Ancor più dimenticate. La distanza umana tra carceri e città di Paolo Bustaffa agensir.it, 3 maggio 2022 Il carcere mette alla prova una città nella sua capacità di condividere fatiche e sofferenze, di distinguere l’errore dall’errante. Nelle carceri italiane nel 2021 ci sono stati 57 suicidi e sono 21 quelli registrati nei primi mesi 2022. L’associazione Antigone nei giorni scorsi ha presentato questi dati nel suo XVIII rapporto redatto dopo cento visite in diversi penitenziari del nostro Paese. “Importante notare - osserva Antigone - come l’Italia sia tra i Paesi europei quello con il più alto tasso di suicidi nella popolazione detenuta mentre è tra i Paesi con i tassi di suicidio più bassi nella popolazione libera”. C’è un altro dato che colpisce: al 31 marzo 2022 erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 mamme dentro un istituto penitenziario. Riferendosi a una frase che recita “La storia di una società è scritta sui muri delle prigioni” così commenta Luigi Manconi, attento conoscitore e sensibile portavoce di questa realtà: “Se sulle pareti di una cella oltre alle tracce di un odio o di una passione dovremo ancora trovare disegni di mani infantili è indubbio che quella delle prigioni continuerà a essere una storia di persistente barbarie”. A preoccupare e a chiedere attenzione ci sono numerosi altri dati nel rapporto di Antigone: sono 54.609 i detenuti a fine marzo 2022, il tasso di affollamento medio è del 107% mentre in Lombardia sale al 129,9% e in Puglia al 134,5%. Il 25% delle carceri hanno celle più piccole di tre metri quadri per ogni persona. Oltre i numeri e le percentuali l’associazione torna a denunciare la non adeguata gestione degli istituti penitenziari. La frammentarietà del lavoro interno ed esterno e le non facili iniziative per il reinserimento sociale motivano il boom dei ritorni in cella che è documentato dal 38% di persone alla prima detenzione. In cima alle urgenze Antigone segnala il ripensamento dell’intero sistema delle pene e richiama la responsabilità del legislatore. I riflettori dei media si accendono quando l’esasperazione scoppia come nel caso della pandemia. Ciò che accade viene compresso nella cronaca nera e non scuote più di tanto un’opinione pubblica inquieta e spaventata. E così i già dimenticati diventano ancor più dimenticati. Ogni città ha il suo carcere, vorrebbe scrollarselo di dosso, vorrebbe toglierlo dal “curriculum vitae”, vorrebbe lasciarlo tutto ed esclusivamente ai competenti organismi nazionali. Ma c’è qualcosa che la riguarda direttamente, il carcere mette alla prova una città nella sua capacità di condividere fatiche e sofferenze, di distinguere l’errore dall’errante. Una città è bella non solo per le piazze, i palazzi, i giardini e la gente che passeggia ma anche per lo sguardo di umanità che rivolge al carcere e a quella cintura di affetti familiari e amicali che lo circonda. L’apatica quotidianità che fa regredire i detenuti di Isabella De Silvestro e Luigi Mastrodonato Il Domani, 3 maggio 2022 Si sa dei grandi scandali che riguardano il sistema penitenziario italiano e non si sa di tutto il resto. Gli istituti di pena sono luoghi dove il corpo decade e dove il dolore assume forme opache, simili a un sonno cosciente. L’8 marzo 2020 nel carcere di Modena si è consumata quella che un detenuto ha descritto come “la più grande macelleria della mia vita”. Durante una sommossa carceraria e nei momenti successivi sono morte nove persone per overdose da metadone ed è stata la peggiore strage del Dopoguerra in un penitenziario italiano. Nelle stesse ore altre quattro persone hanno perso la vita in circostanze simili nelle prigioni di Rieti e Bologna. Qualche mese dopo Domani ha rivelato che il 6 aprile 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere era avvenuta quella che il gip Sergio Enea ha definito “un’orribile mattanza” nei confronti dei detenuti, in risposta a una rivolta del giorno prima. Decine di agenti sono finiti a processo con l’accusa di tortura, un fatto senza precedenti in Italia. Nel gennaio 2021 a Ferrara c’è stata la prima condanna definitiva per tortura in Italia nei confronti di un agente, ritenuto colpevole di aver agito con crudeltà e violenza grave contro un detenuto. Un mese dopo la stessa pena in primo grado ha riguardato altri agenti per fatti simili nel penitenziario di San Gimignano. Nel 2020 le carceri italiane hanno fatto registrare il record di suicidi dell’ultimo decennio: secondo i dati dell’associazione Antigone, 61 detenuti si sono tolti la vita in cella. Bisogna tornare al 2009 per trovare numeri simili. Nel gennaio 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, per aver trattenuto nel carcere di Rebibbia un 28 enne affetto da disturbi psichici negandogli le cure di cui aveva bisogno. Punto di non ritorno - Violenze, torture, suicidi, privazione del diritto alla salute, condanne nazionali e internazionali. Quelli citati sono alcuni degli episodi avvenuti nelle carceri italiane nell’ultimo biennio e raccontano bene le criticità che sta vivendo il sistema penitenziario. “Io un punto così basso per le carceri italiane non l’avevo mai registrato”, ha detto Rita Bernardini, esponente del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino. Sicuramente la pandemia ha avuto un ruolo in questo deterioramento ma non è che prima andasse tutto bene. Problemi storici a cui ci si era drammaticamente abituati sono solo tornati di attualità. Per esempio il sovraffollamento. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Cedu nella sentenza Torreggiani perché non garantiva ai detenuti uno spazio dignitoso, ma negli anni successivi il numero dei carcerati ha continuato ad aumentare. Quando è arrivato il Covid-19 e certe precauzioni come il distanziamento sociale e l’areazione degli ambienti si sono imposte nella quotidianità del mondo esterno, è apparso evidente che lo stesso non potesse accadere in un luogo come il carcere, in quel momento popolato da 61.230 detenuti a fronte di una capienza di 50.931. Con il passare dei mesi si è riusciti ad alleggerire la densità penitenziaria, ma ora che la fase emergenziale più dura è passata le carceri italiane sono tornate ad accogliere ben più persone di quante potrebbero, con istituti come quello di Taranto o Brescia che fanno registrare tassi di riempimento vicini al 200 per cento. La pandemia ha anche sconvolto la quotidianità già precaria dei detenuti. Per ridurre al minimo i contatti con l’esterno sono stati sospesi i colloqui, interrotte le lezioni universitarie e scolastiche, annullati i laboratori. La quasi totalità delle attività interne, fondamentali per i detenuti dal punto di vista psicologico, si sono dissolte da un giorno all’altro. E la popolazione carceraria si è trovata ancora più sola di quanto già non fosse. Il malessere crescente ha fatto scoppiare nuove rivolte che sono state anche l’occasione per ricordarsi di come in Italia ci sia un problema di abuso di potere, lo stesso che sporcava di sangue le strade di Genova nel 2001 e che poi è passato dalla Ferrara di Federico Aldrovandi e dalla Roma di Stefano Cucchi. Troppi silenzi - Per quanto di tutte queste problematiche carcerarie legate al malessere e agli abusi si stia finalmente iniziando a parlare, intorno a esse rimane un grande silenzio. Si sa dei grandi scandali che riguardano il sistema penitenziario italiano e non si sa di tutto il resto, del modo in cui scorre la quotidianità dei detenuti anche quando le cose vanno, più o meno, come dovrebbero andare. Ed è invece proprio qui, in questa apatica normalità, che si ritrova il livello di disagio maggiore quando si osserva il carcere in Italia. Gli effetti della detenzione - Il carcere non ha smesso di essere una pena corporale, nonostante il passaggio da pena come supplizio a pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli. La detenzione abbrutisce, il corpo decade, l’incarcerazione provoca un’involuzione precipitosa di tutta la sensorialità. Si abbassano le difese immunitarie e la vista cala perché lo sguardo del detenuto è tagliato dalla vicinanza delle mura esterne e delle pareti divisorie. La messa a fuoco è corta, si perde la distanza, la linea dell’orizzonte, svaniscono i colori. Anche l’olfatto è anestetizzato dall’aria stagnante. L’udito in un primo momento si acutizza - la prigione è un luogo di rumori incessanti tra porte blindate che sbattono, chiavi che girano, urla, lamenti - ma in alcuni casi può sopraggiungere la sordità come difesa. Del corpo si perde presto la percezione totale: gli specchi a disposizione di un carcerato bastano appena a vedersi il viso, quando mancano anche quelli ci si rade con il retro dei cd, uno degli strumenti di svago che insieme alle radioline, ai dvd e alle lettere con francobolli sempre più difficili da trovare sul mercato, relegano la popolazione carceraria a un tempo irreale, fermo agli anni 90. Da qui anche il senso di vertigine e spaesamento che spesso segue la scarcerazione. Quotidianità malsana - Il carcere non è solo un luogo dove si tenta il suicidio o ci si dedica all’autolesionismo. È più spesso un luogo dove il dolore assume forme opache, simili a un sonno cosciente. La vita quotidiana di un detenuto è fatta di piccoli sforzi di resistenza al tempo che scorre vuoto e sempre uguale: la televisione è il più potente anestetico insieme alla “terapia”, ovvero gli psicofarmaci che vengono distribuiti la sera, prima della chiusura delle celle. Un detenuto su due in Italia ne fa uso, non solo per tenere a bada disturbi psichici, ansia e depressione, ma anche per far scorrere le giornate. Il fine settimana e l’estate sono i periodi in cui se ne assumono di più perché l’isolamento si acuisce, i volontari non entrano, le attività vengono sospese. E allora si dorme, si resta a letto per giorni interi, ci si ribella così alla formula, ripetitiva e presto soffocante pronunciata dagli agenti tre volte al giorno al detenuto che vuole lasciare la cella: “Aria, saletta o doccia?” - i tre vettori della fuga dagli spazi angusti di quelle celle spesso sovraffollate. E aria vuol dire “passeggio”, che a sua volta indica un cortile claustrofobico in cui girare in tondo, ogni giorno, per anni. Il lessico carcerario è fatto di “domandine”, le richieste interne dei detenuti agli agenti, frequenti e totalizzanti come quelle di un bambino alla maestra. Il detenuto è infantilizzato, deresponsabilizzato, riportato allo stadio infantile della vita. Deve aspettare che si aprano le porte, che venga accolta o negata una richiesta, non ottiene spiegazioni sui dinieghi. In carcere si sente spesso dire che meno chiedi e meglio è, più accondiscendi alle rodate logiche di spoliazione della personalità e più simpatico risulterai a chi può decidere se farti avere o meno ciò che ti spetterebbe di diritto. È difficile immaginare cosa voglia dire poter parlare al telefono con i figli solo dieci minuti a settimana, dover scegliere le parole da dire, che cosa omettere e che cosa raccontare o come spartire un tempo così limitato tra le persone care. Più facile forse è immaginare il fastidio di mangiare con le posate di plastica, come in un picnic al parco quando inizia la primavera, e la tortura di dover mangiare sempre così per anni, per decenni, colazione, pranzo e cena. Il carcere è, insomma, un luogo di piccoli soprusi quotidiani. L’espropriazione di ogni riservatezza e intimità, l’azzeramento della sfera sessuale e le continue privazioni e umiliazioni fanno crescere nei detenuti rabbia e frustrazione, a discapito del fine rieducativo. Sembra che alla pena definita dal dettato costituzionale si aggiunga la pena supplementare inflitta quotidianamente per mezzo di piccole torture spesso legalizzate, altre volte fuori da ogni regola. Il fatto che oggi il tasso di recidiva sia al 70 per cento racconta il fallimento di un’istituzione che reclude e non reinserisce. Un’istituzione caratterizzata da piccoli abusi, ripicche, complicazioni burocratiche, imposizioni securitarie che fanno meno rumore delle storie di Santa Maria Capua Vetere e di Modena ma sono parte dello stesso racconto e forse aiutano a comprenderlo meglio. Drammi che esistono da sempre e che la pandemia ha solo aggravato. Un cesso di carcere di Michele Serra La Repubblica, 3 maggio 2022 Bisogna che in galera finisca uno famoso, come Boris Becker, per scoprire che in Inghilterra esistono carceri vecchie di centosettant’anni, piene di topi, di promiscuità, di urla che bucano i muri. È la prigione di Wandsworth, in piena Londra, la stessa metropoli molto costosa e molto glamour dove Becker, per rimanere all’altezza della sua racchetta e della sua giovinezza, ha pasticciato con i quattrini al punto di venire condannato per bancarotta. Prima di Becker da lì sono transitate migliaia di persone, di quelle che si definiscono delinquenti comuni (Becker, dunque, è delinquente non comune). Nessuno dei quali, però, è valso come testimonial di un degrado tanto più significativo quanto più illustre è il contesto urbano che lo porta in seno. La Londra dickensiana di Wandsworth non è anacronistica: nel senso, evidente, che è nostra contemporanea. È la stessa Londra dell’alta finanza, del cosmopolitismo del miliardo che sopravvive con indifferenza anche alla Brexit, dei quartieri dove un metro quadro costa come un monolocale e un monolocale come un attico. Se ci fosse una ricaduta sociale di cotanta prestanza economica, un carcere, anche uno solo, non sarebbe il cesso di posto descritto da fonti inglesi. E a proposito di cesso, il cesso esposto alla vista, con l’impossibilità di appartarsi, è una delle umiliazioni più diffuse della vita carceraria, non solo a Wandsworth: ne ha scritto recentemente Luigi Manconi su Repubblica. Naturalmente queste sono considerazioni buone solo per chi consideri lo stato delle carceri come una delle