Nuove idee per la gestione dell’universo carcere di Enzo Sossi elbareport.it, 8 maggio 2022 Parlare del carcere non è facile, se poi lo vivi dal di dentro da servitore dello Stato diventa ancora più complicato. Il sistema penitenziario è in difficoltà, da anni si discute e dibatte sull’opportunità di una riforma senza risultati. In questi giorni, seppure in forma ancora embrionale è stato presento un progetto innovativo da Enrico Sbriglia e Alessandro De Rossi del CESP, Centro Europeo di Stuti Penitenziari, in cui si ipotizza il passaggio/la migrazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, come la Protezione Civile. Sottraendo le carceri dal controllo delle toghe per affidarle a funzionari pubblici ovvero manager pubblici/privati in grado di gestirle. Tale complesso compito non dovrebbe essere di esclusiva competenza del Ministero della Giustizia, il cui ruolo è quello di arbitro e non di gestore, verificando che tutto venga realizzato nel rispetto della nostra Costituzione e delle leggi. Ciò potrebbe sicuramente giovare e migliorare la stessa immagine della Magistratura rafforzandone l’autonomia e l’indipendenza. In questi anni si è verificata una dicotomia tra il carcere della Costituzione e quello che, invece, in tutti questi decenni, attraverso la generalità dei governi che si sono avvicendati, si è realmente costituito. Non solo, sono state fatte delle riforme dichiarate a costo zero con progressivi tagli, ma anche mutilazioni di legittime speranze e costituiscono, a mio parere, una delle più grandi mistificazioni istituzionali. Di fronte ad una situazione diffusa e drammatica delle carceri, le risposte dovrebbero essere tempestive e straordinarie. L’urgenza se c’è e c’è, anche a seguito delle tragiche rivolte avvenute nelle carceri durante la pandemia nel marzo 2020, non può che esigere soluzioni altrettanto urgenti. La demolizione di un’idea della risorsa carcere quale luogo di sperimentazione, continua e ostinata, all’educazione del principio di responsabilità, individuale e collettiva, rivolta al rispetto delle norme costituzionali e dell’ordinamento penitenziario, avviene nel tempo coinvolgendo in modo bipartisan le forze politiche che hanno governato il paese. Basti pensare a quali ministri hanno favorito la conversione dell’art. 41 bis da misura straordinaria e a tempo in strumento definitivo nella lotta, senza mai epilogo e sempre farcita da teoremi, alle criminalità organizzate ovvero hanno avviato e imposto la costruzione di grandi carceri, per i quali il tempo medio di realizzazione è sempre superiore ai 10 se non 20 anni. Sarebbe opportuna un’autopsia di un’amministrazione penitenziaria che andrebbe resuscitata inalando l’ossigeno della Costituzione. In conclusione, ben venga l’ipotesi del CESP con il possibile passaggio del DAP a Palazzo Chigi. Solo se cambierà tutto, forse cambierà qualcosa. La Polizia penitenziaria vota per passare al Viminale askanews.it, 8 maggio 2022 Sono in corso, nelle oltre duecento carceri italiane per adulti e minori, le votazioni al referendum promosso dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe per il passaggio del Corpo, oggi al ministero della Giustizia, alle dipendenze dell’Interno. “Stiamo registrando un’alta adesione, non solo di iscritti al Sappe ma di tutto il personale di Polizia”, spiega il segretario generale Donato Capece. “Come è noto, da tempo il Sappe denuncia come il sistema penitenziario, per adulti e minori, si sta sgretolando ogni giorno di più. Lo diciamo da tempo, inascoltati: la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto, dall’aver tolto le sentinelle della Polizia Penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri, dalla mancanza di personale, dal mancato finanziamento per i servizi antintrusione e anti-scavalcamento. Le aggressioni contro i poliziotti, le risse ed ogni altro tipo di evento critico che accadono quotidianamente nelle nostre carceri meriterebbero una ferma assunzione di responsabilità politica e provvedimenti straordinari per la Polizia Penitenziaria, che invece non si vedono all’orizzonte… L’unica soluzione potrebbe essere quella di porre subito il Corpo di Polizia Penitenziaria, che è un Corpo di Polizia dello Stato, alle dipendenze del Ministero dell’Interno, visto che il Dicastero della Giustizia sembra non saperlo...”. Per questo, spiega, “il Sappe ha deciso di organizzare un referendum tra tutto il personale di Polizia Penitenziaria (e quindi non solo quello iscritto al Sappe), al quale auspichiamo la massima partecipazione di tutti. Tutte le schede votate saranno portate alle Autorità politiche e dipartimentali che interverranno al VII^ Congresso nazionale del Sappe, che si terrà dal 14 al 16 giugno 2022 a Tivoli Terme”. Questo il quesito referendario sottoposto alle donne e agli uomini del Corpo dal Sappe: “Sei favorevole che il Corpo di Polizia Penitenziaria, uscendo dal Ministero della Giustizia, passi alle dipendenze del Ministero dell’Interno, con un proprio dipartimento analogo a quello della Polizia di Stato, fermo restando tutti i compiti e le competenze istituzionali previste dall’articolo 5 della legge 395/90?”. Ergastolo ostativo, i 5S: “Si voti subito anche in Senato”. Ma la Lega dice no di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2022 Martedì si dovrebbe esprimere la Consulta. Dopo l’appello di Giuseppe Conte perché al Senato sia aperta “una corsia preferenziale” per il voto sulla riforma del cosiddetto ergastolo ostativo, ieri il M5S ha inviato una lettera al presidente della commissione Giustizia Andrea Ostellari (Lega) per convocare una seduta già domani per votare. Il M5S vuole che Palazzo Madama licenzi il testo approvato alla Camera, sostanzialmente suo, anche se firmato dal presidente della commissione Giuseppe Perantoni, peraltro deputato pentastellato. “Non possiamo più perdere tempo, hanno detto Alessandra Maiorino, capogruppo in Commissione e Giulia Sarti, responsabile Giustizia M5S. Si dà infatti il caso che sia fissata per martedì l’udienza della Consulta che dovrà esprimersi sulla delicatissima materia. La stessa Corte costituzionale, del resto, proseguono le parlamentari, aveva concesso un anno di tempo al Parlamento” per la riforma. “Per quanto la Commissione medesima abbia espresso l’auspicio di un rinvio dell’udienza - concludono - abbiamo il dovere di approvare il disegno di legge” prima della sua celebrazione. Nessuna urgenza, invece, per il presidente Ostellari: “La commissione ha deliberato all’unanimità il sostegno alla richiesta di rinvio della trattazione alla Consulta. Questo è un auspicio che noi facciamo, convinti che la Corte ci lascerà il tempo per svolgere tutto il lavoro. Al Senato non stiamo ritardando i lavori, anzi noi ci siamo”. Come rivelato dal Fatto, l’Avvocatura dello Stato, che rappresenta il governo, ha depositato una memoria alla Corte costituzionale in cui chiede che martedì non entri nel merito del nuovo ricorso della Cassazione contro l’ostativo proprio perché in commissione del Senato si sta esaminando la riforma già approvata dalla Camera. I detenuti per i cantieri della fibra: le competenze (e i profili) che mancano si cercano nelle carceri di Fabio Savelli Corriere della Sera, 8 maggio 2022 Senza lavoro il reinserimento dei detenuti sarebbe molto più difficile e il rischio di recidiva è alto. Eppure, secondo alcune stime, soltanto il 34 per cento dei 54mila reclusi italiani è occupato in attività lavorative. Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria valuta, sulle Buone Notizie del Corriere della Sera, aveva commentato la necessità di politiche attive del lavoro anche e soprattutto negli istituti penitenziari: “È una percentuale maggiore dell’immaginabile, ma certamente più bassa del desiderabile: dobbiamo mirare all’en plein con tutti i reclusi impiegati in una professione”. Grazie all’impegno del Terzo settore, in questi anni in vari Istituti sono fioriti esempi virtuosi: in carcere si formano e operano pasticceri, tornitori, sarti, operatori di call center, impiegati, falegnami. Il governo, per questo, ha messo a terra un’iniziativa che coinvolge un’azienda in prevalenza a capitale pubblico, come Open Fiber, per stendere la fibra ottica e fare il salto digitale del Paese visti i ritardi storici accumulati sulla banda larga. C’è carenza di manodopera e l’esecutivo ha pensato di coinvolgere alcuni detenuti, regolarmente retribuiti con le condizioni contrattuali di categoria, per supportare i cantieri che portano la fibra fino alle case. Si tratta di profili ritenuti all’altezza del compito e non certo pericolosi per la collettività. Profili che possono tornare utili, anche per le loro competenze, per realizzare quella che è ormai diventata l’infrastruttura più importante del Paese visto il lavoro da remoto e la didattica a distanza. I due dicasteri coinvolti sono la Giustizia, che ha steso il protocollo per questa misura di reinserimento sociale, e l’Innovazione guidato da Vittorio Colao che ha realizzano i bandi di gara per l’Italia 5g e ad 1 giga e sentendo gli operatori, non solo Open Fiber ma anche Tim e le aziende della filiera in testa Sirti, ha compreso la portata della sfida. Certo non è solo una questione di personale. Negli ultimi aggiornamenti del piano Bul, banda ultra larga, Infratel, la società concedente in house del ministero dello Sviluppo economico, rileva un programma di realizzazione della fibra per unità immobiliari lontano dai propositi immaginati inizialmente per le difficoltà dell’operatore Open Fiber di rispettare le consegne. Ed è evidente come la macchina dello Stato (e il potere ostativo degli enti locali), i mille regolamenti comunale, i passaggi autorizzativi dell’Anac sugli appalti di gara, i permessi condominiali, una mappatura delle unità immobiliari non corretta e basata su dati vetusti ci porta sin qui. Ora le risorse del Pnrr, da esaurire entro il 2026, sono necessari se i processi di semplificazione diventano tali. In una nota Open Fiber rileva di aver “aderito con convinzione a questa intelligente iniziativa promossa dai Ministri Cartabia e Colao che partendo da una finalità di natura sociale, può contribuire a tamponare la scarsità di manodopera sui cantieri, una carenza di cui soffre il settore delle telecomunicazioni ma non solo. L’impiego di personale detenuto, a cui si sta lavorando sotto la supervisione delle autorità competenti, avverrebbe ovviamente sulla base delle condizioni contrattuali vigenti e, quindi, con il medesimo trattamento economico degli altri lavoratori”. La giustizia al bivio delle urne di Mario Bertolissi Corriere Veneto, 8 maggio 2022 Si sta avvicinando, inesorabilmente, una data: domenica 12 giugno. L’elettore dovrà scegliere i propri amministratori locali e potrà dire la sua su questioni di interesse nazionale: sulla giustizia. Su coloro che, appunto, la amministrano “in nome del popolo”, precisa l’articolo 101, 1° comma, della Costituzione. Di quel “popolo”, cui “appartiene la sovranità”, chiarisce, fin dall’inizio, la medesima Carta costituzionale, in realtà estromesso da tutto o quasi da leggi elettorali pensate dai loro autori unicamente per rimanere in sella, senza alcuna percezione di ciò che l’uomo comune intende per interesse generale. Una giustizia tempestiva e giusta ne è una componente essenziale, come sottintende il detto: ci sarà un giudice a Berlino! Perché, tutto dipende da chi svolge le funzioni di magistrato, inquirente o giudicante, alle cui spalle campeggia l’ipocrita “La legge è eguale per tutti”. Non è mai stata eguale per tutti e mai lo sarà. Tuttavia, è indispensabile prodigarsi, per evitare che il cittadino sostituisca la fiducia con la sfiducia, quando è testimone di condanne che si trasformano, alla fine, in assoluzioni. E quando assiste, esterrefatto, a contese tra magistrati, che nulla hanno a che fare con la funzione giurisdizionale. Molto, invece, con la politica, di cui sono espressione le correnti, che mettono in ombra la dedizione di tanti magistrati al proprio lavoro. Le iniziative referendarie hanno questo retroterra. Il Parlamento avrebbe potuto intervenire per tempo. Ora, è alla ricerca di rimedi tardivi. Ma è già stata proclamata una giornata di sciopero da parte dell’Associazione nazionale magistrati, la quale è assai critica nei confronti del disegno di legge Cartabia. Tuttavia - c’è da chiedersi - chi detiene il potere legislativo? Il Parlamento oppure l’Associazione nazionale magistrati, i quali - stabilisce l’articolo 101, 2° comma, della Costituzione - “sono soggetti soltanto alla legge”? Alla legge del Parlamento, ovviamente! Ecco perché i referendum sono indispensabili, quando l’inerzia, che paralizza, diviene insuperabile. È necessario che i cittadini dicano la loro: con un sì o con un no. Che si esprimano, dopo essersi informati. Ma incombe il silenzio e, molto probabilmente, a ridosso del 12 giugno si assisterà a una campagna referendaria-rissa, discontinua, confusa, ove gli argomenti favorevoli e contrari saranno branditi come una clava: non tanto per favorire il ragionamento, quanto per stordire. Ma di che cosa si tratta? Come ha deciso la Corte costituzionale? Con la sentenza n. 56/2022, ha ammesso il referendum sulla legge Severino, che disciplina l’incandidabilità a membro dei Parlamenti europeo e nazionale; degli organi di governo regionali e locali…, perché ciò non è in contrasto con i parametri costituzionali, per come la stessa Corte li ha intesi. La richiesta dei proponenti - si tratta di nove Consigli regionali - è dovuta al fatto che la legge prevede l’automatica incandidabilità, anche in presenza di una condanna non definitiva, pure per reati non gravi, quale è l’abuso d’ufficio. Con la sentenza n. 57, ha dato il via libera all’istanza, che intende limitare il ricorso alle misure di custodia cautelare in carcere, circoscritte a reati particolarmente gravi. Ciò, anche con riguardo al reato di finanziamento illecito dei partiti. A sua volta, la sentenza n. 58 non ha avuto nulla da eccepire - quanto