Vite in ergastolo a cura della redazione di Ristretti - Parma coordinata dalla giornalista Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2022 Alla vigilia dell’approvazione della proposta di legge di riforma dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, sollecitata dalla Corte costituzionale, e in considerazione degli sviluppi della cultura della giustizia riparativa, desideriamo condividere alcune riflessioni e tanti dubbi sorti all’interno della a nostra redazione di Alta Sicurezza 1 del penitenziario di Parma. Noi siamo nove persone condannate alla pena dell’ergastolo. Siamo assolutamente consapevoli di aver recato un danno grave e irrimediabile alla società, alle famiglie delle nostre vittime e anche alle nostre famiglie. Siamo reclusi da diverse decine di anni. Alcuni di noi hanno incontrato la violenza di Stato durante la reclusione a Pianosa e all’Asinara nel regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario Per differenti ragioni tutti abbiamo scelto la strada difficile della non-collaborazione. Tuttavia nel corso degli anni abbiamo modificato completamente il nostro rapporto con le istituzioni: abbiamo studiato, ci siamo iscritti all’università, partecipiamo alle attività che gli istituti propongono. Tutte le volte che ci è stato richiesto abbiamo offerto testimonianza della nostra vita e del nostro personale fallimento. Al momento della revoca del regime di cui all’art. 41-bis OP per ognuno di noi è stata accuratamente verificata l’assenza di collegamenti con i gruppi criminali di appartenenza. Le nostre famiglie sono costantemente monitorate dagli organi di prevenzione sia sul piano dei possibili collegamenti con gruppi criminali che sul piano economico e patrimoniale. Abbiamo ottime relazioni di sintesi dalle direzioni degli istituti in cui siamo stati reclusi. Alcuni di noi hanno ottenuto anche il riconoscimento dell’impossibilità di collaborazione. Inoltre alcuni nostri familiari si sono resi disponibili a testimoniare pubblicamente la fatica delle nostre storie, non si sono sottratti a un faticoso confronto pubblico e nemmeno alle testimonianze scritte. Infine c’è stata la pronuncia della Corte di Strasburgo con la sentenza Viola che dichiara illegittimo l’ergastolo ostativo e allo stesso modo si è pronunciata la Consulta nel 2019 e poi nel 2021. Ma niente è cambiato. Quindi ci chiediamo costantemente cosa manca per aprirci uno spiraglio, per pensare a un progetto di vita vera? Ciro Bruno, Aurelio Cavallo, Claudio Conte, Antonio Di Girgenti, Salvatore Fiandaca, Antonio Lo Russo, Giovanni Mafrica, Domenico Papalia, Gianfranco Ruà Ergastolo, il Senato si appella alla Consulta: “Dateci più tempo” di Angela Stella Il Riformista, 6 maggio 2022 Il 10 maggio la Corte si riunirà per valutare la riforma del 4bis approvata dalla Camera. Però Palazzo Madama vuole modificarla, così ha chiesto ai giudici di rinviare l’esame per scongiurare la bocciatura. Il 10 maggio la Corte Costituzionale, in udienza pubblica, tornerà a riunirsi per decidere sulla questione di legittimità costituzionale, di cui all’ordinanza n. 97 del 2021, relativa alla norma sull’ergastolo ostativo. Il 15 aprile dello scorso anno la Consulta, pur ritenendo l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione, aveva concesso al Parlamento “un congruo tempo per affrontare la materia”: per la precisione, appunto, un anno per elaborare una nuova legge che tenesse insieme esigenze di sicurezza e lotta alla criminalità organizzata con il diritto alla speranza di accedere alla liberazione condizionale anche per i detenuti ostativi non collaboranti con la giustizia, quando il loro ravvedimento risulti sicuro. Mentre “compito di questa Corte - si leggeva nell’ordinanza - sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”. Eppure il Parlamento ha fallito: perché la nuova norma è stata apsolo alla Camera lo scorso 31 marzo. Ora è in discussione nella Commissione giustizia del Senato ma al tema sono state dedicate poche sedute e non si farebbe mai in tempo a concludere entro lunedì; soprattutto considerando che è comune a diversi senatori, in primis a Pietro Grasso di Leu, la necessità di modificare il provvedimento approvato a Montecitorio. E per fare questo si è deciso due giorni fa, d’accordo con i relatori Franco Mirabelli del Pd e Pasquale Pepe della Lega, di chiedere dei pareri scritti a degli esperti che esprimano valutazioni sul testo licenziato alla Camera. Un modo per velocizzare rispetto al percorso delle audizioni. Tutto ciò significa che occorrerà un nuovo passaggio nell’altro ramo del Parlamento. Questa scenario appare dunque incompatibile con i paletti temporali fissati dalla Consulta. E allora che succede? Una possibile via d’uscita arriva sempre dal Senato: due giorni fa la Commissione Giustizia ha votato all’unanimità, con il favore del Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, l’auspicio che la Corte costituzionale possa rinviare la trattazione per consentire di finire il lavoro. Auspicio che poi è stato inviato anche all’Avvocatura dello Stato che ieri ha trasmesso la richiesta ai giudici della Consulta. Cosa può fare ora la Corte? Non vanificare il lavoro fatto fino ad ora dal Parlamento e dunque accettare la richiesta dell’Avvocatura dello Stato concedendo qualche altro mese di tempo per concludere l’iter oppure dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma, che darebbe anche un bel segnale a questo Parlamento. Viviamo in una bara nell’attesa di essere sepolti di Giuseppe Grassonelli* Il Riformista, 6 maggio 2022 Alla fine di marzo è “evaso” dal carcere di Opera un altro detenuto, morto di - come si dice - “morte naturale”. Ma nessuna morte in galera può essere detta “naturale”. Alfio Laudani aveva settantasei anni ed era gravemente malato. Stava scontando diverse condanne all’ergastolo e ogni mese partecipava in stampelle al laboratorio di Nessuno tocchi Caino. All’ultimo, a metà aprile, non si è presentato. I suoi compagni detenuti lo hanno commemorato con parole commosse che riecheggiano in questo scritto. Quando Virginia Woolf scrisse Al faro, aveva in mente un’elegia che portasse con sé il sapore della vita che si perde. Dopo trent’anni di carcere, io sono giunto alla conclusione che noi tutti riusciamo davvero a raccontare solo quello che perdiamo, affidando alla parola il tentativo di trattenere il tempo. Si tratta di un tentativo disperato, affermerebbe qualcuno, ma noi siamo Spes contra spem e con questo nome, sotto l’egida di Nessuno tocchi Caino, ci incontriamo da anni nel Carcere di Opera. Ci narriamo di un tempo che non ci appartiene più, un passato dal quale ci siamo emancipati, e a questo sovrapponiamo i decenni di reclusione, tirando le somme con i giorni appena trascorsi. L’ultimo laboratorio si è aperto con la commemorazione di un nostro caro compagno, venuto a mancare a marzo. Sergio D’Elia, il nostro Segretario, ha aperto le riflessioni dicendo che il cuore si ferma quando non c’è l’amore, perché non gli è concesso di amare ed essere amato. Si può, infatti, essere vivi solo nel rapporto con l’altro e ognuno è delegato a rappresentare la vita solo nella misura in cui ama ed è riamato. In altre parole, l’unica obiezione che possiamo muovere al tempo che se ne va è l’amore, che è come un calco capace di imprimere con il ricordo una pergamena che scorre inesorabile. Il nostro racconto si allunga dei giorni trascorsi e con essi cresce il numero dei compagni che in carcere hanno perso la vita e che vogliamo ricordare. Ciò che più ci rattrista è che in noi sia subentrata una certa abitudine alla morte, consapevoli di abitare in un cimitero vivente, pronti alla bisogna, sapendo che domani l’ennesimo sacco nero accompagnato da sguardi vuoti attraverserà il corridoio della sezione, portando via nel silenzio assordante un altro detenuto. Noi non abbiamo nulla e siamo privati anche del possesso del tempo: non possiamo fare programmi per domani, non sappiamo quando ci sarà una lezione o un laboratorio, gli incontri li sappiamo quando accadono. Viviamo in regime di completa espropriazione del tempo, eppure abbiamo una certezza: domani il sepolcreto tornerà ad animarsi della morte e la sua porta si spalancherà per un’altra vittima. A ogni gesto, la prigione recita al detenuto il suo memento mori con la negazione degli utensili più banali, con l’impossibilità di una vita affettiva e sentimentale, col divieto di umanità. È un’impresa sbucciare una mela o trovare una superficie che rifletta per radersi senza tagliarsi con un rasoio in momentanea concessione. In carcere non ci si specchia in nessun modo. La filosofia mi ha insegnato che noi ci specchiamo negli amici e negli affetti, attraverso quelle relazioni di cui parlava Sergio. L’immagine che di noi vediamo nell’altro, diverso da noi, ci consente di evadere dalla prigione del nostro essere. “Non siamo forse tutti prigionieri?”, diceva Virginia Woolf attraverso Mrs Dalloway. Sì, siamo tutti prigionieri - rispondo io - ed è per questo che abbiamo un vitale bisogno di amare, ma in carcere un detenuto può solo guardarsi negli occhi di un altro uomo recluso come lui e lì trovare il riflesso della sua stessa prigionia: viviamo in una bara. Dalla parte opposta, si dice che la giustizia debba preservarsi dalle emozioni e dai sentimenti, essere asettica e razionale come una scienza. Ma - vi domando - come può dirsi giusta una giustizia che disconoscendo la pietas si veste della freddezza che nel linguaggio quotidiano si attribuisce agli omicidi? Portare testimonianza sulle morti dei compagni detenuti è un nostro dovere morale, lo abbiamo sempre fatto nel modo migliore che ci era dato e non avremmo potuto non farlo. Noi detenuti siamo i superstiti, i testimoni di una conoscenza di cui siamo diventati consapevoli a poco a poco. Siamo una minoranza insolita e minuscola, quelli che per capacità o per una strana sorte sono ancora vivi perché non hanno raggiunto il fondo o forse, banalmente, perché siamo stati arrestati giovanissimi. Dice un verso di Cristina Campo che “non si può nascere ma si può restare innocenti”. Quei ragazzi criminali arrestati trent’anni fa hanno appreso che colpevoli si può diventare, ma qualche verso dopo Cristina scrive: “Non si può nascere ma si può morire innocenti”. Ecco noi non sappiamo ancora credere che la colpa si possa perdere e si possa morire innocenti. *Ergastolano detenuto a Opera Stato di inciviltà di Alessio Scandurra Left, 6 maggio 2022 Celle sovraffollate e invivibili, spazi comuni inadeguati, mancanza di luoghi per il lavoro e la socialità, fondamentali per il fine rieducativo della pena. Dal XVIII rapporto dell’associazione Antigone emerge un quadro inaccettabile delle carceri italiane. Con "Il carcere visto da dentro", l’ultima edizione del rapporto annuale di Antigone sulle condizioni di detenzione, diamo conto del lavoro di osservazione, ma anche di altre attività, svolte dalla nostra associazione nel corso dell’anno precedente. Anche quest’anno nel XVIII rapporto si sono presentati molti dati, ricavati sia dalle fonti ufficiali, ed in particolare dall’Ufficio statistico del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sia dai dati che i nostri osservatori hanno raccolto durante le visite di monitoraggio fatte in 96 carceri nel corso del 2021. I numeri delle presenze I dati ufficiali anzitutto ci dicono che il totale dei presenti, drasticamente sceso durante il primo anno della pandemia, è tornato a crescere. Si è passati dalle 53.364 presenze della fine del 2020 alle 54.134 della fine del 2021. A fine marzo i detenuti nelle nostre carceri erano 54.609. Le donne erano 2.276, il 4,2% dei presenti, gli stranieri 17.104, il 31,3% dei presenti. Il tasso di affollamento ufficiale medio era del 107,4%, ma entrambi questi aggettivi, ufficiale e medio, vanno tenuti ben presenti. Ufficiale, perché nei fatti, a causa di piccoli o grandi lavori di manutenzione, la capienza reale degli istituti è spesso inferiore a quella ufficiale. Solo in Toscana ad esempio al “Gozzini” di Firenze sono in corso da diverso tempo dei lavori di ristrutturazione finalizzati a dotare di docce e acqua calda le celle della seconda sezione. A "le Sughere" di Livorno sono stati avviati lavori di ristrutturazione che porteranno all’apertura di otto nuove sezioni e al raddoppiamento della popolazione penitenziaria presente in istituto, che non a caso al momento presenta un tasso di affollamento ufficiale del 67%, poco più della metà di quello nazionale. Il tasso di affollamento reale è dunque certamente più alto. Va inoltre sempre tenuto presente che, se 107,4% è il tasso ufficiale medio di affollamento, in alcune regioni il tasso di affollamento medio è decisamente più alto (Puglia: 134,5%, Lombardia: 129,9%) mentre alcuni istituti presentano tassi di affollamento analoghi a quelli che si registravano al tempo della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Per restare in Lombardia, a fine marzo l’affollamento a Varese era del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165% e a Brescia "Canton Mombello" addirittura del 185%. Dati, come si vede, molto lontani dalla media nazionale. Il dato delle presenze è da tempo oscillante. Ad una costante tendenza alla crescita si sono contrapposti in diversi momenti misure e sforzi straordinari per contenere il ricorso al carcere. È stato così ad esempio ai tempi della citata condanna all’Italia da parte della Cedu nel gennaio 2013, e di nuovo di recente a causa della pandemia, ma la tendenza di fondo, che torna sempre a vanificare questi sforzi, resta quella di una più o meno rapida crescita. Nel frattempo, si è registrato un innalzamento dell’età media della popolazione detenuta. I detenuti con meno di 40 anni di età, che sono stati a lungo maggioranza tra la popolazione detenuta, dal 2015 sono minoranza, una percentuale che al 31 dicembre 2021 si fermava al 45%. Gli over 40 erano dunque il 55%, gli over 60 il 9.5% mentre 10 anni prima non arrivavano nemmeno al 5%. È cambiata anche la posizione giuridica dei detenuti, nonostante l’andamento oscillante delle presenze. Da tempo infatti si registra una costante tendenza alla riduzione del ricorso alla custodia cautelare e dunque in proporzione alla crescita tra i presenti di persone con una condanna definitiva. Erano il 69,6% dei presenti al 31 dicembre 2021, mentre 10 anni prima erano il 56,9%. Una crescita di 10 punti percentuali in 10 anni. E queste condanne definitive sono sempre più lunghe. Tra i presenti al 31 dicembre 2021 avevano subito una condanna definitiva uguale o superiore a 5 anni il 50% dei detenuti. Questa percentuale 10 anni prima era del 40%. Il 29% aveva subito una condanna a 10 o più anni. Erano il 21% nel 2011. I detenuti sono dunque sempre più in là con gli anni, con tutte le implicazioni che questo comporta sia in termini di domanda di salute sia in termini di opportunità