Le ragioni per l’affettività ai detenuti e lo stop di Gratteri di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 31 maggio 2022 Una proposta di legge è arrivata in Senato. Formulata dal Consiglio regionale della Toscana, con relatrice la senatrice dem Monica Cirinnà, componente della Commissione Giustizia e responsabile nazionale Diritti del Pd. Quello dell’affettività dei detenuti, e del sesso, è un tema antico, se si pensa che in Italia se ne parla (ma la parola “parlarne” è eccessiva) dagli anni 30. Ci sono state nove proposte di legge in materia di affettività e di sessualità per detenuti. Alcune calendarizzate, nessuna discussa in Aula. All’estero, il tema è già regolato da una legge in diversi Stati: Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera. L’idea di base è che la pena che si deve scontare in carcere sia solo la perdita della libertà. Nella relazione introduttiva della proposta di legge, sono riportate alcune parole di Adriano Sofri, prefazione al libro “Uomini come bestie. Il medico degli ultimi” di Francesco Ceraudo: “La nostra società, che ha finito di trattare il sesso nei giorni feriali, come un bicchiere di acqua sporca, continua a vergognarsene nelle feste comandate, allora preferisce parlare, piuttosto che di rapporti sessuali, di rapporti affettivi - affettività, parola profilattica - madri che possono abbracciare i figli, famiglie che possono incontrarsi fuori dagli occhi dei guardiani. In effetti, oggi non possono farlo. Ma poi c’è il sesso: la nuda possibilità che un uomo o una donna in gabbia incontri per fare l’amore una persona che lo desideri e consenta: sarebbe giusto? È perfino offensivo rispondere: certo che sì”. E non potrebbe essere altrimenti, prosegue la relazione: “Basti pensare che il diritto all’affettività - di cui l’attività sessuale è “indispensabile completamento e piena manifestazione” - rappresenta “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana […] che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’articolo 2 della Costituzione impone di garantire” (Corte costituzionale, sentenza n. 561 del 1987)”. La proposta di legge dice, testualmente: “Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tal fine i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. Sono quelle che mediaticamente vengono chiamate “le casette dell’amore”, locuzione che potremmo definire “profilattica”, insieme a Sofri, se non fosse anche lievemente ipocrita. Sulla questione, naturalmente, si può legittimamente consentire o discordare. È giusto che i detenuti abbiano una loro affettività, anche ma non solo nella forma sessuale? Gratteri, si diceva, ritiene che non sia giusto. Anzi, che sia “pericoloso”. Il procuratore capo di Catanzaro è impegnato da mesi in un enorme maxiprocesso (Rinascita-Scott) contro la ‘ndrangheta. Di recente è stato raggiunto da molte minacce e ha confessato di sentirsi solo: “Ho paura, cerco di addomesticarla e di ragionare con la morte. Ma vado avanti, non c’è alternativa. Se mi fermo mi sento un vigliacco”. La sua battaglia coraggiosa lo porta in contrasto spesso con la politica. Con esternazioni che piacciono molto ai cosiddetti “giustizialisti” e, in particolare, a Marco Travaglio. E che dispiacciono alla destra. Basti leggere come lo tratta Libero, che lo definisce “toga prezzemolina”, stigmatizza il suo “tour per presentare un libro” e usa parole che delegittimano pericolosamente un magistrato in prima linea, arrivando a minimizzare, se non ridicolizzare l’allarme sulla sua sicurezza: ““Agli occhi della ‘ndrangheta e della mafia sono diventato un perdente”, dice Gratteri. Come a dire: sarà più facile farmi fuori. Sarà per questo che gira con cinque gipponi blindati: anche se non esiste più quella mafia militarizzata che ammazza i magistrati. Andrebbe spiegato anche a Nino Di Matteo, che a sua volta si è rifatto a certe vecchie sconfitte di Giovanni Falcone al Csm (fine degli anni ottanta) e ha detto che, respingendo la candidatura di Gratteri, il Csm ha dato un segnale alla mafia. Che non c’è più, come detto: semmai è una criminalità organizzata transregionale”. Ma dando per scontata una solidarietà incondizionata a Gratteri nella sua lotta contro la ‘ndrangheta, non si può non notare la sua intransigenza totale su alcuni temi garantisti, anche su iniziative come quella della legge sull’affettività. A Otto e Mezzo ha spiegato: “Forse non lo sapete ma questo governo, tre giorni fa, ha trovato 28.6 milioni di euro per costruire le case dell’amore nelle carceri dove si consentirà ai detenuti ad alta sicurezza di incontrare la moglie, la fidanzata o l’amante per 24 ore al mese. Immaginate in quelle 24 ore quanti messaggi si possono mandare all’esterno”. Una risposta a Gratteri arriva proprio da Sofri, sul Foglio, che ribadisce il sostegno incondizionato sulla guerra alle mafie, ma critica le sue parole sulle “case dell’amore”: “L’Alta Sicurezza, che è un “circuito” carcerario (con tre sotto-circuiti) regolato solo da circolari e largamente arbitrario e inerte, non è il 41 bis, la cui principale ratio dichiarata è di impedire le comunicazioni fra i boss e le organizzazioni di provenienza. I detenuti in “Alta Sicurezza”, che sono infatti molti, quasi diecimila, non hanno, salvi casi specifici fissati dalle autorità competenti, i magistrati o il Dap, restrizioni alle comunicazioni tali da dover contare sul giorno mensile nella “casa dell’amore” (il casino, correggono quelli di cui sopra) per mandare messaggi all’esterno. Chiederei, al linguaggio franco di cui lei si vale, di rinunciare a un argomento che infierisce su una vera mutilazione corporale delle persone detenute - la galera è infatti ancora una, compiaciuta o distratta, punizione corporale - e che carezza lungo il pelo la paura per la sicurezza e il disappunto per l’umanità: “Ci hanno pure la televisione, e vogliono pure scopare!”. Sofri indica i circuiti dell’Alta sicurezza, citati da Gratteri, distinguendoli dal 41 bis. Nella prima categoria rientrano persone condannate per associazione mafiosa, associazione in materia di stupefacenti e sequestro di persona a scopo d’estorsione. Persone che sono generalmente riconosciute con un livello di pericolosità più alto dei detenuti comuni, per i quali c’è un regime più stretto, senza però vietare comunicazioni con l’esterno, videochiamate e corrispondenza. Come avviene, invece, per i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Sessualità in carcere, che pena l’Italia di Assunta Sarlo radiopopolare.it, 31 maggio 2022 Forse ne avrete letto o sentito nei giorni scorsi: ne hanno scritto i giornali e i siti di news, diffusamente quelli di destra, hanno levato alti lai settori di polizia e della politica, in una trasmissione televisiva se n’è dichiarato scandalizzato, per motivi di sicurezza, il pm Gratteri. Il tema, pare ‘per merito’ di Franco Bechis primo a usare sulla Verità la locuzione per dirne tutto il male possibile, è ora rubricato sotto il titolo ‘Case dell’amore in carcere’. L’occasione è lo stanziamento deciso dal governo di 28 milioni di euro che verranno diluiti nel tempo per garantire ai detenuti in alta sicurezza, che non possono usufruire di permessi, relazioni affettive e d’incontro con i loro familiari in appositi spazi da realizzare o ristrutturare all’interno degli istituti di pena. Una questione che peraltro nella grande maggioranza dei paesi europei ha già trovato civili soluzioni, di cui da decenni si dibatte in Italia e che, ancora una volta, squaderna una doppia arretratezza culturale: del pensiero collettivo sul carcere, del pensiero collettivo sulla sessualità e sull’affettività degli esseri umani, detenuti e non. E così - il linguaggio è sempre rivelatore - abbiamo in questi giorni letto e annotato: case o casette dell’amore, esigenze di carnalità, la sessualità del mafioso assicurata anche per defatiganti 24 ore consecutive, carcere a luci rosse, carcere-casino, agenti obbligati a fare i guardoni di stato… Il catalogo e il tenore delle critiche è questo, e se non bastasse qualcuno, il sito di un sindacato della polizia penitenziaria, ci ha aggiunto un paio di immagini sessiste. Sempre il solito copione: a evocare la Costituzione e a sottolineare il valore rieducativo della pena - quel famoso articolo 27 che dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato - non ci si mette nulla, altro è mettere nero su bianco ipotesi e proposte perché il carcere non sia una discarica sociale e i detenuti e le detenute possano scontare la loro pena all’altezza di quel dettato, come oggi di certo non avviene. E quando accade, quando si affacciano proposte che vanno in quella direzione, ecco saltar fuori l’ideologia antica ed esclusivamente coercitiva della pena che si coniuga a meraviglia con un immaginario sessuale pruriginoso e retrivo, specchio di un paese, o di un suo pezzo abbastanza diffuso, di cui non andare certo orgogliosi. Dal primo giugno in poi in oltre settanta istituti di pena si disputerà ‘La partita con papà’, iniziativa che riprende dopo due anni di sospensione perché la pandemia ha chiuso ancora di più il carcere all’esterno. Scenderanno in campo papà reclusi e bambine e bambini, organizza, in collaborazione con il ministero della giustizia, ‘Bambini senza sbarre’, associazione che si occupa del diritto all’affettività di quei centomila - capito bene, centomila - figli e figlie di detenuti che, a loro volta, scontano non una ma molte pene. Dietro quel pallone in campo c’è un’altra idea di detenzione, opposta a quella di cui sopra abbiamo detto: e se non si può tifare, perché di carcere sempre si tratta, resta l’unica per la quale vale la pena spendersi in un paese che si voglia civile. Il carcere è una tortura e colpisce anche chi non ha fatto niente di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 31 maggio 2022 La definizione non è esagerata: la privazione della libertà è una delle cose più crudeli che possano essere inflitte all’uomo. Chi lo sottovaluta (o, peggio, considera la prigione una soluzione ottimale) dovrebbe pensarci due volte. Quanto vedete un Dio-Patria-Galera (ma Manipulite-Onestà-Galera è lo stesso) che alza il sopracciglio perché sente dire che il carcere è una tortura, domandategli questo: “Prova a immaginare che qualcuno più forte di te, esercitando un potere inoppugnabile, sequestri la tua libertà e ti impedisca di fare una per una tutte le cose che quotidianamente integrano le ore della tua vita, che magari giudichi malandata. Prova a immaginare che in forza di quel potere ti si impedisca di vedere la moglie, il marito, i figli, gli amici. Che in forza di quel potere ti si imponga la solitudine che non desideri o una compagnia coatta. Che a causa di quell’imposizione tu non possa leggere quel che vuoi, ascoltare la musica che vuoi, mangiare quel che vuoi. Che tu non possa camminare, lavorare, studiare, preparare la colazione a tuo figlio, festeggiare il suo compleanno, far visita a un parente moribondo, partecipare al funerale di una persona a te cara, insomma che tu non possa fare nulla di tutto ciò che consideri un’acquisizione irrevocabile della tua esistenza. E prova a immaginare che questa somma di privazioni si squaderni nei luoghi in cui sei costretto, tanto angusti e malsani che perfino per il bestiame sarebbe troppo, e dove sei esposto a ogni genere di sopraffazione, di violenza, di degradazione, per soprammercato nell’indifferenza, quando non nel compiacimento, della comunità di cui facevi parte. Ebbene, come considereresti questo trattamento ai tuoi danni, questo accanirsi di un potere più forte di te sulla tua vita sino a svuotarla di tutto, come lo considereresti se non per quel che è, e cioè tortura? E dunque: che altro è se non questo, il carcere? Non è forse fatto delle stesse cose, delle stesse angherie, della stessa brutalità, della stessa ignominia che tu, se toccasse a te, chiameresti tortura?”