Folli-rei, “Le Rems non sono la soluzione: tolti gli Opg, si completi la rivoluzione” di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 maggio 2022 “Ogni persona deve essere imputabile, sempre. Se è malato, fisico o psichico, sarà sottoposto a cure e a pene alternative. Il codice penale fa riferimento alla legge 36 del 1904: è da cambiare”. Parla Pietro Pellegrini, portavoce del Coordinamento Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. “Le Rems non sono la soluzione per i cosiddetti folli-rei. Quando abbiamo chiuso gli Ospedali psichiatrici giudiziari abbiamo operato un cambio di prospettiva, una vera e propria rivoluzione epocale sul tema dei malati psichiatrici internati o detenuti per aver commesso dei reati. Una rivoluzione che va portata fino in fondo riformando tutto il sistema, dal territorio al carcere, e non solo una parte. Si può, si deve, creare un sistema di salute mentale e giudiziario di comunità”. Il dr. Pietro Pellegrini, dal 2012 direttore del Dipartimento salute mentale dell’Ausl di Parma e portavoce del Coordinamento nazionale delle Rems, non è d’accordo con chi - anche sul Manifesto - ha sostenuto la necessità di aumentale il numero di posti nelle Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza che sono parte del sistema di smantellamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi definitivamente nel 2017. Direttore, partiamo dai numeri: ci sono tra 750 (secondo il Dap) e 578 (per la Conferenza delle Regioni) malati psichici in attesa di un posto nelle Rems. Ritiene corretti questi dati? I numeri sono corretti, ma va premesso che le Rems non hanno sostituito gli Opg perché la legge 81 che li ha smantellati dice che le Rems sono “soluzioni residuali” e che gli Opg vanno sostituiti con un sistema di salute mentale e giudiziaria di comunità. Perciò rapportare il numero di posti letto che c’erano negli Opg con quelli delle Rems è del tutto scorretto. D’altronde i pazienti dimessi dalle Rems vengono assorbiti dal sistema di comunità, che si stima riesca oggi a seguire 4.200 pazienti sul territorio. Dove vivono questi pazienti? Nelle strutture residenziali o a casa loro, perché in molti casi hanno misure, come la libertà vigilata che per la legge 81 ha priorità nell’applicazione. E sono seguiti dal sistema di welfare. Che, secondo lei, attualmente è sufficiente a garantire il diritto alle cure per i malati rei che attendono in carcere? Il sistema va completato, sia sul piano normativo che su quello territoriale. Gli Opg sono stati aperti ne11872, sono durati circa 150 anni, e adesso nel giro di pochi anni siamo riusciti a chiuderli, perciò è ovvio che il sistema sia ancora da affinare. Ma non bisogna farlo pensando, come unica soluzione, alle Rems. Questa deve rimanere una soluzione residuale, valutata da ciascuna Regione in base alla necessità ultima dei territori. Perché la Consulta ha invitato il legislatore ad “eliminare al più presto” i “numerosi profili” di incostituzionalità riscontrati nell’“applicazione delle norme sulle Rems”? Ha ragione, bisogna investire e cambiare profondamente il sistema. Ma la questione non va affrontata solo con i posti nelle Rems, perché per quanti posti costruiremo, tanti ne useremo. E alla fine, pur cambiandogli il nome, avremo di nuovo dei piccoli Opg. Bisogna creare invece un sistema unitario in grado di assicurare il diritto alla salute e alla giustizia, a prescindere dallo stato giuridico. Cominciamo a riflettere sul livello dei servizi e dei diritti nelle carceri dove il tasso dei suicidi è 13 volte maggiore che fuori. Purtroppo la Consulta, nel suo ragionamento, nemmeno cita le articolazioni di tutela della salute mentale negli istituti di pena, che pure ci sono. Ma se ieri a Torino un detenuto malato di Sla è riuscito ad ottenere i domiciliari dopo ben 12 istanze, e se una parte di detenuti in attesa di sentenza, soprattutto stranieri, non riesce ad ottenere le misure alternative perché mancano i luoghi dove scontarle, cosa ne facciamo ora dei “folli-rei” che attendono già da troppo tempo un posto dove curarsi e che quasi mai, per ovvie ragioni, possono essere riaffidati alle proprie famiglie (come sottolineato anche dalla Corte Edu)? Sono favorevole ad investire su misure diverse da quelle detentive: attualmente sulle Rems si spendono 55 milioni, nel Decreto energia il fondo è stato aumentato di un milione a partire dal 2025. E invece prima bisognerebbe fare altro, a basso costo, come le intese con i magistrati, la formazione, gli osservatori... E poi bisogna strutturare misure alternative e cercare soluzioni personalizzate: la moderna psichiatria (che oggi non è la stessa di venti anni fa) declinerà il proprio intervento sul “folle-reo” e lo stesso farà la giustizia. In carcere oggi ci sono due tipi di malati mentali: quelli - la maggior parte - che sono imputabili perché la loro malattia non incide sulla capacità di intendere e volere (e si possono gestire con misure alternative), e quelli che non sono imputabili. Questi ultimi si dividono in due categorie: quelli sottoposti a misure di sicurezza detentive provvisorie, che andrebbero abolite perché non consentono neppure le modalità alternative e perché sono prive delle garanzie assicurate ai provvedimenti cautelari; e quelli con misure di sicurezza definitive. Questi, a luglio, secondo la ministra Cartabia, erano 64; a febbraio si sono ridotti a 6, ma nel frattempo la lista si è allungata a 45 persone in attesa, molte delle quali però sono sottoposte appunto a misure di sicurezza provvisorie. Quali sono le vostre proposte di legge? Ogni persona deve essere imputabile, sempre. Se è malato, fisicamente o psichicamente, sarà sottoposto a cure e a pene alternative. Va adeguato il codice penale che fa ancora riferimento alla legge 36 del 1904, come propone la Pdl 2939 dell’on. Riccardo Magi. Sulle Rems dovrebbe avere competenza anche il ministero di Giustizia? No. Le Rems devono rimanere sotto l’egida sanitaria e la Giustizia deve solo dire quali sono gli interventi di propria competenza riguardo l’autore del reato. “La giustizia o è riparativa o è ingiusta” di Luca Liverani Avvenire, 5 maggio 2022 “Voi cappellani in carcere siete decisivi. Rendete possibile la speranza. Tessete il rapporto con l’esterno, aiutando il fuori a capire il dentro, e viceversa. Voi, che visitate il detenuto, questo nostro fratello più piccolo”. È sceso dalla sua Bologna ad Assisi per ringraziarli personalmente. Il cardinale Matteo Zuppi si sintonizza subito coni sacerdoti - e le suore, i diaconi, i volontari - che hanno chiuso ieri a Santa Maria degli Angeli il Convegno nazionale degli operatori della pastorale penitenziaria. Una partecipata tre giorni - quasi 300 persone - che ieri ha raccolto anche il contributo di riflessione su Chiesa in carcere, cammino sinodale e territorio, offerto dal presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, don Tonio Dell’Olio. Per Zuppi - che ha raccolto l’invito dell’ispettore generale dei cappellani don Raffaele Grimaldi - “il carcere non può e non deve essere un’isola impenetrabile. Chilo dice ha una visione ignorante, illusoria, colpevolmente enfatizzata. La vera sicurezza la dà una giustizia riparativa, che rimedia al danno. Se no, non è giusta. Esistono anche itinerari personali di giustizia riparativa, intrapresi con grande coraggio tra familiari della vittima e colpevoli, penso ad Agnese Moro e Adriana Faranda. Ma non è un percorso che può essere imposto”. Zuppi auspica che “le riforme in Parlamento su giustizia e carcere garantiscano due dimensioni: lo spazio, per garantire condizioni di vita degne e per preparare al “dopo”: lavoro, formazione, educazione; e il tempo, da riempire di significato perché abbia un orizzonte. Senza, è solo un momento punitivo e terribile”. Per l’arcivescovo insomma “chi vuole “buttare la chiave” si illude: senza misure alternative la recidiva è più alta e la società più insicura. Già oggi tantissimi potrebbero scontare meglio la pena, in vis La del reinserimento”. Concorda don Tonio Dell’Olio: “Definiamo “alternative” le misure fuori dal carcere, ma anche alla luce delle recidive e per fedeltà costituzionale, sarebbe ora di dire che è il carcere ad essere alternativo alle altre misure, l’extrema ratio”. Per il presidente della Pro Civitate “il Sinodo del carcere sta in due passaggi fondamentali: ascolto e territorio. Non potremo capirlo se non ci convertiamo all’ascolto attento, non potremo convertire né il carcere né noi stessi come Chiesa, se non ci attrezziamo per uno sguardo d’insieme verso il mondo, di cui il carcere è lo specchio”. Parlare di sinodo tra le sbarre, nota don Dell’Olio, “sembra una provocazione”, visto che il detenuto “non ha la libertà di partecipazione al processo sinodale”. Il carcere però “non coincide solo col detenuto”. E non è solo un cammino, “ma un esercizio di ascolto” per “dare la parola a chi non l’ha mai avuta o non l’ha mai saputa usare, secondo don Milani”. Dal carcere: “conoscere lo sfogo nella lettura”. di Nicla Pirro mentinfuga.com, 5 maggio 2022 È cominciato tutto quasi per gioco o forse più come una sfida: “Allora professore lo facciamo un gruppo di lettura in carcere?”. “Si dai, ci possiamo provare”. Ed eccomi al primo giorno, come se fosse il mio primo giorno di scuola. Ore 10,00 arriva il professore per accompagnarmi in carcere, ma io non sono pronta. Avevo completamente dimenticato l’appuntamento e non ho con me nemmeno il libro, anzi i libri: oggi dobbiamo scegliere cosa leggere. No, non sono pronta e il cuore mi batte forte, una forte emozione mi pervade. Varco la prima porta, la seconda e l’addetto alla sicurezza mi chiede documenti, green pass, e mi dice di lasciare la borsa in un armadietto consegnandomi le chiavi. Si tolga la sciarpa, signora. Perché? mi chiedo, ma non ho il coraggio di domandare per quale motivo o forse non voglio sentire la risposta. Non proferisco parola. Tutti salutano il professore che è con me e mi guardano pensando che io sia una nuova insegnante. Incrocio la direttrice. Una donna non molto alta, ma salda sulle sue gambe. Mestiere difficile il suo, come programmi la tua vita in un luogo di lavoro come il carcere? Eppure, sono certa che anche per lei questo è parte della routine quotidiana. Nessuno fa domande, la mia presenza è stata autorizzata, quindi nessun problema posso entrare. Un rumore di ferraglia mi giunge alle orecchie e mi rimbomba dentro, ho le farfalle nello stomaco, ma devo stare tranquilla mi dico. Chiavi che tintinnano. Attesa dietro la porta di ferro. Si apre una sola volta e si sale tutti insieme, ma prima bisogna allertare il secondino che aspetta dall’altra parte delle scale: arrivano in tre, puoi aprire. Varchiamo la soglia e la porta con un rumore sordo si chiude dietro di noi. Ferro, rumore di ferro. Incrocio sguardi di secondini annoiati, stanchi di un rituale di attese sfibranti. Sorpresi dalla mia presenza, forse si chiedono come è possibile che uno scelga di trascorrere del tempo in un luogo come il carcere. Cammino silenziosa, salgo scale strette fatte per essere percorse da una persona alla volta, non dico una parola e cerco di fissare ogni cosa nella memoria. La sensazione è quella di chi cammina in un luogo lontano anche dall’immaginazione. Sento il rimbombo dei passi, ferro, grate, porte chiuse, corridoi stretti. Come controlli la voglia di scappare se ce ne fosse la necessità? Aria, ho bisogno di aria. Domo la mia paura concentrandomi sulla possibilità che ho di sperimentare un luogo inaccessibile. Scale strette, si procede uno per volta con il secondino che come Virgilio ci traghetta nell’inferno. Ci siamo, eccoci davanti all’aula dove i professori tengono le lezioni. La porta è alla mia destra, ma non riesco ancora a vedere chi incontrerò. Sento il vociare di uomini, qualcuno deve aver fatto una battuta perché giunge una risata fragorosa. La porta si apre. Tocca a me, devo entrare. Ho un attimo di esitazione, sono emozionata e non sono pronta. Avevo immaginato cosa dire. Avevo preparato una sorta di presentazione e ora è tutto cancellato. La mia mente è un foglio bianco immacolato: nessuna parola, nessun pensiero. Vuoto, solo vuoto. Entro e dentro di me si accende una fiamma, non so dire di cosa si tratti, non la conosco, ma mi scalda e mi restituisce la forza di parlare illuminando i miei pensieri. Seduti dietro i banchi, composti, quasi tutti con le braccia conserte. Nel linguaggio del corpo è evidente che la maggior parte di loro ha un atteggiamento di chiusura, di diffidenza. Mi sento osservata, scrutata, ho un leggero tremore alle gambe, ma non sono spaventata. Incrocio i loro sguardi che oscillano tra la curiosità e il disinteresse, qualcuno è infastidito lo percepisco, ma non raccolgo la provocazione e comincio a parlare. Mi presento, dico per quale motivo sono lì, racconto del gruppo di lettura di cui sono parte, spiego perché per me è bello leggere e come la lettura mia abbia salvata in molti dei momenti bui della mia vita. Seduti aspettano che io finisca. Aspettare, questa è l’unica cosa che possono fare. Li ringrazio per avermi accolta in questo luogo e uno di loro mi risponde spontaneo “grazie a te”. Al primo banco è seduto un ragazzo molto giovane, il corpo segnato da tanti tatuaggi, mi guarda dritto negli occhi, non abbassa mai lo sguardo, non accenna a un sorriso alle mie battute. Un po’ mi inquieta, ma decido di non concentrarmi sul suo atteggiamento. Sono in aula con me due professori e procediamo leggendo le prime due pagine di una selezione di libri che avevamo ridotto a tre. Leggo per ultima. Alcuni esprimono prime impressioni, altri osservano i compagni e, alla fine, si decide che il libro scelto è quello letto da me. Tra presentazioni e progetti, passa la prima ora e arriva il momento di uscire dall’aula. Ci salutiamo dandoci appuntamento alla settimana successiva. Comincia così una serie di incontri settimanali, l’aria si stempera di rigidità. Leggiamo pagine insieme e mi chiedono di essere sempre presente. Sono loro a leggere. Ho la sensazione che vogliano farlo e questo mi sorprende, mi fa riflettere su molti dei pregiudizi che ci portiamo dentro. I nostri incontri oscillano tra presenze e assenze, ma tutti caratterizzati dalla voglia di leggere per avere l’opportunità di raccontare la propria vita. In alcuni momenti, il libro è solo un pretesto. Vengono fuori punti di vista che non avevo mai considerato accettabili. Ognuno vuole parlare e, spesso, sono impreparata a capirne la logica. Siamo abituati a giudicare da lontano, ma ci sono realtà che non possiamo neanche immaginare possano esistere. Sono sorpresa da questa partecipazione, dalle domande, dalle risposte. Un vortice mi porta a pensare a loro continuamente. Mi sento immersa in un mondo che non mi appartiene, eppure mi consegna le chiavi per aprire porte che entrano in luoghi sconosciuti. Si stabilisce una bella forma di confidenza. Vengono volentieri agli incontri e io ci vado sempre consapevole che questa esperienza mi renderà ricca. Percepisco la possibilità che ho di aprire la mia mente e il mio cuore a nuove forme di relazioni umane. Nessuna cosa più del confronto con l’altro ci rende noi stessi. E quando l’altro ti sembra molto lontano da te è proprio in quella relazione che hai la possibilità di aprirti a nuovi modi di interpretare la vita. Mi sono sentita felice e emozionata quando, al terzo incontro, uno di loro mi ha detto “Sai il libro che stiamo leggendo l’ho già finito”, “ti è piaciuto?” gli ho chiesto in un impulso di euforia. Mi ha risposto che sì, gli era piaciuto molto e così abbiamo parlato dei personaggi e in quale lui si sia riconosciuto. Aveva finito il libro eppure continuava a venire agli incontri, a leggere, a dire la sua. E poi c’era il ragazzo della prima fila, quello che mi aveva squadrato senza far trasparire un briciolo di partecipazione il primo giorno che sono entrata in quell’aula. Era una corazza la sua chiusura, un modo per difendersi dai pregiudizi. Uscita da quell’aula il primo giorno, il suo atteggiamento mi aveva mandata in crisi. In realtà, mi guardava come se pensasse “ecco un’altra che è venuta a vedere questi fenomeni da baraccone”. Mi ero posta mille interrogativi, ero andata in crisi, pensavo di non riuscire a farmi spazio tra loro. Gli eventi hanno preso una piega diversa ed è stato come veder scorrere un fiume in piena. Un fiume di parole e di racconti, di sorrisi e di battute, di considerazioni da fare intimamente per non ferire nessuno. Non so cosa io possa aver regalato loro, ma so che certamente loro hanno donato a me nuovi occhi per guardare al mondo. Una nuova prospettiva che