grandi prove che fanno di una democrazia una democrazia. Per gli altri vale l’idea che in carcere “si deve marcire”, come ampiamente udito, negli ultimi anni, per bocca dei più prestigiosi capipopolo. Quei magistrati ancora convinti che Cosa nostra si batte con la barbarie dell’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 maggio 2022 L’ex magistrato Roberto Scarpinato, in due articoli su “Il Fatto”, sostiene che con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e non si potrà mai far luce sui misteri. Sul Fatto Quotidiano sono stati pubblicati, nel giro di pochi giorni, due articoli a firma dell’ex magistrato Roberto Scarpinato. Uno dal titolo “Dall’ergastolo al libera tutti. Una riforma ostativa”; l’altro “Stragi: le risposte che non avremo”. Solo il primo titolo, ma come si sa sono scelte redazionali e non è opera sicuramente dell’autore, risulta fuorviante. No, non c’è nessuna tana libera tutti. Anzi, il testo approvato alla Camera, è esattamente una controriforma: non solo non recepisce i rilievi della Consulta, ma ha riscritto la legge in termini ancora più restrittivi. Per quanto riguarda il secondo articolo, merita un approfondimento di talune domande che potrebbero generare equivoci. Il divieto assoluto dei benefici per chi non collabora è incostituzionale - Ricordiamo che la Corte costituzionale aveva rilevato incompatibile con la nostra carta - nata, per dirla come Piero Calamandrei, nelle carceri dove furono imprigionati i nostri partigiani -, quella parte dell’articolo 4 bis che pone un divieto assoluto dei benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia. La riforma che il Parlamento si appresta a varare eleva vertiginosamente gli attuali limiti di pena per accedere alla liberazione condizionale nel caso di condanne per delitti “ostativi”: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Non solo. La (contro)riforma, elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Quest’ultimo punto rende di fatto nuovamente incostituzionale la legge. In sostanza, finora c’è la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi, di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo, va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità. A Filippo Graviano, dopo 27 anni di 41 bis è stato negato il permesso premio - In entrambi gli articoli de Il Fatto, l’ex magistrato Scarpinato mette nuovamente in risalto i boss “irriducibili”, coloro che non collaborano e che - a detta sua - conoscono i misteri sulle stragi di mafia, in particolare quella di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. In sostanza afferma che, con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e quindi non si potrà mai conoscere i misteri irrisolti sulle stragi. No, non è così. Innanzitutto non si mette sullo stesso piano chi collabora e chi no. Chi sceglie di collaborare con la giustizia, ha chiaramente dei benefici che un non collaborante se li scorderà. Abbiamo l’esempio di Giovanni Brusca che, come è giusto che sia, da quando ha scelto di pentirsi, ha avuto accesso fin da subito a numerosi benefici penitenziari. Uno che sceglie di non collaborare, dovrà attendere decenni e non è detto che avrà risposte positive alle richieste dei benefici. C’è il recente esempio dello stragista Filippo Graviano. Dopo ben 27 anni di 41 bis, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, ha richiesto il permesso premio: rigettato. Quindi non è assolutamente vero che per gli “irriducibili” basti magari una semplice dissociazione per usufruire i benefici. I paletti, tuttora, sono ben rigidi e se passa la riforma, lo saranno ancor di più. Talmente marcati che a rimetterci saranno la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi che non hanno nulla a che vedere con lo stragismo. Non è propriamente corretto legare la necessità dell’ergastolo ostativo con l’accertamento delle verità sulle stragi. Ricordiamo che c’è il trentennale del maxiprocesso. Falcone e Borsellino sono riusciti ad imbastirlo con ben altri strumenti, e l’articolo 4 bis ancora era nel mondo dei sogni. Grazie al pentimento di Tommaso Buscetta e la grande intelligenza di Falcone sono riusciti a decapitare la cupola mafiosa. Sono passati trent’anni e nessun magistrato ha eguagliato quel risultato, nonostante l’ergastolo ostativo che, tra l’altro, fu istituito non rispettando il volere di Falcone stesso. Sì, il giudice trucidato a Capaci non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. Dopo la strage, il Parlamento ha deciso di inasprirlo. Cosa c’entra il collaboratore Santo Di Matteo con l’ergastolo ostativo? Per quanto riguarda le domande sulla strage di Via D’Amelio, salta all’occhio questa che pone Scarpinato: “Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai Pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?”. Punto primo. Non si comprende cosa c’entri l’ergastolo ostativo visto che Santo Di Matteo, l’unica persona deputata a rispondere, è appunto un importante collaboratore della giustizia, tanto che è costata la vita a suo figlio dodicenne, barbaramente sciolto nell’acido. Punto secondo. Il Dubbio ha potuto rileggere quell’intercettazione - tra l’altro pieno di punti interrogativi, perché alcune parole risultavano incomprensibili - che risale al 14 dicembre del ‘93, ed era un colloquio tra Di Matteo e sua moglie presso il locale della Dia. Lei non gli dice di non nominare ai Pm gli infiltrati della polizia. Dalle sue parole si evince che è preoccupata, ha paura visto che in quel momento avevano rapito il figlio e sono recapitate nuove minacce. Dice al marito di evitare di parlare anche di via D’Amelio e si chiede se ci siano poliziotti infiltrati. Prima lei dice: “Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia”. Più avanti dice: “Tu questo stai facendo, pirchi’ tu ha pinsari alla strage di Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)”. Dopo altri scambi tragici di battute, lei dice “(?) capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti (?)”. Santo Di Matteo risponde: “Cosa?”, e lei: “(?)Mi devi aiutare su tutti i punti di vista (?) pirchi’ io mi scantu, mi scantu”. In sostanza appare chiaro che lei pone domande e dimostra preoccupazione. D’altronde è storia nota che Santo Di Matteo ha partecipato alla strage di Capaci e grazie anche a lui si è potuto accertare la verità sull’esecuzione. Così come, su via D’Amelio, ha sempre detto di non aver mai partecipato all’azione, ma che era a conoscenza solo dei telecomandi che Nino Gioè avrebbe consegnato ai fratelli Graviano. Punto. Lo ha ripetuto lo stesso Di Matteo anche durante il Borsellino quater, sentito come testimone il 28 maggio 2014. Sarebbe utile togliere gli omissis dalle intercettazioni di Riina - Nell’articolo Scarpinato pone anche altre domande. Tutte volte a presunti servizi segreti che sarebbero accorsi, in giacca e cravatta, sul luogo della strage per prelevare l’agenda rossa di Borsellino. Anche se non accertato, poniamo fosse vero: non si capisce perché lo dovrebbero sapere i boss “irriducibili” che sono al 41 bis. Nemmeno Totò Riina sapeva che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, e questo lo si evince dalle intercettazioni del 2013. Perché lo dovrebbero sapere i suoi sottoposti che tra l’altro non conoscono nemmeno tutta la preparazione della strage visto che tutto era scientemente compartimentato? Comunque la si pensi, tutto questo non ha nulla a che vedere con l’ergastolo ostativo. Sia la sentenza della Consulta che la (contro) riforma, non è un “tana libera tutti” e non è ostativa alla verità sulle stragi. Se vogliamo conoscere la verità, per cominciare sarebbe utile togliere gli omissis che ci sono nelle intercettazioni di Riina, soprattutto nella parte in cui parla di via D’Amelio. Inferno carcere, in cella si muore per suicidio 13 volte più che fuori di Viviana Lanza Il Riformista, 3 maggio 2022 “A Carinola, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo e il letto”, si legge nella relazione annuale dell’associazione Antigone sullo stato delle carceri. Sembra un dettaglio, invece non lo è. Dà la misura di cosa sia realmente il carcere e di quanto i bisogni elementari e i diritti fondamentali siano ancora mortificati e non tutelati. Pensate a cosa voglia dire dividere con degli sconosciuti una cella in cui non è possibile avere un minimo di privacy nemmeno quando si va in bagno. Immaginate la mortificazione della dignità quando si è costretti a mangiare e dormire nello stesso luogo in cui c’è water o toilette alla turca, quindi a vista. Come si può uscire migliori da posti del genere? Come si può parlare di rieducazione e rispetto della Costituzione? “Per quanto appaia incredibile e anacronistico - si legge nel rapporto di Antigone sulla situazione all’interno degli istituti di pena di tutta Italia - nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non è in un ambiente separato, isolato da una porta ma in un angolo della cella”. Eppure basterebbe poco per ripristinare un minimo, ma veramente un minimo di dignità. Basterebbe una porta. Invece, ci sono solo sbarre e poco altro. In Campania nello scorso anno si sono contati sei suicidi in cella su 57 a livello nazionale. Guardando all’andamento del dato nell’ultimo decennio, Antigone osserva come nei due anni appena trascorsi il tasso dei suicidi in carcere sia particolarmente alto. E la crescita sembra confermarsi anche nel 2022. L’età media delle persone che si sono tolte la vita in carcere nel 2021 è stata di 42 anni. I più giovani erano due ragazzi di 24 e 25 anni, morti entrambi nel maggio 2021, uno nel carcere di Novara e l’altro nel carcere di Poggioreale a Napoli. Dopo l’istituto penitenziario di Pavia c’è quello di Avellino tra le carceri in cui sono avvenuti più casi di suicidio, tanto per tenere la lente puntata sulla situazione in Campania. L’Organizzazione mondiale della sanità ha accertato che il suicidio è una delle cause più comuni di morte all’interno delle carceri. Secondo statistiche recenti, i casi di suicidio nella popolazione detenuta sono di oltre 13 volte superiori a quelli registrati nella popolazione libera. Accanto a fattori personali, le cause sono da ricercarsi nel fatto che in carcere è più densa la presenza di gruppi vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. “Per questo motivo - si legge nel report - tra le proposte di riforma del regolamento penitenziario presentate a dicembre 2021, Antigone sostiene la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria”. Una proposta riguarda la necessità di dare più attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. “L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale - si spiega nel report - affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società”. Un altro aspetto da potenziare è quello relativo alle attività che i detenuti possono svolgere in carcere. La rieducazione non può essere privilegio di pochi, la formazione e il lavoro dovrebbero essere percorsi più diffusamente accessibili. In Italia il panorama è variegato: ci sono alcune situazioni virtuose dove i detenuti svolgono tutti un’attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o di datori di lavori privati, e poi ci sono istituti in cui le poche attività lavorative presenti sono quelle domestiche, pulizie, cucina, spesa alle dipendenze dell’amministrazione. A Poggioreale, per esempio, lavorano solo 280 detenuti sui 2.190 presenti. La speranza in carcere con l’opera dei cappellani di Luca Liverani Avvenire, 3 maggio 2022 Maria Cartabia usa le parole di Paolo Borsellino che in ogni uomo, anche nel criminale, “cercava la scintilla divina che ha dentro di sé”. Lo fa per ribadire che la pena deve cercare di “riaccendere quella scintilla”. Perché celo chiede l’articolo 27 di quella Costituzione che, assicura la ministra della Giustizia, è “faro, sorgente inesauribile, punto di riferimento per disegnare le mie riforme”. La ministra Cartabia, nonostante una giornata con due consigli dei ministri, trova il tempo per collegarsi in video con Assisi, all’apertura del IV Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale penitenziaria. Una tre giorni che ha per titolo “Cercatori instancabili di ciò che è perduto” e ha visto gli interventi del capo del Dap, Carlo Renoldi, e del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone. A chiudere la giornata la celebrazione a Santa Maria degli Angeli del segretario della Cei, monsignor Stefano Russo. La ministra Cartabia ha parole di “riconoscenza piena di stima verso chi si dedica a una porzione tra le più fragili della nostra società, che merita tutta la nostra attenzione, perché a sua volta tutta la società possa farsi più sicura e più pacificata”. Ricorda la sua prima uscita da ministra ad aprile 2021 per l’intitolazione della casa circondariale di Bergamo a don Fausto Resmini, “il cappellano morto a marzo 2020 di Covid, contratto per non aver mai smesso di “inseguire” i suoi poveri”. Proprio don Resmini, racconta Cartabia, aveva appreso da Rita Borsellino una frase del fratello: “Quando mi trovo davanti qualcuno, prima di tutto cerco l’uomo, con i suoi errori e le sue debolezze, ma che ha dentro di sé una scintilla divina che nessuno, per quanto male faccia, può spegnere. Bisogna trovare quella scintilla - diceva Paolo Borsellino - e soffiarci sopra per ravvivarla, per fargli assumere la dignità”. “Come non scorgere in queste parole - fa notare la ministra - il volto costituzionale della pena, il senso di umanità dell’articolo 27? È una sorgente inesauribile di creatività, la nostra Costituzione: io non ho avuto altro punto di riferimento per le riforme che abbiamo proposto in Parlamento. Il mio faro come ministro è lì. È un testo quasi sacro ai miei occhi”. E i cappellani sono “tra i protagonisti della possibilità che le scintille delle persone che incontrate non si estinguano ma si ravvivino e ardano in un orizzonte di speranza”. Un obiettivo cui tende anche “la grande forza della giustizia riparativa - dice Cartabia - cui stiamo dedicando tanta attenzione nel quadro delle riforme”. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari, ribadisce che “gli operatori della pastorale in carcere si accostano tutti i giorni agli uomini e alle donne che tendono con fiducia le mani per non essere abbandonati, impegnandosi per il loro reinserimento nella società. Tutti hanno il diritto di ricominciare, come ci ricorda il Papa”. Anche Carlo Renoldi, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, riconosce l’importanza “della missione dei cappellani: voi ricordate a noi operatori e alla società che i detenuti sono in primo luogo persone, con bisogni e diritti. Cosa che a volte noi tutti rischiamo di dimenticare. Anche noi cristiani, che non ricordiamo abbastanza che Cristo è stato un detenuto, un condannato a morte, e alla pena più infamante”. Raffaele Cantone scherza: “Lo so che i cappellani vedono il pubblico ministero come il cattivo”. Ma ribadisce la sua convinzione sul dovere di applicare il dettato dell’articolo 27: “La pena non deve mai lasciare intentata la possibilità di dare speranza”. Perfino per l’ergastolo: “Non mi sono scandalizzato quando la Consulta ha messo in discussione l’ergastolo ostativo” anche per il 41bis. “Sono certo che siete già instancabili cercatori di ciò che è perduto - dice monsignor Stefano Russo nell’omelia - con la vostra presenza in carcere, sostenendo fratelli e sorelle che per qualche tempo hanno vissuto “da perduti”, cercando nella loro vita qualcosa di vero e di buono”. Perché, ricorda il segretario della Cei con le parole di Papa Francesco, “nessuna cella è così isolata da escludere il Signore che è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro”. “Nella riforma del Csm noi toghe sotto tiro: perciò scioperiamo” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 maggio 2022 All’assemblea confronto serrato fra politici e magistrati, colpiti dalla 5S Sarti che ha avvertito: “In Senato il testo può peggiorare...”. Riguardo alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario tre al momento sono gli elementi certi: domani il testo approda nella commissione Giustizia del Senato; contro il ddl delega l’assemblea dell’Anm ha deliberato, sabato scorso, lo sciopero; l’attuale consiliatura del Csm termina il 25 settembre e il tempo stringe. L’Associazione magistrati aveva invitato sabato tutti i responsabili Giustizia dei partiti. Si sono presentati la dem Anna Rossomando, Giulia Sarti del M5S, Enrico Costa di Azione, Catello Vitiello di Italia Viva, Giulia Bongiorno della Lega. Ma i loro interventi non sono riusciti a far fare un passo indietro alle toghe che ora, tramite la loro giunta e valutando i lavori parlamentari, dovranno scegliere il giorno giusto per l’astensione. “Con l’assemblea abbiamo parlato ai politici, con l’astensione ci rivolgeremo ai cittadini per spiegare i temi sui quali riteniamo si debba intervenire”, ci ha detto il segretario di Magistratura indipendente Angelo Piraino. “La presenza dei politici”, ha proseguito, “è stata un atto di grande attenzione nei nostri confronti e ho apprezzato che tutti siano intervenuti, anche in modo franco e onesto. È ovvio, però, che alla fine il timore è che ognuno resti ancorato alle proprie posizioni. Anzi, sono rimasto colpito dalle parole dell’onorevole Sarti, che ha detto che il rischio di riaprire il dibattito al Senato è quello di peggiorare la riforma”. La deputata grillina infatti aveva precisato: “Ci sarà il tentativo di introdurre la responsabilità diretta dei magistrati e altre misure che finora siamo riusciti a evitare. Qualcuno punterebbe ad annullare qualsiasi passaggio di funzioni”. Sarti è stata la parlamentare più applaudita, soprattutto quando ha attaccato il collega di Italia Viva Cosimo Ferri: “Resta al suo posto e il Parlamento ha respinto l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni”. Rimasta quasi fino al termine dell’assemblea a tessere relazioni, a differenza dei suoi colleghi che sono andati via prima, ha annuito con la testa quando la giudice Paola Cervo, rivolta all’avvocato (più che alla senatrice) Giulia Bongiorno, ha auspicato: “Voi dovreste scioperare con noi!”. Sarti, impegnando i pentastellati su posizioni di ripensamento rispetto alla riforma appena approvata alla Camera, si è di fatto schierata all’opposizione, come ribadito da una dichiarazione da lei resa nella tarda serata di sabato: “Lo sciopero è legittimo e la magistratura va ascoltata, come abbiamo fatto in tanti all’assemblea nazionale dell’Anm”. Invece Anna Rossomando, precisando che “a noi piaceva il testo Cartabia così come approvato in Consiglio dei ministri”, aveva tentato di rassicurare la platea: “Non vedo il pericolo che voi state partecipando ma faremo molta attenzione e vigileremo su decreti attuativi”. Il che sembra che equivalga a dire: non scioperate, perché poi proviamo ad aggiustare il tiro in fase di decretazione. Ma non è bastato, anche perché ci sono delle norme immediatamente “precettive”, come la separazione delle funzioni e le nuove sanzioni disciplinari che, insieme al fascicolo per la valutazione dei magistrati, sono state definite dal segretario di AreaDg Eugenio Albamonte “tre cannoni puntati su di noi”. Insomma, l’allarme lanciato dalla magistratura è totale, e non s’intravede l’intenzione di recedere. Eppure il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ha bollato come “ingiusto” lo sciopero: “L’Anm è stata ascoltata al ministero ben sette volte, poi il Parlamento decide’, ha detto al Corsera. Ma per Albamonte “una cosa è onorare un protocollo di correttezza istituzionale nel convocare l’Anm, altra cosa è prendere seriamente in considerazione le criticità che vengono sollevate”. E comunque, sottolinea, “noi non siamo mai stati interpellati sul famoso subemendamento relativo al fascicolo di valutazione presentato dopo il Cdm”. Ma lo sciopero si terrà davveroi? “Lo faremo se dalla discussione al Senato non ci sarà un miglioramento o addirittura se il testo verrà peggiorato”. Però fare correttivi al Senato significherebbe rischiare di non votare la nuova consiliatura entro il 25 settembre, visto che in quel caso il testo tornerebbe alla Camera: “Non serve più tempo”, obietta Albamonte, “ma solo la buona volontà, ad esempio prevedendo di tornare a due passaggi di funzione, specificando meglio i termini di delega sul fascicolo di performance e riscrivendo la norma sul disciplinare. Se non si volessero cancellare queste norme, se ne dovrebbero quanto meno eliminare i fattori di possibile intimidazione”. Nessun passo indietro: la partita in Senato è decisiva, per evitare inasprimenti tra potere politico e ordine giudiziario. Chi invece ha giudicato queste argomentazioni “pretestuose” è stato il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, intervenuto pure lui sabato in assemblea: “Non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento più diffusamente proposte sui temi caldi e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni siano altre. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le 20 sentenze creative, ovviamente, non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare, ci chiediamo con franchezza e con amicizia, questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è?”. A cosa punta davvero lo sciopero proclamato dall’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 3 maggio 2022 Nel sindacato dei giudici c’è consapevolezza che sarà difficilissimo riaprire il ddl al Senato: ma per la norma più temuta l’attuazione sarà decisiva. Difficile decifrare del tutto il senso dello sciopero deliberato sabato dall’Anm. È certamente irrealistico che, a questo punto, la legge delega sul Csm possa essere riaperta e stravolta. Una retromarcia di Marta Cartabia ormai è impossibile. In realtà, l’obiettivo dell’Anm è duplice: uno pragmatico, l’altro dal più ampio respiro politico. Nel primo caso, si deve partire da un punto fermo: domani la commissione Giustizia del Senato avvierà l’esame del ddl Cartabia, e nonostante la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno abbia lasciato intravedere spiragli, la possibilità che il testo cambi e torni di nuovo a Montecitorio, con la conseguenza di eleggere il nuovo Csm con le regole vecchie, è inesistente. Anm guarda piuttosto ai decreti attuativi, che il governo proverà ad adottare entro l’autunno prossimo. L’altro motivo della dura risposta deliberata tre giorni fa dall’assemblea dei magistrati è politico in senso ampio: è chiaro che, con la protesta rivolta a un Parlamento e a un governo che si presumono animati da “spirito vendicativo” nei confronti delle toghe, l’Anm prova a ritrovare nell’opinione pubblica quella considerazione smarrita con il cosiddetto caso Palamara. A conferma che una partita molto importante si giocherà, per la riforma del Csm, nella fase attuativa, va citato l’intervento di un altro dei parlamentari intervenuti sabato alla riunione dei magistrati, la responsabile Giustizia del Pd, e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando: “Non vedo il pericolo che voi evocate ma faremo molta attenzione e vigileremo su decreti legislativi”, ha detto. La dirigente dem tende a rassicurare i magistrati, alle cui preoccupazioni il Nazareno è stato in questi mesi più sensibile rispetto ad altri partiti. E il clou delle scelte, nel “secondo tempo” della riforma, riguarderà i criteri per le valutazioni professionali. A cominciare dal “fascicolo”, inserito non nella parte del ddl immediatamente “precettiva” ma in quella che appunto articola la delega al governo (precisamente all’articolo 3, primo comma lettera h del testo approvato a Montecitorio). Va citata in proposito un’altra frase dell’evento di sabato, pronunciata da un altro ospite, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza: “Se pensiamo a un fascicolo con tutti i vostri provvedimenti, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate…”. Ed è così: a gestire il fascicolo non sarà il ministero della Giustizia, che al massimo metterà a disposizione l’infrastruttura telematica per renderlo attuabile. I dati saranno vagliati dal Csm, e innanzitutto dall’Ufficio Studi di Palazzo dei Marescialli. Cioè, da magistrati, almeno in prevalenza. E sempre prevalentemente composte da togati resteranno le commissioni consiliari preposte a valutare le statistiche (e soprattutto le “gravi anomalie”) sull’esito dei provvedimenti. Tanto per avere un’idea, come spiega un ex consigliere magistrato, “sono anni che la quarta commissione del Csm e il “Dog”, il dipartimento per l’Organizzazione giudiziaria di via Arenula, litigano su quel minimo di informazioni già oggi disponibili relativamente alla tenuta dei provvedimenti giudiziari. Il risultato è che finora il ministero non ha potuto neppure associare i dati, oggi accessibili solo Tribunale per Tribunale, ai magistrati autori dei provvedimenti, i cui nomi restano rigorosamente omissati”. È chiaro come i dettagli sull’implementazione del fascicolo siano assai più determinanti della previsione che il Csm, in futuro, li consideri per concedere ai magistrati “scatti di carriera” (le valutazioni di professionalità) e “nomine” (gli incarichi direttivi e semi-direttivi). L’Anm, con lo sciopero annunciato, lancia dunque un’Opa proprio sulla fase attuativa. Nella quale sarà essenziale il ruolo degli uffici ministeriali in cui le toghe restano egemoni, a cominciare dal legislativo. La reazione di Ocf, Anf e Aiga - E addirittura si deve arrivare a uno sciopero, per mantenere l’allerta sulla seconda fase processo legislativo. Enrico Costa, il deputato di Azione assoluto protagonista della riforma, e autore della proposta sul fascicolo, ha notato per primo, nel proprio intervento di sabato, “l’eccessiva drammatizzazione”, analoga a quella proposta dall’Anm nel 2015 di fronte all’ultima riforma della responsabilità civile, che poi in realtà non ha provocato alcun aumento delle condanne per gli errori giudiziari, rimaste rarissime. Di fronte a un atteggiamento del genere, l’avvocatura reagisce con una durezza forse superiore rispetto alla stessa politica. In una nota diffusa ieri, l’Organismo congressuale forense che, si ricorda, è titolato a “deliberare l’astensione dalle udienze” per gli avvocati, riconosce che lo sciopero dell’Anm è “legittimo”. Ma poi, per voce di Vinicio Nardo, componente del coordinamento (oltre che presidente del Coa di Milano), l’Ocf segnala il rischio di “influenzare la funzione legislativa”, con lo “sconfinamento di un ordine dello Stato nelle prerogative di un potere dello Stato”, cioè il “Parlamento”, che “a differenza dell’Anm, ne assume la responsabilità politica”. Il coordinatore di Ocf Sergio Paparo, pur con tutte le “riserve sulla riforma”, apprezza “lo sforzo della politica di riappropriarsi in pieno della prerogativa legislativa” e riconosce “alcuni tratti positivi”. Il percorso legislativo, dice Paparo, dovrà proseguire “affrontando gli aspetti ignorati e quelli traditi dalla riforma: per questo confidiamo nella funzione di stimolo che potrà derivare dalla vittoria dei Sì ai referendum sulla giustizia”. E il coordinatore dell’Organismo rivolge “un appello affinché cada il muro di silenzio” che “avvolge” i quesiti. Intervengono anche due associazioni generaliste dell’avvocatura, l’Anf e l’Aiga. La prima, attraverso il segretario Giampaolo Di Marco, avverte: “Gli avvocati italiani faranno da scudo in difesa della riforma del Csm contro i tentativi della magistratura di difendere le proprie rendite di posizione, in alcuni casi veri e propri privilegi”. La riforma, dice Di Marco, “non è più rinviabile”, e per questo le rappresentanze forensi “sono pronte a ogni iniziativa di mobilitazione qualora i contenuti della riforma dovessero essere snaturati”. L’Aiga esprime a propria volta “grande preoccupazione” per “l’annuncio” dello sciopero: secondo il presidente Francesco Paolo Perchinunno “allarma, in questa fase, l’uso di tale strumento da parte di uno dei tre poteri dello Stato, quello giudiziario, nei confronti di un altro, quello legislativo”. E certo l’idea di una magistratura che punta a modificare parzialmente il corso della riforma, magari in fase attuativa, non poteva suscitare l’entusiasmo degli avvocati. L’Anm e quello sciopero sconcertante proclamato solo dal 9 per cento dei magistrati di Francesco Damato Il Dubbio, 3 maggio 2022 Ciò che più mi sconcerta dello sciopero dei magistrati deliberato dall’assemblea generale del loro sindacato non è il solito dubbio di costituzionalità, sollevato in qualche sede anche in questa circostanza. E neppure la doppia circostanza scelta per deciderlo: alla vigilia della festa del lavoro, quasi per onorarla con uno sciopero sia pure differito, e in vista del passaggio della contestata riforma della giustizia al Senato, come per diffidarlo dall’approvarla nello stesso testo uscito dalla Camera, intromettendosi così gravemente nell’esercizio della sovranità parlamentare derivante da quella del popolo. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, dice il primo articolo della Costituzione dopo avere definito l’Italia “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Neppure mi sconcerta maggiormente, dello sciopero nei tribunali, la bugia con la quale è stato motivato: il mancato “ascolto” dei magistrati da parte del governo proponente la riforma, prima nella versione del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede e poi in quella della ministra e già presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, e della Camera che l’ha approvata non certo in pochi giorni, cioè in fretta e furia. Il che ha permesso alla stessa Camera, in varie sedi e in vari modi, di sentire i rappresentanti dei magistrati sette volte. Che si aggiungono alle quattro ricordate dal ministero della Giustizia a proposito degli incontri avuti dalla guardasigilli più o meno in contemporanea con i rappresentanti dei partiti della vasta maggioranza di governo. Neppure mi sconcerta, infine, l’indifferenza opposta dai dirigenti della rappresentanza sindacale, associativa o comunque vogliamo chiamarla delle toghe alla prudenza consigliata da esponenti assai autorevoli della categoria, in servizio o in pensione, come Nino Di Matteo e Armando Spataro. Che avevano sconsigliato il ricorso allo sciopero, pur dissentendo fortemente nel caso di Di Matteo dalla riforma, perché consapevoli del rischio di fare apparire la difesa di certe posizioni, o semplici abitudini, colpite dalle nuove norme come difesa di privilegi di “casta” avvolti nei principi costituzionali dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Cui è delegato un organo apposito di garanzia costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura, per non parlare della Corte costituzionale e dello stesso capo dello Stato, che presiede il già ricordato Consiglio Superiore. Ciò che mi sconcerta maggiormente di questo sciopero ancora da fissare per “almeno” una giornata, se non ho capito male, è la scarsa rappresentatività di chi lo ha deciso, autorizzato, proclamato, come preferite. E non dalla mattina alla sera, con una fretta che potrebbe giustificare o far comprendere certe cose, ma con tutta la calma sufficiente a organizzare le modalità dell’assemblea generale dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, con tutte le maiuscole dovute, svoltasi all’Angelicum. Almeno di nome. A quest’assemblea - che si è espressa a favore dello sciopero con 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti hanno partecipato 1.400 dei 9.149 iscritti all’Associazione, sempre con la maiuscola, pari quindi al 15 per cento. È come se un Parlamento - l’assemblea generale appunto - fosse stato eletto con l’85 per cento di astensionismo. E a votare a favore dello sciopero è stata una maggioranza pari a meno del 9 per cento della categoria. Non mi sembra che siano numeri consolanti per i magistrati che dovrebbero sentirsi rappresentati nel loro luogo di lavoro, e comunque nell’esercizio delle loro funzioni, da chi parla, grida, batte i pugni e sciopera a nome loro. Se i magistrati sono una casta, come tante volte gli ultimi presidenti della Repubblica hanno ammonito a non sentirsi e tanto meno a essere, i loro rappresentanti sindacali o associativi sono una casta al quadrato, o al cubo. Una castissima, se si potesse dire. Mirenda: “Macché protesta, l’Anm dovrebbe ringraziare il governo” di Paolo Comi Il Riformista, 3 maggio 2022 Il giudice di sorveglianza: “La cancellazione del sorteggio è uno scampato pericolo per le correnti: ha prevalso il solito asse politica-magistratura che spadroneggia nelle procure “calde”. “Ho già preparato il cartello da mettere davanti alla porta del mio ufficio. C’è scritto: ‘Questo giudice non sciopera’. Voglio chi sia ben chiaro a tutti, avvocati e cittadini, che non condivido minimamente la protesta dell’Anm”. A dirlo è il giudice Andrea Mirenda, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di Verona. Dottor Mirenda, allora non sciopera? Ma no, ci mancherebbe altro. L’Anm è preoccupata dei possibili effetti della riforma Cartabia... Guardi, l’Anm, a cui non sono più iscritto, dovrebbe fare solo una cosa: ringraziare il governo per lo scampato pericolo. A cosa si riferisce? È sparito il sorteggio ‘temperato’ per l’elezione dei componenti togati del Csm. Era l’unica riforma che andava fatta e che avrebbe tolto una volta per tutte il potere alle correnti della magistratura. I politici hanno avuto paura di mettersi contro i magistrati? Non so se abbiamo avuto paura o se ci sia stato un accordo. Il risultato finale è il che il solito asse politica-magistratura, quello che spadroneggia nelle procure ‘calde’, ha avuto la meglio e la proposta del sorteggio è stata ritirata. Torniamo allo sciopero... Per il sottoscritto si tratta di uno sciopero ‘pro forma’. Non ci sono minacce esterne. Io non vedo tutti questi ‘pericoli’. I suoi colleghi, invece, dicono che con questa riforma trionferà il ‘conformismo’ giudiziario. I giudici, in altre parole, saranno terrorizzati dallo scrivere una sentenza che possa andare contro l’orientamento prevalente della Cassazione, rischiando così una sanzione perché potrà essere ribaltata nei successivi gradi di giudizio... Ma quando mai. Voglio vedere chi avrà il coraggio di aprire un procedimento disciplinare ad un giudice che ha redatto una sentenza ben motivata e ben scritta. Anche se va contro quello che dice la Cassazione. Siamo seri, per favore. Non ha paura delle pagelle? Altra norma ridicola. Abbiamo capito che lei non si sente minacciato ed in pericolo... No, la minaccia al lavoro del magistrato esiste ed è quella delle correnti. Sono loro che gli creano problemi sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza. Lei aveva firmato per i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega... Si, e lo rivendico. Firmai perché fin da subito avevo capito che la riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia, e che doveva essere ‘epocale’, era invece il nulla assoluto. Una riforma che non avrebbe cambiato di una virgola la situazione attuale, continuando a lasciare il potere alle correnti all’interno del Csm per le nomine e gli incarichi. Ed infatti così è successo. Perché da magistrato ha condiviso il quesito sulla separazione delle funzioni? La realtà italiana non esiste in nessun altro Paese europeo. Siamo un caso unico. Ritengo che sia necessario un processo riformatore che ci avvicini agli altri Stati, da realizzarsi con una modifica alla Costituzione che preveda un pm soggetto soltanto alle leggi e pienamente indipendente. All’assemblea dell’Anm dello scorso fine settimana, invece, hanno rivendicato la comune “cultura giurisdizionale” fra pm e giudici... Io dico da sempre che è un alibi, un inganno. Se i pm saranno indipendenti e soggetti solo alla legge non vedo quali problemi ci possano essere se si ‘staccano’ dai giudici. I pm sono stati quelli che hanno spinto di più per lo sciopero... I pm da sempre hanno un ruolo di primo piano nella vita associativa della magistratura. Non è un caso che il presidente dell’Anm sia quasi sempre un pm e non un giudice. E questo anche se numericamente i pm sono molto meno rispetto ai giudici. Oltre ai correnti, sotto il profilo normativo, che problemi ha la magistratura? La ‘gerarchizzazione’. I magistrati secondo la Costituzione si distinguono solo per funzioni. Ma oggi non è così. Nelle procure c’è il procuratore che ‘comanda’ e i pm che sono sotto di lui. La gerarchizzazione è stata peraltro portata avanti dalla sinistra giudiziaria che per anni ne ha beneficiato. Il rimedio antigerachico è la rotazione degli incarichi direttivi e semi direttivi. E un rimedio rispettoso della dignità dei colleghi. E lo dice uno che è stato iscritto a Magistratura democratica e ha sempre avuto un approccio progressista e riformista. Il silenzio dell’informazione trucca la partita referendaria di Iuri Maria Prado Il Riformista, 3 maggio 2022 Neppure un invito all’astensione. Per raggiungere l’obiettivo della diserzione delle urne, pratica prescelta dagli anti riformatori, si confida nel fatto che i cittadini nemmeno sappiano di poter votare. Ricordo una campagna referendaria della fine del secolo scorso (credo fosse il 1997) che si concluse, come tante altre, con il triste nulla di fatto dovuto alla mancanza di quorum. E ricordo il mio disappunto del giorno dopo nel leggere un articolo di Piero Sansonetti il quale, sull’Unità, rivendicò quel risultato come una vittoria. Disappunto perché il sistema dell’informazione, complessivamente avverso ai referendum (anche quella volta c’erano quesiti in materia di giustizia), non lavorò per convincere i cittadini a votare contro, né ancora per indurli a non votare, ma per far sì che essi nemmeno sapessero su cosa si votasse: e persino che si votasse. In quell’articolo, il direttore di questo giornale fu generoso e anche delicato con Marco Pannella, che aveva promosso quell’iniziativa referendaria, e gli riconobbe il merito di aver condotto una battaglia importante per quanto, a giudizio di Sansonetti, sbagliata. Ma allora come oggi, purtroppo, la battaglia per l’affermazione del diritto al referendum non si combatte neppure sulle ragioni contrapposte dei “no” e dei “sì”, ma sulla stessa possibilità che i referendum si tengano in condizioni minime di accettabilità democratica: e cioè con i cittadini decentemente informati del fatto che possono esprimersi in un modo o nell’altro. Su questi referendum in materia di giustizia, a proposito dei quali i cittadini sono chiamati (sarebbero chiamati, se qualcuno glielo facesse sapere) a esprimersi tra qualche settimana, si sta consumando la pratica tradizionalmente prescelta dagli anti-riformatori, e di cui si avvale il potere esposto a pericolo (questo potere è oggi rappresentato dalla magistratura), per mandarli in vacca: vale a dire la diserzione delle urne. Un obiettivo cui questa volta non si tende neppure in forza di un invito all’astensione, come quello fatto da Silvio Berlusconi quando sollecitò il suo popolo a non votare per i “referendum comunisti” (anche in quel caso c’erano quesiti in materia di giustizia), ma confidando nel silenzio dell’informazione e nella inevitabile trascuratezza che esso determina presso i cittadini. Ha ragione chi dice che questi referendum sono contro la magistratura. Sono contro la magistratura com’è, e in favore di come dovrebbe essere. E una magistratura diversa non accetterebbe di “vincere” una partita truccata: col popolo italiano - in nome del quale giudica e imprigiona - privato del diritto di conoscere i propri diritti. La sfida per una giustizia giusta di Lorenzo Cinquepalmi Il Riformista, 3 maggio 2022 La stagione a cui ci affacciamo costituisce, per l’amministrazione della Giustizia e per l’idea stessa di Giustizia, uno snodo di grande importanza. La mentalità giustizialista che ha intriso l’opinione pubblica, a partire dai primi anni 90 del secolo passato, pare ancora sopravvivere, anche se con meno furia, nell’istinto di una parte rilevante dei nostri concittadini, ma la sua sopravvivenza si mostra ogni giorno più stentata, più irrazionale, più rituale e abituale; in una parola: più debole. Il sintomo del suo avariarsi è nel progressivo, inarrestabile, declino dell’indice di fiducia popolare nella magistratura, passato dalle percentuali bulgare degli anni di “mani pulite” a un valore imbarazzante: solo il 39% dei cittadini dichiara di conservare fiducia nei magistrati. La percezione che si ha oggi è che la stagione giustizialista abbia generato dei vertici, nella magistratura, altrettanto autoreferenziali e sordi alla società contemporanea di quelli che occupavano le poltrone degli incarichi direttivi giudiziari, e dell’ANM, nel dopoguerra post-fascista. Se l’ultimo trentennio ha fatto della magistratura una casta, i principali artifici del sistema si sono, in essa, costituiti come una casta nella casta. Il complesso, normativo e organizzativo, che essi hanno saputo strutturare, garantisce loro il monopolio delle caselle nevralgiche del sistema giudiziario, trasformando l’ordinamento in una specie di fattoria degli animali, in cui le aspettative di ciascuno degli appartenenti alla comunità dipende dalla sua conformità alla dottrina e alla pratica imposti dalla supercasta. Oggi, si realizzano le condizioni per cominciare a smantellare quella sovrastruttura normativa e organizzativa che ha garantito alla supercasta di gestire in modo opaco la distribuzione degli incarichi, di assicurare ai suoi sodali l’impunità