano scorciatoie e che considera la democrazia come una realtà scontata. Ma non è così, perché la democrazia costa fatica ed è come una pianta che va annaffiata ogni giorno”. Che cosa si può fare per arginare questo rischio per la democrazia? “Occorre coltivare la cultura della memoria di quello che è stato il terrorismo nel nostro Paese per evitare banalizzazioni o strumentalismi. Per scongiurare il rischio di ignorare il contesto in cui è maturata l’eversione. E per raggiungere questi obiettivi occorre procedere a una formazione, a un’educazione sin dalle scuole. Negli anni in cui ho ricoperto il ruolo di sindaco e sono stato molto con gli studenti ho rafforzato la mia convinzione della necessità di educare i ragazzi. Le istituzioni non possono venire meno a questo compito. Deve passare il messaggio che chi impugna la pistola ha sempre torto e per far passare questo messaggio la scuola è al centro di tutto”. Una giornata simbolo come questa in memoria delle vittime del terrorismo è dunque particolarmente significativa? “È sicuramente una giornata simbolo di grande valenza, anche emotiva. Ma non dobbiamo trascurare il fatto che esistono altri 364 giorni all’anno in cui non va trascurato il valore della lotta al terrorismo e alla violenza”. Lei ha perso il padre quando aveva appena 8 anni, che cosa ha significato per lei oltre al dolore personale? “Il mio trauma individuale di rimanere orfano è coinciso il trauma del Paese, ma crescendo ho capito che occorre guardare avanti e che bisogna condannare ogni forma di violenza”. Lei ha perdonato chi ha ucciso suo padre? “È una decisione molto personale, a cui sinceramente non mi sento pronto. Per me si tratta di un Everest ancora difficile da scalare e non so se sarà mai possibile”. In che modo si approccia alla giornata delle vittime del terrorismo? “Con profonda emotività. Perché ovviamente penso a mio padre, ma anche ad Aldo Moro. Il 9 maggio 1978, un anno prima dell’assassinio di mio padre, venne ritrovato il suo cadavere in via Caetani. Avevo solo 7 anni ma ho impresso nella memoria quel momento. E non lo dimenticherò mai più”. La mafia raccontata ai bambini di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte La Stampa, 9 maggio 2022 Trent’anni ormai ci separano dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, un duplice attacco al cuore della democrazia che Andrea Camilleri ha paragonato, in quanto a potenza anche simbolica, all’abbattimento delle Twin Towers. Una tragedia nazionale che ha scosso profondamente le coscienze e provocato una reazione finalmente determinata dello Stato. Con risultati - è bene ricordarlo - straordinari sul versante di Cosa nostra. Per contro, altre organizzazioni criminali sono cresciute in rilevanza e potere, e la mafia - nonostante il moltiplicarsi di indagini e condanne - resta ancora oggi, purtroppo, lontana dall’essere sconfitta. Ci è sembrato opportuno, con questo libro, parlarne anche ai bambini, raccontando in modo semplice e diretto fatti e personaggi; illustrando che cosa loro stessi debbono sapere per conoscere la mafia senza confondere la realtà col mondo virtuale delle fiction. E ciò attraverso una serie di parole chiave (da antimafia a zero mafia, passando per boss, legalità, maxi-processo, New York, omertà, pentiti, pizzo e molte altre: in totale 54) in cui si riportano varie storie che fanno capire che cos’è davvero la mafia, come agisce, quali sono i suoi obiettivi, quali i guasti che causa alla convivenza civile, quali le differenze fra le varie mafie (Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, organizzazioni pugliesi…), come esse seminano violenza, come si infiltrano nel mondo politico-economico, come si evolvono. Vi sono poi le parole chiave dedicate ai modi di combattere la mafia, a partire da “legalità”. Anche ai bambini si può e si deve spiegare che legalità significa sì osservare la legge e le regole che essa stabilisce; ma occorre soprattutto spiegare “perché farlo”. Non solo per evitare possibili castighi. La legalità è molto di più della paura di una punizione. La legalità conviene! Consente di vivere meglio insieme. Senza legalità non può esserci giustizia sociale, cioè un’equa distribuzione - fra tutti - delle risorse disponibili. Quella contro l’illegalità, a partire dalla mafia (la più grave e pericolosa), è quindi una battaglia per il bene comune che riguarda direttamente tutti noi. Perciò, no all’indifferenza; sì al coraggio di rifiutare i compromessi facendo anche scelte scomode. Il miglior orizzonte della vita di ciascuno è imparare a essere liberi con gli altri e per gli altri; solidali con gli altri, non contro. Mai voltarsi dall’altra parte se si vede qualcuno in difficoltà o un compagno bullizzato. Una parola chiave del libro è proprio “bullismo”. Perché il bullismo è presente anche nelle scuole e si esprime con comportamenti di provocazione, derisione o vera e propria aggressione fisica contro chi non è in grado di difendersi: veri prodromi della cultura mafiosa. Anche per questo è un fenomeno che va contrastato sul nascere. Soprattutto quando prende forme particolarmente odiose, che offendono qualche compagno per la razza, il sesso o la religione. In sostanza, il libro vuole creare anche nei bambini la consapevolezza che ognuno di noi - per quel che può e sa - deve impegnarsi, “partecipare”. Ricordando (non è solo un proverbio) che l’unione fa la forza. Proprio come alcune associazioni di volontari che fanno squadra. Far parte di questa squadra è la cosa giusta per arrivare prima (tutti insieme, cominciando fin da ragazzi) al traguardo “zero mafia”. Senza mai perdere la speranza. Perché (sono parole di Bob Dylan) “essere giovani vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza, anche quando l’oceano è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro”. Nuova class action, appena cinque ricorsi a un anno dal debutto di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2022 Le novità, entrate in vigore dopo 25 mesi, si applicano solo a illeciti commessi dopo il 19 maggio 2021. Al via ora le regole per le associazioni. A un anno dal debutto e a tre dall’approvazione della riforma della class action (legge 31 del 2019) sono solo cinque le azioni collettive intraprese finora. I rinvii dell’entrata in vigore della legge, scattata dopo 25 mesi, il 19 maggio 2021, e il ritardo nel varo del regolamento sull’elenco delle organizzazioni abilitate ad avviare le procedure (la lista dovrebbe essere online entro fine maggio mentre avrebbe dovuto anticipare