. Se l’interrogato in tal modo rispondesse che basta non delinquere per non subire quel trattamento, non varrebbe la pena di obiettare che nemmeno al delinquente più incallito sarebbe legittimo infliggerlo. Basterebbe ricordargli che uno su due, in carcere, è innocente quanto lui. Non gli si chiede - sarebbe troppo - di immedesimarsi nel colpevole. Gli si chiede di mettersi nei panni dell’innocente. “Casette dell’amore” per i detenuti: è polemica sui costi e la sicurezza di Nadia Palazzolo today.it, 31 maggio 2022 Un ddl in discussione alla commissione Giustizia del Senato prevede la realizzazione di spazi ad hoc con massima privacy. Tutti i detenuti, anche quelli ristretti in regime di massima sicurezza, devono avere la possibilità di avere rapporti sessuali mentre scontano la condanna che gli è stata inflitta. E hanno diritto a spazi dove recuperare la propria privacy. Parte da questo presupposto il ddl in discussione alla commissione Giustizia del Senato: “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”. Le “casette dell’amore” costeranno allo Stato oltre 28 milioni in tre anni. La polemica è servita. Davanti a carceri sovraffollate e fronte di boss che trovano il modo di comunicare con l’esterno nonostante i divieti, le “casette” sono una priorità? Fin dove può arrivare la detenzione? Cosa prevede la legge e le “fazioni” in campo. Cosa sono le “casette dell’amore”. Il ddl, adottato dal Consiglio regionale del Lazio e presentato alle Camere lo scorso 24 febbraio, disciplina la “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”. È rivolto anche ai detenuti sottoposti al regime del 41 bis o condannato per i cosiddetti reati “ostativi”. È bene dire che non affronta solo il tema della sessualità, ma vengono riviste anche le norme per i contatti genitori-figli. Si propone “l’allestimento di aree dedicate nelle carceri, in cui i detenuti possano esercitare, nel rispetto della riservatezza, il loro diritto all’affettività e alla sessualità”. Il testo richiama quanto già avviene in altri Stati europei come Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Croazia e Albania. Le unità abitative sono pensate “come luoghi adatti alla relazione personale e familiare e non solo all’incontro fisico: un tempo troppo breve, infatti, rischia di tramutare la visita in esperienza umiliante e artificiale. Per tale ragione si è inteso prevedere che la visita possa svolgersi all’interno di un lasso di tempo sufficientemente ampio da 6 a 24 ore”. “Le visite - recita l’articolo uno - si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari, con percorsi dedicati ed esterni alle sezioni, senza controlli visivi e auditivi. È data la precedenza a coloro che non possono esercitare la relazione affettiva in ambiente esterno. Possono essere autorizzati incontri con frequenza ravvicinata per coloro che, a causa della distanza o delle condizioni soggettive della persona a loro affettivamente legata, non possono fruirne con cadenza regolare. L’autorizzazione è negata quando l’interessato ha tenuto una condotta tale da far temere comportamenti prevaricatori o violenti ovvero quando sussistono elementi concreti per ritenere che la richiesta abbia finalità diversa da quella di esercitare la relazione affettiva”. I soldi per le casette e le carceri scoppiano - Il disegno di legge divide, dentro e fuori dal Parlamento. I detrattori sollevano due ordini di problemi: il primo di carattere economico e il secondo di sicurezza. I “moduli abitativi” così vengono chiamate formalmente le “casette” dal ministero della Giustizia, avranno un costo di circa 28 milioni: 3.6 milioni da spendere nel 2022 e 24,7 milioni in altri due anni. Per i detrattori del ddl i soldi potrebbero essere spesi in modo diverso, dal momento che i problemi nei penitenziari italiani ci sono e sono noti. Solo all’inizio dell’anno lo stesso ministro della Giustizia Marta Cartabia, intervenendo al Senato definiva il sovraffollamento “il primo e più grave tra tutti i problemi” del sistema carcerario italiano. “Ad oggi - diceva il ministro solo il 19 gennaio - su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114%. È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assi più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. Il senatore leghista Andrea Ostellari parla oggi di “Iniziative ideologiche” che ignorano le priorità del Paese. “I problemi nelle carceri sono altri. I soldi dei cittadini vanno spesi prima di tutto per garantire più personale e più dotazioni al corpo di polizia penitenziaria, costretto a lavorare sotto organico e, come dimostrano le ripetute aggressioni, in condizioni di grave insicurezza”, dice Ostellari. “Quanti omicidi commissionati?” - C’è chi invece pone l’accento sulla potenziale pericolosità di quelle ore concesse ai detenuti lontani da occhi e orecchie della polizia. Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di polizia Coisp, parla di “allarmante atteggiamento di smobilitazione” rispetto alle norme varate soprattutto dopo le stragi mafiose di Capaci e di via d’Amelio del 1992. “Qualcuno - dice - si è chiesto quanti ordini verranno impartiti in questo modo e quanti omicidi saranno commissionati? Nella migliore delle ipotesi si tratta di una sottovalutazione dei sistemi criminali mafiosi che hanno cambiato strategia, facendo meno clamore ma, allo stesso tempo, aumentando la loro forza criminale con una pervasione del tessuto sociale ed economico. Con fiumi di denaro, le mafie stanno comprando tutto, mettendo in atto veri e propri meccanismi di sostituzione allo Stato di diritto. Non possiamo accettarlo”. E anche il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha parole dure. “Il Governo ha stanziato 28 milioni di euro, nel momento in cui non ci sono soldi, per costruire le case dell’amore per consentire ai detenuti di alta sicurezza di avere ogni mese la moglie, la fidanzata o l’amante in carcere, per stare con loro in una stanza 24 ore. Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea?”. “I detenuti non sono rifiuti” - A difendere il disegno di legge è Monica Cirinnà, che accusa chi si oppone all’iniziativa di avere una visione del carcere “arretrata” del carcere, visto come una discarica in cui i detenuti ‘rifiuti’ sono gettati. “Visione incostituzionale - dice l’esponente dem - che avvalora l’idea del penitenziario come un luogo in cui carcerati e polizia penitenziaria sono nemici, contrapposti. Garantire l’affettività delle persone detenute, assicurando loro colloqui in ambienti idonei con i familiari e gli affetti più cari (a partire dalle figlie e dai figli), è uno strumento fondamentale per tutelare la loro dignità e rafforzare i percorsi di reinserimento sociale, e anche per sostenere le loro famiglie, che scontano una pena nella pena: non dobbiamo mai dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione parla di umanità della pena stessa”. Madri detenute, stop ai bambini in carcere: primo sì della Camera di Silvia Morosi Corriere della Sera, 31 maggio 2022 Il progetto di legge prevede che le madri con figli inferiori a sei anni vengano trasferite nelle case famiglia o in istituti a custodia attenuata. “Mai più bambini in carcere”. Con 241 voti favorevoli (7 contrari) la Camera ha dato il primo via libera al progetto di legge che tutela i bambini con meno di sei anni, costretti a vivere tra le sbarre insieme alle madri detenute: nel nuovo testo le mamme e i loro figli potranno essere trasferiti nelle case famiglia o negli istituti a custodia attenuata. Tra le novità contenute nel testo anche l’esclusione della custodia cautelare in carcere di una persona incinta. Previsioni analoghe anche per i padri, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. L’obiettivo della proposta di legge - che passa ora all’esame del Senato - è ridurre ulteriormente la possibilità che i piccoli si trovino a vivere la realtà carceraria al seguito delle loro madri recluse. Il provvedimento - a prima firma del deputato dem Paolo Siani, con relatore Walter Verini (Pd) - punta a promuovere il modello delle case famiglia e a escludere che le madri con figli conviventi di età inferiore ai 6 anni finiscano in carcere. Si prevede al contempo, in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il ricorso agli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). I comuni dovranno utilizzare come case famiglia protette prioritariamente immobili di loro proprietà e dovranno adottare i necessari interventi per consentire il reinserimento sociale delle donne una volta espiata la pena detentiva. “L’interesse del minore viene posto in cima ai pensieri del legislatore”, scrive su Twitter Siani, vicepresidente della commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza (Pd). “L’approvazione da parte della Camera della proposta di legge rappresenta un importante passo in avanti verso la cancellazione di questa inammissibile, vergognosa situazione che si verifica nelle carceri italiane”, aggiunge Verini. “Ci auguriamo che il Senato possa esaminare a sua volta al più presto il testo della Camera, la cui approvazione definitiva sarà un passo dì civiltà e umanità per il nostro Paese”, chiedendo una “spinta al Governo e