mai avrei immaginato di poter considerare e che mi rende una persona un po’ più libera dai pregiudizi, trappole disseminate nella nostra vita. Il ragazzo della prima fila è stato trasferito. Ha scritto una lettera bellissima ai suoi professori includendo anche me: “Vi abbraccio tutti anche la Sig.ra Nicla che mi ha fatto conoscere lo sfogo nella lettura”. Sono entrata in questo luogo inaccessibile per leggere un libro e cercare di trasmettere l’amore per la lettura. Ho scoperto che, in realtà, il libro lo abbiamo scritto noi raccontandoci le nostre vite, incrociando i nostri sguardi, condividendo parole e sorrisi, ascoltando storie di violenza e ingiustizie subite. Abbiamo liberato la nostra mente dai pregiudizi quelli che io avevo nei loro confronti e quelli che loro nutrivano nei miei. Essere dall’altra parte delle porte di ferro significa aspettare che tutti abbiano il diritto di giudicarti, ma non l’ho fatto e mai potrei farlo. Non sapevo e non so niente dei motivi che hanno portato queste persone a scontare una pena, non è necessario. Ero in carcere per provare a trasmettere il mio amore per i libri spiegando loro come la lettura offra possibilità di considerare nuovi punti di vista, come liberi la mente dai soliti stereotipi, come ci isoli dai soliti affanni e ci catapulti in un luogo in cui possiamo essere altro. Al ragazzo della prima fila e a tutti quelli che ho incrociato in questa esperienza il mio grazie di cuore per avermi insegnato tanto, per avermi regalato la possibilità di saper guardare da un’altra angolazione questa vita che non mi sembra essere proprio giusta ed equa con tutti. Esco dal carcere con il più bel libro mai scritto: la vita di tutti è la vita di ognuno di noi. Vi porterò sempre con me. Csm, corsa contro il tempo per approvare la riforma anche al Senato di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 5 maggio 2022 Scontro Lega-Pd sulle date. La ministra Cartabia insiste perché la legge vada in aula il 17, ma il partito di Salvini rilancia sul 24. La dem Rossomando: “Si voti subito” L’Avvocatura dello Stato chiede alla Consulta di rinviare invece l’ergastolo ostativo. Corsa contro il tempo per approvare definitivamente al Senato la legge sul Csm. Il Pd, con Anna Rossomando, pone un aut aut: “Il nostro impegno politico è rispettare la scadenza naturale del Csm e quindi votare con la nuova legge”. Per fare questo lo stesso Senato, tramite l’Avvocatura dello Stato, chiede alla Consulta di non dichiarare definitivamente incostituzionale l’ergastolo ostativo, visto che la Corte ha in programma di trattare la questione martedì 10 maggio. E dall’Avvocatura, che vede al vertice Gabriella Palmieri, parte alla volta della Corte un’istanza di rinvio, definita “oggettiva”, un intervento considerato “chiaro ed educato dal punto di vista costituzionale”, per chiedere alla Consulta di attendere ancora il lavoro legislativo delle Camere sull’ergastolo. È stata la commissione Giustizia, presieduta dal leghista Andrea Ostellari, a decidere questo passo che, dal punto di vista dei tempi, era di fatto obbligato. Perché l’intreccio tra la riforma del Csm, per cui preme la Guardasigilli Marta Cartabia, e l’ergastolo ostativo, su cui la Consulta deve rispettare le sue stesse decisioni, era di fatto ingestibile. Di qui la richiesta all’Avvocatura per l’istanza di rinvio alla Corte, nella speranza che i giudici non considerino inadempiente il Parlamento, visto che avevano concesso un anno di tempo per riscrivere le regole sull’ergastolo, bocciate perché incostituzionali in quanto non consentono di accedere alla liberazione condizionale senza una collaborazione con la giustizia. La Camera ha impiegato un anno per riscrivere la legge che adesso è al Senato, ma è finita nell’ingorgo con la legge sul Csm. Ed è questo lo snodo, tutto politico, affrontato ieri dalla ministra Cartabia, con i capigruppo d’aula del Senato, e il presidente Ostellari. Nonché il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Netta la posizione di Cartabia, che vuole veder approvata senza ulteriori indugi la legge sul Csm, e ha chiesto che la discussione in aula possa svolgersi già il 17 maggio. Proprio per consentire alla legge di essere operativa in vista del rinnovo del Csm che scade a luglio. Politicamente, sulla linea di Cartabia, sia il Pd che il M5S. Netta la richiesta della responsabile Giustizia dei Dem Anna Rossomando, anche nella veste di vice presidente del Senato. L’esigenza politica, ha spiegato Rossomando, è quella “di arrivare al voto per il Csm con la nuova legge”. D’accordo anche Leu, pur se l’ex presidente del Senato Piero Grasso è in aperta sofferenza per una legge che non lo convince, proprio lui che sul Csm aveva presentato una sua proposta di legge. Politicamente gli ostacoli a fare in fretta non dovrebbero arrivare da Forza Italia. Mentre Italia viva, che già si è astenuta alla Camera, presenterà i suoi emendamenti. Ma è la Lega invece a mettersi di traverso. Tant’è che proprio tra Cartabia e Ostellari - che si è anche auto nominato relatore della riforma del Csm - non sono mancati momenti di incomprensione e freddezza. Cartabia ha insistito per la data del 17 in aula, Ostellari ha opposto un netto rifiuto perché i tempi, con questo calendario, non gli consentirebbero di svolgere alcun confronto. Tant’è che lui ha già fissato il calendario per le audizioni degli esperti, due per ogni gruppo, a partire dalla prossima settimana. A questo punto Cartabia ha deciso di lasciare la riunione, non nascondendo, come riferisce chi era presente, chiari segni di insofferenza. Per lei è rimasto il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ma è chiaro che la Guardasigilli non vede di buon occhio il tentativo della Lega di riaprire la riforma. Ma proprio su questo la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno è stata molto netta nel ripetere, anche di fronte ai magistrati nell’assemblea che ha deciso lo sciopero - che si terrà il 16 maggio, con l’idea che la riforma sarebbe andata in aula il giorno dopo - che la Lega considera il testo attuale del tutto insufficiente, e quindi da ridiscutere e da emendare. Legge elettorale, responsabilità civile, separazione delle funzioni sono i capitoli su cui la Lega vuole cambiare il testo. A questo punto la trattativa continua. Csm, toghe in sciopero il 16 maggio per ribadire il no alla riforma di Valentina Stella Il Dubbio, 5 maggio 2022 L’Anm comunica la data dello sciopero mentre il provvedimento approvato già alla Camera viene incardinato a Palazzo Madama. Il prossimo 16 maggio l’Associazione nazionale magistrati sciopererà contro la riforma di mediazione Cartabia relativa a Csm e ordinamento giudiziario. Lo ha deciso la Giunta esecutiva centrale, in attuazione della mozione approvata dall’Assemblea nazionale straordinaria del 30 aprile scorso. Lo sciopero è stato dunque reso noto nello stesso giorno, anzi nelle stesse ore, in cui il testo è approdato in Commissione giustizia del Senato. Una forma di pressione sui senatori? L’Anm, con il suo stesso presidente Santalucia, ha sempre smentito che si possa trattare di questo. La decisione sarebbe arrivata oggi sia perché il Senato vorrebbe chiudere la partita entro la fine di maggio sia perché l’astensione dai processi va comunicata dieci giorni prima alla ministra Cartabia e alla presidenza del Consiglio dei ministri. Intanto oggi, il provvedimento, approvato già alla Camera, è stato incardinato a Palazzo Madama. Relatore è il presidente della Commissione Giustizia, il senatore leghista Andrea Ostellari che ha svolto una relazione introduttiva sul testo. In Senato si è poi svolta una riunione di maggioranza sul testo di riforma del Csm: al tavolo la ministra della Giustizia Marta Cartabia, il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e i capigruppo di maggioranza. “È stato un incontro interlocutorio sui tempi - ha detto al termine il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto -. Ci sono idee diverse, tutti concordano sulla necessità di dare impulso al provvedimento. Martedì c’è una prossima riunione della commissione Giustizia, in quella sede si vedrà. Si convocherà anche una conferenza dei capigruppo. Abbiamo raccolto un po’ di opinioni, vedremo come metterle insieme e trovare una soluzione”. Il Partito democratico, con la responsabile giustizia Anna Rossomando, ha evidenziato come sia “necessario politicamente rispettare la data delle elezioni del Csm con la nuova legge elettorale”. Ricordiamo che questa consiliatura scade il 25 settembre e si dovrebbe votare pertanto entro luglio. Mentre ci sarebbero state resistenze da parte del senatore Ostellari a voler fissare una data, questione intorno alla quale invece tutti gli altri partiti, compresa Iv, si sono allineati. Dalla Lega spiegano che il presidente Ostellari ha ribadito che per rispetto della funzione che ricopre e del ruolo del Parlamento non metterà alcuna tagliola. Tra le ipotesi in campo vi è l’approdo nell’aula del Senato per martedì 24 maggio. Tuttavia una simile decisione ha bisogno, come anticipato da Sisto, di un passaggio nella Conferenza dei capigruppo, che si riunirà martedì prossimo alle 15.30. Entro venerdì alle 12 invece i partiti potranno indicare i nomi degli auditi. Ieri è proseguita anche la discussione sulla norma di modifica dell’ergastolo ostativo. Visto che la Corte Costituzionale si riunirà il 10 maggio per trattare della questione di legittimità costituzionale della norma sull’ostativo, la Commissione starebbe valutando di chiedere formalmente alla Consulta di concedere qualche mese di tempo per consentire al Parlamento di terminare i lavori e approvare la legge in entrambi i rami. Il Csm, la “riforma” Cartabia e l’eterna guerra fra toghe di Adolfo Di Majo* Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2022 Occorre veramente domandarsi se la riforma della ministra Cartabia, al secondo passaggio in Senato, corrisponda veramente alle criticità di cui oggi soffre il nostro sistema giudiziario. L’Associazione nazionale dei magistrati ha proclamato lo sciopero contro la riforma. È da ritenere che il maggiore consenso sulla disfunzioni di cui la Giustizia oggi soffre non è tanto il colore dei giudici, se di destra o di sinistra o la loro scarsa professionalità, visto che, nell’Amministrazione dello Stato, la professionalità dei giudici è quella più alta, o se appartenenti all’una o all’altra corrente della magistratura, come pure è ritornello comune, ma il fatto, ben più concreto e materiale che essa, per i suoi tempi (di decine di anni), si rivela ormai uno strumento spesso non più utile, anzi distorsivo dei rapporti conflittuali. Ma se codesto è il male maggiore di cui essa soffre, le direzioni verso le quali si muove la riforma Cartabia si rivelano, esse, in gran parte fuoricentro, perché rispondenti a ben altri obiettivi (quale ad esempio la maggiore professionalità del giudice). A rendere la giustizia uno strumento efficiente e funzionale a fronte di una domanda sempre più pressante serve assai poco, e anzi controproducente, potenziare e rendere più oggettivo il carrierismo dei giudici, istituendo una “pagella” che ne rappresenti il curriculum: non è questa la via da percorrere, accentuando essa invece l’aspetto “burocratico” della carriera, alla ricerca di “errori” commessi dai giudici. In primo luogo, insistere sulla “carriera” del giudice è già un controsenso: il giudice è sempre tale per la funzione che esso esercita, quale che sia il livello a cui la esercita (forse ancor più nei primi gradi che in quelli successivi), onde il far carriera non modifica di un millimetro la funzione che esso esercita, se non con riguardo alle funzioni direttive che esso può trovarsi a esercitare. Ma alla verifica del suo operato, quanto ai tempi e alle modalità, servono poco le medaglie di cui esso può foggiarsi, bensì la qualità e quantità del suo operato. E, a tale scopo, non possono che servire strumenti che tendano a meglio organizzare il lavoro dei giudici, sia in relazione a una più ragionevole distribuzione dei carichi a essi affidati, nonché a un controllo che deve svolgersi all’interno del singolo Ufficio di cui il giudice è parte. Sia per l’un verso che per l’altro la insufficienza del nostro sistema è sotto gli occhi di tutti. Il numero dei giudici è chiaramente inadeguato rispetto al carico di lavoro a essi oggi affidato. L’aumento dei giudici, come la loro rotazione, deriva da strumenti (quali i concorsi “antidiluviani”) non più adatti ai bisogni del presente, così come i controlli “interni” all’operato dei giudici sono pressoché inoperanti, affidati come sono, sovente, all’inerzia e alle omissioni dei capi dell’Ufficio - è questo l’aspetto in cui la riforma Cartabia merita invece qualche assenso - o all’intervento, anch’esso, del tutto problematico del Csm, combattuto com’è tra il rispetto dell’indipendenza dei giudici e l’obiettivo di garantire, in ogni caso, la funzionalità del servizio. Occorre dunque muoversi nella ben diversa direzione di concrete misure organizzative del sistema Giustizia, come quella, in primo luogo, del numero dei giudici, supportate anche da modifiche normative, quale il superamento dei tre (se non quattro) gradi di giudizio, ormai proprio di altre epoche, in cui la giustizia non era concepita come “servizio” reso ai cittadini, ma come esito del conflitto, spesso più teorico che pratico, tra le diverse istanze dei cittadini, nella lotta per l’affermazione del proprio asserito diritto. Conflitto “nobile”, ma che ha poco a che fare con un “servizio” reso ai cittadini. *Ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura Procura nazionale antimafia, Melillo batte Gratteri al primo turno: è il nuovo procuratore di Simona Musco Il Dubbio, 5 maggio 2022 Una battaglia a tre, che si è conclusa con 7 voti per il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, 13 per il procuratore di Napoli e 5 per l’attuale reggente Giovanni Russo. È bastato un solo giro di votazioni: Giovanni Melillo è il successore di Federico Cafiero de Raho, scelto dal Csm alla guida della Direzione nazionale antimafia. Una battaglia a tre, che si è conclusa con 7 voti per il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, 13 per il procuratore di Napoli e 5 per l’attuale reggente di via Giulia Giovanni Russo. Una nomina che è stata preceduta da un dibattito sul significato profondo di una scelta importante, ma anche simbolica, non solo per il ruolo dell’ufficio all’interno del sistema giustizia, ma anche per l’immagine che lo stesso restituisce alla pubblica opinione, dopo una stagione di scandali e di derive correntizie che hanno fortemente minato la credibilità della magistratura. Il togato Nino Di Matteo ha sottolineato la vicinanza di Nicola Gratteri a Giovanni Falcone, ricordando che, dopo diversi esperti di Camorra e Cosa Nostra, la sua figura sarebbe la prima da esperto di ‘ndrangheta, che rappresenta al giorno d’oggi l’associazione criminale più pericolosa. E Di Matteo ha anche sottolineato il rischio, nel caso di “bocciatura”, di mandare un segnale pericoloso: una sorta di abbandono istituzionale che lo esporrebbe ulteriormente al pericolo. “Noi oggi dobbiamo anche avvertire la responsabilità di non cadere in quegli errori che hanno troppe volte tragicamente marchiato le scelte del Consiglio Superiore sul tema della lotta alla mafia - ha evidenziato - e in certi casi hanno creato quelle condizioni di isolamento e delegittimazione istituzionale, che hanno costituito il terreno più fertile per omicidi eccellenti e stragi. Sarebbe veramente oggi un segnale di cambiamento rispetto a quelle fasi che hanno caratterizzato il Consiglio superiore della magistratura”. A esprimere il proprio voto anche il comitato di presidenza, che ha preso la parola col primo presidente della Cassazione Pietro Curzio. Che ha evidenziato i nove anni già trascorsi da Melillo in Dna, cosa che “significa conoscere l’ufficio e le sue specificità organizzative”. Per il togato Sebastiano Ardita, un no a Gratteri rappresenta non solo “una bocciatura del suo impegno” ma anche “un segnale devastante per tutto l’apparato istituzionale del movimento culturale, perché esiste una dimensione nella quale noi con le scelte che facciamo, che sono scelte di politica criminale, parliamo alle istituzioni e parliamo anche i movimenti culturali che seguono ancora queste vicende e guardano con preoccupazione alle scelte del Consiglio Superiore”. Un modo di concepire questa nomina non condiviso dal collega Giuseppe Cascini, di Area, che ha respinto “fermamente l’idea, anche solo suggestivamente evocata, che oggi un voto nei