l’operatività della legge) hanno infatti rallentato l’utilizzo della nuova normativa. Anche perché la riforma prevede che la nuova class action si applichi solo agli illeciti posti in essere dopo la sua entrata in vigore, mentre tutte le violazioni commesse prima del 19 maggio 2021 seguono le vecchie (e più restrittive) regole del Codice. Tanto che le azioni basate sulla disciplina del Codice del consumo sono ad oggi molte di più di quelle cui si applica la riforma. La situazione Le azioni di classe viaggiano, quindi, e continueranno a viaggiare per anni, su due binari. Mentre però il censimento delle nuove class action è possibile perché sono tutte inserite sul portale dei servizi telematici del ministero della Giustizia, per le vecchie azioni collettive cui si applicano le regole del Codice del consumo non è disponibile un elenco completo. Secondo lo studio legale internazionale Cleary Gottlieb, nell’ultimo anno ne sono state avviate (fra quelle presentate e quelle per le quali è ancora in corso la raccolta di adesioni) almeno 16. Solo cinque, invece, quelle nuove: una estinta e le altre alle battute iniziali. “Nessuna riguarda però questioni in grado di coinvolgere a livello nazionale un vasto interesse sociale o mediatico - dice Carlo Santoro, partner di Cleary Gottlieb Nonostante le intenzioni della riforma, la class action italiana appare quindi ancora ben lontana dallo svolgere una funzione sociale analoga a quella, ad esempio, della class action americana”. La riforma è stata varata per sanare i bachi della “vecchia” class action: in generale non molto usata, ha fruttato pochi ricorsi accolti e risarcimenti limitati. Per rafforzare lo strumento, la riforma ha inserito la class action nel Codice di procedura civile e ha allargato sia la platea dei potenziali ricorrenti (non più solo i consumatori, come con le norme precedenti, ma tutti i cittadini, le imprese e i professionisti), sia quella degli illeciti contestabili (ora includono sia le responsabilità contrattuali, già previste in precedenza, e tutte quelle extracontrattuali). Altra novità della riforma rispetto alle “vecchia” class action investe l’adesione: i danneggiati possono aderire all’azione non più solo in corso di causa ma anche dopo la sentenza che accoglie il ricorso. Le prospettive Una riforma di ampio respiro, quindi, partita però con passo molto lento. Anche perché dall’applicazione sono finora rimaste fuori le organizzazioni e le associazioni: a cominciare da quelle dei consumatori, che hanno avviato la maggior parte delle “vecchie” class action. Il regolamento che istituisce l’elenco delle associazioni e delle organizzazioni abilitate a proporre l’azione di classe (decreto ministeriale 27 del 27 febbraio 2022) è infatti in vigore dal 27 aprile scorso; l’elenco dovrebbe essere online sul sito del ministero della Giustizia entro fine mese. A popolarlo, inizialmente, saranno le associazioni dei consumatori che già figurano nell’elenco oggi tenuto dal ministero dello Sviluppo economico. Chi vorrà iscriversi dovrà rispettare i requisiti stabiliti dal regolamento. “Alcuni criteri - osserva Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo - sono impossibili da rispettare per un’associazione come la nostra, che ha oltre 3oomila iscritti: penso alla convocazione annuale e ai requisiti di onorabilità degli associati, conformi a quelli fissati per i vertici di Sim e Sgr. Per altre realtà può essere complesso adeguarsi alla richiesta di non avere pubblicità sul sito. Sono punti critici che avevamo chiesto di modificare, ma non è stato fatto. Prevedo che non saranno in molti a potersi iscrivere all’elenco e non escludo che il decreto venga impugnato al Tar”. Di certo, per Martinello, quando l’elenco delle associazioni sarà operativo ci saranno nuove class action, anche se frenate dal limite temporale degli illeciti. “È complesso stabilire - ricorda - come comportarsi per le violazioni commesse in parte prima e in parte dopo il 19 maggio 2021”. Infine, per la riforma c’è in vista una prima manutenzione: entro fine anno potrebbe essere ritoccata per attuare la direttiva Ue 1828/2020. Vicini di causa di Monica Serra La Stampa, 9 maggio 2022 Ecco perché si litiga nei condomini e si intasano i tribunali. Un milione di processi: così interviene la riforma della giustizia più potere agli amministratori nel tentativo di mediazione. L’ultimo tragico epilogo logo di liti tra condomini trascinate per anni è andato in scena nella periferia di Treviglio, in provincia di Bergamo. Qui, la scorsa settimana, la settantunenne Silvana Erzembergher ha scaricato il suo revolver su una coppia di vicini, uccidendo Luigi Gasati e ferendo gravemente la moglie Monica Leoni. Ma, se guardiamo alla storia d’Italia, i precedenti non sono pochi. Quello più noto è la strage di Erba dove, nel dicembre del 2006, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno sterminato un’intera famiglia che viveva nella stessa corte. In tribunale per anni Senza arrivare a casi così drammatici, non si può negare che le controversie tra vicini siano una piaga, che impegna gli amministratori e intasa le aule dei Tribunali con processi che durano anni, se è vero che dei cinque milioni di cause civili pendenti attualmente in Italia, secondo il ministero della Giustizia più di un milione riguarda proprio le temutissime liti condominiali. E sarebbero circa 500 mila l’anno le controversie. Tanto che, nella sua riforma, anche la ministra Marta Cartabia ha provato a occuparsene, snellendo la procedura che permette (nei casi che interessano spazi e servizi comuni del condominio) all’amministratore di partecipare alla mediazione, un tentativo di risoluzione della controversia davanti a un soggetto terzo e imparziale. Che, per di più, è stata resa obbligatoria per un numero più ampio di materie, prima di arrivare al processo. “Sono di ogni tipo i motivi che fanno nascere questi screzi che vanno avanti per anni, addirittura qualche volta si tramandano di generazione in generazione, con i nipoti che si odiano perché lo facevano i padri e prima ancora i nonni, senza neppure ricordare il perché”, racconta il presidente di Anaci Milano, l’Associazione nazionale amministratori condominiali, Leonardo Caruso, che nella sua trentennale esperienza ne ha viste di ogni tipo. “C’è quello che ogni giorno sposta il letto alle 3 del mattino svegliando l’inquilino del piano di sotto - prosegue - quello che ogni sera si ubriaca per le scale del palazzo, quell’altro che puntualmente butta cenere e cicca di sigaretta