di inserimento. Sono sempre più spesso definitivi e scontano condanne sempre più lunghe. Per guardare invece agli spazi in cui le persone detenute scontano queste pelle, facciamo riferimento anzitutto ai dati raccolti negli istituti visitati nel 2021 dal nostro osservatorio. Si tratta di un campione, sostanzialmente casuale, di 96 istituti penitenziari sui 189 al momento in funzione, un campione assolutamente significativo, superiore al 50%. Il regolamento di esecuzione del 2000 prescriveva che le "camere detentive" fossero dotate di doccia, riscaldamento adeguato ed acqua calda. In molti degli istituti da noi visitati ci sono ancora celle che non rispettano queste condizioni. Ma come si vede abbiamo osservato anche dell’altro. Per quanto appaia incredibile ed anacronistico, nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non è in un ambiente separato, isolato da una porta, ma in un angolo della cella. A Carinola ad esempio, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo ed il letto. A San Severo in Puglia il bagno è separato dal resto della stanza esclusivamente tramite pannello dell’altezza di circa 3 metri. Da segnalare inoltre il fatto che, nel 25% degli istituti visitati, abbiamo trovato celle in cui non apparivano garantiti 3 metri quadri calpestabili per ciascun detenuto, creando condizioni di affollamento evidentemente invivibili. Ma un carcere non è fatto solo di celle, e la qualità della detenzione, e la sua capacità di influire positivamente sul percorso trattamentale della persona, dipende anche dalle caratteristiche degli spazi comuni. Anche questi purtroppo spesso inadeguati. In più di un terzo degli istituti i detenuti non hanno accesso settimanalmente alla palestra o al campo sportivo. Generalmente perché questi non ci sono o non sono agibili. Non a caso se si guarda solo ai 47 istituti situati all’interno di un contesto urbano (generalmente quelli più vecchi) non è garantito l’accesso settimanale alla palestra nel 38% dei casi e al campo sportivo addirittura nel 51% dei casi. Mancano spazi per le lavorazioni nel 32% degli istituti che abbiamo visitato, percentuale che sale al 45% negli istituti più vecchi, e nel 17% degli istituti visitati ci sono sezioni che non hanno spazi per la socialità. Chi può esce dalla sezione per andare a svolgere qualche attività, mentre gli altri se va bene passeggiano nel corridoio, altrimenti passano in cella tutta la giornata. Infine nel 35% degli istituti visitati mancava o non era in funzione un’area verde per i colloqui all’aperto con i familiari. Le condizioni di detenzione indegne descritte sopra, assieme ad una offerta di attività lavorative, formative, sportive e culturali del tutto inadeguata, oltre a gettare un’ombra inquietante sul livello di legalità nel nostro Paese, hanno anche una prevedibile conseguenza pratica: il fallimento della finalità rieducativa della pena. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato in precedenza 5 o più volte. In altre parole, le persone tornano troppo spesso in carcere, immaginiamo tutt’altro che volentieri. E quello che chiamiamo sovraffollamento è probabilmente anche il frutto dell’inadeguatezza dell’offerta trattamentale e di una carcerazione che acutizza i problemi anziché risolverli. Braccialetti elettronici: Antigone chiede i dati, ma il Viminale li nega di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 maggio 2022 Mancano indicazioni sull’efficacia del dispositivo, i numeri sulle violazioni della misura e sulla recidiva. L’associazione ha fatto richiesta al ministero dell’Interno, che non ha fornito le informazioni per motivi di sicurezza. L’esperienza inglese ha mostrato come il controllo elettronico con braccialetti e cavigliere non abbia prodotto effetti di deflazione penitenziaria, ma abbia piuttosto contribuito alla crescita complessiva del numero di persone soggette a controllo penale. Così scrive Antigone nel suo XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione, partendo dalla domanda sull’effettiva capacità delle forme di controllo elettronico di incidere significativamente sulle presenze in carcere. Dal 2014 al 2021 sono stati 5.625 i provvedimenti con braccialetti elettronici - Come spiega Antigone nella premessa, il braccialetto elettronico può venire impiegato in diversi modi come strumento di controllo all’interno del sistema penale. Può venir imposto dal magistrato a persone che si trovano in misura cautelare agli arresti domiciliari oppure a persone già condannate che stanno scontando la pena in detenzione domiciliare. All’interno di quest’ultimo insieme, può essere prescritto come controllo continuativo, anche durante la permanenza in casa, oppure da indossare solamente in quei momenti della giornata in cui la persona ha il permesso di allontanarsi dall’abitazione. “Se guardiamo alla sola esecuzione della pena in detenzione domiciliare, dal 2014 al 2021 sono stati 5.625 complessivamente (ovvero in entrambe le forme sopra menzionate) i provvedimenti con controllo elettronico”, scrive Antigone. L’impennata sull’utilizzo nel 2020 per far fronte all’emergenza sanitaria - Una vera impennata si registra nel 2020 (quando si passa a 2.605 provvedimenti dai 251 del 2019), anno nel quale il decreto cosiddetto Cura Italia per far fronte all’emergenza sanitaria ha ampliato - seppur con molte cautele, precisa Antigone - la possibilità di accesso alla detenzione domiciliare con l’ausilio del controllo elettronico, promettendo di mettere a disposizione circa 5.000 dispositivi, di cui 920 immediatamente. Già in calo i numeri del 2021, che vedono 1.897 applicazioni. Nel complesso, osserva Antigone nel rapporto - “possiamo dire che il braccialetto ha forse favorito la concessione di qualche centinaio di provvedimenti di uscita dal carcere, ma di certo non ha prodotto effetti deflattivi su larga scala”. Per quanto riguarda invece le imposizioni del braccialetto elettronico durante la misura cautelare degli arresti domiciliari ex art. 284 e art. 275-bis (introdotto dal decreto legge 341/2000, convertito dalla legge 4/2000) del codice di procedura penale, esse sono state 2.618 nel 2020, 2.753 nel 2019 e 2.840 nel 2018. Una percentuale che si attesta intorno al 3% del totale delle misure cautelari coercitive in Italia e al 12% del totale degli arresti domiciliari. L’altro tema è sui costi, che interroga intorno alla convenienza ed effettività della misura. Dopo alcune traversie iniziali con Telecom e costi elevatissimi, nel 2018 a seguito di una procedura di gara europea Fastweb si è aggiudicato l’appalto per fornire nel triennio 2018-2021 circa 1.000 braccialetti al mese per una cifra di circa 23 milioni di euro complessivi. In realtà le attivazioni sono state ben inferiori, ma ciò - forse - sarebbe dipeso dalle decisioni delle autorità giurisdizionali competenti. Il ministero dell’Interno ha negato i dati ad Antigone - Oltre ai numeri effettivi dei braccialetti attivati, abbiamo indicazioni intorno all’efficacia del braccialetto elettronico, quali dati sulle violazioni della misura e sulla recidiva? La riposta è no, per mancanza di trasparenza. Non aiuta a tal fine una risposta del Ministero degli Interni, Direzione Centrale dei Servizi Tecnico-Logistici e della Gestione Patrimoniale, che di fronte a una domanda di accesso civico generalizzato promossa da Antigone non ha voluto fornire le informazioni richieste. Si legge nel rapporto che Antigone aveva chiesto di conoscere il numero di dispositivi elettronici attualmente a disposizione dell’Autorità giudiziaria, il numero di quelli attualmente in utilizzo per provvedimenti di arresti domiciliari e di detenzioni domiciliari, il numero di dispositivi non funzionanti, eventuali manomissioni o trasgressioni della misura del braccialetto elettronico, il numero di braccialetti elettronici utilizzati per il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Il Ministero ha negato le informazioni sostenendo che la pubblicazione delle stesse avrebbero configurato un “pregiudizio concreto alla tutela degli interessi-limite inerenti alla sicurezza pubblica e all’ordine pubblico tutelati dall’articolo 5-bis, comma 1, lettera a) del ‘decreto trasparenza’”. Anche Il Dubbio, a suo tempo, aveva richiesto i dati per l’inchiesta sui braccialetti elettronici: nessuna risposta. Antigone osserva che non è affatto facile intravedere un legame tra i dati richiesti e i motivi di sicurezza addotti. “Una risposta dunque del tutto non convincente, che sembra configurare solamente un’inutile mancanza di trasparenza”, denuncia l’associazione nel rapporto. La Conferenza Unificata sancisce due accordi per minori e adulti del circuito penale di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 6 maggio 2022 Il 28 aprile, la Conferenza Unificata ha sancito due accordi tra Governo, Regioni, le Province Autonome di Trento e Bolzano e gli Enti Locali per la realizzazione di un sistema integrato volto a favorire l’inclusione sociale dei condannati in esecuzione penale; delle persone ammesse alle sanzioni penali sostitutive; degli indagati e imputati con provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova e delle persone sottoposte a misura di sicurezza, minorenni e adulti. Le amministrazioni che hanno aderito agli accordi collaboreranno per la realizzazione di programmi di reinserimento socio lavorativo dei soggetti coinvolti, tramite la costituzione di percorsi di inserimento lavorativo, istruzione e formazione lavoro. Tali percorsi dovranno prevedere indennità a favore dei partecipanti, fornire assistenza alle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà personale e alle loro famiglie, percorsi di recupero e sostegno per i soggetti che fanno uso di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche. Particolare rilievo assume l’accordo che sancisce l’istituzione di strutture comunitarie residenziali socio-sanitarie per i minori sottoposti a provvedimenti penali che manifestano problematiche di natura psichica o da dipendenza, rispetto alle quali attualmente si riscontra una carenza nell’offerta nei servizi e che evidenziano una crescente incidenza nei minori e nei giovani adulti in carico ai servizi della giustizia minorile. L’accordo prevede l’elaborazione e la definizione di un piano nazionale e l’attivazione di almeno 3 strutture comunitarie sperimentali - bacino interregionale nord, centro e sud Italia di tipo socio sanitario ad alta intensità sanitaria dove inserire minori e giovani adulti in carico ai servizi socio-sanitari ed ai servizi della giustizia minorile, gestite in collaborazione con i servizi minorili della giustizia. Grasso (ex Anm): “Molte toghe sciopereranno tappandosi in naso” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 maggio 2022 All’interno della magistratura cresce il no all’astensione. Lo pronunciano figure di spicco come l’ex presidente Anm Grasso e schiere di giudici che diffondono documenti. Come quello che alcuni propongono di affiggere alla porta del proprio ufficio e dove c’è scritto “io non sciopero”. Scioperare “turandosi il naso”. Una frase che riporta subito la memoria alla vigilia delle elezioni politiche 1976, quando il Partito comunista sembrava essere in procinto di sorpassare la Dc e conquistare il potere. “Turatevi il naso ma votate Dc”, scrisse allora Indro Montanelli, invitando così gli italiani a dare la preferenza alla tanto vituperata ‘balena bianca’ piuttosto che al partito di Enrico Berlinguer, in quel momento un potenziale pericolo per la giovane Repubblica italiana. A distanza di quasi cinquanta anni, sembra essere questo lo stato d’animo maggiormente diffuso fra le toghe in vista della giornata di astensione dalle udienze del prossimo 16 maggio, proclamata da parte dell’Associazione nazionale magistrati per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia. “Dovremmo scioperare per una riforma tutto sommato di bandiera” che “non sconquasserà la magistratura” e “quando siamo ai minimi storici di credibilità? Non sono d’accordo”, afferma a tal proposito l’ex presidente Anm Pasquale Grasso in una intervista all’Adnkronos. Si tratta di uno sciopero, prosegue Grasso, “indetto fuori tempo massimo” e che “lascia l’impressione amara di una volontà di mera rappresentazione. Proprio per questo motivo, molti magistrati, aggiunge l’ex capo Anm, sciopereranno “turandosi il naso”, avendo “paura di un boomerang da scarsa partecipazione” e perché “non possiamo apparire divisi all’esterno”. Grasso, infine, ricorda che lo sciopero si fonda su un casus belli debole. “Scioperiamo perché? Scioperiamo per gli avvocati nelle nostre valutazioni di professionalità? Mi pare ipotesi residualissima e congegnata in maniera che non pare lesiva delle giuste prerogative dei magistrati”, puntualizza. Sul punto Grasso ricorda l’approccio dei colleghi progressisti: “La corrente di Area che sciopera per questo motivo mi fa sorridere, visto che la partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità è una risalente e reiterata richiesta di quella corrente”. “Mi pare una protesta di mera facciata. Il sistema correntizio è ancora in piedi e si rafforzerà con questa riforma”, afferma al Dubbio il giudice di Ragusa Andrea Reale, esponente di Articolo 101, il gruppo “anticorrenti”, che ha già fatto sapere di non aderire allo sciopero. “Ritengo sia una grande ipocrisia protestare soltanto con una giornata di astensione, quando si è rimasti inerti per mesi davanti a modifiche normative che snaturano la giurisdizione oltre che i principi costituzionali che ne costituiscono l’ossatura”, aggiunge Reale. “Condivido l’analisi del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia sulle criticità della riforma ma ho molte perplessità per una iniziativa, lo sciopero, che non verrà certamente compresa dall’opinione pubblica”, è il commento rilanciato al Dubbio del consigliere di Cassazione Roberto Conti, direttore editoriale di Giustizia Insieme, la piattaforma online nata come luogo di confronto fra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile. Se quindi non si possono fare previsioni sulla partecipazione delle toghe allo sciopero, diversi magistrati, non etichettabili in alcun gruppo associativo, hanno iniziato a diffondere un volantino da apporre sulla porta del proprio ufficio per segnalare alle parti, avvocati e cittadini, che non vi aderiranno. “A tre anni dal disvelamento del “sistema Palamara” nessuna proposta concreta per risolvere i problemi della magistratura è stata avanzata dall’Anm”, esordisce il documento. “La vera minaccia all’indipendenza della magistratura - prosegue - è costituita dallo strapotere delle correnti, che hanno condizionato e continuano a condizionare la vita del magistrato, giudicante e requirente. Siamo fermamente contrari a una riforma che NON risolve il nodo centrale del sistema elettorale del Csm, che continuerà ad essere dominato dalle correnti”.Per