Il garante Mauro Palma: non guardate mai al carcere con occhi assuefatti di Luca Liverani Avvenire, 4 maggio 2022 Avere “occhi assuefatti” alle violazioni dei diritti in carcere è un rischio da scongiurare. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, richiama alla vigilanza tutti i soggetti esterni che entrano negli istituti penitenziari: volontari, insegnanti, cappellani, perfino gli operatori del suo Ufficio del Garante. L’esortazione arriva al IV Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale penitenziaria. Una tre giorni che ha visto la seconda giornata - presenti 300 tra sacerdoti, diaconi, suore e volontari - conclusa dalla messa a Santa Maria degli Angeli di monsignor Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi, Nocera Umbra, Gualdo Tadino. Spesso negli istituti penali, spiega Palma, “esistono sezioni dove più o meno si svolgono attività. Poi ci sono anche sezioni “discarica”. Io vado a visitare queste. Purtroppo in carcere ci sono troppi occhi assuefatti, a volte anche del volontariato”. Ecco perché, avverte il Garante, “serve lo sguardo esterno, non assuefatto, che controlla. Il Garante nazionale vuole proprio essere l’osservatore che non deve abituarsi mai”. Poi lancia una provocazione: “So che non è possibile, ma i cappellani dovrebbero ruotare tra un carcere e l’altro”, per non rischiare “un’assuefazione alla “banalità del male”“. Poi confessa: “Anche nel mio ufficio del Garante devo fare il rompiscatole, perché si finisce per ritenere normale, ad esempio, che un migrante rimpatriato forzatamente resti ammanettato per tutto il volo”. Mauro Palma racconta anche di avere trovato in un istituto “un record: quello delle Messe celebrate in 9 minuti. Così, mi hanno spiegato, se ne fanno molte. Capisco i problemi, capisco il 41bis. Però allora bisogna far venire fuori la contraddizione, non inserircisi e normalizzarla”. In Italia per fortuna “ci sono tanti occhi che entrano nel carcere: volontariato, cappellani, insegnanti. Ma non devono essere assuefatti”. Come gli occhi “di quel sanitario a Santa Maria Capua Vetere che, dopo le violenze, col piede controllava se il detenuto a terra fosse cosciente”. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani, raccoglie la sollecitazione, ma sottolinea la diversità dei ruoli, e gli ostacoli: “Certo, non dobbiamo assuefarci. Noi però, a differenza del Garante, non siamo tutelati. Il Garante denuncia e va via. Noi restiamo, e abbiamo un ministero da portare avanti. Quando denunciamo, rischiamo di essere messi da parte”. Don Grimaldi racconta di istituti dove la direzione, come ritorsione contro cappellani “scomodi”, non convocava più i detenuti per le celebrazioni o i colloqui col sacerdote: “E alla fine, chi ci va di mezzo sarebbero i detenuti”. In Italia però c’è il Concordato, replica da giurista Palma, e la pastorale in carcere “è tutelata dagli accordi: i cappellani non devono sentirsi ospiti”. Anche il vescovo Sorrentino ribadisce che “il carcerato è prima di tutto una persona. Quale sia il motivo che lo ha portato in prigione - dice - rimane un fratello da amare. I cappellani devono portare una parola di bene e aprire chi è privato della libertà alla speranza, affinché il loro cammino di redenzione possa attuarsi pienamente”. Mai più bimbi in cella: via libera al testo. La legge approda in Aula di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2022 La proposta di legge che impedirà ai bambini figli di madri detenute di andare in carcere arriverà in aula a maggio. La legge che terrà i bambini fuori dal carcere è finalmente pronta per essere votata nell’aula del Parlamento. La commissione Giustizia della Camera ha finalmente dato il via libera alla proposta di legge a firma del deputato del Partito democratico Paolo Siani, che ha raccolto gli appelli, le indicazioni, le richieste di tante associazioni, pediatri e pedagogisti. Da tre anni la proposta che punta ad azzerare la presenza dei bambini dietro le sbarre era rimasta arenata in commissione. Due mesi fa Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva e A Roma insieme Leda Colombini, che da tempo tengono viva l’attenzione pubblica e delle istituzioni affinché si approvino misure efficaci che consentano di mettere fine in via definitiva al fenomeno dell’incarcerazione dell’infanzia, hanno lanciato l’appello alla ministra della Giustizia Marta Cartabia proprio a tal proposito. Hanno chiesto soprattutto di lavorare alla costruzione di risposte di sistema perché il numero dei bimbi - nonostante la diminuzione rispetto agli anni precedenti - può tornare a crescere. Ok della Commissione giustizia, la legge approda in aula - Ora toccherà al Parlamento approvare definitivamente la legge. Ricordiamo che il dem Paolo Siani, pediatra e capogruppo in commissione Infanzia, è stato sia il primo firmatario di un emendamento alla Legge di Bilancio per la creazione di un Fondo per l’accoglienza delle madri detenute con i propri figli, al di fuori delle strutture carcerarie, sia della proposta di legge finalmente sbloccata. Quest’ultima è volta al superamento dei profili problematici della legge 62/2011, la norma che dieci anni fa ha istituito gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) per impedire che bambini varchino la soglia del carcere. Tale legge, eviterebbe che per le madri si aprano le porte del carcere ma individuerebbe nelle case famiglia protette la soluzione ordinaria. Solo dove sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza il giudice potrà disporre la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Quindi solo come extrema ratio. La legge Siani - La legge Siani, a proposito delle case famiglia, aggiunge il comma 1 che incide sulla disciplina dell’individuazione delle case famiglia protette, sostituendo il comma 2 dell’articolo 4 dell’attuale legge con due nuovi commi volti a prevedere: l’obbligo (e non più la facoltà) per il ministro della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture idonee a essere utilizzate come case famiglia protette; rispetto al testo vigente viene meno altresì la clausola di invarianza finanziaria; l’obbligo per i comuni ove siano presenti case famiglie protette di adottare i necessari interventi per consentire il reinserimento sociale delle donne una volta espiata la pena detentiva, avvalendosi a tal fine dei propri servizi sociali. Importante questa aggiunta, perché fino a oggi, con l’attuale legge, solamente grazie agli sforzi dell’amministrazione locale e gli enti disposti a metterci i soldi, esistono solo due case famiglia: una a Roma e l’altra a Milano. Il problema è che lo Stato non le finanzia. Se la legge Siani dove essere finalmente approvata, il ministero della Giustizia è obbligato a stipulare convenzioni per la creazione di nuove strutture. Forse, questa volta, si arriverà a liberare i bimbi dalle sbarre. Antigone: la sezione di isolamento, luogo di abusi e violenze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2022 Dai fatti di Asti a quelli di San Gimignano e Viterbo: i reparti di isolamento sono il luogo prescelto per la violazione dei diritti umani, come spiega l’avvocata Simona Filippi nel nuovo rapporto dell’Associazione. In uno degli approfondimenti pubblicati nel diciottesimo rapporto di Antigone, l’avvocata Simona Filippi parte da un caso che nasce più di undici anni fa. Con sentenza del 4 novembre 2021, la Corte di Appello di Bari, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Foggia che aveva condannato Giuseppe Rotundo alla pena della reclusione per un anno e nove mesi, ha pronunciato l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato. I giudici hanno accolto la tesi difensiva secondo cui Rotundo è stato vittima di un’azione di violenza da parte di tre agenti di polizia penitenziaria cui lo stesso ha reagito “in quanto costretto dalla necessità di difendersi dall’aggressione e dalle violenze fisiche”. Si legge sempre nel rapporto di Antigone che era il 12 gennaio 2011 quando, così come ricostruito nei capi di imputazione, tre agenti di polizia penitenziaria abusavano dei mezzi di correzione in danno di Giuseppe Rotundo portandolo in una cella di isolamento del carcere di Lucera dove lo costringevano a spogliarsi e lo colpivano con calci e pugni in varie parti del corpo cagionandogli lesioni giudicate guaribili entro 40 giorni, colpendolo prima con un pugno alla nuca, poi in faccia e con calci e pugni su tutto il corpo infine facendolo cadere a terra in uno stato di incoscienza. Anche gli agenti di polizia penitenziaria denunciavano di essere stati loro vittime di un’azione di violenza da parte di Rotundo il quale avrebbe utilizzato violenza e minaccia per opporsi, inveendo contro un agente con parole offensive e minacciose quindi scagliandosi contro altri assistenti intervenuti per la definizione del procedimento disciplinare in particolare intimando parole ingiuriose e infine colpendo al volto con un pugno un agente e cercando di colpire con calci e pugni gli altri due. Sono così nati due diversi procedimenti poi riuniti davanti allo stesso giudice. “In contrasto con quanto ricostruito dal Tribunale - scrive l’avvocata Simona Filippi - ho sempre sostenuto la totale inconciliabilità tra le due versioni offerte da una parte dal detenuto e dall’altra dai poliziotti”. Sottolinea nel rapporto che il punto di partenza era condiviso dai protagonisti: la vicenda ha avuto inizio da un diverbio provocato da Rotundo mentre era in fila in attesa di effettuare la telefonata ai familiari. Da questo momento in poi i racconti prendono strade differenti: il detenuto sostiene di essere stato chiamato da uno degli agenti e di essere stato condotto in una cella della sezione di isolamento dove, dopo essere stato invitato a spogliarsi per la perquisizione necessaria per l’incontro con il Comandante, veniva invece brutalmente picchiato dagli agenti. Gli agenti sostengono invece che, dopo il diverbio avvenuto con Rotundo, gli stessi lo avevano condotto in una cella adibita ad ufficio per la contestazione disciplinare e, lì, una volta entrato, il detenuto si sarebbe scagliato contro gli agenti per poi scivolare a terra. Un copione che si ripete, ma questa volta il detenuto ha avuto ragione - “I fatti ricostruiti nel corso del processo si sono sviluppati secondo un copione oramai noto: l’utilizzo della sezione di isolamento quale luogo di commissione del delitto e il medico che non predispone il referto”, scrive l’avvocata Filippi su Antigone. Oramai sembrava che tutto finisse a discapito del detenuto, che risulterà in realtà poi la vera vittima. Ma Giuseppe Rotundo sapeva come muoversi. Fece in tempo a fare una denuncia grazie a una lettera che inserisce in una busta senza indicare il nome e che consegna ad un altro detenuto cui chiede di spedirla all’avvocato. Quest’ultimo, letta la missiva, decide di depositarla in Procura e così, a pochi giorni dai fatti, personale della Polizia giudiziaria si reca in carcere ad effettuare rilievi fotografici sul corpo del detenuto: “E’ necessario verificare e documentare con urgenza - e prima che il decorso del tempo le cancelli - eventuali lesioni e tracce delle riferite percosse sul corpo di Rotundo”. Le fotografie hanno quindi attestano tracce di ematoma ad entrambe le regioni periorbitali, di emorragia oculare destra, di emorragia oculare sinistra, di tumefazione regione frontale destra, ematoma avambraccio destro regione interna ed esterna e gomito, tumefazione dorso mano destra, graffi emitorace sinistro, ematomi sul ginocchio e gamba destra, ematoma caviglia, collo del piede e regione plantare dorsale piede destro. l giorno dopo i fatti, Rotundo incontra l’assistente sociale e la psicologa del carcere che sono poi venute a raccontare in Tribunale quanto avevano visto. Dopo più di un decennio dal fatto, l’anno scorso arriva la sentenza d’Appello che scagiona Rotundo perché il fatto non costituisce reato: si era difeso dagli abusi. L’avvocata Filippi: si parte da una mancata refertazione - Simona Filippi di Antigone, parte da questo caso per evidenziare un aspetto ricorrente nei casi di pestaggi in carcere: si fanno quasi sempre i conti con la mancata refertazione da parte del medico che non ha adempito a quanto stabilito dall’art. 334 c.p.p. secondo cui chi ha l’obbligo di referto deve farlo pervenire entro quarantotto ore o, se vi è pericolo, immediatamente, al pubblico ministero o a qualsiasi pubblico ufficiale. Così come, dall’esperienza maturata dall’ufficio del contenzioso di Antigone, si evince che quasi sempre la sezione di isolamento il luogo prescelto per la commissione di fatti di violenza a danno di un detenuto. Da Asti a San Gimignano, fino a Viterbo: i reati sempre in isolamento - Nel rapporto ricorda che questi casi si ritrovano a partire dai fatti del carcere Asti (era il dicembre 2004) quando il giudice così ricostruiva il luogo del delitto: “Si trattava di inserire il detenuto in un determinato reparto dell’istituto, che per il suo posizionamento nell’edificio e per le particolari cautele legate al suo regime consentiva di agire in violazione delle regole imposte senza che potessero essere frapposti impedimenti da altri detenuti o da personale ligio al proprio dovere istituzionale”. Tale reparto era, ovviamente, quello destinato all’ “isolamento”. Sino ai fatti che si sarebbero verificati presso il carcere di San Gimignano ad ottobre 2018 dove, nel capo di imputazione, viene evidenziato che la vittima “si trovava in regime di isolamento” disposto, tra l’altro, “illegittimamente” o, ancora, alla vicenda che, il 31 luglio 2018, ha portato alla morte del giovane Sharaf Hassan dopo che era stato detenuto presso una cella del reparto di isolamento della Casa circondariale di Viterbo. L’avvocata di Antigone, conclude ricordando che la scelta ricorrente di utilizzare questo luogo impone una riflessione sulla necessità di diffusione del sistema di video sorveglianza e sul rigoroso rispetto di quanto stabilito dall’art. 73 del Regolamento di esecuzione secondo cui la condizione di isolamento “deve essere oggetto di particolare attenzione”, “con adeguati controlli