all’ammissibilità - a proposito della separazione delle funzioni dei pubblici ministeri e dei giudici: il vincitore di concorso sceglierà e rimarrà inquirente o giudicante per sempre. Ammissibile il referendum, che intende consentire a professori universitari e avvocati, che, in numero minoritario, fanno parte del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari, di concorrere alla valutazione dei magistrati: lo ha deciso la sentenza n. 59. Mentre nulla osta a che i cittadini si esprimano sulla proposta di limitare l’incidenza delle correnti nella designazione dei candidati a componente del Consiglio superiore della magistratura: così, si legge nella sentenza n. 60. Facile e difficile, al tempo stesso, comprendere il significato e la portata di ciascun quesito. Se ne dovrebbe parlare, però, perché la democrazia è discussione, contraddittorio, confronto di idee. In questo caso, il silenzio non è d’oro. Referendum, arrivano le cartoline. Ma si terranno davvero tutti? di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 maggio 2022 L’incrocio con la riforma Cartabia rischia di risolversi al fotofinish. Entro al massimo dieci giorni, i quasi cinque milioni di elettori italiani residenti all’estero riceveranno una cartolina-avviso, di colore azzurro, che li informerà del loro diritto di votare per cinque referendum abrogativi sulla giustizia, previsti in Italia il 12 giugno. Potranno votare per corrispondenza entro il 2 giugno, ma solo per i referendum. Se nel comune dove sono iscritti alle liste elettorali si vota anche per il sindaco, quel voto possono esercitarlo solo tornando in patria. Ma andrà proprio così? Potranno cioè gli italiani all’estero, e gli altri 46 milioni di elettori che invece stanno in Italia, votare davvero per tutti i cinque quesiti referendari? La risposta a questa domanda passa per i tempi di approvazione della riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario. Al senato questa settimana, in commissione giustizia, comincerà la discussione generale sulla riforma e si terranno alcune audizioni. Pd, 5 Stelle e Forza Italia non hanno chiesto di ascoltare alcuno, perché puntano a fare presto. Gli altri frenano e la Lega vuole modificare il testo approvato dalla Camera e rendere così necessaria una terza lettura. Martedì la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama indicherà il giorno previsto per l’arrivo in aula del provvedimento, dovrebbe essere il 24 maggio. Il Piave mormorò e i senatori dovranno correre, o il governo mettere la fiducia, se la ministra Cartabia vuole conservare qualche speranza di poter far svolgere le prossime elezioni del Csm con le nuove regole. Ma c’è un altro incrocio, oltre a quello per la scelta dei nuovi togati del Consiglio superiore, che ugualmente si giocherà sul filo dei giorni. L’incrocio, appunto, con i referendum sulla giustizia promossi da radicali e leghisti ma poi formalmente richiesti dalle regioni di centrodestra. Dei cinque referendum sulla giustizia passati indenni al vaglio della Corte costituzionale (che ha invece fermato quello sulla responsabilità civile dei magistrati) solo due sono sicuramente destinati a restare in piedi. Sono i primi due secondo la numerazione che gli è stata assegnata dal ministero dell’interno: il quesito che punta ad abrogare la legge Severino (incandidabilità e decadenza dalle cariche elettive in caso di condanna) e il quesito che limita i casi in cui il giudice può disporre la custodia cautelare. Nessuna delle due disposizioni normative di cui si chiede l’abrogazione, infatti, è toccata dalla riforma. Un quesito referendario è invece certamente destinato a decadere nel caso la riforma Cartabia dovesse essere promulgata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale prima del 12 giugno. Si tratta di quello che chiede la cancellazione delle 25 firme necessarie per la presentazione delle candidature al Csm, perché identica cancellazione è già prevista da una norma immediatamente in vigore contenuta nella riforma. Dubbia invece la sorte degli altri due quesiti, la cui sopravvivenza è probabile ma non certa. Il quesito numero quattro punta a introdurre il diritto di voto di avvocati e professori universitari nei Consigli giudiziari quando di tratta di esprimersi sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. La riforma limita questo diritto ai soli avvocati e soprattutto rimanda la norma cogente a una delega al governo. L’ufficio centrale per il referendum della Cassazione potrebbe confermare il referendum, visto che l’esercizio della delega da parte del governo è eventuale e non certo. Lo stesso ufficio dovrà prendere la decisione più delicata stabilendo se salvare il terzo quesito abrogativo (lunghissimo, cancella 13 commi da 7 leggi). Riguarda le funzioni dei magistrati: oggi sono possibili quattro passaggi dalla funzione di giudici a quella di pm o viceversa, nella riforma si prevede un solo passaggio ma il referendum punta a vietarli del tutto. I precedenti, soprattutto quello del 2011 sul nucleare (ma anche quello del 2016 sulle trivellazioni), militano in favore della salvaguardia del referendum, trasferito sulle nuove norme. Perché, ha detto la Corte costituzionale nel 1978, se cambia la legge sulla quale è stato proposto referendum abrogativo questo non basta a far decadere il quesito se la nuova disciplina non fa venire meno le ragioni dei proponenti. “C’è una censura sul referendum sulla Giustizia” di Francesco Boezi Il Giornale, 8 maggio 2022 L’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, analizza la riforma del Csm voluta dal ministro Marta Cartabia ma spiega anche le reali intenzioni dietro allo sciopero indetto dall’Anm. E sul referendum relativo alla Giustizia Caiazza parla di vera e propria “censura”. L’Anm ha indetto uno sciopero. Che segnale invia l’Associazione nazionale magistrati? “L’Anm reagisce con lo sciopero a qualcosa cui non è da molti anni abituata. E cioè che le riforme in tema di giustizia e di ordinamento giudiziario le scrive il Parlamento, non sotto dettatura della magistratura. Sta accadendo esattamente questo, sebbene in misura ancora largamente insufficiente, e Anm lo ha ben compreso”. Il referendum sulla Giustizia si avvicina. Considera sufficiente l’attenzione data dalla politica al tema? “Abbiamo denunciato proprio in questi giorni, con una forte presa di posizione pubblica, l’emergenza democratica che accompagna la consultazione referendaria. L’informazione tace del tutto sui contenuti della consultazione, i cui risultati saranno dunque privi di ogni significato se questa censura si confermerà anche nelle prossime settimane. Ciò è particolarmente grave con riguardo al servizio pubblico radiotelevisivo, che sta venendo meno clamorosamente alla sua funzione”. Sembra che il governo voglia continuare ad intervenire sulla Giustizia ma ormai il tempo stringe. Sarà chiave la prossima legislatura per una riforma sistemica? “Certamente. Le riforme adottate da questo governo e da questo parlamento sono frutto di continue mediazioni al ribasso. Proprio sui temi della giustizia penale e dell’ordinamento giudiziario si segnalano le distanze più incolmabili tra le forze politiche di maggioranza. Ma bisogna lavorare fin da subito per le grandi riforme che, auspicabilmente, potranno essere scritte nella prossima legislatura”. Cosa ne pensa della riforma del Csm targata ministro Marta Cartabia? “Una riforma partita malissimo, perché scritta dal governo misurandosi di fatto solo con l’Anm, con una logica perdente da contrattazione sindacale. Con il tempo sono state introdotte modifiche proprio sui temi che noi penalisti indichiamo da anni: valutazioni professionali dei magistrati, limitazione dello scandalo dei fuori ruolo, separazione delle funzioni. In misura certo ancora largamente insufficiente, ma finalmente sulla strada giusta”. Comunque esiste la possibilità che la riforma venga cambiata al Senato... “Mi auguro di no, perché sarebbero solo modifiche peggiorative. Lo sciopero di Anm punta d’altronde proprio a questo”. G8 Genova, la Cedu chiude la partita: irricevibile il ricorso dei funzionari condannati di Davide Varì Il Dubbio, 8 maggio 2022 I giudici: “La condanna si basa sulla ricostruzione dei fatti sulla base di numerosi elementi di prova e delle dichiarazioni di alcuni dei ricorrenti”. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato dai funzionari di polizia condannati in via definitiva per i fatti della scuola Diaz relativi al G8 del 2001. I poliziotti, che erano stati assolti in primo grado, furono poi condannati in appello e in Cassazione per falso e calunnia. Nel ricorso, presentato nel 2013 quando la condanna era diventata definitiva, si sosteneva che la sentenza della Corte d’Appello di Genova avesse violato l’articolo 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo che sancisce il “diritto dell’imputati di interrogare o far interrogare i testimoni a carico” e quello ad un “equo processo”. I funzionari lamentavano che la sentenza di primo grado fosse stata ribaltata in appello senza risentire i testimoni. Se la Cedu avesse accolto i ricorsi si sarebbe aperta la possibilità di una revisione del processo a 21 anni dai fatti. Ma per la Cedu, ha fatto bene la Corte d’appello a non risentire i testimoni, visto che le testimonianze non avevano avuto un ruolo determinante né nell’assoluzione né nella condanna. I giudici di primo e secondo grado, affermano i giudici europei, si sono basati su prove documentali e sulle dichiarazioni di alcuni degli stessi funzionari di polizia. La regola secondo cui i testimoni devono essere risentiti non è un automatismo secondo la Cedu, bensì dipende da una valutazione del giudice sulla rilevanza della testimonianza. A presentare il ricorso erano stati i funzionari di polizia Gilberto Caldarozzi, Fabio Ciccimarra, Carlo Di Sarro, Filippo Ferri, Salvatore Gava, Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Massimo Mazzoni, Spartaco Mortola e Nando Dominici. Alcuni di loro, a 21 anni dai fatti, sono ormai in pensione. “Nella presente causa - si legge nella decisione - dopo un’approfondita analisi degli elementi di prova del fascicolo e delle osservazioni delle parti, il Tribunale rileva che, sebbene la Corte d’Appello di Genova non abbia proceduto a una nuova udienza dei numerosi testimoni che hanno deposto dinanzi giudice, le dichiarazioni dei suddetti testimoni non hanno avuto un ruolo determinante né nell’assoluzione né nella condanna dei ricorrenti per i reati di falso e concorso in falsità. Infatti, la condanna per tali accuse si basa sulla ricostruzione dei fatti come accertata dal giudice di primo grado sulla base di numerosi elementi di prova e delle dichiarazioni di alcuni dei ricorrenti. La Corte ricorda che, sebbene sia necessario che il giudice che condanna per la prima volta un imputato valuti direttamente le prove orali su cui basa la sua decisione, questa non è una regola automatica, che renderebbe un processo iniquo per il solo motivo per cui il tribunale in questione non ha ascoltato tutti i testimoni citati nella sua sentenza e di cui ha dovuto valutare la credibilità. Occorre infatti tener conto, tra l’altro, del valore probatorio delle testimonianze in questione”. Diaz-Genova 2001. La Corte europea conferma condanne ai poliziotti di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 8 maggio 2022 La Corte Europea dei Diritti Umani ha chiuso le porte a ogni ipotesi di revisione del processo che portò alla condanna in appello di un certo numero di funzionari della Polizia di Stato accusati di falso per le violenze e le torture nella scuola Diaz. Il processo, secondo i giudici di Strasburgo, si è svolto in modo equo e le prove portate in giudizio sono state ritenute più che sufficienti per legittimare quelle condanne. I dirigenti di Polizia avrebbero voluto ribaltare una sentenza che li inchiodava a responsabilità gravissime. Le parole del Procuratore Generale di Genova Pio Machiavello, in sede di requisitoria, in quel lontano 2010, descrivono perfettamente le condotte criminali commesse: “Non si possono dimenticare le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione del verbale di arresto dei novantatré no-global, le bugie sulla loro presunta resistenza. Né si può dimenticare la sistematica e indiscriminata aggressione e l’attribuzione a tutti gli arrestati delle due molotov portate nella Diaz dagli stessi poliziotti”. Dunque, non c’è più modo di stravolgere la verità processuale sui fatti di Genova. Resta l’amarezza per uno Stato che non ha voluto fare i conti con ciò che Genova 2001 ha significato nella storia del nostro Paese: non è stato possibile risalire alle responsabilità politiche di quanto accaduto per le strade, nella caserma Bolzaneto e nella scuola Diaz, in quanto il Parlamento non ha acconsentito a mettere in piedi una Commissione di inchiesta; nessuna forza di Polizia ha previsto la possibilità di forme di identificazione per tutti gli agenti e funzionari impegnati in attività di ordine pubblico; non vi sono stati risvolti disciplinari significativi o retrocessioni gerarchiche per i funzionari condannati, anzi alcuni di loro hanno ottenuto rilevanti promozioni di grado, così alimentando sensazioni diffuse di impunità. C’è stata solo una grande novità dall’estate 2001 a oggi: dal luglio 2017 esiste il crimine di tortura nel codice penale italiano, risultato conseguito dopo un’estenuante battaglia in Parlamento, nella società e nelle aule di giustizia. Adesso che nessuna sentenza può essere ribaltata, verità storica e verità processuale si assomigliano sempre di più. Affinché non restino dubbi su chi era al vertice della scala di potere a Genova, non è scaduto il tempo per tornare sulle responsabilità politiche dell’epoca, di quei ministri presenti nelle sale di comando, di chi ha messo in piedi quel luogo illegale di tortura che è stato Bolzaneto, di tutti quelli che hanno coperto giorni e notti di violenze brutali, dal cattivo odore fascista. Non è troppo tardi, anche a