“Ergastolo ostativo: o è incostituzionale per tutti o non lo è per nessuno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2022 Scaduto il tempo che la Consulta ha dato al Parlamento per legiferare. Il costituzionalista Davide Galliani: “Due i possibili scenari per la Corte costituzionale: uno lineare e l’altro contorto”. Il 15 aprile dell’anno scorso, la Consulta ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale della preclusione assoluta della liberazione condizionale agli ergastolani che non collaborano con la giustizia, ma ha rinviato la decisione. Nel caso le Camere non legiferassero sulla questione, la Consulta è stata chiara: procederà all’abrogazione, fissando la camera di consiglio il 10 maggio di quest’anno: martedì prossimo. Ne parliamo con il costituzionalista Davide Galliani, professore di diritto pubblico presso la Statale di Milano. Professore, pensa che il tempo sia scaduto nonostante il testo della riforma sia passato alla Camera? Il tempo dell’ergastolo ostativo era già scaduto nel momento in cui la Corte con la sentenza 253/ 2019 ha dichiarato incostituzionale la presunzione assoluta riguardante il permesso premio. Si chiama progressività trattamentale. Un permesso premio non si accorda tanto per far respirare aria diversa dal carcere per qualche ora, ma come primo momento di un percorso appunto in progressione. Ora, la Consulta con la ordinanza 97/2021 ha accertato ma non dichiarato la incostituzionalità in riferimento alla liberazione condizionale. Ha ritenuto di dare al Parlamento la possibilità di intervenire per una rimeditazione complessiva della materia. L’anno di tempo è passato e ora il giudizio della Corte riprenderà senza la possibilità di confrontarsi con la riforma legislativa. Vedo due scenari. Il primo, lineare. Il secondo, contorto. La Corte aggiunge all’accertamento della incostituzionalità anche la dichiarazione, adotta quindi una sentenza di accoglimento, anche in questo caso si presume manipolativa, perché aggiungerà il pericolo di ripristino. E può decidere di riferirsi anche alla semilibertà e al lavoro all’esterno, altrimenti adotterà il solito monito al legislatore, solitamente inascoltato. Ma la Consulta potrebbe anche contorcersi e dire: a differenza del caso Cappato e del carcere ai giornalisti, nel caso dell’ergastolo ostativo il Parlamento ha approvato in uno dei due rami un progetto di legge. Diamogli ancora qualche mese, poverino! Aggiungo una considerazione: dopo la 253 alcuni permessi premio sono stati accordati ad ergastolani ostativi, io ne ho letti 20. Ho anche letto che di questi 20 solo 2 non hanno trascorso in carcere 20 anni (uno 17 e uno 19). Tutti gli altri 18 hanno maturato i 20 anni necessari per la semilibertà e sempre di questi 18 in 11 anche i 26 anni per la liberazione condizionale. Se la Corte decidesse di dare ancora del tempo al Parlamento dovrebbe almeno avere ben chiare le conseguenze concretissime della sua scelta. Come disse il materialista Marx all’idealista Hegel: i grandi fatti e i grandi personaggi della storia si presentano certo due volte, ma la prima volta come tragedie, la seconda come farse. Ma il testo approvato alla Camera rispecchia l’orientamento della Consulta? Il Parlamento è stato chiamato a intervenire perché può fare cose che la Corte non può fare, una riforma che prenda in considerazione diversi aspetti della questione. Ad esempio, un ritorno alle origini dei reati ostativi, quindi quattro e non sedici, eliminando reati che mai nessuno ha commesso in associazione. Ancora un esempio, una seria riforma della disciplina riguardante i collaboratori di giustizia, spesso spremuti e abbandonati. Il Parlamento non riesce proprio a capire che una persona decide di collaborare anche perché si fida dello Stato. Ma se lo Stato fa finta che tutto vada bene, non gli rimane altro che la clava della detenzione: non collabori, bene, fai più anni di carcere (e di libertà vigilata). Questo è il risultato che si legge nel testo approvato dalla Camera, che così era meglio non approvare, dice troppo (sugli aumenti di pena e di libertà vigilata) e troppo poco (sulla efficacia retroattiva delle modifiche). Il Parlamento a parole dice che la mafia è il suo principale problema (non che lo dica sempre) poi quando si tratta di agire concretamente un anno non basta. E il primo passo fatto alla Camera non è degno di un serio legislatore. Nel 2019 la Consulta ha detto sì alla possibilità del permesso premio per chi non collabora con la giustizia. All’epoca taluni magistrati, come il consigliere del Csm Nino Di Matteo, hanno visto nella decisione il rischio di gravi conseguenze, a partire dalla “pressione” che le organizzazioni mafiose potrebbero esercitare sui magistrati di sorveglianza. Sono passati tre anni. Ad oggi le risulta se quell’allarme è giustificato? Se per evitare le “pressioni” si deve togliere il mestiere al magistrato (mantenendo le presunzioni legislative assolute, che sono sentenze in forma di legge, e obbligare alla collegialità), la cura è peggiore del male. Vero che la semilibertà e la liberazione condizionale sono collegiali, ma “cedere” sul permesso premio non mi sembra un modo per evitare “pressioni”, più che altro dimostra la insoddisfazione di fondo per la magistratura di sorveglianza, che si pensa essere di serie B. Non nego che la collegialità abbia importanti risvolti, ma mi indigno se è proposta per evitare “pressioni”, e questo perché significa delegittimare nel suo complesso la sorveglianza, che non va idolatrata, ma nemmeno vilipesa. Cosa pensa di chi afferma che un “ammorbidimento” dell’ergastolo ostativo rischia di vanificare lo strumento dei pentiti e di indebolire la lotta alla mafia? Questo argomento presuppone esattamente quello che la Corte costituzionale ha già accertato e dichiarato incostituzionale: se collabori con la giustizia puoi essere valutato, se non lo fai le porte della cella non si apriranno mai, nemmeno per un giorno, e uscirai dal carcere solo da morto. Quella che lei chiama lotta alla mafia la possiamo condurre solo con il diritto. Il che non significa che il diritto basti, sia chiaro. In riferimento ai collaboratori di giustizia abbiamo fatto passi in avanti, una volta era tutto più “artigianale”, oggi esiste una disciplina, ma va migliorata. Non di meno, la collaborazione con la giustizia è una questione che deve riguardare più il momento precedente la condanna che quello successivo. E anche quando ci concentriamo sul dopo condanna, quello che dobbiamo fare è considerarla né più né meno di una “libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale”, secondo le parole della Consulta. Il numero di collaboratori è uguale al numero di ergastolani ostativi: troppo spesso “usiamo” i primi e i secondi come “strumenti”, e da qui nascono quasi tutti i nostri problemi. Innanzi alla commissione Giustizia l’ex capo della procura generale di Palermo Roberto Scarpinato ha detto che, se il legislatore non farà in tempo a modificare il 4 bis, pure i mafiosi stragisti che non hanno mai collaborato con la giustizia potranno chiedere di accedere alla liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di carcere... Quando Falcone fu costretto a lasciare Palermo per Roma ebbe una proposta di collaborare con La Stampa di Torino. Consideri che l’incarico ministeriale comportava la messa in aspettativa dalla magistratura. Era titubante e decise di andare a casa di Bobbio per chiedere la sua opinione circa l’opportunità di collaborare con un quotidiano. Uscì da casa del filosofo e il pomeriggio stesso firmò il contratto con il quotidiano. Qualsiasi magistrato dovrebbe usare sempre la massima cautela quando prende posizione nel più generale dibattito pubblico, ed anche quando viene ascoltato in Parlamento. Nel merito può sostenere quello che vuole, ma nel metodo deve essere sempre cauto, è una necessità istituzionale. Detto questo, nella tesi che anche i “mafiosi stragisti” non collaboranti potranno chiedere di accedere alla liberazione condizionale vedo due criticità. Da un lato, sembra presupporre “giusto” accordare continui permessi in deroga e la liberazione condizionale dopo 10 anni al “mafioso stragista” che collabora con la giustizia. Mi confronto spesso con molti famigliari di vittime di mafia, i quali contestano in radice questo “giusto” presupposto. Ogni famigliare di una vittima della mafia è diverso, non esiste la categoria dentro la quale metterci tutti, non di meno in molti mi dicono che non è una pena “giusta” quella che manca del tutto di proporzionalità rispetto al reato. Mi convincono talmente tanto che cerco di dimostrargli che proprio questo è il motivo per essere contrari alla pena perpetua in sé. Dall’altro lato, non mi è chiaro il trattamento che dovremmo riservare a un “mafioso stragista” che non collabora: se non vanno bene i 26 anni, perché dovrebbero andare bene 30 o 35 o 40 anni? Lo si dica in modo chiaro: se un ergastolano ostativo non collabora non deve mai più uscire dal carcere, non merita mai di avere un giudice che ne valuti la pericolosità e la rieducazione. In questo caso, basta rileggere le due decisioni della Corte del 2019 e del 2021. Per carità, a Palazzo della Consulta non ha sede la Dea Ragione, a volte sembra proprio che la Corte faccia di tutto per essere criticata. Ma sull’ergastolo ostativo non vedo una terza via: o è incostituzionale per tutti o non lo è per nessuno. La Consulta si esprima sull’ergastolo ostativo senza aspettare più i tempi della politica di Valentina Stella Il Dubbio, 7 maggio 2022 Gli ergastolani ostativi non possono più aspettare: la Consulta pertanto non rinvii la decisione sulla questione di legittimità costituzionale relativa alla norma sul fine pena mai, prevista per il prossimo 10 maggio. È questa, in sintesi, la richiesta inviata ieri ai giudici di Piazza del Quirinale dall’avvocato Giovanna Araniti, difensore di S. P., detenuto non collaborante, sulla cui richiesta di accesso alla libertà condizionale è stato appunto sollevato dalla Cassazione il dubbio dinanzi alla Consulta. Araniti formalmente chiede che i giudici rigettino la richiesta dell’Avvocatura dello Stato che due giorni fa, su impulso della Commissione giustizia del Senato, aveva invitato la Corte a procrastinare la decisione in attesa che il Parlamento approvi la nuova legge. “Bisogna consentire - ci spiega l’avvocato - che tutte quelle istanze che sono rimaste congelate, in attesa di avere una normativa o una pronuncia di incostituzionalità, vengano finalmente vagliate dalla magistratura di sorveglianza, anche perché gli ergastolani ostativi che hanno già maturato un termine di carcerazione più che trentennale sono tanti. Si tratta di persone anziane, con problemi di salute, che hanno diritto quanto prima a ricevere una valutazione delle loro richieste dopo un periodo così lungo di detenzione”. L’avvocato nell’istanza stigmatizza la lentezza della politica a cui è stato concesso un anno dalla Consulta per elaborare una nuova legge: “Il Parlamento in seguito all’ordinanza di codesta Corte n. 97/ 2021 del 15 aprile 2021, si è attivato in ritardo per dare attuazione al contenuto della stessa. L’esame in Commissione Referente è iniziato il 4 agosto 2021 e si è concluso il 24 febbraio 2022. La discussione alla Camera dei Deputati è iniziata il 28 febbraio 2022 e si è conclusa il 31 marzo 2022, con trasmissione del testo al Senato solo in data 1 aprile 2022”. Ora, come sapete, il testo approvato a Montecitorio è in discussione nella commissione Giustizia del Senato dove, scrive Araniti nella richiesta di rigetto, “si sta procedendo a rilento ed è stato presentato un nuovo disegno di legge con varie modifiche al testo varato dalla Camera”. Lo scenario ipotizzato dall’avvocato, che non si discosta molto dalla possibile realtà, è quello per cui “l’approvazione eventuale di modifiche ed emendamenti, ovviamente, comporterebbe un esame ulteriore dell’eventuale testo approvato da parte della Camera, per cui non è assolutamente preventivabile una pacifica approvazione della legge in tempi brevi, con o senza modifiche, ove si giunga ad un accordo sui punti di contrasto”. Quindi, segnala l’avvocato, “l’eventuale pronuncia d’incostituzionalità non impedirebbe al Parlamento, anche in futuro, con le tempistiche ritenute più opportune, di varare una nuova normativa che tenga conto dei principi sanciti da codesta Corte, non apparendo corretto dilatare, ancora, a dismisura la situazione di “limbo” in cui versano il P. ed altri condannati, in attesa della pronuncia di codesta Corte, dopo un più che congruo periodo di sospensione del giudizio”. Nuovo ergastolo ostativo subito, o i boss potranno uscire di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2022 Martedì la Corte analizzerà il ricorso del 2020 presentato da un mafioso. Ma il Senato ancora non ha votato la proposta di riforma. La Corte costituzionale affronterà di nuovo l’esclusione dalla libertà condizionata per i detenuti di mafia che hanno l’ostativo. Coloro, cioè, che non hanno collaborato con la giustizia. L’udienza ci sarà martedì ed è stata fissata per un ricorso del 2020, ancora una volta della Cassazione, in questo caso della prima sezione penale. Si tratta della questione già affrontata dalla Consulta un anno fa, quando ha stabilito che anche su questo punto è incostituzionale il 4 bis dell’ordinamento penitenziario, voluto da Giovanni Falcone, che regola i benefici per i detenuti mafiosi e terroristi. La Corte, però, ha rinviato al Parlamento le modifiche della norma, dando un anno di tempo. È il motivo per cui il 31 marzo scorso la Camera ha messo mano al 4 bis e con un testo del presidente della Commissione Giustizia Mario Perantoni, M5S, largamente ripreso dal testo dell’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, anche lui M5S, ha licenziato la riforma, ora all’esame della commissione Giustizia del Senato. Tra i parlamentari pentastellati c’è grande preoccupazione, temono che la Corte entri nel merito del ricorso della Cassazione, senza attendere, quindi, l’approvazione definitiva della legge in Parlamento. Temono che si possano aprire le porte del carcere per i boss tanto che, ieri, ha parlato Giuseppe Conte e ha chiesto al Senato di accelerare l’approvazione della riforma: “Il M5s chiede che ci sia una corsia preferenziale al Senato”, ricorda l’udienza del 10 maggio in Corte e aggiunge: “Non possiamo rischiare che boss mafiosi e condannati per gravissimi reati usufruiscano dei benefici penitenziari e possano uscire dal carcere, in assenza di una disciplina di legge uniforme. Approviamo questa legge al Senato e dimostriamo con i fatti di dare risposte concrete al Paese”. Se la Corte martedì entrasse nel merito del ricorso sarebbe, a dir poco, una “violazione” del galateo istituzionale che ha sempre seguito dato che il Parlamento ha già dato, con il voto a Montecitorio, il segnale di voler ottemperare a quanto ordinato dalla Consulta. Secondo quanto risulta al Fatto, la Corte propenderebbe, però, per un rinvio dell’udienza che, d’altronde, abbiamo appreso, è