le toghe promotrici del documento si tratta di “una riforma che, nel complesso, tradisce il suo stesso proposito, finendo, in una sorta di eterogenesi dei fini, per aumentare il potere dei gruppi”. “Tuttavia - conclude il volantino - NON possiamo unirci a una forma di protesta che riteniamo solo di facciata, perché indetta da quella stessa Anm che nulla ha fatto per combattere le degenerazioni correntizie e che trarrà solo vantaggi dalla riforma. Chiediamo che si metta mano, una volta per tutte, ai veri problemi della magistratura”. L’iniziativa del volantino segue l’appello “Né con l’Anm, né con la Cartabia” che era stato firmato nei giorni scorsi da una cinquantina di magistrati di diversi uffici giudiziari del Paese. Anche in questo caso si accusavano i vertici dell’Anm di non aver fatto nulla per risolvere il problema del correntismo dopo il Palamaragate. “Dopo una “caccia alle streghe” che ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri, complice anche una circolare auto-assolutoria della Procura generale presso la Corte di cassazione, titolare dell’azione disciplinare, il ‘Sistema’ ha ripreso a funzionare esattamente come prima”, affermavano i magistrati, auspicando un recupero di credibilità, ormai ai minimi termini. Amici magistrati, perché avete paura di voi stessi? di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 6 maggio 2022 La polemica sul fascicolo personale è pretestuosa. Siete voi che vi giudicate. Piuttosto vi chiedo perché tacete sui fuori ruolo: scioperate su questo. Pubblichiamo di seguito l’intervento del presidente dell’Unione camere penali italiane all’Assemblea dell’Associazione nazionale magistrati del 30 aprile scorso. Ringrazio il Presidente Santalucia e tutti voi per questo invito. Il metodo del confronto è nel nostro DNA. Voglio ricordare, in proposito, quando il Ministro Bonafede ci chiama, ci dice "Voglio ridurre i tempi del processo". Chiama ANM e UCPI, partivamo dalle posizioni più inconciliabili: voi avevate licenziato quel documento del novembre 2018, se non sbaglio, che prevedeva abolizione del divieto di "reformatio in peius", letture demolitorie dell’oralità del dibattimento, noi dalle nostre posizioni che vi sono note. Ci siamo guardati in faccia a un tavolo, abbiamo lavorato, abbiamo offerto a quel Ministro un’occasione irripetibile, cioè una proposta comune dopo due mesi di lavoro. Abbiamo detto insieme: volete i tempi rapidi? Questa è la strada: riti speciali potenziati, tanto abbreviato condizionato, patteggiamento senza limiti di ostatività soggettive e oggettive, potenziamento dell’udienza preliminare, depenalizzazione (con una vostra proposta molto interessante sui reati contravvenzionali). Poi la politica - e devo dire che il Ministro mi è parso il meno colpevole - ha dato prova di tutta la sua mediocrità, e si è persa quella grande occasione. Ma voglio ricordare questo per dire che invece qui, sull’ordinamento giudiziario, si è commesso l’errore contrario. Noi siamo stati totalmente esclusi dalla Commissione ministeriale. Non così era stato per la riforma del processo penale, dove la nostra presenza credo che abbia prodotto un testo non divisivo, con buoni risultati qualitativi. Non dico "avete", non so chi ha voluto che questa legge fosse scritta senza il confronto con i penalisti italiani. Penso che una legge che si occupa di questi temi senza di noi sarà per forza una legge più debole - scusate la presunzione - ma perché io credo che dal dialogo e dal confronto nascano le soluzioni. Non sono qui per "captatio benevolentiae". Noi abbiamo un’idea comunque critica di questa riforma, la consideriamo ancora blanda, lacunosa, ma con dei passi avanti che sono stati importanti e che abbiamo apprezzato. Questo giudizio sicuramente muove da puliti di vista diversi, se non opposti ai vostri. Però non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento qui più diffusamente proposte sui temi caldi, e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni della vostra protesta siano altre. Io non posso sentire un magistrato - oltre che un amico - della qualità intellettuale e professionale di Eugenio Albamonte, portarmi come esempio della possibile distorsione delle nuove valutazioni di professionalità, l’esito del processo di "mafia capitale" per dirne una. O la sezione di Genova di ANM che scrive un documento ricordando le sentenze sul danno biologico della fine degli anni 70, sulle quali per di più ho fatto la tesi di laurea con Stefano Rodotà, sentenze che sono state confermate pochi anni dopo dalla Corte di Cassazione, diventando giurisprudenza costante. Perché pretestuosità? Perché il fascicolo personale del magistrato, che già esiste, come ha ricordato bene l’on. Costa, con quegli stessi criteri ("valutazione degli esiti" significa valutazione di che cosa è successo nei gradi successivi) oggi lo costituite con le cause a campione, o addirittura con quelle proposte da voi, e nella riforma si intende acquisire l’intera attività del giudice. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le sentenze creative (una, cinque, venti) non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare - ci chiediamo con franchezza, con amicizia - perché dovete fare questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è? Dobbiamo immaginare - ma questo sarebbe l’ultimo dei consessi dove questo può accadere - che si vogliono delle norme che esistono formalmente ma che non trovano applicazione nel concreto, come quella direttiva CSM del 2007 che prevede le valutazioni ma che, di fatto, consente che non si facciano. Come potete avere paura del vostro lavoro? Se noi pensiamo a un fascicolo con tutte le vostre sentenze, provvedimenti, ordinanze, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate. lo vorrei capire una cosa: noi parliamo qui con l’Associazione nazionale dei magistrati o dobbiamo pensare che parliamo con una parte della magistratura, che ne teme un’altra? Perché i giudizi sul fascicolo, di cui a questo famigerato emendamento che vi ho detto quello che aggiunge - cioè poco, importante ma poco - lo valutate voi. Quando si parla di direttive, state parlando tra di voi, non è che veniamo io e Costa a dare direttive, o a giudicare il vostro fascicolo. Siete voi che ve lo giudicate. Allora qual è il senso? Qual è il senso di questa polemica? Ancora: come mai questo silenzio sul tema dei fuori ruolo? lo vi chiedo: come mai questo vostro silenzio ostinato sul tema dei fuori ruolo? Cioè una unicità mondiale, non esiste nessun altro Paese al mondo nel quale si formi un Governo di qualsiasi colore e duecento magistrati vengono messi fuori ruolo e distaccati presso l’esecutivo. Un’abnormità costituzionale, che difendete con le unghie e con i denti, ma lo fate silenziosamente. Allora prendete la parola e scioperate perché volete continuare a che il capo di Gabinetto del Ministro e il capo del legislativo appartengano alla Magistratura e non al funzionariato di carriera - perché non è che ci voglio andare io. Questa crisi della giurisdizione è una crisi della democrazia in questo Paese. Di che stiamo parlando qui? Non ci perdiamo dietro la riforma, dietro questo o quell’emendamento. Dopo la crisi della politica, la crisi delle istituzioni principali di questo Paese, oggi ci misuriamo con la crisi della giurisdizione. È un problema che ci tocca come cittadini, come qualità della nostra vita democratica. Non potete chiudervi in un ragionamento come se qualunque modifica si voglia apportare sia un assalto al fortino che voi difendete. Dobbiamo ragionare insieme. Noi vi ascoltiamo sulle vostre critiche alla separazione delle carriere, alcune delle vostre obiezioni meritano attenzione. Sulla responsabilità civile del magistrato mi avete addirittura convinto (perciò vogliamo piuttosto una vera responsabilità professionale del magistrato). Ma non potete affrontare sempre i nostri punti di vista con il pregiudizio che gli avvocati vogliano indebolire la magistratura. Al contrario! Noi vogliamo un giudice forte! Noi vogliamo entrare in aula temendo la qualità, la severità, l’intransigenza del giudice. Ma come me lo deve temere il Pubblico Ministero. Dobbiamo essere nella stessa misura intimoriti dall’autorevolezza del giudice. Questa è l’idea che noi abbiamo del processo penale. Vogliamo un Pubblico Ministero indipendente dal potere politico, vogliamo un giudice indipendente dal Pubblico Ministero e dalle Procure. Vogliamo un giudice forte. Questo dovrebbe essere un motivo della vostra riflessione maggioritaria, perché siete 1’80% di giudici rispetto al 20% di Pubblici Ministeri. In questo Paese, delle sentenze non importa nulla a nessuno; del vostro giudizio non importa niente a nessuno. Il giudizio della pubblica opinione sulla responsabilità penale si esaurisce nell’incriminazione, nell’indagine, nel rinvio a giudizio. È un problema nostro? lo penso che sia un problema vostro e un problema di tutto il Paese. “Melillo all’Antimafia è un’altra sconfitta per Magistratura democratica” di Paolo Vites ilsussidiario.net, 6 maggio 2022 Intervista a Frank Cimini. Giovanni Melillo, attuale procuratore capo di Napoli, è il nuovo procuratore nazionale anti mafia e anti terrorismo. È stato nominato dal plenum del Csm a maggioranza, con 13 voti a favore. Il grande favorito, Nicola Gratteri, capo della procura di Catanzaro, ne ha ottenuti 7, mentre sono stati 5 i voti a favore di Giovanni Russo, procuratore aggiunto alla Direzione nazionale antimafia (Dna). Il primo dato che va sottolineato, come ci ha detto Frank Cimini, giornalista già al Manifesto, Mattino, Apcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it è che “essendo Melillo appartenente a Magistratura democratica, la corrente che ha dominato il mondo della magistratura per anni si trova adesso ad aver perso la terza procura nel giro di pochissimo tempo dopo Roma e Milano, le tre procure più importanti d’Italia”. Il secondo dato è che Gratteri, che Cimini definisce “un procuratore mediatico”, non riesce a ottenere l’incarico a cui puntava fortemente: “Le inchieste di Gratteri sono passate alla storia per la loro inconcludenza. Annunciate in pompa magna, con l’uso disinvolto della custodia cautelare, si sono sempre sgonfiate con dei nulla di fatto”. Che significato ha la poltrona di capo della Direzione nazionale antimafia? È certamente l’incarico più prestigioso in Italia per un magistrato, ma va detto che in termini concreti vale molto di meno dell’essere a capo della procura di una grande città. Perché? La Dna non fa indagini sul campo, fa supervisione. Il vertice di una grande procura è più operativo. Melillo lascia Napoli. Cosa sappiamo di lui? Lascia Napoli perché evidentemente voleva un incarico di grande prestigio, ma quello che va detto, appartenendo lui a Magistratura democratica, è che la sua corrente perde in questo modo la terza grande procura in poco tempo, dopo Milano e Roma. È un segno dei tempi, di un cambiamento e di una perdita di potere. Si sono sentite lamentele di alto livello per la bocciatura di Gratteri, considerato un magistrato in prima fila nella lotta alla mafia, addirittura paragonando questa mancata elezione a quando nel 1988 Antonio Meli venne preferito a Giovanni Falcone. Sono lamentele giustificate? Sono lamentele del solito giro di magistrati. Gratteri è uno che fa grandi retate, peccato che quindici giorni dopo il Tribunale del riesame rilasci la metà delle persone che ha fatto arrestare. Fa conferenze stampa in pompa magna quando conclude un’indagine, tutti i giornali nazionali ne parlano, ma quando i fermati vengono rilasciati trovi qualche riga solo sui giornali calabresi. Questo non vale solo per lui, ma è evidente come ci sia una responsabilità mediatica: i media vanno dietro agli scoop delle procure ma non seguono gli sviluppi. Non è successo una volta sola con Gratteri, si ripete a ogni retata che fa. Come si spiega? Si spiega con il fatto che Gratteri è un Pm molto mediatico, che usa i giornali quando fa queste operazioni in cui c’è sempre un evidente abuso della custodia cautelare, di reati associativi e concorso esterno. Poi il reato associativo cade e le cose finiscono lì. Non c’è spirito critico nei giornali, se ne fregano di seguire gli sviluppi ulteriori. Dipende dal fatto che ormai, da tempo, le maggiori attività mafiose si sono spostate nel Nord Italia? La mafia è ovunque, non è un problema solo delle regioni del Sud. Il problema è come si cerca di far fronte a questo. Non voglio dire che sia solo responsabilità della magistratura, il vero problema è la politica. Sono reati che avvengono in certi contesti. La mafia sfrutta tutte le contraddizioni della società italiana. Al Nord girano una sacco di soldi, al Sud manca il lavoro e la gente è quasi alla fame. La mafia stessa è ormai un soggetto politico ma non nel senso che prende ordini dalla politica, ma che agisce per il proprio potere. Siamo invece ancora fermi a teoremi che si sono dimostrati inconsistenti, tipo le stragi mafiose commissionate dalla politica, è questo che intendi? Esatto, un sacco di bufale inconsistenti. Come dire che Berlusconi e Dell’Utri hanno ordinato alla mafia le stragi. Quale sarebbe stato il movente? Sono anni che va avanti questa ossessione. Ad esempio il caso del falso pentito Scarantino, che si era autoaccusato dell’omicidio di Paolo Borsellino senza neanche sapere chi fosse e che non conosceva neppure via D’Amelio. In questo episodio ci sono responsabilità precise di magistrati mai individuati. Non se ne è quasi parlato... Sono storie terrificanti che hanno zero spazio sui giornali. Questo falso pentito ha fatto dare ergastoli a gente che non c’entrava niente. La credibilità di Scarantino fu difesa da Gian Carlo Caselli ma nessuno gliene chiede conto. Intanto continua a scrivere sui giornali e a vantarsi. Il risarcimento per ingiusta detenzione è una farsa, Bruno Contrada aspetta ancora di Paolo Comi Il Riformista Ha trascorso dieci anni in carcere a seguito di una condanna che la Cedu ha dichiarato illegittima nel 2007, ma i pm non gli restituiscono il maltolto perché lo reputano comunque colpevole. Alla faccia dello Stato di diritto. Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per lo Stato italiano sono carta straccia. L’ultimo caso in ordine di tempo di non esecuzione di una di queste sentenze riguarda quello del maxi risarcimento per ingiusta detenzione nei confronti dell’ex dirigente della polizia di Stato e dei servizi Bruno Contrada. L’alto funzionario, ora novantenne, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti poi scontati in regime detentivo, per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata. “Il reato contestato di concorso esterno è il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni 80 del ‘900 e che si è consolidata nel 1994 con la sentenza della Cassazione “Demitry” e i fatti contestati a Contrada risalgono agli anni Ottanta”, scrissero i giudici di Strasburgo. Non essendo quindi il reato contestato sufficientemente chiaro, né prevedibile, Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso. Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale pronuncia ma era stato respinto. Forte di questa sentenza, Contrada aveva chiesto e ottenuto dall’allora capo della Polizia Franco Gabrielli di revocare il provvedimento di destituzione emesso contro di lui a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure come pensionato, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. La Corte d’appello di Palermo, competente sul punto, nel 2020 riconosceva a Contrada un risarcimento pari a 667mila euro. La pronuncia veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano. La Cassazione annullava la decisione della Corte d’Appello, disponendo un nuovo giudizio. I giudici di piazza Cavour scrissero che “non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”. In altre pase la sentenza di condanna e i suoi effetti devono essere annullati, Contrada ha comunque commesso le condotte contestate e quindi non ha diritto ad alcun risarcimento. La Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio a gennaio scorso sposò appieno tale orientamento, sconfessando così la sua precedente pronuncia. L’ultima parola spetterà ancora una volta alla Cassazione che si pronuncerà il prossimo 24 giugno sul nuovo ricorso di Contrada. Per l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex capo della squadra mobile di Palermo, “esiste un serio problema di tenuta dell’ordinamento giuridico: è inutile rivolgersi alla Corte di Strasburgo, dove i tempi medi per una sentenza superano ormai i dieci anni, se poi l’Italia non esegue le sentenze”. “Il risarcimento di Contrada è un fatto puramente simbolico ma di grande importanza in uno Stato che si definisce di diritto”, aggiunge Giordano. Tutto questo accade, ironia della sorte, durante la presidenza italiana del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Oggi è infatti in programma a Palermo la Conferenza europea dei procuratori generali alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è l’organo chiamato a verificare che siano stati rimossi gli effetti delle violazioni nei confronti delle persone e che non vengano quindi ripetute violazioni analoghe da parte dello Stato condannato. Inoltre, il Comitato dei ministri è chiamato a verificare che sia avvenuto il pagamento della somma riconosciuta a titolo di “equa soddisfazione”, richiedendo informazioni circa i tempi previsti per la loro esecuzione. Se lo Stato risulta gravemente inadempiente, il Comitato può, quale extrema ratio, decidere di sospenderlo dalla rappresentanza nel Consiglio d’Europa o di invitarlo a ritirarsi. Sarebbe a dir poco imbarazzante che ciò avvenisse proprio sotto la presidenza italiana. Dana Lauriola è libera dopo due anni: “Il carcere non ha cambiato le mie idee” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 6 maggio 2022 "Sono sconvolta dalla condizione in cui le donne devono vivere. La struttura degradata, il tempo scorre lentissimo. Resistere è davvero difficile". Dana Lauriola era stata condannata per una manifestazione No Tav del marzo 2012 con il blocco di un casello della Torino-Bardonecchia. Dopo 7 mesi in carcere e 13 di detenzione domiciliare Dana Lauriola, volto storico del movimento No Tav, è tornata in libertà. Secondo la relazione delle forze dell’ordine, la permanenza nella casa circondariale Lorusso e Cutugno ha svolto la sua “funzione rieducativa” e Lauriola ha rispettato con regolarità le prescrizioni dell’autorità giudiziaria anche dopo la scarcerazione. Circostanze che le hanno permesso uno “sconto” di pena di 135 giorni. “All’inizio il carcere mi faceva tanta paura, poi sempre meno, anche se il tempo scorre lentissimo. Ero e sono sconvolta dalla condizione in cui le donne devono vivere. La struttura è degradata e c’è un pessimo livello di interazione con il personale. Resistere è davvero difficile, anche per me che sono “strutturata”. Dopo 7 mesi in carcere e 13 di detenzione domiciliare Dana Lauriola, volto storico del movimento No Tav, è tornata in libertà. Secondo la relazione delle forze dell’ordine, la permanenza nella casa circondariale Lorusso e Cutugno ha svolto la sua “funzione rieducativa” e Lauriola ha rispettato con regolarità le prescrizioni dell’autorità giudiziaria anche dopo la scarcerazione. Circostanze che le hanno permesso uno “sconto” di pena di 135 giorni. Qual è stata la prima cosa che ha fatto? “Sono andata a pranzo con i miei amici che non vedevo da quasi due anni e la sera a cena con le amiche più care in piazza Vittorio. Ero molto agitata, era tutto molto strano, ma bellissimo. Adesso andrò a Bussoleno e sarà un’altra emozione forte, perché il distacco è stato violento. Rivedrò le montagne e i luoghi della mia vita che mi sono stati negati”. Come ha vissuto 7 mesi in carcere? “All’inizio mi faceva tanta paura, poi sempre meno, anche se il tempo scorre lentissimo. Ero e sono sconvolta dalla condizione in cui le donne devono vivere. La struttura è degradata e c’è un pessimo livello di interazione con il personale. Resistere è davvero difficile, anche per me che sono “strutturata”. Il sistema è alienante, sopravvivere è il massimo che ti è concesso. Questo è quello che vogliono coloro che decidono che una persona debba essere reclusa e, dal loro punto di vista, rieducata”. Proprio secondo quel punto di vista lei è stata rieducata. È così? “Basta rispettare le regole, se lo vuoi fare lo fai. Io ho scelto di farlo e adesso torno a vivere la mia vita in maniera coerente con le mie idee. Che il carcere non ha cambiato”. Queste idee l’hanno portata a compiere azioni che sono state giudicate illecite in tre gradi di giudizio. E inoltre risulta indagata in altri procedimenti. Se tornasse indietro rifarebbe quello che ha fatto? “Dal mio punto di vista viviamo in una società ingiusta e solo apparentemente democratica. Per questo penso che ognuno sia chiamato a fare ciò che la propria coscienza suggerisce per il bene collettivo. Anche con la consapevolezza che queste scelte si pagano”. Continua a prevalere il senso di ingiustizia? “Non ho mai visto la condanna come un atto di giustizia e adesso si è semplicemente conclusa la mia punizione. Bloccare un’autostrada è un reato, almeno secondo il codice penale, ma quello che è ingiusto è che la protesta No Tav e le azioni di tutti coloro che vi appartengono vengano ridotte e questioni di ordine pubblico senza tener conto dell’alto valore politico che esprime chi difende il proprio territorio e l’ambiente”. Questa difesa si concretizza anche in azioni violente. Non esiste un altro modo per rappresentare le stesse istanze? “Credo che il movimento No Tav lo abbia fatto in tutti i modi possibili e immaginabili. Se ci sono state azioni di contrapposizione è stato soprattutto per difesa”. Sembra uno slogan, ci crede davvero? “Assolutamente sì. Ho vissuto sulla mia pelle la violenza della punizione e la criminalizzazione del mio ruolo all’interno del movimento”. In carcere lei ha avuto il tempo per completare il suo ciclo di studi e fra poco si laureerà in psicologia. Quindi ci sono anche aspetti positivi? “Le pause forzate lasciano il passo all’incertezza, ma a volte possono anche offrire possibilità. In questo caso, nel pesante isolamento che mi è stato imposto, ho trovato la forza di costruire qualcosa e non permettere che tutto venisse distrutto”. Che progetti ha per il futuro? Tornerà ad avere un ruolo attivo nel movimento? “Per prima cosa voglio iscrivermi in palestra e riprendere l’attività sportiva. In passato ho giocato e allenato a pallavolo. Poi spero di discutere la tesi a breve e sicuramente tornerò attivamente nel movimento, anche perché non credo che la mia appartenenza sia mai stata giudicata illegale. Però lo farò con la consapevolezza di dover ricostruire alcuni pezzi della mia vita che sono stati devastati”. Roma. Casa Puglisi ora è di tutti di Stefano Chianese Il Manifesto, 6 maggio 2022 Reportage da uno dei beni confiscati al crimine organizzato, a Roma, dove vivono detenuti in semilibertà condannati per reati di mafie. Franco La Torre: “Troppi ancora inutilizzati”. “La prima volta che sono entrato ero minorenne, alla fine del 1991. Ho fatto due anni e sono uscito. Poi mi hanno arrestato a settembre del 1994. Sono uscito una seconda volta nel settembre del 2000 per scadenza dei termini. Eravamo sessanta imputati. Mi hanno arrestato di nuovo il 16 o il 17 novembre dello stesso anno. Da allora non sono più uscito, fino al luglio del 2021. Nel 2000, avevo 25 anni quando sono entrato al 41bis…”. Una calda luce artificiale illumina la stanza, piccola, con un divano all’entrata, di fronte due scrivanie attaccate con sopra due computer. Fuori è già buio, nonostante sia tardo pomeriggio. Dalla vetrata della stanza si vede un terrazzo scuro che gira intorno alla casa. Dietro, una lunga lingua nera di parco divide il quartiere di Monteverde dalle palazzine illuminate di Corviale, nella zona sud ovest di Roma. A parlare è Gaetano, quarantasette anni, naso pronunciato e capelli corti. Racconta la sua storia con un forte accento napoletano e un modo di fare diretto e amichevole. L’abbigliamento è sportivo: una tuta per il dopolavoro. Gaetano sta scontando gli ultimi tre anni di pena in semilibertà, dallo scorso luglio lavora come operaio in un’azienda poco fuori Roma e sta iniziando a ricostruirsi una vita, dopo averne passata quasi la metà in carcere. Vive nella casa-famiglia Don Pino Puglisi, in un ampio appartamento che divide con altri tre detenuti, che un tempo era appartenuto a un componente della banda della Magliana e che dal 2010 è stato riassegnato dal comune di Roma come bene confiscato. “Forse alla fine di questa triste storia, qualcuno troverà il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio…”. Sono le tre di pomeriggio di una grigia domenica e nella cucina della casa, da un cellulare si sente la voce di Vasco Rossi che intona una delle sue canzoni più famose. Intanto tre dei quattro inquilini, finito il pranzo a base di pesce del supermercato, smistano la spesa ordinata per la settimana seguente. Durante il pranzo emergono ricordi di vecchi pasti a base di aragoste o frutti tropicali, come ombre di viaggi di vite passate, in luoghi lontani tra America latina, Medio Oriente ed Europa dell’Est, tra rotte marittime e lunghi anni passati sui camion. Ad alimentare questi discorsi sono Marco e Alberto, entrambi over 60, uno delle Marche e l’altro con un accento indefinibile. Ad aiutarli con la spesa c’è Livia Fiorletta, quarant’anni, capelli scuri a caschetto e viso combattivo, pronto allo scherzo. È un’educatrice professionale e la coordinatrice della cooperativa sociale Pronto intervento disagio (Pid) che gestisce la struttura d’accoglienza. L’associazione è nata nel 1998 a Roma, dalla collaborazione tra ex detenuti e operatori sociali. Ora sono in undici. Fiorletta descrive la casa come “una struttura cuscinetto tra il dentro e il fuori. Qui stabiliamo un programma individuale a seconda del soggetto e delle necessità: patente, visite mediche, documenti o anche questioni più personali come riallacciare rapporti familiari”. Sono cinque le strutture messe a disposizione dal comune di Roma per coloro che non possono usufruire delle pene alternative nel loro domicilio. Sono gratuite e affidate alle associazioni tramite bando. In totale ci sono circa 35 posti, differenziati in base a fasce d’età e sesso, a disposizione dei detenuti di Rebibbia e Regina Coeli. Il tempo che i detenuti passano nelle strutture è variabile, da pochi giorni ad anni, a seconda che siano lì per permesso premio o per una misura alternativa con possibilità di lavoro, in base a quanto stabilito dal Tribunale di sorveglianza. Il Pid gestisce altre due strutture di questo tipo in collaborazione con le cooperative “il Cammino”, “Cecilia” e “Ain Karim”. Nel 2021 sono arrivate a 100mila le misure alternative decise dai Tribunali di Sorveglianza, di cui circa 29mila solo tra il 2019-2021 stando ai dati del ministero della Giustizia, elaborati dall’associazione Antigone nel suo ultimo rapporto “Oltre il Virus. 17° Rapporto sulle condizioni di detenzione”. Per favorire una rapida e trasparente riassegnazione dei beni confiscati a Roma la giunta di Roberto Gualtieri a dicembre 2021 ha creato un nuovo Forum. Secondo il sindaco Gualtieri, “Roma ora ha a disposizione un nuovo importante strumento di partecipazione attiva”. L’obiettivo è di fare rete con le associazioni del territorio e ottimizzare la gestione dei fondi. Non mancano le difficoltà: sul territorio capitolino sono presenti 127 immobili confiscati, il 45% è ancora inutilizzato, in linea con le medie nazionali che vedono circa il 50% dei beni confiscati fermi. Gianpiero Cioffreddi, presidente dell’Osservatorio per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio, segnala che i fondi non sono sufficienti per gestire tutte le strutture: “il Pnrr ha destinato 250 milioni solo alle regioni del Sud, non prendendo in considerazione che il 26% delle strutture sta nel centro-nord. Andrebbe sbloccato il fondo del Ministero dell’economia che gestisce i circa 5 miliardi di euro confiscati alle mafie, per metterlo a disposizione delle amministrazioni per ristrutturare i beni”. Il dirigente regionale sostiene che non vada abbassata la guardia su Roma. Nel 2021 la Capitale risulta prima tra le città italiane per movimenti di proprietà sospetti, chiaro sintomo di attività criminali. Nel settembre 2022 verranno celebrati quarant’anni dall’adozione della legge Rognoni-La Torre, la prima a livello mondiale a istituire la confisca dei beni delle associazioni mafiose. Per Franco La Torre, ex presidente di Libera, ad aprile saranno anche i quarant’anni dalla morte del padre, Pio la Torre, politico comunista siciliano ucciso da Cosa Nostra nell’aprile del 1982. Franco La Torre fa un bilancio in chiaroscuro della situazione attuale “Dal 2017 si è iniziato a investire di più sull’Anbsc, che sta finalmente arrivando a un organico sufficiente e la legislazione nel suo complesso rimane la più avanzata al mondo. Ma ancora adesso non si riesce a calcolare precisamente il valore di tutti i beni e vedi le percentuali di quanti di questi rimangono inutilizzati ti rendi conto di quanto ancora va fatto”. Non è mancato poi chi ne ha approfittato, come l’ex presidente di Confindustria Sicilia e responsabile legalità di Confindustria nazionale, Antonello Montante. Nominato nel comitato direttivo dell’Agenzia dei beni confiscati nel 2014 dal governo Renzi, è stato arrestato nel 2015, ora è sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Nella casa Puglisi è appena rientrato dal lavoro Francesco, cinquantanove anni. Fa una videochiamata con la famiglia che vive a Secondigliano. Scherza con la moglie, le