confronti di un candidato diverso dal dottor Gratteri possa essere inteso come una delegittimazione della sua azione e del suo ruolo di procuratore di Catanzaro. Per quanto mi riguarda, la mia solidarietà e la mia vicinanza nei confronti del dottor Gratteri e nei confronti dei magistrati di Catanzaro resta altissima, la mia stima per il lavoro che stanno facendo anche. Non credo, però, che possa essere questo il criterio che deve guidare le nostre scelte e non credo che si possa interpretare in questo modo una scelta diversa”. Melillo nuovo procuratore antimafia ma il Csm si divide sulla nomina di Francesco Grignetti La Stampa, 5 maggio 2022 Il magistrato a capo della Procura di Napoli scelto a maggioranza, scintille con i sostenitori di Nicola Gratteri. È il nuovo superprocuratore antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, 61 anni, attuale procuratore capo di Napoli. Lo ha deciso a larga maggioranza il plenum del Csm, con 13 voti a favore, più dei 7 per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dei 5 per Giovanni Russo, l’aggiunto che sta reggendo la Superprocura da qualche mese, da quando Federico Cafiero de Raho è andato in pensione per limiti di età. Melillo, che è stato capo di gabinetto alla Giustizia con il ministro Andrea Orlando, aderisce a Magistratura democratica, ma è stato sostenuto da più anime del Csm. Una carriera dai grandi successi, la sua. Da sostituto a Napoli, negli Anni Novanta sgominò il clan di Carmine Alfieri. Passò poi alla Superprocura, dove ha lavorato dal 2001 al 2009, e dove si è occupato di mafie, ma anche di terrorismo. Seguendo le stragi mafiose, fu Melillo il primo a delineare la figura di Paolo Bellini, l’estremista di destra appena condannato all’ergastolo per la strage di Bologna. Dal 2017 guida la procura di Napoli che è la più grande d’Italia, con 9 aggiunti e 102 sostituti. Di lui, il Csm scrive che “ha sottoposto ad intercettazione un numero sbalorditivo di bersagli (7.402 nel 2018; 8.538 nel 2019; 7.891 nel 2020); ha gestito 259 detenuti in regime di 41 bis; ha chiesto e ottenuto un numero sorprendente di misure cautelari; ha ottenuto condanne in 315 procedimenti, per un numero incalcolabile di imputati”. Eppure la nomina non è filata liscia perché gli si contrapponeva Nicola Gratteri, un altro magistrato simbolo. Per Gratteri si sono spesi Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita e Giuseppe Marra, ovvero gli ex davighiani. Di Matteo, in particolare, ha messo in guardia i colleghi dal rischio di bocciare la candidatura di Gratteri, in quanto “significherebbe la bocciatura di un magistrato particolarmente esposto al rischio di attentati proprio a causa delle sue indagini, e rappresenterebbe una pericolosa presa di distanza nei suoi confronti, foriera di ulteriori rischi”. E così sono volate scintille. Prevedibili. Secondo il laico Stefano Cavanna, leghista, schierato con Gratteri, infatti, i due magistrati sono portatori di “due visioni diverse di concepire il contrasto alla criminalità organizzata”: da un lato “la prudenza” nei colloqui investigativi, virtù che Melillo ha evocato per evitare contrasti con le procure ordinarie, dall’altro l’atteggiamento più assertivo di Gratteri, “che definisce i colloqui investigativi una fonte inesauribile di informazioni, e che non intendeva usare la Procura nazionale come luogo di incontri conviviali”. A nomina formalizzata, tra i mille messaggi di complimenti, quello della ministra Marta Cartabia: “A 30 anni dalla stagione delle stragi, va ora a Melillo l’alto compito di continuare a proiettare nelle sfide attuali le idee innovatrici di Giovanni Falcone”. Procuratore antimafia: chi è, di cosa si occupa e che poteri ha di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 5 maggio 2022 Composta la 20 magistrati nominati dal Csm, la Dna (Direzione nazionale antimafia) coordina le indagini di mafia e terrorismo, dirime eventuali conflitti tra diversi uffici, esprime pareri sui detenuti da destinare al 41bis e sui collaboratori di giustizia. L’ha inventata, dal nulla, Giovanni Falcone, quando era al vertice dell’ufficio per gli Affari penali di via Arenula. L’ha battezzata lui stesso Procura nazionale antimafia nella legge che fu approvata in Parlamento. Ma tecnicamente si chiama Direzione nazionale antimafia. In sigla Dna. Falcone avrebbe anche voluto esserne il primo capo, ma anche stavolta, proprio come per l’ufficio istruzione di Palermo o come per la candidatura al Csm, Falcone prese, in commissione, meno voti di Agostino Cordova. Ma il primo capo della Dna nel 1992 fu Bruno Siclari, seguito cinque anni dopo dall’allora procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna. Dopo il lungo “regno” di Vigna toccò nel 2005 a Piero Grasso, che arrivava dal vertice della procura di Palermo (e tutti ricordano la polemica con l’altro aspirante, Gian Carlo Caselli che ambigua allo stesso posto). Nel 2013 arriva Franco Roberti che era al vertice della procura di Salerno. Nel 2017 ecco infine la nomina di Federico Cafiero De Raho, fino a quel momento capo degli uffici inquirenti di Reggio Calabria. Proprio mentre Melillo veniva scelto come procuratore di Napoli. In questi anni la procura nazionale antimafia ha avuto un ruolo da protagonista nelle indagini. Con i suoi venti procuratori antimafia sguinzagliati nelle singole procure dov’era più necessario un coordinamento. Come si può leggere sul sito del ministero della Giustizia, che riassume funzioni e compiti della Dna, il procuratore ha un ruolo “di coordinamento delle indagini condotte dalle singole Direzioni distrettuali antimafia”, le Dda, cioè i singoli gruppi di magistrati che all’interno delle procure lavorano esclusivamente sulla criminalità organizzata. Un coordinamento che ha lo scopo “di assicurare la conoscenza delle informazioni tra tutti gli uffici interessati e collegare le Dda tra di loro quando emergano fatti o circostanze rilevanti tra due o più di esse”. I compiti dei singoli procuratori - Ma ecco quali sono gli ambiti di competenza della Superprocura. Innanzitutto quello di mantenere un costante collegamento con ciascun pool antimafia delle singole procure con l’obiettivo di conoscere le indagini in corso, acquisire ed elaborare dati, notizie e informazioni che poi possono circolare ed essere messe al servizio degli altri uffici. I singoli procuratori possono essere “applicati” alle singole procure per seguire casi specifici, soprattutto se si tratta di indagini complesse. Compito di questi “inviati speciali” è anche quello di risolvere eventuali contrasti che possano insorgere tra differenti uffici che si trovano a indagare sulla stessa materia. I procuratori possono anche utilizzare i servizi centrali delle singole forze di polizia, quali la Direzione investigativa antimafia (Dia), il Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri (Ros), il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza (Scico). Le materie d’indagine della Superprocura - La Dna può indagare su mafia, camorra, ‘ndrangheta, sui reati di narcotraffico, sulla tratta di esseri umani, sul riciclaggio, sugli appalti pubblici, può emettere misure di prevenzione patrimoniali, può lavorare sulle ecomafie, sulla contraffazione di marchi, su operazioni finanziarie sospette, sulle mafie straniere. E ovviamente anche sul terrorismo. I compiti dei singoli procuratori antimafia - A parte il lavoro di coordinamento delle indagini, i procuratori antimafia e antiterrorismo danno valutazioni sui collaboratori di giustizia, sull’applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, cioè il regime carcerario particolarmente severo per i detenuti di mafia e terrorismo che non intendono collaborare con lo Stato, sul gratuito patrocinio per gli imputati di reati di mafia non abbienti. I magistrati della procura antimafia curano anche l’inserimento degli atti processuali nella Banca dati nazionale, nonché infine i rapporti con le autorità giudiziarie di alcuni Paesi interessati alle nostre indagini. Da Super Procura a think tank antimafia. Storia della triste parabola della Dna di Rocco Vazzana Il Dubbio, 5 maggio 2022 Nata per attrarre i migliori talenti investigativi da mettere al servizio della lotta alla mafia, si è trasformata in una sorta di centro studi sulla criminalità organizzata. È questa la parabola della Direzione nazionale antimafia, svuotata in trent’anni di storia della funzione immaginata da Giovanni Falcone e diventata più un luogo simbolico, una vetrina, che uno strumento investigativo. La Dna deve essere un “organismo servente, un organismo che deve costituire un supporto e un sostegno per l’attività investigativa in contrasto alla criminalità organizzata che deve essere esclusivamente delle Procure distrettuali antimafia”, è il progetto esposto da Falcone davanti al Csm il 24 febbraio 1992. Obiettivo: rendere effettivo il coordinamento delle indagini, garantire la funzionalità dell’impiego della Polizia giudiziaria e assicurare completezza e tempestività delle investigazioni. Come? Attraverso un flusso di informazioni “sistematico e basato sull’informatica”, spiega Falcone, “si creerà d’intesa fra tutte le Procure distrettuali un sistema che sia tale da assicurare da un lato una sufficiente circolarità delle notizie e dall’altro di assicurare la tutela della riservatezza in determinati casi”. La Dna sostanzialmente deve servire per sostenere il lavoro degli investigatori, offrendo supporto logistico, la collaborazione di magistrati (aggiuntivi) nei processi, ausilio nella gestione dei pentiti. Il tutto all’interno di un sistema orizzontale, basato sul “consenso”, garantito dall’interesse comune di contrastare la criminalità organizzata. Ed è proprio questo aspetto che negli anni è venuto meno. Perché col tempo “le Procure si sono trasformate in “Repubbliche autonome”, gelose delle proprie indagini”, dice chi in Via Giulia ci ha lavorato per molti anni. “Le informazioni in Dna arrivavano, sì, ma talvolta dai giornali”. I motivi di questa deriva sono molteplici e affondano le loro radici nella progressiva trasformazione della “Super Procura” in un semplice luogo di transito per magistrati ambiziosi, desiderosi di trovare uno “scranno” in Via Giulia più per questioni di curriculum che di reale interesse professionale. Un posto da sostituto o da aggiunto in all’Antimafia, in altre parole, diventa un semplice viatico per poter accedere a un incarico direttivo. Chi passa dalla Dna pensa solo al “ritorno trionfale” in una Procura dopo qualche anno, all’interno di un meccanismo non del tutto estraneo alle logiche correntizie. Inutile, dunque, mettersi di traverso, chiedendo ad esempio ai colleghi delle Distrettuali antimafia maggiore collaborazione e coordinamento, rischiando di inimicarsi potenziali compagni d’ufficio di domani. Eppure per molto tempo la Direzione nazionale antimafia ha avuto un importante ruolo di impulso nelle indagini. Fino all’era di Pier Luigi Vigna, procuratore nazionale dal 1997 al 2005, Via Giulia ha continuato a svolgere quei compiti di “collegamento investigativo” immaginati da Falcone. È quando Vigna va in pensione, nel 2005, che qualcosa si rompe, entra in scena la politica e si intromette nella selezione del successore. Sono gli anni del berlusconismo di governo e delle leggi “contra personam”. Come quella scritta per impedire la candidatura di Giancarlo Caselli alla “Super Procura”. Un emendamento alla riforma della giustizia a firma del senatore di Alleanza nazionale Luigi Bobbio recita testualmente: “Incarichi direttivi vietati a coloro i quali manchino meno di 4 anni per andare in pensione”. È la pietra tombale sul quasi certo arrivo di Caselli in Via Giulia. E da quel momento anche i procuratori nazionali si “politicizzeranno”. Succederà con Pietro Grasso, arrivato al posto di Caselli, che nel 2013 diventerà presidente del Senato, dopo essere stato eletto tra le file del Pd. E succederà anche con Franco Roberti, a sua volta eletto eurodeputato dem nel 2019, dopo la guida dell’Antimafia. Con Grasso comunque, Via Giulia conosce una stagione di grande prestigio istituzionale. L’allora Procuratore nazionale porta la Dna a stringere importanti rapporti di collaborazione con i ministeri dell’Interno e della Giustizia per creare ad esempio i pool di vigilanza contro le infiltrazioni mafiose nella ricostruzione dell’Aquila distrutta dal terremoto o negli appalti per Expo 2015. Ed è sempre sotto impulso di Grasso che nel 2010 nasce l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Ma col tempo il ruolo di Via Giulia è apparso sempre più fiacco, disorientato. La Dna si è trasformata in una sorta di think tank che ogni anno stila un rapporto sullo stato di salute del contrasto alle mafie ma non riesce ad andare troppo oltre il perimetro dell’analisi e a presenziare alle giornate commemorative. Magari sarà proprio il nuovo procuratore Giovanni Melillo a ridare impulso a quel sogno di Falcone. Perché la Direzione nazionale antimafia non ha grandi poteri operativi, processuali, ha solo un enorme potere moral suasion sui magistrati. Per questo serve un procuratore autorevole che ottenga la fiducia degli uffici giudiziari sparsi sui territori. In bocca al lupo. La Prefettura: “Rita Bernardini è pregiudicata”. La Fondazione Pannella la esclude dal Cda di Maria Brucale* Il Dubbio, 5 maggio 2022 L’1 agosto 2020, Maurizio Turco, Presidente della Lista Marco Pannella, nel richiamare i sostenitori del Partito Radicale a dare sostegno economico per la sperata costituzione della Fondazione Pannella, così scriveva: “Crediamo che sia un atto dovuto a quei pochi e spesso ignoti che hanno animato le grandi lotte per le riforme in questo paese e sul pianeta, per costruire una ipotesi di vita e di società più libera. Ma è anche un atto voluto nei confronti di coloro che verranno perché conoscano cosa sono stati e cos’hanno fatto Marco Pannella e il Partito Radicale. Su una cosa, credo, siamo tutti d’accordo: del pensiero, delle idee, delle proposte, della visione di Marco Pannella c’è sempre più bisogno e urgente necessità”. Sì, su questo siamo tutti d’accordo. La Fondazione Pannella ha il senso della storia e della memoria di quei compagni, di quelle battaglie. Dall’obiezione di coscienza all’aborto, al divorzio, all’eutanasia legale, all’uguaglianza di genere, alla cannabis terapeutica. Dalla visione di un cambiamento sociale necessario, all’inverarsi di un’utopia attraverso la disobbedienza civile, il disvelamento delle ipocrisie di sistema, violando norme, anche penali, figlie di un’etica non accettata o non più accettata, afflittiva, castrante. Disobbedire per essere, a proprio rischio, strumento di trasformazione dell’esistente, portando davanti ai giudici azioni ancora valutabili come criminose per rendere vistosa, struggente, l’iniquità delle previsioni normative, ponendo sé stessi nella condizione di indagati, di imputati, di condannati, affrontando l’alea dei processi, accettando la possibilità della privazione della propria libertà, per forzare con la nonviolenza le leggi a trasformarsi, a recepire un’evoluzione che già è, per la dignità delle persone tutte, per le libertà di ognuno. Una storia gloriosa che continua grazie a persone come Rita Bernardini, già deputata, oggi Presidente di Nessuno Tocchi Caino, sempre accanto a Marco Pannella nelle disobbedienze, nell’affermazione, con la lotta nonviolenta, di un concetto di Giustizia che non si ferma mai davanti a quello di legalità, sensibile al tempo, destinato a sfibrarsi, a logorarsi, a mutare, a disperdersi. Oggi la Fondazione Pannella voluta dai membri della Lista Pannella, Maurizio Turco, Rita Bernardini e Aurelio Candido, è pronta per nascere, per essere riconosciuta come soggetto giuridico ma c’è un problema. La Prefettura di Roma non ama i disobbedienti e, in fondo, nemmeno le regole codificate. Aderendo a una prassi amministrativa, ritiene che Rita Bernardini, condannata, come Pannella, per le sue disobbedienze per la legalizzazione della cannabis, non rivesta i requisiti di onorabilità per far parte del Cda di una fondazione. Incredibile, vien da pensare. Certo gli altri membri del Cda difenderanno con ogni fibra l’essenza del pensiero radicale. Apriranno confronti serrati, chiameranno a raccolta i compagni, ragioneranno su come contestare quel provvedimento balordo, alzeranno la voce a protezione di un passato che non può essere tradito nel supino genuflettersi al volere prefettizio, valuteranno quali iniziative legali o azioni giudiziarie intraprendere, faranno fronte comune di protesta e faranno scudo attorno a Rita, la designeranno Presidente ad honorem della