giornalieri nel luogo di isolamento da parte sia di un medico sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento”. Scarpinato stia tranquillo: sepolti-vivi erano, sepolti-vivi restano di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 maggio 2022 Ergastolo ostativo. Un anno fa la Corte costituzionale, invece di bocciare il 4bis, aveva scaricato sul Parlamento pieno di grillini forcaioli il compito di riformarlo. Una porcata. Infatti la Camera ha approvato una controriforma. Il fatidico 10 maggio è ormai alle porte, e non sarà una data fortunata per chi aspetta giustizia dal Parlamento e dalla Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. Una scadenza che forse è sepolta nel dimenticatoio delle forze politiche che devono ancora legiferare al Senato (dopo l’approvazione di una contro-riforma alla Camera), ma è ben presente nell’attenzione dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che ha già lanciato il suo allarme sul Fatto quotidiano. Attenzione, ha gridato, perché se collaboratori e “irriducibili” avranno lo stesso trattamento penitenziario, nessuno farà più il “pentito” e non sapremo la verità sulle stragi. Quale nuova verità dopo i processi, le sentenze e le condanne che ritenevamo definitive? Ma quella sui “mandanti”, ovvio, sulle menti raffinatissime degli uomini in giacca e cravatta che decisero, sulla testa dei boss mafiosi come Totò Riina, la stagione delle stragi. Fantasie? Intanto la bomba politica viene sganciata sulla scadenza di martedì della prossima settimana. È passato infatti un anno da quando la Consulta, con l’ordinanza numero 97 dell’11 maggio 2021, in luogo di sancire in modo perentorio e definitivo con una sentenza l’incostituzionalità del principio con cui l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario vincola al “pentitismo” la possibilità per i condannati a gravi reati di fruire dei benefici penitenziari, ributtò la palla al Parlamento. Fate voi una nuova legge, avevano detto i giudici della Corte Costituzionale. Una norma che non violi gli articoli 3 e 27 della “Legge delle leggi”. Un briciolo poi di ipocrisia nell’invitare deputati e senatori a interventi legislativi “che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Se parliamo di ipocrisia, è perché la Corte Costituzionale retta da Giuliano Amato ha già dato prova di una certa astuzia sulla questione dei referendum, cassando con motivazioni pretestuose proprio quelli sulla cannabis, l’eutanasia e la responsabilità civile dei magistrati, che appassionano la gran parte degli elettori e avrebbero potuto aiutare a garantire il quorum il prossimo 12 giugno. Anche sull’ergastolo ostativo c’erano tutte le premesse per una sentenza. Ma più che carenza di coraggio, è proprio mancata la volontà politica. O dobbiamo essere noi a ricordare le diverse decisioni della Cedu, fin dalla famosa “sentenza Viola” che tre anni fa aveva condannato l’Italia per il trattamento inumano riservato a un detenuto che non poteva collaborare con la giustizia essendosi sempre dichiarato innocente? E poi, successivamente, i diversi ricorsi dell’Italia sempre respinti in sede europea? E ancora, la stessa decisione della Corte Costituzionale sui permessi premio, che avrebbe potuto aprire le porte a una sentenza anche sulla liberazione condizionale? Scaricare sul Parlamento, su “questo” Parlamento, una decisione così delicata ma irrinunciabile per uno Stato di diritto, è stata una vera porcata. Si, caro Presidente Giuliano Amato, una porcata. E ci piacerebbe sapere se i giudici della Consulta erano tutti d’accordo su questa rinuncia a decidere direttamente. Perché sul fatto che le norme nate nel 1992 da un Parlamento sulla cui pelle ancora bruciavano gli assassinii di Falcone e Borsellino, siano incostituzionali non ci sono dubbi. Ed è già scandaloso il fatto che ci siano voluti trent’anni per sancirlo. Ma lo è anche il fatto che a maneggiare questioni di principio che hanno a che fare con la presunzione di innocenza e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, siano state destinate le mani di persone come i seguaci di Beppe Grillo che sognano solo di alzare più forche o dei pusillanimi del Pd che pur di continuare a stare al governo (pur non vincendo mai le elezioni) ingoierebbero qualunque cibo ripugnante o nocivo. Infatti il testo di legge approvato a grande maggioranza alla Camera un mese fa è esplicitamente una contro-riforma. E il peggio è che, se sarà confermata al Senato, finirà con l’avere anche il placet della Consulta. Perché comunque, sul piano formale, avrà superato il principio che legava alla sola collaborazione la possibilità per l’ergastolano “ostativo” di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge. Peccato però che il detenuto non “pentito” avrà sulle spalle uno zaino pieno di tali e tante zavorre a ostacolare la sua possibilità di accedere alla liberazione condizionale, da renderla impossibile. Così coloro che il dottor Scarpinato continua a definire “irriducibili”, ma che sono in gran parte invece detenuti che hanno preferito un percorso diverso ma magari più sincero, e anche riconosciuto da chi nel carcere e nei tribunali di sorveglianza ha seguito il loro cammino, rispetto a quello dei “pentiti”, finiranno per restare sepolti nella “pena di morte da vivi”, come loro chiamano l’ergastolo ostativo. Può star tranquillo il dottor Scarpinato, e insieme a lui Marco Travaglio e tutti i grillini di primo o secondo conio. Come quel capogruppo di “Alternativa” (filiazione del Movimento cinque stelle) che nell’aula di Montecitorio aveva accusato la Corte Costituzionale di aver fatto, con l’ordinanza di un anno fa, “un vero e proprio favore alle organizzazioni mafiose e terroristiche”. E aveva invitato il Parlamento a ripresentare la norma incostituzionale in segno di sfida. Questo tipo di personaggi siede sugli scranni di istituzioni che dovrebbero essere sacre. Ma succedono cose strane anche all’interno di altro tipo di istituzioni, come quella della magistratura. Così troviamo un ex magistrato come Roberto Scarpinato, che ha rivestito il ruolo prestigiosissimo di procuratore generale di Palermo, che ha rappresentato l’accusa nella disfatta del processo “Trattativa Stato-mafia”, a difendere il diritto alla liberazione condizionale di un assassino come Spatuzza. Perché è successa una cosa molto particolare. Premettiamo che la collaborazione del boss, arrivata nel 2008 solo dopo che lo stesso era già stato condannato all’ergastolo, ha contribuito non solo a fare arrestare i suoi complici nelle stragi, ma anche a salvare quei sette innocenti arrestati ingiustamente per l’uccisione di Borsellino dopo le accuse del pentito-fantoccio Enzo Scarantino. Nessuno quindi mette in discussione l’importanza della collaborazione del “pentito” Spatuzza, il quale è da tempo ai domiciliari in un luogo segreto. Succede però che anche lui aneli a una vera libertà e ha chiesto la liberazione condizionale. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha però stabilito che il percorso del detenuto verso un vero reinserimento nella società non è ancora completato. Non conosciamo le motivazioni del provvedimento, ma sarebbe interessante capire le ragioni che hanno indotto i giudici a respingere la richiesta del “pentito”. Che è comunque stato poi accontentato dalla cassazione, che ha bocciato la precedente decisione. Spatuzza sarà quindi presto libero, buon per lui. Ma ci preoccupa il fatto che l’ex pg Scarpinato, che mostra di avere particolarmente a cuore i diritti del “pentito” di mafia, abbia così poca fiducia nei giudici di sorveglianza, visto che sono gli unici a conoscere da vicino il detenuto, a verificarne ogni giorno i comportamenti, a saggiare l’autenticità del loro ravvedimento. Del fatto che un ex boss che collabora da 14 anni sia considerato ancora immaturo per essere libero dovrebbe preoccuparsi il dottor Scarpinato, piuttosto che, come invece fa, del timore che “pentiti” e “irriducibili” siano equiparati nel futuro di uomini liberi. E anche il Parlamento e la Corte Costituzionale dovrebbero un po’ vergognarsi del fatto che, quando il prossimo 10 maggio ingiustizia sarà fatta, proprio sulle spalle dei giudici di sorveglianza cadrà di nuovo il fatto di denunciare nuove contraddizioni e nuove incostituzionalità della norma. Così si ricomincerà da capo. E intanto rimarranno ancora sepolti quelli condannati alla morte da vivi. Mentre una brutta pagina sarà stata scritta una volta di più. Una seconda chance per i detenuti di Massimo Montebove huffingtonpost.it, 4 maggio 2022 L’obiettivo del progetto di Flavia Filippi è far conoscere a imprenditori, commercianti, ristoratori e piccoli artigiani, i vantaggi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia per chi assume detenuti. Sappiamo tutti che fra i principi costituzionali in materia penale assume particolare valore l’art. 27, il quale esplicitamente afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Del resto, con un pò di buon senso e un filo di ragionamento, anche a chi mette davanti le ragioni della sicurezza e della certezza della pena, rispetto alle esigenze e alle necessità dei detenuti, dovrebbe essere chiaro che una persona che sbaglia e alla quale si concede la possibilità di ricominciare, ha molte meno possibilità di tornare a commettere errori. Lo dimostra, tra l’altro, il tasso di recidiva che in Italia non è significativamente inferiore rispetto a quello del resto dei Paesi occidentali (circa il 68%) e che scende al 19% per chi è sottoposto a misure alternative alla carcerazione ed è seguito dai servizi sociali. Il vero problema è che cosa succede alla fine della pena e come impiegare nel mercato del lavoro queste persone, molte delle quali in possesso di titoli e professionalità. È nato così il progetto “Seconda chance”, lanciato dalla giornalista di La7 Flavia Filippi, che sta riscuotendo un successo inaspettato. Filippi, infatti, ha avviato da qualche tempo una collaborazione come volontaria col Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone, con l’obiettivo di far conoscere a imprenditori, commercianti, ristoratori, piccoli artigiani i vantaggi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia per chi assume detenuti. Grazie a un impegno personale appassionato e quasi senza limiti di tempo, Flavia Filippi ha raccolto moltissime adesioni e sono già tantissime le proposte di lavoro che si sono concretizzate: aiuto cuochi, braccianti, operai, camerieri, magazzinieri, manovali, centralinisti e molto altro, con progetti che spaziano non solo nel Lazio, in Abruzzo e in Molise, ma che arrivano anche dalla Campania, dalla Toscana, dall’Umbria e da altre regioni. Sono stati firmati pure accordi con l’Associazione italiana costruttori edili e con l’Unione artigiani italiani. Sono molte le interlocuzioni in corso anche nel settore pubblico. Una seconda chance reale, dunque. Perché troppo spesso quando si parla di rieducazione, reinserimento sociale e lavorativo dei condannati si rimane nel campo delle belle parole, delle pie intenzioni, dei convegni tra addetti e delle discussioni parlamentari. Invece in Italia abbiamo già tutto quel che serve: una Costituzione avanzata invidiata in tutto il mondo, una legge come la Smuraglia che offre opportunità importanti, tanti bravi imprenditori che guardano alla concretezza e non ai pregiudizi, persone straordinarie come Flavia Filippi che credono davvero in quello che fanno e lo fanno in maniera eccezionale. Teatro in carcere: l’intesa si rinnova per un altro triennio di Marco Belli gnewsonline.it, 4 maggio 2022 Erano 127, lo scorso anno, i laboratori teatrali attivi nelle carceri italiane. E in 75 istituti l’esperienza teatrale è stata affiancata da altre attività di supporto da parte degli operatori del trattamento che, in ben 124 casi, hanno segnalato positivi effetti sul ‘clima’ generale dell’istituto. Sono i significativi numeri di un monitoraggio effettuato nel corso del 2021 dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Che ben raccontano il valore trattamentale delle iniziative di natura artistico-espressiva e, in particolare, della pratica teatrale in favore della popolazione detenuta o in carico ai servizi minorili. Per questo, Ministero della Giustizia, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e Università degli studi di Roma Tre hanno deciso di rinnovare per altri tre anni la proficua collaborazione ormai pluriennale che ha lo scopo di valorizzare e promuovere sempre più le esperienze teatrali come importante pratica trattamentale. Il nuovo protocollo d’intesa è stato sottoscritto oggi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal Capo del Dap Carlo Renoldi, dal Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Gemma Tuccillo, nonché dal Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere Vito Minoia e dal Direttore del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre Roberto Morozzo Della Rocca, già firmatari della precedente intesa nel 2019. Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere nasce nel 2011 ad Urbania, con lo scopo di offrire uno spazio di confronto e di qualificazione del movimento teatrale sorto all’interno delle carceri italiane e di curare lo scambio di informazioni, incentivando la collaborazione con le istituzioni nazionali e regionali. Nel 2012 il Coordinamento si fa promotore della Rassegna nazionale “Destini Incrociati”, giunta all’ottava edizione, e dal 2014 promuove la Giornata nazionale del Teatro in Carcere, in concomitanza con il World Theatre Day sostenuto dall’Unesco. Il primo protocollo d’intesa venne firmato nel 2013 e successivamente rinnovato nel 2016. L’anno successivo è stato esteso ai Servizi Minorili della Giustizia, in area penale interna ed esterna. Nel 2019 l’ulteriore rinnovo per un altro triennio. Questa magistratura quale autorità ha per indire uno sciopero? di Astolfo Di Amato Il Riformista, 4 maggio 2022 Una categoria che non ha avuto l’orgoglio e la dignità di risolvere i gravissimi problemi che la riguardano appare assai poco credibile quando pretende di ergersi a difesa degli interessi della collettività. Dai dati sulle ingiuste detenzioni per arrivare al caso Palamara: davanti a tutto questo diventa difficile capire da dove l’Anm tragga la legittimazione, anche sul piano morale, a opporsi in questo modo alla riforma. L’Anm ha deliberato, a larghissima maggioranza, lo sciopero. Intende, così, contrastare una riforma, che attenterebbe all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, essendo mossa da una visione meramente aziendalistica ed efficientista della giustizia. Sulla inadeguatezza della riforma Cartabia e, in particolare, sulla inadeguatezza delle previsioni in essa contenute a ripristinare un corretto equilibrio tra i poteri dello Stato, si è già scritto molto su questo giornale. Così come si è scritto sulla illegittimità di uno sciopero contro gli altri poteri dello stato proclamato per difendere la propria preminenza. Vi è, peraltro, un aspetto ulteriore, che, in questa vicenda, merita di essere esaminato: quello della legittimazione della magistratura ad opporsi alla riforma alla luce di quelli che sono stati i risultati della sua attività. In altri termini, ha la magistratura associata l’autorevolezza morale per opporsi alle scelte del Parlamento? Si tratta di un bilancio, che deve necessariamente partire da una valutazione di quello che è accaduto negli ultimi trenta anni. È innegabile, difatti, che la vicenda di Mani Pulite ha costituito un momento di svolta negli equilibri istituzionali di questo Paese ed ha segnato l’acquisizione, da parte del potere giudiziario, di un ruolo preminente su quello di tutti gli altri poteri. Si tratta di un bilancio che può appunto muovere dai risultati di Mani Pulite. Il cui effetto è stato quello di seppellire la prima Repubblica nel rancore, annichilendo con furore giustizialista una intera classe dirigente, salvo quella del Pci, per avere in cambio: Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank (così Guido Rossi commentò nel 1999 la benedizione data dall’allora premier Massimo D’Alema alla scalata a Telecom, cui il gruppo guidato da Roberto Colaninno stava per dare corso), le inadeguatezze del berlusconismo, il celodurismo di Bossi, il Papeete di Salvini, i vaffa del grillismo. Emblematica è la valutazione espressa da Saverio Borrelli, che, come procuratore capo di Milano, guidò quella rivoluzione. Quando era già da tempo in pensione, intervenendo dalla platea durante la presentazione di un libro, chiese “scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Era il 2011. Se si lascia, poi, l’orizzonte generale degli assetti istituzionali e politici del paese e si passa a considerare in modo più diretto il bilancio specifico del settore della giustizia, i risultati sono ancora più fallimentari. Sotto tutti gli aspetti. Da anni Confindustria denuncia che l’inefficienza del sistema giudiziario si traduce in una perdita del prodotto interno lordo. Del resto che la giustizia italiana si contenda l’ultimo posto, in termini di efficienza, con Grecia e Malta è confermato dalle analisi delle istituzioni europee e, in particolare, dai dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej). Alla inefficienza si accompagna, tuttavia, una “incontrollata discrezionalità processuale” (così in modo assolutamente esplicito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso). La giustizia italiana, dunque, non solo è lenta, ma anche imprevedibile. In questo senso, del resto, va anche interpretato il numero altissimo di ingiuste detenzioni e di assoluzioni in secondo grado o in cassazione, che si deve registrare nell’ambito della giustizia penale. Dai dati raccolti dal deputato di Azione Enrico Costa, grazie anche al lavoro dell’associazione errori giudiziari, emerge un quadro drammatico relativo all’ingiusta detenzione: circa 46 milioni di euro pagati nel 2020, circa 30.000 innocenti finiti in carcere negli ultimi 30 anni, con oltre 800 milioni di euro pagati dallo Stato italiano. Sono dati semplicemente drammatici, i quali dànno conto di una giustizia che spesso, per i singoli, si traduce in una ingiustificata devastazione della vita familiare, professionale, affettiva. Si aggiunga che sono dati errati per difetto, in quanto non danno conto dell’altissimo numero di richieste di risarcimento respinte con argomenti spesso speciosi (ad esempio essersi avvalsi, nella fase iniziale e cioè quando i contorni dell’accusa sono ancora non compiutamente definiti, della facoltà di non rispondere). Del resto, un altro segnale del pessimo funzionamento della giustizia è offerto dall’altissima percentuale di detenuti in attesa di giudizio, esistente nelle carceri italiane: nel febbraio 2020, secondo le statistiche del Ministero di Grazia e Giustizia, erano circa ventimila su di un totale di sessantamila reclusi e, perciò, circa un terzo. Il tutto in barba al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Del resto, sono numeri espressivi di un andamento, che trova conferma nel diciottesimo rapporto di Antigone: gli ergastolani sono passati da 408 nel 1992 a 1810 oggi, nonostante il costante calo dei reati, calo che rispetto agli omicidi è stato addirittura dell’80%. A questo quadro, già di per sé desolante, si aggiungono, poi, episodi che sembrano offrire uno spaccato “dal di dentro”, di quali siano i criteri con cui viene amministrata la giustizia. Essi sono tanto più significativi in quanto vengono dagli uffici giudiziari, che, per varie ragioni, hanno assunto un ruolo emblematico. Se fosse vero quanto scritto dal Tribunale di Milano, la Procura della Repubblica presso il capoluogo lombardo avrebbe tenuto per sé prove rilevantissime a favore degli imputati nel processo a carico dei manager Eni in un processo per pretesi fatti di corruzione commessi in Nigeria. Ancora, sempre con riferimento alla procura di Milano, il principio della obbligatorietà dell’azione penale sarebbe oggetto di una interpretazione quanto meno discutibile se fosse vero l’insabbiamento denunciato dal sostituto Storari in ordine ai verbali di Amara circa la cd. Loggia Ungheria. A sua volta, a Palermo, lo scandalo Sagunto ha dato conto del modo totalmente illecito con cui venivano gestiti i patrimoni sequestrati per ragioni di mafia. Scandalo a cui fa da contrappunto, sottolineandone la assoluta gravità, l’assenza di adeguate garanzie con cui quei sequestri avvengono in virtù di quanto previsto dalla legislazione di prevenzione. Sempre in Sicilia, poi, va registrata la vicenda gravissima del pentito Scarantino, costretto, sembra, da una violenza di Stato a false chiamate in correità rispetto al tragico omicidio di Paolo Borsellino, totalmente e palesemente infondate. La gravità di questa vicenda è pari solo al silenzio assordante, che su di essa mantengono i professionisti dell’antimafia e molti di quegli inquirenti che dell’antimafia hanno fatto la loro ragione di vita. Si tratta di vicende, tutte, che per la loro rilevanza, per il numero di persone coinvolte, per il livello di omertà che è stato spesso necessario scardinare, non possono essere seriamente archiviate come espressione di singole devianze. Lo sconforto, che può venire dalla considerazione di tutti questi aspetti, è stato da ultimo aggravato dalla vicenda Palamara. Non solo e non tanto per la vicenda in sé, ma ancora di più per come è stata trattata. È emersa l’esistenza di un vero e proprio sistema, capace di inquinare istituzioni ed amministrazione della giustizia. La reazione quale è stata? Chiudere, sopire, dimenticare, tacere. Il Csm e la Anm hanno cacciato Palamara in un battibaleno, impedendo lo svolgimento di qualsiasi attività istruttoria idonea ad individuare ampiezza e profondità del fenomeno. La grande stampa, dal canto suo, ha sostanzialmente ignorato l’argomento. Ebbene, di fronte a tutto questo diventa davvero difficile capire da dove l’Anm tragga la propria legittimazione, già sul piano morale, a proclamare uno sciopero contro una riforma, che danneggerebbe i cittadini. Una magistratura che non ha avuto l’orgoglio e la dignità di risolvere i gravissimi problemi che le vicende descritte sottendono, pur avendone il potere, appare davvero assai poco credibile quando pretende di ergersi a difensore degli interessi della collettività. Né può invocare, per legittimarsi, il sangue versato dai magistrati caduti per mano dei terroristi o dei mafiosi: quei magistrati erano espressione di un modo totalmente diverso di intendere la funzione giudiziaria. “Lo sciopero delle toghe è ingiusto: la riforma del Csm non cambierà” di Errico Novi Il Dubbio, 4 maggio 2022 Intervista al sottosegretario Sisto. “Sopra le righe la protesta Anm, irrazionale riaprire il ddl ora”. “Ingiusto e anche rischioso”: Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, rappresentante del governo nei lavori parlamentari sulla riforma del Csm, non ricorre a espressioni vaghe, per commentare lo sciopero dell’Anm. Né è sfuggente quando gli chiediamo se considera davvero praticabile una riapertura del ddl - da oggi all’esame del Senato - con l’accoglimento di alcune fra le richieste dei magistrati: “L’ipotesi mi pare a sua volta rischiosa: se si riapre la discussione non sai cosa può accadere. E ripartire da capo sarebbe anche irrazionale”. È così, osserva Sisto, “dopo che sulla riforma si sono impegnate energie, pazienza e mediazioni che raramente si sono viste, con tanta, tanta maturità dei gruppi parlamentari”. Quindi non c’è margine perché, come chiede l’Anm, il testo cambi a Palazzo Madama? Pensiamo davvero un attimo a come siamo arrivati fin qui. Si è partiti da un testo base sul quale la commissione Luciani ha prodotto rielaborazioni non solipsistiche, perché già in quella fase ci sono stati confronti e audizioni, anche con l’Anm. Nel frattempo i gruppi parlamentari hanno depositato i loro emendamenti, quindi attraverso confronti continui, con le stesse forze politiche innanzitutto, si è arrivati al maxiemendamento del governo, trattenuto per diverse settimane a Palazzo Chigi e quindi passato in Consiglio dei ministri. E non è finita lì, perché ci sono stati i subemendamenti dei gruppi in commissione, e sempre in una costruzione realizzata con approfondimenti su ciascuno dei ‘ temi caldi’, e con sei- sette occasioni di dialogo fra ministero e magistratura. Aggiungo da ultimo che il voto alla Camera è stato preceduto da incontri a cui hanno partecipato anche rappresentanti dei partiti al Senato, per rafforzare e rendere ancora più solida la condivisione. Dopo tutto questo sarebbe irrazionale, insomma, mettere il risultato in discussione... Irrazionale e rischioso. Vorrei ricordare che il risultato di cui parliamo consiste in una fortissima mediazione: tutti hanno già fatto un passo indietro, per farne, insieme, due in avanti. Esempi? Il M5S ha mediato su battaglie come i fuori ruolo, FI sul sorteggio temperato, il Pd è uscito soddisfatto da un’altra rinuncia altrui, relativa al sorteggio dei collegi. C’è stata, direi, una sorta di sofferenza comune, condivisa, che ha portato al testo approvato alla Camera. Il tutto attraverso un ascolto degli stakeholder, Anm inclusa, che pure ha accolto con sollievo, da ultimo, la rinuncia al sorteggio dei collegi. Ora, non ci si può dolere se, dopo avere ascoltato, il Parlamento decide. Fa parte di un codice chiamato democrazia parlamentare. Credo non ci sia bisogno di citare Montesquieu, per affermare che le leggi, anche quelle relative alla magistratura, competono al potere legislativo. Ed ecco perché se un sindacato dei magistrati, che per l’artico-lo101 della Costituzione sono soggetti soltanto alla legge, incrocia le braccia contro una riforma, va un po’ sopra le righe... costituzionali. Scelta legittima ma, diciamo, poco elegante sul piano istituzionale. Non parliamo di un sindacato qualsiasi: lo sciopero proclamato dall’Anm non è un beau geste. E lei dice che è pure rischioso: perché? È rischioso, intanto, riaprire il provvedimento, non solo perché non sai cosa può succedere, ma anche perché, a causa dell’allungamento dei tempi parlamentari, il nuovo Csm sarebbe vergognosamente eletto con le vecchie regole. E sarebbe pure pericoloso lasciare un margine troppo ristretto per la definizione dei decreti legislativi: ci sono norme importanti immediatamente precettive, in questa riforma, ma anche una cospicua parte di delega. Infine, lo sciopero potrebbe produrre una sorta di eterogenesi dei fini: di fronte a un’astensione ‘ in corso d’opera’ della magistratura, la politica potrebbe rafforzarsi nella convinzione di dovere decidere in piena autonomia e rapidamente. Un simile effetto andava valutato, a mio avviso, con maggiore attenzione. Crede che l’Anm abbia reagito così anche per non sembrare rassegnata dopo il caso Palamara? Il movente, come nel diritto penale, non è quasi mai decisivo. Il tema, sinceramente, non mi appassiona. Il fascicolo di valutazione è la norma più contestata dall’Anm: ma ci sono i mezzi per realizzare una banca dati così complessa? Prima di tutto, non capisco il timore di fronte a uno strumento che implica solo macro valutazioni e un rilievo su eventuali macro anomalie. Riguardo alla gestione dei dati, la loro complessità dovrà richiedere probabilmente una fase di adattamento. L’attuazione concreta andrà certamente approfondita, innanzitutto con il contributo della Dgsia, la direzione ministeriale preposta ai sistemi informativi. È giusto che le correnti continuino a esistere? Vanno distinti due principi. In base al primo, esiste un diritto costituzionale ad associarsi, a condividere un pensiero comune e tradurlo in esperienza comune. Ma va evitato che l’associazionismo tracimi in un vero e proprio potere interno alla magistratura. Le correnti devono essere pensiero e non cordate. Limitare il peso delle correnti sulle elezioni dei togati al Csm sarebbe stato possibile, forse, solo con la rinuncia alle quote di genere e a quelle per i pm. O no? Guardi, il discrimine era uno solo: ricorrere o meno al sorteggio. Una volta che lo si è escluso, e che si escluso anche il sorteggio dei collegi, ci si è potuti limitare al quel minimo di imprevedibilità creato dal recupero proporzionale. Il passo avanti c’è, ma non