sul balcone sottostante... Si possono fare decine di esempi”. Nella classifica delle motivazioni stilata dall’associazione europea Anammi, prima dei bambini che giocano e urlano in cortile, dei rifiuti, di acqua o panni stesi che finiscono nel balcone di sotto, dei cani che abbaiano o in ascensore coni padroni, in pole position ci sono le tanto odiate “immissioni”. Ovvero odori o suoni che penetrano negli altri appartamenti, come gli aromi intensi delle cucine etniche, oppure il rumore di tacchi, trapani, martelli, o mobili trascinati per casa, magari sempre alla stessa ora, notturna e improbabile. Tutta materia della sezione civile del giudice di pace. Nelle situazioni più gravi, invece, si configura un reato: il disturbo della quiete pubblica, come nel caso di “Terrazza sentimento”, il superattico con vista sul Duomo di Milano dell’imprenditore delle start up Alberto Maria Genovese, finito in carcere e ora in clinica con l’accusa di violenza sessuale, ma trascinato in Tribunale anche dai vicini che non tolleravano più i suoi esclusivi party fino all’alba. “Nelle liti tra privati noi amministratori non possiamo fare nulla - spiega ancora il presidente Caruso - devono vedersela i singoli condomini coinvolti. Anche perché in genere gli altri abitanti del palazzo preferiscono assumere un atteggiamento neutrale ed evitare le grane”. Detto che “una sentenza non sempre risolve il problema. Il più delle volte i litigi terminano davvero solo quando uno degli inquilini decide di andar via, di trasferirsi. Oppure muore”, riflette il presidente della sezione penale dei giudici di pace di Milano, Tommaso Cataldi, che si occupa dei reati meno gravi, tra diffamazioni e minacce nel corso di assemblee infuocate, percosse e addirittura lesioni con una prognosi fino a venti giorni. “Nell’hinterland di Milano, i centri più colpiti da discussioni di questo tipo che sfociano in aggressioni verbali o fisiche - spiega - sono Rozzano e Buccinasco. In città, le periferie, soprattutto la lunghissima via Costantino Baroni al Gratosoglio”. Il caso più noto finito sulla scrivania del giudice Cataldi è stato quello di Fedez, che nel marzo 2016 ha ingaggiato una lite a pugni e schiaffi con un vicino della sua vecchia casa in via Tortona. “Ma ogni settimana il nostro ufficio (tre giudici di pace in tutto) ha almeno una decina di udienze di processi che riguardano liti tra condomini. Spesso persone stremate, che arrivano a denunciare quando la misura è colma. E vivono la loro casa, che dovrebbe essere un luogo sereno, con un carico di stress e di ansia insostenibili per chiunque”. Giustizia proibita? La guerra, la pace e le contraddizioni del pacifismo di Davide Grasso minimaetmoralia.it, 9 maggio 2022 Durante la protesta organizzata a Roma sotto il titolo “Pace proibita” è intervenuto, nell’ambito di un variegato insieme di persone, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che molti hanno imparato ad apprezzare in questi anni per coerenza e onestà intellettuale, oltre che per le notizie che, sotto la sua direzione, Avvenire fornisce su contesti di guerra in tutto il mondo. Tarquinio ha condannato il sostegno di vari governi, e di una parte dei cittadini dei loro paesi, all’invio di armi all’Ucraina: ha detto che “gli eroi sono quelli che non uccidono” e che esiste una “verità semplice: guerra più guerra non fa pace”. Tutta la storia ci insegna, però, che questa è soltanto una frase ad effetto. Si possono certo muovere osservazioni critiche all’Ucraina e alla composizione politica della sua resistenza, ma vorrei far notare che la posizione pacifista è fuori luogo se articolata in termini di principio. La violenza è stata usata per fini ben diversi nella storia, molto spesso opposti, e talvolta ha permesso di ottenere dei risultati. Non solo, ma anche le sfruttate e gli sfruttati, le colonizzate e i colonizzati hanno usato talvolta la forza per liberarsi, arrivando a provocare guerre civili e internazionali. Tarquinio non è equidistante tra Russia e Ucraina, ma lo è in maniera aprioristica e assoluta sulla scelta di usare le armi da una parte o dall’altra. Null’altro, del resto, può motivare un’opposizione generale e di principio a fornire armi di qualunque genere a chiunque resista in quel paese, in qualunque fase o forma di questo conflitto. Non è la resistenza in sé, per il direttore di Avvenire, ma la resistenza violenta che va evitata, poiché non migliorerebbe il contesto creato dall’aggressione. Questo è falso. La lotta armata ha migliorato, pur con costi molto alti, molti contesti. L’Algeria o il Vietnam sono paesi imperfetti, ma da colonizzati non stavano meglio. L’Europa e l’Africa occupate dall’Italia e dalla Germania non vivevano scenari equivalenti a quelli prodotti dall’azione sovietica e angloamericana. La rivoluzione francese, la rivoluzione russa non avrebbero dovuto resistere contro le potenze che le assalivano per restaurare lo status quo? L’idea di autodeterminazione dei popoli, di diritti umani, o di diritti del lavoro e delle donne non hanno fatto capolino nel mondo per volontà di Dio, come probabilmente crede Tarquinio, ma attraverso lotte talvolta aspre contro una violenza ben più sistematica e micidiale. Il caso ucraino ha le sue peculiarità come tutti i casi. Questo non significa che sia l’unicum irripetibile e irrelato con il resto dell’universo cui molti benaltristi vorrebbero ridurla. È la condanna indistinta e decontestualizzata della guerra, semmai, ad assimilare tutti gli episodi storici in maniera fuorviante. Ricordare il dolore che ha reso possibile le conquiste dell’umanità è spesso per i pacifisti prova di una latente menomazione morale: si viene subito sospettati di compiacimento per questo tragico aspetto della condizione umana. La verità è che tra chi combatte esistono persone molto diverse. Non è affatto vero che nessuno, tra chi combatte in Ucraina o nel mondo, si rende conto del problema che la violenza costituisce. Affermare che chiunque fa la guerra è un criminale è una mancanza di rispetto per le cadute e i caduti delle guerre che sono o sono state necessarie. Necessaria la guerra non è mai, direbbero i pacifisti, necessaria è soltanto la pace. A qualsiasi costo? Che posto ha la giustizia? Quanta pace siamo disposti a sacrificare: è oggi, come non mai, domanda imprescindibile, per opporci a chi vorrebbe giungere a scatenare una guerra mondiale; ma quanta giustizia siamo pronti a sacrificare, quanta ingiustizia debba essere imposta impunemente (ad altri per di più, non a noi) dai carri armati di un colonizzatore è domanda altrettanto importante. Gridiamo per la Palestina e alle manifestazioni di Black Lives Matter: “No Justice, No peace”. Più che un monito, è un dato di fatto. Vale anche per la Russia, e vale anche per i crimini commessi in passato dai governi ucraini a Odessa o nel Donbass. Comunque la si guardi, l’Ucraina non ci insegna che condannare la resistenza sempre e comunque sia possibile. Tarquinio ha posto giustamente, a sé stesso e alla platea, la domanda: “Ma noi, che vogliamo pace e chiediamo tregua immediata, come lo fermiamo Putin?”