distanza di più di due decenni, per riparare pubblicamente le ferite gravi inferte alla democrazia e alla dignità delle vittime, nel nome dello Stato di diritto e di una memoria condivisa. *Presidente di Antigone Lombardia. Il reinserimento è utopia: le carceri scoppiano. Maglia nera a Brescia di Federica Pacella Il Giorno, 8 maggio 2022 La regione supera la media nazionale per il sovraffollamento. Il reinserimento dei detenuti nella società dovrebbe essere il fine ultimo della pena, ma come si fa se prima non si risolvono “problemi primari” come quello del sovraffollamento? È la domanda con cui il XVIII rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione obbliga a confrontarsi. Nel 2021, il tasso ufficiale medio di affollamento, a livello nazionale è stato del 107,4%, ma la Lombardia supera la media con il 129,9%. Tra gli istituti, alcuni (tutte case circondariali) presentano tassi di affollamento analoghi a quelli che si registravano al tempo della condanna dell’Italia da parte della Commissione Europeo dei Diritti dell’Uomo. In particolare, a Brescia va la maglia nera con il 185% al “Nerio Fischione” (Canton Mombello); male anche il “Don Fausto Resmini” di Bergamo e Busto Arsizio con un tasso medio del 165% e Varese con il 164%. Dati, evidentemente, molto lontani dalla media nazionale. La fotografia del 2021 è destinata ad essere replicata nel 2022. I dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 aprile, rilevano che in tutti gli istituti lombardi si registrano presenze superiori alla capienza regolamentare: al “Nerio Fischione” di Brescia sono ad esempio 334 su 189, a Bergamo 552 su 315. Le ragioni sono molteplici: c’è un tema di strutture e vetustà degli edifici e di aumento di fattispecie di reati per cui è previsto il carcere. C’è poi la questione delle misure alternative, che nel complesso sono aumentate, ma che sono applicate più facilmente a persone che sono all’esterno del carcere in attesa di eseguire la propria condanna. Gli stranieri sono particolarmente penalizzati su questo fronte, per il minore legame con il territorio di appartenenza e la minore disponibilità di risorse quali l’abitazione o l’attività lavorativa. Il sovraffollamento, insieme alla presenza di detenuti psichiatrici, è all’origine anche dei disordini che proprio al “Nerio Fischione” si sono registrati nelle ultime settimane. “Dopo i disordini e la manifestazione sindacale sono stati trasferiti oltre 10 detenuti - spiega Calogero Lo Presti, coordinatore regionale Fp Cgil. Ma il problema persiste dal momento che il Provveditorato assegna, a Brescia, detenuti psichiatrici e che si sono resi responsabili di disordini in altre carceri. Quindi, il problema c’è e rimane. A mio avviso dovrebbe essere la politica ad intervenire con delle modifiche legislative sulla detenzione ma anche che garantiscano maggiore sicurezza nei confronti della polizia penitenziaria all’interno delle carceri. Questi lavori oggi sono la parte soccombente in un ambiente ormai abbandonato a se stesso, dove i poliziotti vengono insultati, minacciati e persino aggrediti”. Napoli. Celle ancora strapiene, ma il carcere non doveva essere l’extrema ratio? di Viviana Lanza Il Riformista, 8 maggio 2022 Basta con questa visione carcerocentrica. Le celle scoppiano, i diritti sono mortificati, la detenzione non ha altra funzione se non quella di rendere la condanna una vendetta. “Il carcere deve essere integrativo, deve essere rete”, dice Fra’ Giuseppe Pulvirenti, cappellano di Poggioreale, parlando da Scampia dove si presenta il libro “Carcere” del garante Samuele Ciambriello. L’incontro si svolge nell’Officina delle Culture “Gelsomina Verde”, organizzato da Ciro Corona, presidente dell’associazione “Resistenza”. Carcere come extrema ratio, dunque. Non si tratta di uno slogan da garantisti, lo prevede la legge. Il direttore del carcere di Poggioreale Carlo Berdini, intervenendo al dibattito, afferma che “bisogna capire in che misura e come il carcere possa essere necessario”. “Ritengo - aggiunge - che il carcere debba essere considerata una misura residuale. Deve far sì che le persone non escano peggiori e il miglioramento dei detenuti deve passare necessariamente dal lavoro, dalla cultura, da tutto ciò che prevede l’ordinamento penitenziario”. Lavoro, parola che dice tutto ma che spesso si traduce in niente. Eppure quanto il lavoro sia importante nel percorso di riscatto di chi vive la privazione della libertà personale è cosa nota, lo ricorda Pietro Ioia, garante della città metropolitana di Napoli. “Il carcere si dovrebbe reggere su tre pilastri: diritti, lavoro e inclusione territoriale - aggiunge Enzo Vanacore, rappresentante della cooperativa L’uomo e il legno - Tre obiettivi difficili ma vanno perseguiti”. Il percorso passa per il reinserimento sociale. Adriana Sorrentino, referente Uepe Campania, spiega come “il discorso sull’inserimento territoriale dei nostri ragazzi è il motivo per il quale spesso sono in giro per il mondo per progettare interventi che si possono fare”. Servono ponti. “È necessario che prima di tutto si crei una coscienza civica - conclude Ciambriello. Non bisogna continuare a pensare che il carcere sia una risposta certa e immediata, che ci è dovuta per la sicurezza sociale. Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire. Siamo qui a Scampia con diverse associazioni, cooperative e detenuti in affidamento in prova. Il Terzo settore è una “zattera” che può remare controcorrente nel mare dell’indifferenza e della repressione”. Brescia. Nuovo carcere, gli onorevoli di destra con Del Bono: ora rilevi le aree necessarie di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 8 maggio 2022 Il senatore Paroli e la deputata Bordonali accettano l’idea di far parte di una delegazione parlamentare che esiga i 50 milioni per la struttura ma pongono le loro condizioni: nuovo progetto e acquisto delle aree da parte del comune. Che fare di Canton Mombello vuota? L’ex sindaco: un hotel di lusso con spa nelle segrete. Il senatore Adriano Paroli e la deputata Simona Bordonali danno piena disponibilità a far parte dell delegazione parlamentare che andrà dal ministro della Giustizia per avere conferma dei 50 milioni destinati al nuovo carcere di Verziano (fondi citati nel Def ma non a bilancio dello Stato). Disponibilità chiesta, con un’intervista al Corriere, dal sindaco Del Bono. A due condizioni però: “che ci sia un nuovo progetto, con un sostanzioso ampliamento nei campi circostanti e non limitato all’attuale sedime. E che il comune entri in possesso di quelle aree, acquistandole o permutandole”. Un tema, quest’ultimo, su cui l’ex sindaco forzista rivendica il suo antecedente disegno, affossato “da un assessore di Del Bono con il Pgt del 2016”. Ecco lo schema: “Noi avevamo concordato di rilevare 120 mila metri quadri di campi in cambio dell’edificabilità di 20mila mq di terreni al Villaggio Sereno, tre villette e un piccolo supermercato”. Come è noto quel do ut des venne cancellato dalla giunta Del Bono, così come la cessione (voluta fino al 2019) di quelle aree agricole all’azienda agricola Verziano in cambio di palazzo Bonoris. “Se si ha disponibilità delle aree i finanziamenti arrivano immediatamente, me lo confermò anni fa Alfonso Sabella quando era a capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria” aggiunge il senatore: “È stato un errore madornale rinunciare a quelle aree, così come fu un errore rinunciare ai 13 milioni a fondo perduto per fare il campus universitario alla caserma Randaccio. Ma questa è un’altra storia”. La piena disponibilità del centrodestra a Del Bono ha il solo fine “di agire per il bene della città, così come fatto con il metrò, che per 10 anni avrà 10 milioni l’anno di finanziamenti” commenta Bordonali che non risparmia una stilettata al sindaco: “non possiamo non rilevare che dopo 9 anni di impasse Del Bono sul carcere si sveglia ad un anno dalle elezioni”. E torna sul tema dei 50 milioni “fantasma”, ricordando la sua interrogazione in commissione Giustizia presentata a febbraio, che non ha ancora avuto risposta, così come quella del collega Alfredo Bazoli (rivolta però ai ministri delle Infrastrutture e dell’Economia). Che per Verziano ci sia necessità di avere un progetto nuovo, più ampio, Del Bono lo aveva già confermato al Corriere. I 15 milioni del primo lotto, stanziati nel 2018, bastano a realizzare i 400 posti nell’attuale sedime ma con i 50 milioni si realizzerebbe contestualmente il secondo lotto: laboratori per il lavoro dei detenuti, spazi per lo svago e casermette per gli agenti nei campi adiacenti. Paroli lancia segnali di pace a Del Bono ma insieme un monito: “non voglio contrappormi al sindaco, il rapporto oggi è cordiale, abbiamo pranzato insieme anche nei giorni, ma deve essere chiaro che senza la disponibilità delle aree i tempi sono destinati a dilatarsi di altri anni”. Con un carcere nuovo Canton Mombello si svuoterà. Che fare in quell’enorme struttura vuota e tutelata dalla Soprintendenza? “Oggi come dieci anni fa immagino un hotel a 5 stelle con una spa nelle segrete... L’edificio si potrebbe dare in permuta a chi costruisce Verziano bis. Sarebbe un’opportunità per la città. Dobbiamo ragionare in grande per Brescia, come hanno sempre fatto i sindaci che ci hanno preceduto, da Boni a Martinazzoli, passando per Padula”. Bologna. Garante dei detenuti in scadenza, Bando del Comune per sostituirlo Il Resto del Carlino, 8 maggio 2022 È in scadenza l’incarico del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune, attualmente ricoperto da Antonio Ianniello. Palazzo D’Accursio ha avviato le procedure per raccogliere le candidature, attraverso un avviso pubblico firmato dalla presidente del Consiglio comunale, Caterina Manca. Il mandato del Garante scadrà il 23 luglio e Palazzo D’Accursio dà tempo fino al 6 giugno per presentare le candidature. “La figura del Garante è scelta dal Consiglio comunale tra cittadini italiani che offrano la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le funzioni”, recita il bando, elencando i requisiti: “Comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani ovvero delle attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena e nei Centri di servizio sociale; esperienze acquisite nella tutela dei diritti”. Il Garante dura in carica cinque anni e può essere rieletto una sola volta. A chi svolge questo incarico spetta un’indennità mensile di funzione, che la Giunta comunale ha fissato in 22.500 euro lordi all’anno. Carinola (Ce). Garante in visita al carcere, tra problemi e donazioni edizionecaserta.net, 8 maggio 2022 Visita del Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello alla Casa di reclusione di Carinola. Accompagnato dal direttore del carcere Carlo Brunetti, dal comandante della Polizia penitenziaria Tonia Giuliano, e dal sindaco di Carinola Giuseppina Di Biasio, è stato prima all’area verde del carcere luogo dove si tengono i colloqui tra detenuti e familiari con figli, e poi è stato nell’aria del carcere dove si frequentano corsi scolastici di enogastronomia, agraria e artistici. Nell’aria verde c’era il maestro Alessandro Ciambrone che assieme a due detenuti ha realizzato un murale dal titolo “Sole a Carinola”. Lo stesso artista realizzerà, finanziato dal garante dei detenuti campano, un secondo murale nelle aule scolastiche “i colori della cultura e la dieta mediterranea”. L’istituto di Carinola ospita 374 detenuti. Il garante Ciambriello, dopo aver tenuto colloqui individuali con alcuni detenuti, uscendo dal carcere ha detto: “Ringrazio la direzione del carcere per la sensibilità dimostrata e le diverse attività di inclusione socio-lavorative che ha messo in campo. Ringrazio altresì l’artista Alessandro Ciambrone per aver dato la disponibilità a realizzare in ogni istituto penitenziario campano un murale. L’idea di questi murales è che l’arte possa donare libertà e la bellezza possa restituire un senso etico e toccare il cuore di tutti, sia dei diversamente liberi che ci vivono, che di tutti coloro che entrano in carcere a vario titolo”. Il garante Ciambriello ha donato dei libri per i detenuti e ad ogni singolo detenuto un opuscolo intitolato “Codice Ristretto” promosso dal suo ufficio, dal Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria, dall’Osservatorio nazionale carceri delle camere penali e dalla camera penale di Bologna. “Questo testo - conclude il garante dei detenuti Ciambriello - è uno strumento per fornire informazioni comprensibili ed immediate ai detenuti definitivi in particolare. Non vuole sostituire la consultazione delle norme di legge, ma esclusivamente agevolare la comprensione del possibile accesso ai benefici”. Montecatini Terme (Pt). Conferenza: “Disagio e criminalità giovanile. Giustizia minorile” di Valentina Spisa La Nazione, 8 maggio 2022 Educazione, prevenzione, destigmatizzazione, centralità della persona minore e della sua possibilità di recupero. Temi emersi dalla conferenza: “Disagio e criminalità giovanile. Giustizia minorile”, organizzata alle Tamerici da Lions club Montecatini Terme. Relatori del talk show: Silvia Calzolari, psicologa criminologa, già giudice onorario minorile della Corte d’Appello, Antonio Fusco, funzionario della polizia di Stato, Andrea Niccolai, avvocato penalista. Sono stati declinati aspetti psicologici, criminologici, giuridici, sociali, comunicativi sul tema. Accento sul Dpr 448 del 1988, con cui il legislatore ha connotato la giustizia minorile, sancendo il “primato delle esperienze educative del minore sulla stessa prosecuzione del processo penale”, rendendo residuale la detenzione e focus sull’istituto della Map, messa alla prova. Il presidente del Lions Club Montecatini Terme Andrea Giotti ha ricordato: “Il Lions club Montecatini Terme è stato fondato nel 1955 e, da allora, opera sul territorio nelle varie aree di intervento del Lions club international; una di queste aree è il sostegno ai giovani”. L’analisi si è soffermata su baby gang, bullismo, cyberbullismo, “sfide