per le distorsioni del fare giustizia, delle quali la gente ha una percezione sempre maggiore, di esercitare un ferreo potere di condizionamento di ogni altra autorità. Per quanto timide, e deboli, le iniziative politiche in campo, dai referendum alle riforme promosse dalla Ministra della Giustizia, sono lì a dimostrare che, da oggi, da ieri, la condotta della magistratura può essere criticata, la sua predominanza messa in discussione. La sua presunzione di infallibilità, disconosciuta e smentita. La sua intoccabilità negata. Chi vuole cimentarsi in questo compito, essenziale per la libertà e per i diritti di tutte le componenti della società, dovrà sfuggire alla tentazione di condurre questa contesa contro la supercasta come se fosse una contesa con tutta la magistratura, perché anche oggi, come settant’anni fa, alla fine di una stagione di forte esercizio di un potere pervasivo sulla società, nella stessa comunità dei magistrati si può sviluppare una nuova consapevolezza, un rifiuto dell’autoreferenzialità, un distacco dalla superbia. Allora, chi ha della politica un’idea alta, deve cercare all’interno della comunità dei magistrati coloro che hanno della Giustizia un’idea altrettanto alta. E avviarsi, con loro, sulla strada del domani. Regeni, l’ultima carta dei pm sul processo: “La Cassazione dica se si deve fare o no” di Giuliano Foschini La Repubblica, 3 maggio 2022 La procura di Roma fa ricorso contro lo stop al procedimento per l’omicidio dello studente italiano al Cairo: “Imputati alla sbarra anche se l’Egitto non fornisce i loro domicili”. Per i magistrati i quattro imputati sono “finti inconsapevoli”. Sono passati sei anni e quattro mesi. Abbiamo visto decine di depistaggi, ascoltato centinaia di bugie e migliaia di promesse. Abbiamo i nomi di quattro presunti assassini. Ma ancora nessuna verità. Per questo la Procura di Roma ha deciso di chiedere una parola definitiva al più alto organo della giustizia italiana, la Corte di Cassazione, per sapere se il processo sul sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni si potrà tenere. Oppure no. Se, come ritiene la procura e il gup del tribunale di Roma, esistono i presupposti per mandare alla sbarra i quattro esponenti del servizio segreto civile egiziano. O se, invece, come ha sostenuto la Corte d’Assise, il fatto che l’Egitto non abbia comunicato gli indirizzi degli imputati, impedendo così la notifica degli atti, sia un presupposto insuperabile per non far cominciare il processo. “Una posizione illogica” ha spiegato la Procura, nel ricorso presentato dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco che da sei anni indaga sulla morte del ricercatore italiano, nel ricorso presentato ieri in Cassazione. L’appello si basa proprio su una sentenza delle Sezioni Unite relativo ai cosiddetti “finti inconsapevoli”. In pratica, secondo gli inquirenti capitolini, gli uomini dei servizi egiziani sono a conoscenza delle imputazioni che gli rivolgono i pm italiani. Sarebbero, appunto, dei “finti inconsapevoli”. Per questo motivo, questa la tesi, i quattro possono essere processati senza che vengano negati loro i diritti del “giusto processo”. Di più: la Procura, citando lo stesso provvedimento della Corte d’Assise, dice che “vi è una ragionevole certezza - si legge - che i quattro imputati egiziani hanno conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a loro carico avente ad oggetto gravi reati commessi in danno a Regeni”. Eppure questo, hanno detto i giudici, non basta. La Cassazione deciderà in autunno, forse proprio a ridosso della nuova udienza fissata dal gup per il 10 ottobre. E sarà un tutto per tutto: è chiaro, ormai, che l’Egitto non ha alcuna intenzione di collaborare. Repubblica ha pubblicato nelle scorse settimane le fotografie di tre dei quattro imputati, depositate agli atti in un’informativa dei carabinieri del Ros, e la famiglia Regeni ha avviato, con il loro avvocato, Alessandra Ballerini, una petizione nella speranza di ottenere informazioni sui loro domicili. Ma la strada è stretta: il governo sta ragionando sulla possibilità di un provvedimento legislativo per uscire dall’impasse e permettere, in casi come questi (quando cioè gli stati stranieri non collaborano) di far tenere comunque i processi. Ma sarà la Cassazione a dire, probabilmente, la parola definitiva sul diritto di avere o meno verità e giustizia per la morte di Giulio Regeni. Napoli. Muore senza rivedere la moglie detenuta: negata anche un’ultima videochiamata casertanews.it, 3 maggio 2022 È la triste storia di Lorenzo Rapicano, 62enne napoletano, che non è riuscito a vedere per l’ultima volta l’amore della sua vita, Rosaria Liguori. Una storia triste venuta alla ribalta grazie al garante per i diritti dei detenuti per la provincia di Napoli Pietro Ioia. “Sono stato a casa di quest’uomo agli arresti domiciliari, mi pregava che voleva vedere la moglie detenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, già aveva avuto un rifiuto, alla fine è morto senza poterla vedere”, denuncia il garante. Lorenzo e Rosaria sono stati arrestati insieme. Lui finito a Rebibbia, lei al carcere di Lecce. Poi le condizioni di salute di Lorenzo, affetto da un tumore, lo hanno portato agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Napoli. Qualche mese fa Rosaria è stata dunque avvicinata a Santa Maria Capua Vetere, almeno per poter effettuare i colloqui. Le condizioni di salute di Repicano sono precipitate in breve tempo. Aveva solo un desiderio: rivedere la moglie. Una richiesta che ha trovato l’opposizione della magistratura che ha rifiutato il permesso a Rosaria, impedendole di allontanarsi dal penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. “Non abbiamo potuto fare neanche una videochiamata. Non abbiamo fatto in tempo a chiederlo”, conferma la garante per i detenuti della provincia di Caserta Emanuela Belcuore. Lorenzo così è morto senza poter rivedere sua moglie. “Mi sembra che la Giustizia italiana non conosca la parola ‘pietà’, è stata cancellata - commenta Ioia. Questa non è giustizia, è vendetta”. Ora è corsa contro il tempo per poter permettere a Rosaria di partecipare ai funerali del marito, in programma nel pomeriggio di oggi, lunedì 2 maggio. Messina. Ex detenuto bussa alla porta del carcere: “Non ho nessuno, fatemi rientrare” di Fabrizio Bertè La Repubblica, 3 maggio 2022 La storia di solitudine e di miseria sociale di un pregiudicato di 38 anni. Un ex detenuto, per ben due volte, nella notte tra venerdì e sabato, ha “bussato” con insistenza alle porte della casa circondariale di Gazzi, a Messina, chiedendo di poter tornare dietro le sbarre, perché “spaventato” dal mondo esterno. Un uomo libero, di 38 anni, che non aveva alcuna pena da scontare, e non doveva neanche costituirsi. “Una storia tristissima. E purtroppo non è stato l’unico caso”, dicono dalla casa circondariale di Messina. L’uomo, in passato, era stato arrestato. Dopo alcuni mesi di detenzione era stato scarcerato. Ma solo in carcere - ha riferito - si sentiva compreso, curato e sostenuto, sia moralmente, che fisicamente. “Una terribile storia di miseria sociale - sottolinea l’associazione Antigone, da sempre in prima linea per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale - di una persona che trova conforto in un universo privativo della libertà. Perché proprio lì, in carcere, vengono soddisfatti bisogni primari, quali il diritto all’alimentazione, che fuori, purtroppo, non sempre vengono soddisfatti”. L’episodio si è verificato nella tarda serata di venerdì, la prima volta intorno alle 23.30, quando l’uomo si è presentato a Gazzi chiedendo di essere arrestato. In un primo momento, all’agente di guardia è sembrato che si trattasse di una persona che aveva intenzione di costituirsi, ma quando ha capito che non era così, ha risposto molto educatamente, ma quasi sorpreso, che non era possibile accettare la sua richiesta. L’uomo, però, non si è arreso: ha spiegato all’agente che voleva tornare subito in carcere, perché fuori non poteva neanche permettersi di mangiare, non aveva un posto dove vivere, non aveva nessun punto di riferimento. E ha ribadito che in carcere era stato trattato sempre benissimo. È poi tornato qualche ora dopo, verso l’una e mezza di notte, chiedendo di essere accettato, dicendo che fuori non ce l’avrebbe fatta, e chiedendo anche di chiamare la direttrice del carcere, Angela Sciavicco. Alla fine, suo malgrado, l’uomo è andato via, rassegnato, e in preda alla disperazione. L’episodio è stato comunque segnalato ai carabinieri. “Purtroppo - ribadiscono dalla casa circondariale di Gazzi - frequentemente, abbiamo assistito a questi episodi. Con tantissime persone, che, una volta libere, preferirebbero privarsi della libertà conquistata per tornare in carcere. Per paura del mondo esterno, ma soprattutto per mancanza di punti di riferimento, e più in generale per paura della vita. Una vicenda tristissima, una sconfitta della società”. Bologna. Per il carcere minorile “fase molto critica” zic.it, 3 maggio 2022 Situazione “conseguente alla decisione dell’amministrazione della giustizia minorile di aumentare il numero di giovani reclusi”, affermano la Garante regionale per i minori e il Garante regionale dei detenuti, elencando numerose criticità riferite alla struttura di via del Pratello. Nuovo allarme sul carcere minorile del Pratello: si trova in una “fase molto critica conseguente alla decisione dell’amministrazione della giustizia minorile di aumentare il numero di giovani reclusi, spingendo la capienza della struttura fino a 44 persone”, affermano la Garante regionale per i minori e il Garante regionale dei detenuti, mettendo in evidenza che all’interno dell’istituto, dove attualmente “sono presenti 33 persone, di cui otto minorenni, non sono state incrementate, in proporzione, le dotazioni di personale educativo”, senza contare che “la struttura non permette una qualunque flessibilità nell’adattamento degli spazi destinati sia agli ambienti educativi e formativi, sia alla socialità”. Secondo i Garanti, pur “apprezzando gli sforzi dei vertici del penitenziario”, emerge “la marcata matrice detentiva nell’organizzazione della giornata di questi minorenni, che si interfacciano con docenti, formatori e volontari solo per sei ore al giorno”. Inoltre, prosegue il rapporto, “risulta insufficiente l’utilizzo di mediatori linguistico culturali, attivo per lo più solo grazie a un progetto del Comune di Bologna”, mentre “sulla frazione dei minorenni si concentrano le maggiori criticità, con due ragazzi che nell’ultimo mese hanno tentato il suicidio”. Milano. Da ex detenuto a startupper con il progetto “41 Bus” di Andrea Siravo La Stampa, 3 maggio 2022 Una navetta per aiutare i parenti con le visite in carcere. “Quando la famiglia lascia il carcere per tutti i detenuti è un colpo al cuore, è come se ti arrestassero di nuovo”. È stata questa la molla dietro l’iniziativa “41 Bus”, un servizio navetta rivolto a parenti per facilitare i collegamenti tra le stazioni e gli aeroporti con le case di reclusione italiane. Il suo ideatore è Bruno Palamara, 30 anni, sposato con tre bambini, dal 2016 al 2020 è stato in carcere: prima a Busto Arsizio e poi Voghera. Ed è proprio nella struttura in provincia di Pavia che si è accesa una lampadina. “L’unica cosa che non mancano in carcere sono i problemi. E per un detenuto la mancanza dei familiari è il primo, è quello che provoca maggiore sofferenza”, ha spiegato Palamara. “In cella ho iniziato a studiare molti libri di economia. Il succo di ognuno era sempre lo stesso: “Individua un problema e se trovi una soluzione, hai creato un business”“. La criticità era la distanza tra le città e gli istituti. “Sono situati fuori dai centri urbani e spesso volentieri i trasporti pubblici sono scarsi e insufficienti. Raggiungerli è un’impresa. Andare dalla stazione Centrale a Opera, ad esempio, in taxi è improponibile (tra andata e ritorno si spendono 100 euro)”. In aiuto dei famigliari ci penserà da giugno il progetto pilota che partirà su Opera e Voghera. Il “41 Bus” ha una piattaforma digitale sulla quale si può organizzare l’intero viaggio: da casa fino al carcere di destinazione. Dal colloquio, al viaggio in aereo o treno e biglietto della navetta a un prezzo accessibile. Sotto i venti euro per andata e ritorno e anche pacchetti per famiglie. L’iniziativa prevede di ricavare il 5-6% di commissioni sulle tratte dei trasporti grazie ad accordi con le piattaforme di vendita dei biglietti online e di ottenere dal 20% al 60% di ritorno su pulman di proprietà o in leasing. “Nel nostro progetto vogliamo fare lavorare anche fin da subito i famigliari dei detenuti, ma l’idea se ci verrà data la possibilità è di inserire anche quelli in regime di semilibertà”. Due anni fa quando Palamara è uscito dal carcere ha esposto la sua idea all’agenzia Isola di Comunicazione che sviluppa idee imprenditoriali. “Loro sono rimasti molto sorpresi per le potenzialità del progetto ma anche per l’inattesa puntualità delle valutazioni che aveva già fatto Bruno. Le difficoltà non lo hanno scoraggiato, la realizzazione di questo sogno per lui era un obiettivo irrinunciabile, necessario a dare un senso agli anni in carcere. Questa ostinata determinazione è il lato più romantico di questa storia”, ha raccontato la sua legale Beatrice Saldarini. C’è anche un aspetto che Palamara definisce di “leggerezza”: “Il nostro motto è “Andare in carcere non è mai stato così facile” e anche il nome, ‘41 Bus’ rientra in questa filosofia, con una vocale che fa tutta la differenza del mondo”. La speranza che “41 Bus” possa essere un esempio per le istituzioni e la comunità carceraria. “Se si è in grado di dare una una seconda possibilità a un detenuto - ha precisato Palamara - possono nascere anche delle cose belle”. Milano. Ero finito in