è la legge elettorale a fare la differenza, casomai tutto quanto si è costruito attorno. In generale, credo si debba comunque riconoscere al governo di aver avuto coraggio sulla giustizia. In pochi mesi sono arrivate le riforme del penale, del civile, della crisi d’impresa, ora tocca alla giustizia tributaria. E la presunzione d’innocenza? Se ne avessimo parlato al bar un anno e mezzo fa, ci avrebbero presi per visionari. Il governo si è mosso con lo sguardo all’insegnamento di Calamandrei: la Costituzione è come un foglio caduto per terra, vi sono scritti i principi ma se non lo raccogli restano lì. Ci si è sforzati di far rivivere i principi costituzionali in ogni provvedimento. Ma l’Anm la vede assai diversamente: come se lo spiega? Anche con la terza legge di Newton, in fondo: se cerchi di modificare un corpo, questo risponde con una reazione uguale e contraria. Mi dispiace che la reazione sia consistita nella proclamazione di uno sciopero. Peraltro, mi pare che alcuni casi attestino una condivisione dell’astensione non proprio assoluta, nella magistratura. E non c’è da stupirsi: lo sciopero del Giudice, per ciò che rappresenta, è di per sé anomalo. C’è da temere per il fatto che a scrivere i decreti legislativi saranno uffici in cui i magistrati sono in maggioranza? Non credo si debba avere paura del buio a prescindere. Il sospetto è sempre un pessimo compagno di strada. Francamente non penso possano esserci condizionamenti. Intanto i principi di delega sono enunciati con chiarezza. E anche se la presenza dei magistrati al ministero è stata fra i temi caldi di quel confronto evocato all’inizio, non bisogna drammatizzare: magari si può ridurli, come previsto nella legge delega, privilegiando le migliori professionalità. Procura Nazionale Antimafia: un incastro di correnti decide la sfida tra Melillo e Gratteri di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 4 maggio 2022 Oggi il Csm vota per la sua ultima nomina più importante prima dello scioglimento a luglio. Il Consiglio spaccato in due tra i procuratori di Napoli e di Catanzaro. Unicost ago della bilancia. Al Senato domani riunione con la ministra Cartabia sulla riforma del Csm. All’ultimo voto. E anche all’ultimo ballottaggio. Sarà una conta all’insegna della suspense tra i procuratori di Napoli Giovanni Melillo e di Catanzaro Nicola Gratteri per conquistare la poltrona che conta di più in Italia nelle indagini antimafia e antiterrorismo. Quella della procura nazionale di via Giulia lasciata a febbraio da Federico Cafiero De Raho. E mentre infuria lo scontro tra la politica e le toghe sulla futura legge per il Csm, che la stessa politica di destra e di sinistra pretende in chiave anti-correnti, stavolta saranno ancora le storiche correnti a decidere chi andrà a dirigere l’ufficio voluto, ormai 31 anni fa, da Giovanni Falcone. Che lo inventò, lo immaginò operativo, ne studiò i dettagli legislativi, ma fu bocciato dal Csm per dirigerlo che gli preferì Agostino Cordova. Stando alle “voci” che corrono in via Arenula potrebbe spuntarla Gianni Melillo. Ma proprio una corrente - la centrista Unità per la Costituzione, detta Unicost - è destinata a far prevalere l’uno o l’altro dei due principali contendenti. Non sembra avere chance Giovanni Russo, attuale procuratore aggiunto (e reggente) della Direzione nazionale antimafia, che pure nella commissione per gli Incarichi direttivi - la famosa “quinta”, la più potente del Csm - ha ottenuto 2 voti, quello del presidente di Magistratura indipendente Antonio D’Amato (anche lui toga napoletana) e quello del laico di Forza Italia Alessio Lanzi. Un voto “obbligato” quest’ultimo, visto che Paolo Russo, fratello del magistrato Giovanni, è deputato di Forza Italia dal lontano 1996. E proprio Fi ha scelto l’avvocato milanese Lanzi come componente laico del Csm. Ma in commissione, il 13 aprile, si è appalesata subito l’incertezza di Unicost, tant’è che Michele Ciambellini, anche lui napoletano, ha preferito astenersi. A palazzo dei Marescialli, in queste ore, l’interrogativo è proprio cosa faranno i tre consiglieri di Unicost, Ciambellini, Concetta Grillo e Carmelo Celentano (anche quest’ultimo di Napoli). Che oggi hanno deciso di uscire dai radar, inutile chiamarli, non rispondono. Potrebbero votare subito per Melillo, che così conquisterebbe i 5 voti della sinistra di Area, che è poi la sua corrente, quelli dei due professori indicati da M5S Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, e quello del laico di Forza Italia Michele Cerabona, noto avvocato napoletano. Con 11 voti, ai quali si potrebbero aggiungere quelli dei due capi di Corte Pietro Curzio e Giovanni Salvi, Melillo passerebbe ampiamente al primo colpo. Senza strappi. Ma potrebbe anche non andare così. E se Unicost non dovesse votare subito per lui il ballottaggio con Nicola Gratteri sarebbe inevitabile. Ma chi vota per il procuratore di Catanzaro che non ha mancato, negli ultimi mesi, di manifestare il suo aperto e pieno dissenso rispetto alla riforma Cartabia del Csm? Sicuri i 4 voti di Autonomia e indipendenza, questa volta compatta, perché a favore di Gratteri non sono soltanto i due magistrati antimafia Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita - anche loro nettamente anti riforma Cartabia come hanno dichiarato in numerose interviste - ma anche gli altri due togati, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. Per Gratteri anche i due laici indicati dalla Lega Stefano Cavanna ed Emanuele Basile, nonché Fulvio Gigliotti, giurista e calabrese di Catanzaro. Siamo a 7 voti. Non avrebbe chance di arrivare al ballottaggio Giovanni Russo, se votano per lui solo i quattro togati di Magistratura indipendente, e l’avvocato Lanzi. Ma la sorpresa potrebbe arrivare da Unicost, qualora - proprio per via della duplice presenza napoletana (Celentano e Ciambellini) - dovesse decidere di votare per Russo portandolo in zona ballottaggio. Un vero guazzabuglio correntizio, ma in questo caso anche di rapporti personali legati all’origine e al lavoro svolto a Napoli. I bookmakers danno per favorito Melillo, che ha già lavorato a lungo alla procura nazionale, dopo la lunga esperienza a Napoli come pm, come procuratore aggiunto e poi ancora da procuratore. Una parentesi al Quirinale e ancora quella come capo di gabinetto di Andrea Orlando alla Giustizia. E addirittura ministro della Giustizia avrebbe potuto diventare Gratteri se l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel 2014, avesse accettato la richiesta dell’allora premier incaricato Matteo Renzi. Ma dal Quirinale arrivò un niet. Inutile dire che questo voto è fortemente influenzato anche dalla campagna elettorale in corso per i 20 togati del prossimo Csm. Il Senato dirà, proprio in queste ore, se la legge Cartabia è destinata a passare indenne rispetto al voto della Camera, oppure se prevarrà la voglia di cambiare della Lega, in chiave filo referendum, e dello stesso Renzi. Per capirlo quella di oggi potrebbe essere una giornata rilevante, con l’incontro che di pomeriggio avranno la ministra Cartabia, il collega ai Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, e i capigruppo d’aula. Un fatto è certo, Pd e M5S insistono per non cambiare neppure una riga del testo. Lega, Fi e Iv la pensando all’opposto. E puntano anche sul fatto che il relatore della riforma in commissione Giustizia sarà il leghista Andrea Ostellari. Come ha detto più volte nelle ultime settimane la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno “i nostri senatori scalpitano per mettere mano alla riforma”. Questo significa cambiarla e rimandarla alla Camera. Ma di conseguenza anche rinviare di qualche mese l’elezione del prossimo Csm. I pm e l’obbligo dell’azione penale, un nodo da sciogliere di Bruno Ferraro* Libero, 4 maggio 2022 Uno dei problemi più impellenti che attengono al funzionamento della giustizia penale nel nostro Paese è di come ridurre l’ingolfamento dei fascicoli presso le Procure della Repubblica e, contemporaneamente, impedire o limitare la discrezionalità di scelta da parte delle Procure medesime nel dare priorità a determinate indagini a discapito di altre. L’art. 112 della Costituzione stabilisce l’obbligo di esercizio dell’azione penale per il Pubblico Ministero in presenza di qualsiasi notizia di reato pervenuta: l’applicazione pura e semplice di tale principio porta inevitabilmente ad uno spropositato accumulo di fascicoli difficilmente gestibili da uffici con un limitato numero di magistrati. A tale problema si è ovviato negli anni ricorrendo alla discrezionale scelta dei fascicoli a cui esprimere un particolare impulso, con la conseguenza di trovarsi di fronte ad indagini la cui priorità era dovuta non all’oggettiva gravità dei reati denunziati bensì alla maggiore visibilità e/o notorietà di soggetti o delle situazioni indagate. Da ciò la necessità di introdurre correttivi per assicurare la trasparenza dei criteri volta a volta applicati, limitando la discrezionalità degli uffici presi in considerazione. Si era pensato in un primo momento di assegnare al Parlamento la definizione di “criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi”. Tale formula è stata abbandonata perché suscettibile di dare troppo potere alla politica. Pertanto la riforma messa in cantiere dalla ministra Cartabia attribuisce l’indicazione delle priorità ai titolari dell’azione penale secondo criteri che devono essere approvati dal Consiglio Superiore della Magistratura: “Criteri di priorità trasparente e predeterminato, tenendo conto del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili” (art. 11 del progetto varato dal Consiglio dei Ministri). Dico subito il mio personale parere, basato su una lunga esperienza maturata in magistratura e una diretta conoscenza delle modalità di funzionamento delle Procure. Non credo alla formula proposta dalla Cartabia perché introdurrebbe un meccanismo di controllo interamente interno alla magistratura e quindi, alla luce anche della rivelazione di Palamara, solo apparente e non verificabile. Propendo per il primo criterio in quanto per principio il Parlamento è composto da soggetti eletti dal popolo e politicamente responsabili. Poiché però non viviamo nel Paese dei sogni, il Parlamento dovrebbe essere affiancato da un Osservatorio composto da elementi esterni e dovrebbe pubblicare annualmente i risultati di controlli effettuati. Un notevole supporto per le Procure potrebbe essere dato dai nuovi assunti visto che il PNRR, finanziato con i fondi europei, prevede l’assunzione nei prossimi 5 anni di 21.910 persone, pari ai due terzi dell’attuale organico degli ausiliari di magistrati oggi in servizio. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Crimini nazisti, il tribunale condanna la Germania e il governo interviene di Nello Trocchia Il Domani, 4 maggio 2022 C’è una sentenza che mette in imbarazzo l’Italia e che condanna la Germania, ma soprattutto sancisce un principio regolatore nei conflitti bellici e nelle conseguenze che producono. Il pronunciamento della corte d’Appello di Roma, sezione civile, chiarisce che gli accordi tra gli stati all’esito di una guerra, in questo caso il secondo conflitto mondiale, non cancellano il diritto individuale al risarcimento per i torti subiti. Così è partito un ordine di esecuzione per pignorare i beni tedeschi sul suolo italiano, provvedimento esecutivo che ha spinto il governo italiano ad approvare un articolo in un decreto per evitare la reazione tedesca che potrebbe denunciare, in sede internazionale, il tradimento italiano dell’accordo risalente agli anni sessanta. I beni tedeschi pignorati - Tutto inizia a Ferrara dove Diego Cavallina, difeso dall’avvocato Fabio Anselmo, chiede il risarcimento per i danni subiti dal padre Gualberto, combattente partigiano catturato e deportato in Germania nel 1944 dapprima nel campo di concentramento di Dachau e in seguito in quello di Natzweiler/Comando di Leonberg. Angherie, violenze, lavori forzati furono il trattamento disumano subito nei campi. E non solo. Il gruppo di lavoratori italiani sabotò la produzione e fu scoperto dai nazisti che lo eliminò. Il signor Gualberto si salvò perché era in infermiera. Al rientro in Italia, finita la guerra, non si è mai più ripreso da quel doloroso e profondo trauma. La causa viene mossa dal figlio, alla morte del padre, contro la Germania che decide di non costituirsi in giudizio. La famiglia Cavallina si ritrova in tribunale il ministero degli Esteri italiano che si oppone alla richiesta risarcitoria. La corte d’Appello civile di Roma, nel 2020, condanna la Germania al pagamento di 100 mila euro e al versamento delle spese legali, in solido con l’Italia. Divenuta definitiva la sentenza è scattata la procedura esecutiva, volta all’ottenimento della cifra come ristoro per i danni subiti, già avviata dagli eredi di un’altra vittima del regime nazista, Angelantonio Giorgio. Così sono stati pignorati diversi immobili di proprietà tedesca sul suolo italiano. La Germania ha fatto opposizione all’istanza di esecuzione, ma è stata respinta. La ragione del ricorso era fondata sulla natura pubblicistica/culturale/religiosa dei beni pignorati, accompagnata da una riverente relazione del nostro ministero degli Esteri, come l’istituto archeologico germanico, il Goethe institut, l’istituto storico tedesco, la scuola tedesca. Il governo salva la Germania - Contro i sigilli ai beni è intervenuto il governo italiano. L’esecutivo Draghi ha inserito, nel decreto sulle misure urgenti di attuazione del Pnrr (il piano di ripresa e resilienza), un articolo che sospende il pignoramento e istituisce un fondo per le vittime pari a 20 milioni di euro per il 2023 e 11 milioni per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026. Un articolo per neutralizzare il terremoto generato dalla causa di Diego Cavallina e dei suoi legali. “I pronunciamenti della giustizia italiana stravolgono tutto. La guerra per chi la fa non diventa più economicamente utile, ma svantaggiosa se sono costretti a pagare tutte le vittime. Chi fa la guerra deve capire che può anche accordarsi sulla