social”, a volte ai confini con la morte, ruolo dei social, impatto della pandemia sui giovani, necessità di operare in sinergia tra famiglia, scuola, istituzioni. Posto in luce l’impegno di famiglie, scuole, istituzioni, giovani stessi, profuso per la prevenzione e in progetti di educazione alla legalità. Silvia Calzolari ha analizzato il tema del disagio: “Non possiamo trascurare il ruolo della pandemia, che, però, non è causa idonea a spiegare tutto: spesso ha accentuato criticità già esistenti, che riguardano l’adolescenza, ma anche soggetti prepuberi, quando già si notano comportamenti critici, dovuti, in parte, anche al fatto di essere “nativi digitali”. Ciò comporta meccanismi a livello cognitivo, diversi da quelli di altre generazioni. Per il disagio utilizziamo il termine “psicosociale”. Siamo tutti connessi e, a volte, iperconnessi; il rapporto con gli altri c’è sempre, attraverso la tecnologia. Una delle fonti maggiori di disagio è il conflitto interiore di queste generazioni, ancora troppo piccole per essere grandi, ma troppo grandi per essere considerate piccole. Si torna al discorso cognitivo: come faccio ad elaborare tanti stimoli insieme? Troppe finestre aperte sul mondo e difficoltà ad orientarsi. Sulla giustizia minorile: fondamentale la destigmatizzazione, l’identità del minore è in costruzione e il sistema attuale gli dà l’opportunità di non vedersi incollata addosso un’etichetta per un errore commesso, ma di essere rieducato e voltare pagina. Onde evitare che la condotta deviante, magari occasionale o di lieve entità o dovuta a fattori ambientali, possa diventare qualcosa di strutturato, ovvero “devianza secondaria”, a seguito di un processo di stigmatizzazione, il legislatore cerca di proteggere il minore da questa etichetta. Il minore, infatti, potrebbe dar vita ad una ricostruzione del sé con significati negativi derivanti dall’attribuzione sociale del fatto. Sono nate anche forme di cura, terapeutiche nella relazione, come quelle peer to peer, di scambio di ruolo: si può scambiare quindi il ruolo autore - vittima del reato, per mettersi nei panni dell’altro”. Silvia Calzolari ha descritto quali sono i segnali che possono indicare un disagio in un ragazzo: “Dobbiamo prestare attenzione alle condotte emotive dei nostri ragazzi. Se ci sono cambiamenti a livello emotivo, come, ad esempio: scoppi di aggressività, rabbia immotivata, comportamenti di introversione, il ritirarsi maggiormente, eludere le domande dei genitori e degli insegnanti o lo sguardo, siamo in presenza di condotte da indagare con sensibilità e attenzione. Non rispondere a queste condotte dicendo: “Tanto tu fai così, tanto sei così”, ma continuare a cercare il dialogo con i ragazzi. Una delle più importanti attività che una famiglia può fare è allenarsi all’espressione delle emozioni: “Mi sento in questo modo, tu come ti senti?”. Accettiamo che un adolescente possa avere un suo angolo segreto, ma incentiviamo l’espressione delle emozioni, che non è né superfluo, né imbarazzante. Dovremmo educare i bambini ed i ragazzi ad esprimere il proprio stato d’animo”. Antonio Fusco ha illustrato: “Come forze di polizia, quando affrontiamo questa materia, parliamo di devianza. Il disagio è una causa di un effetto che è la devianza. Parliamo di devianza perché le manifestazioni non si esauriscono in comportamenti in violazione delle norme penali. La criminalità minorile è una piccola parte di una forma di devianza comportamentale generale che attira l’attenzione di mass-media e comunità. L’approccio deve essere multidisciplinare. Stiamo per concludere un protocollo in prefettura, con scuole, ufficio provinciale scolastico, forze dell’ordine, rappresentanti dei genitori per coordinarci meglio”. E riguardo alla Map, Antonio Fusco ha evidenziato: “Non si può pensare di risolvere il problema della devianza minorile chiudendo i ragazzi in carcere, ma dobbiamo dar loro la consapevolezza che la map è un’opportunità da cui si può tornare indietro, proprio per aiutarli e impedire che, in un futuro, possano finire in carcere”. L’avvocato Andrea Niccolai ha reso noti dati del rapporto sulla giustizia minorile dell’associazione Antigone: “La criminalità minorile, in realtà, è in forte regresso. Le segnalazioni alla polizia di minorenni nel 2016 erano 34366; sono 26271 nel 2020 con un calo del 24%. Dati influenzati dal covid, ma non molto, perché si parte dal 2016; i minorenni arrestati o fermati sono diminuiti di ben 66% tra il 2016 e il 2020. In riduzione le presenze negli istituti penali minorili: 316 minori ristretti nei 17 istituti, questo anche grazie all’istituto della sospensione del processo con la Map, messa alla prova, che, a mio parere, ha portato a straordinari esiti. Il legislatore, nel 1988, ha dato vita alla riforma del processo minorile, con il Dpr 448 del 1988. Una riforma storica, perché si pone al centro del processo, della giustizia, la soggettività dell’individuo, mentre per i maggiorenni, al centro, c’è il fatto - reato. In un processo ordinario, se non si giudica di un minore, le circostanze emotive, psicologiche, di contesto, ambientale possono solo avere valenze attenuanti, ma mai possono arrivare ad escludere il processo o la pena. Per il processo minorile, è diverso. Abbiamo l’istituto della sospensione del processo con la messa alla prova, che è cardine e che ha dato buoni risultati e può realizzare il progetto della rieducazione sancito costituzionalmente. Per il minore ciò si traduce in una serie di percorsi educativi, per il suo reinserimento. Un fenomeno in grande espansione: dal 1992 il numero di provvedimenti di ammissione dei minori alla Map era di 788, mentre nel 2018 erano 3653 e, nel primo trimestre del 2019, sono stati 2382. Un istituto in costante sviluppo ed a ciò si affianca la giustizia riparativa, un insieme di iniziative e condotte, prese di coscienza del danno arrecato a causa del reato commesso”. Oristano. Conferenza su carcere e società La Nuova Sardegna, 8 maggio 2022 Si terrà lunedì 9 maggio, dalle 16 e 30 al museo diocesano arborense una conferenza promossa dall’Associazione “Nessuno Tocchi Caino” e dalla Camera Penale su Carcere e Società: abbattere il muro dei pregiudizi, colmare le distanze. Introdurrà e modererà i lavori Rosaria Manconi, presidente della Camera penale di Oristano e interverranno Monsignor Roberto Carboni, Maria Grazia Caligaris, dell’associazione Socialismo, diritti e Riforme; Sergio Locci, del consiglio dell’ordine degli avvocati; Carla Barontini, responsabile dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Oristano; Paolo Mocci, garante dei detenuti di Oristano, la consigliera comunale Patrizia Cadau e Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Sabrina Renna, del consiglio direttivo della stessa associazione e Elisabetta Zamparutti, tesoriera. “Vogliamo sensibilizzare la nostra comunità- scrive Rosaria Manconi - sulle condizioni di vita interne all’istituto di pena realizzato a pochi passi dalla città e di creare, con il coinvolgimento dei cittadini, volontari, operatori, Enti ed Associazioni una sinergia, purtroppo ora inesistente, tra territorio e carcere. Con uno sguardo particolare alla possibilità di offrire ai detenuti reinserimento lavorativo e sociale, e contribuire alla realizzazione di progetti ed attività culturali, ricreative, formative in grado di favorire un trattamento penitenziario ispirato a principi di umanità e dignità della persona, di crescita personale, consapevolezza ed autodeterminazione”. “Milano giusta e Milano ingiusta”, dai grattacieli alle fragilità di Marta Ghezzi Corriere della Sera, 8 maggio 2022 L’evoluzione del capoluogo lombardo raccontata per immagini dal fotografo Andrea Cherchi, sono proiettate durante la Civil Week nella Sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. È montato come un film, con le foto che corrono rapide una dopo l’altra. Non c’è un’unica storia, ma un’unica protagonista: Milano. “Milano giusta e Milano ingiusta” di Andrea Cherchi, fotografo che da anni racconta con le immagini l’evoluzione del capoluogo lombardo, viene proiettata, durante la Civil Week milanese, nella Sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati a Palazzo di Giustizia, aperta in via straordinaria anche al grande pubblico, e da lunedì 9 sul loro sito (ordineavvocatimilano.it). La partenza è con i fuochi d’artificio, sfila la monumentalità classica, Castello Sforzesco, Duomo, San Maurizio, Sant’Ambrogio, prosegue con visioni della città verticale, i nuovi skyline di Porta Nuova e City Life, per poi lasciare spazio al verde, parchi, giardini, grandi aiuole, a dimostrare che la metropoli è in corsa anche per la sostenibilità. Il cambio di passo è improvviso, senza soluzione di continuità si vede avanzare un’altra Milano, quella degli ultimi che dormono nei sottopassi, di chi fatica a tirare avanti e si mette in fila a una mensa dei frati. È la città più vulnerabile, fragile e ferita, con le sue case popolari, il degrado è mostrato senza filtri, come il vandalismo che sfregia e rovina il patrimonio collettivo. In chiusura l’accoglienza, da sempre nel dna cittadino, compare la mano tesa nell’aiuto, le manifestazioni per la pace, le scuole d’italiano per i profughi ucraini. “Nelle mie foto non c’è giudizio, non rimarco, osservo e riporto, l’intento è lasciare una scia di emozioni”, spiega Cherchi. “È un piccolo contributo per riflettere su un tema importante e quanto mai attuale, il concetto di giusto e ingiusto”, sottolinea Marisa Meroni, consigliere dell’Ordine, mentre il presidente Carmelo Ferraro ricorda l’impegno dell’ente che negli ultimi anni ha organizzato sportelli di orientamento legale e tematici su violenza di genere e cyberbullismo, “la mostra è espressione di questo percorso di aiuto e responsabilità civica”, dichiara. Cuneo. “Voci Erranti” torna in scena con gli attori della Casa di Reclusione di Saluzzo cuneodice.it, 8 maggio 2022 Due spettacoli al Teatro Milanollo di Savigliano: sabato 14 maggio “Scusate l’attesa” con i detenuti di Saluzzo e lunedì 30 maggio “Dalla carne al cielo: omaggio a Pasolini” con gli attori dei laboratori teatrali. Sabato 14 maggio e lunedì 30 maggio, alle ore 21, presso il Teatro Milanollo di Savigliano (piazza Turletti, 7) andranno in scena due spettacoli dell’associazione di formazione e produzione teatrale Voci Erranti. Il primo, “Scusate l’attesa”, fa parte del calendario della stagione teatrale del Milanollo e coinvolgerà gli attori di Voci Erranti, oltre a quelli della Casa di Reclusione di Saluzzo. Per prenotare i biglietti è possibile contattare l’Ufficio Cultura del Comune di Savigliano ai numeri 0172/710235 - 710222 o via mail a cultura@comune.savigliano.cn.it. Il secondo spettacolo “Dalla carne al cielo. Omaggio a Pasolini”, di lunedì 30 maggio, sempre al Milanollo, sarà messo in scena dagli attori dei laboratori di Voci Erranti. Per acquistare il biglietto è possibile rivolgersi al Teatro Milanollo direttamente la sera del 30 maggio, dalle ore 20 in biglietteria, al costo di 10 euro intero e 5 euro per gli studenti. Per maggiori informazioni contattare il numero 340/3732192. “Lo spettacolo ‘Scusate l’attesa’, interpretato da attori detenuti e non, nasce per far provare al pubblico la fatica vuota dell’attesa, che in carcere è ben conosciuta, e l’energia prorompente della vita che scorre. ‘Dalla carne al cielo: omaggio a Pasolini’ offre la visione del poliedrico artista su diverse tematiche importanti, in vista del centenario della sua nascita - spiega Grazia Isoardi, direttrice artistica di Voci Erranti -. Voci Erranti è l’unica realtà di teatro in carcere in Italia che va in trasferta senza la scorta della Polizia Penitenziaria. Ringrazio il magistrato e le autorità di sorveglianza, la direzione e il personale del penitenziario per la fiducia riposta in noi”. “Scusate l’attesa” di Grazia Isoardi, che firma la regia con Marco Mucaria, è uno spettacolo dedicato al tempo e all’attesa. Come un detenuto vive in un tempo sospeso, in attesa di un colloquio, una telefonata, una buona notizia, anche la pandemia ha fatto sentire il peso del tempo fermo, statico, recluso, obbligando ad una sosta forzata. Il tempo non è soltanto quello fatto di orologi, ma è anche il tempo interno, scandito dal respiro, fatto di tempi vuoti e tempi felici. La rappresentazione teatrale invita a riflettere sul tempo come elemento costitutivo della vita umana e sulle tante attese e ripartenze che viviamo nella nostra società. “Dalla carne al cielo. Omaggio a Pasolini” è lo spettacolo di fine corso dei laboratori teatrali di Voci Erranti, dedicati a bambini, ragazzi e adulti. Un omaggio al centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini che riprende il suo pensiero su temi sempre attuali come il lavoro, la comunicazione e le relazioni umane. “Le madri non dormono mai”. In galera con la mamma. Ma fuori... recensione di Giulia Ziino Corriere della Sera, 8 maggio 2022 Lorenzo Marone si è preso a cuore la questione degli Icam, istituzioni dove le madri condannate alla detenzione possono tenere con sé i figli piccoli. È in una di queste strutture che ambienta il nuovo romanzo: né favola né storia a lieto fine. Icam è una sigla, sta per “Istituto a custodia attenuata per detenute madri”. Gli Icam sono strutture sperimentali - la prima a essere inaugurata è stata quella di Milano, nel 2006, ora in Italia ce ne sono cinque - dove, se il giudice lo dispone e non ci sono altre soluzioni, possono stare le detenute madri con i loro figli finché sono piccoli. Non sono vere case, non sono del tutto carceri: sono soluzioni possibili, forse compromessi. Una legge del 2011, la numero 62 del 21 aprile, ne regola l’impiego. È in uno di questi istituti - in un paesaggio ostile e secco, tra le montagne, che capiamo essere in Campania - che viene trasferita Miriam Capasso, giovanissima, in carcere per detenzione illegale di armi: “Per mio marito, gli ho coperto le cose sue, mannaggia a me”. Miriam è avara di parole, già delusa dalla vita, e