stato chiesto dall’Avvocatura dello Stato, la quale rappresenta il governo, che ha come ministra della Giustizia l’ex presidente della Consulta, Marta Cartabia. La richiesta alla Corte di aggiornarsi viene motivata dall’Avvocatura dello Stato proprio mettendo in rilievo che la riforma dell’ostativo è già in commissione Giustizia del Senato. Invece, la parte ricorrente ha chiesto alla Corte, naturalmente, di deliberare. Ma l’orientamento sembra essere quello di un rinvio non lungo, per rispettare il Parlamento ma anche per dare un segnale al Senato: non può avere tempi biblici. La prima sezione penale della Cassazione ha sollevato eccezione di incostituzionalità rifacendosi alle pronunce della stessa Consulta e della Cedu. Nel 2019, c’è stata la prima decisione della Corte costituzionale, a ottobre, in merito ai permessi premio. In quel caso ha deliberato che possono essere concessi, in determinati casi, anche a chi non ha collaborato con la giustizia. Per la Corte non può esserci una presunzione di pericolosità “assoluta” in caso di mancata collaborazione e l’ha trasformata in “relativa”. Il 15 aprile 2021 la stessa Corte ha fatto un altro passo, ancora più rilevante, forse insperato per i mafiosi che adesso intravedono le porte del carcere che si aprono. Ha dichiarato incostituzionale pure l’ostativo alla libertà condizionale se non si è collaboratori di giustizia, accogliendo così - ancora una volta - la tesi della Cassazione. Con una differenza, però, rispetto al 2019: ha scelto una “terza via”. Come accennato, ha anche deciso l’intervento del Parlamento, tenendo conto di quanto indicato dai giudici: “Sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Nel testo licenziato a Montecitorio si stabilisce che il boss detenuto può chiedere i benefici, ma deve portare le prove che non ha più collegamenti con l’organizzazione criminale d’appartenenza e che non c’è il pericolo che li ripristini. Inoltre, deve aver risarcito le vittime o dimostrare che era impossibile per lui farlo. Obbligatori gli accertamenti patrimoniali anche per il nucleo familiare. Il Tribunale di Sorveglianza deve chiedere il parere ai pm antimafia di competenza. Portare il Dap sotto la presidenza del Consiglio? Perché no... di Gennaro Migliore Il Dubbio, 7 maggio 2022 Sono stato sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia dal 29 gennaio 2016 all’1 giugno 2018, nei governi Renzi e Gentiloni; una esperienza bellissima, che mi ha consentito di conoscere dal di dentro la complessa organizzazione penitenziaria che per i cittadini comuni è spesso rappresentata, e riassunta, dalle carceri presenti nelle loro città. Ho visitato innumerevoli istituti penitenziari, ho favorito il completamento di nuovi istituti che altrimenti sarebbero stati già vecchi, ove fosse trascorso altro tempo dall’inizio dei lavori, ho conosciuto i direttori penitenziari, i comandanti, i funzionari giuridico- pedagogici, il personale amministrativo, il personale del Corpo della Polizia Penitenziaria e, per quanto politico non da oggi, ho scoperto un mondo ben più ampio, ricco di competenze, articolato, rispetto all’idea che pur da parlamentare avevo, per quanto mi interessassi costantemente di tali temi. Ho conosciuto anche Sbriglia, dirigente generale, che mi è stato sempre vicino per tante importanti iniziative, con la sua schiettezza e sincerità, frutto di una lunga esperienza di lavoro sul campo vero, che ti tiene sequestrato ai problemi del carcere che devi risolvere e non, invece, di quello immaginato, saggistico o dei manuali del nulla. Con lui ho affrontato e risolto molte problematicità, frutto spesso di indifferenze pregresse a tutti i livelli, per cui la sua boutade, in verità, non mi ha sorpreso, perché spesso mi segnalava le cronicità e i nonsense di un sistema organizzativo che in molte occasioni non riusciva a imporre una visione coerente con i principi decantati dalla nostra carta costituzionale, anche perché spesso c’erano veri e propri deficit di esperienza sul campo di parte dei dirigenti. Eppure, lo stato di malessere e di abbandono che si respirava e, purtroppo, ancora si respira, nelle nostre prigioni, sia per la condizione dei ristrettì che per il personale in servizio, prova ne sia la costante turbolenza ed il grande livello di conflittualità che si registra con la generalità delle OO.SS. di tutto il personale, fornisce un quadro ancora preoccupante. La pratica della rinuncia a comunicare l’effettivo stato delle carceri ha probabilmente coinvolto molti operatori penitenziari, e potrebbe perfino aver favorito, inconsapevolmente, da parte dei vertici massimi, come nella disastrosa gestione Basentini, le conseguenze nefaste che abbiamo registrato in quel drammatico 2020 delle carceri italiane, anno del Covid- 19, dove piuttosto che sforzarsi di dare sfiato ad una pentola in ebollizione che si surriscaldava sempre di più, si è preferito puntare su una logica di eccesso di chiusura degli istituti penitenziari, impedendo colloqui, l’accesso dei volontari, la riduzione delle attività socializzanti tutte, così spingendo verso il rischio di una esplosione rabbiosa, con la sequela di rivolte, distruzioni, evasioni di massa, morti all’interno di quelle mura ermeticamente chiuse, dando vita a molteplici violenze che non si vedevano da almeno sessant’anni. Qualcuno potrebbe al riguardo affermare che stili di governo diversi, inevitabilmente avrebbero prodotto risultati diversi. Francamente penso che sia vero. Voglio, al riguardo, ricordare che, invece, è proprio nel periodo che mi ha visto sottosegretario alla Giustizia che viene alla luce la normativa contro la pratica della tortura; probabilmente avevamo visto giusto, ma, atteso quanto è poi accaduto in diversi istituti italiani, primo tra tutti quello di Santa Maria Capua Vetere, lo Stato, col cambio dei vertici politici e di alta amministrazione, non è stato capace di favorire la produzione di anticorpi per tempo. Eppure, esempi di buoni capi di dipartimento, da sempre provenienti dalla magistratura, in passato anche recente l’abbiamo avuti. Ho lavorato fianco a fianco, per esempio, con Santi Consolo, che ha cercato di comprendere quel mondo così flessibile e certamente potrebbero essere citati altri brillanti esempi. Eppure Sbriglia ci riporta a un ragionamento più ampio, che non può essere ridotto alla dialettica “magistrati sì, magistrati no”. Ci suggerisce una valutazione basata sulla completezza delle competenze che potrebbero tranquillamente essere in capo anche ad alti funzionari che non siano necessariamente magistrati. Le carceri, a ben vedere, sono delle città nelle città, con tutte le problematiche di quegli habitat: dalla cura del decoro urbano, ai servizi da rendere a tutti i cittadini, detenuti e operatori, che lì vivono per lunghi periodi della loro esistenza. Il carcere è fatto di architettura, di sanità, di scuola e formazione professionale, di lavoro, di indagini continue sulla personalità delle persone detenute, di sicurezza dei lavoratori, di appalti i più diversi, di contratti collettivi nazionali di lavoro da onorare e di relazioni sindacali da curare con attenzione, di attività di sorveglianza, di ricostruzione delle relazioni sociali e familiari, di internazionalità e di problemi legati all’immigrazione, alla tossicodipendenza, al disagio psichiatrico, alle tematiche delle diversità di genere, etc. etc.; insomma, il carcere non è strumentale esclusivamente ai processi penali e alle attività d’indagine giudiziaria. Quindi ben venga un momento di necessario confronto per una possibile riforma strutturale e organizzativa che coinvolga in pieno ogni responsabilità di governo, se è vero come è vero che le carceri, almeno sulla carta, sono i luoghi dove esclusiva e massima è l’autorità dello Stato e, quindi, del relativo onere di amministrazione, che richiede capacità gestionali, management amministrativo di prima grandezza, saper fare le cose. Magistrato o no, chi dovrà dirigere l’Amministrazione Penitenziaria dovrà soddisfare tutti questi requisiti e non solo quelli di essere un brillante interprete delle norme penali. Tirate fuori i bambini dalle prigioni! di Luigi Manconi Il Riformista, 7 maggio 2022 Gentile Ministra, le scrivo questa lettera con profondo rammarico. Sin dal primo giorno del suo insediamento come Guardasigilli, ho sostenuto - spesso con entusiasmo, in privato e in pubblico - la sua persona, la sua cultura garantista, la sua idea di giustizia. E ho sempre commentato con favore tutte, ma proprio tutte, le iniziative da lei intraprese, i suoi interventi pubblici e i progetti di riforma, anche quando in parte potevo dissentirne. Questo per ribadire che chi le scrive è un suo convinto estimatore. Ma proprio l’apprezzamento nutrito per lei mi induce alla massima franchezza. C’è un punto del suo programma e delle sue dichiarazioni che è rimasto totalmente trascurato. Ed è quello che riguarda “gli innocenti assoluti”, ovvero i bambini reclusi in cella con le proprie madri. Come ricorderà, su tale questione abbiamo avuto un incontro al Ministero, nel corso del quale lei affermò l’impegno a modificare radicalmente la situazione, invitandomi a rimanere in contatto col suo dicastero, e mi incaricò di elaborare un progetto che, affiancando il disegno di legge di iniziativa parlamentare, proponesse una via amministrativa capace, per lo meno, di attenuare e ridurre al minimo il fenomeno della “reclusione infantile”. Da allora è passato quasi un anno e, purtroppo, sul piano pratico non è stato ottenuto alcun che. Al contrario, si va consolidando la precedente tendenza. Nel luglio scorso il carcere bolognese la Dozza ha inaugurato la sezione nido e da qualche mese a Rebibbia cresce il numero dei bambini reclusi. Al 30 aprile 2022 i “bambini galeotti” erano 20. Una “commissione informale” da me promossa e che comprendeva i massimi esperti della materia, ha elaborato un piano contenente alcune indicazioni relative a misure che, a normativa vigente, potrebbero drasticamente ridurre, fin quasi ad azzerare, il numero dei bambini in carcere e a limitare al minimo il tempo della loro permanenza in cella. Ma di questo progetto, messo a disposizione anche della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, presieduta dal Professor Marco Ruotolo, non c’è stata mai occasione di discutere. Alcuni giorni fa la Commissione giustizia della Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge Siani che tra qualche settimana dovrebbe giungere in aula. C’è da temere, tuttavia, che considerata la complessità del calendario parlamentare l’iter del provvedimento possa essere ancora assai lungo e accidentato. Da qui questa lettera. Approvata la riforma della giustizia, non è giunto il momento, infine, di porre mano con decisione a questo tema, così circoscritto, così peculiare all’interno del sistema della giustizia penale, ma così carico di sofferenza e di un intenso valore simbolico? Non è forse il caso e il momento di porsi l’obiettivo di “0 bambini in carcere”? Entro una scadenza temporale che consenta di recuperare, il prima possibile, fiducia nel sistema democratico e nello Stato di diritto? La ringrazio dell’attenzione e la saluto cordialmente. La condizione LGBT+ nelle carceri italiane di Chiara Manetti lasvolta.it, 7 maggio 2022 Il nuovo rapporto dell’associazione Antigone dedica un intero capitolo al trattamento delle persone omosessuali e transgender in carcere. Tra emarginazione e solitudine. È uscito il XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane. Si chiama “Il carcere visto da dentro” ed è lo sguardo annuale dell’associazione italiana che, dal 1991, si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Un intero capitolo è dedicato alla situazione legata ai diritti LGBT+, tema centrale nel progetto di riforma dell’Ordinamento penitenziario designato dalla Commissione Giostra nel 2015, che però non ha ricevuto l’attenzione sperata. Perché “così com’è, oggi, il carcere non funziona nella sua prospettiva costituzionale”, scrive Antigone. Neanche per le persone omosessuali e transgender detenute. L’associazione, che racconta il carcere “così come lo abbiamo visto nelle oltre 2.000 visite di monitoraggio effettuato negli ultimi 24 anni (circa 100 solo nel 2021) con numeri, approfondimenti e storie”, ha voluto analizzare come e se viene applicato il principio di non discriminazione verso la differenza sessuale e di genere. Attraverso le segnalazioni raccolte dal servizio di Gay Help Line nel 2021, il contact center nazionale contro omofobia e transfobia, sono emerse delle testimonianze provenienti direttamente dagli istituti. “Sono molto depresso: non parlo della mia detenzione, ormai mi mancano pochi anni. Il fatto è che non ce la faccio più a comportarmi da etero, come ho fatto in questi otto anni”, racconta un anonimo di 37 anni. “In quest’ambiente è impossibile fare coming out”, scrive un 46enne, “temo che mi sposterebbero in un reparto come “precauzione”, così perderei il mio lavoro da sarto. Ho già visto persone gay o trans isolate senza fare nulla dalla mattina alla sera e senza poter uscire dalla cella”. Attualmente, secondo i dati aggiornati al 15 febbraio del 2022, i quasi 190 istituti penitenziari italiani accolgono 54.428 detenuti: “posto che l’orientamento sessuale è un aspetto intimo dell’identità degli individui e in quanto tale insondabile in termini di numerosità, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (l’organo che provvede a garantire ordine e sicurezza nelle carceri, ndr) traccia la categoria omosex basandola sulla necessità di allocare in condizioni di sicurezza gli omosessuali maschi, visibili o dichiarati” sottolinea Antigone. Oggi gli omosessuali registrati sono 64, di cui 57 assegnati a sezioni protette. I restanti sono in isolamento per ragioni protettive, 2 in sezioni comuni e 1 in accoglienza. Dei 64 totali, solo 3 sono impegnati in attività lavorative, ovvero il 5% dei detenuti omosessuali registrati. Il documento finale del 2016 degli Stati Generali sull’esecuzione penale spiegava che il “destino” delle persone omosessuali all’interno dell’istituzione dipende anche dalla loro decisione di dichiarare, al momento dell’ingresso, il proprio orientamento sessuale”. Una scelta che produce “precise ricadute: se, da un lato, il detenuto decide di esplicitare il proprio orientamento egli è destinato, difatti, alla condizione di isolamento all’interno della “sezione protetti”; in caso contrario si iscrive, tacendo, in altri percorsi di vita penitenziaria, dopo essere stato collocato nella sezione condivisa”. Antigone sottolinea che il principio di umanità e quello di solidarietà richiamati dall’articolo 27 della Costituzione sono diventati istanze poi entrate nella legislazione attraverso i decreti legislativi del 2018 (applicativi della legge Orlando) che hanno esteso la tutela dell’art. 3 della Costituzione ai fattori di discriminazione per “sesso, identità di genere e orientamento sessuale”. “Una trasformazione che oggi si rivela però problematica, perché allarga le dimensioni della