. Curiosamente, in tutto il resto dell’intervento, non ha risposto. Ha affermato che il sostegno in armamenti all’Ucraina serve “non per ‘resistere’, non per ‘liberare’, ma per ‘vincere’”. Apparentemente si riferiva alla pericolosa e strumentale retorica muscolare di Biden, che non pone limiti né condizioni - politiche o negoziali - al rifornimento militare, puntando ad allungare la guerra e a logorare la Russia; ma questa dissociazione apodittica e impressionistica tra resistenza (e persino liberazione) da un lato, e vittoria, dall’altro, è espressione di qualcosa di molto più profondo: dell’idea che la vittoria come tale sia in qualche modo di destra, imparentata col male. Se già combattere è una scelta difficile e colma di dubbi, farlo senza tentare di prevalere è da criminali. All’iconografia mentale delle destre, che seppellirebbero l’umanità intera sotto le vittorie astratte del mito o dell’accumulazione, dovremmo contrapporre un’idea alternativa di vittoria, relativa a obiettivi e progetti differenti, ma sempre abbastanza concreti da essere perseguiti fino in fondo. Serkeftin, “vittoria”, è il saluto delle Ypg siriane che si battono contro gli islamisti e Assad per un pluralismo e un autogoverno lontani mille miglia dagli errori politici commessi in questi anni da Mosca e da Kiev; e tuttavia anche chi ha fini fino in fondo rivoluzionari, e senza dubbio rivolti alla pace, se combatte è per vincere. Quando sono state attaccate, da Kobane ad oggi, le Ypg hanno suscitato simpatia a sinistra; quando hanno attaccato, liberato e vinto - come a Raqqa o a Deir el-Zor - ho notato spesso maggiore freddezza. L’atmosfera deprimente e ovattata in cui il capitalismo ci ha fatto crescere ha prodotto questo strano effetto psicologico: la pura e privilegiata contemplazione romantica della sconfitta, quasi fosse un valore. Amare soltanto gli sconfitti o la sconfitta, o proporre pratiche votate alla sconfitta, mette certo al riparo dalle responsabilità. L’intervento di Tarquinio svela una sinistra che è davvero cristiana, con o senza Dio. La realizzazione politica del concreto è il male: come sempre per la quella cultura, tutto è dovuto all’anima, niente al corpo; tutto al cielo dei principi, niente alla terra imperfetta delle loro applicazioni. Lo sconfitto avrebbe in sé stesso, si presume inconfessabilmente, un bene più vero di quello (apparente) di qualsiasi vincitore, fino al più nobile; sarebbe necessariamente più giusto, e sarebbe stato sconfitto perché giusto (e viceversa). Il pacifismo è imparentato da sempre con questa confusione tra rettitudine interiore e giustizia sociale. Per i cristiani, anche quando atei, soltanto l’intimità conta; e se il cristiano credente può parlarne con Dio, l’ateo cristiano non può parlarne che sui social, squalificando moralmente il potere e persino chi gli si oppone pensando che questo basti per renderlo superiore a entrambi. “Ma voi, voi altri, voi che avete l’unica risposta - la guerra - e tutte le armi, tutte le strategie e tutti i calcoli giusti, lo avete forse fermato il signor Putin?”. Lo chiede Tarquinio con un gesto retorico ben noto, che identifica surrettiziamente chiunque sostenga la tesi della resistenza con una parte dei poteri costituiti, uniformando ancora una volta molto di tutto ciò che è invece variegato e ben diverso. Ho sempre trovato che la violenza morale del pacifismo e della non violenza pura, che influenza anche una certa parte del mondo femminista e queer, consista nella crudele elusione delle distinzioni tra chi accetta la necessità della violenza, eventualmente per combattere l’ingiustizia, e chi la usa per affermare il dominio; così uniformando storie, vite e scelte tra loro opposte in un unico peccato astratto o in una meccanica e indifferenziata espressione della mascolinità patriarcale. Il “voi” assimilatore e generalista così pronunciato non è per me meno violento del “Putinversteher” rivolto a chiunque obietti all’inaccettabile supporto di Zelensky per il battaglione Azov, identificando ogni critica al governo ucraino o all’occidente con il Cremlino. Chiunque sia favorevole a inviare armi all’Ucraina, eventualmente in modo trasparente, limitato e condizionato - ossia in contrasto con le scelte del parlamento e del governo italiani - è suo malgrado ridotto alla propaganda governativa. Proviamo ad immaginare, allora, che quel “voi” fosse rivolto davvero a chi, migliaia di uomini e donne, sta combattendo nelle fila dell’esercito ucraino, o delle unità volontarie, contro l’esercito russo. “Lo avete forse fermato il signor Putin?”. Senza la resistenza armata l’invasione sarebbe stata più estesa e le sue conseguenze più gravi. Dopo il ritiro russo da nord, la guerra prosegue in zone maggiormente limitate, benché non certo in modo meno violento. Questa nuova condizione permetterebbe di negoziare dei compromessi. Se non avviene è perché non sono interessati alla tregua né l’amministrazione statunitense né il Cremlino, che tenta di espandersi sulla costa per ragioni economiche che non sono né antifasciste, né umanitarie. La rinuncia ucraina alla Crimea e al Donbass, quest’ultimo eventualmente posto sotto tutela internazionale per garantire il ritorno dei profughi ed elezioni realmente democratiche, dovrebbe essere lo sbocco di una mediazione; ma la conquista totale dell’Ucraina, prevista il giorno dell’invasione ed impedita dalle armi della resistenza, avrebbe annullato lo scopo stesso dei negoziati e segnato un punto di non ritorno dalle implicazioni difficili da immaginare. Musk, Zuckerberg e Bezos: il club dei signori del vapore che sta provando a prendersi il mondo di Giacomo Puletti Il Dubbio, 9 maggio 2022 Quando Elon Musk ha postato su twitter un sondaggio su quanto, secondo gli utenti, il social garantisse libertà d’espressione, in pochi avevano capito le sue reali intenzioni. Quando poi, qualche giorno dopo, è diventato socio di maggioranza dell’azienda, annunciando alcune novità