al Parlamento per interventi sempre più urgenti e necessari sulla situazione carceraria, contro il sovraffollamento, per una pena che sia davvero rieducativa e riabilitativa”. “Seconda Chance”, un ponte tra il mondo della produzione e le persone in carcere di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 31 maggio 2022 “Le cose più importanti per essere felici in questa vita sono l’avere qualcosa da fare, qualcosa da amare e qualcosa in cui sperare”, diceva lo scrittore Joseph Addison. Una frase che dovremmo ricordarci quando pensiamo alle persone private della propria libertà perché in stato detentivo. Creare loro delle opportunità di lavoro può contribuire alla riabilitazione e, come sancito dall’art.1 della Costituzione italiana e dall’art.27 comma 3, restituire alla pena le vere finalità di rieducazione del condannato in vista del suo rientro nella società. A questo scopo è stata approvata la Legge Smuraglia 193/2000, che all’art. 21, al fine di promuovere l’attività lavorativa dei detenuti, introduce delle agevolazioni fiscali per i datori di lavoro che impiegano persone recluse ma ammesse al lavoro esterno. I cosiddetti “lavoranti”, che escono la mattina dal carcere, con o senza scorta, e rientrano la sera, dopo aver completato le loro ore di lavoro. Gli incentivi per gli imprenditori - Più in particolare, le imprese che assumono detenuti possono ottenere un credito d’imposta di 520 euro mensili mentre quelle che assumono semiliberi ne ottengono 300. Per accedere al credito d’imposta le imprese devono assumere detenuti all’interno degli istituti penitenziari, lavoranti all’esterno del carcere ai sensi dell’art. 21 o semiliberi con contratto di lavoro subordinato per un periodo non inferiore a 30 giorni; corrispondere un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro; stipulare un’apposita convenzione con la Direzione dell’istituto penitenziario dove si trovano i lavoratori assunti. Gli stessi sgravi si applicano alle imprese che svolgono attività di formazione nei confronti di detenuti a condizione che al periodo di formazione segua l’immediata assunzione per un tempo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione per il quale l’impresa ha fruito dello sgravio. Dare una “Seconda chance” ai detenuti, il progetto di Flavia Filippi - Ma di questo doppio vantaggio, per i carcerati e per gli imprenditori, non se ne parla affatto. “Seconda chance” è il progetto fortemente voluto dalla giornalista Flavia Filippi, che, venuta a conoscenza delle tante difficoltà che esistono nelle nostre carceri a dare corpo alla Legge Smeraglia, si è attivata per creare un ponte tra il mondo esterno e quello carcerario. In accordo con Carmelo Cantone, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, ha speso tutte le sue forze per far conoscere a imprenditori, commercianti, ristoratori e piccoli artigiani i vantaggi fiscali e contributivi previsti. A Rebibbia gli imprenditori incontrano le risorse ricercate - E qualcosa si è finalmente mosso. Oggi, nel reparto G8 di Rebibbia a Roma, numerosi imprenditori incontrano quei detenuti che rispecchiano le figure professionali richieste per le loro attività. Così, dopo una lettera d’intenti scritta dalle varie aziende all’amministrazione penitenziaria, inizia la nuova avventura di vita di queste persone. Momenti fondamentali e indimenticabili per chi, dopo anni di detenzione, rivede il mondo dall’esterno. Un mondo nuovo e sicuramente diverso da quello lasciato prima della reclusione. Seac, Carlo Condorelli è stato nominato nuovo presidente agensir.it, 31 maggio 2022 Carlo Condorelli, 68 anni, è il nuovo presidente di Seac-odv, coordinamento delle associazioni di volontariato di ispirazione cristiana operanti nelle carceri e nel più ampio campo dell’esecuzione penale da oltre mezzo secolo. Lo ha eletto all’unanimità l’assemblea nazionale, insieme ai due vice-presidenti, Maria Fornario del coordinamento regionale della Calabria e Maria Chiara Niccolai, coordinatrice regionale della Toscana. Succede a Laura Marignetti che ha guidato Seac per due mandati. Nato a Salerno, si forma nel clima conciliare che imprime nuovi indirizzi al rapporto tra Chiesa e Mondo, fra laici ed impegno sociale. Dal 1973 al 1977 è a Roma eletto segretario nazionale in Azione Cattolica del Movimento studenti (Msac) dopo la riforma associativa realizzata dalla presidenza di Vittorio Bachelet. Poi un triennio a Bruxelles come vice segretario del coordinamento europeo di Jeci-Miic pax romana. Impatta, quasi casualmente, nell’esperienza del volontariato carcerario una quindicina di anni fa e aderisce all’associazione Vol.A.Re. attiva nel carcere di Velletri unitamente alla Caritas diocesana. “Seac - afferma Condorelli - è consapevole delle nuove sfide che potranno derivare dalla riforma Cartabia, se perverrà a coerente approvazione, anche nei servizi proposti dal volontariato. Le associazioni sono pronte perché da decenni il coordinamento Seac afferma la necessità di privilegiare un ampliamento delle misure di pena da vivere sul territorio in un contesto di vera opportunità di reinserimento e contraendo a limitati casi di necessità la detenzione in carcere. Anche la legislazione sulla giustizia riparativa - tema sul quale il volontariato è pioniere - richiederà una nuova lettura dei rapporti di buona collaborazione con la Pubblica Amministrazione. Ma senza dimenticare - sottolinea Condorelli - che è urgente dare attuazione alle proposte per il miglioramento della vita dei detenuti negli Istituti elaborate dalla Commissione Ruotolo ed in larga parte attuabili per via amministrativa. È fondamentale che tali misure vedano la luce prima della fine di questa legislatura”. Cosa chiedono i referendum e perché non ci sarà risposta di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 maggio 2022 Quesiti marginali o che confondono: anche per questo il quorum è lontano. Non funziona il traino delle amministrative, ormai piegate dal calo dell’affluenza. Ma sulla custodia cautelare l’Italia deve cambiare: ha i dati peggiori nel Consiglio d’Europa. Qualcuno tra i quasi cinque milioni di elettori italiani residenti all’estero ha già votato (le schede sono arrivate nelle case e devono tornare nei consolati entro il 9 giugno), gli oltre 46 milioni di elettori che invece sono in Italia devono andare ai seggi domenica 12 giugno in un giorno solo. Lo faranno in misura sufficiente perché i referendum siano validi, vale a dire la metà degli aventi diritto più uno? L’ultima volta che si sono tenuti dei referendum il 12 giugno (ma in quel caso si votava anche lunedì 13) il quorum è stato raggiunto. Quella del 2011 è stata però un’eccezione: prima di allora e dopo, negli ultimi 25 anni, il quorum di validità dei referendum abrogativi non è mai stato raggiunto. Quest’anno per la prima volta nella storia i referendum sono abbinati al primo turno delle elezioni amministrative (era accaduto solo con il turno di ballottaggio) come chiesto da Lega e radicali - partiti che sarebbero stati i promotori se avessero consegnato le firme, invece hanno lasciato che a chiedere i referendum fossero i consigli regionali di centrodestra. L’abbinamento però non è garanzia di affluenza alta, la partecipazione nel nostro paese è in costante calo a prescindere dal tipo di elezione. Negli ultimi tre anni tra europee, regionali, referendum costituzionale e comunali l’affluenza media è rimasta tra il 50 e il 54 per cento. Le amministrative di quest’anno coinvolgono appena il 20% dell’elettorato, guardando ai precedenti città per città (2017) in diversi casi l’affluenza è stata bassa anche al primo turno. A Genova e Como addirittura sotto il 50%, a Monza e Palermo di poco sopra. I referendum sono cinque. Il primo (scheda rossa) chiede di abrogare l’intero decreto legislativo 31 dicembre 2012 n° 235 noto come decreto Severino. Legge controversa a partire dal titolo, perché dichiara di occuparsi di “incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna” ma poi stabilisce la sospensione dall’incarico degli amministratori regionali e comunali anche solo dopo una condanna in primo grado per reati gravissimi (mafia e terrorismo) o contro la pubblica amministrazione. La Corte costituzionale in passato ha salvato questa che sembra una palese violazione della presunzione di non colpevolezza (fino a sentenza definitiva) proprio perché la legge parla di “sospensione”. Nella pratica, però, la legge ha messo fine al lavoro di tanti sindaci che successivamente sono risultati innocenti. Per questo anche il Pd, che pure prevalentemente è per il No, ha presentato una proposta per modificare la legge Severino. Il referendum cancella l’intero testo unico, anche le parti che prevedono la decadenza e l’incandidabilità in parlamento dei condannati con sentenza definitiva (le norme che sono costate il seggio a Berlusconi e Galan, ma non a Minzolini). Questo non vuol dire che corrotti e corruttori avrebbero la strada del parlamento spianata, solo che tornerebbe a essere i giudici a stabilire - eventualmente - la pena accessoria dell’interdizione. Il secondo referendum (scheda arancione) vuole abolire una delle tre possibilità per le quali i giudici possono oggi disporre la custodia cautelare, cioè la detenzione (in carcere o ai domiciliari) prima della sentenza. In caso di vittoria del Sì, i giudici potrebbero continuare a disporre l’arresto preventivo per pericolo di fuga o pericolo di inquinamento delle prove, ma non più per il rischio di reiterazione di un reato grave uguale a quello per cui si procede. Una novità che, intervenendo sulla fattispecie più usata, potrebbe correggere un problema molto serio della nostra giustizia: siamo il paese tra tutti quelli del Consiglio d’Europa che ha la percentuale più alta di detenuti in attesa di giudizio. Un detenuto straniero su due da noi è agli arresti da presunto innocente. Il terzo quesito (scheda gialla) è il più difficile da capire dalla lettura del testo stampato che è lungo 7.515 caratteri (cioè di più dell’articolo che state leggendo). Ma se approvato avrebbe una conseguenza netta e chiara: la definitiva separazione delle funzioni tra magistrati dell’accusa e magistrati giudicanti. La carriera delle toghe resterebbe la stessa, perché per dividerla in due servirebbe una riforma costituzionale, ma dall’eventuale successo del referendum in avanti chi scegliesse di fare il pubblico ministero non potrebbe mai più fare esperienza come giudice e viceversa. La vittoria del sì sarebbe chiaramente il primo passo verso un diverso