differenza, ora anche sessuale, prevedendone la tutela in nome dell’uguaglianza”, dice l’Associazione. Nei casi di discriminazione all’interno degli istituti - quelli che accolgono persone omosessuali sono solo 20 su 64 -, l’amministrazione penitenziaria dà la priorità al mantenimento della sicurezza interna e sposta il detenuto o la detenuta - dietro consenso dell’interessat? - in un luogo in cui non debba temere attacchi violenti. E dunque lo isola o lo separa dal resto della popolazione carceraria. Le cosiddette “sezioni protette” sono spazi che precludono la partecipazione alle attività e ai progetti di inserimento lavorativo a cui di norma si accede. Spesso, poi, e questo accade soprattutto nel centro Italia, non tutti gli istituti sono dotati di sezioni separate, e questo comporta l’allontanamento del detenuto anche dai propri affetti. Un altro dato significativo è quello che riguarda l’omosessualità femminile: non pervenuta. “Se infatti per l’amministrazione penitenziaria l’eterosessualità è la norma, l’omosessualità è “normalmente” questione maschile”, spiega Antigone. Di conseguenza, la presenza di donne lesbiche o bisessuali non riceve alcuna attenzione, e dunque nessuna tutela. Per non parlare delle persone trans: quelle registrate sono tutte donne, in totale 63: “5 sono assegnate a sezioni promiscue, una è in casa di lavoro, 2 sono in una sezione comune femminile, tutte le altre in sezioni protette omogenee”. L’82% sono cittadine non italiane e l’assoluta maggioranza vive lontana dalle reti familiari e relazionali di origine, in un Paese diverso dal proprio. “Le situazioni più difficili le troviamo dove le donne trans sono collocate in sezioni promiscue insieme ai sex offenders: il loro vissuto di violenza pregressa, spesso legato all’attività come sex worker, le costringe a vivere in una condizione costante di paura”, ha spiegato ad Antigone Anna D’Amaro, operatrice sociale dell’Associazione Mit - Movimento identità trans. L’obiettivo di Antigone è “la realizzazione di un sistema che, disinnescando la paura della differenza sessuale e di genere, rimuova il rischio oggi ancora concreto di emarginazione e di lesione dei diritti individuali”. Telecomunicazioni. Niente lavoratori? Usiamo i carcerati di Fiorina Capozzi La Verità, 7 maggio 2022 Da un lato c’è il reddito di cittadinanza, dall’altro la penuria di manodopera. Nel mezzo un governo che immagina soluzioni “creative” come l’uso del lavoro dei carcerati per far partire i cantieri della fibra e del 5G. Ed evitare di mancare gli obiettivi Italia a iGiga e Italia 5G. Secondo quanto risulta a Verità& Affari, il ministero di grazia e giustizia e quello per l’innovazione tecnologica e transizione digitale hanno infatti invitato la società pubblica Open Fiber a valutare l’utilizzazione del lavoro dei carcerati sui cantieri della fibra. Opzione che sembra piacere molto all’ad di Open Fiber, Mario Rossetti, per via dei minori costi che porterebbe nei lavori di posa della fibra. Non solo: la richiesta è stata allargata all’intera filiera italiana delle società Telecom (capofila Sirti) impegnate nello sviluppo delle infrastrutture di nuova generazione. Non si sa ancora quale sarà il numero di detenuti coinvolti nell’operazione cantieri per le telecomunicazioni. Né esistono i dettagli delle case circondariali interessate, ma di certo aiuta il fatto che ogni cantiere potrà “contare” su una struttura locale per attingere alla manodopera. Secondo fonti vicino al ministero guidato da. Vittorio Colao, l’operazione è solo un piccolo, ma significativo, tassello del piano per sviluppare le infrastrutture nel Paese. Un tassello seguito da vicino da un fedelissimo di Colao, l’ex manager Vodafone, Stefano Parisse. Con tanto di intento riabilitativo sullo sfondo, oltre che di risparmio sul costo del lavoro. Per quanto riguarda la posa della fibra, l’operazione dovrebbe avvenire nelle aree bianche attraverso il neonato Open Fiber Network Solution, costituito dalla società pubblica Open Fiber (80%) assieme ad Aspi (20%) proprio con l’obiettivo di sbloccare i cantieri nelle aree bianche. Così fra ilarità e preoccupazione, da settimane si susseguono riunioni in Open Fiber, soprattutto per discutere il tema sicurezza per gli spostamenti finalizzati a raggiungere il posto di lavoro. L’ultimo incontro, in ordine temporale, c’è stato questa settimana anche per parlare delle prospettive del consorzio che dovrebbe impiegare circa 700 persone, oltre a dare occupazione ad altri 400 lavoratori nelle imprese in subappalto. Si tratta di personale che dovrebbe essere inquadrato con contratto delle telecomunicazioni. Ma che, secondo fonti sindacali, essendoci di mezzo anche Aspi, potrebbe essere usato il contratto degli edili. Con tanto di risparmio sul costo della manodopera. “La situazione sul mercato del lavoro è drammatica. Non si trovano operai - spiega una fonte - Del resto fra spaccarsi la schiena a 1.300 euro in un cantiere oppure prendere 600 euro stando a casa o al mare, arrotondando a nero, che cosa sceglierebbe lei?”. Che il reddito di cittadinanza potesse generare delle distorsioni era un rischio che pure avevano segnalato da tempo diversi economisti. Un problema che si aggrava peraltro con l’ultima misura del governo Draghi che ha previsto un sussidio da 200 euro una tantum per i redditi bassi, inclusi di beneficiari di Rdc. “Per carità una misura contro la povertà era necessaria, ma se il meccanismo genera distorsioni, va corretto” conclude. Perché altrimenti il risultato è che non si trovano nonostante la grave crisi economica. Ma la curiosa storia dei cantieri della fibra per le aree bianche non finisce qui. A. complicare la vita al neonato consorzio ci si è messa anche l’Anac: l’autorità non è convinta del fatto che le specifiche tecniche e legali del bando per posare la fibra nelle aree bianche, vinto proprio da Open Fiber, consentano la realizzazione dei lavori attraverso il consorzio. Con il risultato che ora Open Fiber è in una sorta di limbo, a metà fra i bandi scritti da Infratel e le interpretazioni dell’Anac, senza la certezza di poter lavorare attraverso il neonato consorzio. Risultato: i lavori vanno avanti a rilento. Con buona pace degli italiani che sono ormai abituati a lavorare in smartworking con una rete al rallentatore Sarà forse anche per questo che, in assenza anche di un cloud con tutti i documenti (possibilmente nativi digitali) della Pa, il ministro della funzione pubblica Renato Brunetta insiste perché i dipendenti pubblici lavorino in ufficio. Difficile a dirsi, ma, certo, di questo passo gli obiettivi al 2026 rischiano di saltare. Con Tim che, da ex monopolista pubblico, indirettamente trae vantaggio dalla lentezza con cui si sviluppa la nuova rete. Per ora il ministro Colao ha un pensiero: centrare gli obiettivi al 3o giugno. Entro quella data, dovranno essere assegnate le gare (6,7 miliardi) per Italia iGiga, Italia 5G e isole minori. E il tempo stringe. Non sono riforme perfette ma vanno riconosciuti i passi avanti di Davide Varì Il Dubbio, 7 maggio 2022 Riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Non è la riforma migliore possibile e a tratti lascia irrisolte non trascurabili questioni, alcune peraltro oggetto di materia referendaria, ma è sicuramente migliore della proposta originaria ed è apprezzabile nei contenuti che mirano a riequilibrare funzioni e poteri degli attori della giurisdizione. La proposta, infatti, tiene conto anche di alcune indicazioni e dei contributi che l’avvocatura istituzionale ha inteso conferire, con particolare riferimento al diritto di voto dell’avvocatura in seno ai Consigli giudiziari, con preventivo parere del Coa di riferimento. In occasione delle interlocuzioni con il ministero della Giustizia, il Cnf aveva ugualmente proposto di valutare l’opportunità del parere del Coa anche per le valutazioni positive e pertanto se ne apprezza l’inserimento. Anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari si prende atto che c’è la consapevolezza che l’avvocatura non può restare esclusa dall’organizzazione, con una partecipazione attiva regolamentata e non più affidata alle buone prassi. Non poche perplessità e molto sconcerto suscita, però la decisione di Anm di proclamare lo sciopero contro la riforma. Fino all’ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento circa l’opportunità di un’azione che a parere dell’avvocatura non si giustifica. La Costituzione attribuisce alla magistratura una funzione essenziale e come tale è rivendicata dalla stessa, salvo poi ignorare che tale natura non si concilia con lo strumento adottato per difendere una mera posizione “di categoria” in un momento storico in cui il senso di dovere e di responsabilità, oltre che di ragionevolezza, dovrebbero prevalere su tutto. Lo “spirito delle leggi” che informa il nostro ordinamento e contribuisce alla conservazione della democrazia assoggetta anche e soprattutto chi è chiamato ad osservarla ancor prima di applicarla. Parametri forensi - L’avvocatura attende con ansia l’approvazione in via definitiva dell’aggiornamento dei parametri forensi. Al Cnf è attribuito per legge l’onere della proposta di adeguamento. Onere che è stato assolto in tempi brevi anche per consentire il perfezionamento della procedura di consultazione con Ordini territoriali e associazioni forensi. Proposta il cui contenuto ha incontrato anche il parere favorevole del Consiglio di Stato. Si tratta di un aggiornamento dovuto e necessario, tenuto conto che l’adeguamento ultimo risale al 2014 e che questa volta potrebbe beneficiare degli indici rivalutativi relativi all’aumento medio del costo della vita, con espresso riferimento ai costi e alle spese correnti che l’avvocato sostiene nell’esercizio della sua attività professionale. Equo compenso - La proposta di modifica dell’equo compenso per la remunerazione degli avvocati, poi estesa anche alle altre categorie professionali, ha il pregio di reinquadrare come si può e come si deve il lavoro e i compensi dei professionisti nella cornice costituzionale dell’articolo 36. Il disegno di legge in esame, anch’esso non il migliore in senso assoluto, ha il pregio di arginare la tendenza dei contraenti forti a sfruttare i richiami testuali alle “convenzioni” per restringere il campo di applicazione, e a prevedere comunque come necessario il rinvio ai parametri forensi per la determinazione del carattere equo del compenso. È inoltre certamente apprezzabile la legittimazione - per i Consigli territoriali - ad adire l’autorità giudiziaria per violazioni delle disposizioni vigenti in materia di equo compenso. In attesa che maturino tempo e consapevolezza dell’opportunità di istituzione di un Garante, quale autorità indipendente, l’avvocatura coglie con favore la proposta di istituire un Osservatorio nazionale con il coinvolgimento di un rappresentante per ogni Consiglio nazionale dei professionisti. Non si comprendono se non con un malcelato tentativo di rallentare o peggio inibire ancora una volta la riforma, le censure al progetto sollevate da accademici e condivise solo alla vigilia della discussione. La proposta di riforma se approvata (deve essere approvata oggi e non domani) garantirebbe almeno l’equa remunerazione dell’attività espletata dal professionista senza la mortificazione di incarichi che tradiscono il principio e il valore della dignità. Giustizia tributaria - Il Consiglio nazionale forense, a dispetto di quanto lamentato in alcuni contesti, segue con altrettanta cura e attenzione le proposte di riforma della giustizia tributaria. Pur ritenendo, infatti, che solo attraverso una progressiva razionalizzazione dell’ordinamento tributario, sarà possibile ottenere un vero e proprio cambio di rotta nei procedimenti di giustizia tributaria, auspica che tale obiettivo acceleri una riforma organica della giustizia tributaria e che conduca alla piena attuazione dei requisiti di indipendenza, terzietà e imparzialità richiesti dall’articolo 111 della Costituzione. Una riforma che assicuri l’attuazione di un “giusto” processo tributario e, con esso, il corretto esercizio della funzione impositiva mai prescindendo dalla difesa tecnica specializzata e dal rispetto di regole professionali e deontologiche condivise. Ad oggi pendono ben quattro disegni di legge in Parlamento: sarà forse prudente e opportuno aspettare di confrontarci su una proposta se non unitaria almeno completa di tutti gli aspetti critici (compresi quelli non trascurabili e necessari in una fase di transizione con l’ineludibile contributo dell’avvocatura specialistica). “No allo sciopero delle toghe”. Parla Grasso, ex presidente Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 maggio 2022 “Dovremmo scioperare per una riforma tutto sommato di bandiera, che concretamente non porterà nulla di positivo al paese ma neppure sconquasserà la magistratura, quando siamo ai minimi storici di credibilità? Non sono per niente d’accordo”. A dirlo è Pasquale Grasso, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, riferendosi allo sciopero proclamato per il prossimo 16 maggio proprio dal sindacato delle toghe. Per Grasso, che lasciò la guida dell’Anm in seguito allo scandalo Palamara (pur non essendovi coinvolto neppure indirettamente, ma solo per un ribaltone imposto dalle correnti di sinistra), siamo di fronte a uno sciopero che appare “di maniera”, “quasi finalizzato a rassicurare gli iscritti con un ‘protestiamo con veemenza”, ma che è stato “indetto fuori tempo massimo” e “lascia l’impressione amara di una volontà di mera rappresentazione”. “Come ho già dichiarato prima dell’assemblea generale dell’Anm, non condivido la decisione di proclamare lo sciopero”, spiega Grasso: “È una forma di protesta legittima ma estrema, che veicola rivendicazioni storiche e sacrosante dei magistrati, ma si fonda su un casus belli debole”. “Scioperiamo perché?”, si chiede. “Scioperiamo per il coinvolgimento degli avvocati nelle nostre valutazioni di professionalità? Mi pare ipotesi residualissima e congegnata in maniera non lesiva delle giuste prerogative dei magistrati”. “Peraltro - aggiunge - mi fa sorridere che la corrente di Area scioperi per questo motivo, visto che la partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità è una richiesta risalente e reiterata di quella corrente”. “Scioperiamo per il fascicolo della performance?”, si domanda ancora Grasso. “Considerata la normativa attuale, che fa riferimento alle anomalie delle decisioni dei magistrati, non mi pare ci sia una reale innovazione. Comunque, non tale da chiamare allo sciopero. Scioperiamo per la riforma del Csm? A dir la verità, mi pare proprio che la riforma riformi poco o nulla. Sono previste forme di collegamento tra candidati in ambito nazionale e in ottica proporzionale; fisiologicamente saranno ‘governate’ da gruppi organizzati di magistrati. Lascio a lei trarre le conclusioni”. L’ex presidente dell’Anm non è l’unico a nutrire dubbi sullo sciopero, tanto che l’iniziativa potrebbe rivelarsi un clamoroso boomerang. Su questo Grasso rivela: “Purtroppo, ho notizia di molti colleghi che stanno pensando di scioperare, potremmo dire ‘turandosi il naso’, perché l’Anm è pur sempre l’Anm e non possiamo apparire divisi all’esterno’. Posizioni che personalmente non condivido”. “La verità- si sfoga Grasso - è che mi fa rabbia pensare che l’Anm è stata inerte e non ha scioperato in occasione della riforma della responsabilità civile dei magistrati e del taglio delle ferie, non sciopera per la perdita di stipendio dei magistrati quando si ammalano, non sciopera per la sempre più carente assistenza informatica. A ben vedere, l’Anm negli anni ha trascurato in concreto tutti i veri temi che interessano la magistratura e la giustizia, a cominciare da quella civile, sorta di parente povero cui si dà ogni tanto il contentino”. Per l’ex presidente dell’Anm si è persa l’ennesima occasione per un confronto su temi concreti. “Perché si continua a non distinguere tra giustizia civile e penale, che hanno esigenze, possibili soluzioni e criticità del tutto difformi?”, si domanda, prima di entrare nel merito delle questioni. “Sul versante penale forse è giunto il momento per tutti di fare un piccolo esame di coscienza: abbiamo un processo penale coerente, funzionale, efficace rispetto al suo scopo? L’oralità che circa 35 anni fa ci è stata presentata come la soluzione di tutti i problemi ha senso, esiste o tante volte è un vuoto simulacro? L’udienza preliminare ha un senso o ha fallito? Il processo penale non è una gara tra pm e difesa, e il pm non può essere certo valutato sulla base delle percentuali, di assoluzioni o condanne, ma forse dimentichiamo troppo spesso il fatto che il processo penale è una pena, e chi lo subisce vive questa condizione sulla propria carne”. Sul versante civile, continua Grasso, “ci si affanna sempre a rimarcare la lunghezza dei processi, ma nessuna delle riforme di cui parliamo (incluso l’ineffabile ufficio per il processo, una montagna di costi che partorirà un top olino di risultati concreti) va davvero nella direzione di una efficace soluzione del problema”. “Servono più giudici, vera assistenza informatica, più risorse e sicuramente un miglior uso di quelle che abbiamo”, conclude Grasso. La bolla dei referendum sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 maggio 2022 Il 12 giungo si vota per un turno di amministrative e per i cinque quesiti referendari, ma nessuno, nemmeno la Lega che li ha proposti, ne sta parlando. Tra poco più di un mese, il 12 giugno si voterà per un turno parziale di elezioni amministrative e per i cinque referendum sulla giustizia, ma di quest’ultimo appuntamento, che riguarda tutto l’elettorato, non si parla affatto. Non ne parlano gli esponenti delle formazioni che non li hanno promossi o appoggiati, ma anche la Lega, che insieme ai Radicali ha formulato i quesiti, non ha dato l’impressione di tenerci più di tanto. Matteo Salvini, interrogato da Marco Cremonesi sul Corriere della Sera aveva risposto: “I primi cinque titoli dei tg sono sulla guerra, il sesto è sul Covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, di risparmi e magari di flat tax”. Che sia difficile mettere al centro dell’attenzione la questione della giustizia probabilmente è vero, ma chi ha detto che bisogna affrontare solo i temi “facili”? Per avere efficacia, cioè per abrogare gli articoli di legge citati nei cinque quesiti, il referendum deve raggiungere il quorum della maggioranza degli elettori potenziali, il che è obiettivamente assai improbabile. Però avrà un peso anche la percentuale di elettori che parteciperà e che approverà i quesiti. Rassegnarsi alla sconfitta senza combattere, come anche, da parte di chi non è favorevole ai quesiti, aspettare in silenzio il risultato senza partecipare al dibattito, è un modo poco onorevole di interpretare il ruolo delle forze politiche in una democrazia. Anche l’informazione, che si è trasformata in mancanza d’informazione, ha le sue responsabilità: i temi in discussione sono oggettivamente rilevanti e non trarne la conclusione che meritano approfondimenti e confronti è una scelta, quasi scandalosa. Questa scelta sarà corretta almeno nelle settimane immediatamente precedenti il voto referendario? È lecito sperarlo, ma purtroppo assai improbabile. La Dna stia alla larga da teoremi indimostrabili di Alberto Cisterna Il Dubbio, 7 maggio 2022 Il cambio al vertice della Procura nazionale antimafia avviene in coincidenza con il trentennale dalla costituzione dell’ufficio di via Giulia di recente ricordata con la pubblicazione di un prestigioso volume di scritti. A riportare le lancette della storia a quegli anni verrebbe da non credere ai grandi successi che il contrasto alle mafie ha saputo mietere in questo tempo. Mettendo a confronto non solo le gelide statistiche degli omicidi, ma la sostanza stessa dei fatti emerge chiaramente che le organizzazioni criminali di questo Paese hanno subito colpi spesso mortali dallo Stato e che in tante versano in condizioni di estrema difficoltà. Ci vorrebbe tempo e spazio, ma a spanne il discorso può riassumersi in alcune semplici enunciazioni e con la necessaria rinuncia a dimostrazioni minute. Nel 1992 i fenomeni criminali del Paese, resi arroganti da molte inerzie e da molte complicità istituzionali, concepirono l’idea di poter esercitare una pesante egemonia non solo sulle società meridionali, ma all’incirca in tutto il Paese. Questo disegno imperiale si era tradotto in una stagione di aggressioni stragiste che ha determinato una risposta possente, massiccia e, in qualche caso, anche indiscriminata dello Stato. Al punto che la maggior parte delle organizzazioni mafiose che parteciparono a quella visione suprematista sono state debellate, i boss sono morti in cella, i patrimoni sono stati devastati dalle confische, centinaia di adepti sono finiti in cella, migliaia di misure di prevenzione e di interdittive antimafia hanno desertificato pezzi dell’economia, soprattutto meridionale, prosciugando (non sempre a ragione) le risorse di molte imprese mafiose, colluse, contigue o anche solo vessate dai boss. Giusto o sbagliato, con i suoi eccessi e con le sue manchevolezze, la guerra è stata condotta in quel modo e dopo le bombe e il sangue versato si è andato poco per il sottile. Che sia stata una battaglia condotta, molte volte, sul filo della legalità costituzionale, con l’uso di strumenti eccezionali, con metodologie spicce e a strascico sarebbe sciocco negarlo e il confronto di questi giorni tra Consulta e Parlamento sull’ergastolo ostativo è la prova evidente che lo stato di necessità non appare più una condizione soddisfacente per mantenere in piedi un regime d’eccezione dopo trent’anni di una guerra per la quale nessuno vuole fare bilanci realistici. E questo per la semplice ragione che non conviene a molti deporre le armi e attrezzarsi per i tempi nuovi che, invero, sono cominciati da un bel pezzo. A guardare le indagini almeno dell’ultimo decennio e, soprattutto, i loro infausti esiti giudiziari si ha l’impressione che categorie, plessi concettuali, presunzioni che hanno sorretto l’interpretazione delle condotte, in senso lato, mafiose stiano progressivamente collassando. La sentenza delle sezioni unite della Cassazione di pochi mesi or sono sulla sostanziale neutralità dei soli riti di affiliazione mafiosa segna uno scarto irreversibile, culturale prima che giuridico, nella percezione giudiziaria delle mafie. Quella collettiva, invece, è ancora troppo inquinata da una retorica celebrativa e autocelebrativa in cui si sono agglutinati interessi mediatici, carrieristici ed economici e che si appresta, nei mesi di maggio e luglio, a rievocazioni ed evocazioni che, per molti versi, avrebbero recato dispetto e fastidio agli stessi Falcone e Borsellino. Ma non tutto volge alla stagnazione perché, invero, anche su quel versante si intravedono crepe e ripensamenti di non poco conto, soprattutto tra autorevoli cronisti di quegli anni. In quello scenario alla Procura nazionale era assegnato un ruolo non solo di coordinamento e collegamento tra le varie procure delle Paese impegnate sul fronte antimafia, ma soprattutto quello di essere soggetto propulsivo per la individuazione dei segmenti avanzati delle strutture mafiose e per coglierne gli aspetti più insidiosi e pericolosi. Un lavoro sofisticato da un punto di vista intellettuale che pretendeva di ricavare dall’analisi concreta (e non fumosa e astratta) dei fatti processuali - parcellizzati tra tanti uffici investigativi - modelli di interpretazione e di previsione, intuizioni precursorie e anticipatorie dei progetti della criminalità organizzata. È innegabile che, da un certo momento in poi, questa indispensabile funzione della Procura nazionale sia stata, se non abdicata, quanto meno postergata rispetto ad altre, privilegiandosi opzioni che, alla fine, hanno avuto ricadute negative su tutto l’apparato di contrasto. Alla base della costituzione di un ufficio nazionale vi era l’idea latente, ma possente e chiara, che solo una cultura giudiziaria condivisa, un’analisi comune avrebbe potuto evitare il rischio di una personalizzazione e frantumazione delle strategie di contrasto alle mafie. Da tempo si ha la percezione che molti importanti uffici perseguano proprie visioni e proprie interpretazioni della realtà criminale di cui si occupano che, poi, pretendono in parte di rendere mediaticamente commestibili attraverso il triangolo operativo descritto nel Sistema di Sallusti e Palamara: un procuratore, un poliziotto, un giornalista a occhio e croce. La legge sulla presunzione di innocenza, non a caso, rischia di assestare un colpo mortale a questo circuito promozionale e di potere. Per vero già danneggiato dalla pandemia e dai controlli serrati sugli accessi nei palazzi di giustizia che tanto danno hanno arrecato negli ultimi due anni alle fughe di notizie, praticamente inariditesi. Questa deriva, ovviamente, non può essere generalizzata e opera, ovviamente, a macchia di leopardo e, per certo, qualche pensionamento e qualche bocciatura hanno giovato a contenere le manifestazioni più eclatanti. Il nuovo procuratore nazionale, che ne ha tutte le qualità, è chiamato, quindi, a un compito importante che restituisca l’ufficio di via Giulia a quel ruolo di fine interprete delle nuove strategie mafiose e, quindi, di stringente controllo su proclami, denunce e affermazioni che sono spesso prive di ogni reale giustificazione investigativa. In questo senso l’inclusione, voluta dalla legge, della Procura nazionale presso la Procura generale della Cassazione potrebbe segnare un punto di svolta, perché si ha il dovere della verità verso il Paese e nessuno è pagato per proclamare proprie visioni del male che affliggerebbe il mondo. Potrebbero finire i tempi in cui si enunciano pubblicamente teoremi e intuizioni sulle infiltrazioni mafiose della cui serietà non si risponde mai; ancora attendiamo di sapere, a esempio, quali fossero i collegamenti tra l’Isis e la ‘ ndrangheta. Tutto ciò è grave soprattutto quando accade in consessi internazionali o in tour promozionali all’estero in cui, capita, si dicano cose sulla Spectre mafiosa mondiale che non hanno alcun riscontro, ma appartengono a una personale weltanschauung dell’investigatore di turno che intende emozionare l’uditorio. Ecco l’autorevolezza di quella Procura, voluta e costruita sul sangue e sul dolore di tanti, si misura - nella società della comunicazione - anche sul versante della rappresentazione pubblica delle mafie affinché sia scongiurato il pericolo che, facendo chiacchiere, il nemico non venga più scovato. La mafia vive finché serve a qualcuno di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2022 Dopo le stragi e la morte di Falcone e Borsellino, lo Stato, la politica e i cittadini vissero una stagione di rinascita che fu sopita da coloro che avevano ancora bisogno di Cosa Nostra. C’era una volta che della mafia si parlava solo per negarne l’esistenza. Due esempi illustri fra i tanti possibili: un cardinale e un magistrato. Il cardinale Ruffini, in un’omelia del 1964, additò come fattori che maggiormente disonoravano la Sicilia: Danilo Dolci, Il Gattopardo e… il gran parlare di mafia. Nel 1965, in un processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, Tito Parlatore, procuratore generale presso la Cassazione, se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della Corte di cassazione”. Se non esisteva la mafia, figuriamoci i rapporti mafia-politica! Anche se ovviamente tutti sapevano che la mafia esisteva e si nutriva del suo “contubernio” con pezzi del mondo “legale” (politica, amministrazione, imprenditoria). Lo sapeva bene Carlo Alberto dalla Chiesa, che in Sicilia aveva arrestato gli assassini dei sindacalisti come Carnevale e che, quando venne nominato superprefetto antimafia di Palermo, in un colloquio con Spadolini spiegò che voleva colpire il “polipartito della mafia”, per indicare appunto la compenetrazione fra Cosa Nostra e certa politica. Dalla Chiesa venne ucciso dalla mafia 5 mesi dopo, il 3 settembre 1982. Da allora più nessuno osa negare l’esistenza della mafia (“codificata” nell’art. 416 bis). Si diffonde però un virus surreale, la tendenza a presentare in chiave di “riduzionismo/negazionismo” i rapporti mafia-politica: invenzione di indagini “creative”; fenomeno localistico, articolatosi quasi soltanto sul terreno degli appalti pubblici; “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale. Per contro, la lettura degli atti e delle sentenze dei processi “politici” (Andreotti e Dell’Utri in particolare) non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica, ma i tempi - appunto - della storia nazionale: talora nel quadro di una tragedia incombente con orrende cadenze di morte. E attenzione. Se qualcuno sta sbuffando (rieccoci con questi casi giudiziari: non se ne può più), va detto che non è solo un problema di processi. Si percepisce in filigrana un problema di qualità della democrazia. Negare o distorcere la verità, cancellare o ignorare i gravissimi fatti concreti posti a fondamento dei processi “politici” (quelli sopra citati e altri ancora), era ed è come svuotare di significato l’intreccio mafia-politica che dai processi chiaramente emerge. Di fatto legittimando tale intreccio non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro. Una legittimazione estremamente pericolosa per la buona salute della nostra democrazia. Non solo: chi tocca i fili deve mettere in conto che sarà colpito da fulmini e saette (attacchi e calunnie). Il pool di Falcone e Borsellino era ben visto finché si occupava dei “malacarne” (mafiosi di strada); ma quando comincia a occuparsi di Ciancimino padre, dei cugini Salvo, dei Cavalieri del lavoro di Catania, del Golpe Borghese, ecco le aggressioni: professionisti dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, politicizzazione, pool trasformato in centro di potere e via inventando… con l’esito suicida (per gli onesti) dello smantellamento del pool e del suo metodo vincente. Qualcosa di simile - ma non identico - accade al pool di