Fondazione, perché escluderla dal Cda non sarebbe soltanto disconoscere il suo impegno di una vita, il suo essere carnalmente espressione di quegli ideali ma rinnegarli, sconfessarli, ripudiarli. Invece no. A fronte del veto di prima istanza della Prefettura consistito in un: si ritiene che Rita Bernardini non rivesta i caratteri necessari di onorabilità, si chiede a Rita di dimettersi, di fare un passo indietro per amore della Fondazione. Ma è una scelta che Rita non può operare, non può e non deve perché la disobbedienza è sostanza di azione radicale, ne rappresenta il potere dialogico, il portato storico, la pregnanza ideologica. Le libertà di cui godiamo e quelle che aspiriamo a vedere riconosciute sono figlie di quelle disobbedienze. Lasciare la Fondazione per volere prefettizio, espressione di quella potestà amministrativa assai spesso prossima all’arbitrio, contestata da sempre con vigore dal Partito Radicale con la pretesa di norme leggibili, decisioni motivate e controllabili, che il cittadino possa governare, non subire, sarebbe rendere quella Fondazione non il tempio di un sentimento vitale, continuo e appassionato ma soltanto un museo delle cere, dove custodire un passato glorioso, qualcosa che è stato ma non è più. Il Cda della Fondazione delibera, allora, la decadenza di Rita Bernardini dal suo ruolo e ne dispone la sostituzione con Sergio Ravelli. Incredibile, davvero. La Fondazione Pannella caccia i disobbedienti. Proprio Marco Pannella, con le sue numerose condanne, medaglie al valore nella conquista delle nostre libertà, ne sarebbe stato estromesso, escluso come ciò che la disobbedienza civile rappresenta: il respiro lungo di una vocazione politica che apre le porte dei diritti ai più vulnerabili, ai più disagiati, agli ultimi, che non vede mai qualcuno come diverso ma ognuno come unico, che accoglie, che costruisce, che spera. *Avvocato del direttivo di Nessuno Tocchi Caino Lazio. Anastasìa: “Bene intesa tra istituzioni per la messa alla prova e le alternative al carcere” garantedetenutilazio.it, 5 maggio 2022 Assieme al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, il Garante ha sottoscritto l’Accordo di rete per lo sviluppo delle misure di comunità. “Grazie all’impegno della presidente Palmisano, arriva a sistema la rete dei servizi per la messa alla prova e le alternative al carcere, in attesa di giudizio. Si tratta di un’esperienza importante, maturata durante la pandemia e che speriamo possa ridurre passaggi inutili e dannosi per il carcere. E speriamo che possa essere di stimolo a un maggior raccordo tra istituzioni giudiziarie e territoriali anche nel momento dell’esecuzione delle pene e nell’accesso alle alternative alla detenzione, anche in corso di espiazione. L’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione è responsabilità di tutte le istituzioni pubbliche, centrali e territoriali, e questo è un buon modo di farsene carico”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, dopo aver sottoscritto l’Accordo di rete per lo sviluppo delle misure di comunità. L’intesa è stata firmata oggi presso la Corte d’Appello di Roma, tra il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, il Garante Anastasìa, il sindaco di Roma Capitale, Roberto Gualtieri, il presidente della Corte d’Appello di Roma, Giuseppe Meliadò, la Capo dipartimento giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo, il presidente del Tribunale di Roma, Roberto Reali, la Procura di Roma, il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, Antonino Galletti, il preside della facoltà di giurisprudenza della Sapienza Università di Roma, Oliviero Diliberto, e il Direttore Generale della Asl Roma 1, Angelo Tanese. L’accordo prevede il potenziamento delle norme che regolano i percorsi di recupero degli autori di reato e in particolare l’accesso e la fruizione delle cure per i soggetti affetti da patologie psichiatriche o da dipendenze che sono entrati nel circuito penale. Primo obiettivo del protocollo è quello di trasformare la pena in un’opportunità di riscatto e di cambiamento grazie al potenziamento degli istituti che prevedono la messa alla prova e di tutti quegli altri istituti che sono volti al recupero dell’autore di reato. Grazie alla presenza all’interno del Tribunale di uno Sportello gestito dalla Asl Roma 1, la prima ad aderire all’accordo, sarà possibile garantire anche continuità assistenziale ai soggetti affetti da patologie da dipendenze o psichiatriche. Previsto infatti un programma specifico di trattamento con presa in carico terapeutica. Con l’Asl Roma 1 viene dunque avviata una prima sperimentazione, rafforzando lo sportello già presente all’interno del presidio giudiziario di piazzale Clodio grazie alla presenza di operatori, specificatamente formati, del sistema sanitario. “Questo protocollo è un esempio di sinergia tra le diverse istituzioni, frutto di un percorso che non si è mai interrotto ed è stato condiviso e migliorato nel tempo con un unico importante obiettivo: tutelare sempre il principio che chi sbaglia deve scontare una pena rispettosa della dignità umana e volta alla sua rieducazione, al suo reinserimento all’interno della società, trovando anche soluzioni alternative alla pena detentiva - ha dichiarato il Presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - In questi anni, la Regione non ha mai tralasciato il tema dei diritti della popolazione carceraria, a partire dal diritto alle cure e all’assistenza sociosanitaria, che è nostra specifica competenza, rafforzando le misure anche nel corso della pandemia garantendo la vaccinazione ai detenuti e rafforzando la rete delle Rems nel Lazio”. Per il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, si tratta di “un protocollo importante che dimostra la collaborazione fra le istituzioni su temi di giurisdizione che sono problemi di tutto il territorio e solo insieme posso essere affrontati coerentemente nel rispetto del dettato costituzionale. Con questo accordo rafforziamo la sicurezza collettiva, la salvaguardia dei diritti di tutti, anche della popolazione carceraria. Questo protocollo - ha sottolineato ci aiuterà a rafforzare il percorso sulle misure alternative. “Siamo lieti di aderire attraverso il nostro Dipartimento di salute mentale all’accordo di rete per lo sviluppo delle misure di comunità, consolidando una collaborazione in atto da tempo con la magistratura. La sperimentazione di un modello avanzato di misure non detentive potrà poi essere trasferita ad altre realtà territoriali”, ha aggiunto Angelo Tanese, direttore generale della Asl Roma 1. Ascoli. Detenuto di 21 anni muore suicida di Giuseppe Ercoli Il Resto del Carlino, 5 maggio 2022 Si è impiccato usando i pantaloni attaccati al braccio della doccia nella cella dove era rinchiuso. Così si è suicidato martedì pomeriggio un marocchino di 21 anni detenuto nel carcere di Marino del Tronto, negli ultimi giorni purtroppo teatro di diversi episodi preoccupanti. Il suicidio lo scorso 29 aprile lo aveva tentato anche un suo connazionale, ma era stato fermato dagli agenti intervenuti e che sono rimasti feriti. Martedì invece il 21enne nordafricano è riuscito a mettere in atto l’estremo gesto autolesionistico. Il marocchino stava scontando una pena per reati legati al traffico di stupefacenti e avrebbe dovuto rimanere detenuto fino al 2025, altri tre anni. Lo scorso febbraio era giunto nel carcere ascolano proveniente da quello di Pesaro. Un trasferimento disposto dall’amministrazione penitenziaria proprio per il suo carattere molto irascibile e violento. Nel carcere di Pesaro per quattro volte aveva dato fuoco alla cella dove era detenuto con altre persone. Quindi è stato portato a Marino del Tronto. A parte qualche segno di nervosismo nei giorni immediatamente successivi al suo arrivo nella casa circondariale di Ascoli, la sua permanenza sembrava scorrere sul filo della normalità, sempre tenuto conto che nell’ambiente carcerario non c’è mai un clima idilliaco, con tensioni che covano, anche nei momenti di calma apparente. Martedi’ mattina il 21enne marocchino ha dato ampi segni di nervosismo. Era stato posto in isolamento disciplinare con l’ok del personale sanitario del carcere per la sua “etero aggressività”. Il giovane ha aggredito tre agenti che nel tentativo di ricondurlo alla ragione sono rimasti contusi con prognosi di 34 giorni. Ha poi iniziato a danneggiare la cella: ha divelto le finestre, rotto i vetri e danneggiato i telai. Una crisi di nervi che verso le ore 18 lo ha portato anche a scardinare il termosifone con l’acqua che ha in breve allagato la stanza. A quel punto gli agenti sono andati a chiudere le valvole; quando sono tornati indietro non l’hanno visto più nella stanza, si sono diretti nel bagno e l’hanno trovato impiccato coi pantaloni al braccio della doccia. Era ormai privo di vita e non c’è stato nulla da fare per lui. Il fratello è detenuto nel carcere di Napoli, anche lui per reati legati alla droga, mentre il resto della loro famiglia è in Marocco. Anni fa era giunto in Italia con uno dei tanti barconi partiti dall’Africa. Torino. Libertà anticipata speciale, l’appello delle 400 detenute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2022 Sono quasi 400 le firme raccolte nel carcere delle Vallette di Torino a sostegno dell’appello della terza sezione femminile, per richiedere l’applicazione della libertà anticipata speciale di 75 giorni estesa a tutta la popolazione detenuta e per riportare l’attenzione su chi vive nell’ombra sociale. Intanto, nel frattempo, è stata vinta la battaglia per la richiesta di un frigorifero, in seguito ad una petizione firmata da alcuni detenuti della terza sezione maschile del blocco B e sostenuta dalle “Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso” e dalla consigliera regionale Francesca Frediani. Pubblichiamo la lettera integrale delle detenute del carcere di Torino, rivolta alla ministra della Giustizia. “Siamo le ragazze di Torino, le detenute che da più di due anni stanno cercando di costruire un dialogo con le Istituzioni perché venga approvata la liberazione anticipata speciale; siamo un gruppo di donne che non subiscono passivamente la detenzione ma che stanno provando a migliorarne le condizioni riportando l’attenzione pubblica e politica sui disagi delle carceri e sulle iniquità del sistema penale italiano. È un’impresa ardua lottare contro il pregiudizio inquisitorio o il disinteresse totale verso queste tematiche. Abbiamo trovato però grande sostegno oltre le mura; esiste ancora una parte di società che pensa ed agisce con senso civico ed umanità. Ringraziamo Nessuno Tocchi Caino, le Mamme in Piazza per La Libertà di Dissenso, Yairaiha Onlus, la Conf. Dei Garanti Territoriali, Legal Team Italia, le redazioni de Il Dubbio, Il Riformista, Il Manifesto; tutti coloro che credono nel rispetto dei diritti di tutti e tutti i detenuti che resistono. Venerdì 11 marzo la Professoressa Cartabia, Ministro della Giustizia, è stata in visita qui nel carcere di Torino, dopo tutti gli inviti e le iniziative non violente per trovare la Sua attenzione ci aspettavamo di poterLe parlare, ma al femminile non è passata. Non sappiamo con che criterio sia stata organizzata questa visita lampo, sappiamo solo che ci è stato negato il confronto: un’occasione di dibattito costruttivo. Ne siamo state fortemente amareggiate, in tutta franchezza ora chiediamo: “se le rivolte e le proteste sono da condannare… ma anche gli inviti al dialogo non vengono accolti… come dobbiamo fare per esprimerci?”. Due anni di detenzione in lockdown equivalgono al triplo, aggiungere ulteriori afflizioni alla persona detenuta non è incostituzionale? La legge chiedete solo a noi di rispettarla? Il governo dei “migliori” avrebbe potuto agire con un decreto ad hoc, impossibile per noi sperarci vista la classe politica garantista ad intermittenza (a parte rare e preziose eccezioni): la giustizia deve essere giusta solo per i colletti bianchi? Il carcere di Torino è stato definito il carcere della vergogna in più occasioni, tutto senza dare spazio alla voce dei reclusi che lo vivono. qui ed ora noi detenute vorremmo puntualizzare una cosa: la vergogna va oltre Torino. La vergogna è questo sistema detentivo: dovrebbe rieducare e reinserire e invece produce un tasso di recidiva altissimo. Vi assicuriamo che se uno cambia vita lo fa da solo, non è certo grazie alla detenzione così concepita. La vergogna è dover pagare un debito con la giustizia in luoghi in cui la legge stessa non viene rispettata! La vergogna sta nel considerare le carceri come un non luogo anzi in cui mischiare persone sane e persone con problemi psichiatrici e pensare che tutto venga gestito dai detenuti o dai poliziotti, e i medici dove sono? La salvaguardia della salute non è per tutti? La vergogna sta nel non aver dato un ristoro a tutti noi. noi non siamo stati colpiti dalla pandemia? Non esistiamo come categoria sociale da ristorare? La vergogna sta nell’invocare la forca per i reati minori o a carattere politico e non essere duri con chi ha un ruolo pubblico e ne abusa frodando tutta la comunità. La vergogna è questa disuguaglianza. Questa lettera è indirizzata al Ministro e a tutti coloro che hanno un ruolo in Parlamento e dovrebbero agire secondo la Costituzione così come ha ricordato il Presidente Mattarella: se non avete il coraggio di agire in quella direzione perché avete applaudito? Ripristinate la centralità della dignità e la certezza del diritto. Approvate la proposta di legge per aumentare la liberazione anticipata per tutti. Vorremmo inoltre esprimere solidarietà alle vittime di questa sporca guerra e a tutti coloro a cui è impedita la libertà di opinione e di dissenso. Pace e giustizia per tutti”. Alessandria. Detenuto malato grave di Sla ottiene i domiciliari dopo 12 istanze di Carlotta Rocci La Repubblica, 5 maggio 2022 Cinieri era in carcere da agosto dell’anno scorso. Le sue condizioni di salute sono peggiorate rapidamente; costretto a spostarsi su una sedia a rotelle, con difficoltà a esprimersi e mangiare. Maximiliano Cinieri ha ottenuto i domiciliari. Questa mattina la corte d’appello di Torino ha accolto la richiesta del suo difensore Andrea Furlanetto che si era rivolto alla corte per ottenere il regime domiciliare per il suo assistito affetto da una grave forma di Sla. “Le condizioni di salute di Cinieri sono da ritenersi incompatibili con la detenzione in carcere - scrivono i giudici della corte d’appello di Torino nell’ordinanza di sostituzione della misura cautelare - deve essere accolta la richiesta di sostituzione della misura cautelare in atto con gli arresti domiciliari a casa”. Cinieri è tornato a casa questa mattina, “finalmente papà è a casa, se abbiamo ottenuto di riaverlo è merito anche degli articoli che sono usciti”, dice la figlia Valeria che si è battuta insieme al difensore del padre perché l’uomo potesse ottenere i domiciliari. “La sua malattia è una sentenza- spiegava la figlia - Ogni giorno che passa in carcere è un giorno lontano da noi”. Cinieri era in carcere da agosto dell’anno scorso. All’epoca non sapeva ancora di avere la sla, una forma grave, che si aggiunge ad altre patologie, aveva ricevuto la diagnosi a dicembre quando era già detenuto al Cantiello e Gaeta di Alessandria. Le sue condizioni erano peggiorate rapidamente, l’uomo nelle ultime settimane era costretto a spostarsi su una sedia a rotelle, aveva difficoltà a esprimersi e mangiare. Il suo difensore aveva presentato 12 diverse istante per chiedere che l’uomo fosse messo ai domiciliari, presentato le perizie di quattro diversi medici, compreso quello del carcere che avevano dichiarato l’uomo gravemente invalido. Il giudici di Asti e il primo tribunale del riesame, però, avevano sempre confermato il carcere per l’uomo, accusato di estorsione e usura. Roma. Rebibbia, dove ai detenuti è offerta una “Seconda chance” di Antonella Barone gnewsonline.it, 5 maggio 2022 Roma, casa circondariale di Rebibbia “Raffaele Cinotti”. Davanti a una porta chiusa del reparto G8, un tempo noto come “penalino” e destinato ai condannati “definitivi”, c’è una piccola fila di detenuti in attesa. Tutti hanno in mano una cartellina, inseparabile equipaggiamento dell’istante: in gergo, colui che ha chiesto un colloquio con educatori, avvocati, magistrati di sorveglianza e chiunque possa offrire un incontro con il “mondo esterno”. Il reparto G8 pullula di copie di istanze, ordinanze, calcoli su posizioni giuridiche, ma anche lettere e fotografie di persone care. Oggi, 4 maggio, gli incontri nel reparto G8 hanno qualcosa di diverso. L’ansia che percorre la fila