carcere, ora aiuto le persone disabili di Khalid Boudlal Corriere della Sera, 3 maggio 2022 L’arrivo dal Marocco a 14 anni, l’impatto col crimine, la svolta. “Decisivo è stato l’incontro con persone che hanno creduto in me”. La detenzione trasformata in “percorso”, storia in prima persona. Mi chiamo Khalid, ho 38 anni, sono di origini marocchine, vivo in Italia da molto tempo. Scrivo in fretta e mi scuso, tra poco devo uscire e alle otto bisogna che io sia già operativo sul furgone. Altre mattine, quando il furgone è impegnato, uso la macchina e faccio più viaggi. Sono fortunato perché ho la patente marocchina e non potevano ritirarmela, a molti altri con storie simili alla mia viene tolta. Ho sei persone con disabilità di vario tipo che mi aspettano ogni giorno: la mattina vado a prenderle a casa, le accompagno ai centri diurni che frequentano, al pomeriggio faccio il giro opposto. Non per tutte in realtà, alcune le riportano a casa i familiari, o altri operatori. In mezzo, nella parte centrale della giornata, come ogni anno a partire da questa stagione e fino a novembre mi cambio divisa e indosso quella da operatore del verde per occuparmi dei giardini del Comune qui a Cassano Magnago, in provincia di Varese. È qui infatti che si trova la comunità Emmanuel in cui vivo attualmente. E in cui dovrò stare ancora per un po’. Non molto in verità, diciamo che ormai vedo il traguardo. Ma arrivarci è stata una strada lunga e avrei molte persone da ringraziare per questa seconda vita che oggi è la mia. Per carità, mi ci sono impegnato anche io. Ci volevano tutte e due le cose: non ce l’avrei fatta senza di loro, non ce l’avrei fatta senza di me. Sono arrivato in Italia quando di anni ne avevo quattordici. Ho cominciato quasi da subito a spacciare e a mettermi nei guai. Per molto tempo ho vissuto in un mondo fatto di situazioni e persone irregolari, di nascondigli, di paura di essere arrestato. Cosa che infatti a un certo punto è successa. E all’inizio, quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo e pensavo cosa metterci dentro, le prime immagini che mi sono tornate in mente dopo tanti anni sono quelle del mio impatto col carcere. Un mondo di restrizioni e di sofferenza che ora mi sembra lontano, ma che ricordo molto bene. Non è di questo che voglio parlare però. Voglio parlare di quel che è venuto dopo e che mi ha fatto arrivare qui. Voglio dire una cosa che ho capito solo in seguito, guardandola a ritroso, e cioè che il carcere mi ha fatto incontrare persone che forse fuori non avrei mai incontrato. O magari sì, chi lo sa. Ma io le ho incontrate là, a San Vittore, nel reparto La Nave. E quella per me è stata la svolta. Una équipe di psicologhe, operatrici e operatori, volontari. Persone che hanno creduto in me, mi hanno ascoltato, aiutato non solo a tirarmi su nei momenti difficili ma soprattutto a capire cosa volevo fare della mia vita. In quel reparto ho imparato a scrivere articoli per il mensile che costruivamo ogni mercoledì, ho cantato in un coro. A San Vittore ho incontrato papa Francesco che ha pranzato seduto tra noi e ha diviso la sua cotoletta con me, che tra l’altro sono musulmano. Ho conosciuto Marta Cartabia, quando non era ancora ministra ed era venuta a trovarci. E così un po’ per volta, insieme, e questa parola la ripeto, insieme, perché nulla si può fare senza aiuto di qualcuno da una parte e volontà personale dall’altra, mi sono ritrovato dentro un percorso. Non facile, per niente. Un percorso di accettazione, comprensione, e poi stravolgimento totale di quelli che erano i miei abituali comportamenti di prima. Non sono io a essere cambiato, io sono sempre me stesso. Ma sono cambiate le cose che mi piacciono, che faccio, che penso. E il percorso è proseguito fuori, quando mi è stato proposto di andare avanti sulla strada della cura e del reinserimento attraverso una comunità, quella che mi ha accettato e in cui mi trovo tuttora. Pazienza e obiettivi precisi, questa è la via. E ora ho un lavoro, amicizie sane. Porto la mia testimonianza nelle scuole per evitare che altri ragazzi facciano gli stessi errori che avevo fatto io alla loro età. Certo, il timore di ricadere è sempre presente: esserci passato mi ha insegnato che la debolezza è sempre in agguato. Mai dare per scontato niente. Ma so anche di essere più forte, determinato, soprattutto consapevole di potere chiedere aiuto e che saperlo chiedere nei momenti difficili della vita è la prova di forza più grande che puoi dare. Ah, dimenticavo la cosa più importante. Gioco a calcio nella squadra del San Carlo. Quest’anno per la prima volta non sono stato capocannoniere e questo un po’ mi brucia... ma siamo arrivati secondi, comunque promossi. E l’ultimo mese, giocato in pieno Ramadan, è stato durissimo: arrivare a fine partita e non poter neanche bere... ma è un esercizio di volontà anche quello. Tutto serve. Torino. Dopo una petizione consegnato nuovo frigorifero ai detenuti delle Vallette torinoggi.it, 3 maggio 2022 I reclusi della 9/a sezione del blocco B lo hanno ricevuto dalla consigliera regionale Francesca Frediani e da alcune delle “Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso”. I detenuti della 9/a sezione del blocco B del carcere di Torino hanno un nuovo frigorifero per conservare gli alimenti freschi. A consegnare questo pomeriggio l’elettrodomestico, che i reclusi avevano chiesto alcune settimane fa attraverso una petizione, sono state la consigliera regionale del Movimento 4 Ottobre Francesca Frediani e alcune delle ‘Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso’. “Questo è un inizio - ha spiegato Frediani - ci attiveremo per fare sì che tutto il carcere venga dotato del numero di frigoriferi necessari. Ho avuto l’occasione di parlare con alcuni detenuti che hanno esposto altre criticità da affrontare e continueremo ad ascoltare le voci di chi deve trascorrere un periodo di privazione della libertà che non deve trasformarsi in privazione della dignità”. Napoli. Progetto “Al di là del muro”: consegnati attestati di merito a tre detenuti Il Mattino, 3 maggio 2022 Durante una piccola ma emozionante cerimonia, il garante comunale dei detenuti Pietro Ioia ha consegnato a tre detenuti gli attestati di frequenza e di benemerito che hanno ottenuto in virtù dell’impegno dimostrato durante il corso “Lettere amore e libertà”. All’evento erano presenti anche Rosa Rubino e Pasquale Ferro, che, insieme a Carmen Ferrara, Emilia D’Urso e Concetta Sorrentino - a cui si aggiungono Daniela Lourdes Falanga e Antonello Sannino - costituiscono “Al di là del muro”, il gruppo di sostegno e di ascolto dei detenuti. “Al di là del muro” è un protocollo di intesa tra la Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale e l’associazione Antinoo Arcigay Napoli, con Centro di Ateneo SINAPSI Università Federico II di Napoli e Fondazione Genere Identità e Cultura, volto ad ascoltare e a supportare i detenuti omosessuali e bisessuali, nonché le detenute trans. L’obiettivo del progetto è quello di far sì che i ragazzi esternino le loro difficoltà, ma anche i loro sogni e progetti futuri, attraverso la scrittura e il disegno. Questo è il compito del gruppo di operator? appassionat? che, ognun? con un ruolo specifico, seguono ? detenut? nel loro percorso, potendo beneficiare del supporto costante del professor Paolo Valerio, partner del progetto e Presidente della Fondazione Genere Identità e Cultura. “La scrittura è una forma di terapia, un’arte insita in ogni essere umano” - afferma Pasquale Ferro, ribadendo l’importanza che rivestono comunicazione e creatività per la propria crescita personale e, nel caso di specie, per ? ragazz? di Poggioreale. Creatività, la loro, che viene celebrata durante le piccole mostre organizzate nell’ambito del progetto, in cui sono esposti i loro lavoretti, i loro disegni e le loro lettere. All’ideazione degli eventi e dei progetti collaborano anche ex detenut? che si sono reinserit? nella società. Molt? di loro oggi hanno un? partner, un lavoro, ma in ogni caso non sono lasciat? sol? neanche dopo la detenzione, e il loro contributo è prezioso. Per quanto riguarda il futuro, il gruppo “Al di là del muro” sta creando un corso di “Mise en espace”, fiducioso dell’entusiasmo con cui questa e le altre iniziative saranno accolte all’interno del carcere. Napoli. “Stabat mater”, un documentario sul carcere Corriere del Mezzogiorno, 3 maggio 2022 Oggi alle 19 nella Galleria Toledo (via Concezione a Montelcavario 34) si terranno la proiezione del cortometraggio “Stabat Mater”, girato dal regista Giuseppe Tesi con gli attori Melania Giglio e Giuseppe Sartori e con la partecipazione dei detenuti della Casa Circondariale “Santa Caterina” di Pistoia, e la presentazione del volume “Senza pregiudizio. Dove il cinema si fa riscatto” (Edizioni Metilene 2021), ispirato al percorso cinematografico affrontato all’interno della struttura carceraria. I dialoghi con i detenuti - Il volume - documento ripercorre la genesi di questa produzione cinematografica, a partire dall’approccio con gli stessi detenuti, ai quali in prima battuta sono state sottoposte tutta una serie di domande. “Ogni vita — si legge — porta con sé un lutto, dove lutto non è solo cessazione fisica e biologica dell’esistenza, ma è anche un’idea privata di morte, quella che ti sfiora quando ti piacerebbe avere una famiglia che ti ama e non ce l’hai, quando un padre violento scarica su di te, bambino, la sua rabbia, quando alla fine le giravolte imprevedibili della vita ti confinano dietro le sbarre, in un buco di disperazione ancora più grande. Perché alla fine la carcerazione è il vero lutto”. Le voci dei relatori - Terminata la visione del cortometraggio, si avvicenderanno le voci dei relatori: Valentina Stella, che nel film canta la canzone “Indifferentemente” ; Gianluca Guida, direttore del carcere minorile di Nisida, che interverrà con un approfondimento sul tema della giustizia minorile; Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli, che affronterà la tematica “privazione della libertà”; modererà Viviana Lanza, giornalista de “Il Riformista”. L’evento si chiuderà intorno alle ore 20:15 con le conclusioni del regista Giuseppe Tesi. Trieste. Detenuti attori per un giorno, così il carcere si fa teatro di Lorenzo Degrassi Il Piccolo, 3 maggio 2022 L’iniziativa del Rossetti con compagnia Fierascena, Enaip e casa circondariale “Ernesto Mari” Alcuni ospiti del Coroneo si esibiranno davanti al pubblico: la partecipazione è aperta e gratuita. Portare il teatro in carcere come forma di integrazione e riscatto sociale per i suoi ospiti. È il progetto portato avanti dal teatro Rossetti in collaborazione con la compagnia teatrale Fierascena, l’Enaip e la casa circondariale “Ernesto Mari” di via Coroneo. Lo spettacolo - dal titolo “Questo Immenso. Dialoghi con il tempo e con il cuore umano” - si svolgerà giovedì 26 e venerdì 27 maggio a partire dalle 15 all’interno della stessa casa circondariale di via Coroneo. Si tratta di uno spettacolo, aperto a tutti, che nasce quale performance conclusiva del corso di formazione alla pratica teatrale “Rinascere dalle ceneri” promosso per l’appunto dall’Enaip Fvg e dal carcere del Coroneo assieme alla compagnia Fierascena con cui lo Stabile del Friuli Venezia Giulia ha aperto, come detto, una collaborazione. È pure un “esperimento” gratuito, per chi volesse assistervi. Per farlo, però, bisogna prenotare i biglietti a partire da oggi fino al prossimo martedì 10 maggio alla biglietteria del Rossetti. Ciò per permettere alla casa circondariale di effettuare i necessari adempimenti di sicurezza, motivo per il quale si renderà pure necessario - contestualmente alla richiesta di prenotazione del posto - lasciare il proprio nome, un recapito telefonico e una fotocopia del documento di identità. Qualche giorno prima dello spettacolo chi si sarà prenotato riceverà la conferma del posto assegnato assieme alle informazioni per accedere alla casa circondariale di via Coroneo. “L’obiettivo è quello di portare il teatro fuori dai soliti schemi”, spiega il direttore del Rossetti Paolo Valerio: “Inoltre, assistere a quest’esperienza da semplice spettatore è stata per me davvero toccante. Lo spettacolo con i giovani detenuti vive di una semplicità e di un contenuto che ne mettono in luce la qualità. Partendo da un lavoro d’improvvisazione, sviluppano una drammaturgia molto legata al tema del tempo, così complesso e drammatico nella dimensione del carcere. Ritengo fondamentale che lo Stabile del Fvg, come peraltro fa già da molti anni, dedichi forte e crescente attenzione ai temi sociali e civili e quindi in modo particolare a quelle persone che attraverso il teatro possono trovare una forma di rinascita nell’arte”. La partnership avviata dal Rossetti assieme all’Enaip e al carcere cittadino rientra nel solco di una progettualità che si immagina non sporadica, ma articolata, nella convinzione che il linguaggio del teatro possa essere di grande stimolo e occasione di benessere nei contesti di fragilità ed emergenza. “Questo immenso. Dialoghi con il tempo e con il cuore umano” è una breve performance che racconta in particolare le risonanze tra il tempo “dentro” e quello “fuori”, che racconta il tempo che passa, quello sospeso, desiderato e a volte anche temuto, e che forse, per un attimo, ferma il tempo stesso e lo fa riposare. È diretto da Elisa Menon, fondatrice della compagnia Fierascena, assieme a Giulia Possamai e ad alcuni ospiti della casa circondariale, che metteranno così a frutto gli insegnamenti della formazione teatrale ricevuta. Eventuali informazioni sono disponibili anche sul sito www.ilrossetti.it e al numero 040.3593511. Guerra e diritto. Un’idea della giustizia capace di misurarsi con la paura più grande di Luciano Eusebi* Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2022 Lo