Palermo del dopo stragi (ne ero il coordinatore in quanto procuratore capo). Finché si è trattato di mafiosi doc come Riina, Brusca, Bagarella, Aglieri, Graviano e altri pezzi da 90, bene. Ma quando le inchieste si sono rivolte a Mannino, Musotto, Andreotti, Dell’Utri, Contrada, Carnevale… apriti cielo! Scattano le stesse accuse mosse a Falcone e Borsellino. Dopo le stragi, superato l’iniziale disorientamento, vi fu una reazione energica e compatta delle forze dell’ordine, della magistratura, della società civile (le lenzuola bianche di Palermo) e della politica, per un biennio magicamente unita. Cosa Nostra era alle corde. Sembrava fatta. Ma qualcuno, sfruttando le polemiche calunniose scatenate ad arte, perché erano stati violati i santuari del connubio mafia-politica, ha preferito “zavorrare” il contrasto antimafia: e i “nemici” sono diventati non più i mafiosi e i loro complici, ma i magistrati e i pentiti… Come ciò sia potuto accadere lo spiega lo storico Salvatore Lupo in uno scritto del 2002, parlando di una “richiesta di mafia” in settori della società civile, dell’imprenditoria, della politica, del sistema finanziario ed economico. Già nella campagna elettorale del 1994, ricorda Lupo, partì “un attacco, che allora nell’opinione pubblica nessuno accettava, alla legge sui pentiti” e vi fu un “assalto della magistratura quando la magistratura era sulla cresta dell’onda”. Se fosse stato soltanto un problema di consenso - sostiene ancora Lupo - nessun uomo politico avrebbe azzardato queste operazioni. Furono dunque operazioni “per il futuro, perché c’è bisogno di mafia o di altre cose analoghe alla mafia”. Perché occorre “che i magistrati non ci siano più… Perché domani si arrivasse di nuovo a dire: non sappiamo se c’è l’organizzazione mafiosa, comunque sono quattro fessi, non ci interessa”. Semi che germogliano. Tant’è che Berlusconi (settembre 2003) argomentando sulle accuse ad Andreotti per i suoi legami con Cosa Nostra, arriverà a tuonare che i giudici “sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Ed ecco - in progress - che lo stalliere Mangano diventa un “eroe”, mentre Dell’Utri, oggi, si propone come arbitro della politica siciliana. C.V.D.: quasi un teorema. Un “fil rouge che si dipana fino a oggi, anche con nuovi protagonisti e progetti assortiti, in particolare quelli sulla separazione delle carriere o sulla responsabilità civile dei giudici o sul fascicolo/schedatura dei magistrati. Pseudo riforme fatte apposta - si direbbe - per “normalizzare” la magistratura spingendola verso una interpretazione burocratica del proprio ruolo che eviti i guai. Come quelli che segnano le inchieste su politici accusati di collusione con la mafia (o di corruzione). Senza inchieste questi rapporti non esistono più. Et voilà, il gioco è fatto. Il prete che guarda in faccia la mafia di Andrea Gualtieri La Repubblica, 7 maggio 2022 Da Brusca a Spatuzza a La Barbera: sono tanti i collaboratori di giustizia che chiedono di incontrare don Marcello Cozzi. “Io non li perdono, non li giustifico, ma li ascolto”. Ci sono giorni in cui don Marcello Cozzi scompare. Prende un treno, arriva in una città: lì, viene prelevato in auto e accompagnato in un’altra località, mentre qualcuno fa un percorso simmetrico partendo da un luogo protetto. È così che don Marcello incontra Caino. A volte capita che la richiesta di colloquio venga dal carcere. Allora il sacerdote affronta la liturgia grigia dei controlli all’ingresso, delle sbarre che si aprono e si richiudono. E quando se lo ritrova davanti è sempre un’esperienza diversa. Anche perché Caino non è mai lo stesso. Un caffè in carcere - Dal 2004 don Marcello Cozzi è stato contattato da più di cento mafiosi e con almeno cinquanta di loro continua a sentirsi, scriversi e vedersi. La rubrica del suo telefonino è piena di nomi in codice: sigle, iniziali. Sono tutti collaboratori di giustizia, alcuni di loro hanno partecipato alle pagine più oscure e violente della storia italiana. Un giorno riceve una lettera firmata da Giovanni Brusca: inizia un dialogo a distanza nel quale il prete non lascia spazio a giustificazioni per i crimini commessi, ma nemmeno il mafioso in realtà sembra cercarne. Finché i due decidono di discutere guardandosi negli occhi: “Quando ti prepari all’appuntamento con l’autore della strage di Capaci, l’uomo che ha fatto sciogliere nell’acido il dodicenne Giuseppe Di Matteo” dice don Marcello “ripensi all’immagine dell’arresto: fisico robusto, camicia sgualcita, capelli arruffati e barba incolta. Invece ho trovato un signore dall’aspetto garbato, di mezza età, capelli corti e barbetta appena pronunciata”. Si incontrano in un giorno afoso, attorno ad un tavolo quadrato in una stanzetta del carcere di Rebibbia. Brusca tira fuori da una busta i tovaglioli di carta, una bottiglia d’acqua, due bicchieri e due thermos: caffè caldo e freddo. Poi parla della sua scelta di collaborare: “Se si vuole vincere la guerra alla mafia bisogna confiscarle le persone. E con me lo Stato ha vinto: io appartenevo ad un altro Stato, quello era il mio mondo e aveva le sue regole”. A don Marcello racconta dell’umanità con cui l’ha trattato Rita, la sorella di Paolo Borsellino, e dei tradimenti che invece gli hanno riservato i suoi ex sodali. Poi chiede se abbia senso invocare perdono dai familiari delle vittime: “Può sembrare una presa in giro perché non serve a tornare indietro, forse è più giusto il silenzio”, dice il boss. “Non saprei dire se gli incontri con queste persone siano stati una mia scelta o se la vita mi abbia trascinato su questo percorso”, ragiona don Marcello. Ha deciso di raccontare in un libro (Dio ha le mani sporche, edito da San Paolo) la sua esperienza a contatto con i carnefici. Per anni aveva esplorato l’abisso dal punto di vista opposto: presidente della Fondazione nazionale antiusura, è stato vicepresidente di Libera e l’altra parte della sua rubrica telefonica è piena dei nomi di familiari delle vittime che chiedono giustizia e di testimoni che pagano per aver denunciato soprusi mafiosi. Diciotto anni fa, in un’intervista, raccontò una di queste storie e chiamò in causa una cosca. Gli arrivò una telefonata da un numero che non conosceva: era la compagna del boss, lo invitava ad un colloquio in carcere. Era la prima volta: “Accettai perché sono un prete, ma anche perché volevo guardare in faccia la mafia”. E accettò anche quando, pochi mesi dopo, un volontario di Libera gli propose di incontrare i detenuti della quarta sezione di Rebibbia, quella dei collaboratori di giustizia. “Ci radunammo in cerchio sulle sedie, nel corridoio tra le celle. Parlai della parabola del figliol prodigo, accanto a me c’era Gioacchino La Barbera che partecipò all’attento in cui perse la vita il giudice Falcone. Prima di andare via, un camorrista mi chiese di confessarsi e aggiunse, davanti a tutti, che doveva parlare di cose che non aveva detto al magistrato. Gli risposi che in quel caso potevo ascoltarlo ma senza dargli l’assoluzione, perché la riconciliazione con Dio passa da quella con gli uomini. E lui se ne andò”. Quella giornata a Rebibbia don Marcello la definisce il big bang, perché dal carcere iniziarono a scrivergli, a chiedergli colloqui. “Queste persone prima avevano un ruolo, a volte una loro parola valeva la vita o la morte. Collaborare con la giustizia significa affrontare un salto nel buio: hanno bisogno di parlare di ciò che erano e di ciò che stanno vivendo, ma non possono mostrarsi vulnerabili con altri mafiosi né con i magistrati. E quando escono dal carcere non possono rivelarlo alle persone che incontrano”. Si rendono invisibili per tutti, ma tra loro parlano, e quando vengono trasferiti da una prigione all’altra raccontano di quel prete che non fa sconti ma non brandisce crocifissi né propone facili riconciliazioni”. Sul foglietto della messa - E così la rubrica di don Marcello accoglie altri nomi. Giuseppe Quadrano, l’ex sicario dei casalesi che il 19 marzo del ‘94 uccise don Peppe Diana, gli telefona durante un permesso premio: “Mi farebbe piacere incontrarla e discutere un po’, glielo voglio dire con chiarezza però: io ho fatto del male ad un suo collega”. E don Marcello risponde: “Certo che vengo, don Diana l’avrebbe fatto”. E l’avrebbe fatto anche don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio beatificato da papa Francesco e proclamato primo martire di mafia. Alle cosche aveva detto: “Venite, parliamone, confrontiamoci”. Gaspare Spatuzza, il suo assassino, ritrovò sul foglietto della messa in carcere una frase di quel prete che aveva ucciso e da lì iniziò un percorso di fede. Don Marcello aveva già iniziato a dialogare con lui. Chiedere di AQ13 - Il primo incontro era avvenuto nel carcere dell’Aquila, in una sezione speciale dove l’identità del detenuto era secretata: per entrare Don Marcello aveva dovuto chiedere di AQ13. Era l’uomo che aveva parlato delle stragi e della trattativa Stato-mafia, ma lì dentro l’ex picciotto era soprattutto uno spirito tormentato. “Chi si pente davvero vive un inferno, perché prende coscienza del dolore che ha causato” dice. “Spatuzza vestiva di nero per il lutto, per anni ha rifiutato l’ora d’aria. Ha chiesto silenzio e solitudine per trasformare la sua cella in un eremo. Una volta, a mezzogiorno, ha interrotto il colloquio e mi ha chiesto di recitare insieme l’Ora sesta: non avrei mai immaginato di pregare con il killer di don Puglisi in un carcere come fosse un monastero”. Più che Caino, Spatuzza si definisce la centesima pecorella della parabola. E in questi giorni, quando la Cassazione dopo 25 anni ha aperto uno spiraglio alla sua liberazione, don Marcello si chiede se le altre 99 pecorelle saranno pronte ad accogliere chi si era perso: “Sui collaboratori di giustizia lo Stato deve fare un investimento culturale: senza dimenticare la sofferenza delle vittime, se si vuole costruire un futuro di civiltà ci si deve chiedere quale futuro dare a queste persone”. Brescia. Canton Mombello scoppia: 334 detenuti a fronte dei 189 ammessi di Manuel Colosio Corriere della Sera, 7 maggio 2022 Fino a 9 in una cella con una sola turca. Il sovraffollamento fa aumentare i disordini. Il criminologo Carlo Alberto Romano: questa non è giustizia, è vendetta. Il cronico sovraffollamento di Canton Mombello pone questioni che vanno ben oltre i preoccupanti numeri. Problemi sanitari, difficoltà a realizzare progetti di reinserimento e processi di aggravamento del disagio psichico non sono solo le inevitabili conseguenze del tasso fissato recentemente dall’Associazione Antigone al 185%, ovvero 334 detenuti rispetto ad una capienza di 189 posti, ma anche quelle di un sistema penitenziario giudicato “fallimentare e che dovrebbe essere completamente rivisto”. Che la situazione sia insostenibile lo si intuisce dal crescendo di disordini registrati negli ultimi mesi (episodi di autolesionismo, risse, aggressione nei confronti degli agenti, materassi dati alle fiamme). Considerazioni di chi il carcere lo guarda con gli occhi dell’educatore, come Marco Dotti della Cooperativa di Bessimo, operatore sociale nelle carceri bresciane da 15 anni che si trova ora a Canton Mombello dove “Nei cosiddetti “celloni”, gli spazi più grandi condivisi da quindici reclusi, è presente una sola turca con sopra un unico soffione della doccia. In pratica ci si lava a turno dove poco prima qualcuno ha fatto i propri bisogni”. Ammette come le attività interne siano estremamente ridotte “ed è tutto molto difficile, nonostante lo sforzo e l’impegno profuso anche dagli stessi detenuti che gestiscono buona parte della biblioteca e degli spazi d’aria”. Il centro diurno interno non è molto frequentato, così come sono pochi coloro che si iscrivono a scuola e ai corsi di formazione interni “perché l’ambiente è deprivante, la struttura inadeguata e quindi la depressione dilaga”. Un disagio psicologico che non può certo aiutare a produrre percorsi di riabilitazione, seppure “siano marginali i detenuti che hanno sulle spalle condanne per reati pesanti” e quindi, anche per questo motivo sarebbe possibile, oltre che necessario, ripensare “ad un nuovo sistema, in cui la detenzione diventi residuale e si favoriscano invece interventi riabilitativi”. Dotti conclude constatando come, in un contesto così afflittivo, “fare l’operatore sociale diventa una contraddizione e mostra il fallimento del carcere come strumento di reinserimento”. Alla medesima conclusione giunge anche il docente di Criminologia all’Università degli Studi di Brescia, Carlo Alberto Romano, secondo il quale “un sistema penitenziario in tali condizioni appartiene alla categoria della vendetta, non certo della giustizia. In questo modo non risponde all’altissimo compito che la Costituzione gli affida”. Per rispettarlo sarebbe necessario diventi “solo una extrema ratio, preferendo altri sistemi di sanzioni”. Sostiene sia una evidente scelta politica privilegiare l’aspetto securitario, ricordando come “non sono stati aumentati le risorse agli uffici dell’esecuzione penale esterna quando si sono aggiunte migliaia di “messa alla prova”, importante strumento alternativo, mentre i concorsi per la polizia penitenziaria continuano ad essere promossi”. Aosta. Carcere di Brissogne: dove anche l’acqua potabile è un bene prezioso di Veronica Pederzolli aostaoggi.it, 7 maggio 2022 Intervista alla direttrice Antonella Giordano. Sono i familiari dei detenuti della Casa circondariale di Brissogne a prendere posizione e denunciare le carenze igienico sanitarie in cui i loro cari devono vivere. “È così che si rispetta la dignità umana del detenuto in carcere?” si chiedono e vogliono che questa domanda arrivi a chi può fare qualcosa per restituire quel diritto inalienabile che spetta all’essere umano in quanto tale e che non si perde per un’azione, anche se gravissima. Non è chiaro se nella casa circondariale questo meta-diritto sia davvero messo in discussione, ma di certo il diritto all’acqua potabile non può essere garantito dalla somministrazione di bottigliette d’acqua. Così la redazione decide di fidarsi di queste famiglie che parlano degli stessi problemi e intervista la direttrice della casa circondariale, la dottoressa Antonella Giordano. Dottoressa, ci segnalano un grave problema di acqua potabile nella casa di Brissogne. Dai rubinetti l’acqua esce rosso rame e settimane fa è stato ricoverato in ospedale un detenuto con coliche renali: beveva da giorni l’acqua del lavandino... Questa segnalazione del ricovero non mi risulta. Sono sempre stati effettuati dei rilievi sulla potabilità dell’acqua e più volte è stata interessata una ditta qualificata: in attesa degli accertamenti sono sempre state fornite bottigliette d’acqua potabile ai detenuti. Nel contempo è in corso una gara per l’efficientamento degli impianti e quindi verranno sostituite tutte le dorsali che sono datate, ma non incidono sulla potabilità dell’acqua perché quella è stata certificata. Un altro problema riguarda l’acqua, ovvero la temperatura delle docce che ci raccontano essere ustionante... Il discorso della