delle persone in attesa è palpabile: “Sono in corso i colloqui tra imprenditori e detenuti per il progetto Seconda chance. I candidati sono 17 per 7 profili richiesti da un grande ristorante romano”. A motivare l’insolita tensione è l’ispettrice Cinzia Silvano, coordinatrice del reparto e figura chiave delle iniziative, delle attività e degli spazi propedeutici al lavoro esterno dei reclusi. Il suo ufficio si trova proprio davanti all’aula in cui si stanno tenendo i colloqui di Seconda chance. Il progetto è nato da un’idea di Flavia Filippi, cronista giudiziaria del TgLa7. “Durante tanti anni di lavoro mi sono resa conto che in carcere finiscono spesso persone che non hanno avuto opportunità o non si sono potute permettere l’avvocato giusto. Hanno diritto a un’altra possibilità, rappresentata principalmente da un lavoro. Ho pensato che un punto di partenza poteva essere divulgare i vantaggi economici per gli imprenditori, previsti dalla legge 22 giugno 2020 n.123, conosciuta come Legge Smuraglia”. Flavia Filippi racconta che, da gennaio 2021, ha iniziato a contattare incessantemente imprese, associazioni di settore, agenzie per il lavoro, istituzioni pubbliche e altre realtà che potrebbero essere interessate al tema. “Prima di muovermi ho chiesto informazioni alla garante comunale dei diritti dei detenuti Gabriella Stramaccioni e, tramite lei, ho iniziato a collaborare con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone.” I contatti, che la giornalista definisce “porta a porta”, sono iniziati in un periodo ancora di piena crisi dovuta alla pandemia. Ma con la graduale ripresa, sono arrivati i primi protocolli d’intesa con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Associazione Nazionale Costruttori edili, l’Agenzia del lavoro Orienta e l’Unione artigiani. Oggi sono circa 40 i detenuti che già lavorano all’esterno o sono in attesa di essere assunti. Tra loro ci sono Pasquale, Gennaro e Antonello che svolgono lavori di falegnameria e riparazioni all’Istituto Superiore di Sanità: lucidano tavoli, riparano cassetti e aggiustano i ripiani di una vecchia libreria. Presto avranno il delicato incarico di restaurare la sirena d’allarme di San Lorenzo, che suonò prima del bombardamento del luglio 1943. Tra gli ultimi che hanno trovato lavoro grazie a Seconda chance, c’è Francesco che, dopo 21 anni di carcere, ha iniziato a lavorare nelle cucine del ristorante romano “Le Serre Vivi”. In un lontano passato Francesco faceva il cuoco a Palermo. In carcere ha avuto modo di continuare a tenersi in allenamento e a esercitare la creatività in cucina, arrivando a essere il cuoco responsabile di 1.600 pasti giornalieri. “Nessuna delle circa cento aziende da me interpellate in quasi 5 mesi mi ha detto di aver mai sentito parlare della Legge Smuraglia - spiega Flavia Filippi -. Non nascondo che, nella mia ricerca di opportunità per i detenuti, qualche volta mi sono vista sbattere la porta in faccia. Molti tergiversano, si lasciano spaventare dal reato, altri dicono che richiameranno e non lo fanno. In sostanza ho calcolato che su 30 imprenditori che mi dicono di no, ne incontro uno disponibile. A volte tanto faccio degli incontri fortunati, dove c’è un’immediata empatia, come quello con Alessandro Cantagallo che ha chiesto un manutentore, un aiuto cuoco, un runner, un idraulico, un elettricista e due addetti alle pulizie per il ristorante della sua famiglia, dentro allo spazio del museo MAXXI”. Il progetto coinvolge ormai molti Istituti del Provveditorato e anche altre realtà italiane. Nell’istituto romano si è ormai collaudato un modello di recruiting Seconda chance, al quale lavorano, insieme a Flavia Filippi, l’ispettrice Cinzia Silvano e le educatrici coordinate da Giuseppina Boi. “I candidati effettuano un colloquio con l’imprenditore interessato per valutare competenze e motivazioni - racconta l’ispettrice Silvano -. Al colloquio assistiamo io e un educatore, oltre alla promotrice di Seconda chance. Per evitare condizionamenti, informiamo l’eventuale datore di lavoro dei reati del candidato solo dopo che è avvenuto il colloquio. Sono poi le aziende a inoltrare all’interessato e all’amministrazione la richiesta di lavoro”. Il lavoro professionalizzante è centrale nel progetto dell’Istituto diretto da Rosella Santoro. La società Panta Coop occupa, ad esempio, detenuti nella torrefazione e in attività di controllo e pedaggio autostradale. Altri lavorano nel servizio di digitalizzazione e smaterializzazione documenti cartacei con la ditta GSP Global Service Provider s.r.l. di Milano. Chi in sartoria, chi nel call center per il servizio CUP Ospedale Bambino Gesù della Coop E-team, che all’esterno ha assunto altre 20 persone in semilibertà. “Tra i detenuti ci sono professionalità che aspettano solo di essere valorizzate o di crescere”, continua l’ispettrice mentre illustra i tanti spazi che ospitano le lezioni di formazione o dove presto si terranno nuovi corsi. Dalla falegnameria, alla sala musica dove si alterneranno docenti dell’Orchestra di Piazza Vittorio, al giornale Dietro il cancello, coordinato da Federico Vespa, alla sala prove della compagnia La ribalta di Laura Andreini. Alcuni di questi locali sono stati ristrutturati dagli stessi detenuti, come quello che a breve ospiterà il corso per sommelier del Cavalieri Hilton, finanziato dalla Fondazione Severino e a cui sono stati ammessi 33 detenuti. “Era un deposito e ora è un luogo vitale. La dimostrazione che gli spazi prima di essere fisici sono mentali, sono spazi di pensiero. Se immaginiamo lo spazio come un luogo che all’interno del carcere, resterà un luogo chiuso. Se lo immaginiamo aperto, rivelerà potenzialità inaspettate anche all’interno del carcere”. L’ispettrice viene fermata di continuo dai detenuti che le chiedono informazioni sull’inizio dei nuovi corsi o sollecitano autorizzazioni per attrezzi, colori, pennelli e arnesi vari. “In molti casi il rapporto di fiducia e di lealtà con i detenuti inizia qui. Ho capito che per non avere troppe delusioni bisogna conoscere le persone detenute nella loro complessità e se sono chiuse in cella non ci si riesce - aggiunge Cinzia Silvano -. Dopo sono loro a scegliere un percorso che in genere è graduale: si parte con gli articoli 20 ter - lavori di pubblica utilità -, poi passa al lavoro con scorta prima di accedere all’art. 21 che consente di andare a lavorare all’esterno, liberi”. Attualmente i posti del Padiglione Venere, settore del G8 destinato ai lavoranti esterni, sono quasi tutti occupati. “Seconda chance - continua Silvano - ha dato un impulso notevole al lavoro all’esterno, al punto che sto cercando di ottenere un ulteriore ampliamento del padiglione dopo quello che abbiamo già realizzato nel 2019: inizialmente i posti erano 15, oggi sono 50”. Lungo il corridoio del Padiglione Venere si sviluppano una serie di stanze di pernottamento, a due o più letti, luminose, pulite e quasi ordinate, considerato che si tratta di uno spazio comunque condiviso. Ci sono una lavanderia, una biblioteca, un’area living e due cucine dove i detenuti mangiano insieme: sono locali accoglienti, arredati con elettrodomestici e suppellettili frutto di donazioni. “Ogni mattina - conclude l’ispettrice - quando percorro viale Majetti per raggiungere l’Istituto, incontro un piccolo fiume di detenuti che percorre la strada in senso inverso: io entro in carcere, loro escono. Sono camerieri, giardinieri, archivisti, artigiani, cuochi, aiuti cuochi. Ci salutiamo mentre andiamo a lavorare. Credo che questo sia il senso del mio impegno: valorizzare energie che andrebbero perdute e restituire alla società persone migliori”. Aosta. Carcere di Brissogne, intesa tra Regione e Ministero della Giustizia per la gestione gazzettamatin.com, 5 maggio 2022 L’accordo prevede anche il rientro a Brissogne di valdostani detenuti in altri penitenziari. Il Presidente della Regione autonoma Valle d’Aosta Erik Lavevaz e il ministro della Giustizia Marta Cartabia hanno firmato nel pomeriggio di oggi, mercoledì 4 maggio, a Roma, un protocollo d’intesa di collaborazione in materia di ordinamento penitenziario e di esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Il documento è stato firmato a conclusione di un incontro programmato da tempo per un confronto riguardante le diverse tematiche che coinvolgono i rapporti tra la Regione e il Ministero. Vi ha preso parte anche il senatore valdostano Albert Lanièce. Nel documento vengono previste azioni congiunte che muovono anzitutto dalla realtà della casa circondariale di Brissogne. Gli interventi riguardano la territorializzazione della pena, l’assistenza sanitaria e socio-riabilitativa, l’istruzione, le attività ricreative, culturali e sportive, la formazione professionale, l’orientamento al lavoro e le attività lavorative all’interno dell’Istituto e per soggetti in esecuzione penale esterna; la programmazione e la realizzazione di interventi a favore di soggetti, detenuti e non, sottoposti a provvedimenti limitativi della libertà da parte dell’Autorità giudiziaria; gli interventi assistenziali a favore di detenuti che versano in situazioni di disagio economico, la formazione e l’aggiornamento congiunti degli operatori e la riattivazione dell’osservatorio per la verifica dell’applicazione del Protocollo. Ringraziando il Ministro, il Presidente della Regione ha evidenziato come “la firma di questo protocollo sia il punto di arrivo di un lungo confronto istituzionale e politico, per consentire di realizzare azioni comuni nell’interesse delle persone sottoposte a provvedimenti privativi della libertà personale e di tutti coloro che operano nella struttura carceraria e nel mondo che le orbita intorno”. “Di particolare interesse per la Valle d’Aosta risulta - sottolinea Lavevaz - l’impegno assunto dal ministero della Giustizia a garantire maggiore continuità ai vertici della struttura valdostana e una gestione dei flussi delle persone detenute tale da favorire i percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Inoltre, nel documento viene tra l’altro esplicitato l’impegno ad assegnare in primo luogo all’Istituto valdostano i soggetti residenti o appartenenti a nuclei familiari residenti in Valle d’Aosta e a favorirne il rientro da altri Istituti, onde sostenere o ricostruire il rapporto diretto con la famiglia e con il tessuto sociale di appartenenza. Il presidente Lavevaz e l’assessore alla Sanità Roberto Barmasse hanno incontrato il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie per un confronto sull’impugnativa da parte del Governo della norma di attrattività regionale per le professioni sanitarie. Secondo il presidente della Regione, “il lavoro svolto dalle strutture regionali e quelle dei ministeri competenti ha permesso di trovare punti di equilibrio che consentiranno, nelle prossime settimane, di aggiornare il quadro normativo permettendo alla Regione di raggiungere gli obiettivi prefissi dalla norma che era stata impugnata”. Verbania. “Noi, persone detenute dal Papa” di Roberto Bioglio Eco Risveglio, 5 maggio 2022 In un luogo dove le parole e i dettagli sono importanti sta nascendo il riscatto di questi due giovani quarantenni. Gli occhi dietro la mascherina sono timidi, curiosi, certamente emozionati. “Per noi è la prima intervista” ammettono Michele e Lorenzo, entrambi 40enni, detenuti del carcere di Verbania che il 25 maggio saranno ricevuti in udienza generale da Papa Francesco a Roma. Viaggio speciale, con le maestranze della Casa circondariale per portare un grande arazzo da loro ricamato col simbolo del Vaticano. L’intervista che abbiamo fatto giovedì scorso è avvenuta dentro il carcere, nella biblioteca, dove i due hanno portato direttamente dalla loro cella il frutto di sei mesi di lavoro ormai giunto quasi al termine: “Un milione e 300mila punti” dicono orgogliosi. L’esperto di ricamo è Michele: “Ho imparato prima di entrare qui”. Le loro storie passate sono destinate, per loro espressa richiesta, a rimanere private. Entrambi spiegano senza esitazione di essere credenti, forse una fede, la loro, riscoperta tra le mura del carcere, fatte di silenzi e dolore, di un tempo che non passa mai. Si sono conosciuti qui a Verbania, due anni e mezzo fa. È nata l’intesa (non scontata) tra Michele, ragazzo del sud, e Lorenzo, accento del nord. Più esuberante e vulcanico Michele, che a volte cerca le parole per dirlo; più pacato Lorenzo, che le parole le trova senza difficoltà ma non le usa mai a caso. “Io so ricamare, Lorenzo è bravissimo a disegnare. Alcuni punti in comune nelle nostre storie personali ci hanno fatto capire che poteva nascere qualcosa di bello” dice Michele. La bellezza può nascondersi anche nei luoghi più tetri. “Dai diamanti non nasce niente, è dal letame che nascono i fior” diceva De André, poeta degli ultimi. E loro “ultimi” si sono sentiti tante volte. Due detenzioni - “La prima cosa fatta? Uno stemma della Polizia penitenziaria” dice Michele. Tre mesi e mezzo di lavoro, ora è esposto nell’ufficio del comandante della Penitenziaria Domenico La Gala. Dopo sono arrivati altri lavoretti. Fino all’intuizione decisiva della garante dei detenuti, la professoressa Silvia Magistrini, che ha proposto loro di collaborare con le suore di clausura di Orta San Giulio. Due forme di isolamento che si incontrano: quella volontaria delle monache di clausura e quella obbligata di chi deve pagare per gli errori fatti. Le suore inviano del materiale di recupero, consigli e parole di conforto. Un soccorso dell’anima per Michele e Lorenzo: “Hanno fatto un miracolo - dice Michele -: ci hanno fatto amare questo posto”. “Le suore possono capire la nostra condizione - aggiunge Lorenzo - sono due forme di restrizione che si incontrano. Noi con pudore chiamavamo “stanza” la nostra cella. Loro ci hanno detto candidamente: “Per noi è la cella”. La scelta delle parole è banale per chi, come noi, vive la libertà a pieni polmoni; non per Lorenzo e Michele. Le suore insegnano anche ai due giovani un’altra forma di libertà: “Quella di esprimerci, creare, fare” ammette Lorenzo. La folgorazione - L’idea di provare ad andare dal Papa viene una sera a Michele; bisognava spedire un pacco di biscotti della “Banda biscotti” al Papa e ogni scatola conteneva un loro piccolo ricamo. Ma a Michele non basta. “Ero a letto, ho avuto la folgorazione - racconta - ho svegliato Lorenzo e gli ho detto: andiamo dal Papa a portargli un grosso arazzo con il simbolo del Vaticano! Idea folle, non ci arriveremo mai, gli ho detto, però dobbiamo provarci”. Così i due scrivono una lettera, a mano, come si faceva un tempo. La lettera è sentita, passionale, emozionante. Parte quasi un anno fa; i giorni passano e la risposta latita. Poi all’improvviso arriva: i due aprono la busta con esitazione, speranza, emozione. Dentro non c’è solo la risposta dell’assessore alla segreteria di Stato vaticana monsignor Roberto Cona, che invita i due all’udienza generale. Ci sono lacrime, dolori, silenzi, bocconi amari, delusioni. La lettera viene soppesata parola per parola. “Inizia con “pregiatissimi” si emoziona Michele. Le parole pesano, tra queste mura ancor di più. Per loro, ultimi tra gli ultimi, sentirsi chiamare così è emozione pura. Al lavoro - Così è partito il lavoro ma anche la macchina organizzativa dell’amministrazione carceraria per realizzare il loro sogno. “Che stiamo combinando, Lorenzo?” dice Michele, che non trattiene l’entusiasmo. ““Combinando” in positivo, ovviamente” replica Lorenzo, e si intuisce un sorriso dietro la mascherina. Fuori dalla biblioteca c’è l’ora d’aria; qualche detenuto curioso sbircia per vedere cosa sta accadendo: anche la visita di un giornalista in questo luogo fa notizia. Dettagli, forse, ma i dettagli qui sono importanti. Fondamentali. A partire dallo sfondo giallo che contorna la scritta dell’arazzo: “Con l’aiuto delle suore abbiamo messo 70 gradazioni di giallo diverse: una per ognuno dei circa 70 detenuti di Verbania”. Ogni singola parola della scritta è stata selezionata. “Su suggerimento della direttrice Stefania Mussio abbiamo scritto “Le persone detenute” e non “I detenuti”, perché siamo - dice Lorenzo - prima di tutto persone. La detenzione è uno stato momentaneo”. Dettagli che non nascondono il diavolo ma l’aspirazione al divino. Un lavoro lungo, certosino, portato avanti con fatica, talvolta sconforto e paura di non farcela. “La tensione pesa” dice Michele. “Qui dentro anche le inezie, i piccoli problemi possono diventare giganteschi” gli fa eco Lorenzo. Serve pazienza, intelligenza. Doti utili anche a intuire i propri sbagli. Lavorando il tempo scorre più velocemente. Ora che il traguardo