tre figlie e il nipote di pochi anni. Si reputa fortunato: la moglie era incinta quando lui è stato arrestato. È rimasto in carcere quasi venti anni. La moglie ha cresciuto l’ultima figlia da sola e non l’ha abbandonato. Adesso vuole solo una “vita normale”, lontano da Napoli. Per lui Casa Puglisi “è una cosa importante, ti trattano come in famiglia”. Scheda: le difficoltà dell’agenzia per i beni confiscati - Nel 1996 è stata istituita la legge per il riutilizzo dei beni, dopo una forte pressione di Libera, importante associazione antimafia, e della società civile. Per anni i beni sono stati gestiti dal demanio, poi nel 2010 è stata istituita l’Agenzia per i beni confiscati (Anbsc) che risponde al ministero degli Interni e si occupa della gestione, riassegnazione e vendita degli immobili e delle imprese. Fino al 2016 però contava solo 30 dipendenti stabili. Il resto, circa cento, erano temporanei provenienti da altre strutture. Ora gestita dal prefetto Bruno Corda, sta arrivando ai 200 dipendenti ritenuti necessari per un corretto funzionamento. I problemi però sono ancora molti: dei 2.176 Comuni che registrano beni confiscati, il 63% non è in possesso nemmeno delle credenziali del portale informativo online Open Regio, messo a disposizione dall’Agenzia e che raccoglie tutte le informazioni dei beni. Secondo Corda, manca personale con competenze di gestione aziendale e ancora non è possibile calcolare il valore complessivo dei beni gestiti. La dottoressa Francesca Tavassi, membro della segreteria dell’Agenzia sostiene che “dei problemi ci sono ma tante cose stanno per essere sistemate. A marzo entreranno 45 nuovi funzionari in pianta stabile assunti con l’ultimo concorso e si raggiungeranno i 200 previsti”. Nei prossimi mesi verrà lanciata anche la nuova piattaforma digitale Copernico che migliorerà Open Regio. Rovigo. Carcere, la capienza aumenta: in arrivo 80 detenuti in più di Antonio Andreotti Corriere Veneto, 6 maggio 2022 L’ampliamento sarà portato a termine entro il 2026. Il nuovo impianto costerà 15 milioni di euro, finanziati con il Pnrr. Tramonta l’ipotesi del doppio padiglione. Il carcere di Rovigo sarà ampliato entro il 2026, e ospiterà all’incirca 80 detenuti in più rispetto a quelli attuali. La “capienza” totale del carcere in termini di detenuti quindi passerà a circa 350, e per il nuovo padiglione dovrebbero essere investiti circa 15 milioni di euro. È questo il piano riguardante il capoluogo polesano nell’ambito degli interventi di edilizia giudiziaria e penitenziaria distribuiti su tutta Italia. Questi interventi saranno finanziati con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e del Piano nazionale complementare, per un importo complessivo - a livello nazionale - di 540 milioni di euro. Dal Ministero di Grazia e Giustizia filtra che l’ampliamento del carcere rodigino è cosa certa, essendo il progetto affidato al Dicastero dei Trasporti e delle Infrastrutture ed essendo finanziato coi fondi del Pnrr. Così come è certa la sua realizzazione entro la “deadline” del 2026. Sempre da ambienti ministeriali trapela che il nuovo padiglione sarà costruito con criteri tali da aumentare la vivibilità e la qualità per gli ospiti. Salvo colpi di scena sembra quindi tramontata l’ipotesi di cui si era discusso in precedenza, ovvero due nuovi padiglioni da circa 120 detenuti l’uno. Decisivo in tale senso il sopralluogo tecnico effettuato nei mesi scorsi sulle fondamenta del terreno attorno al carcere rodigino, ritenuto inadatto ad accogliere due nuovi edifici. E’ stato un iter durato oltre 10 anni, quello che nel febbraio 2016 ha portato all’inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo, che si estende su un’area di oltre 95.000 metri quadrati. L’infrastruttura inizia a prendere vita nel 2004, con lo stanziamento dei primi fondi (1,2 milioni) per la progettazione e la costruzione. Nel luglio 2007 l’arrivo dell’ex ministro Guardasigilli Clemente Mastella per la posa della prima pietra. Le opere di realizzazione vennero ultimate nel 2013 per un costo di circa 29 milioni di euro, ma la struttura non entrò in funzione. La svolta arriva a novembre 2015 con la visita del nuovo capo nazionale del Dap Santi Consolo che firmò il via libera. Il 29 febbraio 2016 arrivò il taglio del nastro da parte dei ministri Andrea Orlando e Graziano Delrio. Brescia. Nuovo carcere, Del Bono: “Basta ritardi, vado dal ministro con i nostri deputati” di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 6 maggio 2022 Il primo cittadino entro maggio vuole una delegazione parlamentare bipartisan con il quale fare pressing sul governo: “Vanno subito sbloccati i 50 milioni previsti nel Def per la nuova struttura”. La misura è colma. Gli anni di sovraffollamento delle carceri bresciane ed i dieci anni di promesse non mantenute riguardo alla realizzazione di una nuova struttura - con svariate ipotesi, dall’ex caserma Papa in città alla Serini di Montichiari - porteranno il sindaco dem Emilio Del Bono a Roma, affiancato da una delegazione bipartisan di parlamentari (ancora da istituire). “Intendo costituire entro questo mese una delegazione di parlamentari bresciani di tutte le forze politiche che insieme a me incontrerà il ministro della Giustizia Marta Cartabia. Le porremo con determinazione il tema dei 50 milioni di euro previsti nel Documento di economia e finanza del 2021 che però non trovano traccia nel bilancio dello Stato” conferma il sindaco, che a dicembre aveva anticipato al Corriere la volontà di incontrare sul tema il premier Draghi. Nei prossimi giorni partiranno i contatti con i parlamentari, soprattutto della Lega, che spesso sottolinea l’urgenza di avere un carcere degno di questo nome. Il nodo dei 50 milioni “fantasma” è dirimente ed è anche l’oggetto di una interrogazione a risposta scritta avanzata giusto tre mesi fa del parlamentare dem Alfredo Bazoli ai ministri dell’Economia e delle Infrastrutture. Un maxi finanziamento di cui non sa nulla “né l’amministrazione penitenziaria interessata né il Provveditorato regionale per le opere pubbliche” aveva aggiunto il deputato bresciano. E pensare che nel 2018 lo Stato aveva messo a disposizione per Verziano 15,2 milioni di euro con i quali si sarebbero dovuti realizzare 400 nuovi posti per ripensare gli attuali 115mila mq di edificio. Il Provveditorato regionale per le opere pubbliche aveva già affidato la progettazione (gara vinta dalla Tecnicaer di Torino consorziata Mythos scarl, RPA srl, Tecnarc srl) che pare essere finita su binario morto finché non ci saranno i fondi anche per il secondo lotto: “Quelle risorse sono inadeguate ad avere una struttura all’altezza delle necessità. Se vogliamo davvero fare il salto di qualità atteso da anni dobbiamo fare una cosa fatta per bene” dice Del Bono. E il tema delle aree su cui realizzare la nuova struttura? Qualcuno ricorderà che fino al 2019 la Loggia aveva pensato ad una “permuta” con l’azienda agricola Verziano, proprietaria dei 74mila metri quadri di terreni su cui dovrebbero sorgere laboratori e spazi di lavoro per i detenuti oltre alle casermette per gli agenti, trasformando nel contempo l’attuale edificio in una moderna struttura con celle dignitose per 400 persone (uomini e donne). In cambio dei terreni la Loggia era disposta a cedere palazzo Bonoris di via Tosio. Ma la vittoria alla Consulta incassata dalla Loggia riguardo alla liceità del taglio ai diritti edificatori arrivati con il Pgt 2016 - Pgt che ha cancellato la possibilità per l’azienda agricola Verziano di trasformare 24mila mq di campi in aree residenziali vicino al Villaggio Sereno - ha fatto cambiare idea all’amministrazione Del Bono. Palazzo Bonoris è stato venduto all’asta per 2,7 milioni, i campi dove costruire il nuovo carcere sono ancora da acquistare. Di più. Nello schema originario pensato dal sindaco la cessione al Ministero di quelle aree agricole avrebbe portato in cambio un “regalo” da parte del Demanio: una fetta dell’ex caserma Randaccio dove realizzare il polo scolastico di Brescia centro. Una triangolazione rimasta lettera morta. Per Del Bono però “il tema delle aree da acquistare è l’ultimo dei problemi - dice -. L’importante adesso è avere conferma dei 50 milioni e iniziare la progettazione”. Vero è che sarà il ministero della Giustizia a dover entrare in possesso delle aree, pensando come extrema ratio anche all’esproprio. Di certo bisogna correre, perché tra progettazione e lavori serviranno almeno quattro anni: una volta pronto il Verziano bis, Canton Mombello sarebbe dismesso. La storica struttura all’interno delle mura venete potrebbe diventare un importante luogo culturale. Un tema “molto prematuro” per Del Bono, che già 5 anni fa aveva confessato che sarebbe stato “complicato restituire Canton Mombello ad una funzione reale”. L’ultima considerazione su cui Del Bono si sofferma sono le inadeguate risorse messe a disposizione dal Pnrr per un piano di svecchiamento delle carceri in tutto il Paese: “Peccato, perché era l’occasione per alzare gli standard dei nostri istituti di pena. Una questione di dignità per i detenuti ma anche per gli agenti di polizia penitenziaria”. Già. Oristano. Salute detenuti: la Asl 5 ricerca medici per il carcere di Massama quotidianosanita.it, 6 maggio 2022 Pubblicato l’Avviso. L’incarico verrà affidato per 12 mesi, eventualmente rinnovabili. Gli interessati potranno inviare la domanda entro le ore 12.00 del 15 maggio 2022 all’indirizzo medconvenzionata.oristano@pec.atssardegna.it, e per informazioni si potrà contattare il numero 0783/317753, dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle 12.00. Oltre ai problemi legati alla mancanza di reparti ospedalieri detentivi dedicati, anche le stesse strutture detentive soffrono della carenza di medici che seguono l’attività di assistenza sanitaria dei detenuti. Ed ecco che per il caso rilevato all’Istituto Penitenziario “Soro” di Massama, in provincia di Oristano, la struttura di medicina convenzionata della Asl 5 si attiva e pubblica un avviso di interesse per la ricerca di medici di medicina dei servizi da potervi destinare. “L’avviso - fa sapere la Asl - è rivolto a tutti gli iscritti all’Ordine dei Medici, in particolare a quelli già operativi negli istituti penitenziari e nei centri per la giustizia minorile, a quelli inseriti nella graduatoria regionale della Medicina generale, a quelli in possesso dell’attestato di formazione specifica in Medicina generale, a quelli iscritti al corso di formazione specifica in Medicina generale, ai medici neoabilitati e a quelli iscritti alla scuola di specializzazione”. La Asl oristanese per far fronte al problema ha dunque aperto il bando a tutti i possibili medici ai quali può essere attivata la collaborazione. Ed a tal proposito precisa: “L’incarico verrà affidato per 12 mesi, eventualmente rinnovabili. Gli interessati potranno inviare la domanda entro le ore 12.00 del 15 maggio 2022 all’indirizzo medconvenzionata.oristano@pec.atssardegna.it, e per informazioni si potrà contattare il numero 0783/317753, dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle 12.00”. Lecco. Il nuovo Garante dei detenuti si presenta, le motivazioni e gli obiettivi di Lucio Farina leccoonline.com, 6 maggio 2022 Il nuovo Garante dei detenuti si è presentato alla commissione consiliare. Si tratta di Lucio Farina, formatosi come sociologo nel ramo della pianificazione sociale e in possesso di un master in social planning per il terzo settore, da vent’anni impegnato professionalmente nel settore sociale. Tutt’oggi è direttore del Centro di servizio per il volontariato di Monza-Lecco-Sondrio che si dedica a sostenere, supportare e promuovere il volontariato del nostro territorio, sia in forma individuale che collettiva. Farina raccoglie l’eredità di Marco Bellotto rimasto in carica per un triennio fino al marzo di quest’anno. Farina era l’unico candidato a ricoprire l’incarico, del tutto volontario e gratuito, rispondendo al bando pubblicato dal Comune. “La scelta di candidarmi - ha spiegato in commissione - rientra in un percorso naturale della mia biografia di vita sia professionale che di impegno civico. Ho iniziato con la grave disabilità e il sostegno alle loro famiglie; la mia attenzione si è poi spostata sulle dipendenze, passando per il supporto alle associazioni di famigliari di persone con disturbi di salute mentale. Oggi mi impegno a supporto del volontariato locale, attivando, in particolare, progetti di giustizia restorativa e coinvolgendo volontari e associazioni di volontariato nelle pratiche restorative di incontro tra vittime, rei e società civile. Questo lavoro di ricostruzione dei legami di una comunità passa dalla capacità di incontrarsi e ascoltarsi: il volontariato, proprio in questo senso, è un bene prezioso per la comunità”. Al neogarante sono giunti i ringraziamenti del sindaco Mauro Gattinoni perché sarà così possibile “continuare a garantire i diritti di tutti i cittadini, anche quelli privati della libertà, e proseguire nella costruzione di una forte collaborazione con la nostra casa circondariale. Questa nomina dimostra la nostra attenzione verso il mondo del carcere e di tutte le persone coinvolte: reclusi, lavoratori, volontari e direzione. Grazie anche al dottor Marco Bellotto, garante uscente, per aver esercitato il suo ruolo con grande umanità e competenza in un triennio peraltro segnato dall’emergenza pandemica”. A quello del primo cittadino si è aggiunto il commento dell’assessore al Welfare Emanuele Manzoni: “Chi vive in condizioni di libertà limitata è parte integrante della nostra comunità . Non possono esistere alibi per comprimere ulteriormente i diritti di persone che devono essere messe nella condizione di poter compiere un pieno percorso di reinserimento sociale. La nostra costituzione fa riferimento al valore rieducativo della pena e questo passa attraverso un mantenimento costante dei legami con il contesto di provenienza, sia esso l’intorno famigliare, professionale o amicale. La figura del Garante è anche per questo estremamente importante, oltre alla tutela di diritti fondamentali come, per esempio, quello alla formazione, al lavoro e alla salute”. Nella sua riunione, tra l’altro, la commissione consiliare, presieduta da Stefania Valsecchi, si è occupata congiuntamente del lavoro del garante ma anche del tavolo per la cosiddetta giustizia riparativa, l’iniziativa volta a far avvicinare autori e vittime dei reati in una nuova concezione di quella che comunemente va sotto il nome di “riparazione del danno” ma che in realtà è un più complesso lavoro di ricucitura dei rapporti sociali. Come ha spiegato ai consiglieri la psicologa Bruna Dighera, intervenuta alla riunione. “Il termine “riparativa” sarebbe sbagliato. Meglio sarebbe “restorativa”. Perché ci sono danni e sofferenze irreparabili, ma ci possono essere iniziativa per andare oltre il dolore, la rabbia e il