regolamentazione dell’acqua rientra proprio in questi interventi che si stanno attuando. C’è un problema di termoregolazione dell’acqua, anche se non ci sono casi di ustioni certificate. Alcuni interventi sono già stati fatti, gli interventi definitivi sono in corso e verranno completati entro il 31 dicembre 2022. Abbiamo una gara d’appalto in corso per la definizione della nuova impiantistica idraulica e siamo già arrivati all’aggiudicazione provvisoria. In questa giorni si provvederà all’aggiudicazione definitiva per iniziare i lavori entro il mese. Si lamenta anche l’igiene del bagno: scarsa pulizia, niente carta igienica e ragnatele ovunque... Le posso assicurare che ai detenuti viene data la dotazione igienica, anzi forse anche maggiore di quella prevista: l’abbiamo incrementata durante l’emergenza sanitaria anche di fronte all’impossibilità di alcune famiglie di recarsi ai colloqui, ma in ogni caso i detenuti sono stati impegnati in attività lavorative e hanno la possibilità di acquistare all’interno del sopravvitto. La dotazione era comunque superiore a quella prevista. Sono stati tra l’altro interessati i lavori di rifacimento e ritinteggiatura delle docce anche al fine di impegnare i detenuti lavoranti durante il lockdown e nel periodo successivo. Infine, ci risulta che a nessun detenuto di Brissogne sia concessa l’opportunità rieducativa di essere ammesso a lavori all’esterno, come dipendente o lavoratore autonomo... È un tema importante quello che sta sollevando perché più volte abbiamo incentivato le cooperative che gestiscono le attività lavorative e sensibilizzato il territorio sulla possibilità di attivare delle procedure di pubblica utilità. So, e questo è un dato importante e significativo, che il Presidente della Regione e la Ministra alla Giustizia il 4 maggio hanno sottoscritto un importante protocollo. Quindi l’avvio dei lavori, l’istituzione dell’osservatorio e l’attività in sinergia con il territorio sono tutte azioni che dovranno anche essere finalizzate a migliorare le possibilità di accesso verso soggetti terzi ed enti locali proprio per l’impegno dei detenuti anche in progetti di pubblica utilità. Monza. Nuovo frutteto nel carcere, un’opportunità di lavoro per i detenuti di Valentina Vitagliano mbnews.it, 7 maggio 2022 Questa mattina, 6 maggio, presso la casa circondariale di Monza è stato inaugurato il primo frutteto interamente curato dai detenuti. L’agricoltura trova “terreno fertile” in carcere. Questa mattina, 6 maggio, presso la casa circondariale di Monza è stato inaugurato il primo frutteto interamente curato dai detenuti, dove hanno trovato dimora una trentina di alberi di susine di circa 5-6 anni, donati dalla Fondazione SNAM. L’iniziativa, pensata per creare un’opportunità di lavoro per coloro che si prendono cura delle piante, sarà anche un valido esempio di economia circolare, con l’utilizzo dei frutti raccolti per la mensa. In via San Quirico presenti, oltre al provveditore alle Carceri della Lombardia, Pietro Buffa; il prefetto di Monza e della Brianza, Patrizia Palmisani; la direttrice della Casa Circondariale; Maria Pitaniello, il sindaco di Monza, Dario Allevi, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana e l’assessore regionale all’Istruzione, Università, Ricerca, Innovazione e Semplificazione, Fabrizio Sala. “L’iniziativa di oggi - ha commentato il governatore lombardo - è prova di quanto l’istituzione penitenziaria ponga attenzione al lavoro e restituisce un’immagine del carcere come luogo di crescita, sviluppo e occasione di risocializzazione. Di questo, dobbiamo ringraziare i promotori e anche il partner dell’iniziativa, Fondazione Snam. Un progetto lodevole sotto diversi punti di vista: perché - ha aggiunto - innanzitutto crea condizioni di recupero e valorizzazione della funzione educativa e riparativa. E poi sensibilizza all’innovazione in agricoltura, attuando uno dei principi della rivoluzione green che prevede rimboschimento e coltivazione in aree urbane e periurbane”. “Regione Lombardia - ha aggiunto il governatore - è impegnata per promuovere e sostenere la realizzazione di piani territoriali integrati e complementari per il recupero della persona, la riduzione del rischio di recidiva e il sostegno della piena attuazione delle finalità rieducative della pena”. È stato quindi evidenziato il percorso mirato alla definizione di percorsi di accompagnamento sociale. Nel 2020/2021 - per esempio sono stati attivati 35 progetti per oltre 7 milioni di euro, anche attraverso interventi per il mantenimento e rafforzamento delle competenze sociali e professionali, propedeutiche all’inserimento nel mercato del lavoro. Già nel 2017 il carcere di Monza aveva avviato il progetto di un orto interno curato dagli stessi detenuti. 11 i detenuti che hanno frequento le 40 ore di lezione condotte da Pio Rossi, agronomo e coordinatore didattico della Scuola Agraria di Monza. La Spezia. Approvato l’accordo per dare il via alla gestione della Rems di Calice cittadellaspezia.com, 7 maggio 2022 Ospiterà venti detenuti. È stato approvato dalla Giunta regionale l’accordo per dare avvio alla gestione della Residenza per l’esecuzione delle Misure di Sicurezza nella struttura (Rems) di Calice al Cornoviglio, che ospiterà 20 detenuti. “Si tratta di un accordo di collaborazione tra Regione Liguria, Prefettura di Spezia e ASL 5 - spiega la nota regionale - necessario per garantire la sicurezza della struttura che è pronta ad ospitare 20 pazienti, provenienti da altre regioni, soggetti a misure detentive e incapaci di intendere e volere nel momento della commissione del reato”. Il protocollo di sicurezza è un passaggio fondamentale per l’attivazione della struttura che nasce a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 32 del decreto legge n. 17 del 1 marzo 2022 convertito con legge 27 aprile 2022 n. 34. “Si tratta di un’attività richiesta dai ministeri di Giustizia e della Salute - spiega il presidente di Regione Liguria - In questo modo usufruirà per tre anni di 2,6 milioni di euro. La struttura è pronta per l’esercizio dell’attività e riceverà i primi ospiti secondo le disposizioni e i tempi indicati dai ministeri”. Accanto alla Rems di Calice al Cornoviglio continua a operare la struttura di Genova Prà, destinata all’accoglienza dei soggetti liguri, colpiti da misura di sicurezza detentiva. Forlì. “Fuori le idee: carcere, web & sostanze” di Tiziana Rambelli auslromagna.it, 7 maggio 2022 Un progetto di sensibilizzazione e informazione legato al fenomeno droghe a cura del Servizio Dipendenze Patologiche di Forlì che ha coinvolto la Casa Circondariale. Il Servizio Dipendenze Patologiche di Forlì promuove rispetto al tema delle sostanze la cultura e la conoscenza come forma più alta di prevenzione. Da questo presupposto nasce “Fuori le idee: carcere, web & sostanze”, un progetto di sensibilizzazione e informazione legato al fenomeno droghe, all’interno della Casa Circondariale di Forlì. Sono state coinvolte le persone detenute che assieme agli operatori del Servizio hanno creato contenuti socio-culturali, con lo scopo di diffonderli all’esterno e cambiare il giudizio legato al contesto carcerario. Lo stigma associato al detenuto e i luoghi comuni legati all’ambiente detentivo, realtà distante da noi o comunque “scomoda” sulla quale riflettere, sono due aspetti di fondamentale importanza nel lavoro riabilitativo, al fine di reintegrarle e farle sentire parte di una comunità. Gli incontri si sono svolti presso la Biblioteca della C.C. di Forlì, una volta ogni quindici giorni, per un anno. Le persone si sono riappropriate di spazi di confronto per poterne creare di nuovi e hanno potuto trasmettere la propria esperienza e la propria visione delle cose. Il tema droghe è stato affrontato attraverso la proposta di materiali culturali (es: film, fotografie, manifesti, musica) in modo da favorire un dialogo sul mondo delle sostanze con meno resistenze e con il desiderio di arricchire le proprie conoscenze in merito. I contenuti elaborati sono stati trasmessi attraverso i canali social (Facebook e Instagram) con lo scopo di raggiungere un pubblico più ampio e garantire una maggior fruibilità. Ecco i link alle pagine: https://www.instagram.com/udsinfopusher/ - https://it-it.facebook.com/udsinfopusher/ Napoli. Ciambriello: “Serve una visione più integrativa e rieducativa del carcere” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 7 maggio 2022 Presentazione del libro “Carcere” all’Officina delle Culture “Gelsomina verde” a Scampia. Il direttore del carcere di Poggioreale, Berdini: “Il carcere deve essere una misura residuale”. “Il carcere deve essere integrativo, deve essere rete e questo libro ci consegna un’idea del sistema carcerario che deve diventare comune e non più un’idea carcerocentrica”: è con questa riflessione che Fra’ Giuseppe Pulvirenti, cappellano del carcere di Poggioreale, ha introdotto il libro “Carcere”, del professore Samuele Ciambriello ed edito da Roggiosi, presentato stamattina all’Officina delle Culture Gelsomina Verde a Scampia. Una mattinata di esperienze e considerazioni sul sistema penitenziario italiano e campano, organizzata da Ciro Corona, presidente associazione “Resistenza”. Il direttore del carcere di Napoli Poggioreale, Carlo Berdini, non pensa che “si possa fare a meno del carcere, nel senso che per tutta una serie di reati e di particolari situazioni che mirano la sicurezza sociale, il carcere è necessario, ma fatta questa premessa bisogna capire in che misura sia necessario e come questo debba essere. Ritengo che il carcere debba essere considerata una misura residuale. Il carcere deve far sì che le persone non escano peggiori e il miglioramento dei detenuti deve passare necessariamente dal lavoro, dalla cultura, da tutto ciò che prevede l’ordinamento penitenziario”. La questione del lavoro per i detenuti resta un tema caldo. Pietro Ioia, Garante della città metropolitana di Napoli, nel suo intervento, ribadisce l’importanza del lavoro per chi vive la privazione della libertà personale e, sul luogo che li ospita, commenta: “luoghi come questi li reputo baluardi di libertà, tanto che quando vengo qui mi sento come a casa mia”. Per Enzo Vanacore, rappresentante della cooperativa L’uomo e il legno: “il carcere si dovrebbe reggere su tre pilastri: diritti, lavoro e inclusione territoriale. Cercare di creare queste tre cose è complicato; non sono tre pilastri separati l’uno dall’altro, ma vanno perseguiti ed è un lavoro lento e difficile”. Tema assai difficile è quello del reinserimento sociale. Adriana Sorrentino, referente Uepe Campania, spiega come “il discorso sull’inserimento territoriale dei nostri ragazzi è il motivo per il quale spesso sono in giro per il mondo per progettare interventi che si possono fare in favore di questi ragazzi”. A concludere è stato il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello: “dobbiamo tutti noi creare ponti per cambiare la concezione carcerocentrica. È necessario che prima di tutto si crei una coscienza civica. Ciò che dobbiamo costruire è un rapporto diverso anche con il carcere e non continuare a pensare che sia una risposta certa e immediata, che ci è dovuta per la sicurezza sociale. Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire. Siamo qui a Scampia con diverse associazioni, cooperative e detenuti in affidamento in prova. Il Terzo settore è una “zattera” che può remare controcorrente nel mare dell’indifferenza e della repressione”. Milano. Progetto #cèunpastoperte. In cucina i detenuti-studenti di Roberta Rampini Il Giorno, 7 maggio 2022 I giovani della sezione carceraria dell’istituto alberghiero Paolo Frisi hanno preparato le pietanze da distribuire ai profughi ucraini di Cinisello. “Anche noi siamo rimasti colpiti dalle migliaia di persone che scappano dall’Ucraina per colpa della guerra e abbiamo pensato di fare qualcosa per loro mettendo a disposizione le nostre competenze in cucina”. Cinquantatré anni, di origini peruviane, Josè è un detenuto della seconda Casa di reclusione di Milano Bollate. Frequenta la classe terza della sezione carceraria dell’istituto alberghiero Paolo Frisi di Milano e ieri mattina, insieme agli altri studenti-detenuti, ha preparato trenta pasti che sono stati consegnati ai volontari della protezione civile di Cinisello e portati ai profughi ucraini ospiti in città. Un esempio concreto di solidarietà che non conosce confini e che non si ferma neppure davanti alle sbarre del carcere. Un modo per riscattarsi e per contribuire, nonostante gli errori commessi, alla costruzione di un mondo più giusto. È il progetto #cèunpastoperte ideato da docenti e studenti della sezione carceraria del Frisi, in collaborazione con la protezione civile e il Comune di Cinisello. Tre le classi coinvolte: la terza e la quarta che hanno cucinato lasagne vegetali e arrosto con patate, mentre la quinta ha pensato al menù, alla lista degli ingredienti e degli allergeni e alle operazioni di etichettatura. A coordinare gli studenti il referente del progetto Guido Villa, i docenti Matteo Bulgarello, Miriana Ragusa, Alessia Frasca, Angelo Loi, Annaletizia Fortuna che da nove anni, tutte le mattine (o quasi) entrano nelle aule del carcere e nella cucina didattica del terzo reparto per insegnare ai detenuti una professione. Ai banchi oggi ci sono 60 detenuti di tutte le nazionalità: italiani, albanesi, marocchini, moldavi, cinesi, egiziani. “Quest’anno abbiamo anche 5 maturandi che una volta superato l’esame di Stato avranno il loro diploma”, spiega la coordinatrice didattica La Fortuna. La scuola in carcere è uno dei tanti progetti avviati nell’istituto di pena all’avanguardia per il trattamento dei detenuti. “Prima di arrivare qui facevo un altro lavoro - racconta Maurizio, 45 anni - quando ho saputo che c’era la possibilità di fare l’istituto alberghiero mi è sembrata una bella cosa per rimettermi a studiare e per occupare il tempo della pena in modo diverso. La scuola ci aiuta anche a non pensare e questo progetto di solidarietà mi fa sentire utile. A volte avrei voluto mollare tutto ma i docenti sono molto bravi e ci incoraggiano ad andare avanti”. Per i detenuti è stato un modo per “simulare un servizio” completo lavorando in team, ciascuno secondo le proprie competenze e con senso di responsabilità. “Il progetto è una delle tante prove di come la sinergia e integrazione tra carcere e territorio funzioni molto bene - dichiara il direttore Giorgio Leggieri -. È un contributo concreto che diamo in uno scenario di guerra”. Napoli. In scena al carcere di Secondigliano “L’odore” di Enrica Buongiorno Il Mattino, 7 maggio 2022 L’esordio di un nuovo progetto artistico dedicato ai detenuti. Al via un ambizioso progetto artistico nella Casa circondariale di Secondigliano, nella quale martedì 10 maggio alle ore 11,00 verrà messo in scena per il pubblico dei detenuti, uno spettacolo teatrale dal titolo “L’Odore” scritto dal drammaturgo Rocco Familiari con la regia di Krzysztof Zanussi. Il dramma rappresenta la separazione affettiva dall’amore e