è vicino i due vogliono ringraziare chi li ha aiutati: la Polizia penitenziaria, a partire dal comandante La Gala, l’educatrice Franca Facciabene, la direttrice Mussio, la garante e gli altri detenuti. “Ricamiamo anche per loro”. Dalla loro cella Lorenzo e Michele confidano di vedere il Lago Maggiore e il Mottarone. “Un privilegio” dicono. Da lì sognano nuovi orizzonti. Un riscatto, forse una nuova vita al di là del muro. “La visita dal Papa per noi non è un punto di arrivo ma di partenza” dicono. Anzi. Di ripartenza. Perché gli sbagli, spiegano, si pagano, ma bisogna poter riprovare. Magari con l’aiuto di Papa Francesco. Roma. Torna “Altri Sguardi”, la rassegna che porta il cinema nel carcere romano di Rebibbia di Simona Marchetti Corriere della Sera, 5 maggio 2022 Nata per volere dell’associazione Mètide, fondata dall’attrice Ilaria Spada, la kermesse si articola in quattro incontri, durante i quali saranno proiettati altrettanti film, scelti fra i più interessanti della stagione. Si parte con “Corro da te” del regista Riccardo Milani. Dopo due anni di pandemia, torna in presenza “Altri Sguardi”, la rassegna che porta il cinema all’interno del carcere romano di Rebibbia, giunta alla quarta edizione. Nata su iniziativa dell’associazione Mètide, fondata dall’attrice Ilaria Spada, che ne è anche la presidente, la kermesse si articola in quattro incontri, durante i quali saranno proiettati altrettanti film, scelti fra i più interessanti dell’ultima stagione e valutati da un giuria composta dai detenuti del penitenziario. Si parte mercoledì 4 con “Corro da te” del regista Riccardo Milani, che sarà anche ospite della proiezione. “Avere la possibilità di portare avanti questo progetto arricchisce le motivazioni per le quali è nato - ha spiegato la Spada in una nota alla stampa -. Partecipare insieme alle emozioni che ogni film e la sua storia suscitano, ci permette di creare condivisione e confronto, condizioni necessarie per affrontare le difficoltà che tutti noi ci troviamo a vivere in questo particolare momento”. I prossimi appuntamenti saranno: mercoledì 11 maggio con “Tutti per 1 - 1 per tutti” (ospiti il regista Giovanni Veronesi e Rocco Papaleo); martedì 17 maggio con “Genitori VS Influencer” (ospite l’attore Massimiliano Vado) e martedì 24 maggio con “Notti in bianco, baci a colazione” (ospiti la stessa Spada e il collega Alessio Vassallo), mentre la giornata di martedì 31 maggio sarà dedicata a “Le frasi di Osho” con Federico Palmaroli e alla premiazione della pellicola vincitrice. A latere della rassegna ci sarà poi il laboratorio di scrittura tra le righe: un corso di formazione in scrittura e sceneggiatura cinematografica, rivolto alla sezione femminile del carcere di Rebibbia e articolato in un percorso di orientamento e approfondimento sui temi della scrittura. Se capisci Marco Donat Cattin, figlio del ministro, capisci la lotta armata di David Romoli Il Riformista, 5 maggio 2022 In libreria il lavoro di Monica Galfré (“Il figlio terrorista”): forse è il testo più illuminante su quegli anni. Racconta la storia del figlio del ministro, militante di Prima Linea, killer di Alessandrini e del dramma suo e di un pezzo della sua generazione. La sua vicenda scosse la repubblica. Nella notte del 20 giugno 1988 un giovane uomo di 35 anni viene coinvolto di striscio in un tamponamento a catena sull’autostrada Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona Sud. C’è un ferito, sua moglie sta provando a fermare le macchine in arrivo. L’uomo la affianca, segnala con lei l’incidente anche se il buio e la velocità delle auto rendono l’impresa rischiosa. Una Thema arriva sparata, li prende in pieno, uccide entrambi sul colpo. La vittima ha un nome noto: è Marco Donat-Cattin, ex militante di Prima linea, ex detenuto politico, considerato un pentito anche se è vero solo a metà. Il padre, Carlo Donat-Cattin, è uno dei principali leader della Dc, più volte ministro, in quel momento vicesegretario del partito. Intorno a quella parentela e al sospetto che il potente padre, allertato addirittura dal presidente del consiglio Cossiga, avesse brigato per mettere in salvo il figlio era scoppiato nel 1980 uno dei più clamorosi scandali nella storia della Repubblica. Ricostruisce quella tempesta politica, e soprattutto la parabola tragica di Marco, il libro della storica Monica Galfré, edito da Einaudi, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione: uno dei migliori nella foltissima bibliografia su quell’epoca storica, forse il migliore in assoluto. Per quanto attiene allo scandalo, ricostruito nella prima parte del libro, la vicenda ancora oggi non è accertata nei dettagli. All’origine c’è il brigatista Patrizio Peci, primo tra i grandi pentiti della lotta armata in Italia. Nella sua fluviale deposizione aveva detto di aver saputo da un dirigente di Prima linea, il principale gruppo armato dopo le Br, che tra i dirigenti di quell’organizzazione c’era il figlio di Donat-Cattin. Era il 2 aprile 1980: pochissimi giorni dopo la deposizione di Peci arrivò nelle mani di Cossiga che - secondo la testimonianza del pentito di Pl Roberto Sandalo - si premurò di avvertire l’amico Carlo perché facesse espatriare il figlio terrorista quanto prima. I verbali degli interrogatori di Peci, depurati però della pagina in cui veniva citato Donat-Cattin, finirono nelle mani del giornalista del Messaggero Fabio Isman, consegnatigli da numero 2 del Sisde Silvano Russomanno: finirono entrambi in galera per violazione del segreto d’ufficio. Ci rimasero per mesi, poi il giornalista fu prosciolto, l’uomo dei servizi condannato. Sandalo, il militante di Pl che aveva parlato a Peci di Marco Donat-Cattin, fu arrestato il 29 aprile. Tra la deposizione di Peci e quell’arresto, Cossiga aveva certamente incontrato il vicesegretario della Dc nel suo studio privato e il potente Carlo aveva immediatamente contattato proprio Sandalo, che sapeva essere amico e compagno di suo figlio, secondo quest’ultimo per rintracciare e avvertire il figlio. “Roby il pazzo”, come lo chiamavano, si pentì subito. Il 3 maggio fece il nome di Marco Donat-Cattin, contro cui quattro giorni dopo fu spiccato un mandato di cattura ma il “comandante Alberto”, come da nome di battaglia, era già oltre confine. Fu arrestato a Parigi mesi dopo, il 20 dicembre. Che fosse stato messo in guardia dal padre o meno, la decisione di espatriare la aveva già presa. Non dipese dall’indiscrezione del presidente del consiglio. Le deposizioni del pentito di Prima linea non si fermarono lì. Coinvolsero Cossiga, scatenando un uragano politico. Appena due anni prima, con lo stesso Cossiga inflessibile ministro degli Interni, la Dc aveva sacrificato il suo esponente più prestigioso, Aldo Moro, per non trattare con i terroristi. La fermezza era una professione di fede, un dogma, un obbligo morale prima che politico: trasgredire in nome della famiglia o dell’amicizia, degli affetti, sembrava letteralmente inconcepibile. Sia Donat-Cattin che Cossiga smentirono. Solo 27 anni più tardi il Picconatore avrebbe ammesso e indicato la catena lungo la quale aveva viaggiato l’informazione: dal ministro degli Interni Rognoni al segretario della Dc Piccoli, i quali avevano poi messo al corrente Cossiga, affidando a lui lo sgraditissimo compito di mettere al corrente il più diretto interessato, Donat-Cattin padre. La faccenda finì di fronte alla Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, il “Tribunale dei ministri”. Seduta fiume: tesa, molto drammatica e tuttavia dall’esito predeterminato. La Commissione avrebbe dovuto decidere non sull’eventuale colpevolezza del premier ma solo sulla necessità o meno di procedere con ulteriori accertamenti. Discusse invece come se dovesse emettere un verdetto e assolse a furor di maggioranza. Il Pci raccolse le firme necessarie per ripetere il “processo” in luglio, di fronte alle Camere in seduta congiunta. Fu un momento tanto solenne quanto disertato: dopo cinque giorni di dibattito ad aula semivuota Cossiga ne uscì incolume. Donat-Cattin invece rassegnò le dimissioni e uscì di scena ma solo per qualche anno: nell’86 era di nuovo ministro. Monica Galfrè ricostruisce non solo i passaggi di quella crisi ma soprattutto la temperie che rifletteva e veicolava: il dibattito sui media, gli intrecci tra calcolo politico, propaganda e avvio, per la prima volta, di una riflessione della società italiana su se stessa e sulla bufera che stava attraversando ormai da oltre 10 anni. Quella che emerge è la verità di un Paese che perla prima volta faceva i conti con il terrorismo, cioè con l’emergenza che lo ossessionava più di ogni altra, riconoscendone la natura “interna”, inscritta nella propria storia. Sino a quel momento i terroristi erano stati visti come alieni: gelidi, efficienti, feroci, nemici mortali, sempre e comunque “altro da sé”. Complice l’intreccio familiare reso fragoroso dalla notorietà e dal ruolo dei protagonisti, i terroristi, e con loro un’intera travagliata generazione, cominciavano a essere visti per quello che erano: non solo parte del Paese ma parte delle famiglie. In senso proprio qualche volta, ma in senso più lato sempre. Anche da questo punto di vista il 1980 è un anno di svolta: il percorso successivo non sarebbestato lineare, la “soluzione politica” invocata dai terroristi sconfitti sarebbe sempre rimasta una chimera. Però, senza dubbio, una volta sconfitto il terrorismo, l’Italia della prima Repubblica dimostrò una disponibilità alla clemenza e una volontà di superare l’emergenza marcata dalla consapevolezza di avere a che fare con i propri figli. Quei “figli”, Marco Donat-Cattin in qualche modo li rappresenta tutti. Ragazzo ribelle, padre a 17 anni, militante di Lotta continua, poi di Senza tregua e di lì in Prima linea, quando viene denunciato il “comandante Alberto” era già uscito da Pl, deluso da una deriva militarista che stava rendendo quell’organizzazione sempre più simile alle Brigate rosse e dunque sempre più lontana dalla “struttura armata di movimento” delle origini, di ispirazione opposta a quella brigatista. Se la “ritirata strategica” in Francia lo avrebbe condotto ad abbandonare la militanza armata o a puntare su un nuovo gruppo terrorista, come sembrava comunque intenzionato a fare, non è dato sapere. Di certo nel suo percorso individuale si rifletteva una crisi che non era interna solo alle organizzazioni armate. In quel 1980, che col senno di poi sappiamo aver segnato il tramonto del terrorismo e che si sarebbe concluso alla Fiat con la sconfitta di una ribellione operaia durata oltre 10 anni, si consumò anche la fine di una sorta di incanto collettivo, generazionale, degenerato in tragedia. L’obiettivo di rendere la parabola di Marco Donat-Cattin esemplare è esplicitato da Monica Galfré sin dal sottotitolo del libro. Per farlo, l’autrice procede in senso inverso rispetto a quello usuale: spoglia Marco Donat-Cattin di ogni componente stereotipa, dal “terrorista” al “militante rivoluzionario”, cercando invece di rintracciarne l’individualità: una verità personale condivisa, pur se declinata da ciascuno a modo proprio, da molti altri giovani del suo tempo e del suo Paese. Da storica, l’autrice ha scelto di affidarsi essenzialmente alle deposizioni di Marco, considerandole comunque meno falsate, in virtù dell’immediatezza, dei ricordi e delle ricostruzioni a distanza di decenni. Sono gli aspetti sempre dimenticati e messi da parte quelli che vengono qui indagati e scandagliati: il rapporto con la morte data e rischiata, molto più complesso di quanto le ricostruzioni storiche non siano in qui riuscite a restituire, centralissimo nella parabola di Marco Donat-Cattin, che uccise personalmente il giudice Emilio Alessandrini e dall’incubo di quella morte data con le proprie mani non si liberò mai; le relazioni sentimentali, che c’erano ed erano essenziali anche per i militanti della lotta armata; soprattutto il rapporto tra comunità e individui, quello più articolato, per molti e contrapposti versi essenziale nello spiegare sia la precipitazione negli inferi di una lotta armata vissuta spesso con disagio e lacerazioni interiori, sia la rottura che portò molti alla dissociazione, al pentimento o alla resa. Donat-Cattin appare come un “pentito a metà”, quasi un dissociato ante litteram: quando iniziò a collaborare, non facendo nomi ma ricostruendo l’intera genesi di Prima linea, la sua articolazione e i delitti compiuti, la dissociazione ancora non esisteva. Quando morì sull’autostrada, era uscito di galera da sei mesi, lavorava nel sociale per il recupero dei tossicodipendenti. La sua tragedia personale è una chiave per capire la storia d’Italia in un momento cruciale come non è ancora stato fatto. “Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona”: il libro scritto dai detenuti di Simona Sirianni kodami.it, 5 maggio 2022 Questo piccolo lembo di terra dell’Arcipelago Toscano è stato per 20 anni teatro di un esperimento di relazione nonviolenta tra uomo animale, unico nel suo genere, in cui il percorso rieducativo dei detenuti si è intrecciato alla sorte degli animali, sottratti ai meccanismi dello sfruttamento zootecnico e, quindi, alla morte per macellazione. Si chiama Trilly, la gattina di Artur. Se ne è preso cura fin da quando stava nel palmo della sua mano, ma un giorno ha dovuto lasciarla senza nemmeno salutarla. Artur è a Gorgona, l’ultima isola carcere di Italia. E la sua è solo una delle commoventi storie racchiuse nell’antologia “Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona”, la novità editoriale nata dal laboratorio di scrittura creativa dei detenuti presenti sull’isola in collaborazione con la LAV la lega Antivivisezione. Il libro racconta e raffigura, attraverso delle bellissime tavole disegnate, l’evoluzione del rapporto uomo e animali nel delicato contesto della vita carceraria. Una raccolta di storie vere, commoventi e di riscatto che si inserisce nell’importante progetto dell’associazione “Gorgona, isola dei diritti umani e animali”. Questo piccolo lembo di terra dell’Arcipelago Toscano, ultima isola-carcere italiana, è stato, infatti, per 20 anni, teatro di un esperimento di relazione non violenta tra uomo animale, unico nel suo genere, in cui il percorso rieducativo dei detenuti si è intrecciato alla sorte degli animali, sottratti ai meccanismi dello sfruttamento zootecnico e, quindi, alla morte per macellazione. Ma, tra il 2015 e il 2019, il progetto è stato interrotto e le attività di riproduzione e di macellazione degli animali sono ricominciate. Ma grazie a proteste, appelli e prove di dialogo, finalmente nel 2020 il percorso è ripreso con la firma di un Protocollo di Intesa tra Lav, Comune di Livorno e Casa Circondariale. Da quel momento l’organizzazione, anche grazie al sostegno di altri convinti battaglieri sognatori, non si è mai fermata per riuscire a salvare tutti gli animali. E Gorgona, finalmente, “ha iniziato man mano a diventare quello che abbiamo sempre sognato: l’isola dei diritti per tutti, animali compresi” dice un soddisfatto Gianluca Felicetti Presidente LAV. “Difendere i diritti degli ultimi è un impegno molto importante, un atto di civiltà” continua. “E non chiamatela utopia: il modello Gorgona, fondato sul rapporto umani-animali come mezzo di rieducazione e riabilitazione, non più basato sullo sfruttamento, ma sulla cura e sul rispetto reciproci, è un modello pedagogico e filosofico che può realmente fare la differenza tra la vita e la morte”. Dopo la pausa forzata imposta dall’emergenza sanitaria Covid, la LAV ha iniziato a trasferire sulla terraferma i primi animali dei 450 destinati, fino ad allora, alla macellazione. Animali che saranno, in parte, affidati alle cure di LAV, ospitati in rifugi, in parte dati in adozione. E, da ottobre 2021, finanzia un progetto lavorativo per due detenuti che saranno impiegati nella cura degli animali e nelle attività dell’Università Bicocca di Milano. Un modo per permettere loro anche di acquisire competenze professionali che potranno essere spese nel mondo del lavoro, al termine del periodo di detenzione. La determinazione con cui la LAV porta avanti questo impegno, nasce dalla certezza che la rinascita del “modello Gorgona” possa essere un faro anche per altre realtà, oltre a rappresentare un esempio per l’intera società, chiamata, oggi più che mai, a ripensare profondamente il proprio rapporto con gli animali, la cui insostenibilità è stata resa drammaticamente evidente dalla recente pandemia da Covid-19. Quando il lavoro si trasforma in divinità pagana di Massimo Recalcati La Stampa, 5 maggio 2022 Freud pensava che il compito di