inquadramento dei magistrati requirenti, che a quel punto avrebbe senso si specializzassero nella ricerca delle prove di accusa entrando nell’orbita della polizia giudiziaria (e del potere esecutivo). Il quarto quesito (scheda grigia) anticipa e allarga una riforma prevista dal disegno di legge sull’ordinamento giudiziario che è stato già approvato alla camera ed è in discussione al senato. Punta a dare diritto di voto nei consigli giudiziari distrettuali e nel consiglio direttivo della Cassazione non solo ai magistrati, ma anche agli avvocati e ai professori universitari di giurisprudenza quando si tratta di fare le valutazioni di professionalità delle toghe. Secondo la legge in discussione in parlamento, questo diritto andrebbe dato solo a un rappresentante degli avvocati e anche in questo caso i magistrati temono quella che considerano un’interferenza. Il testo di legge però è una delega, per cui il governo avrebbe comunque margini di interpretazione mentre il quesito referendario è certo. Il quinto quesito (scheda verde), pomposamente chiamato dai sostenitori “riforma del Csm”, vuole abrogare in realtà una norma assai marginale, quella che prevede chele candidature dei magistrati per il Csm debbano essere sostenute da almeno 25 firme di colleghi. Modifica troppo modesta perché si possa parlare di “scacco alle correnti”, peraltro già prevista con una norma di immediata applicazione nella legge in discussione al senato. Non è certo con referendum di poco impatto come questo che si richiamano gli elettori e si combatte l’astensionismo. Da Flick una critica rispettosa sui quesiti. Riforma del Csm in Aula il 15 giugno di Errico Novi Il Dubbio, 31 maggio 2022 Serviva un grande giurista come Giovanni Maria Flick per dare spessore al confronto sui referendum. Non è riuscita, la politica, a catalizzare l’attenzione degli elettori. Non basterà, per arrivarci, neppure l’intervista di un presidente emerito della Consulta. Ma almeno le sue obiezioni accendono una dialettica, come avviene sul Dubbio di oggi grazie all’intervento del professor Bartolomeo Romano, vicepresidente di quel Comitato per il Sì guidato da Carlo Nordio. Flick interviene sui referendum del 12 giugno con un’intervista sulla Stampa di ieri. Da una parte, il presidente emerito della Corte costituzionale, alla domanda sulla funzione di “stimolo al Parlamento” che la consultazione può svolgere, risponde che il legislatore “non dovrebbe avere bisogno di stimoli” e che l’obiettivo di una proposta referendaria non può comunque limitarsi a questo, altrimenti “siete voi che svilite l’istituto”, obietta ai promotori. Però dice anche: “Capisco bene la logica degli “stimolatori”. Considera un “pessimo segnale” che si parli poco dei quesiti, anche se ritene non facilmente applicabile la “logica binaria” dei referendum a materie come le 5 sottoposte al voto. Si può essere in disaccordo con Flick sulla (da lui asserita) inopportunità di coinvolgere i cittadini in scelte anche così “tecniche”, ma finalmente si va al cuore dell’iniziativa di radicali e Lega. E poi l’ex guardasigilli rende comunque omaggio alla consultazione popolare quando dice alla Stampa che la frenata del Senato sulla riforma del Csm è una “scelta corretta”. Pensate per un attimo, aggiunge Flick, “se il legislatore avesse varato la riforma una settimana prima del voto e poi i cittadini il 12 giugno avessero bocciato le sue scelte. Meglio aspettare che i cittadini si esprimano e poi si decide”. Anche una voce così critica non può fare a meno dunque di esprimere profondo rispetto per il legittimo esercizio di uno strumento democratico. Tra l’altro ieri la capigruppo di Palazzo Madama ha rettificato il calendario dei lavori e spostato dal 14 al 15 giugno la data esatta dell’esame in Aula sulla riforma Cartabia. Cambia poco, resta la corretta successione di eventi fra consultazione popolare e lavori parlamentari. Con l’ulteriore puntualizzazione di un via libera al testo sul Csm che potrebbe arrivare giovedì 16 giugno, alla presenza della guardasigilli. Resta un dato: nel dibattito sui 5 quesiti (il cui contenuto pure viene ricordato dal professor Romano nel proprio intervento) continua a non vedersi la necessaria intensità della politica. Ieri hanno rilasciato dichiarazioni a favore del Sì deputati come il leghista Manfredi Potenti e l’azzurro Sestino Giacomoni. Ma continua a non risuonare con sufficiente chiarezza un discorso: con i referendum su magistrati, custodia cautelare e legge Severino, i cittadini tornano protagonisti delle scelte sulla giustizia in una chiave totalmente diversa dal tifo per le inchieste su tangentopoli di trent’anni fa. È l’occasione per ricucire quello strappo, e già solo per questo i referendum del 12 giugno meriterebbero di accendere, nella politica, ben altra mobilitazione. Sono referendum chiari e votarli è un diritto sacrosanto dei cittadini di Bartolomeo Romano Il Dubbio, 31 maggio 2022 Cambiare la giustizia è indispensabile ma il Parlamento non può farlo da solo. Le 5 proposte sono “tecniche” ma comprensibili. Le manovre di contrasto al voto referendario del 12 giugno sono pluri-livello e di varia natura. Prima è stata messa in sordina la campagna di raccolta firme, peraltro ostacolata anche dalla pandemia. Poi sui quesiti è calata la scure - a mio avviso, non del tutto “tecnica” - della Corte costituzionale, che ha “bocciato” quelli sull’eutanasia e sulla cannabis, nonché quello sulla responsabilità diretta dei magistrati. Sui referendum è quindi calato un silenzio assordante, che è sembrato a molti una vera e propria congiura del silenzio. Per questo, abbiamo costituito il Comitato “Sì per la libertà, sì per la giustizia” (rinvio al nostro sito, www.unsiperlagiustizia.it, per tutte le informazioni, il form per l’eventuale adesione, e i riferimenti ai vari social). E finalmente qualcosa si è mosso. Dei referendum si parla, anche se ancora poco; ma finalmente la libera informazione - come indicato e garantito dall’art. 21 della Costituzione - si è posta al servizio dei cittadini. Pertanto, come cercherò di spiegare, è cambiata la strategia di chi si oppone ai referendum, e talvolta addirittura allo stesso istituto referendario. Devo tuttavia premettere, in proposito, che la cosa che mi stupisce di più, alla luce dei primi dibattiti ai quali ho partecipato, è che chi pensa di votare no o di astenersi riconosce (quasi sempre) che le questioni oggetto dei quesiti referendari sono reali e serie. Del resto, i “tecnici” della materia non possono certo negare che il nostro “sistema giustizia” funziona male, e tutti conosciamo gli scandali che purtroppo hanno colpito la magistratura, che in tutti i sondaggi ha perso la fiducia della maggior parte dei cittadini. E questo non è certamente un bene, perché la magistratura rappresenta una parte fondamentale dello Stato - “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 Cost.) - che va preservata e protetta. Ma, a tale fine, dovrebbe essere per tutti chiaro che è necessario cambiare tutto ciò che non va. Bastino le forti parole del Presidente Mattarella nel discorso per il suo secondo insediamento, in occasione del quale - tra l’altro - ha invocato un “profondo processo riformatore”, ha sottolineato le “pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini”, ha ammonito che “indipendenza e autonomia sono princìpi preziosi e basilari della Costituzione ma il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza”. Perché la giustizia deve essere amministrata “in nome del popolo” (art. 101 Cost.) ed “i cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario”. Tuttavia, il discorso del Presidente Mattarella, nonostante gli scroscianti applausi di quasi tutti i parlamentari, non ha avuto reale accoglimento operativo. Quindi, mi stupisce molto che si tessano - ed ecco il cambio di strategia - le lodi (astratte) della supremazia del Parlamento (“le riforme organiche le deve predisporre il legislatore”; peccato sia stato sinora del tutto assente). Oppure che si teorizzi un benaltrismo riformatore (“per cambiare la giustizia ci vorrebbe ben altro…”). O anche che si svilisca l’istituto referendario (che sarebbe “inadatto a risolvere problemi articolati”). O ancora, che si confonda la difficoltà dei quesiti, presente sempre e in ogni caso, perché si abroga un testo normativo, con la possibilità di spiegarli semplicemente a tutti (“il popolo non comprende questioni complesse”). Con queste doverose premesse, provo nuovamente a spiegare i quesiti, naturalmente non per i “tecnici” (che sanno, anche se non riconoscono di sapere), ma per tutti coloro che, non essendo giuristi, vogliono esercitare consapevolmente il diritto di voto, costituzionalmente garantito (art. 75). E assicurato a tutti, compresi coloro i quali non “masticano” diritto. Dunque, due referendum cercano di far ricostruire la perduta fiducia ed efficienza nella giustizia. Il primo ha lo scopo di far votare gli avvocati che siedono nei Consigli giudiziari anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, consentendo giudizi più articolati e completi, per evitare che poi il Consiglio Superiore della Magistratura decida solo sulla base delle appartenenze del candidato a una corrente. Il secondo propone di cancellare la norma che stabilisce che ogni candidatura al Csm debba essere sostenuta da un numero minimo di firme, per consentire anche ai magistrati non sorretti da una corrente di potersi candidare. Poi ci sono due referendum attuativi di altri princìpi costituzionali. Infatti, l’art. 111 Cost., riformato nel 1999, ha effettuato una scelta univoca, accogliendo il modello accusatorio, ormai decisamente prevalente nelle democrazie più mature ed evolute. Tale modello richiede la presenza di un giudice realmente terzo, di un pm che svolga pienamente il compito dell’accusa e di un difensore in grado di controbilanciare, con la propria attività, quella del pm. Dunque, il terzo referendum vuole evitare il cambio di funzioni tra giudici e pm, e viceversa. Inoltre, nel nostro Paese abbiamo un ricorso troppo ampio alla custodia cautelare, inflitta prima di una eventuale sentenza definitiva di condanna (e la metà dei processi si conclude con una assoluzione…), nei confronti di chi è non è considerato colpevole (art. 27 Cost.) o è presunto innocente (art. 6 Convenzione europea sui diritti dell’uomo). Il quarto referendum mira a ridurre il ricorso alla custodia cautelare. Infine, il quinto referendum vuole restituire la voce ai cittadini, che devono decidere chi è meritevole di essere candidato