ricostruzione, ma nessun patto o accordo potrà cancellare la possibilità dei singoli cittadini di rivalersi su chi la guerra l’ha scatenata e sulle sue orrende conseguenze”, dice l’avvocato Fabio Anselmo. Sardegna. Sempre più isolata e trasformata in una colonia penale di Maria Grazia Caligaris* Il Dubbio, 4 maggio 2022 Che le nomine del capo Dap siano da sempre ricadute solo su magistrati non è una “scoperta” di Enrico Sbriglia, Alessandro De Rossi e Il Dubbio. È una realtà che di recente anche Luigi Pagano, già Vice- Capo Dipartimento, ha sottolineato domandandosi, senza nascondersi dietro un dito, quale competenza specifica abbiano acquisito i magistrati per reggere un’amministrazione come quella penitenziaria. Non nego e anzi ho particolarmente apprezzato l’ultima nomina, quella di Carlo Renoldi, a Capo del Dipartimento perché è un magistrato che conosce il carcere. Lo ha frequentato, ha sentito sulla sua pelle la realtà della sofferenza di persone tossicodipendenti, con disturbi della personalità, con problemi psichici e con povertà sociali e culturali. Ha conosciuto direttori, agenti e funzionari giuridico- pedagogici, spesso in burnout per le cattive condizioni di lavoro. Ha sperimentato la realtà di Buoncammino, struttura penitenziaria ottocentesca nel cuore del capoluogo sardo. Ciò detto, in tutti questi anni, la mia esperienza sul tema detenzione e sistema risale al 2004, non ho visto un segnale di crescita in Sardegna. Non ho visto progettualità, a parte annunci di comodo. Non ho mai percepito una minima attenzione, lasciando tutto nelle mani di un Provveditore e di pochi direttori, ciascuno con una visione diversa dall’altro e senza mai un vero programma. Insomma ho osservato e verificato un costante peggioramento. L’isola è diventata sempre più una colonia, senza volto e senza voce, una discarica di dolorante umanità inserita in una servitù penitenziaria importante. Basti pensare che ha 3 Case di Reclusione all’aperto (Colonie Penali) per 6.050 ettari di territorio, in cui “lavorano” complessivamente 260 persone private della libertà (i posti disponibili sono circa 600). Nessuna di queste realtà, tutte in aree di pregio paesaggistico e ambientale, ha un direttore dedicato. In Sardegna infatti ci sono solo 3 direttori titolari su 10 Istituti, altri 2 sono in prestito (a scavalco). Non ci sono vice direttori. Non ci sono neppure comandanti titolari a Sassari e Nuoro. Gli agenti sono sottodimensionati (- 540 rispetto alla pianta organica), i funzionari giuridico- pedagogici 38 anziché 54, gli amministrativi sono scarsi. Forse non è noto che dopo tre interpelli, dal 13 gennaio 2022, la Sardegna non ha un Provveditore. Abbiamo 41 bis e AS a Sassari, idem a Nuoro, Tempio e Oristano sono solo AS. Complessivamente i detenuti di “peso” in Sardegna sono circa 700. Su appena 2.000 ristretti, sono sardi solo un migliaio. Per completare il quadro dell’efficienza di questo sistema, occorre ricordare che in Sardegna sono stati costruiti 4 nuovi Istituti penitenziari Cagliari- Uta, Sassari- Bancali, Oristano- Massama, Tempio Pausania-Nuchis. Come si evince dall’”appendice” sono stati edificati, spendendo centinaia di milioni di euro, lontano dal centro abitato, preferibilmente in lande desertiche prossime a impianti fotovoltaici e pale eoliche se non a discariche con scarsi collegamenti e senza indicazioni stradali. Uno scempio reso ancora più evidente dal fatto che spesso ci piove dentro, le celle sono state pensate per due persone ma ce ne sono spesso 3 o 4. Gli ergastolani non hanno una cella singola e le aree comuni sono ridicole. Per non parlare delle donne, impossibilitate a fare qualunque corso di formazione o di accedere all’art. 21. Le nostre carceri sono piene di persone disadattate, socialmente fragili, anziane, malate e senza alcuna prospettiva. L’espressione risocializzazione vale solo per chi ha alle spalle una famiglia, amicizie di rilievo e condizioni sociali di garanzia. Pochissimi insomma si salvano e lo fanno da sole. La chiusura degli Opg (operazione saggia e indiscutibile) senza un’alternativa valida, ha portato in carcere malati di mente o in doppia diagnosi senza che il Servizio Sanitario sia in grado di gestirli. Gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. *Socia fondatrice associazione culturale “Socialismo Diritti Riforme ODV” Campania. Carceri, protocolli d’intesa con le amministrazioni comunali di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 4 maggio 2022 Il Consiglio regionale della Campania ha approvato risoluzione sulla situazione carceraria. Dibattito in Regione sulla situazione carceraria in Campania, sulla base degli esiti della relazione annuale del Garante dei detenuti e delle persone costrette nelle misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, ed approvato all’unanimità una risoluzione per sollecitare l’apertura di una nuova Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure sicurezza) in Campania. Per contrastare il problema del sovraffollamento di alcuni istituti penitenziari e della permanenza dietro le sbarre di alcuni minori, che sono figli di mamme detenute, per mettere in campo servizi e modalità di affidamento della gestione dei casi di minori a rischio ad una rete di operatori all’esterno delle carceri, al fine di garantire la prosecuzione dei percorsi scolastici e formativi oltre che ad assicurare il mantenimento delle relazioni effettive significative e un costante sostegno che rafforzi l’autostima e stimoli il senso di responsabilità, per promuovere protocolli d’intesa con le Università per favorire corsi di laurea di alta formazione per i detenuti, per potenziare corsi di alfabetizzazione per i detenuti analfabeti ed extracomunitari, anche con attività di formazione linguistica per i cittadini stranieri, per garantire una quota dei fondi Fsn per il contrasto al disagio psichico degli istituti di pena; per porre per essere delle azioni e degli interventi utili a garantire un adeguato livello di servizi che consenta ai detenuti di curarsi all’interno degli istituti di pena anche per mezzo di prestazioni sanitarie strumentali, per promuovere protocolli d’intesa con le amministrazioni comunali per favorire percorsi di reinserimento attraverso attività socialmente utili; per impegnare le Asl in attesa degli indirizzi definitivi attesi dal Ministero della salute a prorogare i contratti con operatori sociosanitari assunti nel corso dell’emergenza pandemica la cui fattiva opera sta garantendo il buon andamento delle attività assistenziali negli stabilimenti carcerari campani; per riconoscere l’impegno costante della Polizia Penitenziaria che opera in condizioni di grande difficoltà e notevole stress per garantire il rispetto delle regole e contemporaneamente il diritto dei detenuti ad un trattamento umanitario; per sensibilizzare gli organi preposti per provvedere premialità ed incentivi in favore degli operatori della Polizia Penitenziaria; per potenziare all’interno delle strutture penitenziarie le iniziative a carattere sportivo ed in forma programmatica e non solo estemporanee, anche attivando organizzazioni scritte al Registro Regionale delle Associazioni Sportive; per incentivare e a supportare, con la collaborazione del Ministero competente, le attività svolte dal centro studi sulla violenza minorile; per compulsare il Governo per adeguare la presenza del numero delle strutture penitenziarie considerato il sovraffollamento segnalato nella relazione del Garante, anche rivedendo la decisione di chiudere alcune strutture insistenti sul territorio campano. Il dibattito sul tema è stato introdotto dalla presidente della commissione regionale politiche sociali, Bruna Fiola (Pd), che ha riassunto i contenuti della risoluzione e ha sottolineato: “anche i dati relativi all’anno 2021 confermano che la situazione in cui versano la maggior parte degli istituti penitenziari italiani, ed in prevalenza anche quelli campani, salvo poche eccezioni, rappresenta una vera e propria vergogna che confligge con i diritti fondamentali dell’individuo ed è in palese contrasto con il principio cardine del trattamento penitenziario ispirato ai principi di umanità, di dignità della persona, in attuazione della funzione rieducativa sancita nel comma 3, articolo 27 della Costituzione”. “Il quadro che si evince dal report non può e non deve essere lo specchio di una società civile degna di questo nome e, se è vero, com’è vero, che il tenore di civiltà di una società si evince dal grado di civiltà interna ai penitenziari stessi, beh, credo che noi dovremmo porci molteplici interrogativi rispetto al perché la nostra società non può essere definita tale” - ha evidenziato il capogruppo di De Luca Presidente, Carmine Mocerino. “La relazione puntuale a cui abbiamo avuto modo di partecipare l’altro giorno dalla parte del Garante delle Carceri disegna un quadro complesso della situazione della realtà carceraria campana, un quadro significativo nel quale è apprezzabile il lavoro che il Garante sta svolgendo” - ha aggiunto il consigliere della Lega, Severino Nappi. “Credo che uno dei passi in avanti debba essere quello d’immaginare che una società giusta dà dignità a chi sbaglia, ma pensa, innanzitutto, a coloro che sono stati vittime di comportamenti, mi riferisco in particolare a: camorristi, assassini, altre figure del genere, che fanno del male al prossimo, perché molto spesso ci ricordiamo i nomi dei camorristi, dei delinquenti, dei criminali e molto spesso ci dimentichiamo quelli delle vittime o degli eroi che, casomai sono morti per combatterli” - ha osservato il consigliere Francesco Emilio Borrelli (Europa Verde). La situazione sanitaria degli istituti penitenziari campani è allarmante: sovraffollamento, disagi a psicologici, la percezione di ostilità nei confronti del personale, le lunghe attese per le visite specialistiche, per i malati, classi burocratiche complesse, trasferimenti che impegnano risorse umane e mezzi, l’assenza di figure professionali con formazione specifica in un contesto in cui veniamo anche da una situazione in cui, durante la pandemia, devo prendere atto che la Regione Campania si è fatta portatrice di risoluzioni di problematiche che, chiaramente, arrivavano da una questione che nasce dal nazionale, forse dal fatto che mancavano le strutture e un’adeguata preparazione ad affrontare quel momento” - ha evidenziato il consigliere Luigi Cirillo (Ms). “Se pensiamo al tema legato alla popolazione dei detenuti che abbiamo visto, sempre dalla relazione, che oggi abbiamo una condizione decisamente difficile, complessa, anche qui, consentitemi di evidenziare alcune scelte sbagliate che sono state fatte dal Governo nazionale nel momento in cui abbiamo un problema in termini di occupazione delle carceri e poi ci vediamo chiudere un carcere, quello di Sala Consilina, unico chiuso nella Regione Campania” - ha sottolineato il capogruppo di Italia Viva, Tommaso Pellegrino. Toscana. Libri in carcere per arricchire le biblioteche dalsociale24.it, 4 maggio 2022 L’iniziativa, promossa dalla bibliotecaria dell’Università di Firenze Silvia Bruni, è stata realizzata in collaborazione con Volontariato Penitenziario e Scioglilibro. La pandemia aveva contribuito a far scendere il numero dei detenuti nelle carceri italiane. Ma a fine marzo di quest’anno il numero è cresciuto nuovamente, fino ad arrivare a 54.609 reclusi. Dati che, come riporta il diciottesimo Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, portano il sovraffollamento al 107 per cento. Il sovraffollamento è una delle condizioni che contribuisce a peggiorare la vita dei detenuti. Esistono però dei progetti che, in alcune carceri, provano a migliorare la vita dei detenuti. Come nel caso della campagna “Nel frattempo un libro”, nata per arricchire le collezioni delle biblioteche delle carceri toscane. I volumi sono stati acquistati presso un gruppo di librerie indipendenti di Firenze, Prato e Scandicci. L’iniziativa, promossa dalla bibliotecaria dell’Università degli Studi di Firenze Silvia Bruni, è stata realizzata in collaborazione con le associazioni Volontariato Penitenziario e Scioglilibro. Iniziative come questa evidenziano come la detenzione non sia una mera punizione, bensì un periodo di ricostruzione della vita delle persone recluse. Orvieto (Pg). Detenuti al lavoro per la comunità di Cristina Crisci La Nazione, 4 maggio 2022 Stipulata una convenzione tra Comune e Tribunale. Attività esterne al carcere per la “messa alla prova”. Detenuti potranno lasciare il penitenziario di via Roma per lavorare gratuitamente a favore della comunità orvietana. È quanto previsto dalla convezione stipulata da Comune e tribunale di Terni per attuare l’istituto della “messa alla prova”, disciplinato dal codice penale, che consente a chi sta scontando una pena detentiva di svolgere attività esterne al carcere in vista di un futuro reinserimento nella società, purché ricorrano le condizioni previste dalla legge. La “messa in prova” riguarderà per il momento due persone e sarà calibrata, di volta in volta, in base alle esigenze dell’ente comunale che ha predisposto un piano per far svolgere l’attività lavorativa nella sede principale del palazzo comunale, negli uffici decentrati di via Roma, nei cimiteri per gli interventi di manutenzione e pulizia, al centro servizi manutentivi di Bardano e nella biblioteca comunale. Giù nel passato, l’ente aveva fatto ricorso a questo istituto, collaborando proficuamente con l’istituto penitenziario cittadino e realizzando dei progetti di inserimento sociale che avevano fornito buoni risultati, tanto che alcune persone avevano successivamente trovato lavoro in città una volta scontato il periodo di detenzione. Adesso si è ritenuto di riprendere questa esperienza con lo stesso spirito. L’attività non retribuita in favore della collettività sarà svolta in conformità con quanto disposto nel programma di trattamento e dall’ordinanza di ammissione alla prova; il programma specificherà le mansioni alle quali saranno adibiti i detenuti, la durata, l’orario di svolgimento della prestazione di lavoro di pubblica