e promettendo investimenti, altrettanti avrebbero scommesso che non sarebbe arrivato fino in fondo. Quando, infine, l’uomo più ricco del mondo si è comprato il social per 44 miliardi di euro, grazie a un corposo finanziamento bancario, in molti non hanno potuto far altro che pensare: “Oh no, di nuovo”. Il patron di Tesla e SpaceX è infatti soltanto l’ultimo multimiliardario a essersi iscritto al club dei “padroni del vapore”, cioè una manciata di imprenditori che hanno deciso di investire gran parte del proprio capitale in tecnologia, social media e intelligenza artificiale. In alcuni casi, come quello di Musk, comprando aziende già bell’e fatte. In altri, come quelli di Jeff Bazos e Mark Zuckerberg, creando dal nulla i propri imperi economici. E difendendoli oggi dall’assalto cinese all’Intelligenza artificiale e ai social, portato avanti in primis da TikTok ma anche da Weibo (il twitter cinese), WeChat (la super app senza la quale nel Dragone non si può praticamente vivere, e che contiene anche una specie di Whatsapp), fino ad Alibaba, l’Amazon d’Oriente fondata dal multimiliardario Jack Ma. Ma chi sono questi personaggi e come sono arrivati a essere gli uomini più geniali (e ricchi) del mondo? Andiamo per ordine (d’età e non di ricchezza). Jeff Bezos nasce nel 1964 ad Albuquerque, nel New Mexico, Stati Uniti. Il cognome non è quello del padre naturale, ma del cubano Miguel Bezos che sua madre sposa dopo il fallimento del primo matrimonio. La famiglia si traferisce a Houston, Texas, ed è lì che Jeff cresce tra cactus e modellini di impianti elettrici. La laurea in Ingegneria elettronica nel 1986 a Princeton, poi, gli cambia la vita. Ma è nel 1994 che decide di inseguire il suo sogno e fonda, nel garage di casa, quella che di lì a poco verrà ribattezzata Amazon. Prevede di non fare profitti per i primi anni, ma ha calcolato tutto. In poco tempo il marchio si allarga fino a contenere 500 milioni di articoli in vendita. Da lì a poco arriveranno Amazon Prime, che ha cambiato per sempre il concetto di avere qualcosa a portata di mano, Amazon Studios, da cui poi deriverà Prime Video, e Amazon Echo. Non sazio, nel 2000 fonda Blue Origin, società di start up per voli spaziali umani. Puntualmente, nel 2019 i primi turisti spaziali osservano la Terra da un oblò. Tanto per non farsi mancare nulla, nel 2013 acquista per 250 milioni di dollari il Washington Post. Al 2 maggio 2022 ha un patrimonio stimato di 148 miliardi e duecento milioni di dollari. E a proposito di spazio, chi meglio di Elon Musk e la sua Space X per spiegare la follia di un progetto? Musk nasce a Pretoria, Sudafrica, nel 1971, ma si trasferisce in Canada poco meno che ventenne per frequentare l’università. Per poi spostarsi negli Stati Uniti, dove avrà modo di far fruttare la propria intelligenza fuori dal comune. Prima da cofondatore di PayPal, che ha facilitato i pagamenti online in tutto il mondo, poi creando Space X (i cui razzi sostituiscono dal 2020 portano in orbita gli astronauti, da ultimo la nostra Samantha Cristoforetti) e infine diventando Ceo di Tesla. Pochi giorni fa, la pazzia. Compra twitter, e giustifica la sua azione dicendo di credere “nel suo potenziale per essere la piattaforma per la libertà di parola in tutto il mondo”. Per molti riuscirà nell’impresa, per altrettanti creerà il caos. Lui, intanto, istrionico e geniale, si gode il titolo di uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato di 253 miliardi e seicento milioni di dollari. Di social media s’intende, e non poco, Mark Zuckerberg, nato nel 1984 a White Plans, NY, Usa. Dove ha creato Facebook, che ha letteralmente cambiato la vita di miliardi di persone? Nel dormitorio di Harvard, assieme a quattro compagni di stanza. Per poi distribuirlo ad altre università e farlo diventare il social network più conosciuto del mondo. Zuckerberg diventa miliardario nel 2007, a 23 anni, e nel 2012 il numero di utenti registrati a Facebook raggiunge il miliardo. Un successo straordinario, che il Nostro decide di far fruttare creando nel 2013 Meta, azienda che acquisisce poi Instagram e Whatsapp. Un unico grande contenitore, con dentro post, foto e messaggi di miliardi di persone. In mezzo a così tanta ribalta, lo scandalo Cambridge Analytica, per cui Zuckerberg è costretto a presentarsi davanti a una commissione d’inchiesta del Congresso Usa. Fino all’idea del Metaverso, un universo parallelo e virtuale destinato a cambiare il nostro approccio con la tecnologia. A partire dall’uso di visori per muoversi in un mondo che non esiste. Fantascienza? Può darsi, nel frattempo Zuckerberg ha accumulato un patrimonio stimato di 71 miliardi e 800 milioni di dollari. E, come gli altri, non intende mettere un freno alla propria genialità. Da Trump a Putin fino alla “Bestia”. Quando la propaganda si fa social di Fausto Mosca Il Dubbio, 9 maggio 2022 Vladimir Putin detesta talmente tanto i social network da non avere neanche un profilo personale registrato, ma li usa da anni per condizionare l’opinione pubblica di mezzo mondo. Magari per contribuire a determinare la vittoria elettorale di un candidato non ostile a Mosca, così come si sostiene sia accaduto nel 2016 con la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton. “The Donald”, dal canto suo, è uno dei presidenti più social della storia americana. L’ex inquilino della Casa Bianca ha una passione così compulsiva per i tweet e i post da finire bannato da tutte le principali piattaforme. Un blocco che ha convinto Trump a creare un proprio social network, “Truth”, per esprimere liberamente i propri pensieri. L’app della nuova piattaforma, scaricabile sull’Apple Store dalla fine di febbraio, non sembra essere partita sotto i migliori auspici (gli utenti lamentano vari malfunzionamenti) ma il magnate repubblicano sembra intenzionato a proseguire comunque per la sua strada. Anche perché il motivo della censura dei suoi profili Twitter e Facebook - e di quelli di altri 70 mila account riconducibili al movimento proTrump QAnon - è molto serio: incitazione alla violenza registrata durante l’assalto di Capitol Hill. Twitter - il social network preferito da Trump, quello che secondo molti analisti ha determinato la vittoria del 2016 - ha motivato l’epurazione accusando l’ex presidente americano, di aver “incoraggiato i suoi sostenitori a interrompere la certificazione della vittoria del democratico Joe Biden da parte del Congresso”. Trump, del resto, ha sempre usato le piattaforme a proprio vantaggio. Durante la campagna elettorale contro