e di poter essere votato. Ed a tal fine, propone l’abolizione della cosiddetta. legge Severino. Spero di essere stato sufficientemente chiaro. Chi vuole mantenere la situazione attuale non vada a votare o voti no. Chi vuole contribuire a cambiare il volto di una giustizia che tutti riconoscono essere lontana dai cittadini vada a votare. E voti SI. *Ordinario di Diritto penale Università di Palermo, già Csm, vicepresidente Comitato Sì per la libertà, sì per la giustizia Gli avvocati dicono sì ai referendum sulla giustizia di Sergio Paparo e Vinicio Nardo* Il Domani, 31 maggio 2022 È del tutto naturale che l’Organismo congressuale forense (l’organo di rappresentanza politica dell’avvocatura) abbia mobilitato l’avvocatura per i referendum. Il primo obiettivo è rompere la cortina di silenzio che si è creata intorno a questo appuntamento elettorale. In quanto avvocati non possiamo rimanere inerti di fronte all’evidente tentativo di impedire il raggiungimento del quorum e così invalidare i quesiti. Sarebbe un regalo alle forze della conservazione, quelle che - da destra e da sinistra - ostacolano ogni tentativo riformista in ambito di giustizia, nonostante le carenze e, da ultimo, gli scandali interni alla magistratura. Ciò non significa affermare che, rispondendo ai quesiti referendari, il cittadino “si fa” legislatore, ma piuttosto che il corpo elettorale opera delle “scelte” destinate a vincolare il parlamento e le forze politiche. Sebbene il referendum agisca chirurgicamente su singole norme, mirando ad abrogarle in tutto o in parte, il suo obiettivo ultimo è quello di affermare un’idea, una visione, con effetto massimo laddove il parlamento appaia restio a mettere mano. Come sta accadendo sempre di più in questi anni, particolarmente in tema di giustizia. Si potrebbe obiettare che, al contrario, la ministra Cartabia ha sfoderato un piglio riformatore di nuovo conio e non ha bisogno di spinte, ed è vero. Tuttavia, abbiamo assistito a mille inciampi nei percorsi parlamentari dei disegni di legge e conosciuto altrettanti modi di neutralizzare certi istinti innovatori. Il più abusato, nei casi di disegni di legge delega come le riforme in atto, è quello del tradimento della delega. C’è sempre il rischio che il governo la lasci cadere o traduca in norme precettive solo una parte della delega. Questo soprattutto nei casi di avvicendamento alla guida del paese, ma lo si è visto anche in casi di relativa stabilità del quadro politico. Ed allora non c’è ragione perché la riforma dell’ordinamento giudiziario, già approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, debba raffreddare la corsa dei referendum. Sì a tutti i quesiti - L’impegno dell’Ocf è per il sì a tutti i quesiti referendari. E non perché pensiamo siano i quesiti migliori e meglio formulati del mondo, né perché ci illudiamo di mutare il corso della storia. Semplicemente perché vanno nella direzione giusta. Si pensi al quesito sulla custodia cautelare. Che ci sia stato un abuso della custodia cautelare non lo diciamo solo noi difensori, è stato detto finanche nel discorso del presidente di inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte di cassazione. Allora come si fa a non votare sì? E come potrebbe, comunque, un avvocato votare no? L’avvocatura negli ultimi trent’anni ha sostenuto le riforme che hanno cercato di circoscrivere i casi di possibile adozione della custodia cautelare in carcere utilizzando avverbi ed aggettivi sempre più severi nel delimitare il potere del giudice. Purtroppo, ogni nuova formula lessicale non ha impedito l’abuso. Il referendum vuole porre un punto fermo: laddove non c’è pericolo di reiterazione di atti violenti basta la custodia cautelare al domicilio; non occorre la galera. Lo stesso vale per l’abrogazione della legge Severino, con i suoi automatismi che urtano con la presunzione di innocenza che informa la nostra Costituzione ed anche le direttive comunitarie. Non è solo un problema di principio. Noi difensori sappiamo quanto facile sia per un amministratore pubblico finire nelle maglie di un procedimento penale, e quanto aleatori siano i giudizi di primo grado soprattutto se seguono a processi mediatici già celebrati e “risolti” con condanne a mezzo stampa. Ma, soprattutto, in questo tema si tocca la formidabile funzione di stimolo che può avere il referendum sulla politica. Diverse forze si sono dette d’accordo nel merito ma contrarie sul metodo perché, affermano, “la legge Severino non va abrogata ma va riformata in parlamento”. Ebbene, sono anni che lo dicono ma non lo fanno: grazie al referendum sarà la volta buona perché la riforma, quanto mai urgente, la facciano sul serio. *Coordinatore e membro dell’Organismo congressuale forense Il partito trasversale che tifa per le manette di Astolfo Di Amato Il Riformista, 31 maggio 2022 Il legislatore è più volte intervenuto per contrastare l’abuso della custodia cautelare, la magistratura ha spesso depotenziato la portata degli interventi: è il quesito più emblematico dello spirito di fondo dei referendum sulla giustizia. Opporsi vuol dire avallare una visione autoritaria dello Stato. Che in Italia vi sia un abuso della carcerazione preventiva è fatto noto. Sorprende, perciò, che il quesito referendario più osteggiato sia proprio quello volto a ridurre gli abusi. Contro di esso si sono pronunciati anche coloro che, pur non avendo fatto parte delle forze politiche promotrici dei referendum, non hanno comunque assunto una posizione di totale ostilità. Il quesito va letto alla luce dell’esperienza del rapporto tra legislatore e magistratura, che su questo tema si è sviluppato negli anni successivi a Mani Pulite. È il più emblematico dello spirito dei referendum sulla giustizia: una richiesta al popolo di esprimere la propria volontà in ordine ad un riequilibrio dei rapporti tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato. Che in Italia vi sia un abuso della carcerazione preventiva è fatto noto e largamente condiviso. Sorprende, perciò, che il quesito referendario più osteggiato sia proprio quello volto a ridurre gli abusi. Contro di esso si sono pronunciati anche coloro che, pur non avendo fatto parte delle forze politiche promotrici dei quesiti referendari, non hanno comunque assunto una posizione di totale ostilità. Si pensi a Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia o a quella parte del Partito Democratico, che ha assunto una posizione dialettica rispetto all’indicazione contraria a tutti i quesiti data dal segretario, Enrico Letta. Anche Enrico Morando, nell’intervista rilasciata il 17 maggio a questo giornale, pur riconoscendo la necessità di una regolamentazione della custodia cautelare che contrasti gli abusi, si esprime contro il quesito ritenendo che la possibilità di reiterazione di un reato giustifichi comunque la misura cautelare. In realtà, per comprenderne la effettiva portata, il quesito va letto alla luce della concreta esperienza del rapporto tra legislatore e magistratura, che su questo tema si è sviluppato negli anni successivi a Mani Pulite. Il legislatore è più volte intervenuto per contrastare l’abuso delle misure cautelari, attraverso l’introduzione di norme volte a circoscrivere con termini più pregnanti le condizioni per l’adozione di tali misure. E la magistratura, avendo il monopolio della relativa interpretazione, ha, molto spesso, nella applicazione pratica, depotenziato se non addirittura annullato la portata innovativa delle modifiche volute dal legislatore. In questo senso, il quesito considerato, per alcuni aspetti, è addirittura il più emblematico di quello che è lo spirito di fondo dei referendum sulla giustizia: una richiesta al popolo di esprimere la propria volontà in ordine ad un riequilibrio dei rapporti tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato. Come noto, le regole fondamentali in materia di misure cautelari personali sono fissate negli artt. 273 e 274 del codice di procedura penale. Il primo richiede la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, mentre il secondo individua le ipotesi, in cui lasciare in libertà colui sul quale gravano gravi indizi costituisca un pericolo. Tali ipotesi sono: il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga ed il pericolo di commissione di ulteriori reati. A quest’ultima ipotesi si riferisce, appunto, il quesito referendario. Ed occorre, subito, fare una precisazione. La norma prevede quattro diversi casi di pericolo di reiterazione: gravi delitti con l’uso di armi o altri mezzi di violenza, delitti contro l’ordine costituzionale, delitti di criminalità organizzata, altri delitti della stessa specie di quello per cui si procede. Il quesito referendario riguarda solo quest’ultima ipotesi. Non ha, dunque, alcuna attinenza con la realtà la posizione di chi lamenta che, se esso fosse accolto, resterebbero in libertà coloro che appaiono capaci di commettere ulteriori atti di violenza o di terrorismo o addirittura gli aderenti ad organizzazioni mafiose. Si tratta, molto semplicemente, di ipotesi estranee al quesito referendario. Il quale concerne, per fare degli esempi, l’imprenditore accusato di aver utilizzato una fattura falsa per evadere le imposte, l’amministratore pubblico accusato di aver favorito qualcuno in una gara di appalto, il pubblico dipendente accusato di essersi fatto corrompere etc. Come appare evidente, ove si faccia un minimo di riflessione, la possibilità di ritenere che chi sia accusato di tali reati possa commetterne di nuovi è del tutto aleatoria ed affidata ad una valutazione soggettiva, guidata da una totale discrezionalità. Per cercare di limitare gli inevitabili abusi suscettibili di verificarsi in una valutazione del genere, il legislatore è intervenuto nel 1995 e, da ultimo, nel 2017, stabilendo che la misura cautelare, nella ipotesi considerata, possa essere adottata solo in presenza di una situazione di pericolo concreto ed attuale di reiterazione del reato. Senonché, nonostante la chiara volontà espressa dal legislatore, la giurisprudenza ha continuato ad affermare che la misura cautelare è giustificata ove si sia in presenza di una valutazione prognostica fondata sulla personalità del soggetto, sulle modalità del fatto e sul contesto socio-economico nel quale lo stesso si colloca. Questo anche se non vi siano elementi idonei a ritenere l’imminenza della reiterazione, in quanto il requisito della attualità del pericolo può sussistere pure quando l’indagato non disponga di effettive ed immediate opportunità di ricaduta. Di