utilità, nel rispetto delle esigenze di vita dei richiedenti, dei diritti fondamentali e della dignità della persona. La convenzione stipulata avrà una durata di cinque anni e potrà in seguito essere rinnovata. La gratuità delle prestazioni è espressamente indicata dalla legge che impedisce qualsiasi forma di retribuzione per le persone in questione sulle quali grava l’obbligo di far rientro ogni sera nella casa di reclusione dove trascorrere la notte. Airola (Bn). Carcere minorile, lavoro e dignità per costruire un nuovo futuro retesei.com, 4 maggio 2022 L’impegno della Fondazione Angelo Affinita con l’Istituto penale minorile di Airola per dare a questi giovani un nuovo futuro e una seconda possibilità. Se oggi volessimo dire chi sono gli ultimi fra gli ultimi, sicuramente dovremmo citare i giovani delle nostre carceri minorili e tra questi, i ragazzi che vivono anche in uno stato di povertà, di profondissimo disagio personale e sociale, che può sfociare nella disperazione più cupa. Negli ultimi 10 anni la Fondazione Angelo Affinita ha supportato questi giovani tramite corsi di formazione al lavoro, come il corso per pizzaioli realizzato con la supervisione e l’accompagnamento di importanti professionisti del settore come Marco Amoriello - pizzaiolo e 1° classificato al Campionato Mondiale della pizza per ben tre volte, oppure con l’ultimo corso di giardinaggio, in collaborazione con la Scuola La Tecnica di Benevento, in via di conclusione. La Fondazione Affinita crede fermamente che la formazione professionale vada sempre accompagnata da un percorso sul sapere essere oltre che sul saper fare, che deve necessariamente passare attraverso la costruzione di un legame umano, oltre che professionale, tra il team di professionisti coinvolti e gli allievi. Proprio questo approccio ha consentito di intercettare situazioni di disagio, anche economico, che si aggiunge alla condizione già critica dei giovani detenuti, per questo la possibilità di una “seconda chance” non può prescindere da una condizione umana dignitosa. Seguendo questo obiettivo, la Fondazione Affinita ha destinato risorse aggiuntive per fornire ai detenuti indigenti abbigliamento e un contributo per il pagamento delle telefonate a casa, per non interrompere quel legame fondamentale di affetto e vicinanza coi propri cari, fondamentale per chi vive in una condizione di detenzione. Come in più occasioni anche Papa Francesco ha ricordato, la dignità umana non può essere incarcerata: “la mancanza di libertà è una delle privazioni più grandi per l’essere umano, ma se a questa si aggiunge il degrado per le condizioni spesso prive di umanità in cui queste persone si trovano a vivere, allora è davvero il caso in cui un cristiano si sente provocato a fare di tutto per restituire loro dignità”. Roma. Storie di vita dal carcere per affermare la funzione rieducativa della pena leurispes.it, 4 maggio 2022 Lo scorso 28 aprile, presso la sala teatro della Casa Circondariale Femminile Rebibbia, è stato presentato il report dal titolo La funzione rieducativa della pena tra sicurezza e trattamento - storie di vita dal carcere, frutto della collaborazione tra il dipartimento della pubblica sicurezza e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il lavoro presentato offre uno spaccato del sistema penitenziario in grado di cogliere e raccontare i segnali indicativi delle mutazioni dei fenomeni criminali più evidenti nella realtà carceraria, avvalendosi delle testimonianze delle figure che operano all’interno dell’istituto penitenziario: il direttore, il comandante del reparto, l’ispettore di polizia penitenziaria, il funzionario della professionalità giuridico pedagogica e un gruppo di psicologhe. Il report lascia ampio spazio inoltre, alle esperienze di vita delle detenute e in particolare il contesto sociale di provenienza e i motivi che le hanno spinte a delinquere. Centrale, nel report, emerge inoltre il valore attribuito al profilo della rieducazione, prevista dalla Costituzione all’articolo 27, e intesa come possibilità per le detenute di impiegare il proprio tempo anche nell’apprendimento di un lavoro, in vista di un futuro reinserimento nella società. Hanno preso parte all’incontro, oltre al direttore della Casa Circondariale Germana Stefanini, il vice direttore generale della pubblica sicurezza Vittorio Rizzi, il vice capo di dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Roberto Tartaglia, il comandante del reparto Dario Pulsinelli e il direttore del Servizio analisi criminale della direzione centrale di polizia criminale Stefano Delfini. Il report realizzato dal Servizio Analisi Criminale è stato definito proprio da Stefano Delfini come un lavoro “frutto della collaborazione avviata tra il Dipartimento della PS, Direzione Centrale Polizia Criminale e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Il report, ha inoltre aggiunto Delfini, “offre uno spaccato del sistema detentivo, da sempre inestimabile fonte informativa, che consente di cogliere quei segnali indicativi delle mutazioni dei fenomeni criminali, più evidenti nella realtà carceraria, la cui individuazione costituisce il presupposto per fornire supporto al decisore e orientare l’azione delle Forze di Polizia. È fondamentale mettere a fattor comune competenze trasversali per affrontare le sfide del presente e del futuro”. “Desidero sottolineare la grande potenzialità rappresentata dalla costante e proficua collaborazione con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha consentito, tra l’altro, la realizzazione del report. La criminalità è un fenomeno complesso che per essere combattuto richiede studio, strategia e, soprattutto, prevenzione, cercando di anticiparne le iniziative”, ha commentato il prefetto Rizzi. Il lavoro, predisposto dal Servizio analisi criminale, è la seconda tappa di un percorso di analisi iniziato lo scorso giugno con la condivisione del report Donne e Criminalità, Analisi dei reati commessi dalle donne e della detenzione femminile negli Istituti Penitenziari. Vicenza. Don Maistrello: “Il mio carcere sul palco del San Marco” di Marta Randon vocedeiberici.it, 4 maggio 2022 Il cappellano della Casa circondariale di Vicenza racconta lo spettacolo “Io sono dentro”, in programma il 7 maggio, alle 20.30, diretto da Parmentier. La prigione come luogo di riscatto e speranza. Ha vissuto otto anni gomito a gomito con assassini, violenti, ladri, disperati, ex mafosi, presuntuosi, ingenui, corrotti, sfortunati, qualche innocente. Li ha ascoltati, abbracciati, motivati. Sempre con empatia. Insieme hanno sperato, lavorato, pure litigato, a volte pregato. Ragazzi di ogni etnia, colore, religione. È tutto su carta. La penna è del cappellano don Gigi Maistrello, fondatore negli anni 80 della cooperativa Elica, e il risultato è lo spettacolo di teatro e danza “Io sono dentro” che sarà messo in scena sabato 7 maggio al San Marco di Vicenza, alle 20.30. La regia è di Thierry Parmentier. “La rappresentazione propone una lettura particolare del carcere, come luogo di vera vita - racconta don Gigi -. Il carcere non è la morte, la vergogna, il fallimento, la fine. Per carità, rimane un passaggio amaro, anzi amarissimo, ma è anche un luogo pieno pieno di vita, di fiducia, di speranza, di domani. Il carcere è come un grande grembo dove, se si vuole, si può veramente rinascere”. Saranno i detenuti i protagonisti? “Volevo che fosse così, ma non è stato possibile. Saliranno sul palco Thierry Parmentier e degli attori non professionisti”. Che cosa vedremo? “Una lettura del carcere non religiosa, ma profondamente umana. Ho conosciuto e condiviso molto con i detenuti della casa circondariale di Vicenza e con tutto il corpo carcerario. Ci sono aspetti bellissimi di cui nessuno parla”. Ce ne dica qualcuno... “La maggior parte dei detenuti vive il suo tempo cercando di rendersi utile, andando a scuola, lavorando, leggendo, cercando persone che danno risposte di tipo esistenziale. C’è poi una forma di complicità tra i detenuti e gli agenti penitenziari. I giovani sono i più bravi e preparati. In certi casi diventano un tutt’uno, non dico una famiglia, ma si creano legami forti. Certo, ci sono detenuti complessi, difficili da gestire, che si isolano, ma sono la minoranza. Gli educatori si rimboccano le maniche e vivono con angoscia se non riescono ad accontentare tutte le richieste. Il nuovo direttore Paolo Bernardo Ponzetta, poi, crede davvero nel lavoro in carcere e in una reale collaborazione tra dentro e fuori. La lettura penale punitiva non solo non porta frutti, ma peggiora la situazione. L’ho toccato con mano. In carcere, per aiutare le persone, basta davvero poco. Ricevo ogni anno una “cassa” dal Vescovo Pizziol. Consegno 15 euro a chi non ha niente: un pacchetto di sigarette, una telefonata all’avvocato, basta poco”. Che cos’è il carcere per lei? “È un luogo di rinascita per persone che non sono mai nate. Persone che nella vita non hanno mai incontrato il bene. Per loro il carcere è l’unica possibilità di trovare un’anima”. Come riesce un detenuto a trovare un’anima? “L’anima è la traccia di Dio in ognuno di noi, e questa traccia è il bene. Il carcere deve diventare il grembo. Tutti: educatori, sanitari, agenti, insegnanti, volontari, devono porsi e proporsi positivamente per far sì che nel cuore dei ragazzi scatti il bene. La religione è solo uno degli elementi. Guardo in faccia i detenuti e non parlo di Dio per forza, l’obiettivo è seminare bene. È necessario prima di tutto credere nell’umanità e iniziare un percorso di rinascita”. Quali sono i temi trattati nello spettacolo? “I temi sono vari. I femminicidi, il lavoro come riscatto, i pentiti di mafia. Parleremo anche del ruolo dello Stato, che più usa il cuore più risparmia. Ci sarà anche il post carcere: Dove vado adesso? Che cosa faccio?”. Che cosa le hanno insegnato otto anni vicino ai detenuti? “Mi hanno insegnato che lì dentro potremmo esserci anche noi. Che a volte sono le coincidenze della vita, la sfortuna. Ho capito che si entra tra quelle mura, spesso come conclusione di scelte di vita scellerate. Si entra perché alle volte qualcuno si trova nella disperazione e cerca una via di uscita, ma nel peggiore dei modi. Si entra perché qualcuno ha conosciuto solo il linguaggio della violenza e del sopruso. Succede che si acceda perché qualcuno non ha un tetto e un pasto ed è stanco di bighellonare e vagabondare come un barbone. Così organizza qualcosa per farsi arrestare. Si entra anche senza un motivo, solo perché qualcuno era nel posto sbagliato, nel momento più sbagliato e non fa altro che proclamare la propria innocenza e soffre perché nessuno gli crede. A volte ci si ritrova dentro una cella per una distrazione di troppo, per un dramma non voluto, per non essere stato attento nel dare la fiducia a chi non lo meritava. Si entra perché qualcuno è come predeterminato: certi brutti e cattivi, se lo cercano, il carcere. Si entra per una relazione sbagliata, perché qualcuno non è preparato ad accettare un “no” da una persona che pensava di possedere, perché ci sono troppe vittime del proprio orgoglio e che non accetterà mai di essere umiliato. Lo spettacolo cerca di mettere insieme tutte queste cose, provando perfino simpatia per un mondo che, se guardato con occhi diversi, diventa persino “simpatico”“. Si esce davvero migliori dal carcere? “Noi facciamo di tutto perché questo accada. Non tutti escono migliori, ma la maggior parte sì, sono pronto a scommetterci. Una parte di detenuti peggiora, come accade nella vita fuori dalle mura”. Questa fragile democrazia di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 4 maggio 2022 I sondaggi svelano che un terzo degli italiani parteggia per Putin, anziché per gli ucraini e per l’Occidente. E questo spiega anche perché alcuni talk show televisivi diano spazio a putiniani dichiarati e a cripto-putiniani fintamente pacifisti. Le ragioni della fragilità delle istituzioni democratiche in generale e di quelle italiane in particolare sono ben rappresentate dal seguente ragionamento tautologico: “La democrazia vive fin quando la maggioranza dei cittadini sceglie, liberamente, di appoggiare leader democratici. Se, altrettanto liberamente, i cittadini scelgono di dare il loro consenso a leader non democratici la democrazia muore”. Si considerino i risultati di un recente sondaggio secondo cui il 35,7 per cento degli italiani parteggia per Putin anziché per gli ucraini e per l’Occidente. I sondaggi, naturalmente, danno solo delle indicazioni di massima e, inoltre, bisogna ricordare che le risposte sono sempre influenzate dal modo in cui sono confezionate le domande. Anche scontando tutto ciò, e anche ipotizzando che una parte di coloro che si sono espressi in questa maniera non disponga di convinzioni profonde e possa facilmente mutare opinione, resta che un trenta per cento almeno dei nostri connazionali la pensa così. Ma simpatizzare con Putin nel momento della guerra di aggressione all’Ucraina non è come esprimere, in tempi normali, un’innocua preferenza per l’uno o l’altro dei leader stranieri. È invece qualcosa di molto inquietante. Significa che una forte minoranza di italiani è schierata contro le democrazie occidentali, preferisce la tirannia alla democrazia o, per lo meno, non vede differenze. Una forte minoranza che un giorno potrebbe rappresentare, circostanze permettendo, la base di massa per qualche nuova avventura autoritaria. Così tutto si spiega. Per esempio, si spiega perché molti talk show televisivi, per non parlare dei social, diano un così grande spazio a putiniani dichiarati e a cripto-putiniani fintamente pacifisti. Lo spazio che hanno è grande perché lo è anche il loro pubblico di riferimento. Questi putiniani e cripto-putiniani ne sono gli “intellettuali organici”, rappresentano e articolano le idee degli italiani che rifiutano la democrazia in versione occidentale. E si spiega così anche il fatto che i Conte, i Salvini, eccetera, cerchino di fare leva su queste propensioni di una parte dell’opinione pubblica. Oltre che sulle paure e le incertezze inevitabilmente presenti in un tornante della storia