rancore. Una giustizia delle relazioni che non è alternativa alla giustizia tradizionale, ma serve per ricostruire una dimensione collettiva partendo da un’idea “impossibile”, quella che la vittima di un reato possa incontrarne l’autore, oltre a cercare di risolvere conflitti con l’aiuto di una terza persona. Che è un modo per aiutare una comunità a essere più coesa e inclusiva. Ne abbiamo avuto un esempio recente con l’emergenza covid quando, dopo il primo lockdown, abbiamo tenuto una decina di incontri coinvolgendo un centinaio di persone tra medici, infermieri, malati e famigliari di malati. Vorremmo che Lecco diventasse una città “restorativa” nella rete delle città europee”. Già, lo scorso anno, si era tenuta la “Piazza dell’Innominato”, una tre giorni di sensibilizzazione all’area della Piccola, iniziativa che dovrebbe essere ripetuta anche quest’anno. Non è stato un caso che di garante per i detenuti e di tavolo per la giustizia si sia parlato nella stessa riunione, essendoci tra l’uno e l’altro “connessioni forti - come ha detto l’assessore Manzoni - segno di attenzione dell’amministrazione comunale nei confronti dei detenuti affinché siano parte integrante della società”. I consiglieri intervenuti (Paolo Galli, Filippo Boscagli, Stefano Parolari, Matteo Ripamonti, Chiara Fusi) hanno sottolineato la necessità di creare un legame tra la città e la casa circondariale spesso vissuta come un corpo estraneo e avvicinate magari solo in qualche occasione ufficiale, come la celebrazione della messa natalizia aperta alle autorità esterne. Ed è proprio per la creazione di questo legame che vuole impegnarsi il garante “perché è un luogo della città ed è necessario costruire un dialogo anche per creare relazioni utili una volta che le persone detenute usciranno dal carcere e dovranno essere supportate. Potrebbe favorire o no l’inclusione? Evitare che tornino a ripetere reati? Vedremo. C’è poi anche l’aspetto delle reti familiari a cui si dovrà prestare attenzione, c’è già un’associazione che se ne occupa”. A proposito di associazioni, Farina intende inoltre continuare a collaborare con un gruppo creato proprio dal predecessore e composto da volontari e appunto rappresentanti di diverse associazioni e della Caritas. Definito per brevità garante dei detenuti, in realtà, la dicitura corretta sarebbe quella di garante per le persone prive della libertà. Perché nella realtà non solo di detenuti si dovrebbe parlare, ma anche di persone con altre sofferenze, magari disabili gravi con in grado di far valere i propri diritti e che necessitano quindi di una figura che li tuteli in determinate occasioni. “Nella nostra provincia - dice Farina - non vi sono casi eclatanti, a parte quello del professore di Airuno ricoverato all’”Airoldi Muzzi” e di cui si occupa direttamente il garante nazionale. Pertanto è naturale rivolgere l’attenzione alla casa circondariale che è comunque un luogo della città e come tale va vissuto. Va detto che al momento non ci sono grossi problemi di rapporti perché la direttrice Antonina D’Onofrio è una persona intelligente, ma indubbiamente ci sono rigidità burocratiche e procedurali”. Detto che il “garante locale non ha i poteri di quello nazionale”, il lavoro è volto “alla costruzione di una cultura dei diritti, a intervenire anche solo per problemi comuni. Per esempio, so che il sindaco era intervenuto per una questione di rifiuti e che il mio predecessore era stato contatto dalla questura affinché verificasse che le celle per le detenzioni brevi fossero regolari. Poi, c’è appunto il lavoro per i detenuti anche se non è così semplice perché, essendo la nostra casa circondariale per le pene fino a cinque anni, il turn-over è molto alto.”. Tra gli obiettivi dello stesso Farina, inoltre, anche un dialogo con gli studenti, una sorta di attività preventiva ma anche perché i ragazzi prendano coscienza dei diritti di se stessi e di quelli degli altri. Bari. “Genitorialità oltre le sbarre”: 93 detenuti coinvolti a un mese dall’avvio del progetto comune.bari.it, 6 maggio 2022 L’assessora Francesca Bottalico rende noto che, a poco più di un mese dall’avvio del progetto “Genitorialità oltre le sbarre”, promosso dall’assessorato comunale al Welfare e realizzato dagli operatori del Centro Servizi per le famiglie di Carrassi San Pasquale e Mungivacca in favore dei figli minori nonché degli stessi detenuti del carcere di Bari, sono 93 gli utenti complessivamente coinvolti. Nel dettaglio si tratta di 57 adulti; 10 piccolissimi nella fascia di età 0-36 mesi; 12 piccoli di età compresa tra 4 e 6 anni; 11 bambini tra i 7 e i 13 anni e 3 adolescenti. Grazie al progetto, durante i colloqui tra i detenuti e i loro familiari in programma il sabato, ogni 15 giorni l’area antistante a quella per le visite viene allestita e animata da attività laboratoriali e ludico-educative per le diverse fasce d’età dei minori. Inoltre, d’accordo con l’equipe e la direttrice del carcere, a breve saranno attivati percorsi di educazione alla lettura per il contrasto alle povertà educative nonché una serie di azioni di supporto ai bisogni socio-psicologici dei detenuti e della rete familiare di sostegno, ad esempio gruppi di mutuo aiuto per genitori detenuti condotti da una psicologa e finalizzati all’elaborazione dei vissuti, ma anche laboratori creativi e artistici per la riqualificazione degli spazi fisici destinati agli incontri. A tal proposito, accanto all’equipe professionale del progetto (psicologi, educatori, pedagogisti ed esperti di laboratorio del Centro di ascolto per le famiglie di Carrasssi San Pasquale Mungivacca), nel corso del prosieguo delle attività sarà valutato l’eventuale coinvolgimento di ulteriori risorse professionali e servizi. “L’emergenza covid ha inciso pesantemente su una situazione già complessa, legata alle condizioni dei detenuti, e in maniera determinante sui detenuti genitori e sul rapporto con i loro figli, visto che per lungo tempo gli incontri sono stati sospesi e si sono utilizzati canali complicati, inattuabili nel caso di bambini molto piccoli - osserva l’assessora al Welfare Francesca Bottalico. Se pensiamo che alcuni bambini hanno conosciuto e possono incontrare i propri genitori solo negli spazi protetti del carcere, è facile capire come si tratti di relazioni molto delicate, in cui stabilire e mantenere un contatto profondo è particolarmente difficile. Il progetto avviato dall’assessorato al Welfare in accordo con la direzione del carcere punta perciò a sostenere la relazione genitoriale, a offrire strumenti educativi di accompagnamento alla conoscenza e alla relazione attraverso esperienze artistiche, ludiche e di lettura. Soddisfati dell’avvio del progetto, che fin qui ha coinvolto 93 utenti, tra genitori e minori, intendiamo consolidarne le azioni anche attraverso l’attivazione di gruppi di parola tra ragazzi e genitori, e tra coppie di coppie. Ringrazio per l’enorme fiducia e per la proficua collaborazione la direttrice del carcere, Valeria Pirè, e il ministero di Giustizia, con cui stiamo realizzando progettualità importanti come le Biblioteche e i progetti educativi anche nell’ambito delle misure alternative e dei lavori socialmente utili. Il prossimo obiettivo che dovrà vederci impegnati insieme è l’attivazione di una Casa della legalità a fini preventivi ed educativi con il contributo dell’intera comunità”. “Si è avviato un percorso cui tenevamo moltissimo, interrotto dalla pandemia - commenta la direttrice del carcere di Bari Valeria Pirè - in cui la città si fa carico del disagio dei quartieri “difficili”, di cui il carcere fa a pieno titolo parte. La presa in carico del disagio non viene interrotta da muri e cancelli, ma prosegue con l’intercettare le famiglie dei reclusi in uno dei momenti di maggiore sofferenza e criticità, quello dell’incontro ai colloqui con padri, figli, fratelli, fidanzati, partendo dai minori, i più danneggiati e devastati dall’assenza e dalla lontananza dagli affetti reclusi. Il progetto “Genitorialità oltre le sbarre” è finanziato dall’assessorato comunale al Welfare e realizzato nell’ambito delle attività del Centro di ascolto per le famiglie e Casa della salute dei bambini di Carrassi, San Pasquale e Mungivacca, coordinato dalla cooperativa sociale Progetto Città. Palmi (Rc). Klaus Davi terrà corsi di marketing sociale ai detenuti per mafia reggiotv.it, 6 maggio 2022 Il giornalista Klaus Davi, titolare di una prestigiosa agenzia di comunicazione fondata nel 1994 che cura la comunicazione per conto di marchi, istituzioni ed enti no profit, terrà corsi mensili di comunicazione e marketing, con particolare focus sull’aspetto della comunicazione sociale, per i detenuti del carcere di Alta Sicurezza di Palmi (RC), a partire dal mese di giugno. L’istituto penitenziario di Palmi è classificato come ad Alta Sicurezza e ospita soggetti reclusi per 416 bis, di cui, secondo l’associazione Antigone, un quinto di essi sta scontando condanne definitive. La prima lezione è prevista per lunedì 30 maggio. Davi ha presentato un piano di studi che è stato approvato dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e che durerà per sei mesi, con la supervisione del garante dei detenuti, il dottor Paolo Praticò. Scopo dell’iniziativa è fornire ai reclusi spunti di riflessione sui temi della comunicazione e del disagio sociale, nonché una lettura critica dei moderni strumenti di comunicazione digitale. Non è la prima volta che Davi viene a contatto con le realtà degli istituti di pena: nel 2019 incontrò i detenuti del carcere di Padova e, prima ancora, nel 2008 promosse un’iniziativa in collaborazione con l’allora Ministro della Giustizia Clemente Mastella a favore dei detenuti di Volterra. È però la prima volta che un personaggio conosciuto offre gratuitamente un supporto didattico e sistematico a un istituto carcerario, per di più di alta sicurezza. “Per me è il coronamento di un sogno. Credo fermamente nella funzione rieducativa della pena e nella funzione sociale della comunicazione. Per questo inizio quest’avventura con entusiasmo e coinvolgimento”, afferma Davi. Klaus Davi ha riportato numerosi premi per la sua attività giornalistica, tra cui il Premio Paolo Borsellino - Edizione 2019. Nel 2017 ha assunto nella sua agenzia, in accordo con la Procura di Reggio Calabria e il Ministero degli Interni, un collaboratore di giustizia che lavora con il massmediologo operando da una località protetta. Il 5 marzo di quest’anno il Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Catanzaro, Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (G.i.c.o.), ha reso noto un filmato in cui era documentato come il boss Pino Campisi, affiliato alla cosca Mancuso di Limbadi, custodisse nel suo covo romano il libro di Davi “I Killer della ‘Ndrangheta” (Piemme Mondadori). Salerno. “Oltre la Pena”: al via il progetto in carcere della Zona Orientale Rugby salernotoday.it, 6 maggio 2022 Obiettivo del progetto è sviluppare, attraverso il rugby, un percorso riabilitativo e di risocializzazione con i detenuti dell’istituto penitenziario di Eboli, favorendo nel contempo la progressiva interiorizzazione dei valori che caratterizzano lo sport. Nuova sfida per la Zona Orientale Rugby. Il sodalizio rugbistico salernitano - con sede nel campo “24 maggio 1999” di Sant’Eustachio, ed interamente autogestito da soci/e e atleti/e - promuove, in collaborazione con la Casa di Reclusione di Eboli, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Regione Campania e il patrocinio della Federazione Italiana Rugby, il progetto “Oltre la Pena”, le cui attività sono iniziate ieri 4 maggio. Obiettivo del progetto è sviluppare, attraverso il rugby, un percorso riabilitativo e di risocializzazione con i detenuti dell’istituto penitenziario di Eboli, favorendo nel contempo la progressiva interiorizzazione dei valori che caratterizzano questo sport: l’osservanza delle regole, la lealtà, la solidarietà, il sostegno reciproco ai compagni, il rispetto dell’avversario, dell’arbitro e del risultato. Un percorso che può apportare benefici ai detenuti sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico, mitigando così i rischi dovuti all’inattività e alla vita sedentaria del carcere. L’idea progettuale è nata dalla condivisione delle linee guida del progetto “Rugby Oltre le Sbarre”, promosso da anni a livello nazionale dalla Federazione Italiana Rugby (al momento attivo in 10 istituti, da Torino a Caltanissetta), e dal protocollo di intesa tra la stessa FIR e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, stipulato il 2 febbraio 2018. Il progetto, dalla durata iniziale di 6 mesi, prevede un doppio appuntamento settimanale, ognuno dalla durata di 2 ore, coordinato dai tecnici della Zona Orientale Rugby. Oltre alla riabilitazione motoria e all’avviamento al rugby, è previsto inoltre un percorso nutrizionale sviluppato da una biologa nutrizionista al fine di indirizzare i detenuti verso una sana alimentazione e uno stile di vita sostenibile dal punto di vista alimentare. Il progetto “Oltre la Pena” è dedicato alla memoria di Silvano Minelli, figura storica del rugby salernitano che credeva fortemente nel valore educativo di questo sport a favore dei soggetti appartenenti alle fasce sociali più deboli. Papa Francesco vuole superare la strategia dei blocchi contrapposti di Marco Politi Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2022 Due mesi dopo l’inizio del conflitto Papa Francesco confessa: “Io sono pessimista”. Ma subito dopo aggiunge: “Ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi”. In Vaticano è chiara la consapevolezza (diffusa in tutte le cancellerie) che il 26 aprile - con la riunione a Ramstein di 40 paesi, non solo Nato, sotto la guida statunitense - la guerra in Ucraina sia entrata in uno stadio interamente nuovo. Non si tratta più meramente della resistenza del popolo ucraino all’invasione russa ordinata da Putin e alle brutalità che si sono verificate. Il nuovo capitolo vede l’Ucraina trasformata in un perimetro in cui si affrontano la potenza degli Stati Uniti (con la Nato) e la potenza della Russia. È una guerra di imperi. La posta in gioco l’ha descritta con precisione il ministro della Difesa americano, Lloyd Austin: “Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto da non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”. Parole chiarissime. La Russia deve perdere il suo status di grande potenza per diventare una specie di Serbia, incapace di nuocere. A chi osserva con lo sguardo dello storico le vicende dell’ultimo trentennio appare chiaro che la lotta è tra un impero decaduto (Mosca) e un impero in declino (Washington). Gli Stati Uniti, che in seguito al crollo dell’Urss pensavano di inaugurare un “secolo americano”, si sono accorti dopo il fallimento dell’occupazione dell’Afghanistan e dell’invasione dell’Iraq che una loro egemonia mondiale non è più