bellissima. Ha un figlio, come tutte le detenute qui: il suo è Diego, 9 anni. Un bimbo fragile, sovrappeso, con il cuore che funziona male, i capelli “del colore sbagliato”. Nel rione da dove vengono madre e figlio, a Napoli, Diego era continuamente vessato, bullizzato dai compagni di scuola più grandi, vincenti. Piegato. Ogni giorno una guerra da cui cercava di difendersi, inutilmente, restando zitto, camminando sulle punte per sembrare più alto, non dare nell’occhio. Non si faceva notare, nemmeno in classe: “Non era tanto la timidezza a fermarlo, era l’azzardo a mettergli paura, il pericolo davanti al quale si sarebbe trovato alzando la mano, la possibilità concreta di finire dalla parte sbagliata, tra quelli che parlano senza sapere, e si riempiono la bocca di fesserie. L’aveva formato l’esempio materno, l’ordine inequivocabile al silenzio, per mostrare di sé il meno possibile”. Arrivato lì, in quel posto strano, un microcosmo con le grate alle finestre e le porte che ogni sera, alle 22, vengono chiuse a chiave e i secondini ci sono, ma in borghese, Diego trova qualcosa. Qualcosa che nei giorni diventerà un grumo di coraggio, fiducia in sé stesso, degli amici. E cambia. Ma per quanto? Quella di Diego non è una storia vera né una favola a lieto fine: lui e Miriam sono personaggi di finzione, al centro di un romanzo di Lorenzo Marone, “Le madri non dormono mai”. Una storia che nasce da un interesse reale dello scrittore napoletano per gli Icam, e per la loro possibile evoluzione, e da una visita fatta a quello di Lauro, Avellino, che Marone ha raccontato su “la Lettura” #528 del 9 gennaio. Incontri e storie. Anche qui, nel libro, madre e figlio non sono da soli: alle loro, si alternano le voci di tanti altri - detenute, guardie, bambini, volontari - a fare di questo un romanzo corale e denso, che a piccoli passi sempre più fondi ci restituisce un luogo, le sue contraddizioni. Perché “sarà pure che le celle restano aperte, e i bambini giocano per i corridoi e nel cortile, ma uscire non si può”. Eppure è qui che Diego inaspettatamente sboccia, “come la pianta che si ambienta nel posto giusto e d’improvviso, da sola, si mette in testa di fiorire”. Lui, il più grande, fuori abituato a soccombere, si fa leader per i compagni più piccoli: Gambo e Adamu - di 6 e 4 anni, che “semplicemente ridendo si prendevano l’attenzione”, figli della nigeriana Amina dentro per induzione alla prostituzione - Melina, albanese di 5, con le gambe storte per malnutrizione e un quaderno sulle cui pagine fa collezione di parole, Jennifer, “che non teneva mai la bocca chiusa e nella vita ci stava da padrona”, l’unica con la quale “non siamo tanto amici, giusto un poco”. Nell’universo chiuso dell’Istituto - non facile ma che viaggia su schemi diversi rispetto al rione - Diego ricostruisce un modello di casa, di famiglia, recupera in parte anche il rapporto con la madre ragazza, chiusa, che teme per quel figlio riuscito troppo buono: “C’era in lei l’eterno dubbio di farlo venire su deboluccio, l’atroce sentenza che al mondo l’avrebbe reso un condannato. E perciò si tratteneva dal fargli troppe moine, dosava con lui parole e carezze, a volte si cullava nel confortante pensiero che ci avrebbe pensato la vita stessa a irrobustirlo. La sua maniera d’essere madre non teneva conto dell’amorevolezza, anzi, la maternità era per lei affare di virilità, provava a metterci il coraggio e l’intraprendenza, faceva da madre coi modi dei maschi”. Con Diego, e Miriam, perno del romanzo, ci sono gli altri: Miki “Poncharello” Cuomo, l’americano, la guardia, “prigioniero come lei, anche se in maniera diversa, prigioniero del suo lavoro, del passato, della famiglia, dei muri che la vita, il carceriere più crudele, gli aveva alzato attorno”. Greta, la dottoressa psicologa. Le carcerate - madri - e i figli senza le quali quelle donne “erano solo detenute”. Ogni nome, una ferita. Anche per i più piccoli, innocenti ma prigionieri pure loro. La vita, fuori, li ha resi tutti come sono: il carcere - l’Icam - li punisce e li protegge, cerca di nutrirli, di dare loro un futuro da spendersi nel mondo esterno, di salvarli nel suo modo insufficiente, difettoso. Per Diego, quell’universo chiuso diventa la casa: il primo scontro con l’esterno - la scuola - romperà il vetro che si è costruito, che lo scalda, infrangendo il velo dell’illusione. Vita e carcere, nessuno lo ha protetto. E se c’è stata per lui, per qualcuno, una speranza di redenzione, sarà il rione a riportarlo indietro: “L’aveva ghermito, aveva innestato in Diego l’idea di lotta, gli aveva dato in dote un’identità fondata sul nemico, dal quale per l’intera sua vita avrebbe provato invano a difendersi. E poco contava che fosse tra i perseguitati, che di colpe non ne avesse, e che da innocente s’arrabattasse a individuare una via di fuga: la violenza e la rabbia non facevano distinzioni tra oppressori e oppressi, prendevano chiunque”. Nessuna favola, nessun lieto fine. Resta il romanzo, che piano piano ci fa entrare nelle vite, dosando italiano e qualche termine dialettale, ricordi e parlato, ci porta dentro le storie. Forse, come è per i buoni romanzi, ancora di più che se quelle storie fossero vere. Ma anche queste lo sono, vere. Nate dall’urgenza dello scrittore di raccontare quello che ha visto, quello che ha saputo. Ed è il romanzo che gli permette di andare in profondità davvero e portarci con lui. A lettura finita, restano addosso i personaggi e la spinta a conoscere la realtà. A fare, se possibile, qualcosa. Lo Stato toglie I’Iva per le armi ma non per cibo e aiuti che vanno ai rifugiati di Antonio Fraschilla L’Espresso, 8 maggio 2022 Il governo approva una direttiva di Bruxelles sull’esenzione dell’Imposta per le forniture militari ai paesi dell’Ue. Nel frattempo le onlus per comprare beni di prima necessità a disagiati e vittime di guerra continuano a pagarla. Anzi per loro è in arrivo una riforma fiscale peggiorativa. Uno Stato può fare uno sconto ai Paesi alleati che comprano armi e non farlo alle onlus che acquistano invece il pane per gli sfollati dalle guerre, donne, anziani e bambini su tutti? La risposta sembra molto semplice: no, non può accadere una cosa del genere. E invece questo paradosso diventerà a breve realtà. Perché da luglio l’Italia venderà armi ad altri Paesi europei con il taglio totale dell’Iva e allo stesso tempo però Caritas e altre onlus che già da mesi stanno accogliendo ad esempio i rifugiati ucraini vittime della guerra per dar loro viveri di prima necessità, come pane, acqua o latte, continueranno ad acquistare prodotti alimentari pagando l’Iva almeno al 4 per cento. E c’è di più: a breve entrerà in vigore una riforma che prevede che onlus e coop debbano aprire una partita Iva e dimostrare che servizi offrono e se possono avere uno sconto o esenzione dell’imposta. Le due cose, taglio dell’Iva per le armi e riforma fiscale terzo settore, chiaramente non sono collegate: ma per una coincidenza temporale singolare sono scattate quasi contemporaneamente. Facendo emergere però il paradosso: “Il governo con una mano taglia l’Iva per chi compra armi e con l’altra non solo non riduce l’Iva per le onlus che acquistano beni di prima necessità ma mette paletti e altri ostacoli al terzo settore facendolo avvicinare sempre più al comparto privato, con il rischio che molte organizzazioni da qui a breve chiuderanno”, dice il senatore del Movimento 5 stelle Steni Di Piazza, che in commissione Finanze a Palazzo Madama ha protestato duramente contro la norma che tagliava l’imposta sul valore aggiunto per le armi. Ma perché il governo Draghi ha varato questo provvedimento? E cosa sta accadendo allo stesso tempo nel terzo settore? La direttiva Ue sulle armi - Senza molto clamore, il 24 febbraio scorso, nello stesso giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte dei russi, il governo Draghi ha approvato un decreto per recepire una direttiva di Bruxelles che prevede il taglio dell’Iva per gli stati dell’Unione europea che acquistano armi da produttori in Italia a partire da luglio: “Le esenzioni sono applicabili esclusivamente alle situazioni in cui le forze armate di uno Stato membro svolgono compiti direttamente connessi a uno sforzo di difesa nel quadro della politica di sicurezza e di difesa comune al di fuori dello Stato membro a cui appartengono. L’intervento intende allineare il trattamento dell’Iva applicabile agli sforzi di difesa intrapresi nell’ambito dell’Unione con il quadro già applicabile alla Nato”, si legge nella relazione tecnica arrivata in Senato e che accompagna il provvedimento. L’esenzione dell’imposta non riguarda solo le armi ma tutta la fornitura di “beni e servizi” che l’Italia potrebbe dare a un Paese Ue e all’interno della difesa comunitaria: quindi anche benzina, acquisto prodotti alimentari per le mense militari e così via: “La direttiva oggetto di recepimento ha l’obiettivo di allineare il trattamento fiscale degli sforzi di difesa nell’ambito dell’Unione e della Nato nella massima misura possibile, in modo da migliorare le capacità europee nel settore della difesa e della gestione delle crisi nonché di potenziare la sicurezza dell’Ue”, continua la relazione. “Sulla carta, per essere chiari, non si parla di vendita a Paesi extra Ue, ma non c’è alcun vincolo per cessioni a terzi da parte di Paesi Ue. Mi spiego meglio: se domani Polonia o Romania acquisteranno armi dall’Italia e li gireranno all’Ucraina in virtù di accordi bilaterali di difesa Ue, questo potrebbe avvenire con armi comprate in Italia a Iva zero. O quantomeno, nel decreto che ci è arrivato in Senato non c’è alcuna chiarezza su questo punto e quando l’abbiamo chiesta non ci è arrivata alcuna risposta da Palazzo Chigi”, continua il senatore Di Piazza. Sulla carta quindi, in virtù di accordi Ue con l’Ucraina o tra singoli Stati europei e il governo di Zelensky, quelle stesse armi potrebbero essere date agli ucraini invasi dalla Russia di Vladimir Putin. C’è poi il tema economico per le già non certo floride casse dello Stato. Sulle mancate entrate per le casse pubbliche la stessa relazione mette nero su bianco una cifra intorno agli 80 milioni, ma poi aggiunge che non ci sono elementi per una quantificazione reale del “danno” per lo Stato. Fino ad oggi ogni Paese dell’Unione ha agito per conto proprio e anche con la nuova direttiva se la Francia, ad esempio, acquisterà armi dall’Italia per uso proprio e non nella cornice di difesa europea dovrà pagare l’Iva. Ma attenzione: come si sottolinea nella stessa relazione inviata alle Camere è stata appena introdotta la Cooperazione strutturata permanente anche in materia di difesa, e qui possono rientrare tutti gli acquisti di armi con esenzione Iva all’interno di progetti comunitari che a breve riguarderanno di fatto tutte le azioni di difesa e quindi qualsiasi acquisto di materiale bellico. Una cosa è certa: secondo la relazione appena consegnata dal governo alle Camere sulla vendita di armi prodotte in Italia, il nostro Paese ha venduto a Stati dell’Ue il 30 per cento degli armamenti realizzati da fabbriche italiane, per un valore di poco più di un miliardo di euro: su questa cifra l’Iva ha un valore di circa 200 milioni di euro. La protesta del terzo settore - Mentre in Senato si discuteva la conversione del decreto sull’Iva per le armi, veniva però bocciato con parere contrario del governo perché non quantificava le minori entrate per lo Stato (proprio così) un emendamento che garantiva il terzo settore dal taglio dei crediti degli enti locali in dissesto. Un emendamento caldeggiato dal presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte. E qui è scattata la protesta del Terzo settore alle prese, tra l’altro, anche con il varo di una riforma fiscale che prevede ulteriori aggravi per le onlus che magari stanno accogliendo rifugiati ucraini e stanno acquistando prodotti di prima necessità pagando l’Iva al 4 per cento. Il direttore della Caritas italiana, don Marco Pagniello, non usa giri di parole nel commentare quanto sta accadendo: “È evidente che qualsiasi persona di buon senso non può non percepire il tragico paradosso che fa sì che si debbano pagare tasse per dare da mangiare a persone in difficoltà ma non per vendere armi. E sarebbe tragicamente banale dire che tutto questo dovrebbe interrogare la coscienza di chiunque pensi che ogni azione debba tenere conto di una dimensione etica. Ma una politica senza sguardo lungo e profondo sulla realtà, e giustificata dall’emergenza, fa le cose più semplici senza guardare alle conseguenze e definendole ormai necessarie. Sul fronte del terzo settore la vicenda della fiscalità è grave. Non per la complessità della questione, ma per un problema di concezione del nuovo ente di terzo settore secondo la riforma. Credo che sia le spinte regolative europee sia uno strisciante processo di assimilazione al soggetto più rilevante del terzo settore - vale a dire la cooperazione - abbiano prodotto un corto circuito verso il riconoscimento delle realtà meno strutturate di questo mondo, vale a dire il volontariato e gli enti di matrice religiosa più piccoli”. Vanessa Pallucchi, portavoce del forum del terzo settore, fa un appello al governo Draghi per aiutare le cooperative e le onlus: “Penso che il taglio dell’Iva sulle armi sia una scelta che rivela una scommessa su un modello di relazione internazionale basato sugli armamenti. Un brutto segnale che premia processi non virtuosi, sostenibili, inclusivi. Noi non abbiamo mai fatto richiesta di non pagare le tasse, chiediamo che venga però riconosciuto il lavoro sussidiario che svolgiamo nelle comunità e nei territori in favore dei più deboli e nell’interesse della collettività. O siamo un Paese maturo nel riconoscere anche fiscalmente il valore aggiunto che diamo con il nostro lavoro o insistiamo nella strada errata di trattarci come i soggetti del profit. Il paradosso lo abbiamo raggiunto con la norma che prevede che anche le piccole associazioni debbano aprire partita Iva. Norma, per fortuna, che