così drammatico. Non bisogna cadere nella trappola di ragionare nello stesso modo in cui ragionano i partigiani nostrani di Putin. Come ha osservato Ernesto Galli della Loggia (Corriere del 30 aprile), costoro trattano gli ucraini da pupazzi degli americani e fanno finta di non sapere che la Polonia e gli altri Paesi ex comunisti non entrarono nella Nato perché costretti dalla volontà di dominio degli Stati Uniti. Così come gli ucraini non sono le marionette di nessuno, combattono per la loro libertà, i Paesi che entrarono nella Nato lo fecero perché i loro cittadini volevano essere protetti dalle possibili minacce di un eventuale, risorgente, imperialismo russo (che è poi puntualmente risorto). In quel trattare le persone da pupazzi, da fantocci manovrati (in questo caso, dagli americani) c’è, in realtà, coerenza: chi detesta la democrazia, chi preferisce la tirannia, assume questa posizione perché crede che le persone comuni non siano in possesso di una autentica capacità di pensare e di volere. Solo chi apprezza la democrazia accetta tale presupposto. È proprio per questa ragione che non bisogna commettere l’errore di pensare che quel trenta per cento di putiniani dichiarati sia tale perché manovrato da politici, che il putinismo, semplicemente, sia stato loro inculcato da quella parte della politica italiana che da anni amoreggia con Putin. Non è così. Anzi, è vero il contrario. Quei politici esistono perché il Paese è fatto così, perché i sentimenti antidemocratici sono sempre stati presenti e diffusi in Italia. Pensare il contrario significherebbe sopravvalutare la capacità della politica di influenzare le convinzioni del pubblico, trattare, per l’appunto, quei nostri connazionali da pupazzi manovrabili a piacere. Non lo sono. La loro presenza è spiegata dalla storia del Paese. Forti correnti antidemocratiche lo hanno sempre percorso. È in realtà un miracolo che la democrazia, malandata quanto volete, sia riuscita a sopravvivere, pur contrastata da quelle correnti, per così tanto tempo, dagli anni Quaranta dello scorso secolo ad oggi. Bisogna semplicemente accettare l’idea che, senza essere i pupazzi di nessuno, tanti nostri connazionali detestino la democrazia liberale. Non penso che sia (più) una questione di destra e sinistra. Sia se si osserva il mondo politico sia se si considerano i putiniani da talk show, comunque si definiscano (di sinistra o di destra), essi pescano nello stesso stagno, hanno lo stesso pubblico di riferimento. Anche l’antiamericanismo (no alla guerra per dire in realtà no agli Stati Uniti) non è più monopolio di una vecchia sinistra in disarmo. È un atteggiamento trasversale, non più ingabbiato negli antichi schieramenti. È piuttosto un modo, forse il più appariscente, con cui si manifesta una diffusa mentalità antidemocratica e antioccidentale. Non intendo dire che, necessariamente, tutti coloro che risultano dal sondaggio putiniani dichiarati siano, per così dire, perduti per la causa della democrazia. A una parte di loro, i più tiepidi, occorre certamente parlare. Fidando nel fatto che la democrazia dispone di buoni argomenti. Ma di sicuro esiste anche una parte composta da irriducibili. Questi non li può convincere nessuno. Non c’è, obiettivamente, molto da discutere con chi, scientemente, preferisce la tirannia. Si può solo tentare di sbarrargli la strada, di impedire, con i mezzi leciti che la democrazia mette a disposizione, che i suoi rappresentanti prendano il potere. Da questo punto di vista l’Italia non è messa molto bene. Arginare gli antidemocratici non sarà facile. Se, ad esempio, si pensa agli schieramenti politici in campo si può temere che dopo le prossime elezioni, qualunque coalizione governi, lo possa fare solo accettando un bel po’ di putiniani nelle proprie fila. Con riflessi pesanti sulla politica estera del Paese. L’Italia sarà ancora coerentemente filo-atlantica dopo le elezioni del 2023? È lecito, al momento, avere qualche dubbio. E si ricordi che se e quando cambia la politica estera è improbabile che non ci siano ricadute, cambiamenti all’interno, nella vita pubblica del Paese. Forse sopravvivremo alla minaccia di guerra nucleare che Putin lancia a giorni alterni. Ma dovremo anche imparare a costruire argini e barriere. Per impedire agli amici dei tiranni di prendere a bastonate questa fragile democrazia. Le angosce per la guerra generano l’ambizione del “partito pacifista” di Giulia Merlo Il Domani, 4 maggio 2022 Michele Santoro è tornato sullo schermo, nonostante tutto e tutti. Lo ha fatto con una puntata-evento, trasmessa dal teatro Ghione di Roma sul web, da alcune tv locali e da Byoblu sul digitale terrestre, con il titolo “Pace proibita”: dal palco si sono alternati Luciana Castellina e Tomaso Montanari, Cecilia Strada e Carlo Freccero, Vauro e Sabina Guzzanti, solo per citare alcuni degli invitati. L’obiettivo era dare spazio a un’informazione pacifista, in antagonismo con quella della televisione “che silenzia la maggioranza contraria all’invio di armi all’Ucraina”. Risultato: l’evento è stato organizzato in pochi giorni, finanziato attraverso il crowdfounding a cui hanno partecipato 1500 persone e il bilancio fatto da Santoro è che “ad essere realisti, tra radio, tv locali e internet, ci hanno seguito circa 250 mila persone”. Di più, “un prodotto dignitoso sul piano televisivo, anche più di certe trasmissioni che vanno sui canali nazionali”, che però non hanno voluto trasmetterlo “anche se glielo abbiamo offerto gratuitamente”. L’obiettivo non è stato solo quello di dare una lezione alla televisione “del pensiero unico” ma generare “un sentimento, enorme e positivo”, che starebbe già dando i suoi frutti in rete. A molti, guardando i nomi che si sono alternati sul palco ma anche le facce in prima fila (Nicola Fratoianni e Luigi De Magistris, Nichi Vendola ed esponenti di Articolo 1) e i toni dell’evento, la finalità è sembrata lampante: un nuovo partito che abbia come collante culturale il pacifismo e guardi sia alla sinistra che al cattolicesimo progressista, ma strizzi l’occhio anche all’area storica dei Cinque stelle e più contraria alle posizioni del governo Draghi. Chi ha preso la parola sul palco, come lo storico dell’arte Tomaso Montanari, allontana l’idea di un partito e lo definisce “un evento di portata culturale” dice che anzi “sarebbe una pessima idea se questo primo timido risveglio di coscienza collettiva finisse in un simbolo di partito”. Altri, invece, preferiscono rimanere sullo sfondo. Santoro, invece, non scansa per nulla l’ipotesi e anzi la duplica: “C’è stata una forte spinta dal basso e questo vuol dire esiste un’area dell’opinione pubblica che non si sente rappresentata: né in televisione né in politica. Ecco, noi vogliamo muoverci in entrambe le direzioni”. Sembra essere già pronto anche il come: sfidando Pd e Movimento 5 Stelle, che avrebbero permesso un “peggioramento della televisione pubblica” e si sono fatti coinvolgere nella guerra in Ucraina senza aprire un confronto politico con la loro base. Se le risposte non fossero adeguate (e la domanda sempra più che altro retorica), Santoro sarebbe pronto a mobilitarsi, attingendo alla fetta di elettorato composta da chi nei sondaggi non si esprime e da quelli che hanno smesso di andare a votare. Insomma, nella sempre vagheggiata massa degli indecisi e degli astenuti, che sembrano sempre voti a portata di mano ma tutti faticano a conquistare. C’è spazio? L’interrogativo è quindi se esista spazio per un nuovo partito, nell’affollata sinistra del Pd. “Lo spazio per nuovi partiti c’è sempre”, è la risposta di Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia research, ma “i partiti tematici hanno grandi difficoltà ad emergere”. Quanto sia ampia, poi, l’area di quell’astensione da conquistare è l’altra incognita da risolvere: se è vero che un 40 per cento non risponde sulle intenzioni di voto, è altrettanto vero che il 30 per cento è “perso per ragioni strutturali”, spiega il politologo Roberto D’Alimonte. “Le tendenze degli ultimi trent’anni anni dicono che è disponibile circa un 10 per cento di incerti, circa 4 milioni di voti”. Di questi, quanti si mobiliterebbero sul tema del pacifismo? “Forse un milione. Se è vero che il 40 per cento degli italiani è contrario alle armi in Ucraina, non tutti hanno il pacifismo come valore assoluto”. Tradotto: un partito pacifista si assesterebbe intorno al 2 per cento - come tutti i piccoli partiti della galassia di sinistra - trovando sponda in quelle che cosiddette “minoranze intense”, a cui è attirata la televisione ma che non trascinano nelle urne. Del resto, “dall’avvio del conflitto sono cresciuti solo i partiti con le posizioni più nitide e filoatlantiche: Pd, Fratelli d’Italia e Forza Italia” spiega il direttore dell’Istituto Cattaneo, Salvatore Vassallo. Ecco allora forse la ragione della duplice prospettiva di Santoro: l’obiettivo primario potrebbe non essere la politica, quanto un suo ritorno nel piccolo schermo. Quella spallata ai nostri diritti di Elena Stancanelli La Stampa, 4 maggio 2022 In alcuni paesi le leggi che garantiscono il diritto di aborto vengono sistematicamente prese a spallate. In Italia l’attacco è duplice: da una parte le campagne intimidatorie, i movimenti per la vita, i manifesti orrorifici coi feti parlanti, gli assedi nei consultori, dall’altra i medici obiettori - i quali curiosamente obiettano solo sull’interruzione di gravidanza, come se fosse l’unica questione di coscienza relativa al loro mestiere - che, astenendosi, bloccano di fatto la possibilità di abortire in moltissimi ospedali. Per non parlare dell’impegno nel rendere sempre più barocco l’iter per ottenere la pillola abortiva, la Ru486, che eviterebbe di dover ricorre all’intervento e alla relativa anestesia. Negli Stati Uniti invece la Corte Suprema pare si appresti a votare per annullare la sentenza del 1973, la celebre Roe vs Wade, che ha inaugurato la possibilità di accedere alla interruzione di gravidanza. È interessante capire il perché di tanto accanimento. Cosa è cambiato da quando, a metà degli anni settanta, l’Italia, gli Stati Uniti e molti altri paesi riuscirono a fare approvare quelle leggi? Non ci sono più partiti in grado di garantire una pressione morale forte, di portare al voto un elettorato compatto, così compatto da sconfiggere anche i moniti del Vaticano. Abbiamo perso dimestichezza con le grandi battaglie di opinione, e riteniamo di aver distribuito sufficienti diritti. Qui da noi sembra che tutto quello che doveva essere deciso sia già stato deciso e le richieste che arrivano dalle nuove generazioni, da nuove sacche di sofferenza che andrebbero tutelate, non interessano più a nessuno. Ma non è solo questo. Le nostre democrazie sono in sofferenza, diamo la colpa della pandemia, alla guerra, alle emergenze contro le quali abbiamo lottato negli ultimi anni. Siamo più poveri e più spaventati, ma soprattutto siamo paralizzati. Come se le emergenze fossero zone dell’esistenza in cui sospendere il pensiero, ibernarsi in attesa di tempi migliori. Mentre, al contrario, avremmo avuto bisogno, proprio perché c’erano e ci sono emergenze, di ragionare. Il cambiamento più grande rispetto a quegli anni - la 194 è del 1978 - è proprio la fiducia nella democrazia. Che significa anche fiducia nella scienza e nella cultura. Nella possibilità di cambiare le cose ragionando, a piccoli passi, tenendo conti dei bisogni di tutti e non a spallate. Forse abbiamo la sensazione che le democrazie non funzionino più e questo ci spinge a cercare soluzioni fantasiose. E come sempre accade in questi casi, quando ci pare che la ragione non dia risposte abbastanza risolutive. è l’irrazionale a farsi strada. Resistere alle spallate contro la legge sull’aborto significa anche ribadire con forza qual è il posto dove vogliamo vivere. Se ci va bene continuare a tenere in piedi una comunità che garantisce i diritti, quanti più diritti possibile, compresi quelli che ad alcuni non piacciono, o se si preferisce toglierli, quei diritti, rosicchiarli. Se, insomma, questa faticosa democrazia ci piace ancora o un regime autoritario e reazionario ci sembra più comodo e semplice da abitare. Migranti. Baobab, tutti assolti: “La solidarietà non è reato” di Simona Musco Il Dubbio, 4 maggio 2022 Il presidente dell’associazione, Andrea Costa: “Rifarei tutto, continueremo ad aiutare le persone che hanno bisogno”. Rischiava fino a 18 anni. La solidarietà non è reato. Dopo sei anni di indagini, pedinamenti e intercettazioni il gup di Roma ha assolto in abbreviato Andrea Costa, presidente di Baobab Experience, e due volontarie dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché il fatto non sussiste, accogliendo la richiesta del pm Gianfederica Dito. Un’accusa assurda - per la quale rischiavano fino a 18 anni di carcere - scaturita da una colletta da 250 euro per acquistare biglietti dell’autobus, cibo e prodotti per l’igiene per otto ragazzi sudanesi e un ragazzo ciadiano, in fuga dalle violenze dei rispettivi paesi e decisi a raggiungere il campo della Croce Rossa a Ventimiglia e poi la Francia, dopo essere finiti per strada, ad ottobre 2016, a seguito dello sgombero del centro d’accoglienza allestito in via Cupa, a San Lorenzo. Il 30 settembre, infatti, cinque giorni prima dell’acquisto di quei biglietti che hanno dato il via al tutto, il campo viene smantellato dalla Prefettura, che toglie dunque un tetto a 300 migranti, rifugiati e richiedenti asilo, privati di ogni aiuto. Il tutto in un clima di costante criminalizzazione delle ong, definite in quel periodo “taxi del mare” dalla politica e sulle quali a creare un’ombra di sospetto c’è anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, convinto che le stesse facciano affari con i trafficanti. Quelle inchieste, come noto, sono finite nel nulla: i legami tra volontari e scafisti non sono mai stati dimostrati. Ma l’eco mediatica di quelle accuse, complice una politica intenzionata a criminalizzare l’immigrazione e l’accoglienza, finisce per travolgere i volontari impegnati sul campo. Lo sgombero di San Lorenzo, secondo Baobab, rientra