scorso 27 marzo, con un elzeviro su queste pagine dal titolo 2Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria2, Natalino Irti denunciava l’inanità del diritto rispetto ai fatti più tragici della storia: nei cui confronti si leva solo “al tramonto”, quando il non-diritto ha già ridisegnato i rapporti e il diritto viene riscoperto dai vincitori, che “ne invocano le forme redentrici e punitrici”. Un giudizio riferito, peraltro, alle norme costituzionali e internazionali, e non a quelle civili o penali: poiché volte a regolare, invece, il “corso normale della vita”. Rimane curioso, tuttavia, che lo strumento di giustizia più celebrato e acuminato - il diritto penale - non abbia opposto resistenza alcuna alle tragedie epocali dell’umanità, foriere di danni e di vittime in misura incomparabilmente maggiore di tutti i delitti che esso punisce. Fino a lasciare l’impressione di aver rappresentato l’alibi perché ci si possa sentire giusti senza occuparsi delle ingiustizie più grandi. Anzi, di non essere affatto innocente rispetto a esse: ove solo si consideri che i criteri tradizionali di legittimazione della pena e della guerra giusta (qualifica sempre rivendicata dai belligeranti) sono stati, nel corso della storia, gli stessi. Il diritto penale, in effetti, ha istituzionalizzato lo schema per il quale la relazione con l’altro presuppone un giudizio su di lui e si sostanzia in un agire corrispettivo che ne implichi sofferenza e danno, ove quel giudizio risulti negativo. Schema assai pericoloso giacché funge da moltiplicatore del male, essendo sempre ravvisabile qualche colpa in un altro, onde legittimare forme di ostilità. Ma tanto più inquietante se si constata che un simile giudizio ha finito per riguardare la stessa esistenza di realtà altre, perché non conformi agli interessi, o alle visioni, di valutatori nient’affatto neutrali il che ha rappresentato la logica di tutte le guerre, come di Auschwitz, dei gulag, dei genocidi. Quello schema della giustizia ha dunque radici profonde, ma esige, oggi, un sussulto antitetico, che si può rendere ipotizzabile: posto che da decenni il futuro del genere umano non è scontato e che, non avendo costituito il 1989 la fine della storia, ben la potrebbe costituire, in altro senso, il prossimo conflitto mondiale. Eppure, proprio l’evolversi dell’approccio al diritto penale appare in grado di offrire stimoli rilevanti per il contrasto del ricorso alla guerra. In un triplice senso. Vi è sempre maggiore consapevolezza, anzitutto, circa l’inefficacia del connubio tra sanzioni ritorsive e prevenzione, posto che questa, fermo il contrasto dei profitti illeciti, dipende dai livelli dell’adesione personale ai precetti normativi, che risulta rafforzata attraverso gli stessi percorsi reintegrativi (destabilizzanti per le associazioni criminose) di chi abbia commesso un reato. Da cui forme di risposta al medesimo aventi natura progettuale, affrancate dal modello del negativo per il negativo. E un’idea del fare giustizia consistente nell’agire onde rendere giusti, per tutti, rapporti che non lo siano stati. Emerge, poi, il ruolo cardine della prevenzione primaria, cioè dell’intervento sui fattori che favoriscono gli eventi lesivi: troppe volte negletto, perché incide su interessi diffusi e implica ammettere corresponsabilità. Senza che infici la gravità di tali eventi: affermare che quello di Versailles fu un pessimo trattato di pace non vuol dire giustificare Hitler. Ne deriva, piuttosto, la necessità di condotte remote esenti da egoismi o intenti di potere: si nolis bellum, para iustitiam et pacem. Molti dovrebbero riflettere. Da ultimo, il diritto penale odierno rende palese, attraverso le procedure di restorative justice, come non siano impraticabili percorsi riconciliativi, fondati sul recupero della verità, anche quando sia stato fatto molto male. Si può sperare che nasca dal basso, dai popoli del mondo, l’opzione per una giustizia diversa, che raccolga simili impulsi? Così da rappresentare ai governanti che non d si riconosce più nella prospettiva secondo cui il proprio bene personale sarebbe tutelato al meglio in termini di competizione tra le realtà politiche di appartenenza. E così che i popoli non siano più ostaggio di vicende che li sovrastano e di cui pagano il prezzo. Utopia? Se l’alternativa è la catastrofe, varrebbe la pena offrirle una chance. *Ordinario di diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Cannabis. Vince Bernardini, nel segno di Pannella di Maria Brucale Il Riformista, 3 maggio 2022 Nel giorno del compleanno di Marco Pannella, la Corte d’Appello di Firenze ribadisce l’assoluzione della disobbediente Rita Bernardini, difesa dall’avvocato Giuseppe Rossodivita, dal Tribunale di Siena, dall’accusa di aver coltivato cannabis e di averla ceduta a terzi a fini terapeutici. Da Marco Pannella a Rita Bernardini corre un filo di continuità di ideazione e di azione: transitare tutto e tutti nello Stato di Diritto attraverso i segni sulla propria carne degli scioperi della fame per con-vincere; attraverso la violazione consapevole e pubblicizzata di norme disancorate dalla realtà, dal buon senso, dal sentire comune, da fondamenti giuridici sorretti da una tensione ideale di ampio respiro, ispirati ai diritti inalienabili della persona. “Coltivare e detenere cannabis con la specifica finalità di erogarla a soggetti che abbiano diritto di assumerla a scopo terapeutico non può in alcun modo interferire con il mercato della droga e con la circolazione di quest’ultima a scopo ricreativo (con tutte le implicazioni criminogene che esso implica), né può minare la sicurezza e l’ordine pubblico o mettere in pericolo le nuove generazioni, perché, al contrario, questo tipo di condotta si inserisce, semmai, nell’ambito della concreta attuazione del diritto alla salute ex art. 32 Cost, diritto fortemente compromesso dal fatto che il SSN distribuisce la sostanza ai malati sotto forma di farmaci di vario tipo (per esempio il Bedrocan) ma a condizioni economiche proibitive”. Così conclude la Seconda Sezione della Corte d’Appello di Firenze nel ribadire l’assoluzione espressa già nei confronti della disobbediente Rita Bernardini, difesa dall’avvocato Giuseppe Rossodivita, dal Tribunale di Siena. Tra le righe della motivazione sembra di scorgere, nemmeno troppo nascosto, il plauso per l’operato di chi combatte una battaglia politica con la disobbedienza civile conquistando diritti di rango costituzionale non adeguatamente tutelati dall’ordinamento. Il principio di offensività in concreto della condotta della persona sottoposta a giudizio deve guidare il giudice del merito al quale è affidato il compito di accertare se l’agire oggetto di valutazione possa essere inalveato nell’ambito del penalmente rilevante incarnando i tratti di pericolosità per il sociale che danno senso e scopo alle fattispecie punitive. L’accusa formulata dai capi di imputazione è cessione di cannabis per la sola Rita Bernardini e di coltivazione finalizzata alla cessione a terzi anche per due coimputati che solo a menzionarli si spezzano le corde della commozione e della memoria: Marco Pannella e Laura Arconti. Una storia d’amore Radicale, d’amore e di disobbedienza, nel segno di una concezione della legalità che non è mai supina accettazione di ogni regola imposta ma ricerca indefessa, coraggiosa, doverosa e convinta dello Stato di Diritto e della Giustizia giusta. Da Marco Pannella a Rita Bernardini corre un filo di continuità di ideazione e di azione: transitare tutto e tutti nello Stato di Diritto attraverso i segni sulla propria carne degli scioperi della fame per con-vincere; attraverso la violazione consapevole e pubblicizzata di norme disancorate dalla realtà, dal buon senso, dal sentire comune, da fondamenti giuridici sorretti da una tensione ideale di ampio respiro, ispirati ai diritti inalienabili della persona, alla centralità dell’uomo nel sistema costituzionale, alla tutela di tutte le diversità, di ogni vulnerabilità, della libertà piena di ciascuno di fare e di essere ove non confligga con le libertà degli altri. Dall’obiezione di coscienza all’aborto, alla rimozione delle barriere architettoniche a tutela dei diritti delle persone portatrici di handicap, al divorzio, all’eutanasia legale, al pluralismo dell’informazione declinazione del motto radicale “conoscere per deliberare”, alle battaglie di uguaglianza di genere, alla cannabis terapeutica. Storie d’amore per i diritti e per le libertà, di utopie perseguite disegnandone il cammino e rendendole possibili, un passo alla volta, attraverso la lenta e inesorabile affermazione della loro esistenza, della loro accettazione e del riconoscimento sociale, della loro affermazione naturale, della condivisione. Questa l’azione politica del Partito Radicale di Marco Pannella condotta oggi come allora da Rita Bernardini e da luminosi interpreti fuori e dentro il Partito Radicale. Si pensi a Marco Cappato e a Mina Welby con l’Associazione Luca Coscioni, assolti da processi in cui rischiavano fino a 12 anni di pena detentiva per inseguire il diritto di ognuno di scegliere di morire ove la condizione del vivere sia ormai uno stillicidio di sofferenza e non offra più alcuna speranza, alcuna prospettiva; di salutare con dolcezza la vita e i propri affetti a protezione di un sentire intimo ed esclusivo che appartiene ad ogni persona quale entità unica. La disobbedienza come dovere imposto da un credo politico, dalla coscienza sociale, dalla convinzione di poter essere, a proprio rischio, strumento di trasformazione dell’esistente, commettendo condotte illegali ma giuste, portando davanti ai giudici azioni ancora valutabili come criminose per rendere palese, tangibile, l’iniquità delle previsioni normative, ponendo sé stessi nella condizione di indagati, di imputati, di condannati, affrontando l’alea dei processi, accettando la possibilità della privazione della propria libertà, per forzare con la nonviolenza le leggi a trasformarsi, a recepire un’evoluzione che già è, per la dignità delle persone tutte, per le libertà di ognuno. Chi vive oggi ha raccolto libertà e diritti conquistati da persone come loro, dai disobbedienti, dai trasgressori, dai sognatori, da chi persegue l’utopia e la invera. Come Marco Pannella, Rita continua a disobbedire, ad essere processata, a chiedere di essere arrestata quando ritiene che la Procura le riservi un trattamento di favore per smorzare la forza della sua voce, ad incarnare il cambiamento, ad essere Speranza. Tornano in mente le parole della prefazione di Marco Pannella al libro “Underground a Pugno chiuso” di Andrea Valcarenghi riconosciuto da molti come un autentico manifesto del pensiero Radicale: “Brucare o fumare erba non m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla meno cara, sul mercato, in famiglia e società, in carcere. Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero”. “Quando te ne vai - diceva Marco nelle sue ultime ore - bisogna solo poi vedere quanti sono coloro che fanno della tua mancanza nella morte, una tua presenza nella vita”. Rita lo fa, ogni giorno. Regala le sue parole ai sordi, “con un canestro di parole nuove a calpestare nuove aiuole”. Mobilitazioni in tutta Italia per i diritti in Russia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 maggio 2022 Dal 24 febbraio Roskomnadzor, il servizio federale che sovrintende alle comunicazioni, ha istituito una censura di tipo bellico per ridurre al silenzio la stampa libera. Lo stesso giorno dell’inizio dell’invasione, ha ordinato a tutti gli organi d’informazione di usare soltanto fonti ufficiali, minacciando altrimenti gravi punizioni per “diffusione di notizie false”. Le parole “guerra”, “invasione” e “attacco” sono state vietate. Bloccando i più popolari organi d’informazione critici del governo, chiudendo le emittenti radiofoniche indipendenti e costringendo decine di giornalisti a fermare il loro lavoro o a lasciare il paese, il Cremlino ha quasi del tutto privato la popolazione di informazioni obiettive, veritiere e imparziali. Il blocco dei portali d’informazione e la minaccia di procedimenti penali hanno causato l’esodo di molti giornalisti. Secondo Agentstvo, un portale di giornalismo d’inchiesta ora inaccessibile, almeno 150 di loro hanno lasciato la Russia dall’inizio della guerra. Il 5 marzo due organi d’informazione specializzati nel giornalismo investigativo, Vazhnye Istorii (“Storie importanti”) e il Progetto d’informazione sul crimine organizzato e sulla corruzione, sono stati etichettati come “organizzazioni indesiderate” ed è stato dunque fatto loro divieto di lavorare in Russia. Il 13 aprile le forze di sicurezza russe hanno arrestato Mikhail Afanasyev, direttore del portale Novy Fokus della repubblica di Khakassia, e Sergei Mikhaylov, fondatore di LIStok, un quotidiano della repubblica di Altay. I due giornalisti sono accusati di aver intenzionalmente diffuso “informazioni false sulle forze armate russe”. In caso di condanna, rischiano fino a 10 anni di carcere. Queste saranno alcune delle storie di giornalismo perseguitato che domani, Giornata mondiale della libertà di stampa, saranno raccontate al presidio organizzato da FNSI, Amnesty International e Articolo21 a Roma alle 11, nei pressi dell’Ambasciata della Federazione Russa, di fronte alla Biblioteca nazionale centrale. Sempre a partire dal 24 febbraio migliaia di persone sono scese in piazza in molte città della Russia per manifestare il loro dissenso nei confronti della guerra. Le proteste, del tutto pacifiche, sono state disperse con una forza eccessiva e non necessaria. Secondo l’organizzazione non governativa russa per i diritti umani OVD-Info, da allora sono stati arrestati oltre 15.000 manifestanti - molti dei quali sottoposti a pestaggi e condizioni di detenzione crudeli, inumane e degradanti - e sono