entrerà in vigore fra un anno, ma che chiediamo che sia del tutto cancellata. Parliamo dell’associazionismo di prossimità, dei dopo scuola, delle bande musicali, delle pro loco: chiedere loro di aprire partita Iva significa obbligarle a una burocrazia e a costi che ne minano la sopravvivenza”. Insomma, più armi e meno onlus, verrebbe da dire in maniera populista e demagogica. Anche se in fondo questa sembra la realtà. La pace è una ma i pacifisti hanno già almeno due partiti di Daniela Preziosi Il Domani, 8 maggio 2022 Il Papa è con loro, Dio non lo sappiamo, esiste il fondato sospetto. Con loro, cioè con i pacifisti genericamente, ci sarebbe anche “la maggior parte degli italiani”; lo sostengono sin dall’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina perché da subito sono spuntati sondaggi che certificherebbero che la guerra non è la prima preoccupazione del paese, mentre lo sono comprensibilmente le angosce per le conseguenze, soprattutto economiche. Insomma, per una volta, si può dire che la pace e la bandiera arcobaleno sono un marchio di successo. Non è la prima volta, in realtà, e neanche la più clamorosa: il 15 febbraio 2003 trenta milioni di persone in 800 città del mondo manifestarono contro l’imminente invasione dell’Iraq, fu la più grande protesta globale della storia. Ma poche settimane dopo Baghdad era sotto le bombe. Resta che il pacifismo disarmista, in mezzo alle pernacchie dei grandi media, in Italia prova a riprendersi la scena. E il 2 maggio scorso la serata televisiva off off di Michele Santoro, al teatro Ghione di Roma, intitolata “Pace proibita”, ha avuto 400mila telespettatori stimati fra tv collegate, streaming e siti. Ce n’è di che ingolosire qualche impresario politico. E così subito è circolata la voce di un partito di Santoro. Lui smentisce. Domani ha raccolto notizie di suoi incontri “politici” per fare uno - per così dire - studio di fattibilità del progetto. Santoro è un giornalista che maneggia bene la politica, dai tempi di Telesogno (1995), alla sua candidatura da eurodeputato indipendente nell’Ulivo (2004), a quelli di Rai per una notte (2010), tutte esperienze finite in un suo ritorno al mestiere di anchorman tv. Ci sono dunque questi precedenti che non depongono a favore della nascita di un partito sull’onda di un successo mediatico. C’è lo scetticismo dei disarmisti storici, quelli impegnati h24 nelle battaglie contro le armi. “Sapevo che si sarebbe arrivati a quello”, sospira Francesco Vignarca, coordinatore solo delle campagne per la Rete pace e disarmo, che è abituato a decodificare i facili entusiasmi che arrivano da un colpo mediatico andato a segno e dunque mantiene le sue parole su un piano molto diplomatico: “E so che molti lo stanno “spingendo”. Comunque io credo, spero e provo a lavorare ogni giorno per una politica nonviolenta... che è “molto di più”, e comprende anche il pacifismo”. Non crede a un “partito pacifista” anche Sandro Ruotolo, giornalista, in passato giornalista del gruppo di Santoro, ex inviato di guerra in Afghanistan, nel Kosovo e in Libia e oggi senatore indipendente nel gruppo di Leu-Ecosolidali: “Intanto assicuriamoci il diritto a non avere solo l’informazione con l’elmetto. Io mi ritengo pacifista, come tanti altri. Se andiamo al passato, all’epoca dell’Iraq, le enormi manifestazioni pacifiste non hanno prodotto “il partito pacifista”, cioè il valore è presente, ma non si è affermata una lista espressione politica. Anche se quelle guerre erano diverse: in Iraq e Afghanistan erano guerre di aggressione con la partecipazione del nostro paese e il pacifismo si mobilitò con manifestazioni oceaniche. Ma non nacque il partito dei pacifisti. Al limite la protesta sfociò nell’astensionismo. Oggi tutti dichiarano che è stato Putin l’aggressore e tutti stanno dalla parte dell’Ucraina. Il passato dunque ci dice di no, che non è nato un partito, ma per l’amor del cielo, non vuol dire che il futuro non ci riservi altro. In ogni caso non credo alle fratture fra pacifisti: credo che l’Ucraina si debba difendere ma sono contro la guerra, sono preoccupato per la guerra che si prolunga, e nutro grande rispetto per chi la pensa diversamente da me”. Due meglio di uno - In realtà le fratture ci sono, in Italia sono persino storiche. E il fatto è che i pacifisti italiani non possono fare un partito. Non uno solo, almeno. Perché nella platea del teatro romano di partiti pacifisti ce n’erano minimo minimo due. Confusi nella platea entusiasta c’erano, per esempio, Nicola Fratoianni, che è segretario di Sinistra italiana; ma anche l’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che invece è impegnato a organizzare una lista per le prossime politiche insieme a Maurizio Acerbo, leader Prc, anche lui in sala. E poi, con aria più scettica, c’era Arturo Scotto, che è il numero due di Articolo 1. Dirigenti di forze diverse, molto diverse, che nelle scorse tornate elettorali si sono lanciate in combine: nel 2014 alle europee l’allora Sel con il Prc nella lista Tsipras; nel 2018 alle politiche il Prc con Potere al popolo mentre stavolta Sinistra italiana si alleava con Articolo 1; e nel 2019 alle europee vai con lo scambio di coppie: Prc con Sinistra italiana nella lista La sinistra, Articolo 1 nelle liste del Pd. La coalizione di De Magistris - Infatti De Magistris non crede “che il fronte pacifista si possa ridurre a un partito. Certo, ha bisogno di una rappresentanza politica, di uno sbocco politico. Ma la forza dell’iniziativa del teatro Ghione è tutta legata alla storia di Santoro, alla sua battaglia per la libertà di informazione. Chi dice che Santoro vuole fare un partito in realtà vuole ridurre la forza dirompente di quell’iniziativa”. Insomma, non riduciamo il giornalista a un capopopolo, dice il due volte sindaco di Napoli, ex candidato presidente in Calabria, che ora lavora a una lista per le politiche. “In un fronte pacifista c’è bisogno di tutti. Noi stiamo costruendo una coalizione popolare. Michele, che conosco da anni, parla lo stesso nostro linguaggio e sono certo che faremo pezzi di strada insieme”. Ma non tutti potrebbero entrare nella coalizione di De Magistris. Non per esempio Sinistra italiana: “Con Fratoianni siamo stati alleati a Napoli e in Calabria. Sono contento che oggi siamo d’accordo anche sulla guerra, ma allora questo si deve tradurre in atteggiamenti coerenti”. Detto fuori dai denti: “Non posso immaginare come Fratoianni possa fare l’alleanza con il Pd di Enrico Letta, partito guerrafondaio e in prima linea sul fronte bellicista”. Ce n’è anche per i Cinque stelle: “Anche Giuseppe Conte si deve decidere: non è che voti in un modo e poi in tv dici che la pensi in un altro modo”. De Magistris insomma non sarà “mai” alleato del centrosinistra. “Ne ero già convinto prima della guerra, ora questa opzione è completamente esclusa”. Ma siamo sicuri che la guerra sia una questione dirimente per scegliere come votare? “Ma sì, perché è tutto intrecciato, la guerra con il tema sociale, con il costo della vita, con le questioni ambientali perché il cambiamento climatico c’è e questi invece ci propongono più fossile carbone e nucleare. E se a marzo quando si voterà la guerra dovesse esserci ancora, e prego dio di no, sarà chiaro che l’economia di guerra va in una direzione e quella del disarmo in un’altra. E lì chi vota dovrà scegliere da che parte stare”. Se non è una espulsione dal fronte pacifista, poco ci manca. Secondo de Magistris non è coerente essere contro il riarmo e poi allearsi con il Pd. Ce l’ha con Sinistra italiana. A cui giriamo la questione, avanzata peraltro da un ex alleato. “Francamente queste accuse non sono la mia preoccupazione principale” risponde Fratoianni. “Alle prossime amministrative in moltissime realtà abbiamo realizzato alleanze con il Pd e con il M5s, che a sua volta pare maturare una posizione ancora diversa sul tema della pace. Noi lavoriamo in termini di prospettiva, abbiamo un obiettivo: primo, evitare che si stabilizzi il quadro politico della grande coalizione; secondo, lavoriamo a contribuire a costruire un quadro più avanzato, penso all’esperienza spagnola, dove fra Podemos e Pedro Sánchez esistono posizioni anche molto diverse sulla guerra, ma dove poi il governo ha garantito per esempio sulla qualità del lavoro un passo in avanti decisivo contro la precarietà cancellando nei fatti i contratti precari”. Unidas podemos è anche l’esperienza a cui si ispira de Magistris. Insieme a France insoumise di Jean-Luc Mélenchon che ha portato a casa un corposo 20 per cento alle ultime presidenziali ed è stato determinante per la rielezione di Macron. Insomma, quella spagnola e quella francese sono due esperienze diverse, ma in entrambi i casi non irriducibili. Conclude Fratoianni: “Il punto per me è sempre affermare un punto di vista, con intelligenza e serietà, ma anche cercare di fare in modo che abbia la forza di produrre dei cambiamenti, perché se si tratta solo di affermarlo si rischia di essere inefficaci”. È il classico rovello di sempre, quello che spacca le sinistre radicali. A proposito, per Fratoianni non c’è nessun partito in vista: “Il partito della pace o del pacifismo non è la soluzione. Ci sono partiti di pacifisti, posizioni e pratiche pacifiste ma mi pare complicato costringere la pace dentro il perimetro pacifista e non so neanche se sia un’ottima idea. Io sono pacifista, Si ha una posizione chiara, ma un partito è un soggetto politico che ha una proposta complessiva e articolata, che naturalmente sulla pace si misura, ma non solo su quello”. E “non mi azzarderei a ipotizzare un automatismo fra la percezione e la valutazione sulla pace e il comportamento elettorale”. Rifondazione nonviolenta - Che poi, in un’altra prospettiva, è la stessa cosa che pensa Maurizio Acerbo, segretario del Prc impegnato a fianco di de Magistris: “Sono convinto che nel paese, nonostante la propaganda pervasiva, ci sia un’opinione diffusa pacifista come la nostra Costituzione. Però prima di preoccuparmi di fare un “partito dei pacifisti” diamoci da fare per fermare la guerra e per un grande movimento per la pace. È urgente una grande manifestazione nazionale a Roma, unitaria, su poche parole d’ordine a partire dal no all’invio delle armi e all’aumento delle spese militari, che contrasti la linea guerrafondaia del governo e del Pd”. La propone anche l’Anpi. “Ma non tradurrei la mobilitazione contro la guerra che deve essere al massimo plurale e trasversale con formule elettorali”. Rifondazione comunista nel 2004 è stata attraversata da una riflessione sulla non-violenza, fu la “svolta” dell’allora segretario Fausto Bertinotti. “Il pacifismo è nel nostro Dna da sempre”, secondo Acerbo, “a 17 anni ho passato l’estate del 1983 a Comiso a fare i blocchi alla base contro gli euromissili. La tessera 2022 di Rifondazione è dedicata alla nostra compagna partigiana, femminista e pacifista Lidia Menapace. Siamo in tutte le iniziative per la pace e contro la guerra. In tutti i cortei con i nostri striscioni “contro Putin e contro la Nato”. Il bandierone della pace che spesso viene ripreso da giornali e tv lo porta la federazione di Milano: fu realizzato al tempo della prima guerra del Golfo”. Ovvia, dunque, la presenza di Acerbo a “Pace proibita”. Con lui c’era Eleonora Forenza, ex europarlamentare, “l’unica ad andare in Donbass suscitando le ire del governo ucraino nel 2017”. Dalla guerra non nasce un partito, dunque, “ma questa guerra segna uno spartiacque” e per Acerbo quella che si allea con il Pd è “sinistra ornamentale. Non faccio il politicante, anche se l’elettorato fosse indifferente riterrei che lo stop al riarmo e il no alla guerra siano scelte discriminanti. Non capisco come si possa fare il disarmista in alleanza col Pd. L’Italia è diventata una piattaforma militare degli Usa. I nostri piloti partecipano ai programmi di nuclear sharing della Nato, cioè si addestrano a lanciare atomiche, il ministro Lorenzo Guerini dice che forniremo armi per colpire la Russia. E c’è chi sventolando la bandiera della pace si allea col Pd? C’è bisogno oggi più che mai di una sinistra pacifista”. E questa sinistra avrà nella coalizione popolare di De Magistris il suo riferimento: “Lavoriamo per la convergenza dei movimenti e al tempo stesso per la costruzione di una proposta politica sulla base di un programma, non degli identitarismi. In Italia c’è bisogno di opposizione sociale, di un’alternativa politica, e di un polo informativo e formativo come ci disse Pietro Ingrao nel 1993. Credo che Michele Santoro, Tommaso Montanari e tutte le altre voci che hanno partecipato a “Pace proibita” condividano questa urgenza. Con de Magistris abbiamo governato Napoli, l’unica città a dare attuazione al referendum sull’acqua. In Calabria abbiamo costruito una coalizione che ha preso il 17 per cento. C’è bisogno di un movimento che si presenti alle elezioni ma vada oltre le elezioni”. Prc e Potere al popolo hanno già corso alle politiche insieme. Risultato: 1,13. Poi la lista si sfasciò. Ci riprovano? “Me lo chiede perché vuol far passare l’idea che una proposta di rottura non possa andare oltre l’1 o il 2?” replica Acerbo. “A me sembra che le elezioni francesi e il risultato del nostro compagno Mélenchon dimostrino per l’ennesima volta in un paese europeo che non è detto che si debba rimanere deboli. Non credo nei miracoli ma Neil Young cantava che l’ora più buia è sempre prima dell’alba. Chi avrebbe potuto prevedere che in Cile una coalizione di movimenti e comunisti avrebbe superato al primo turno il centrosinistra storico e conquistato la presidenza?”