Clinton per creare consenso, danneggiare l’avversaria, diffondere fake news virali. Anche attraverso l’uso massiccio di bot, profili automatizzati che cliccano “Like”, condividono link e postano contenuti sfidando gli algoritmi e gonfiando i numeri intorno a certi temi. Obiettivo: creare una popolarità artefatta. Ed è proprio su questo terreno che entra in scena il ruolo di Mosca. Putin, che in patria ha proibito l’accesso alla rete libera, fuori dai confini, usa Internet per condizionare il destino politico delle democrazie. L’arma del Cremlino si chiama Internet Research Agency, più nota come “fabbrica di troll”, che secondo un’indagine del dipartimento della Giustizia americano interferì nella campagna elettorale statunitense del 2016. L’ufficio del procuratore speciale statunitense Robert Mueller, a capo dell’indagine sulle presunte interferenze russe, è arrivato a inaccusare 13 persone di nazionalità russa di cospirazione per frodare gli Stati Uniti, cospirazione per commettere frode bancaria e furto di identità. Oltre agli attacchi informatici rivolti al comitato elettorale di Clinton, la “fabbrica dei troll” avrebbe creato centinaia di account falsi per condurre “una guerra dell’informazione contro gli Stati Uniti d’America” al fine di diffondere sfiducia e sostenere l’elezione di Trump. Un impegno da milioni di dollari al giorno. “Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l’elezione presidenziale Usa. L’obiettivo dei russi era quello di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare il segretario di Stato Hillary Clinton, e danneggiare la sua eleggibilità in quanto potenziale presidente”, si legge nel testo curato dal direttore della National Intelligence, James Clapper, responsabile dimissionario del coordinamento delle 17 agenzie di spionaggio e controspionaggio Usa. Per tutta la campagna elettorale gli account falsi si sarebbero presi la briga di lanciare costantemente sui social contenuti divisivi su argomenti come Black Lives Matter, immigrazione e controllo delle armi. E avrebbero comprato pubblicità politiche contrarie a Clinton e pompato hashtag come #Hillary4Prison e #TrumpTrain. L’attività di interferenza però non si sarebbe fermata nel 2016, ma sarebbe proseguita anche alle presidenziali successive, tanto da spingere Facebook e Twitter a bloccare preventivamente (dopo le segnalazioni dell’Fbi) una rete di profili falsi pronti a iniziare una campagna di disinformazione. Anche in questo modo il trumpismo sarebbe diventato virale negli Usa e in buona parte dell’Occidente. A raccogliere i benefici di quel vento in Italia è stato soprattutto Matteo Salvini, capace di portare la Lega da 4 per cento di pochi anni fa al 34,3 per cento delle Europee 2019. Politico social per eccellenza, anche il leader del Carroccio ha usato sapientemente il suo ufficio comunicazione, la “Bestia” messa in piedi da Luca Morisi, per rendere popolare il sovranismo sul web, sfruttando a proprio vantaggio le paure degli elettori. Post contro l’immigrazione e l’Unione europea, intervallati da concorsi a premi (come il “vinci Salvini”) erano il pane quotidiano di un team di esperti attenti a sondare quotidianamente e scientificamente gli umori della Rete per ottenere il maggior engagement possibile. Che almeno fino a un certo punto si sono poi trasformati in voti. Il tema non è la “simpatia” di Musk ma la concentrazione di tanto potere in mano ai privati di Salvatore Sica* Il Dubbio, 9 maggio 2022 La vicenda dell’acquisto di Twitter da parte di Eloin Musk è in un certo senso metafora delle molteplici implicazioni che si collegano al Web ed alla sua parabola. Emblematiche sono le reazioni dell’opinione pubblica “illuminata” di tutto il mondo e soprattutto americana; sdegno, preoccupazioni per il futuro della democrazia, isterie di vario genere. Sia chiaro: alcune delle perplessità manifestate sono più che serie; il preannunzio di un più rigoroso controllo sui contenuti finalizzato a prevenire abusi può in realtà preludere a forme di censura, tanto più gravi se attuate da un privato quale Musk è! Ed altrettanto inquietante sarebbe l’atteggiamento opposto di consentire, nel nome della libertà di espressione, un’indiscriminata circolazione di contenuti, mitigata dalla rimozione dell’anonimato come forma di tutela impropria dell’autore dei contenuti stessi. Ma c’è da domandarsi dove fossero questi spiriti illuminati quando la Rete cresceva indiscriminatamente senza regole; quando i governi abdicavano al proprio compito di regolatori, quando l’anonimato diventava ciò che è oggi, uno scudo “protettivo” di linguaggio d’odio e di illeciti di ogni tipo. E neppure è dato di sapere quale posizione “sdegnata” gli stessi abbiano assunto quando Twitter o Facebook, ergendosi a giudici privati, unilateralmente decidevano il blocco di account sulla base di proprie valutazioni etiche o di valori. Quanto sta avvenendo, insomma, è nel solco della grande ipocrisia che ha sin qui accompagnato la crescita del Web, nel falso dilemma tra fautori dell’arena virtuale mondiale, straordinario strumento di Freedom of Speech, ed i sostenitori dell’ineluttabilità di una disciplina appositamente dedicata alle comunicazioni della Rete. Soffermarsi sulla “qualità” del proprietario della piattaforma, con la solita presunzione di una certa cultura di dare o levare patenti di affidabilità o moralità, è fuorviante ed anzi pericolosissimo. Il tema non è se sia meglio Musk di Zuckenberg o viceversa. Il cuore della questione è che non è ammissibile una concentrazione di potere in mano a privati così elevata che la storia non ha mai conosciuto prima. I nodi stanno venendo al pettine ed erano ampiamente prevedibili. Lo strumento tecnico è troppo avanti per essere “governato” dall’unico soggetto a tanto deputato: il Diritto. Abbiamo avuto decenni in cui la novità tecnica - e le immense potenzialità ad essa collegate - ha obnubilato tutti: uomini della strada, utenti, politici e perfino giuristi. Una grande capacità di lobbing delle multinazionali della comunicazione ha impedito che crescesse la consapevolezza sui pericoli sottesi alle apparenti smisurate utilities; non è stato mai finora possibile avviare una seria riflessione sulla diversità dello strumento del Web rispetto ai media tradizionali, per la sua pervasività, per la sua attitudine non soltanto a veicolare contenuti ma a orientare scelte, commerciali, politiche, di tendenza in generale. Neppure alcuni casi eclatanti, come clamorosi hackeraggi, Wikileaks, Cambridge Analyitica, sono