state avviate decine di inchieste giudiziarie. Oltre alle norme contro la libertà di stampa, le autorità di Mosca hanno introdotto nuovi reati per criminalizzare il dissenso, in particolare quello di “discredito nei confronti delle forze armate russe”. Sono state applicate anche norme preesistenti, dal contenuto vago e generico, come quelle che vietano la “diffusione di notizie false”. Amnesty International Italia ha indetto, fino all’8 maggio, una serie di manifestazioni per chiedere la fine della repressione del dissenso in Russia. In oltre trenta città, gli attivisti e le attiviste dell’organizzazione innalzeranno cartelli con alcuni degli slogan mostrati durante le proteste nelle città russe. A Roma e Milano gli eventi si svolgeranno in contemporanea, giovedì 5 maggio alle 17.30: a Roma, nei pressi dell’ambasciata della Russia, di fronte alla Biblioteca nazionale centrale in via di Castro Pretorio; a Milano nei pressi del consolato di Russia in piazza Segesta. Le altre iniziative si svolgeranno ad Altamura, Ancona, Bari, Bergamo, Biella, Bisceglie, Bologna, Cagliari, Catania, Cento, Cremona, Cuneo, Forlì, Gaeta, Genova, Lecce, Macerata, Modena, Napoli, Novara, Palermo, Perugia, Pesaro, Piacenza, Pisa, Reggio Emilia, Rimini, Salerno, San Giorgio del Sannio, San Lazzaro di Savena, Torino, Treviso e Viareggio. Alle iniziative hanno annunciato la loro partecipazione, tra gli altri, la Federazione nazionale della stampa italiana, USIGRai (Unione Sindacale Giornalisti Rai), Articolo 21 e Ordine dei giornalisti. Diritto all’aborto, la Corte Suprema Usa voterà per revocarlo di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 3 maggio 2022 La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta ad eliminare il diritto all’aborto. Anzi, la sua maggioranza conservatrice ha già votato per cancellare la sentenza Roe vs Wade che nel 1973 aveva legalizzato la pratica, e ha scritto per mano del giudice Alito la motivazione, rivelata dal sito “Politico”. La decisione non sarà definitiva fino alla sua pubblicazione, che dovrebbe avvenire prima dell’estate, e la soffiata sul testo già pronto potrebbe ostacolarla. Però la posizione del massimo tribunale americano è chiara, e questa è la direzione verso cui intende andare la maggioranza. È un effetto delle tre nomine fatte da Trump, ma anche dell’errore fatale della celebrata icona liberal Ruth Ginsburg, che non dimettendosi quando Obama era presidente ha consentito al suo successore di alterare drammaticamente gli equilibri della Corte. L’impatto politico di questa decisione però potrebbe trasformarsi in un boomerang per i repubblicani, motivando i democratici ad andare in massa alle urne non solo alle elezioni midterm di novembre, ma soprattutto alle presidenziali del 2024, dove la ricandidatura di Trump viene ormai data per scontata. L’aborto negli Stati Uniti è legale non per una legge o un referendum, ma per la sentenza Roe vs. Wade del 1973, quando la Corte Suprema aveva riconosciuto il diritto della donna texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza. Da allora in poi questa decisione è stata oggetto di feroci contrasti, alimentati in parte dalla fede religiosa di chi considera la pratica un omicidio, e in parte dalla dottrina politica e legale che rifiuta in simili casi la capacità dei magistrati di fare giurisprudenza, e ritiene che la scelta andrebbe invece delegata ai cittadini o ai loro rappresentanti incaricati di scrivere le leggi. Nel 2018 il Mississippi ha approvato un testo che vieta l’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza, e ciò ha provocato la causa Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, finita davanti alla Corte Suprema. Nei mesi scorsi il caso è stato discusso davanti al massimo tribunale americano, e a febbraio c’è stato un primo voto informale in cui almeno cinque giudici hanno votato per abolire la sentenza Roe vs Wade. Si tratta di Alito, nominato da Bush figlio; Thomas, scelto invece da Bush padre; e i tre candidati da Trump, cioè Gorsuch, Kavanaugh e Barrett. Il presidente della Corte Roberts, messo al suo posto da Bush figlio, è incerto, mentre i liberal Breyer, Kagan e Sotomayor sono contrari. Ciò significa che le tre nomine di Trump hanno fatto la differenza. Se Ginsburg si fosse dimessa quando Obama era presidente, Donald non avrebbe potuto insediare Barrett e la maggioranza avrebbe ancora difeso il diritto all’aborto. Nella sua sentenza di 98 pagine, Alito ha scritto che Roe vs Wade era completamente sbagliata fin dall’inizio, perché nella Costituzione questo diritto non c’è. Una questione come l’interruzione di gravidanza devono deciderla i cittadini, attraverso i loro rappresentanti politici, o a livello statale o federale. Se questo testo verrà confermato con la pubblicazione del voto già avvenuto in segreto, l’aborto diventerà illegale in tutto il paese. I singoli stati però potranno subito adottare provvedimenti per consentirlo nel loro territorio, e così si creerà una situazione simile a quella della pena di morte, legale a livello federale e in alcuni stati, ma abolita in altri. Per fare un esempio, nel liberal stato di Washington continueranno le interruzioni di gravidanza, che diventeranno invece legali passando il confine del conservatore Idaho. Con tutte le conseguenze del traffico da uno stato all’altro per abortire. Alito ha scritto anche che si tratta di un problema razziale, perché la maggiorana delle interruzioni di gravidanza avviene tra i neri, e quindi chi le favorisce aveva in realtà fin dal principio l’obiettivo di limitare la popolazione afro americana. Lo sviluppo del sistema delle adozioni, poi, ha creato un’alternativa efficace all’aborto. L’impatto politico di questa sentenza, se verrà confermata, sarà enorme. La polizia di Washington sta già preparando le transenne da montare davanti alla Corte, per evitare che le inevitabili proteste sfocino in violenze. I democratici sembrano condannati a perdere le elezioni midterm di novembre, ma l’abolizione dell’aborto potrebbe cambiare la dinamica, spingendo i loro sostenitori alle urne. L’effetto promette di essere ancora più forte alle presidenziali del 2024, quando l’ex presidente che ha reso tutto questo possibile, Donald Trump, con buona probabilità cercherà di tornare alla Casa Bianca. Egitto. Col Ramadan al-Sisi rilascia dei prigionieri politici. Ma molti altri restano in carcere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2022 Per la fine del mese sacro di Ramadan, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha voluto mostrare di possedere una delle qualità di Allah: la clemenza. Così, alcuni prigionieri hanno lasciato il carcere dopo avervi trascorso periodi di tempo sproporzionati, quando non avrebbero mai dovuto mettervi piede: tra questi, Walid Shawki, attivista del Movimento 6 aprile, arrestato il 14 ottobre 2018; Mohamed Salah, giornalista, arrestato il 29 novembre 2019; e Radwa Mohamed, blogger, arrestata il 15 novembre 2019. Se noterete la data dell’arresto, vi accorgerete che avevano superato ampiamente la durata massima di due anni della detenzione senza processo, grazie al sistema delle “porte girevoli” (tadweer) che fa sì che un detenuto prossimo alla scarcerazione venga iscritto, del tutto arbitrariamente, a un’altra inchiesta per “legalizzarne” la permanenza in carcere. È andata così, e pure peggio, al ricercatore e difensore dei diritti umani Ibrahim Ezz el-Din, tornato in libertà il 26 aprile. Era stato arrestato l’11 giugno 2019 al Cairo, appena uscito dalla sede della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, presso la quale lavorava occupandosi in particolare del diritto a un alloggio adeguato, documentando le condizioni di vita negli insediamenti poveri e informali e denunciando gli sgomberi forzati. Aveva trascorso 167 giorni da “desaparecido”, detenuto in un luogo sconosciuto ai familiari e senza poterli contattare. Era riapparso, come tantissimi altri, di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato, dove gli erano state notificate le accuse di “aver contribuito al raggiungimento degli obiettivi di un gruppo terrorista” e di “pubblicazione di informazioni false che minacciano la sicurezza nazionale”. Il 27 dicembre 2020 un tribunale aveva disposto la libertà condizionale. Ma sei giorni dopo la Procura lo aveva iscritto a una nuova inchiesta per “appartenenza a un gruppo terrorista”. Così, paradossalmente, un prigioniero di coscienza vittima di sparizione forzata per quasi tre mesi è stato scarcerato nel pieno rispetto della procedura penale egiziana. Di un altro provvedimento di clemenza hanno beneficiato, ma per la ricorrenza della Pasqua ortodossa, anche nove cristiani copti arrestati il 30 gennaio dopo che avevano preso parte a una protesta pacifica contro i ritardi nell’approvazione del progetto di ricostruzione della chiesa del loro villaggio, distrutta da un incendio nel 2016. Per i pochi usciti dal carcere - la cui gioia, insieme a quella di amici e familiari, al ritorno in libertà non può e non deve sminuire l’importanza di quanto accaduto - in molti restano in carcere. Tra questi, Ahmed Samir Santawy, Ahmed Douma, Alaa Abd el-Fattah, Mohamed el-Baqer, Mohamed Oxygen, Ziad el-Eleimy e Hisham Fouad, solo per citarne alcuni. All’inizio di aprile molti di loro hanno avviato uno sciopero della fame per protestare contro le durissime condizioni detentive, il diniego dell’uso della biblioteca e degli spazi per fare esercizi fisici e il divieto di ricevere libri o giornali dall’esterno. L’obiettivo del regime egiziano è chiaro: annichilirli, isolarli, non far sapere loro cosa accade fuori dal carcere. *Portavoce di Amnesty International Italia La Danimarca trasferirà in Kosovo i migranti detenuti. E intanto tratta col Ruanda di Carlo Lania Il Manifesto, 3 maggio 2022 Accordo con Pristina a partire dal 2023. All’inizio saranno 300. Al paese balcanico 15 milioni di euro l’anno. La Danimarca apre una colonia penale in Kosovo dove verranno trasferiti i migranti condannati per aver commesso un reato nel proprio territorio. È il risultato dell’accordo raggiunto tra Stoccolma e Pristina e al quale i governi dei due paesi stavano lavorando da mesi. Per la Danimarca si tratta di un modo per allentare il sovraffollamento delle proprie carceri mandando allo stesso tempo l’ennesimo messaggio di chiusura ai migranti. Messaggio reso ancora più chiaro e duro dalla notizia che, dopo Londra, anche Stoccolma sta lavorando a un accordo con il Ruanda per spedire nel paese africano i richiedenti asilo esaminando lì, a seimila chilometri di distanza, le richieste di protezione internazionale. Da parte sua il Kosovo incasserà 15 milioni di euro l’anno per prendere i detenuti, stando a quanto previsto dall’accordo la cui durata sarà inizialmente di cinque anni a partire dal 2023. “La Danimarca sta inviando un segnale chiaro anche agli stranieri condannati alla deportazione: il tuo futuro non risiede in Danimarca e quindi non sconterai qui nemmeno la tua pena” ha spiegato nelle scorse settimane Nick Haekkerup, fino a ieri ministro della Giustizia danese, incarico che ha lasciato per ricoprire quello di presidente dell’Associazione danese birrai. Negli anni passati altri Paesi avevano proposto di utilizzare i Balcani come una specie di serbatoio dove contenere i migranti intenzionati a raggiungere il Nord Europa attraverso la rotta balcanica. Il passaggio dalla teoria alla pratica l’ha fatto adesso Stoccolma, spinta soprattutto dalla necessità di alleggerire una situazione sempre più difficile che esiste nelle proprie carceri a causa di un numero sempre maggiore di detenuti. Dal 2015 la popolazione carceraria è cresciuta infatti del 19%, passando da 3.400 a 4.200, mentre il numero degli agenti di custodia è sceso da 2.500 a 2.000. Il governo conta di riformare l’intero sistema carcerario e per questo ha stanziato 6 miliardi di corone, pari a circa 538 milioni di euro. “In questo modo garantiamo condizioni di lavoro migliori ai nostri agenti penitenziari che hanno sopportato un fardello pesante per diversi anni”, ha segato sempre Haekkerup. L’accordo con Pristina rientra tra gli interventi previsti per decongestionare le prigioni. A essere trasferiti saranno per il momento 300 detenuti stranieri destinati alla prigione di Gjilan, situata a circa 50 chilometri da Pristina. Il provvedimento non riguarderà i condannati per terrorismo, i malati terminali o con problemi psicologici. “Abbiamo fatto il possibile per garantire che tutto rientri nelle regole. Si applicheranno esattamente le stesse regole delle carceri in Danimarca”, ha assicurato a dicembre Haekkerup aggiungendo che i detenuti espulsi potranno continuare e ricevere visite da parte dei familiari anche se, ha ammesso, “ovviamente sarà difficile”. Parole che non hanno certo rassicurato quanti si occupano della difesa di detenuti e migranti sia in Danimarca che in Kosovo, soprattutto per le cattive condizioni in cui si troverebbero i detenuti che si trovano nelle prigioni del paese balcanico. Ma il giro di vite non riguarda solo coloro che si sono macchiati di un reato. La Danimarca prepara nuove e più rigide regole anche per i richiedenti asilo. Anzi, l’idea di spedire in Ruanda quanti chiedono la protezione internazionale fa parte di una legge sull’immigrazione approvata a giugno dello scorso anno e che adesso preoccupa non poco l’Unione europea. Londra ha poi bruciato i tempi stringendo per prima un accordo con Kigali per trasferire nel paese africano i migranti arrivati illegalmente nel suo territorio a partire dallo scorso primo gennaio, ma Stoccolma non demorde e si prepara a fare lo stesso esternalizzando di fatto l’esame delle richieste di asilo. Nel frattempo il governo ha chiesto ai profughi siriani di cominciare a pensare a un possibile rientro in patria nonostante il conflitto.