. Popolo al potere - Finiamo il giro della platea del Ghione con il portavoce nazionale di Potere al popolo, esperienza nata dall’iniziativa o dei ragazzi dell’ex Opg Je so’ pazz di Napoli. A parlare è Giuliano Granato. “C’è una maggioranza che è contraria alla guerra e all’invio di armi e che continua a esserlo, ma non ha rappresentanza mediatica. L’iniziativa di Santoro ha dato un contributo importante in questo senso. Ma questa maggioranza non ha nemmeno rappresentanza politica. In parlamento, fatta eccezione per ManifestA, o per il nostro Matteo Mantero al Senato e pochi altri, non c’è nessuno a difendere le ragioni della pace. Sono tutti allineati con Usa e Nato. Questo vuol dire che dobbiamo impegnarci per trasformare questa volontà popolare in movimento organizzato che sappia imporre al governo italiano e a livello internazionale la soluzione diplomatica come unica possibile”. L’impegno con De Magistris c’è: “Stiamo costruendo un fronte che si batta non solo contro la guerra ma per la giustizia sociale”. Ma non si tratta di andarsi solo a cercare una rappresentanza parlamentare: “Potere al popolo è nato per fare tutto al contrario. Dove la politica abbandona i territori, noi apriamo case del popolo. Dove non ascolta le classi popolari, noi proviamo a organizzare le loro lotte. Dove le varie dirigenze di sinistra si sono divise, noi abbiamo provato sin dall’inizio a unire dal basso”. Unire, ma non proprio tutti: “Non si può essere complici con le industrie di morte, con chi bombarda e uccide. Il Pd è la forza che ha più spinto per l’invio delle armi, e quella più subalterna a Washington e Nato. Come si possa andare con il Pd, il partito che con le sue “riforme” ha distrutto lavoro, scuola e ambiente, è un mistero che si spiega solo con l’opportunismo di pochi e la rassegnazione di molti. Rassegnazione che è aumentata dopo la fine ingloriosa dei Cinque stelle che avevano promesso un cambiamento e sono diventati il partito delle poltrone”. Cybercrime, danni alle stelle: oltre 6 mila miliardi di dollari nel 2021 di Roberto Zarriello La Repubblica, 8 maggio 2022 Lo rileva il Rapporto 2022 elaborato dal Clusit, l’Associazione italiana per la sicurezza informatica. Il numero di attacchi gravi è cresciuto del 10% rispetto al 2020. Non è solo la guerra in Ucraina a mettere a rischio la crescita economica mondiale. Esiste infatti un altro conflitto “invisibile” e “sotterraneo” che ogni anno causa danni economici pari a quattro volte il prodotto interno lordo italiano. È la “cyber war” che si combatte a colpi di cyber attacchi: 2.049 solo nel 2021 con un aumento che sfiora il 10% rispetto all’anno precedente, per una media mensile di 171 attacchi, il valore più elevato mai registrato. A rilevarlo è il Rapporto 2022 realizzato dal Clusit, l’Associazione italiana per la sicurezza informatica. La classificazione di Clusit si basa anche su una valutazione dei livelli di impatto dei singoli incidenti, che tiene in considerazione aspetti di immagine, economici, sociali e le ripercussioni dal punto di vista geopolitico. E “gli attacchi crescono in quantità e in qualità”, spiegano i ricercatori. Nel 2021 il 79% degli episodi rilevati ha avuto un impatto “elevato”, contro il 50% dello scorso anno. Nel dettaglio, il 32% è stato caratterizzato da una severity “critica” e il 47% “alta”. A fronte di queste percentuali, sono diminuiti invece gli attacchi di impatto “medio” (-13%) e “basso” (-17%). I danni stimati per il 2021 sono di 6 mila miliardi di dollari (6 volte la stima del 2020). Per Andrea Zapparoli Manzoni, membro del Comitato direttivo del Clusit, “si tratta di una crescita drammatica, con un tasso di peggioramento annuale a 2 cifre, per un valore già pari a 4 volte il Pil italiano. Non è più possibile procrastinare l’adozione di contromisure efficaci e i necessari investimenti. Le risorse allocate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza dovranno a nostro parere essere gestite con una governance stringente in ottica cyber security di tutti i progetti di digitalizzazione previsti, valorizzando finalmente le competenze cyber delle risorse umane del Paese”. Ma qual è lo scopo dei cyber attacchi? Non c’è solo il crimine informatico classico, ma anche attività di spionaggio o di information warfare, o incursioni per manipolare l’opinione pubblica e spingere la propaganda. Il Rapporto Clusit inquadra anche i potenziali obiettivi: al primo posto c’è quello governativo/militare, con il 15% degli attacchi totali, poi il settore informatica (colpito nel 14% dei casi e stabile rispetto al 2020), gli obiettivi multipli (13%, in discesa dell’8%) e la sanità (che rappresenta il 13% del totale degli obiettivi colpiti, in crescita del 2%). L’8% del totale degli attacchi nel 2021 è stato invece rivolto al settore dell’istruzione. Le tecniche di attacco puntano sull’uso di malware (virus informatici) e in particolare di ransomware, in grado di bloccare ogni funzione del sistema che infettano (è una procedura che di solito serve a chiedere un riscatto). Ma non mancano anche le tradizionali campagne di phishing attraverso messaggi infetti nelle mail. Secondo il Clusit, nel 2021 il 45% degli attacchi ha colpito il continente americano (in calo del 2% rispetto al 2020). Sono invece cresciuti gli attacchi verso l’Europa, che superano un quinto del totale (21%, +5% rispetto all’anno precedente), e verso l’Asia (12%, +2% rispetto al 2020). Resta sostanzialmente invariata la situazione in Oceania (2%) e Africa (1%). Sono invece in diminuzione gli attacchi verso location multiple, che costituiscono il 19% del totale (-5% rispetto al 2020). In merito all’Italia, nel 2021 si sono registrati oltre 42 milioni di eventi di sicurezza, con un aumento del 16% rispetto al 2020. Lo rileva l’analisi del Security Operations Center di Fastweb integrata nel rapporto Clusit. Tra i trend più rilevanti del 2021, spiega il rapporto, si osserva la continua crescita dei malware e botnet, con un numero di server e device compromessi che fa segnare un netto più 58%. Germania. Pagati il 90% in meno rispetto ai lavoratori liberi. È polemica sui salari ai detenuti di Jeanne Perego La Stampa, 8 maggio 2022 A oltre vent’anni dalla sua ultima sentenza sulla retribuzione dei detenuti, la Corte costituzionale tedesca si ritrova a valutare se in Germania il lavoro in carcere è ancora adeguatamente retribuito. Il caso, presentato alla vicepresidente del tribunale Doris Kònig, ha preso il via dalla denuncia (disgiunta) di due detenuti in Baviera e in Renania settentrionale-Vestfalia che hanno sottoposto alla corte una questione vecchia e apparentemente ancora irrisolta. La paga per il lavoro in carcere in Germania è irragionevolmente bassa? Dal punto di vista del mercato la risposta alla domanda sarebbe facile, perché la paga oraria per i detenuti oscilla tra 1,30 e 2,30 euro a seconda delle prestazioni e del tipo di lavoro. Ciò equivale a poco meno di 11-18,40 euro al giorno, con solo pochi che raggiungono il livello più alto. Il divario è enorme rispetto al salario orario minimo tedesco che è di 10,45 euro (entro fine anno 12 euro, un detenuto dovrebbe lavorare un’intera giornata per arrivare a questa cifra). Alla prima udienza i due denuncianti non erano presenti. Uno dei due, che sta scontando l’ergastolo nella casa di reclusione di Straubing, Baviera, non ha avuto il permesso per recarsi a Karlsruhe dove ha sede la Consulta tedesca, la sua dichiarazione è stata quindi letta dal suo avvocato. L’uomo ha dichiarato di essere stato condannato a pagare circa 34.000 euro di spese processuali per il procedimento penale che lo ha portato alla condanna, e che con quello che guadagna con il lavoro in carcere non potrà mai saldare i suoi debiti. “Non è giusto - ha letto per lui in aula il suo legale - che chi sta scontando una pena non sia in grado di mantenere una famiglia, o di pagare eventuali risarcimenti alle vittime dei propri crimini, pur lavorando ogni giorno”. In Germania in 12 Land su 16 il lavoro in carcere è obbligatorio per i “definitivi”, solo in 4 è facoltativo. E gli stessi Land difendono l’attuale salario per i carcerati adducendo come motivazione la bassa produttività del loro lavoro. Secondo la Kònig la domanda da porsi è: “la remunerazione è un riconoscimento appropriato nel senso del requisito costituzionale della riabilitazione del detenuto?”. Il che porta alla riflessione sugli obbiettivi del lavoro carcerario. Fuga dalle guerre di Putin di Fariza Dudarova La Stampa, 8 maggio 2022 Salima ha dovuto lasciare Grozny nel 1995. “Avevo 20 anni, siamo partiti dopo la morte di mio padre”. Darina viene dall’insediamento ucraino di Vorzel, vicino a Bucha. “Quando i russi hanno bombardato abbiamo deciso di andarcene”. Cosa porterai con te se non tornerai mai più a casa?” Inizia con queste parole la canzone di Manizhi “City of the Sun”, e nel video scorrono le immagini del Tagikistan durante la guerra civile che ha travolto il Paese. Il leitmotiv del testo è la domanda su come ci si sente se si deve abbandonare la propria casa a causa di eventi che non ti aspettavi e che non dipendevano da te. “Novaya” ha parlato con due profughi: in momenti diversi hanno lasciato la loro patria a causa della guerra. Darina dall’Ucraina e Salima dalla Cecenia raccontano cosa hanno portato con sé dalle case in cui non torneranno più e cosa hanno lasciato lì. “Milioni di ucraini, come me, sentiranno di non avere più una casa”. Salima ha dovuto lasciare la sua città natale, Grozny, nell’aprile del 1995, al culmine della prima guerra cecena. All’inizio della guerra aveva 20 anni, aveva studiato all’Università statale cecena come ostetrica-ginecologa. Parla della sua casa con amore, ricorda nei minimi dettagli com’era: i cespugli di acacia e lillà nel cortile, il colore della panchina che stava sotto di loro, il suono con cui si apriva il cancello verde. “È così strano: vivo in un posto diverso da quasi 27 anni, ho dovuto cambiare più volte il mio luogo di residenza e non ho sentito nessuno di questi luoghi come casa. Non riesco a ricordarne nessuno in modo così dettagliato come la mia casa a Grozny”, dice. Salima è la maggiore di cinque figli, all’inizio della guerra era minorenne, e i suoi genitori non avevano intenzione di lasciare la loro repubblica né di andare da nessuna parte. Non hanno fatto progetti fino a che non è morto il padre. “Papà un giorno è andato dai nostri vicini per aiutarli a riparare il tetto, che era stato colpito da una granata. È caduto un altro proiettile, e ha colpito di nuovo quel tetto... ero con i miei parenti quel giorno, e quando me ne hanno parlato, non ci credevo. Pensavo fosse uno scherzo stupido. Ma come è possibile? Un uomo va a riparare un tetto che è stato colpito da un proiettile, ed esattamente in quel momento il proiettile lo colpisce di nuovo…”. Salima inizia a piangere, parlandone. La decisione di partire l’hanno presa lei e sua madre, l’unica possibilità era quella di raggiungere dei parenti che vivevano in Inguscezia. La famiglia di Salima ha iniziato a raccogliere le sue cose il settimo giorno dopo la morte del padre. “Era molto difficile... La casa che avevamo costruito con tanto amore; la casa dove i nostri nonni, sopravvissuti alla deportazione del 1944, si sentivano finalmente al sicuro; la casa in cui tutto ricordava papà, doveva essere lasciata in fretta. Non sapevo se sarei tornata o no. Ma ricordo molto bene a cosa stavo pensando: diavolo, a maggio sarebbe sbocciato il lillà, ma io non lo vedrò”, ricorda. Salima conserva ancora le cose che ha portato con sé da Grozny: lo specchietto di sua nonna, un vestito di spugna, l’abito da sposa di sua madre e il coniglio di peluche della sorella più piccola. “La mamma ha detto: “Salima, prendi la cosa più importante”. Lei, come i nostri antenati, faceva dei fagotti con le lenzuola, dove metteva farina, zucchero, cereali, vestiti. Ero stupida e avevo 20 anni, quindi ho pensato che avrei dovuto prendere dei cimeli, mentre mia madre si occupava delle cose importanti, da adulta responsabile. Ho preso il taccuino di mio padre, l’abito da sposa di mia madre, lo specchio di mia nonna... Era uno strano “set da rifugiato”. Ma ora mia madre mi ringrazia per questo. Vive in Germania, le ho dato tutte queste cose, sono l’unico collegamento con la nostra vita passata, buona e spensierata”, ride Salima. Pochi mesi dopo la loro partenza, la casa di Salima è stata bombardata e rasa al suolo, ha detto. Non hanno più fatto ritorno in patria: prima a causa delle continue ostilità, poi a causa del disaccordo con l’attuale dirigenza della repubblica. “Una volta ho chiesto ai miei conoscenti ceceni di camminare lungo la nostra strada e di scattare delle foto per me, ma è stata una cattiva idea”, dice Salima. “Non riconosco niente, non è lì che sono nata. Ci sono case pompose, non gentili e confortevoli come una volta. Mi sono abituata da poco all’idea che quella non sarà più la mia casa. E mi fa male sapere che gli ucraini sono esattamente nella stessa situazione. Quando guardo i condomini distrutti a Mariupol, i miei pensieri corrono immediatamente alla mia città, uguale. Tutti questi milioni di persone, a quanto pare, proveranno, come me, per tutta la vita, il sentimento di non avere mai più una casa”. Darina Yarosh, 25 anni, viene dall’insediamento urbano ucraino di Vorzel, che si trova proprio vicino Bucha. Nei primi giorni di guerra, le battaglie per l’aeroporto di Gostomel avevano colpito i piccoli centri adiacenti: Bucha, Vorzel, Irpin. La famiglia di Darina ha sentito esplodere proiettili e ha visto edifici in fiamme già dal primo giorno. “Tutto è iniziato subito - ricorda la ragazza -. Il primo giorno, mi sono svegliata all’alba a causa di una specie di forte scuotimento, anche le finestre della casa tremavano. All’inizio non capivo cosa fosse successo, mi sono alzata dal letto, ho iniziato a fare le solite cose, in genere mi alzo alle 4 del mattino. Un’ora e mezza dopo, mia madre è entrata nella mia stanza e mi ha detto di ritirare i documenti, per ogni evenienza, perché la guerra era iniziata”. Darina non ricorda esattamente cosa abbia provato in quel momento. Mentre lei cercava i documenti, Internet nel villaggio è stato spento, cosa che li ha fatti sentire tagliati fuori dal mondo intero: era impossibile ottenere informazioni su ciò che stava accadendo. Il primo giorno, è andata al grande supermercato più vicino a Bucha e in quel momento gli aerei