conseguenza, molto spesso, nella pratica, non è ritenuta sufficiente per evitare la misura cautelare la circostanza che l’indagato abbia abbandonato la carica, che gli avrebbe consentito la commissione del reato di cui è accusato e che gli consentirebbe di reiterarlo. La giurisprudenza, dunque, ha finito, di fatto, con lo svuotare di qualsiasi significato i limiti che il legislatore ha cercato di porre al potere assoluto ed arbitrario di privare della libertà chi sia accusato della commissione di determinati reati, anche se non ancora ritenuto colpevole con sentenza passata in giudicato. Attraverso il richiamo al pericolo della possibilità che siano commessi ulteriori reati da parte di chi sia oggetto di indagine, la magistratura finisce con il rendere il valore della libertà personale del tutto evanescente, in quanto totalmente sottoposto al proprio potere arbitrario. Qualche frase stereotipata in più, nella motivazione dei provvedimenti cautelari, e la libertà dei cittadini è sistemata. Se si hanno presenti questi aspetti, si comprende agevolmente che il quesito in questione appare essere, dopo quello sulla responsabilità dei magistrati dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale, quello che maggiormente esprime il senso e l’obiettivo di questa tornata referendaria. Opporsi ad esso significa anche avallare una visione autoritaria dello Stato, che tollera che la libertà dei cittadini sia materia affidata ad un potere arbitrario. Bongiorno: “Csm, riforma da migliorare. Referendum flop? Sarà colpa dei media” di Liana Milella La Repubblica, 31 maggio 2022 La Lega sotto traccia sui referendum? “Bugia, è la stampa che non ci dà spazio”. E Salvini in Russia? “Noto una contraddizione, prima lo si critica perché troppo amico dei russi, adesso si dice che non è in grado di vedere esponenti di primo piano...mah”. Affonderà la riforma Cartabia sul Csm? “Migliorarla non vuol dire affondarla, e poi l’abbiamo già votata”. Dice cosi Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia della Lega, nonché avvocato di Salvini. Dica la verità: sui referendum un anno fa avete raccolto le firme con i Radicali, ma ora il rischio flop per il quorum e la coincidenza con la riforma del Csm vi rendono assai prudenti nella propaganda... “C’è un errore di fondo: dare la parola ai cittadini sulla giustizia è già un successo. Ogni sì che arriverà sarà una presa di posizione netta contro chi frena i cambiamenti. E comunque basterebbe menzionare le numerose iniziative della Lega in giro per l’Italia per misurare l’intensità del nostro impegno”. È bugia che non ci state mettendo la faccia? “Questa è una mistificazione che offende tutti coloro che si stanno spendendo come, solo a titolo di esempio, Calderoli, Ostellari, Morrone. La Lega ha organizzato convegni, incontri, gazebi nelle piazze. La gente fino a oggi non è stata adeguatamente informata a causa del silenzio dei media”. Quindi sarebbe colpa dei giornali...Però ai tempi delle firme il capo della Lega parlava tutti i giorni di giustizia. Oggi non è così... “Veramente è un tema che Salvini affronta tutti i giorni. Il referendum è uno straordinario strumento di partecipazione popolare e la giustizia è materia di interesse comune e trasversale”. Adesso, in verità, la passione di Salvini sembra la Russia. Molti lo stanno criticando per la sua intenzione di vedere Putin, dicendo che sarebbe un inutile spot perché riuscirebbe al massimo a incontrare le quarte file del governo russo... “Non ho dettagli su questo viaggio, perché la materia di cui sono responsabile è la giustizia. Non posso però fare a meno di constatare che nei mesi scorsi Salvini è stato aspramente criticato perché troppo vicino ai russi e a Putin, mentre adesso lo si critica per ragioni opposte, e cioè che in questo viaggio non riuscirebbe a incontrare esponenti di primo piano”. È credibile Salvini contro le toghe, proprio lui che è un imputato? “Chi vota sì è contro il correntismo esasperato, non contro le toghe. La maggior parte dei magistrati, che lavora in silenzio e non ha fatto carriera perché fuori dai giochi di potere, sarebbe felice se il sistema cambiasse in senso meritocratico. Salvini ha sperimentato sulla propria pelle a cosa può portare il correntismo quando ha appreso dalle famose chat di Palamara di essere un bersaglio di una parte della magistratura da colpire, a prescindere dalla correttezza del suo operato”. Ammetterà che perdere i referendum significa contare di meno nella maggioranza e pure rispetto al boom di FdI... “Con FdI e Fi sulla giustizia abbiamo una sensibilità comune. Più cresce il centrodestra, più aumentano le possibilità di attuare una riforma per una giustizia liberale ed efficiente. Onestamente, questa legislatura dimostra quante resistenze al cambiamento provengono dal Pd e dai 5 Stelle”. Se il centrodestra vince alle prossime elezioni buttate giù tutto e fate un’altra riforma draconiana contro i magistrati? “Nessuno ha in mente riforme contro i magistrati. Anzi, credo che i magistrati debbano essere tutelati dalla degenerazione del correntismo. È stato appena celebrato il trentennale della morte di Falcone, ma non vengono citate mai le sue idee, all’epoca all’avanguardia, per rendere il sistema più funzionale ed efficiente. Per esempio, si era espresso a favore della separazione delle carriere. Proprio uno degli obiettivi del referendum del 12 giugno”. Quanto a Falcone non era proprio così, ma questa sarebbe un’altra intervista. Però i cittadini non vogliono cancellare la legge Severino sui politici condannati in politica... “Su Falcone è come le ho detto, se vuole le fornisco alcune dichiarazioni. Per il resto osservo che tanti sindaci sospesi per una condanna per abuso d’ufficio, poi ribaltata in appello, sono stati costretti a lasciare le loro funzioni in balìa degli eventi; tornati in carica, si sono ritrovati ad amministrare dopo un lungo periodo di totale immobilismo. Non possono essere assicurati servizi alla comunità, se nell’amministrazione regna il caos”. La separazione delle carriere come “cattura voti”? Pure questo tema indigesto. Gli altri due quesiti sul Csm sono di fatto superati dalla riforma del Csm. E poi cosa importa all’uomo della strada se gli avvocati votano nei consigli giudiziari o se ci vogliono le firme per candidarsi al Csm? “La separazione delle carriere è un baluardo di un sistema veramente liberale. L’equivoco, creato ad arte, è far credere che un processo penale giusto ed efficiente non riguardi i cittadini. Ma, con il sistema attuale, chiunque rischia di restare intrappolato in un ingranaggio infernale e di rimetterci - anche se assolto dopo lunghi anni - libertà, salute, dignità, reputazione, denaro”. Renzi dice che il vero traino per i referendum sarebbero stati i tre bocciati dalla Consulta - responsabilità civile diretta, eutanasia e cannabis - mentre i cinque rimasti sono da addetti ai lavori. È così? “I tre bocciati erano quelli di maggiore appeal per l’opinione pubblica, anche perché di più immediata comprensione, ma i cinque rimasti incidono sul funzionamento del sistema giustizia, dunque riguardano chiunque. Nessun cittadino dovrebbe vivere con il timore di ritrovarsi all’improvviso imputato in un processo penale senza via d’uscita, e senza nemmeno essersi reso conto di cosa ha portato alla sua incriminazione”. Lei ha un buon rapporto con la Guardasigilli Marta Cartabia, le farebbe lo sgarbo di far cadere la riforma che va in aula al Senato il 15 giugno? “Ma quale sgarbo! Ho grande stima del ministro, che ha fatto uno sforzo di mediazione notevole. Chiedere di rendere più incisiva una riforma non significa non volerla. Ribadisco che ha profili positivi e che l’abbiamo già votata alla Camera”. Garavaglia: “Contro il giustizialismo 5 sì. Pentito del cappio leghista” di Laura Cesaretti Il Giornale, 31 maggio 2022 Il ministro spinge i quesiti: “La riforma Cartabia è soltanto un piccolo passo, in maggioranza ci sono troppi forcaioli”. “Lo sa che da quel giorno, sette anni fa, io mi sveglio tutte le mattine alle 4.35 precise e non mi riaddormento più? È come se da allora il mio orologio biologico fosse andato in tilt. A dimostrazione di quanto il sistema giudiziario possa incidere sulla vita, la psiche e il corpo delle persone”. Sette anni fa, il 19 ottobre 2015, Massimo Garavaglia (oggi ministro del Turismo per la Lega nel governo Draghi, all’epoca assessore all’Economia della Regione Lombardia) era a Roma. “Avevo appuntamento a Palazzo Chigi con l’allora premier Matteo Renzi, come rappresentante della Regione. Ma mi squillò il cellulare: “molla tutto e torna a Milano, sei indagato”. Né io né il mio staff avevamo idea di quale fosse l’accusa. In verità ancora non lo ho capito, per quanto era surreale. Ma nel frattempo, il fascicolo giudiziario che mi riguardava veniva praticamente volantinato ai cronisti fuori dal Palazzo di Giustizia: in pochi minuti, i social ne sapevano più di me”. Ministro Garavaglia, da quella vicenda lei è uscito benissimo: assolto con formula piena in primo e in secondo grado. Quindi il sistema funziona? “No, non funziona. Io ho passato sette anni da incubo, e ne sono uscito grazie al sostegno eccezionale della mia famiglia. Ma quanti, meno fortunati di me, vengono stritolati, anche se innocenti, da vicende giudiziarie? È urgente e indispensabile una riforma profonda e seria della giustizia”. I cinque referendum del 12 giugno vanno in questa direzione? “Certo: andare al seggio e votare cinque sì sarà un segnale importantissimo. Il paese ha estremo bisogno di ripristinare un clima di fiducia nel sistema giudiziario da parte dei cittadini. Basta dare un’occhiata ai sondaggi, che da anni registrano un progressivo crollo della fiducia nella magistratura per capire quanto sia drammatico il problema”. A giudicare dalle cifre della partecipazione allo sciopero indetto dall’Anm contro le riforme, nella stessa categoria dei magistrati non ci si fida poi troppo dei propri rappresentanti... “È così: il clamoroso flop di quello sciopero è un chiaro segnale di scollamento anche interno. Molti magistrati sono consapevoli che la credibilità persa dalla categoria va riconquistata: troppi errori giudiziari, troppe persone ingiustamente perseguite, troppe inchieste-spettacolo che poi finiscono nel nulla. E chi pensa tanto a me non può capitare sbaglia: può capitare a chiunque, come è successo a me. E, quando poi ci si incappa, ci si rende conto dell’impatto devastante che un simile choc ha sulla vita reale di una persona. E io in fondo ho subito solo lo