riusciti a risvegliare coscienze e ad allertare i governi: la risposta non può essere l’aumento di cyber sicurezza, che si è registrata, se poco dopo tutto è tornato come prima con una generazione di politici, intellettuali e di imbecilli da tastiera - spesso la linea di confine tra le categorie è sottile! - alla ricerca di consenso effimero per un Tweet o una pagina Facebook ricca di likes. Allora il problema non è Musk, meglio, non è solo lui. È la “privatizzazione” del controllo del mondo! Come se ne viene fuori? Difficile fornire una sola indicazione, mentre è piuttosto indispensabile delineare un metodo. Proprio come sta avvenendo per l’invasione russa in Ucraina, occorre una mobilitazione globale per l’individuazione di una tavola, almeno di base, di valori condivisi, che faccia da premessa ad un intervento di diritto regolatorio sovranazionale. Sì, è tempo che il Diritto, sintesi di scelte condivise, si riappropri del proprio spazio anche rispetto ad Internet, perché soltanto per questa via è possibile respingere la doppia tentazione, della Rete assoluta (nel senso di legibus soluta), e del controllo autoritario e liberticida di governi non democratici. Ed in questa direzione non aiutano certo le prese di posizione delle “anime belle” liberal! Qualche tempo fa andava di moda il dibattito sull’interrogativo: What’s Left? Non l’ho mai seguito con particolare passione, ma se decidessi di prendervi parte direi con certezza che oggi il tema di fondo di una politica progressista è la disciplina della Rete. Mi aspetterei che lo dicessero le poche autorità morali mondiali che sopravvivono, come la Chiesa, che se ne occupassero con maggiore incisività le istituzioni europee (anche se restano ad oggi il solo momento di intervento serio sull’argomento), che ne preoccupassero le grandi potenze mondiali, proprio come giustamente stanno facendo oggi per la tragedia ucraina. Ma vedo una folla di persone fissare il dito, invece di guardare la luna! *Ordinario di Diritto Privato, Università di Salerno Direttore Laboratorio IN.DI.CO. (informazione Diritto-Comunicazione) L’Europa si costruisce nei momenti di crisi di Meritxell Batet, Bärbel Bas, Richard Ferrand, Roberto Fico* La Stampa, 9 maggio 2022 Ogni 9 maggio festeggiamo l’unità dell’Europa e ricordiamo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il progetto di Robert Schuman fu far che fosse impossibile un’altra guerra in territorio europeo. Oggi, tuttavia, la guerra e la distruzione sono tornate al nostro continente. L’aggressione di Vladimir Putin contro l’Ucraina rappresenta una minaccia contro l’ordine pacifico che abbiamo costruito negli ultimi decenni. Durante molti anni, Putin ha cercato di dividere e di minacciare la nostra Unione; le atrocità commesse in Ucraina ci ricordano che l’unità e la solidarietà europea sono essenziali. Abbiamo bisogno di ripensare la nostra politica energetica e di rinforzare il nostro sistema di sicurezza e difesa. Dobbiamo fare più efficace l’Unione per continuare verso il suo scopo originale: garantire la pace e la prosperità in Europa. “L’Europa sarà costruita sulle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate di fronte ad esse”, come aveva scritto Jean Monnet, la mente dietro la Dichiarazione Schuman. Due anni fa, quando cominciava la pandemia, abbiamo fatto appello all’azione congiunta dei paesi europei in lotta per la loro superazione e per il compito della ricostruzione. Le istituzioni e gli stati dell’Unione sono stati all’altezza. In soli due anni siamo riusciti a sviluppare una politica comune per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini, grazie ai quali abbiamo superato la pandemia. In soli due anni, l’Unione Europea è stata in grado di creare e di mettere in moto il maggior piano di ripresa della nostra storia: maggiore in termini di solidarietà, risorse impiegati e volontà per trasformare la realtà; maggiore anche in termini del nostro impegno con le riforme di cui abbiamo bisogno. Se guardiamo l’Europa, l’Europa ha saputo rispondere con il valore della solidarietà. Oggi ci serve solidarietà con l’Ucraina; con quelli che lottano per l’esistenza e la libertà del loro paese e con quelli che hanno cercato riparo nell’Unione Europea. È nostra ferma volontà ricostruire il paese como parte integrante della nostra comunità di valori. Ci servirà anche un Piano Marshall per l’Ucraina, e ci servirà la solidarietà verso tutti quegli stati membri dell’Unione che sono vicini dell’Ucraina e della Russia, e che sono più esposti alla minaccia russa e che hanno ricevuto il maggior numero di rifugiati ucraini. Se vogliamo continuare ad essere un protagonista internazionale, in modo che l’Unione possa parlare con una voce sola nello scenario globale, e se vogliamo essere in grado di preservare i valori europei di libertà, progresso e unione, ci servirà anche una risposta efficace per altre sfide non meno importanti: l’emergenza climatica, la digitalizzazione delle nostre società, amministrazioni e servizi pubblici, la garanzia di una crescita inclusiva che preservi la coesione del modello sociale europeo e lo sviluppo della ricerca scientifica. Non c’è strumento migliore dell’Unione Europea, costruita su una storia e sui valori condivisi in un progetto comune di pace e prosperità, per rispondere alle sfide odierne che devono affrontare i nostri paesi. Per questo ci servono impegno e un accordo tra gli stati membri. Per questo a volte è necessario non spingersi così lontano come ogni uno desidererebbe in cambio di avanzare con la forza, la legittimità e l’efficacia dell’azione congiunta. Una delle fondamenta dell’Unione Europea e condividere risorse, ma soprattutto condividere politiche e decisioni, presse in mutua fiducia, lealtà e solidarietà, cercando solo l’interesse comune di avanzare verso un futuro sostenibile, inclusivo e giusto per tutti i nostri stati e cittadini. Dobbiamo avere questo in mente ogni volta che chiederemmo all’Unione di agire. Siamo impegnati nel riconoscere e integrare degli interessi di tutti i cittadini dell’Europa: attraverso i nostri governi nazionali e, particolarmente, attraverso i nostri rappresentanti nel Parlamento Europeo e i canali diretti di partecipazione offerti dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa. I parlamenti nazionali hanno anche una responsabilità, con una partecipazione sistematica e opportuna nella configurazione delle politiche e delle norme europee. Soprattutto, dobbiamo fare un chiamato ai nostri cittadini e integrarli nel dialogo sul