l’esclusione di affetti e famiglie, fulcro centrale dell’aspetto psicologico della vita dei reclusi che provoca per loro stessi un rilevante danno umano e sociale, erroneamente definito collaterale. Pertanto la trama dello spettacolo può senza dubbio essere identificata come una storia dal “contenuto originale per detenuti”. Nei mesi successiva alla rappresentazione, alcuni dei protagonisti della pièce teatrale, tra cui Blas Roca Rey con la sceneggiatrice Francesca Pedrazza Gorlero, Marta Bifano lo stesso maestro Zanussi terranno un laboratorio a cui parteciperanno i detenuti che, ispirati dal loro dramma, potranno riscrivere dal loro punto di vista, la sceneggiatura per una prossima versione filmica, direttamente vissuta nella loro quotidianità. Il laboratorio comprenderà anche l’esecuzione delle scene salienti della storia, pertanto si trarrà spunto dal percorso di reinvenzione e approfondimento critico dei detenuti e dalla rappresentazione di personaggi e di alcune scene in carcere per realizzare un docu-film, che verrà poi distribuito in Scuole e Università e per il grande pubblico della televisione. “Il carcere di Secondigliano” ha detto Marta Bifano, “È una struttura circondariale “modello” diretto da una donna illuminata di nome Giulia Russo, coadiuvata nella sua attività da un equipe di ferro in cui spiccano Olmo Orlando e l’educatrice Gabriella Di Stefano. Grazie alla partnership mia e della mia socia Francesca Pedrazza Gorlero, titolari della Loups Garoux Produzioni con Media Mediterranea ed Arti Magiche di Silvana Leonardi e Vincenzo Di Marino, subito dopo la kermesse teatrale di Secondigliano, realizzeremo un docu-film con la regia di Paolo Colangeli. Una recente proposta di Legge in Parlamento e il lavoro nelle carceri di tanti uomini di teatro, oggi molto diffuso anche grazie ad alcuni recenti film” ha continuato la Bifano, “sostengono la pratica artistica con i detenuti per i suoi effetti tangibili e pratici prodotti sul singolo recluso, sull’ intera comunità e sulla società al di là delle sbarre a cui egli stesso verrà restituito, completamente trasformato, una volta scontata la pena. Queste iniziative politico-culturali come la nostra in un difficile momento di instabilità e diffusa angoscia sociale, devono essere supportate utilizzando tutti gli strumenti possibili”. Ddl Zan, Fine vita, Ius Scholae: i sei mesi decisivi per il destino in Parlamento dei diritti civili di Giovanna Casadio La Repubblica, 7 maggio 2022 Ddl Zan, Fine vita, Ius Scholae: i sei mesi decisivi per il destino in Parlamento dei diritti civili. I provvedimenti in discussione sono finiti nel “collo di bottiglia” di fine legislatura. Il tempo per l’approvazione stringe. Il rischio, a forza di ostruzionismi e sgambetti, è che anche stavolta non vadano in porto. Nel collo di bottiglia di fine legislatura, c’è l’ingorgo sui diritti civili. “Ius scholae”, suicidio assistito, ddl Zan, oltre alla legge sulla cannabis, hanno sei mesi di tempo parlamentare (tanti realisticamente ne restano prima dello scioglimento delle Camere), per essere approvate. Sgambetti, ostruzionismo, polemiche hanno portato a questo punto: il rischio è che un’altra volta, dopo decenni di “stop and go”, non se ne faccia niente. E che i diritti civili finiscano per essere solo teatro di scontro elettorale. Sullo ius scholae il tavolo sulla cittadinanza - cartello di associazioni di cui fanno parte dalla Comunità di Sant’Egidio alla Caritas, da Amnesty a Arci e Acli - ha rivolto ieri un ennesimo appello per i nuovi italiani: “Muovetevi”. Giuseppe Brescia, il presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, grillino, autore del testo-base, risponde che andrà avanti, senza arretrare. Ma lo ius scholae procede con il contagocce: la legge darebbe la cittadinanza a 850 mila ragazzi figli di immigrati nati e cresciuti in Italia. In dieci ore di sedute in commissione, sono stati votati poco più di dieci emendamenti. Uno all’ora. Lega e Fratelli d’Italia fanno ostruzionismo, per mandare tutto all’aria, come chiedono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Sul suicidio assistito al Senato è il caos: i leghisti si sono detti disposti a cominciare l’esame della legge, a patto che, parallelamente, sia messa in calendario la “loro” proposta sulla droga. “I ricatti non sono certo la migliore premessa per iniziare l’esame di un provvedimento così delicato e importante come quello sul fine vita, ci auguriamo che la Lega voglia agire con responsabilità”, ha reagito mercoledì scorso la grillina Alessandra Maiorino. Maiorino è relatrice con Simone Pillon della Lega, Caterina Biti del Pd e la forzista Maria Rizzotti (i relatori sono quattro per equilibrare le diverse posizioni politiche). In risposta, il presidente della commissione Giustizia Andrea Ostellari e Pillon si sono alzati e se ne sono andati. È stata Annamaria Parente, renziana, a capo dell’altra commissione competente, la Salute, a invitare alla ragionevolezza: aggiornamento a lunedì prossimo, senza fare melina. E poi c’è il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia, che ieri è stato depositato al Senato, ripresentato dal Pd tale e quale. Stesso testo approvato dalla Camera nel 2020, e fermato a Palazzo Madama nell’autunno scorso in un duro scontro politico. Il segretario dem, Enrico Letta è stato di parola: dopo i sei mesi indispensabile a norma di regolamento, imposti dalla cosiddetta “tagliola”, la battaglia contro i crimini d’odio ricomincia. E il Pd ha organizzato dibattiti in giro per l’Italia: il 14 maggio a Milano, il 21 a Palermo e il 28 a Padova. “Parteciperò anche io. Discuteremo, faremo partecipare e renderemo di nuovo protagonisti tutti coloro che credono in questo percorso e nello Zan, e che pensano sia importante in questo momento uno sforzo collettivo per riuscire ad arrivare all’approvazione del ddl”, ha assicurato Letta. La possibilità che i diritti civili vedano la luce prima che si voti per le politiche si assottiglia però di giorno in giorno. Tanto Alessandro Zan, il deputato dem e attivista Lgbt che dà il nome alla legge che Monica Cirinnà, responsabile diritti del partito, garantiscono: “Faremo di tutto per il ddl Zan”. Ma il fronte di Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, a cui si è unita Italia Viva, non sembra avere cambiato posizione: sei mesi fa hanno sbarrato la strada alla legge contro l’omotransfobia, chiedendo modifiche sostanziali. Il Movimento 5Stelle è convinto che ius scholae e fine vita si possano portare a casa. I canali del dialogo per la pace di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 7 maggio 2022 È chiaro che non si può darla vinta a Putin. Ma non si può neppure smettere di parlare con lui. È possibile stare dalla parte degli ucraini aggrediti anziché dei russi invasori, e nello stesso tempo lavorare per il cessate il fuoco? Non solo è possibile. È doveroso, ed è il miglior servizio che possiamo rendere agli ucraini; oltre che a noi stessi. I reportage e le testimonianze degli inviati sul campo non lasciano dubbi sulla brutalità e sui crimini compiuti dalle truppe russe. Aggressioni sistematiche a donne, anziani, bambini; stupro usato come arma; atrocità che in Europa non si vedevano dal tempo delle guerre civili balcaniche degli anni 90. Tutto questo non può essere relativizzato o giustificato; può solo essere denunciato con forza. L’invasione dell’Ucraina è stata per Putin sia un crimine, sia un errore. Se davvero era pronta per lui una trappola, il satrapo di Mosca è andato a infilarcisi dentro; come capiscono anche gli esponenti più avveduti del suo entourage, chiamati adesso a fare professione di fede in pubblico - vedi il caso Lavrov - se vogliono salvare il posto, e la stessa vita (vedi i sette oligarchi morti in circostanze non chiarite). Ora la priorità per tutti è interrompere i massacri, far tacere le armi, fermare la guerra, avviare una trattativa seria; la cui necessaria premessa è il cessate il fuoco. I più interessati a fermare la guerra sono ovviamente quelli che ne pagano il prezzo più alto. In primo luogo, il popolo ucraino, che ha dato una prova di resistenza al limite dell’eroismo. In secondo luogo, l’esercito russo, che non è composto solo da criminali, e ha già perduto molti uomini e bruciato molte risorse. In terzo luogo, l’Europa. Non è in discussione la fedeltà atlantica. Mai come adesso si comprende quanto sia importante l’alleanza delle democrazie. Cedere a Putin significherebbe, come ha detto Draghi a Strasburgo, mettere in discussione il progetto di pace, di libertà, di democrazia, di sviluppo che da settant’anni è alla base dell’Europa. L’Europa è sempre avanzata nelle crisi: se con la pandemia ha iniziato a fare debito comune, con la guerra in Ucraina si deve dotare sia di strumenti militari condivisi, sia di mezzi decisionali più rapidi. È anche vero, però, che gli interessi dell’Unione europea e quelli degli Stati Uniti e dei loro alleati britannici non coincidono del tutto. Certo, fermare Putin è un interesse comune. E lo è anche armare gli ucraini, in modo che la loro resistenza possa portare i russi al tavolo delle trattative e indurli a un compromesso. Ma una guerra lunga, magari un anno come prevede Johnson, non logorerebbe soltanto i russi, come auspicato da Biden. Imporrebbe un alto prezzo di sangue agli ucraini, e un doloroso costo sociale agli europei. Non si tratta solo di spegnere i condizionatori d’estate; la crisi energetica minaccia interi settori, e posti di lavoro a centinaia di migliaia. È chiaro che non si può darla vinta a Putin. Ma non si può neppure smettere di parlare con lui. È quello che ha spiegato il Papa nell’intervista al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, offrendosi di partire per Mosca (senza trovare sinora una mano disposta a stringere la sua). È quello che sta facendo Emmanuel Macron, la cui rielezione - con buona pace dei nostri sovranisti - è stata positiva per l’Europa e per l’Italia. È quello che sta pensando di fare il cancelliere Olaf Scholz, che tra i leader occidentali è il più in difficoltà. Dell’eredità della Merkel, che ha rivendicato e raccolto, fa parte anche la dipendenza dell’industria tedesca dal gas russo. A complicare il quadro ci sono i due leader storici dell’Spd, il partito di Scholz: il presidente della Repubblica Steinmeier ha litigato con Zelensky per poi fare pace; l’ex Cancelliere Schröder - un signore che prese oltre venti milioni di voti, mentre Scholz non è arrivato a dodici - ora fa l’impiegato di Putin, e nonostante questo gli ucraini gli hanno affidato una mediazione rivelatasi inutile. Né finora hanno portato frutti altre mediazioni, che potrebbero però rivelarsi preziose: quella di Israele, che tra Russia e Ucraina affonda le proprie radici storiche - Golda Meir era nata a Kiev, il leader del sionismo Zabotinsky era di Odessa -; e quella di Erdogan (la Turchia è nella Nato ma non aderisce alle sanzioni contro Mosca). Insomma, i canali di dialogo esistono. Usarli non significa tradire gli ucraini, ma aiutarli, e nello stesso tempo proteggere gli interessi europei. Perché è l’Europa a pagare il costo delle sanzioni, dell’aumento dei prezzi del gas e del grano, della crisi dei profughi, che ovviamente vanno accolti. È sull’Europa che incombe il rischio dell’escalation nucleare. È all’Unione europea che toccherà, se come tutti auspichiamo l’Ucraina entrerà a farne parte, finanziare la ricostruzione. Siccome tra alleati ci si dice la verità, queste cose a Biden e a Johnson vanno dette. Putin è indifendibile. Ma i casi sono due: o si ha un golpe pronto, e la certezza che non finisca come quello del luglio 2016 contro il suddetto Erdogan, che quest’anno festeggia il ventesimo anniversario al potere; oppure è con Putin che si deve parlare. Da posizioni di forza: l’unico linguaggio che Vladimir Vladimirovic capisca. Zagrebelsky: “La gente chiede pace” di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2022 “Non nutro nessuna fiducia: la pace non è mai stata la dimensione dei potenti”. Il pessimismo del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky non avrà certo rincuorato Giuseppe Conte e i tanti 5stelle seduti di fronte a lui giovedì sera, durante la prima lezione della Scuola di formazione politica lanciata dal Movimento. Un incontro di un’ora e mezza sul tema “Etica e politica” in cui si alternano le voci di Zagrebelsky e del teologo Vito Mancuso. E se Mancuso si mantiene su un terreno più filosofico, il presidente emerito della Consulta fa invece chiari riferimenti alla guerra in corso in Ucraina, ammettendo di essere molto preoccupato dalla mancanza di un tavolo diplomatico e dallo scarso peso dell’Unione europea: “La guerra è la dimensione dei governanti. Gli umili, le masse, i senza potere non sono per la guerra, ma per la pace. Bisogna distinguere le cose che sono nei desideri di chi sta in alto da quelle che sono nei desideri di chi sta in basso. E la guerra è l’esempio più chiaro di questa distinzione, perché è voluta dai governanti e temuta dagli inermi”. Eppure il compito della politica sarebbe tutt’altro: “La ricerca della pace è la più politica delle attività politiche. In questo momento la politica dovrebbe mobilitare gli inermi a favore della pace. Non aspettiamoci niente di buono che arrivi in maniera spontanea dai potenti”. Secondo Zagrebelsky, l’Ue dovrebbe tener fede al suo ruolo indipendente tra gli Stati Uniti e le altre grandi potenze: “Deve essere terza. Ha senso solo nell’ambito di una differenziazione, solo se non si adegua e non si subordina a nessuno dei poli in campo. Deve avere la capacità di costruire una politica propria e di non essere al seguito degli Stati uniti. Altrimenti a cosa serve? Basterebbe avere degli ambasciatori Usa a darci le direttive”. Il contributo di Mancuso è invece una bussola valoriale. Un’elencazione di buoni principi per avvicinarsi alla migliore versione della relazione tra etica, appunto, e politica. A partire da un concetto: “Il rapporto tra etica e politica dipende dalla concezione di politica, non da quella di etica. Ognuno di noi sa bene che cos’è l’etica, che ha come oggetto il bene. Ci sono invece due concezioni della politica: individuazione e servizio del bene comune, e allora l’etica è organica a questa interpretazione, oppure la politica come ottenimento e gestione del potere, e allora l’etica non è necessariamente contemplata”. E di certo non basta l’etica a rendere qualcuno un buon politico, ma il suo ruolo non può essere sottovalutato: “Occorrono competenza, passione. Ma per me l’etica rimane un elemento essenziale”. Iran. “Forca!” urla il regime. “Perdono” risponde il popolo di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 7 maggio 2022 Vi racconto una storia. Trae inspirazione da un racconto Sufi, incipit del libro “La cura del perdono” di Daniel Lumera. La storia è questa: “Che cosa è il perdono?” chiese al maestro. Lui sorrise, prese un sasso, lo posò davanti alla sua allieva: “Il violento lo userebbe come arma per fare del male. Il costruttore ne farebbe un mattone su