sputtanamento mediatico di accuse infamanti cui non puoi reagire: la tua foto nei tg, i sorrisetti quando vai a messa la domenica, l’impatto sui figli. Figurarsi chi finisce pure in galera e si fa mesi e mesi ingiustamente”. Molti avversari dei referendum obiettano che la materia è troppo complessa per lasciar decidere i cittadini, e che il Parlamento sta già votando la riforma Cartabia... “La riforma del Guardasigilli migliora diversi aspetti del sistema, ma è solo un piccolo passo avanti. E non poteva essere che così, visto il peso di alcuni partiti forcaioli e manettari in questa maggioranza. Fare una riforma profonda avendo a che fare con i giustizialisti è impossibile: per questo, i cinque referendum sono lo strumento indispensabile per completarla e fare scelte che questo Parlamento, con le sue resistenze interne, non è in grado di fare”. Il Pd si è schierato per il no. Se lo aspettava? “Sinceramente non me lo aspettavo, anche perché molti dem sono a favore dei quesiti. Ci sono questioni oggettive, come quello della valutazione dei magistrati, su cui la contrarietà del Pd mi lascia senza parole: le analisi più serie di organismi internazionali dicono che le performance dei magistrati italiani hanno standard bassissimi, e questo è un enorme problema per la credibilità del paese, con pesanti ripercussioni economiche. Purtroppo è prevalsa l’ansia di strizzare l’occhio all’elettorato più giustizialista, anziché la volontà di affrontare e risolvere i problemi del sistema”. I nemici dei referendum scommettono sull’astensionismo... “È una pessima tendenza che si è affermata da anni: invece di fare una battaglia a viso aperto sul merito, difendendo le ragioni del sì o del no, si usa strumentalmente il quorum per boicottare lo strumento referendario. In modo ipocrita, anche grazie all’ostruzionismo mediatico e informativo. I media hanno avuto un’enorme responsabilità nel distorcere il sistema giustizia: negli ultimi decenni, l’avviso di garanzia si è trasformato in condanna, il processo di primo grado in ergastolo. Poi nel 90% dei casi il procedimento finisce nel nulla, nel silenzio totale. Spero che in queste ultime due settimane si riesca a far capire ai cittadini l’importanza di andare a votare per i cinque referendum: ce la possiamo fare”. Ministro Garavaglia, ai tempi di Tangentopoli la Lega sventolava il cappio in Parlamento mentre tanti politici finivano in ceppi. È pentito? “Sì. Me ne sono pentito e me ne vergogno. È stato un grave errore”. “Non c’è rassegnazione, l’Anm ha il dovere di ricostruire l’unità” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 maggio 2022 A due giorni dalla riunione del Comitato Direttivo Centrale dell’Anm che si è riunito anche per riflettere sull’esito dello sciopero del 16 maggio, facciamo il punto con la vicepresidente dell’Anm Alessandra Maddalena, esponente di Unicost. Il presidente Santalucia ha detto: “È fortemente ingeneroso definire lo sciopero dei magistrati un flop”. Lei come lo definirebbe? I numeri dell’adesione all’astensione meritano una riflessione seria che non può risolversi in una definizione slogan. Circa quattromila colleghi hanno condiviso la forma di protesta deliberata dall’assemblea generale dell’Anm. Le percentuali più alte si sono registrate nei piccoli tribunali di frontiera, dove evidentemente è stata più avvertita la preoccupazione per la deriva burocratica e verticistica cui rischia di condurre questa riforma, con l’effetto di minare l’indipendenza dei magistrati e la qualità delle loro decisioni. L’altra metà degli iscritti ha fatto una valutazione di tipo diverso sulle forme di protesta, anche se la maggior parte non ha ritenuto di esprimere le ragioni del dissenso in assemblea. Su questo occorre certamente interrogarsi, anche per trovare nuovi modi di coinvolgere e far riscoprire a tutti i colleghi le ragioni e le radici di un impegno forte e condiviso nell’associazionismo giudiziario. E in fondo, in parte, la via è stata già tracciata. Pensi alle assemblee che in pochissimi giorni le giunte locali sono riuscite a organizzare in quasi tutta Italia per la giornata del 16 maggio, tra l’altro anche con la partecipazione di avvocati, giornalisti ed esponenti dell’accademia. Certo, c’è ancora molto da fare ed è per questo che il Cdc all’ultima riunione ha deliberato di convocare alcune sedute in altri distretti, a cominciare da quelli in cui si è registrata la minore partecipazione allo sciopero, o di indire consultazioni aperte affinché gli iscritti possano segnalare temi ritenuti prioritari. Andrea Reale dei 101 chiede le dimissioni di tutti dopo quanto accaduto... La richiesta mi ha sorpreso e non ne ho compreso fino in fondo le ragioni. Il collega sa bene che la decisione di proclamare l’astensione è stata assunta dall’organo sovrano dell’associazione, cioè l’assemblea, ma sostiene che la volontà di quasi tutti i votanti sia stata influenzata dalla dirigenza attraverso il sistema delle deleghe, che ha definito drogate. Sarebbe bastato assistere alle assemblee locali che hanno preceduto quella generale per comprendere che le deleghe sono state rilasciate in modo del tutto consapevole, all’esito di approfonditi dibattiti. Mi sembra quasi offensivo sostenere il contrario e penso anche alle altre migliaia di colleghi che hanno aderito allo sciopero condividendo e rispettando la decisione dell’assemblea generale, pur non avendovi partecipato. Mi rattrista anche l’affermazione secondo cui i più giovani, che per primi avrebbero sentito l’urgenza di forme di protesta più incisive, sarebbero invece venuti ad intendimenti con la dirigenza, che ne avrebbe maliziosamente canalizzato la spinta propulsiva. Io credo molto nei giovani, sono loro il futuro, ed è soprattutto per loro che dobbiamo rimanere responsabilmente uniti, perché la magistratura possa avere ancora una rappresentanza forte e autorevole nei rapporti con le altre Istituzioni. C’è preoccupazione per gli emendamenti depositati al Senato. Come pensate di intervenire? Innanzitutto continuando a far sentire la nostra voce all’esterno, per evidenziare ancora una volta i pericoli di questa riforma, e ancor di più di alcuni degli emendamenti depositati al Senato, per la tenuta delle prerogative costituzionali poste a tutela della qualità della giurisdizione. Ed è per questo che dobbiamo impegnarci tutti per la salvaguardia dell’unità associativa, naturalmente nel pieno rispetto delle diversità di vedute. Indebolire sempre di più l’associazione, approfittando della crisi di credibilità che ci ha colpito per gli scandali degli anni scorsi e assecondando anche spinte provenienti dall’esterno, avrà il solo effetto di privare la magistratura di ogni capacità di essere ascoltata per rappresentare le serie ragioni di dissenso verso questa riforma. Una mancata adesione del 50% allo sciopero non indebolisce molto l’Anm nei confronti del potere politico per una possibile trattativa o solo per far sentire la propria voce? Non lo credo. Le valutazioni sui numeri dell’adesione le ho espresse prima. Non mi piace pensare a una trattativa. Mi piace credere che le nostre argomentazioni saranno ascoltate e attentamente valutate perché si tratta della tenuta di uno dei pilastri dello Stato di diritto. Ai tempi di Berlusconi l’adesione alle astensioni era del 90%. Eravate un corpo solido, unito. In questi anni l’Anm è cambiata... Sono cambiati il contesto storico e la società, c’è una generale spinta verso la disintermediazione. Assistiamo a un processo di individualizzazione sempre più spinto. Questo ha interessato anche la magistratura, ancor più dopo i noti scandali che hanno accresciuto in molti il senso di stanchezza e di disillusione. Per non parlare della tendenza di alcuni a trasferire il dibattito dalle sedi proprie - quelle fisiche ed istituzionali - ai luoghi di confronto esclusivamente virtuale, dalle mailing list, alle chat, che sembrano ampliare la partecipazione, ma rischiano invece, se mal gestite, di aumentare l’isolamento e l’autoreferenzialità, annullando lo spessore e la profondità del confronto, contribuendo in definitiva alla divisione. Come si ritrova l’unità? Oggi la sfida dell’associazionismo è proprio saper fare di nuovo unità: non significa omogeneità o identità di opinioni ma confronto e dibattito, anche avviando seri percorsi culturali. Fare associazione deve tornare a significare creare luoghi ed occasioni di aggregazione dove è possibile insieme costruire percorsi risolutivi ad interrogativi collettivi, ad esigenze di riscoperta delle ragioni dell’impegno quotidiano. Bisogna far sentire che siamo parte di un corpo unico la cui salute sta a cuore di tutti. Questa Anm si sta già impegnando tanto, ad esempio attraverso il lavoro della commissione dedicata alla educazione alla legalità. Educare ai valori della giustizia è pure compito di noi magistrati, per formare soprattutto i giovani alla cultura dello Stato e delle Istituzioni e al rispetto delle regole di convivenza. Una campagna contro i referendum può rappresentare un momento di coesione e successivamente una vittoria da rivendicare, visto che sarà difficilissimo raggiungere il quorum? Noi non facciamo campagna contro i referendum. Spieghiamo le ragioni per le quali riteniamo che gli interventi che si intendono realizzare siano rischiosi per la tenuta del modello costituzionale di magistrato e per la sicurezza dei cittadini. Tra i quesiti, qual è a suo parere quello più criticabile? Innanzitutto, la separazione delle “carriere”. Non abbiamo bisogno di “superpoliziotti” in cerca di brillanti operazioni ma di pubblici ministeri organi di giustizia, che continuino a svolgere un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria con la consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio. Mi preoccupa molto anche il referendum sulle misure cautelari. Escludere il pericolo di reiterazione del reato dai presupposti generali di applicazione delle misure cautelari - tutte, anche quelle non detentive - significa nient’altro che abbassare il livello di sicurezza sociale, impedendo di prevenire in via cautelare condotte allarmanti come lo spaccio di droga, il furto in abitazione, lo stalking senza atti di violenza fisica e altri gravi reati. Il Cdc “ritiene indispensabile avviare una interlocuzione con i colleghi e i dirigenti degli uffici, affinché segnalino le criticità emerse e indichino le proposte per la migliore operatività del nuovo modulo organizzativo”. Un altro modo per rinsaldare i legami all’interno dell’Anm? È un tema molto serio. Il gruppo