esattamente in quel piano di demolizione dell’accoglienza: “Impossibile anche montare un telo di plastica per mettere al riparo una donna incinta: la polizia interviene con tre camionette e cinque automobili per togliere la precaria protezione dalla pioggia di quei giorni”, spiegano i volontari dell’associazione, dal 2015 “in strada” con lo scopo di “sopperire le mancanze delle Istituzioni nella tutela delle persone migranti”. La scelta di aiutare quelle nove persone nasce dunque in questo clima. Ma quel che dalle parti di Baobab non sanno ancora è di essere finiti nel mirino della Dda: per mesi, infatti, la vita di Costa viene passata al setaccio, con gli investigatori convinti di aver a che fare non con un’associazione di volontariato, ma con un’associazione a delinquere finalizzata a sfruttare i migranti per trarne profitto. Dalle indagini, però, non emerge nulla. E soprattutto non emerge il presunto profitto: sui conti di Costa l’antimafia trova solo 15 euro di scoperto. Le accuse, dunque, si dissolvono come neve al sole. Ma è a questo punto che gli inquirenti si imbattono nella telefonata in cui Costa parla dei nove migranti intenzionati a raggiungere la Francia. Da qui l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: Costa e le due volontarie vengono di fatto equiparate ai trafficanti, quelli che, quotidianamente, sfruttano la disperazione di migliaia di persone in fuga, speculando sulla loro fragilità. Ma mentre i trafficati portano via ai migranti in fuga tutti i risparmi di una vita, a Costa è bastata una colletta per finire nella lista degli aguzzini. Il tutto mentre dopo anni “di accanimento contro le ong, nessun trafficante di esseri umani è stato assicurato alla giustizia”. A garantire la confusione tra buoni e cattivi è anche la politica: “La direttiva 2002/90/CE del Consiglio - nota come “Facilitation Directive”, fornisce una definizione comune del concetto di favoreggiamento dell’immigrazione illegale e stabilisce che gli Stati membri possono introdurre una clausola umanitaria, che mette gli operatori e i volontari che prestano assistenza umanitaria al riparo dal rischio di finire sotto processo - afferma Baobab in una nota. Ovviamente l’Italia si è ben guardata dal farlo. Ancora oggi, nel nostro ordinamento, non è stata introdotta alcuna differenza tra trafficanti di esseri umani e solidali: viene il dubbio che il fine non sia quello di combattere la criminalità organizzata, l’abuso, il raggiro e la tratta di esseri umani. È invece sempre più evidente che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, così come disciplinato in Italia, voglia demonizzare - gettando fango sulle associazioni di volontariato e mortificando e scoraggiando l’aiuto umanitario - la migrazione stessa e precludere la possibilità di uomini, donne e bambini di mettersi in salvo da conflitti, violenze e fame”. E nel frattempo, le cronache ci restituiscono una realtà più feroce: è stata la stessa Europa a finanziare la Guardia costiera libica, coinvolta nella tratta dei migranti e nelle torture. “Sono soddisfatto perché un giudice ha sancito quello che già sapevo: che il fatto non sussiste, ora c’è qualcuno che lo ha messo nero su bianco - ha commentato Costa dopo la sentenza. In questi anni è stata dura sapere di essere sotto indagine pur avendo la consapevolezza di avere agito in modo corretto. Rifarei tutto, continueremo ad aiutare le persone che hanno bisogno così come sta avvenendo per i profughi che arrivano dalla Ucraina”. Un processo “che è senza alcun dubbio politico”, secondo i volontari di Baobab, che nei giorni scorsi hanno svelando all’opinione pubblica l’indagine, tenuta sotto silenzio a lungo proprio “per non darla vinta a chi ci ha voluti coinvolgere” e per “continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto - offrire soccorso a donne, uomini e bambini migranti - con la convinzione di essere nel giusto”. Cannabis, manovre di bassa Lega al Senato di Riccardo Magi Il Manifesto, 4 maggio 2022 La mobilitazione per il referendum Sulla cannabis che ha coinvolto migliaia di persone alla fine della scorsa estate raccogliendo oltre seicentomila firme in pochissimi giorni ha rivelato in modo dirompente quanto la riforma in senso antiproibizionista delle politiche sulle droghe sia considerata una priorità da un numero crescente di cittadini. Milioni di cittadini italiani, consumatori o meno, sono convinti che non abbia davvero più alcun senso accanirsi con norme iper repressive sulle condotte relative agli stupefacenti e che mantenere l’attuale normativa abbia degli effetti controproducenti e perversi finendo per rendere le autorità pubbliche complici delle organizzazioni che gestiscono il traffico illegale e nemiche dei cittadini, della loro salute e libertà. Gonfi giudizio di inammissibilità emesso dalla Corte Costituzionale nel febbraio scorso è stata negata la possibilità di un vero dibattito sul tema che si concludesse con una modifica della norma attraverso l’intervento popolare. L’unica possibilità di modificare la legge è tornata ad essere per il momento la via del Parlamento. Qui, in commissione Giustizia alla Camera, dal 2019 è all’esame una proposta di legge a mia prima firma che prevede la depenalizzazione della coltivazione domestica di cannabis per uso personale e la diminuzione delle pene per i reati di lieve entità, prevedendo questa fattispecie in un articolo autonomo, evitando imputazioni pesanti che si risolvono solo all’esito del processo. Si limiterebbe così il peso sui tribunali e il sovraffollamento nelle carceri. È importante sottolineare che la Conferenza nazionale sulle droghe-il principale appuntamento istituzionale governativo che, in base alla legge, dovrebbe fornire al parlamento le indicazioni per eventuali modifiche della legge - tenutasi a Genova nel novembre scorso, ha indicato come necessarie, sul piano penale, esattamente le misure contenute in questa proposta. Ora, dopo anni di audizioni, rinvii per dare precedenza a provvedimenti ritenuti più urgenti, altri rinvii spesso strumentali e ostruzionistici, si è arrivati al momento della verità: l’inizio delle votazioni sugli emendamenti per portare rapidamente la proposta di legge in aula dove è iscritta in calendario per il mese di giugno. Colpo di scena: al Senato viene incardinato in commissione l’esame di alcuni testi sugli stupefacenti e viene annunciato dal presidente leghista della commissione Giustizia che sarà adottato come testo base la proposta della Lega. Tutti dicono che ciò sia frutto di uno scambio indecente che vede da un lato la prosecuzione dell’iter sul suicidio assistito al Senato (con Pillon trai relatori) dall’altro l’avvio della discussione, a puri fini di propaganda, del testo “zero droga”. Dei veri apprendisti stregoni devono essersi messi all’opera per questo risultato oppure è il segno che anche tra le forze “progressiste” non si è così convinti né sul fine vita né sulla cannabis. Ma c’è di più, in questo modo si stanno violando i regolamenti di Camera e Senato che prescrivono che non si proceda con l’esame di progetti di legge che hanno oggetti identici o strettamente connessi con progetti già all’esame dell’altro ramo. Con queste manovre si sta tentando di chiudere il cerchio per impedire che anche per via parlamentare, dopo che è stata impedita la via referendaria, sia conquistato un qualsiasi intervento di riforma delle politiche sulle droghe. Dobbiamo sventare questo tentativo chiamando tutti gli attori istituzionali e politici alle proprie responsabilità: i presidenti delle Camere devono impedire un degrado delle istituzioni e le forze politiche devono tenere una condotta coerente con gli annunci dei propri leader: ricordiamo tutti che Letta e Conte ai tempi del referendum affermarono che la proposta da loro sostenuta era proprio quella giacente in commissione alla Camera. Stati Uniti. Detenuto e laureato grazie a Second Chance Pell Experiment di Maddalena Maltese Città Nuova, 4 maggio 2022 Oltre 120 tra college e università americane offrono ai giovani nelle prigioni Usa una seconda possibilità. Le sbarre sono state per Clyde la sua casa peroltre 26 anni. Il 26 maggio 2021 Clyde si è laureato alla Wesleyan University in filosofia, partecipando alla seduta accademica da uomo libero. Il giorno prima era stato rilasciato dal Cheshire Correctional Institute nel Connecticut, dove ha fondato T.R.U.E (acronimo inglese per Verità, Rispetto, Comprensione ed Elevarsi), un’unita carceraria speciale che aiuta i giovani adulti a diventare leader attraverso lo studio. Il giudice del Connecticut che lo ha rilasciato ha premiato la sua determinazione nello studio ma anche la scelta di creare nuove opportunità per altri compagni che lui ostinatamente chiama “fratelli che vogliono cambiare il mondo”. “Date loro gli strumenti, date loro lo spazio e permettete loro di costruire relazioni. Se vengono messi nelle giuste situazioni e condizioni e hanno il giusto supporto potranno produrre cose nuove, possono creare nuovi progetti che favoriscono la giustizia”. La convinzione di Clyde è contagiosa. Parla da ex detenuto e parla da afroamericano e sa quante opportunità gli sono state sottratte dalle gang con cui si sentiva protetto e che avevano scelto di esercitare il monopolio della violenza per offrire opportunità a chi non aveva altre scelte se non la strada. “Le persone che hanno toccato il fondo hanno bisogno di opportunità perché abbiamo tante cose dentro di noi che hanno bisogno di uscire”, spiega Clyde che quando è stato arrestato per traffico di droga leggeva autori afroamericani. “Ho iniziato a pensare a come i neri, dalla schiavitù, ogni volta che ci veniva permesso di improvvisare, creavamo qualcosa di bello, giusto?”, e fa riferimento alla musica, ai gospel, al blues, al jazz, ma anche alla letteratura e alla poesia. “C’è qualcosa di bello nel nostro trauma e nel nostro dolore. Se siamo supportati e ci viene permesso di prosperare negli spazi giusti, nel modo giusto, credo che possiamo rendere il mondo un posto diverso”, continua questo uomo reso libero anche dallo studio della filosofia che ha offerto parole e conoscenza alle sue terribili esperienze, ma anche a quella brama di cambiamento che lo aveva spinto ad aderire ad una gang. Clyde è uno dei 7.000 studenti che grazie al Second Chance Pell Experiment, un programma di istruzione sponsorizzato dal dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti ha acquisito un titolo di studio universitario in uno dei 120 college che hanno aderito all’iniziativa, dando la possibilità di trasformare le sbarre e le celle in banchi e aule di speranza e di futuro. Il 27 aprile scorso altre 73 tra università e college hanno deciso di aderire a questo programma, che come dice il nome, Second Chance, offre una seconda possibilità alle persone detenute. Il Vera Institute of Justice, di Brooklyn, ha rilevato che quasi la metà di tutte le persone che partecipano a programmi di istruzione superiore hanno meno probabilità di tornare in prigione rispetto a coloro che non partecipano. Dal 2015, anno di istituzione del programma 2.000 studenti hanno ricevuto una forma di istruzione di qualità e per ogni dollaro versato a Second Chance, almeno 5 dollari sono stati risparmiati nel mantenimento di una persona in carcere. “L’istruzione universitaria mi ha davvero dato la capacità di guardare indietro alle mie esperienze e trovare un linguaggio per capirle e affrontarle”, spiega Clyde. “Non avere la capacità di articolare la tua realtà è un motivo per cui si diventa pericolosi perché non hai la lingua, non hai la pedagogia, non hai la capacità di spiegare queste complessità che hai dentro e poi non hai persone che ti dicono che si può trovare valore nel trauma e nel dolore. Non bisogna lasciare che il trauma e il dolore siano solo negativi”. Clyde ha saputo trovare il positivo dentro una prigione e ora cammina davanti alla stazione di polizia, non più in fuga ma da uno che si occupa di alloggi e assistenza per altri “fratelli” tornati nella comunità e incita chi ha ancora la cella per casa, a studiare e liberare la complessità e l’improvvisazione, la sua seconda chance. Libia. Presidente Menfi: “Libertà per tutti i giornalisti detenuti con la forza” agenzianova.com, 4 maggio 2022 “Nella giornata mondiale della stampa, elogiamo ogni giornalista, ogni voce e ogni penna professionale in cerca verità e critiche costruttive, e chiediamo libertà per tutti i giornalisti detenuti con la forza”, ha scritto Menfi in un messaggio pubblicato sul suo profilo Twitter. Il presidente del Consiglio presidenziale della Libia, Mohamed al Menfi, ha salutato i giornalisti in occasione della giornata mondiale della stampa, chiedendo la libertà per tutti i giornalisti detenuti con la forza. “Nella giornata mondiale della stampa, elogiamo ogni giornalista, ogni voce e ogni penna professionale in cerca verità e critiche costruttive, e chiediamo libertà per tutti i giornalisti detenuti con la forza”, ha scritto Menfi in un messaggio pubblicato sul suo profilo Twitter. “Il raggiungimento di una riconciliazione efficace richiede un discorso di pace e riconciliazione, con firme professionali consapevoli”, ha aggiunto. L’ambasciata degli Stati Uniti nel Paese nordafricano in una serie di messaggi pubblicati sul suo profilo Twitter ha scritto che è necessario proteggere i giornalisti e la libertà di espressione su internet, ma non solo, in Libia e in qualsiasi altro Paese. La missione diplomatica statunitense ha sottolineato che “in molti Paesi i giornalisti rischiano la vita per informare il pubblico e chiedere la responsabilità dei governi”. L’ambasciata ha affermato che “l’arresto di Ali al Rifaoui, corrispondente dell’emittente televisiva ‘218’, o l’uccisione del blogger Tayeb Shariri, tra gli esempi recenti che dimostrano che c’è ancora del lavoro da fare per garantire la libertà di stampa”. Secondo la ventesima edizione della classifica mondiale sulla libertà di stampa redatta da Reportes sans frontiers (Rsf), la Libia si trova al 143esimo posto e “secondo gli osservatori e i corrispondenti non esiste più la stampa libera”.