una psicoanalisi fosse quello di rendere possibile a un essere umano amare e lavorare. L’amore e il lavoro gli apparivano come due facce di una sola medaglia. Nell’amore e nel lavoro la vita umana realizza, infatti, in modo pieno la propria dignità. Nel corso delle più profonde crisi economiche, non ultima quella legata alla pandemia, il suicidio di imprenditori e di persone che hanno perduto il loro lavoro e si sono ritrovate senza avvenire, riflette drammaticamente questa semplice verità. Nondimeno, il lavoro è stato ed è ancora luogo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, pena e fatica, sottrazione e umiliazione della propria dignità. Quando accade? Quando il sacrificio di sé esclude ogni possibile realizzazione personale, quando la necessità della sopravvivenza impone la sopportazione di un lavoro retribuito senza alcuna equità. In questi casi il lavoro anziché dare senso alla vita la spoglia di ogni senso possibile. Non è più luogo elettivo della umanizzazione della vita, ma, come scriveva già il giovane Marx, espressione della sua degradazione a vita animale, di una sua alienazione irreversibile. Nel nostro tempo, di fianco a questa dimensione alienata del lavoro, troviamo però un’altra sua trasfigurazione inquietante. È quello che accade quando il lavoro diviene una vera e propria idolatria, quando esso assume i caratteri di una passione smodata finalizzata non tanto all’esercizio della sua attività, ma al profitto che essa permette di raggiungere. Lavorare, in altri termini, non possiede più un valore in sé, ma solo per quello che consente di realizzare in termini di profitto. In questi casi il lavoro può assumere la forma di una paradossale dipendenza patologica. Non esiste, infatti, lavoro umano che non implichi la necessità della sosta, della pausa, dell’intervallo. Anche il Dio della Torah mostra la necessità di rinunciare alla propria potenza - alla propria forza creatrice - dedicando un giorno intero al suo riposo. In questo modo intende avvisare l’uomo sulla tentazione di fare del lavoro una sorta di divinità pagana, di trasformare la dedizione al proprio lavoro in una vera e propria idolatria. Non c’è dubbio che questo sia un tratto rilevante del nostro tempo. Si tratta di una nuova religione. Mentre storicamente l’etica del lavoro trovava la sua matrice - come ha indicato Weber - nella cultura protestante (ascetismo, risparmio, rinuncia, dedizione, senso del dovere, vocazione), nel nostro tempo questa dimensione etica del lavoro sembra avere subito una fondamentale deformazione. La passione per il lavoro appare subordinata a quella del raggiungimento di un successo individuale rapido. Il rigore protestante del lavoro come vocazione ha lasciato il posto all’avidità pulsionale del consumo. La tendenza alla conservazione e alla ritenzione - al risparmio e all’accumulazione - si è ribaltata in una spinta al godimento immediato. L’iperattivismo contemporaneo intossica il lavoro sottoponendolo allo stress di una gara perpetua. Ma, come sappiamo bene, la passione per il profitto non conosce limiti. La protervia che sospinge gli uomini a farsi padroni della terra avvelena il mondo. È la nostra follia più grande. Non a caso nella sua predicazione Gesù invita gli esseri umani ad assumere come propri maestri gli uccelli nei cieli e i gigli nel campo. Cosa ci insegnano? A deporre l’attesa nei confronti del domani, a vivere nell’oggi, nell’adesso, a non inseguire vanamente quello che ci manca, ad amare, come direbbe Agostino, quello che si ha. È uno degli insegnamenti della pandemia che non dovremmo dimenticare troppo rapidamente: distinguere l’essenziale per la nostra vita dall’inessenziale. E’ un fatto che non sfugge agli psicoanalisti: le vite immerse nella furia produttivistica del nostro tempo lamentano tutte una perpetua insoddisfazione e una perdita verticale del senso. Anche la Scuola è stata investita da questa cattiva ideologia iperattivistica: ha valore solo ciò che è produttivo. L’egemonia del modello “impresa” ha deturpato la sua vocazione più profonda. Il linguaggio dell’azienda ha imbastardito il suo lessico, stravolto le sue procedure, intossicato la vita della sua comunità. Diventa sempre più difficile pensare alla Scuola come alla possibilità di un tempo non colonizzato dalla necessità produttiva. Invece dovrebbe essere proprio la Scuola a preservare la possibilità di un tempo fecondo a partire dalla sua improduttività. Dedicare un pomeriggio alla lettura di una poesia, considerato dal punto di vista economicistico, appare uno spreco di tempo. E’ quello che un noto imprenditore rimprovera continuamente ai nostri giovani: lo studio non è affatto necessario al lavoro. Eppure è proprio da questo uso improduttivo del tempo - di cui la Scuola dovrebbe essere custode - che potremmo trarre una lezione fondamentale: la formazione non deve essere una palestra piegata alla logica del successo individuale, a una gara di tutti contro tutti, ma un tempo dove si impara collettivamente a dare un senso singolare alla propria esistenza. Libertà di stampa, ora l’Italia è peggio di Tonga e Gambia di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2022 Diciassette posizioni perse in un anno. Una discesa impressionante che nella nuova classifica mondiale della libertà di stampa stilata da Reporters sans frontières colloca l’Italia al 58esimo posto, persino dopo Paesi come la Macedonia del Nord, Gambia, Tonga e Burkina Faso. A partire dal 2016 l’Italia, allora situata in settantaseiesima posizione, era costantemente migliorata. E lo aveva fatto pure negli ultimi due anni quando, anche di fronte agli attacchi fisici di gruppi neofascisti e negazionisti sommati a quelli verbali di simpatizzanti del Movimento 5 Stelle, il nostro Paese aveva guadagnato due posizioni (41esimo posto contro il 43esimo). Oggi il tonfo. Nei questionari anonimi inviati ai cronisti e utilizzati per stilare la classifica rispetto al passato c’è una novità. L’Italia è finita tra i Paesi considerati a “situazione problematica” anche perché nelle redazioni vince l’autocensura. Sempre più spesso, sebbene i giornalisti “godano di un clima di libertà”, non si pubblica “per conformarsi alla linea editoriale della propria testata”. Poi, come sempre, la penna resta a volte nel taschino anche per timore delle querele, delle minacce delle mafie o di gruppi estremistici. Una costante per un Paese in cui la diffamazione non è ancora stata depenalizzata a causa “di un certo grado di paralisi legislativa” e molti cronisti sono costretti a vivere sotto scorta. La questione delle linee editoriali è però centrale. Perché va letta in parallelo con la crisi economica e la crisi di vendite dei quotidiani cartacei. Il World press freedom index di Reporters sans frontières non lo spiega. Ma quello che sta accadendo nei media italiani è piuttosto chiaro. Visto che la maggior parte delle testate è in perdita, anche di molte decine di milioni di euro, i direttori e le redazioni sono sempre meno liberi. Intendiamoci, in un sistema capitalistico è perfettamente normale che l’editore concordi con il direttore quella che sarà la linea della testata di cui è proprietario. Ma finché il giornale è in utile e anzi garantisce al “padrone” incassi record, come accadeva in passato, le redazioni e le direzioni avranno sempre margini di manovra. Le notizie anche scomode per l’editore o i suoi amici avranno possibilità di essere pubblicate perché servono per garantire introiti e vendite. È difficile cacciare chi ogni giorno ti rende un po’ più ricco. Tutto cambia, invece, se i gruppi editoriali sono in perdita. A quel punto il posto di lavoro del direttore e dei redattori dipende tutto dalla benevolenza di chi continua a ripianare il rosso. E se un editore decide di aprire il portafoglio nonostante non abbia possibilità di recuperare gli investimenti significa che quella testata deve continuare a esistere solo perché gli serve per altro: ad esempio influenzare la classe politica locale e nazionale per ottenere leggi o provvedimenti favorevoli (spesso i nostri editori sono industriali, finanzieri, proprietari di cliniche, costruttori); per attaccare concorrenti o amministratori pubblici; per blandire chi potrebbe fare dei favori. Così, capita l’antifona, il giornalista o il direttore che teme di perdere il proprio stipendio si mette al vento e vince l’autocensura. Se a tutto questo si aggiunge “una precarietà crescente” sommata alla dipendenza “dagli introiti pubblicitari ed eventuali sussidi statali” ecco che si arriva all’oggi: a testate la cui linea editoriale prescinde totalmente dal pensiero dei sempre più esigui lettori. Benvenuti in Italia. Omotransfobia. Ddl Zan, il Pd ripresenta in Senato il testo in versione originale di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 5 maggio 2022 In una conferenza stampa mercoledì il segretario dem Enrico Letta ha detto: “È possibile e doveroso approvare la legge contro l’omotransfobia entro questa legislatura, altrimenti sarebbe una sconfitta per il Paese. Torna in Parlamento il ddl Zan. È stato il Pd che mercoledì ha presentato il testo in Senato, a sei mesi di distanza da quando la legge era stata affossata in Senato “un affossamento con un applauso di scherno che ha disegnato davvero una brutta pagina del Parlamento e che secondo me si è ritorto contro chi lo ha fatto”, ha detto il segretario dem Enrico Letta, in una conferenza stampa in Senato. Poi ha spiegato: “Ripresentiamo il ddl Zan nella sua versione originale per una battaglia che praticamente noi non abbiamo mai abbandonato. Siamo comunque disposti ad alcune modifiche. Per noi il campo dei diritti è fondamentale, rimane fondante nel Dna del partito. Riteniamo che sia possibile e doveroso approvare la legge contro l’omotransfobia e se non riuscissimo sarebbe una sconfitta per il Paese. Alla conferenza stampa, d’iiziativa della capogruppo al Senato Simona Malpezzi, hanno partecipato anche il deputato Alessandro Zan e la senatrice Monica Cirinnà. “Tutela anche per i disabili” - Il deputato Alessandro Zan - a cui è legato il nome della legge anche se il testo viene presentato in Senato- ha detto: “L’Italia è l’unico Paese che in Europa non ha un a legge contro i crimini d’odio insieme all’Ungheria e la Polonia. E non può essere che l’Italia sia sullo stesso piano dell’Ungheria di Orban”. Zan ha poi ricordato che nella legge contro l’omotransfobia è prevista anche una tutela per la disabilità: “Di questo si parla sempre troppo poco ed è invece un tema molto importante”. Per illustrare diffusamente questo tema il Pd dedicherà tre “agorà” una a Milano, una a Palermo, una a Padova. “Una sferzata di diritti per i giovani” - La senatrice Malpezzi ha voluto specificare che “Il Pd pone grande attenzione che viene soprattutto dai giovani che ci stanno chiedendo di dare una sferzata dei diritti a questo Paese. Noi pensiamo che tutto si possa tenere insieme, dall’impegno per stare vicini alle imprese in questo momento, al tema dei diritti. Teniamo insieme tutto perché fa parte del dna del Partito Democratico”. La senatrice Cirinnà ha detto: “Ripresentiamo il testo così come è uscito dalla Camera e speriamo in un miracolo, ovvero che chi lo ha votato alla Camera lo rivoti in Senato. Il Pd aderisce a tutta l’onda dei pride”. Migranti. Bollettino dei naviganti (e dei morti) di Luigi Manconi La Repubblica, 5 maggio 2022 Nel 2021, più di 3.000 persone hanno perso la vita o, comunque, sono scomparse mentre cercavano di raggiungere le coste dell’Europa attraversando il mare: 1924 nel Mediterraneo e 1153 lungo la rotta africana che porta alle isole Canarie. Si tratta di numeri raddoppiati rispetto a quelli registrati nell’anno precedente. Nel 2020, infatti, si contavano 1544 persone morte o disperse su entrambe le rotte. Sia chiaro: questi numeri riguardano solo i tragitti marittimi e, probabilmente, sono ancora maggiori le cifre delle morti registrate lungo le vie di terra. Molti migranti provenienti dall’Africa, prima di raggiungere le coste e tentare la sorte del viaggio in mare, devono affrontare i deserti, i centri di detenzione nelle zone di confine e i sequestri a opera di trafficanti e contrabbandieri. Si pensi che, tra il 2018 e il 2019, circa 1750 persone hanno perso la vita lungo le strade che passano per la Libia e l’Egitto. Quanto qui riportato emerge dal rapporto pubblicato il 29 aprile scorso dall’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Un altro dato allarmante, che va affiancato ai numeri contenuti nel rapporto, è quello delle morti registrate durante l’anno in corso. Da gennaio a fine aprile già 478 persone sono scomparse prima di raggiungere le coste. E si tratta di un numero che non tiene conto degli ultimi naufragi conosciuti. L’11 aprile, al largo di Surman, davanti alla Libia, un gommone carico di 20 persone si è rovesciato in acqua. Si sono contati 2 sopravvissuti, 4 morti e 14 dispersi. Il 16 aprile un barchino con a bordo 35 persone si è capovolto al largo di Sabratha, nell’area occidentale delle acque libiche. Nessuno si è salvato: 6 morti e 29 dispersi. Tra il 23 e il 24 aprile si è registrata l’ultima tragedia. Una imbarcazione che trasportava 120 persone ha fatto naufragio a largo di Sfax, in Tunisia. Il bilancio è stato di 12 morti e 10 persone scomparse. È successo, poi, che lo stesso giorno della pubblicazione del rapporto dell’Unhcr, Fabrice Leggeri, direttore dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), abbia annunciato le sue dimissioni. L’Ufficio europeo antifrode (OLAF) ha pubblicato i primi risultati di una indagine avviata nei mesi scorsi su presunte condotte illecite da parte dell’agenzia. Leggeri sarebbe stato a conoscenza e avrebbe occultato le prove dei respingimenti di alcune imbarcazioni con a bordo migranti, effettuati dalla guardia costiera greca nella zona del Mar Egeo. Leggeri è lo stesso che nel 2016 ha accusato le ong di essere un fattore di attrazione (pull factor) per i migranti in fuga dalla Libia; e ha contribuito ad assimilare le attività di soccorso in mare a una pratica da interdire e contrastare: e, di conseguenza, a promuovere, nei confronti delle ONG che operano principalmente nel Mediterraneo, una campagna di delegittimazione. Un destino singolare per chi ha guidato Frontex dal 2015 al 2022. Ma la crisi più pericolosa è quella alimentare di Karima Moual La Stampa, 5 maggio 2022 Continua la guerra in Ucraina ma se qualcuno non se ne fosse accorto, bisogna ribadire che con sé acuisce un’altra crisi ancor più pericolosa e globale: quella alimentare. Si muore sotto i bombardamenti, ma si continua a morire anche di fame. Secondo l’ultimo rapporto annuale lanciato dal Global network against food crises - un’alleanza internazionale di Nazioni unite, Unione europea, agenzie governative e non governative che lavorano sulle crisi alimentari - quanto sta avvenendo in Ucraina, produce impatti ancora più devastanti su Paesi già in crisi alimentare, oltre quelli già sull’orlo della carestia. Detto con i numeri: nel 2021 circa 193 milioni di persone in 53 paesi o territori hanno sperimentato un’insicurezza alimentare acuta a livelli di crisi o peggio. Ciò rappresenta un aumento di quasi 40 milioni di persone rispetto al numero già record di 2020. Di queste, oltre mezzo milione di persone (570 mila) in Etiopia, Madagascar meridionale, Sud Sudan e Yemen sono state classificate nella fase più grave di catastrofe acuta da insicurezza alimentare e hanno richiesto un’azione urgente per scongiurare la diffusione crollo dei mezzi di sussistenza, fame e morte. Ma il dato ancor più preoccupante è che, se si considerano gli stessi 39 paesi o territori presenti in tutte le edizioni del rapporto, il numero di persone in crisi o peggio è quasi raddoppiato tra il 2016 e il 2021, con aumenti ininterrotti ogni anno dal 2018. Questi dati, come spiega il rapporto, sono evidentemente il risultato di molteplici fattori, che hanno a che fare con le crisi ambientali, climatiche, economiche, sanitarie a cui vanno aggiunti i conflitti; e l’ultimo nell’Ucraina diventa altra benzina sul fuoco. Perché il conflitto, rimane il principale motore dell’insicurezza alimentare. E nonostante il rapporto sia anteriore all’invasione russa dell’Ucraina, rileva che la guerra in atto ha già messo in luce la natura interconnessa e la fragilità dei sistemi alimentari globali, con gravi conseguenze per la sicurezza alimentare e nutrizionale globale. Un campanello d’allarme di una pericolosa stagione alle porte che ci attende se non si prendono iniziative celeri. Ancor più che diversi paesi sono appena a sud del Mediterraneo. Nel rapporto sono