futuro dell’Europa, combattendo così i movimenti populisti e nazionalisti che pretendono di ritornare alle società chiuse in loro stesse, strane alle necessità e alle sfide del nostro tempo. Noi, i presidenti del Bundestag tedesco, dell’Assemblea Nazionale francese, della Camera dei Deputati di Italia e del Congresso dei Deputati di Spagna, vogliamo esprimere ancora una volta la nostra convinzione che l’Europa rappresenta ancora un progetto condiviso di pace e prosperità. Gli stati del nostro entourage e i nostri soci credono anche in un’Unione rinforzata e disposta a lottare contro il cambiamento climatico e contro l’ingiustizia sociale; un’Unione in grado di difendere sé stessa e i suoi valori. Accogliamo con grande interesse le raccomandazioni oggi presentate dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, che dovranno essere oggetto di adeguate considerazioni da parte delle istituzioni europee per rinforzare l’agire dell’Unione. Abbiamo bisogno, più che mai, di un’Europa forte e unita. *Meritxell Batet è la presidentessa del Congresso dei Deputati spagnolo, Bärbel Bas è la presidentessa del Bundestag tedesco, Richard Ferrand è il presidente dell’Assemblea Nazionale francese, Roberto Fico è il presidente della Camera dei Deputati italiana Russia, la popolarità della paura di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 9 maggio 2022 Perché il gradimento di Putin è un fake number. Ottanta per centro di russi favorevoli a Putin? Non può essere considerato dato affidabile. Non è possibile a oggi misurare tramite sondaggi quanto vasto sia realmente il consenso verso Putin. Vediamo perché. La chiave per ottenere dati di qualità è mettere le persone in condizione di dire ciò che pensano senza incorrere in conseguenze spiacevoli. In Russia ci sono molti scienziati e statistici di grande valore. Non dobbiamo mai dimenticarcelo. Massimo rispetto. Ma la Russia non è come l’Italia, la Francia, gli Stati Uniti dove c’è libera circolazione delle idee. In Russia manca un presupposto fondamentale, perché i risultati dei sondaggi possano essere considerati veritieri: la democrazia. Se è vietato esprimere la propria opinione divergente da quella di Putin, se si viene incarcerati se si manifesta e si esprime una opinione diversa, perché mai un cittadino dovrebbe dire ciò che realmente pensa in un sondaggio di opinioni? Viene a mancare la fiducia. I risultati dei sondaggi in Russia sono viziati dalla paura, dal terrore di dire la vera propria opinione al telefono, o via internet. E non è questione neanche di malafede. L’Istituto di ricerca che conduce sondaggi può essere anche un ottimo istituto e indipendente. Ma non può ottenere risposte sincere ed affidabili, sotto una dittatura, tanto più in clima di guerra. E il fatto che l’adesione a Putin aumenti proprio durante la guerra può anche essere dovuto all’intensificarsi della repressione interna proprio in questa fase e quindi conseguentemente all’aumenti della paura. E non è neanche vero che se ci fosse ostilità a Putin necessariamente aumenterebbe il tasso di rifiuto a rispondere, come commentatori russi hanno affermato su diversi canali nazionali. Se la gente è terrorizzata ad esprimere un parere diverso da Putin, con molta probabilità si allineerà alla posizione dominante. Non è un problema esistente solo in Russia ma che si verifica sotto tutte le dittature. A ciò si aggiunge il problema di come i russi possano costruirsi una propria opinione in un Paese in cui l’informazione è a senso unico, le voci dissonanti sono censurate, i giornalisti non in linea uccisi. In un Paese in cui l’informazione non è plurale, è manipolata, in cui si presenta l’invasione di un Paese sovrano come una “operazione militare per denazificare”, in cui si commettono crimini atroci contro i civili ucraini, nascondendoli alla popolazione. Dove si mostrano solo le immagini dei carri “liberatori” con la Z, in cui il regime indottrina senza contraddittorio come durante il fascismo o sotto il Terzo Reich. I cittadini dovrebbero dire ciò che pensano in questo contesto? Perché dovrebbero mettere a rischio la loro vita per rispondere sinceramente a una intervista? Potrebbero essere caduti nella trappola della disinformazione e aderire al disegno di Putin. Probabile. Oppure no. Certo è che non possiamo saperlo ora. E soprattutto quantificarlo in modo rigoroso. E allora dobbiamo essere coscienti che oltre alle fake news esistono anche i fake numbers, che vanno trattati allo stesso modo. I fake numbers producono fake news, che si trasformano in armi di propaganda anche se non prodotti a tale scopo. I risultati dei sondaggi russi dovrebbero essere diffusi quando validi. E in questa fase sotto dittatura e in piena guerra non possono esserlo. Di fake news ne sono girate tante dalla Russia come verificato dai tanti inviati di guerra in Ucraina. Evitiamo di dare credibilità ai fake numbers e alla disinformatia, che conosciamo fin dai tempi dello stalinismo. La verità su quello che pensano i russi, tramite i sondaggi, la sapremo solo quando saranno liberi di rispondere. Solo quando anche in Russia splenderà il sol dell’avvenir, e cioè la libertà e la democrazia. *Direttora del Dipartimento Metodi e Tecnologie Istat Pena di morte negli Usa: il Tennessee sospende tutte le esecuzioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 maggio 2022 L’iniezione letale, il metodo principale di esecuzione delle condanne a morte, dopo anni di esperimenti su esseri umani, affannose ricerche di farmaci e adozioni di nuovi protocolli, continua a dare problemi. Se n’è accorto anche il governatore dello stato del Tennessee Bill Lee, che dopo aver sospeso all’ultimo minuto l’esecuzione di Oscar Franklin Smith prevista il 21 aprile, alla fine dello stesso mese ha imposto lo stop a tutte le altre esecuzioni previste nel 2022. Non verranno messi a morte, dunque, anche Michael Rimmer il 10 maggio, Harold Nichols il 9 giugno, Byron Black il 18 agosto, Gary Sutton il 6 ottobre e Donald Middlebrooks l’8 ottobre. Se, il 21 aprile, le autorità locali avevano parlato di un generico “problema tecnico”, a fermare tutto almeno per i prossimi sette mesi è stata la necessità di un “riesame da parte di un soggetto esterno e di una valutazione complessiva della procedura dell’iniezione letale”. Il governatore Lee ha tenuto a precisare di ritenere che “la pena di morta sia la punizione appropriata per i delitti più gravi”. Tuttavia, auspica che non sia “lasciato adito ad alcun dubbio sulla correttezza delle procedure seguite”.