militari hanno iniziato a sorvolare la casa, le esplosioni di Gostomel non si sono fermate, era chiaro che l’aeroporto stesse bruciando. Il secondo giorno, l’elettricità e l’acqua sono state spente. “Senza acqua sarebbe stato molto difficile, siamo stati fortunati che c’era un pozzo nel cortile, ci ha letteralmente salvati”, dice Darina. La ragazza non è più andata a Bucha, perché sono apparse informazioni sullo sbarco delle truppe russe nel villaggio di Kicheevo, che si trova a dieci minuti di auto dalla casa di Darina. I giorni successivi tutta la sua famiglia li ha trascorsi in una cantina non riscaldata e, al settimo giorno di guerra, i carri armati russi si stavano già muovendo lungo la loro strada. Quando è diventato più calmo, ha deciso di andare a piedi a un villaggio vicino, dove un parente avrebbe dovuto darle un carica batterie per il suo telefono. Lungo la strada, Darina si è imbattuta in soldati russi. “All’inizio ho visto un uomo con le mani alzate, non ho capito subito che cosa stesse succedendo, ma poi ho notato un altro soldato poco distante da lui. Pensavo fossero nostri, perché avevano la nostra uniforme, ho anche alzato le mani, ci hanno tenuti sotto tiro per circa 10 minuti, i soldati si sono avvicinati, ci hanno perquisito, erano giovanissimi. Poi ci hanno portati dal loro caposquadra, che era seduto nella cantina di una delle case. Nello stesso posto, a quanto pare, erano seduti tutti gli abitanti del villaggio di Uchkhoz. Ero vicina a una donna, che mi aveva detto che erano soldati russi. E’ stato allora che mi è preso il panico: ho iniziato a piangere, pensavo a come dire a mia madre che mi sembrava di essere in “cattività russa”. Il caposquadra mi ha ordinato di non piangere, perché stavo dando loro sui nervi, mi ha messo su una sedia accanto a lui. Per calmarmi, i soldati mi hanno portato una bottiglia da due litri di Sprite e mi hanno detto di bere dieci sorsi. Ho pensato: “E se non bevo dieci sorsi, mi ucciderete?” Erano completamente armati, tutti molto sporchi e molto giovani. I soldati hanno discusso tra loro di cosa avrebbero fatto quando sarebbero arrivate le truppe ucraine. Hanno discusso se si sarebbero arresi immediatamente o se avrebbero negoziato. Erano tutti molto spaventati, perché era un distaccamento di ragazzi molto giovani. Dopo dieci minuti mi è stato detto di alzarmi e andarmene con l’uomo con cui ero venuta. Ci hanno lasciato andare, l’uomo ha chiesto al soldato di portarci alla sua macchina in modo che gli altri soldati non pensassero che stessimo scappando. Siamo stati guidati da un giovane soldato di Tula, che ha detto che non voleva affatto combattere e che non sapeva dove lo stavano portando. Ci ha chiesto di non essere arrabbiati con lui. Mi sembrava di essere in un film con una strana sceneggiatura e attori che non sanno recitare”. Dopo che il 7 marzo una granata ha colpito il tetto della casa, la famiglia di Darina ha deciso che non era più possibile rimanere a Vorzel. La vicina ha accettato di portarli fuori dal villaggio, ma ha detto che c’erano solo tre posti in macchina: per Darina, sua madre e il fratello minore, il suo patrigno sarebbe dovuto rimanere a casa. “Ho avuto una specie di crisi isterica, non volevo fare niente, ho solo urlato che non volevo andare da nessuna parte e avrei preferito morire qui, a casa mia”, mentre racconta Darina inizia a piangere. “Mi stavo dirigendo verso il buio più completo, e ho pensato di prendere qualcosa dalla casa in cui non posso più tornare. Ho preso due dei miei maglioni di cashmere preferiti che proprio non potevo lasciare, una giacca, due magliette, jeans, scarpe da ginnastica e un telefono”. Ecco tutto ciò che Darina ha portato dalla sua vita tranquilla, prebellica. Il giorno della partenza, un altro vicino si è detto pronto a portarli fuori con il suo minibus, dove potevano stare tutti. Il pericolo principale, secondo la ragazza, era che veicoli più o meno grandi venissero colpiti indiscriminatamente. Altre due auto avevano lasciato Vorzel con loro, ma una era rimasta bloccata in un campo dove in quel momento si trovava un carro armato russo. “Abbiamo provato a tirare fuori la macchina e i russi ci hanno salutato, “va tutto bene - ci hanno detto - non spareremo”. Era impossibile tirare fuori la macchina, perché non c’era un rimorchio, l’autista ha chiesto un rimorchio ai russi e loro ce lo hanno dato, ma non è servito. Allora i russi hanno detto: “Tiriamola su con il carro armato”. Hanno agganciato un rimorchio al carro armato e hanno tirato fuori l’auto”, ha detto la ragazza. Attraverso quattro posti di blocco russi, dove venivano perquisiti ogni volta, sono riusciti ad arrivare a Kiev. Il giorno successivo, Darina ha saputo dai suoi vicini che la sua casa era stata completamente distrutta da diversi proiettili: “Se restavamo ancora un po’ saremmo morti... Riuscite a immaginarlo? Io no”. A Kiev, sua madre e suo fratello hanno potuto prendere un treno per la Lituania, ma la ragazza ha rifiutato di lasciare il Paese senza il suo patrigno ed è rimasta con lui. Dopo che i soldati russi hanno iniziato a cedere posizioni nella regione di Kiev, Darina ha iniziato a raccogliere aiuti umanitari per portarli nella sua terra natale, come dice lei. Più volte, lei e il suo patrigno, sono riusciti a portare cibo agli anziani, che hanno trascorso un mese nei territori occupati senza acqua, luce e gas. Alla domanda su come vede il futuro, la ragazza non può rispondere: “Ho un esaurimento nervoso e ho bisogno di camminare costantemente, non riesco a muovermi abbastanza, perché il panico e l’ansia si sono impossessati di me. Da Vorzel andavo sempre a piedi a Bucha, e a passeggio nelle mie amate foreste, ma non posso più farlo... Ora sono solo mentalmente depressa, piango costantemente quando con il pensiero ritorno a casa mia. Cerco di non pensare al futuro. Cerco di non pensare, perché anche quando tutto sarà finito, semplicemente non avremo nessun posto dove tornare, nessun posto dove vivere. Cosa fare? Mi sento come se fossi in bilico su un abisso”. Lituania. Detenzione in condizioni disumane per oltre 2.500 persone richiedenti asilo La Repubblica, 8 maggio 2022 Testimonianze di abusi, violenze e pesanti stress psicologici. Il report di Medici Senza Frontiere. Persone provenienti da Iraq, Congo, Siria, Camerun e Afghanistan che provato ad arrivare in Polonia e Lettonia. Temono di essere perseguitati o uccisi tornando nei loro Paesi. Più di 2.500 richiedenti asilo e migranti sono trattenuti in condizioni disumane in Lituania, nove mesi dopo aver attraversato il confine dalla Bielorussia. Medici Senza Frontiere (MSF) denuncia le conseguenze della detenzione prolungata sulla salute fisica e psicologica delle persone e chiede alle autorità lituane di fermare immediatamente questa prigionia arbitraria. “Le équipe di MSF sono testimoni delle gravi conseguenze di questo stato di costrizione fisica delle persone - dice Georgina Brown, responsabile delle operazioni di MSF in Lituania - che non hanno accesso ad una giusta procedura d’asilo e non hanno alcun supporto specialistico per i disturbi mentali provocati da torture o a violenze sessuali. Questa condizione di prigionia - ha concluso Georgina Brown - deve cessare immediatamente e tutte le richieste di asilo devono essere esaminate in modo giusto e il più rapidamente possibile”. Profughi da Iraq, Congo, Siria, Camerun e Afghanistan. Medici Senza Frontiere fornisce cure mediche e assistenza psicologica in due centri di detenzione in Lituania dove le persone vengono trattenute per diversi mesi senza sapere quando saranno rilasciate. La maggior parte di loro sono trattenute nel 2021, dopo il forte aumento del numero di persone provenienti da Iraq, Congo, Siria, Camerun e Afghanistan che hanno provato ad arrivare in Polonia, Lituania e Lettonia dalla Bielorussia. Molti di loro hanno detto allo staff di MSF che temono di essere perseguitati o uccisi se dovessero tornare nel loro paese. Gli effetti del contenimento dei flussi dell’EU. Le politiche migratorie dell’UE, volte a limitare la migrazione e ad ampliare la detenzione, hanno un impatto negativo sulla salute mentale e sulla salute delle persone. Tra gennaio e marzo 2022, gli psicologi di MSF hanno assistito 98 pazienti, di cui il 60% con disturbi legati all’ansia correlata alle condizioni di detenzione. Anche l’incertezza e l’accesso limitato all’assistenza legale sono fattori determinanti. “Voglio sapere qual è il nostro futuro, qui siamo intrappolati” ha detto a MSF un uomo detenuto a Kybartai. Molto esposta la comunità LGBTQI+ - sono particolarmente esposti alla discriminazione e le condizioni di detenzione hanno gravemente influenzato la loro salute mentale. “Ho tentato più volte di uccidermi senza successo” ha detto a MSF una persona trattenuta in un centro di detenzione che si identifica come membro della comunità LGBTQI+. Le condizioni di detenzione sono inadeguate per rispondere ai bisogni di salute e protezione delle persone che cercano sicurezza. Molti riferiscono anche di trattamenti degradanti e violenze da parte degli addetti alla sicurezza che gestiscono le due strutture di detenzione in cui opera MSF. Scontri tra polizia e pazienti psichiatrici. A marzo, un infermiere di MSF ha assistito ad un violento scontro tra alcuni membri della polizia di frontiera e un paziente psichiatrico, buttato a terra, ammanettato e poi messo in isolamento. “Ho chiesto di entrare nella cella, ma mi è stato negato l’ingresso” ha detto l’infermiere di MSF. “Dentro c’era un oggetto appuntito: il paziente si è ferito subito dopo essere stato rinchiuso”. Di recente, il team per la salute mentale di MSF ha fornito supporto psicologico a tre persone aggredite sessualmente durante la detenzione, episodio riportato anche dai media locali. MSF ha chiesto il trasferimento per queste persone in un centro più appropriato, ottenuto solo dopo un processo piuttosto faticoso e durato più di due settimane. Non ci sono alternative alla detenzione. Attualmente non ci sono alternative alla detenzione per le persone particolarmente vulnerabili. Da gennaio 2022, MSF ha identificato e supportato circa 50 persone sopravvissuti a tortura o violenza sessuale e di genere nei loro paesi di origine. MSF ha identificato e riferito all’UNHCR diversi pazienti, inclusi alcuni psichiatrici che non ricevono un’assistenza appropriata. “È necessario garantire una efficace protezione a tutte le persone in fuga verso la Lituania - si legge nel decumento diffuso da Medici Senza Frontiere - offrendo delle alternative alla detenzione. Se la detenzione continuerà, aumenteranno di conseguenza anche gli abusi, le violenze e la sofferenza psicologica delle persone detenute”. Il lavoro di MSF in Lituania. A settembre 2021, le équiper di MSF ha inizialmente fornito supporto psicologico, promozione della salute e distribuito generi di prima necessità in nove aree di accoglienza in Lituania. Da gennaio 2022 garantisce assistenza sanitaria di base e supporto psicologico in due centri di detenzione nel paese. A Medininkai, dove sono stati installati rifugi temporanei nella State Border Guard School per uomini e donne e per adulti con famiglie, e a Kybartai, in una ex prigione, attualmente usata solo per gli uomini. Tra gennaio e marzo 2022, i team i MSF hanno effettuato 2.636 consultazioni, per la maggior parte dei casi interventi di primo soccorso psicologico o assistenza a pazienti affetti da disturbi psicosomatici legati alla detenzione e alla mancanza di accesso ai beni di prima necessità, inclusi farmaci per malattie croniche. I team hanno svolto 214 sessioni si salute mentale a 98 persone per disturbi legati alle difficili condizioni della detenzione, alla libertà limitata e all’incertezza sul proprio futuro e sulla procedura di richiesta d’asilo, oltre alla paura di essere rimpatriati. Afghanistan. I talebani impongono il burqa ma il mondo guarda altrove di Viviana Mazza Corriere della Sera, 8 maggio 2022 Con un nuovo decreto i talebani hanno spazio per punire come vogliono. Ed è un modo sfacciato per controllare le donne. Un nuovo decreto dei talebani suggerisce alle donne di indossare il burqa. È presentato come un consiglio, con conseguenze per gli uomini della famiglia: alla prima trasgressione saranno ammoniti, alla seconda convocati al Ministero per la Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù, alla terza finiranno in carcere per tre giorni, poi in tribunale e se hanno un impiego statale lo perderanno. Non serviva questo decreto per dimostrare che i talebani non sono cambiati: da agosto, tornati al potere in Afghanistan, ne hanno offerto molti esempi. Ma se non esitano a imporre il burqa, simbolo dei diritti negati alle donne afghane, forse è anche perché sanno che l’attenzione del mondo è lontana. Lo fu pure nei primi cinque anni di regime dei talebani dal 1996 al 2001. Solo dopo l’11 settembre il mondo si indignò per la loro misoginia. “Sembra che i diritti delle donne siano una questione stagionale e questa non è la stagione giusta”, dice Nadia Hashimi, scrittrice afghana-americana, che ha appena parlato al telefono con una cugina a Kabul. La cugina è in viaggio con suo fratello, indossa un’ampia sciarpa sul capo e un “chapan”, un mantello che nasconde le forme del corpo. Per ora non sente l’obbligo di coprirsi il viso (molte afghane lo fanno già, ma nelle città tante altre, come lei, si coprono solo il capo) ed è più terrorizzata dai bombardamenti, dalla povertà, dai divieti di frequentare la scuola per le ragazze dai 12 anni in su. Dopo il bombardamento recente di una scuola, sua figlia le ha detto che comunque non ci vuole più andare. “Il punto è ancora una volta l’incertezza. Con questo decreto i talebani hanno spazio per punire come vogliono. Ed è un modo sfacciato per controllare le donne. La scorsa settimana ho sentito dire che negheranno loro anche la patente”. D’altronde, il decreto aggiunge che se le donne non hanno importanti ragioni per uscire, è meglio che restino in casa.