sotto la lente d’ingrandimento quei paesi e territori in cui l’entità e la gravità della crisi alimentare superano le risorse e le capacità locali, proprio perché le loro sorti sono legate a quanto sta avvenendo nell’Europa orientale. Una situazione che ha prodotto una vera e propria vulnerabilità di intere popolazioni proprio per l’elevata dipendenza delle importazioni di prodotti alimentari e agricoli. A questi si aggiungono gli altri paesi del nord Africa che nei prossimi mesi, anche se più strutturati rispetto ad altri ed hanno specificità, saranno comunque messi a dura prova. La Tunisia, è uno di questi. Che fare? In questi casi, si chiede un’azione umanitaria che possa coprire su vasta scala tutti i paesi coinvolti, ma deve essere chiaro che non sarà abbastanza se non si darà precedenza e con una certa urgenza a tutti gli strumenti a disposizione per arrivare alla pace. Perché finché continuerà il conflitto in Ucraina, le sorti di chi è lontano ma non per questo non legato ai risvolti della guerra, saranno ancora più in bilico. L’Europa ha già messo in campo iniziative economiche per far fronte alla crisi che ci attende perché ha i mezzi per farlo. I paesi africani e non solo, che vivono in condizioni già disastrose, quei mezzi per far fronte ad un inverno bellico non li hanno. Il rischio dunque, è che se continuiamo a guardare il conflitto con uno sguardo eurocentrico con annesse soluzioni; come una piccola miccia lontana da noi, non è detto che poi proprio quella piccola miccia possa espandersi così velocemente e violentemente da concludersi in un’esplosione ancora più violenta, alla quale dovremmo poi rispondere senza strumenti e quando ormai sarà troppo tardi. Russia. La sfida di Novaya Gazeta Europe: “Lottiamo per i reporter uccisi” di Kirill Martynov La Stampa, 5 maggio 2022 L’impegno del periodico indipendente russo per raccontare la guerra: “Così Putin ha eliminato sei nostri colleghi e spento i giornali”. La voce della Russia indipendente, Novaya Gazeta, che il Cremlino ha silenziato il 28 marzo scorso, è diventata Novaya Gazeta Europe. Grazie all’alleanza con un gruppo di giornali europei - La Stampa in Italia, la Süddeutsche Zeitung in Germania, Le Monde in Francia e Gazeta Wyborcza in Polonia, che fino al 9 maggio pubblicheranno una selezione di articoli della testata - il giornale torna a farsi sentire. ll 24 febbraio 2022, le autorità russe hanno commesso un crimine internazionale e probabilmente la più grande stupidità della storia moderna iniziando una guerra senza senso e senza ragione contro l’Ucraina. Gli obiettivi di questa guerra sono stati delineati da Putin in modo così vago che la propaganda e i funzionari russi non riescono ancora a mettersi d’accordo tra di loro. Il risultato è stato che la Russia è diventata un Paese aggressore, ha affrontato l’opposizione della maggior parte del mondo e soldati e civili muoiono sul territorio dei cittadini ucraini. Nessuno, incluso lo stesso presidente russo, può rispondere alla domanda su cosa diavolo stia combinando. La rappresentante ufficiale del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, una volta è arrivata a dire che la causa della guerra potrebbe essere la “pretesa nazionalista” degli ucraini per una ricetta del bortsch, che “non volevano condividere con le casalinghe russe”. Gli ucraini non ascoltano queste sciocchezze e resistono eroicamente all’aggressore. La società russa, intanto, è un cupo miscuglio di persone ingannate dalla propaganda e pronte a disumanizzare i loro vicini, e persone che cercano a tutti i costi di allontanarsi dalla realtà e condurre una “vita normale”, restando “fuori dalla politica”, complici diretti di un crimine che viene commesso da funzionari, propagandisti e militari, e anche da noi: quei russi che sanno che il loro Paese sta conducendo una guerra vergognosa con la quale non smetteremo mai di fare i conti. Ora, le persone come noi sono in minoranza nel nostro Paese, ma sappiamo per certo che siamo molti milioni. Dovrebbero essercene di più, di quelli come noi. Il 25 febbraio, Novaya Gazeta è diventato l’unico quotidiano russo a pubblicare un numero contro la guerra - in due lingue, con il terribile titolo “La Russia sta bombardando l’Ucraina”. All’inizio di marzo, le autorità russe hanno approvato leggi che introducono la censura militare: tutti i fatti sulla guerra che contraddicono le dichiarazioni ufficiali del ministero della Difesa russo sono stati dichiarati falsi e i cittadini russi rischiano fino a 10 anni di carcere per averli diffusi. Nello spirito della cronaca orwelliana, le autorità hanno proibito di chiamare la guerra, guerra: bisognava parlare di “azioni di combattimento”, “operazione speciale”, “liberazione dell’Ucraina dai nazisti”. Chi ha fiducia nelle proprie azioni non si comporta così, non vieta ai propri cittadini di parlare e pensare. Per molte altre settimane, i giornalisti della “Novaya” hanno combattuto la censura e hanno cercato di dire ai russi la verità sulla guerra nelle nuove condizioni: abbiamo pubblicato le storie dei rifugiati ucraini in Europa, la persecuzione degli attivisti contro la guerra nella Federazione Russa, i dettagli terribili della mobilitazione di massa forzata nei territori del Donbass. Abbiamo scritto delle conseguenze della guerra in Ucraina, nonostante l’opinione delle autorità russe. Il 28 marzo 2022, Novaya Gazeta ha ricevuto un secondo avvertimento dalla censura russa ed è stata costretta a sospendere il suo lavoro per la prima volta dal 1995: era troppo pericoloso per i nostri giornalisti e dipendenti continuare. Il 7 aprile, il caporedattore di Novaya Gazeta, il premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, è stato aggredito in una stazione ferroviaria di Mosca da sconosciuti - gli hanno spruzzato della vernice rossa in faccia. Gli autori sono stati identificati dai giornalisti, ma la polizia russa non ha aperto un’indagine: così le autorità russe dimostrano che chi non sostiene l’aggressione contro l’Ucraina può essere colpito senza problemi. Sei giornalisti della “Novaya” sono stati uccisi durante il primo mandato del presidente Putin. Lo stesso giorno, il 7 aprile, abbiamo chiuso il giornale e lanciato una nuova edizione di “Novaya Gazeta Europe”, sottolineando la sua completa indipendenza dalla redazione di Mosca, giuridica e fattuale. Vogliamo scrivere la verità sulla guerra e stiamo facendo tutto il possibile per fermarla. Ecco perché abbiamo iniziato un nuovo viaggio, e vi esorto a leggerci e ad aiutarci. Ringraziamo i giornalisti de La Stampa per il loro supporto e collaborazione. Non possiamo ancora lavorare in Russia, ma Novaya Gazeta è essenzialmente l’idea di un giornale che racconta la verità anche quando è scomoda, e viene pubblicato in russo (ma non solo). Questa idea non può essere distrutta. Iran. Sarà giustiziato entro il 21 maggio Djalali, il medico cittadino di Novara di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 5 maggio 2022 È accusato di spionaggio verso Israele, fu arrestato durante una visita accademica. Dal 2012 al 2015 è stato ricercatore all’università del Piemonte Orientale. Le pressioni di Amnesty International. Il medico Ahmad Reza Djalali, cittadino con doppia nazionalità iraniana e svedese, sarà giustiziato entro il prossimo 21 maggio in Iran con l’accusa di spionaggio a favore del Mossad. Lo riporta l’agenzia di stampa Isna citando proprie fonti. Già ricercatore presso il Centro di medicina dei disastri (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale di Novara, Djalali era stato arrestato nel maggio del 2016 durante una visita accademica in Iran. E’ stato condannato a morte in Iran il 21 ottobre 2017 e da allora è chiuso in una cella minuscola del carcere di Teheran, nonostante le pressioni internazionali. Unica prova a suo carico per sostenere l’accusa: una lettera spedita alla moglie, sulla cui autenticità sono stati avanzati dubbi. Fin dall’emissione della prima condanna numerose autorità internazionali si sono mosse perché fosse risparmiata la vita di Djalali ma anche perché fosse rimesso in libertà. Tra questa Amnesty International. “Gli è stato negato l’accesso ad un avvocato ed è stato costretto a fare “confessioni” davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori. Ha detto che è stato sottoposto a pressioni intense con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte” riporta il sito dell’organizzazione per i diritti umani. Il procuratore iraniano accusa Djalali di avere avuto ripetuti incontri con esponenti del Mossad. Il medico replica che il processo nei suoi confronti è scaturito dopo il rifiuto di fornire informazioni sensibili all’Iran sugli stati della Ue. In Italia il ricercatore iraniano ha lavorato dal 2012 al 2015 sempre all’università del Piemonte Orientale continuando a collaborare anche dopo il suo trasferimento al prestigioso Karolinska Institute di Stoccolma. Nel settembre del 2019 il comune di Novara ha conferito a Djalali la cittadinanza onoraria su proposta dell’ordine dei medici locale. Nella città piemontese si sono svolte numerose manifestazioni di solidarietà a favore del detenuto tra cui una “maratona” accademica a cui hanno preso parte 160 studiosi e scienziati. Medio Oriente. Aiuti sanitari ai palestinesi, il veto di Orbàn di Paolo Lepri Corriere della Sera, 5 maggio 2022 L’Ungheria sta bloccando gli aiuti dell’Unione europea (215 milioni di euro) all’Autorità Nazionale Palestinese: è emergenza soprattutto nel settore sanitario. A Bruxelles si parla di “ricatto”. Ne è responsabile l’Ungheria di Viktor Orbán che sta bloccando gli aiuti dell’Unione europea (215 milioni di euro) all’Autorità Nazionale Palestinese: si è creata così una situazione di emergenza soprattutto nel settore sanitario. È ormai dal settembre dell’anno scorso, scrive Le Monde, che il dipartimento di oncologia dell’ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme Est non può accogliere nuovi pazienti: i malati di cancro vengono dirottati in strutture della Cisgiordania meno specializzate o curati in casa. A pagare il prezzo di una scelta politica discutibile, come spesso accade, sono i più deboli. L’ostinazione con cui il commissario ungherese per l’allargamento e la politica di vicinato Olivér Várhelyi, (uomo molto legato al capo del governo di Budapest) sta combattendo la sua battaglia è diventata un problema per la presidente Ursula von der Leyen (che dovrebbe convincerlo a desistere). La tesi secondo cui i finanziamenti europei devono essere legati al contenuto dei manuali scolastici utilizzati nei Territori palestinesi, accusati di incitare alla violenza, appare sostanzialmente un pretesto. La questione esiste, nessuno lo può negare, ma è altrettanto vero - come ha indicato un rapporto dell’istituto tedesco Georg Eckert - che sono stati compiuti recentemente grossi sforzi nella giusta direzione per rispettare standard di tolleranza. Altri, se necessario, ne dovranno essere fatti. Ma, come si dice, il discorso è più ampio. Riguarda la linea di condotta ungherese all’interno delle istituzioni comunitarie: un Paese illiberale, messo alle strette per il suo disprezzo dei valori comuni alla base della casa europea, utilizza sempre più l’arma del sabotaggio in segno di ritorsione. In secondo luogo appare veramente assurdo che a dare lezioni di lotta all’antisemitismo siano gli amici di Putin e Lavrov. Il diritto all’aborto negli Stati Uniti: non lasciamo sole le donne di Arianna Farinelli La Repubblica, 5 maggio 2022 A farne le spese saranno soprattutto le più povere, che non potranno permettersi di recarsi in altri Stati e ricorreranno a interruzioni di gravidanza clandestine. La legge penalizzerà in particolare le minoranze - afroamericane e ispaniche - le immigrate illegali e le minorenni con pochi mezzi economici. Mentre l’Occidente si indigna perché le donne ucraine stuprate non possono ricorrere all’interruzione di gravidanza in Polonia, dove abortire è illegale, negli Stati Uniti il diritto all’aborto rischia di essere cancellato a livello nazionale da una nuova sentenza della Corte Suprema. Mentre Paesi come Argentina, Messico e Colombia finalmente legalizzano l’aborto, alcuni Stati americani come Mississippi, Texas e Oklahoma introducono forti restrizioni all’interruzione di gravidanza. Negli Stati Uniti l’aborto è legale dal 1973 quando la Corte Suprema emise la famosa sentenza Roe versus Wade - ovvero la signora Jane Roe contro il procuratore dello Stato del Texas Henry Wade. Quella sentenza elevò l’aborto a diritto costituzionale sottraendolo al potere decisionale dei singoli Stati. Martedì 3 maggio, però, il sito d’informazione Politico ha reso pubblico il parere del giudice Samuel Alito che, insieme agli altri giudici conservatori, avrebbe intenzione di far tornare la materia di competenza degli Stati. La Corte si pronuncerà in via definitiva il prossimo giugno, quando esaminerà le restrizioni all’aborto approvate in Mississippi, ma le premesse non fanno ben sperare. Se il parere dei giudici conservatori dovesse prevalere, l’aborto rimarrebbe legale in poco più della metà degli Stati americani ma diverrebbe illegale o fortemente limitato in 22 Stati del Sud e del Midwest - dove vive il 42 per cento delle donne in età fertile. Uno studio basato sulle chiusure delle cliniche per abortire in Texas prevede che, a seguito della cancellazione della sentenza del 1973, gli aborti legali negli Stati Uniti diminuirebbero subito del 14 per cento. Alcune aziende americane, come Yelp, Citigroup e Uber, si stanno già muovendo per coprire le spese mediche per le dipendenti che dovranno recarsi altrove per abortire. In Texas, per esempio, non si può abortire dopo la sesta settimana - quando molte donne non sanno neppure di essere incinte - ed è possibile denunciare chiunque aiuti una donna a farlo oltre il limite di tempo previsto (come ha scritto anche Andrea Bajani nel suo reportage per il Venerdì). Nello Stato dell’Oklahoma, invece, il congresso ha approvato una legge che permette l’aborto solo per gravi motivi di salute e punisce le donne con pene fino a centomila dollari e dieci anni di reclusione. La legge è stata approvata dopo che le cliniche dell’Oklahoma erano diventate meta di donne texane che non potevano più ricorrere all’interruzione di gravidanza nel loro Stato. Da tempo gli Stati repubblicani hanno approvato leggi antiabortiste, come se la sentenza del 1973 fosse già stata cancellata. D’altronde le nomine dei giudici supremi fatte dal presidente Trump - in ultimo quella di Amy Barrett che ha preso il posto di Ruth Bader Ginsburg, paladina dei diritti delle donne - facevano prevedere una svolta in questo senso. Gli Stati democratici, invece, si stanno muovendo nella direzione opposta, quella di salvaguardare il diritto all’aborto. Il Connecticut, la California e il Colorado, per esempio, hanno deciso di incrementare il personale medico che può praticare l’aborto per accogliere donne da altri Stati. Di conseguenza, i conservatori del Missouri propongono di criminalizzare il ricorso all’interruzione di gravidanza anche fuori dal proprio Stato di residenza. Ovviamente tutto questo non fa che esacerbare le divisioni politiche all’interno del Paese, dove le due coste hanno legislazioni opposte rispetto agli Stati interni e a quelli del Sud. A farne le spese saranno soprattutto le donne più povere che non potranno permettersi di recarsi in altri Stati e ricorreranno ad aborti clandestini. Tra queste, la legge penalizzerà in particolare le donne delle minoranze - afroamericane e ispaniche - le immigrate illegali e le minorenni con pochi mezzi economici. Negli Stati Uniti, prima della legalizzazione dell’aborto, migliaia di donne finivano in ospedale ogni anno perché facevano ricorso a metodi abortivi pericolosi - dalle stampelle di ferro ai medicinali illegali. Oggi esistono pillole abortive che consentono di interrompere la gravidanza entro la decima settimana. Sfortunatamente, molti Stati hanno limitato anche l’uso di queste pillole (in Texas, per esempio, non si possono usare dopo la settima settimana) costringendo molte donne a ordinarle dall’estero - in Messico sono vendute senza prescrizione come pillole per l’ulcera. Nelle donne l’impossibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza produce effetti devastanti a livello psicologico ed economico, effetti che durano anni. Vivo a New York dove il diritto di abortire non è in pericolo, ma mi chiedo cosa accadrà alle donne e alle ragazzine residenti in altri Stati che non potranno più avere il diritto di scegliere. Proprio come accadeva cinquanta anni fa, saranno lasciate sole.