cui edificare una cattedrale. Per il viandante stanco sarebbe una sedia dove incontrare riposo. L’artista vi scolpirebbe il volto della sua musa. Chi è distratto ci inciamperebbe. Il bambino ne farebbe un gioco. In ogni caso la differenza non la fa il sasso, ma l’uomo. Con il perdono l’uomo sceglie di trasformare i sassi della vita in amore”. Sembra che questa corrente dell’Islam, che cura la dimensione spirituale interiore, costituisca, un po’ come il pensiero liberale, un’autentica assicurazione da ogni violenta e autoritaria rigidità teocratica, fideistica o legalitaria. Benevolmente prevalente nel cuore degli uomini, nonostante la malvagità dei poteri statali. Accanto a impiccagioni, amputazioni e altre orribili pratiche del regime dei Mullah, storie di segno diverso pure emergono dal 14° Rapporto di recente pubblicato da Iran Human Rights e dalla Coalizione mondiale contro la pena di morte. L’Iran è uno Stato che usa politicamente la religione a fini repressivi e reazionari. Eppure, i suoi cittadini sembrano nutrire un senso al contempo più evoluto e mite della giustizia. La Repubblica Islamica continua a primeggiare per numero di esecuzioni con le 333 compiute nel 2021 (sarebbero 371 secondo Nessuno tocchi Caino e 365 secondo Iran Human Rights Monitor), ancora copre col segreto i dati sulla pena di morte (solo il 16,5% delle notizie provengono da fonti ufficiali), ha mandato a morte ben 17 donne e continua a giustiziare minori al momento del fatto (2 nel 2021 secondo Iran Human Rights, 4 secondo IHRM e 7 secondo NTC) nonostante una consuetudine internazionale che lo vieti. Viceversa, in base a un sondaggio compiuto nel 2020, il 79% degli intervistati non sceglierebbe la pena retributiva per eccellenza, la morte dell’assassino, se un parente stretto venisse ucciso. Il dato, correlato alla preferenza per il perdono o la diya (prezzo del sangue), è impressionante. Ci sarebbero stati almeno 705 casi di questo genere, di gran lunga superiori ai 183 risoltisi con un’esecuzione. Il sistema funziona così: in caso di omicidio i parenti più prossimi della vittima possono optare per la qisas (retribuzione) e chiedere che il condannato sia giustiziato. In alternativa possono chiedere la diya (una somma a risarcimento) o semplicemente concedere il perdono senza nessun compenso. Il capo della magistratura fissa un importo indicativo annuale per la diya sulla base dell’inflazione e di altre considerazioni. Quest’anno, stabilita a marzo, la cifra è di 600 milioni di riyal (20.000 euro) per un uomo musulmano e 300 milioni di riyal per una donna musulmana, l a cui vita evidentemente vale la metà. La famiglia della vittima può comunque anche chiedere di più o di meno. La scelta del perdono o della diya rispetto alla opzione retributiva dell’esecuzione è un dato che Iran Human Rights rileva come prevalente dal 2015, anno in cui l’organizzazione ha iniziato a monitorare i casi di perdono, i quali potrebbero essere molto superiori ai numeri riportati. La prevalenza del perdono o della diya emerge anche geograficamente. Casi di perdono si sono registrati in tutte le 31 province iraniane, mentre la scelta della pena retributiva ha riguardato 27 province. Nella maggior parte delle province, i perdoni hanno superato le esecuzioni. Dietro queste opere di bene c’è sempre un vissuto che gli dà corpo. Nel 14° Rapporto di Iran Human Rights si racconta, ad esempio, di Maryam Kargardastjerdi, una donna di 42 anni che incontra un’altra donna, la madre di un condannato a morte, che cercava di raccogliere il denaro per pagare la diya e salvare così suo figlio. Maryam l’aiuta a completare la raccolta di denaro. Viene allora a conoscenza di altri casi. Se ne occupa e contribuisce a che ben 37 famiglie salvino i loro figli dalla forca. Lo ha fatto parlando con i parenti delle vittime e aiutando a raccogliere i fondi necessari. Maryam non è sola. In Iran, esiste ormai un vero e proprio “Movimento per il Perdono” che promuove anche il dibattito sull’abolizione della pena di morte. Il perdono è la cura amorevole che in Iran può contenere e superare la dura legge della sharia. Alla domanda “cos’è il perdono?” un altro maestro Sufi rispose: “è il profumo dei fiori, quando vengono schiacciati”. Un flusso d’amore, gratuito e unilaterale, che promana proprio da chi ha perso il bene più caro. Bielorussia. Condannata a sei anni di carcere la dissidente Sofia Sapega ilpost.it, 7 maggio 2022 Un tribunale bielorusso ha condannato a sei anni di carcere Sofia Sapega, cittadina russa che era stata arrestata insieme al fidanzato, il giornalista d’opposizione bielorusso Roman Protasevich, dopo il dirottamento di un aereo Ryanair su cui stavano viaggiando il 23 maggio dello scorso anno. Sapega è stata condannata con l’accusa di incitamento all’odio sociale e per aver diffuso illegalmente informazioni sulla vita privata di altre persone senza il loro consenso: quest’ultima accusa si riferisce a informazioni personali di politici e funzionari bielorussi, che secondo il tribunale Sapega avrebbe diffuso su Internet. Il processo nei confronti di Protasevich deve invece ancora iniziare. Il 23 maggio del 2021 Sapega e Protasevich stavano viaggiando su un aereo della compagnia Ryanair da Atene, dove si trovavano in vacanza, verso Vilnius, in Lituania, dove entrambi vivevano. L’aereo era quasi entrato nello spazio aereo della Lituania quando i controllori di volo bielorussi avevano avvisato i piloti di presunti esplosivi a bordo (esplosivi poi non trovati). L’aereo era stato così costretto a compiere una deviazione di circa 200 chilometri rispetto alla meta originale, e atterrare a Minsk, in Bielorussia. Una volta atterrati, Sapega e Protasevich erano stati arrestati. Sapega, che ha 24 anni, prima del dirottamento studiava all’università in Lettonia, dove aveva conosciuto Protasevich alla fine del 2020. Protasevich è uno dei fondatori del principale organo di informazione indipendente della Bielorussia, Nexta, molto critico nei confronti del regime autoritario del presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Viveva all’estero dal 2019 e pochi mesi prima del dirottamento era stato accusato dal regime bielorusso di “atti di terrorismo” per aver sostenuto le proteste contro Lukashenko, che governa dal 1994. Dopo il loro arresto, sia Protasevich che Sapega erano comparsi in alcuni video diffusi dalle autorità bielorusse e in cui sembravano confessare le presunte attività illegali commesse, molto probabilmente forzati dal regime. Bolivia. Libri oltre le sbarre: i detenuti più leggono e più la pena si accorcia di Marianna Grazi La Nazione, 7 maggio 2022 Il progetto “Books behind the bars” per promuovere l’alfabetizzazione tra i carcerati e permettere loro di sperare in un futuro migliore una volta usciti. Quando leggere per essere liberi non è più solo un modo di dire. I detenuti nelle carceri della Bolivia possono diminuire la loro pena di alcuni giorni e perfino settimane leggendo libri. Una notizia che scalda i cuori, anche quelli più aridi di comprensione e solidarietà verso le persone che, a causa di un errore, stanno trascorrendo parte della loro vita dietro le sbarre. E si richiama proprio a queste il programma in questione, come spiega il sito d’informazione AJ+, “Books Behind Bars”, che si ispira a un progetto simile realizzato in Brasile. Due obiettivi - Duplice l’obiettivo, ed entrambi nobili: promuovere l’alfabetizzazione e ad aiutare le persone a superare il periodo di detenzione. I partecipanti al programma leggono i libri e fanno test di comprensione della lettura per ottenere certificati che equivalgono a uno ‘sconto di pena’. Una detenuta, che aderisce a “Books Behind Bars” afferma: “Quando leggo, sono in contatto con l’intero universo. I muri e le sbarre scompaiono”. È esattamente questo ciò che un difensore civico locale sostiene sia l’obiettivo: anche se il periodo di detenzione ridotto non è molto, aiuta i carcerati a non sentirsi intrappolati mentre affrontano il lento sistema giudiziario del Paese. Detenuti lavoratori - “Ci sono persone qui, per esempio, che stanno imparando a leggere - prosegue la detenuta ai microfoni di AJ+ -. Che entrano [in prigione] senza saper né leggere né scrivere. Books Behind Bars ci dà l’opportunità di imparare a farlo”. Per ogni libro letto, i carcerati di solito ricevono un certificato di 40 ore di tempo libero. Ma la lunghezza del libro può anche cambiare il numero di certificati che ottengono. Gli ‘ospiti’ delle carceri boliviane sono anche costretti a procurarsi da mangiare e a pagare le spese processuali. Per questo lavorano per alcuni clienti fuori dalla prigione, cucinando, lavando e cucendo per loro, e guadagnano circa 1 dollaro all’ora. “Il momento prima puoi avere dei libri con te e quello dopo possono sparire mentre stai lavorando - spiega un’altra carcerata -. Le persone qui buttano via i libri, o possono bruciarli o semplicemente portarli via, perché sanno che li amiamo. Ecco perché è un grande sacrificio creare un legame con questi volumi in un posto come questo”. Una speranza di vita - Più di 800 detenuti fanno parte del programma, che è stato lanciato in 47 prigioni che non dispongono di fondi per l’istruzione, la reintegrazione o programmi di assistenza sociale. Nadia Cruz, un difensore civico, dichiara: “Abbiamo visto la situazione nelle carceri, al di là di come si vede fuori, con tutti i problemi e le lamentele che esistono nelle nostre prigioni. Ci sono donne e uomini con pochissima speranza di vita o di sviluppare i loro progetti di vita”. I carcerati nelle prigioni in Bolivia superano del 270% la capacità massima a causa della lentezza del sistema giudiziario. Per questo anche solo dare loro la possibilità di sognare un’altra vita, immergendosi nel fantastico mondo delle parole scritte, e la possibilità con esse di realizzare questo sogno, è un piccolo grande traguardo. E un punto di partenza, perché non è mai troppo tardi per ricominciare. Aborto negli Usa, le libertà da accudire di Nancy Fraser* La Repubblica, 7 maggio 2022 La Corte Suprema ridiscuterà la sentenza Roe vs. Wade, e altre conquiste storiche sono ora a rischio. Un documento trapelato rivela che la maggioranza dei giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti si sta preparando ad abolire il diritto all’aborto. Il documento è una bozza dell’opinione di maggioranza che, se debitamente votata, rovescerebbe la “Roe vs. Wade”, la storica sentenza del 1973 che ha sancito la libertà della donna di scegliere di abortire senza eccessive limitazioni da parte del governo. Questa potenziale decisione - che rovescerebbe un diritto fondamentale, radicato negli Stati Uniti da cinquant’anni - è scioccante ma non sorprendente. Il cambiamento della Corte è avvenuto a causa di una violazione costituzionale, che ha dato a Donald Trump la rara possibilità di nominare tre nuovi giudici in un mandato di quattro anni. Una di queste nomine avrebbe dovuto essere fatta da Barack Obama, ma il Senato, controllato dai repubblicani, ha rifiutato di prendere in considerazione il suo candidato. Il risultato è già una grande débâcle, ancora prima di qualsiasi sentenza effettiva della Corte. Per un motivo: mancando la sua aura semi-sacra come ramo di governo che dovrebbe essere “al di sopra della politica”, la legittimità della Corte Suprema è ora in discussione. Questo è un altro colpo a un sistema democratico a brandelli, macchiato non solo da razzismo strutturale di lunga data e dalla strategia di voter suppression, ma anche da nuove incertezze se i risultati delle elezioni saranno rispettati e se i trasferimenti di potere si effettueranno pacificamente. A un altro livello, però, la bozza trapelata mostra che anche nelle autoproclamate democrazie liberali i diritti fondamentali delle donne non sono sicuri. Tali diritti, ora lo vediamo chiaramente, possono essere revocati in un istante, anche quando sono rimasti in vigore per molti decenni e godono di un ampio sostegno popolare. La lezione è che il mantenimento delle libertà duramente conquistate richiede sforzi continui, da parte di movimenti sociali, intellettuali, sindacati, associazioni professionali, organizzazioni comunitarie e partiti politici. La débâcle si estende anche a un livello più profondo. Se porta indietro l’orologio sull’autonomia personale delle donne, la Corte aprirà la strada anche ad altre inversioni di rotta - sui diritti Lgbtq+ e trans, sulla discriminazione razziale, etnica e di genere, e sulle libertà civili più in generale. Tutti questi sono diritti di autonomia personale e di libertà uguali per tutti, che hanno lo scopo di proteggere la libertà di azione individuale di tutti. Tali diritti hanno una lunga storia. Alcuni di essi hanno preso forma in epoca medievale sotto forma di “libertà di coscienza”; altri si sono sviluppati dalla coniuratio delle città italiane medievali, dove si rifugiavano i servi della gleba in fuga dai possedimenti feudali. La Corte, quindi, minaccia di abortire una storia secolare di rivoluzione morale e giuridica. E c’è di più. Quella stessa storia ci ha insegnato che la rivoluzione morale e legale non può essere attuata senza una trasformazione sociale e politica - che i diritti sulla carta non possono diventare libertà reali senza i mezzi materiali necessari per esercitarli - né senza un’uguale voce politica necessaria per formularli. Quindi, la libertà liberale richiede uguaglianza sociale e politica. Il problema dell’aborto illustra questo punto. Che cosa significa il diritto all’aborto se non esistono cliniche che lo forniscono? Come si può esercitare il diritto se la procedura non è coperta dall’assicurazione sanitaria? Come può il diritto esprimere principi più ampi di “libertà e giustizia riproduttiva” se non è abbinato al sostegno al reddito e alla fornitura di assistenza all’infanzia? Come può l’aborto essere una scelta genuina se mancano i supporti sociali e i mezzi materiali per crescere un bambino? Come può essere un diritto uguale per tutti in assenza di politiche ampie ed efficaci per superare la povertà e il razzismo? Non sorprende quindi che la rivoluzione morale volta a garantire la libertà sia diventata una rivoluzione sociale e politica nel XX secolo. La questione della libertà incombe anche a livello internazionale, dove pure si applicano i principi di uguale autonomia e giustizia. Siamo tutti consapevoli degli orribili eventi che si svolgono a poche centinaia di chilometri da qui; e comprendiamo il principio dell’autonomia nazionale, che è in gioco in Ucraina. Ma è anche vero che l’autonomia nazionale deve includere principi di libertà individuale, di giustizia sociale e di pari voce politica, anche per le minoranze nazionali. Come sostenuto da Jürgen Habermas, autonomia personale e autonomia pubblica sono due facce della stessa medaglia. Considerate le notizie dagli Stati Uniti, e le notizie dalla Russia e dall’Europa dell’Est, devo confessare che sono colpita dalla fragilità delle nostre libertà e dalla possibilità, fin troppo reale, di perderle. *Filosofa e teorica femminista