praticabile. Per questo ora hanno deciso di voler domare Mosca al fine di mostrare al mondo che sono sempre la superpotenza numero uno. Putin a sua volta ha pensato di trovarsi di fronte a una potenza americana indebolita dopo la disastrosa fuga da Kabul e ha creduto di potersi permettere una zampata imperiale ai danni dell’Ucraina: errore clamoroso, condito da sconfitte inferte dalla strenua resistenza ucraina (rafforzata dalle forniture di armi occidentali e dal costante aiuto strategico dei servizi segreti di Stati Uniti e Gran Bretagna). Nella sua intervista al Corriere papa Bergoglio invita, com’è suo solito, a non essere ingenui. Putin ha provocato la guerra, non c’è dubbio, e il pontefice sta dalla parte di chi soffre, l’Ucraina, e dunque si aspetta e preme perché il leder russo dia un segnale di cessate il fuoco. Però questa guerra è nata in un contesto ed è inutile che si tenti di silenziare i fatti della storia. “L’abbaiare della Nato alla porta della Russia” ha spinto Putin a muoversi, “un’ira che non so dire se provocata, ma facilitata sì”. L’analisi che sia stato un errore tentare di spingere la Nato ai confini russi è ampiamente condivisa da politici e politologi americani ed europei, da Henry Kissinger, che sottolineava l’esigenza di un’Ucraina non allineata, all’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato (con un secco comunicato Angela Merkel, tra i maggiori statisti che l’Europa abbia avuto nel ventennio trascorso, ha ribadito di “confermare” la sua decisione del 2008 di bloccare insieme alla Francia l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, voluto allora dal presidente statunitense Bush junior). Nell’attuale crisi papa Francesco rappresenta un punto di riferimento politico - non un generico appello morale, disincarnato - che ovviamente respinge le pretese militari di Mosca ma contemporaneamente non accetta di allinearsi a Washington nella corsa verso una escalation bellica fino alla “vittoria” sulla Russia. Il pontefice sottolinea con forza che il primo obiettivo da perseguire è il negoziato. “Mi chiedo insieme a tante persone se si stia veramente ricercando la pace, se ci sia la volontà di evitare la escalation militare e verbale”, ha detto domenica in piazza San Pietro. Aggiungendo: “Non ci si arrenda alla logica della violenza perversa, si depongano le armi e si imbocchi la via del dialogo e della pace”. Altri tre punti si evidenziano nella sua intervista. Primo. La lobby degli armamenti si nutre del conflitto: “Le guerre si fanno per provare le armi che abbiamo prodotto… Il commercio degli armamenti è uno scandalo, pochi lo contrastano”. Secondo. Non è il momento per incontrare il patriarca russo Kirill, “sarebbe un segnale ambiguo”. Al patriarca, giustificazionista delle mosse di Putin, il Papa ha detto “Fratello, noi non siamo chierici di Stato”. E Bergoglio ci tiene a farlo sapere in pubblico. Terzo. Tocca a Putin fare una mossa. Il pontefice elenca tutti i passi fatti personalmente o tramite il segretario di Stato vaticano cardinale Parolin per fermare l’aggressione e rivela la sua disponibilità ad andare a Mosca. “Non abbiamo ancora avuto risposta e stiamo ancora insistendo”. La mossa di Francesco evidenzia in controluce anche gli interrogativi sulle scelte di Washington: nel 1962, durante la crisi di Cuba, Giovanni XXIII poté mediare perché sia Kruscev che Kennedy erano disponibili. Se Putin apre al negoziato, Biden è disponibile o attende la vittoria finale? Da questo punto di vista si comprende meglio la decisione di Francesco di non andare per ora a Kiev. Pur senza dirlo, non vuole essere ridotto a strumento di propaganda del presidente ucraino Zelensky. Leggere l’intervista del pontefice slegata da tutti gli interventi di queste nove settimane sarebbe un errore. I capisaldi della posizione della Santa Sede restano: 1. Riconoscimento dei legittimi interessi di tutte le parti, come affermò da subito il cardinale Parolin (molto elogiato da Francesco); 2. Superamento di una strategia limitata solo al confronto di blocchi politico-militari; 3. Nuove regole di governo della comunità degli stati a livello globale: cioè un nuovo patto sul modello di Helsinki 1975 ma a livello internazionale. Aiuta a capire meglio la posizione geopolitica di Francesco e del Vaticano l’ultimo editoriale del direttore di Avvenire. “Dicono che per fare finire la guerra bisogna fare più guerra - scrive Marco Tarquinio - … (noi) diciamo che non è vero, che guerra più guerra in Ucraina e ovunque significa solo un più grande massacro di vite umane e di verità”. Attenzione, avverte il giornale dei vescovi italiani, alle guerre per procura: “Se necessario, constatazione dolente e amarissima di Jeffrey Sachs, fino all’ultimo ucraino. Parole terribili, che potrebbero stare in bocca all’uomo del Cremlino e stanno in testa agli strateghi, d’occidente e d’oriente, della nuova guerra fredda”. La linea di Francesco contro un deragliamento della nuova guerra fredda e la sua isteria è tutt’altro che isolata. Incrociando i sondaggi emerge ripetutamente che gli italiani vogliono l’indipendenza e la libertà dell’Ucraina, vogliono che Putin sia fermato, ma non vogliono una corsa alle armi e un’escalation del conflitto. La pace non si aspetta come un regalo dal nemico e non si invoca retoricamente, si ottiene con fatica e volontà. Non a caso Francesco il suo ultimo libro lo ha intitolato Il coraggio di costruire la pace. Don Ciotti: “Per la pace non servono coscienze addormentate” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 6 maggio 2022 Il dialogo tra il fondatore di Libera e il direttore del Corriere, Luciano Fontana, ha aperto la quattro giorni dedicata alla cittadinanza attiva. Il sindaco Sala e il calciatore Shevchenko, in collegamento, hanno parlato dei progetti per l’Ucraina. “La pace si costruisce nel pensiero, nel linguaggio, nelle azioni”: comincia così don Luigi Ciotti, e dice che alla pace bisogna prima di tutto crederci. “Ma ci vogliono anche conflitti, e ve ne auguro uno su tutti: il conflitto nella nostra coscienza. Perché già prima dell’Ucraina di guerre nel mondo ce n’erano 59”, anzi c’era già “la terza guerra mondiale a pezzi”, aggiunge citando il Papa: “E dove eravamo noi?”. Comincia con questo grido la Civil Week 2022 che è partita all’Adi Design Museum di Milano, con il fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera intervistato dal direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, sul palco con Elisabetta Soglio per declinare il tema del “Tocca a me” - filo conduttore di questa settimana dedicata alla cittadinanza attiva - rispetto al dramma più attuale che ci circonda: “Tocca a me promuovere la pace”. E proprio perché “tocca a me” don Ciotti risponde in primo luogo con una provocazione rivolta a ciascuno di noi: no alla “coscienza addormentata”, no alla “inerzia omicida”, no alla “aggressività dei linguaggi”. Dopodiché richiama il Concilio Vaticano II per riaffermare il “diritto alla difesa” di chi è aggredito. Aggiungendo che però questo stesso diritto contempla anche l’obiezione di coscienza rispetto alla violenza: “Si può difendere il debole anche con le azioni di solidarietà non violente che tanti stanno mettendo in pratica”. Insiste: “La pace si costruisce intervenendo non solo sugli effetti ma sulle cause delle guerre, sui diritti calpestati”. E su questo davvero tutti possono fare la loro parte. “Non è che possono, devono!”, grida don Ciotti: “Nessuno dovrebbe essere considerato cittadino se non è anche volontario, abbiamo bisogno di cittadini responsabili, non di cittadini a intermittenza che si svegliano sull’onda di una emotività poi tornano a dormire”. Proprio sul tema della cittadinanza attiva è intervenuto il sindaco di Milano Beppe Sala accanto al campione ucraino Andriy Shevchenko, in collegamento da Londra, per presentare l’iniziativa costruita in collaborazione da entrambi a sostegno dei tanti migranti, soprattutto donne e bambini, in fuga dalla guerra: un call center in lingua, apposta per loro, a cui potersi rivolgere per affrontare i problemi più vari. Il campione ha citato i suoi quattro figli, ha ripetuto che “la pace è tutto: ma dobbiamo prepararci al fatto che la guerra potrebbe durare tanti, e che soprattutto i bambini avranno bisogno di tutto. Give peace a chance”, conclude Sheva citando John Lennon. La pace si costruisce “lavorando tanto e giorno per giorno”, ha detto Sala. A questo si sono aggiunte le testimonianze concrete del “cosa si sta facendo” con Maria Laura Conte di Fondazione Avsi in sala e Aniello D’Ambrosio in collegamento diretto da Leopoli. Chiusura scoppiettante con i Rulli Frulli, la band inclusiva di Finale Emilia ormai affezionata da anni alle iniziative di Buone Notizie, con l’annuncio della inaugurazione della loro nuova sede il 21 maggio: e a tagliare il nastro sarà il presidente Sergio Mattarella. L’invasione, le bombe sui civili: non ci può sembrare normale di Walter Veltroni Corriere della Sera, 6 maggio 2022 Qui dove le case sono in piedi, forse abbiamo smesso di indignarci. E forse dovremmo reimparare a parlare, a difendere le nostre idee senza la triste procedura degli insulti. Ho conosciuto Elie Wiesel, uno dei testimoni più lucidi della Shoah. Ha scritto libri bellissimi per cercare di capire l’inspiegabile, l’orrore del nazismo. E si è battuto tutta la vita perché guerre e dittature non vincessero. Ho visto nei suoi occhi e ascoltato dalle sue parole, più volte, l’accorato appello a combattere l’indifferenza, quel comportamento umano, paura e cinismo, che ha consentito all’orrore di farsi strada, fino a quel cancello, con scritto, paradosso, “Il lavoro rende liberi”. Disse pubblicamente una volta: “L’indifferenza non è un inizio, è una fine e, quindi, l’indifferenza è sempre l’amico del nemico, perché avvantaggia l’aggressore - mai la sua vittima, il cui dolore si ingrandisce quando si sente dimenticato”. E noi, qui dove le case sono in piedi, non abbiamo forse smesso di indignarci? Ci sembrano normali, davvero normali, l’invasione di un Paese sovrano, i bombardamenti sui civili - tremila morti dice l’Onu - le fosse comuni, gli stupri di donne e bambini, la sistematica distruzione di case e acquedotti? Siamo talmente narcotizzati da non stupirci più? Siamo talmente ammaestrati dalle dinamiche della comunicazione dal dover talvolta dire cose che il nostro cuore non accetta e la nostra mente, talvolta la nostra storia, non giustificano? Possiamo, in questo gorgo, reimparare a parlare, a difendere le nostre idee - che tutte hanno diritto in una democrazia ad essere conosciute - senza la triste procedura degli insulti, della demonizzazione, delle etichette di comodo? Sappiamo, almeno noi fortunati che possiamo, rifiutare la violenza del linguaggio come codice naturale di questi tempi? Persone che conosco e stimo, animate davvero da profonde convinzioni di pace, finiscono col non vedere ciò che accade dal 24 di febbraio nella vita reale di milioni di uomini, di donne, bambini costretti a fuggire, morire, combattere. Esseri umani che vivevano tranquilli nelle loro case che non ci sono più, che dormivano di fianco a padri, madri, figli che non ci sono più, morti o fuggiti chissà dove. Tutto questo non ci indigna? Non ci indigna che in un grande Paese, che non ci rassegneremo a considerare nemico, si chiudano giornali, si arrestino decine di migliaia di oppositori, siano avvelenati avversari dell’autocrazia al potere? Davvero siamo tanto cambiati da aver dimenticato noi stessi, da aver paura dei valori che abbiamo conquistato con tanta fatica lungo il secolo breve e sanguinoso? Non ci si può rivoltare contro la spietatezza di chi nega soccorso a immigrati che fuggono per cercare vita e volgere le spalle ai civili bombardati a Mariupol. O tutti e due, o nessuno. Si dice: perché tanta indignazione per questa guerra e non per altre? In questo argomento c’è una verità, che rimanda al nostro scarso senso di umanità verso chi soffre in Libia o in Afghanistan. Ma non va dimenticato quando si riempivano le piazze di tutta Italia contro la guerra in Iraq e la follia delle “armi di distruzione di massa”, e si denunciava la politica degli Usa in quell’area del mondo. Manifestazioni che in verità non ci sono state dopo l’invasione di un libero Paese decisa dal governo russo. E prima ancora i progressisti si mobilitarono, anche contro un presidente democratico come Lyndon Johnson, in difesa del diritto del piccolo popolo vietnamita a difendersi da una invasione straniera. Ai nord vietnamiti, armati dall’Urss, nessuno disse di arrendersi e di consentire, per il bene della pace, di farsi cancellare come popolo e come nazione. E prima ancora molti italiani, che avevano “trovato l’invasor” decisero di ribellarsi all’indifferenza e di andare in montagna a difendere il diritto alla libertà e il suolo del loro Paese. Lo fecero a rischio della propria vita e non si sentirono soli, non furono, come dice Wiesel, “dimenticati”. Perché qualcuno dal cielo, su aerei alleati, gli lanciava armi e munizioni con le quali potessero difendersi dall’invasore. Se si va a Nettuno o in Normandia si vedono quelle migliaia di croci bianche sotto le quali riposano ragazzi di Paesi che non avevano votato o applaudito dittatori, che non avevano organizzato campi di sterminio e persecuzione di oppositori. Si deve immaginare cosa sarebbe di noi e del mondo se quei ragazzi invece di venire qui a combattere per noi si fossero limitati ad innalzare un cartello con scritto “Peace” a Minneapolis o a Boston. Chi ripudia la guerra, chi la considera la più inaccettabile delle condizioni umane, deve oggi operare perché la soluzione di questo spaventoso conflitto che inevitabilmente ci riguarda da così vicino, sia negoziale, sia sottratta alla pura logica delle armi. Che si eviti una escalation, un dilagare del conflitto. Che le parole sostituiscano le bombe. E che la ripresa del dialogo aiuti il cessate il fuoco, l’armistizio, l’avvio di una seria trattativa. Che ciascuno sia tanto intelligente da cercare, per il nemico di oggi, una onorevole way out. Ammesso che tutto questo lo si voglia davvero. Ma la comunità e il diritto internazionale non possono prescindere dall’integrità dell’Ucraina e dalla sua sovranità, dalla riconquista della possibilità per quel popolo di tornare a vivere e a decidere autonomamente il suo destino. Come ha detto nell’intervista al Corriere Papa Francesco: “Non si può pensare che uno Stato libero possa fare la guerra a un altro Stato libero. In Ucraina sono stati gli altri a creare il conflitto”. È una illusione, già sperimentata nel Novecento, l’idea che la miglior garanzia di pace sia lasciar fare, per paura, ai poteri autoritari. Bisogna presidiare valori essenziali della civiltà umana, quelli che abbiamo estratto esanimi dai lager e poi dai gulag e abbiamo trasformato nella normalità di una buona parte del mondo. Una normalità che ha sottratto aree del mondo alla dittatura e al colonialismo, che ha fatto percepire razzismo e discriminazioni come odiose, che ha consentito il diritto ad essere se stessi, con le proprie convinzioni politiche, religiose, culturali, sessuali. Quella meravigliosa condizione, la libertà, che oggi come ieri ha un grande e subdolo nemico: l’indifferenza. Metodo Assange: così Usa, Russia e Turchia hanno imbavagliato personaggi ritenuti scomodi di Andrea Lanzetta The Post Internazionale, 6 maggio 2022 Processi infiniti, carcere duro e calunnie. La caccia al fondatore di WikiLeaks ricorda i casi di Navalny in Russia e del filantropo turco Kavala. Non hanno mai ucciso o ferito nessuno, non aderiscono a organizzazioni armate e non sono considerati violenti, eppure sono detenuti in carceri di massima sicurezza dove rischiano di passare il resto della vita. Seppur diverse, un filo sottile unisce le storie di Julian Assange, Osman Kavala e Alexei Navalny ed è il metodo adottato dalla leadership di Usa, Turchia e Russia per mettere il bavaglio a personaggi ritenuti scomodi. Assange ha passato gli ultimi dieci anni a sfuggire a un ordine di cattura emesso negli Usa, dove è ricercato per aver divulgato documenti secretati. Da quando ha fondato WikiLeaks nel 2006, la sua piattaforma ha pubblicato oltre 400mila rapporti militari segreti relativi alla guerra in Iraq e più di 90mila sul conflitto in Afghanistan. Dopo aver passato quasi sette anni rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dal 2019 il 50enne australiano è detenuto nel carcere britannico di massima sicurezza di Belmarsh in attesa di essere estradato negli Usa, dove rischia fino a 175 anni di reclusione. Un trattamento che non fu riservato neanche a Pinochet, a cui Londra concesse i domiciliari. Kavala è invece in prigione dal 2017. Accusato prima di aver fomentato le proteste di Gezi Park a Istanbul nel 2013, quando tentò una mediazione tra manifestanti e polizia, e poi di aver partecipato al tentato golpe militare del 2016, orchestrato secondo Ankara da un’organizzazione islamista di cui non ha mai fatto parte, lo scorso mese il filantropo turco è stato condannato all’ergastolo per eversione. Tutto questo nonostante una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che da tre anni ne chiede il rilascio dal carcere di massima sicurezza di Silivri, dove sono detenuti oppositori politici e terroristi. Anche Navalny è in prigione: sconterà una pena a 9 anni nel carcere di massima sicurezza di Melekhovo, dove sarà trasferito a seguito di una condanna per frode. Ma l’attivista era già detenuto da un anno e mezzo: era stato arrestato al ritorno in Russia dopo essere sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento presumibilmente compiuto dai servizi di Mosca. Ognuno è un caso a sé stante, ma le analogie sono inquietanti. Innanzitutto la sfida posta da questi uomini e dalle loro organizzazioni no profit ai tre diversi governi è di natura squisitamente culturale, prima che politica. L’opera di Assange e WikiLeaks ha lo scopo di diffondere documenti ufficiali secretati forniti all’organizzazione da fonti di cui si tutela l’anonimato. Tutto in nome del diritto dei cittadini a conoscere la verità. Al contempo la Fondazione per la lotta alla corruzione di Navalny, sciolta nel 2020, si proponeva di divulgare informazioni sulle malversazioni del governo russo a fronte della povertà diffusa nel Paese. La Anadolu Kültür fondata invece da Kavala mira a costruire ponti tra diversi gruppi etnici e religiosi della Turchia, sostenendo iniziative a favore della diversità culturale. La reazione a questi propositi perseguiti con mezzi pacifici è stata a dir poco brutale. I tre sono detenuti in carceri di massima sicurezza a seguito di procedimenti penali in corso da anni. Alla persecuzione giudiziaria sono poi seguite vere campagne di delegittimazione. Il fondatore di WikiLeaks è stato tacciato di stupro, l’attivista russo di corruzione e il filantropo turco di legami criminali. Tutti sono stati accusati di spionaggio per conto di potenze straniere (la Russia nel caso di Assange; gli Usa per Navalny e Kavala). Non a caso Washington, Mosca e Ankara hanno usato i singoli processi per criticarsi a vicenda: se la Casa Bianca ha condannato l’incarcerazione degli oppositori in Russia e Turchia, dall’altra parte è stata sottolineata l’ipocrisia degli Usa sulla vicenda Assange. Come se la libertà di parola fosse questione di punti di vista. Siria. Ong: 252 persone liberate finora da amnistia Assad ansa.it, 6 maggio 2022 Attivisti e dissidenti rilasciati col contagocce in varie città. Sale a 252 il numero di siriani, per lo più attivisti e dissidenti ma anche gente comune, rimessi in libertà nelle ultime ore dal governo siriano in forza di un’amnistia senza precedenti in favore di prigionieri politici decisa nei giorni scorsi dal presidente Bashar al Assad. Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, secondo cui il numero delle persone liberate da domenica scorsa a oggi è destinato ad aumentare nel corso dei prossimi giorni e settimane. Si stima che la graduale liberazione potrebbe durare ancora alcune settimane. È la prima volta dallo scoppio del conflitto siriano nel 2011 che il presidente Assad decide di rimettere in libertà persone arrestate in forza della controversa legge anti-terrorismo, promulgata nel 2012 per giustificare la repressione di attivisti e dissidenti. Secondo l’Osservatorio, nelle carceri del regime siriano rimangono 969.854 prigionieri politici, di cui 155.002 donne, tutti finiti in carcere dal marzo del 2011, data in cui erano cominciate le prime proteste popolari contro il governo incarnato da mezzo secolo dalla famiglia Assad. Sempre secondo i dati forniti dall’Osservatorio, dal 2011 a oggi sono stati uccisi in carcere, sotto tortura, 105 mila prigionieri. L’83% di queste vittime si è registrato nel periodo tra il maggio del 2013 e l’ottobre del 2015. Intanto, come riferisce l’Osservatorio, agenti dei servizi di controllo e repressione si sono dispiegati nelle ultime ore nel centro di Damasco, dove da domenica venivano scaricati da camion governativi decine di prigionieri liberati in forza dell’amnistia. In queste zone, così come di fronte ai tristemente noti penitenziari alla periferia di Damasco e in altre città del paese, si erano da due giorni radunate migliaia di persone, familiari e parenti delle persone in carcere, con la speranza di incontrare i loro cari o di chiedere informazione sulla loro sorte ai prigionieri liberati. Il Messico dice basta alle armi Usa e intenta una causa di Giovanna Branca Il Manifesto, 6 maggio 2022 Parla John Lindsay-Poland di Stop Us Guns to Mexico. La causa del governo messicano ai produttori di armamenti statunitensi. Pistole semiautomatiche, fucili d’assalto, fucili da cecchino in grado di abbattere perfino un elicottero. Sono le armi che compongono l’arsenale dei cartelli della droga - e che in generale vengono ritrovate sulle scene anche dei crimini “comuni” in Messico. Fra il 70 e il 90% vengono dagli Stati uniti, dove sono vendute legalmente in 41 stati, un “fiume di metallo” che si riversa illegalmente oltre il confine: in tutto il Messico esiste un solo negozio dove è possibile acquistare legalmente armi da fuoco, previo un processo di controllo che può durare mesi. Eppure un messicano ha molte più probabilità di essere ucciso da un’arma Usa di un cittadino statunitense, nonostante la popolazione del paese latino sia più o meno la metà. Sono alcuni degli argomenti con cui il governo messicano ha intentato una causa - nell’agosto 2021 - contro i principali produttori e rivenditori di armi statunitensi, a cui vengono chiesti 10 miliardi di dollari di danni per il dolore e la distruzione a cui hanno contribuito oltre il confine. Una cifra simbolica: con la causa si spera piuttosto di aprire una strada alla regolamentazione, e di dimostrare che il traffico illegale di armi destinate a criminali e cartelli della droga - con il semplice impiego dell’intermediazione di prestanome - è “una caratteristica, non un malfunzionamento” delle operazioni commerciali delle compagnie. Tanto più che alcune di queste armi sono pensate proprio per esercitare un appeal su una clientela molto particolare: pistole con incisi soprannomi come El Grito e El Jefe, o fucili placcati in oro. In questi giorni in una corte del Massachusetts si discute l’istanza di archiviazione dei produttori di armi citati in giudizio: Smith & Wesson, Colt, Glock, Barrett, Ruger - e anche la controllata Usa della nostra Beretta. “Quelle Beretta sono le armi in assoluto più richieste in Messico. L’Italia ha un ruolo molto importante nella violenza in quel paese” spiega John Linsay-Poland, ricercatore, analista e attivista che si occupa di demilitarizzazione e coordina il gruppo Stop Us Guns to Mexico. “La causa si concentra sulle armi vendute al dettaglio e poi trafficate in Messico. Ma sarebbe interessante anche discutere del fatto che a Beretta faccia comodo avere una sede legale in Usa, dove le leggi sull’export sono molto più rilassate rispetto a quelle europee”. Qual è stato il costo del traffico illegale di armi Usa per il Messico? Il numero di omicidi con armi da fuoco in Messico è cresciuto enormemente negli ultimi 20 anni. I fattori che hanno contribuito a questa impennata di violenza sono molti, ma la disponibilità di armi trafficate, o perfino esportate legalmente dagli Stati uniti, è un fattore importante. Spesso ci si concentra sul commercio di droga, la corruzione, le organizzazioni criminali, ma la presenza e la disponibilità di una grande quantità di armi - anche di tipo militare - ha aumentato la pervasività del problema, e la capacità di organizzazioni armate, che siano criminali o lo stesso stato, di commetterle violenza. Non solo omicidi: sparizioni forzate, estorsioni, stupri, attacchi ai migranti, violenza domestica… Cosa pensa della causa del governo messicano, e della scelta di non citare in giudizio il governo Usa che pure ha un ruolo di primo piano nel flusso di armi oltre il confine? Questa ondata di violenza non si può arginare con un’unica soluzione. Ma la causa è importante per tante ragioni: da un punto di vista giudiziario e in termini politici - perché pur non essendo rivolta al governo lo mette sotto pressione affinché ripensi le leggi in materia. E mette sotto pressione anche lo stesso governo messicano, perché intraprenda nuove strategie per far fronte al problema. E un aspetto fondamentale della causa è che cambia la narrativa: quella dominante è una narrativa razzista, per la quale i messicani sono violenti, e che questo non dipenda dalle armi, o dalle droghe, ma proprio dalla loro natura. Un altro modo distorto di vedere il problema addossa invece tutte le colpe al confine, e sostiene che se lo si potesse controllare tutto verrebbe risolto. Ma gli scambi commerciali legali attraverso il confine sono una priorità per Usa e Messico, e il loro volume è tale che cercare di fermare le armi, la droga, o perfino le persone non è che un’illusione. Quindi spostare l’attenzione sulla produzione e la vendita di armi da fuoco che entrano in Messico è un modo molto importante di focalizzare la narrativa sulle responsabilità del mercato stesso: il controllo sulle armi in entrata è minimo - da parte delle compagnie che le producono e le vendono, del governo e dei singoli stati Usa, dei rivenditori. Ma è proprio su quel mercato che ci si deve concentrare: se per esempio ci fossero controlli sui fucili d’assalto, o se Walmart smettesse di venderli, si potrebbe arginare l’arsenale diretto a sud. Mentre c’è una chiara volontà di impedire alle persone di attraversare il confine, lo stesso non si può dire delle armi trafficate nella direzione opposta... C’è un problema legale: per la legge i migranti che transitano in Messico senza documenti lo fanno illegalmente, ma lo stesso non si può dire delle armi finché transitano all’interno degli Stati uniti. È solo quando attraversano il confine che questo diventa illegale. E c’è un problema politico: gli Usa hanno imposto le loro politiche migratorie al Messico, che quindi fa il lavoro sporco per conto loro servendosi proprio di armi statunitensi: solo nel 2020 la Guarda nazionale - la forza principale che detiene i migranti in cerca di asilo - ha acquistato 50.000 pistole semiautomatiche dagli Usa. Nella più recente udienza sul caso si è discusso dell’istanza di archiviazione dei produttori di armi, secondo i quali se si desse ragione al governo messicano tutti potrebbero far causa: per esempio il governo italiano per gli omicidi di mafia... Non credo che il 70% delle armi usate dalla mafia in Italia siano illegalmente trafficate dagli Stati uniti. Mentre questo è ciò che accade in Messico - ed è un mercato che i produttori promuovono e dal quale traggono immensi profitti. Detto questo, credo che se si potesse appuntare la responsabilità sui produttori di armi anche in altri casi, se anche altri soggetti fossero in grado di citarli in giudizio, sarebbe una cosa buona. Pensa che la recente vittoria in tribunale delle famiglie delle vittime del massacro di Sandy Hook contro Remington rappresenti un precedente positivo? Senza dubbio. Le corti sono tenute a interpretare la legge, ma rispondono anche, nel bene e nel male, al mutamento di valori politici e sociali. E credo che la sentenza contro Remington rifletta la percezione fra la gente che la violenza armata, e il commercio di armi, abbia superato ogni limite, e che i produttori vadano ritenuti responsabili delle loro azioni. La PLCAA (la legge federale che garantisce vasta immunità ai produttori di armi nelle cause legali per violenza armata, ndr) fa un’eccezione per la “pubblicità ingannevole”, che è la strategia grazie alla quale le famiglie di Sandy Hook hanno vinto. Quindi credo sia un buon precedente, anche perché parte della causa del Messico è incentrata proprio sul marketing, su come alcune armi vengano targetizzate esplicitamente per i cartelli. I produttori di armi sostengono però che la PLCAA dovrebbe fargli scudo anche in questo caso... Sarà la corte a decidere, ma credo che l’argomento del Messico sia valido: che la PLCAA non è stata scritta né intesa per venire applicata extraterritorialmente, i danni provocati da queste armi da fuoco al di fuori del territorio statunitense non dovrebbero essere soggetti alla protezione della legge. E ci sono anche leggi Usa che si applicano a casi al di fuori del proprio territorio, per esempio quelle ecologiche: se l’inquinamento prodotto in Usa ha uno spillover in altri paesi, chiunque ne sia responsabile ne deve rispondere a livello legale, anche in assenza di danni all’interno degli Stati uniti. Che non è comunque il caso delle armi, che creano immensi problemi anche negli Usa: beneficerebbero anch’essi da un maggiore controllo di questi mercati.