al quale appartengo aveva presentato un documento già alla fine dello scorso anno, chiedendo che se ne discutesse in Cdc. La prospettiva è stata condivisa da tutti, con il documento al quale ha fatto lei riferimento. Infatti, solo chi opera nei singoli territori è in grado di segnalare le problematiche di concreto impiego di questo modulo organizzativo. L’ufficio per il processo è certamente una grande opportunità e non va sprecata, ma non è accettabile collegare alla disponibilità di questo strumento la promessa all’Europa e ai nostri cittadini, di abbattimento delle pendenze e della durata dei procedimenti nei termini indicati dal governo, a meno di non voler spingere sempre di più verso una visione efficientista e impiegatizia della giustizia, a scapito della qualità delle decisioni. Stragi di mafia, Report omette quello che Falcone scoprì su Gladio e sull’ex neofascista Volo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2022 “Da Report è arrivato un contributo davvero di servizio pubblico, nel giorno della ricorrenza della strage contro Falcone e la sua scorta”, ha affermato il deputato di Italia Viva e segretario della commissione Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. Quindi sarebbe servizio pubblico dare credito alla pista Gladio o all’ex estremista di destra Alberto Volo, scartati entrambi già da Falcone nel suo ultimo atto prima di lasciare l’allora procura di Palermo? Sulla presenza a Capaci dell’ex appartenente di Avanguardia nazionale, detto “er caccola”, Stefano Delle Chiaie, il livello è identico visto che ci si aggrappa a un de relato (e ora casualmente si parla di registrazioni sparite). Curioso che nel 1992, innanzi ai pm di diverse procure e anche all’allora brigadiere Walter Giustini, in tutti e 10 i verbali che vanno dal 1992 al 1996, mai il collaboratore Alberto Lo Cicero ha menzionato Delle Chiaie, personaggio già alla ribalta. Ma tutto ciò meriterà un altro approfondimento a parte. Dobbiamo pensare che nel nostro Paese, non a caso al 58esimo posto nella classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo, è servizio pubblico omettere le conclusioni delle indagini di Falcone che farebbe mettere in discussione l’eterna pista usata e abusata che, di fatto, allontana altre verità ben documentate? È grande giornalismo di inchiesta riproporre il pentito Pietro Riggio considerato - come ha riportato Repubblica (ma Il Dubbio - il 26 ottobre 2020 e il 18 dicembre 2020 - lo ha già analizzato come dovrebbe fare il giornalismo indipendente) - inattendibile dalla procura di Caltanissetta? È vero giornalismo intervistare Marianna Castro, ex moglie dell’ex poliziotto millantatore Peluso, senza accorgersene che ha detto cose diverse rispetto a ciò che si legge nelle sue dichiarazioni (altrettanto surreali) rese alla procura nissena? Quindi, anche secondo il deputato di Italia Viva (non del m5s, che è più naturale attendersi tali dichiarazioni), a quanto pare è giusto fuorviare l’opinione pubblica assuefatta dalle dietrologie più disparate. A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, per onorare la memoria di Falcone si infanga stravolgendo non solo il suo pensiero distante anni luce da taluni teoremi che già lo perseguitavano, ma anche il suo metodo di indagine. Non è interessato a nessun politico, tantomeno della commissione Vigilanza Rai, il grido di dolore dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino come reazione alle puntate di Report dove riesuma la pista P2, Gladio ed eversione nera, che nulla hanno che fare con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. A nessuno, tranne che alla procura di Caltanissetta che con un comunicato a firma del procuratore Salvatore De Luca - è stata costretta a smentire talune notizie riportate da Report che “possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi”. Ancora una volta, Report, senza alcun pudore, ritira fuori un interrogatorio del neofascista Alberto Volo reso ai pm nel 2016. Ed è lì che ha dichiarato di aver parlato con Borsellino, tanto che quest’ultimo gli avrebbe addirittura confidato di essere certo che ad armare quell’attentato contro il collega Falcone non fu la mafia. “Gli dissi quello che io temevo e scoprii - dice Volo ai pm - che lui era praticamente sulla stessa linea di pensiero, assolutamente. Soprattutto che non credeva assolutamente alla teoria del bottoncino. Io sono troppo intelligente per credere a questa sciocchezza”. Volo, sempre davanti ai pm, sostiene che fu l’ex dirigente del Commissariato competente, Elio Antinoro, a organizzare l’incontro con Borsellino. Un episodio smentito clamorosamente dall’ex commissario. Che le parole di Volo siano stato invece vagliate atda Falcone, è cosa nota. Talmente nota che il giudice ucciso a Capaci, scrisse nero su bianco che è del tutto inattendibile: “Si consideri ancora - si legge nell’ordinanza sui delitti eccellenti sottoscritta da Falcone -, come sull’onda dell’attualità il Volo abbia preteso progressivamente di identificare un modesto circolo palermitano come la “Universal Legion” con la “Rosa dei venti”, oggetto di notissime inchieste giudiziarie negli anni 70, e poi con la struttura “Gladio”, alla quale infine egli afferma, anzi deduce di appartenere, “rivelando” i suoi presunti rapporti con il generale Inzerilli (dirigente effettivo della struttura negli anni 80) soltanto il 20 novembre 1990, dopo che l’alto ufficiale ha rilasciato un’intervista alla Rai - Tv, e “deducendo” ancora l’appartenenza alla stessa Gladio di Giuseppe Insalaco da una battuta che quest’ultimo (per la verità assai improbabilmente) gli avrebbe fatto sulla “Universal Legion”. Non solo. “La palma del “migliore” se così si può dire - scrive ancora Falcone - spetta certamente ad Alberto Volo. Nei suoi racconti egli è capace di accomunare idee politiche e tarocchi, contatti con servizi segreti e vicende amorose. La vicenda nella quale è implicato esalta la sua mania di protagonismo. Vale la pena di rilevare immediatamente come il comportamento del Volo in questo processo risponda a quel ruolo fantastico e delirante del quale l’imputato ha deciso di connotare ogni momento della sua esistenza”. Poi Falcone prosegue con un esempio quando Volo si autoaccusò di far parte di organizzazioni eversive e di sapere tutto sulla strage di Bologna Ma quindi Falcone ha preso in considerazione Alberto Volo su quale aspetto? Presto detto. “Deve essere chiaro - spiega sempre Falcone-, peraltro, che dietro alle “mitomanie” ed al “protagonismo” del Volo (e che lo inducono alle più distorte e talvolta fantasiose ricostruzioni dei fatti) sta comunque il suo inserimento, quantomeno a livello conoscitivo, nella realtà umana della destra eversiva. La frequentazione del Mangiameli lo ha portato a sapere molto dei fatti legati al terrorismo ed anche dei progetti in atto”. Ma per essere più chiari, è utile riportare fedelmente anche cosa Falcone ha scoperto su Gladio, pista che - solo per fare un esempio - creò grossi intralci anche alle indagini che il giudice Guido Salvini intraprese sulla strage di Piazza Fontana. Ecco, quindi, un passaggio chiaro su cosa pensava Falcone del presunto coinvolgimento della Gladio: una sciocchezza. Da notare quanto non sia cambiato nulla: anche all’epoca i mass media pompavano il millantatore Alberto Volo. È un passaggio che si trova pagina 1550 dell’ordinanza sui delitti eccellenti. È l’ultimo atto di Falcone, ma Report, il servizio pubblico elogiato anche dal deputato di Italia Viva Anzaldi, non lo cita: “Va pure evidenziato che non è risultato che Alberto Stefano Volo abbia mai avuto contatti con i servizi di sicurezza o con l’organizzazione Gladio, nonostante le dichiarazioni recentemente rese ai giornali ed alle tv dal medesimo. Con riguardo alla Gladio, è opportuno ricordare, poi, che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti dall’ufficio del pm di Palermo, nell’ambito di un diverso procedimento, riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco. In tale sede, l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura o anche semplicemente “valutate” per un loro eventuale inserimento, ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento. In tal modo, come si è già detto nella parte relativa all’omicidio dell’on. La Torre, si è pure venuti incontro ad una specifica richiesta della p. o. P. C. I. - P. D. S.”. Grave che un canale di Stato ometta tali circostanze. Grave che l’opinione pubblica venga disinformata, creando un devastante e forse irreparabile sprofondamento nell’ignoranza. Oltre a eventuali pressioni contro quei magistrati seri in circolazione che si occupano delle stragi. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto 40enne suicida nel carcere ifattidinapoli.it, 31 maggio 2022 “È di ieri l’ennesimo suicidio nel carcere di Santa Maria C.V. di un quarantenne italiano, a quanto pare con problemi psichiatrici, che si è tolto la vita impiccandosi nella propria cella. Al detenuto mancava poco per uscire dal carcere”. A riferirlo è il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria S.PP. Aldo di Giacomo: “con quello di ieri sono 30 i suicidi all’interno delle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Una carneficina senza fine. All’interno del carcere di Santa Maria nulla è cambiato da quando il Ministro della Giustizia ed il Presidente del Consiglio promisero cambiamenti significativi. L’episodio di ieri non può che confermare quanto da noi sostenuto ossia che da quel momento la situazione nelle carceri italiane è degenerata con un aumento esponenziale delle violenze nei confronti degli operatori penitenziari e delle sopraffazioni dei detenuti più forti nei confronti di quelli più deboli. Le organizzazioni criminali hanno pieni poteri e riescono a gestire i loro traffici sia all’interno degli istituti che all’esterno. Lo Stato ha abdicato sulla propria presenza negli istituti lasciandoli in mano ai criminali. Il nostro Presidente del Consiglio è senza dubbio un ottimo economista, ma i danni fatti da lui e il Ministro in tema di Giustizia lasceranno il segno per molti anni. La sensazione di impunità che è oramai dilaga nel mondo criminale per un’assenza di fatto di regole, di norme e di mancato rispetto delle leggi esistenti, ha portato ad aumento degli atteggiamenti criminosi all’interno degli istituti e al di fuori di essi. Serve un cambio di rotta che rimetta al centro il rispetto della legalità e della certezza della pena e che dia sicurezza a tutte le persone che collaborano con la giustizia ossia servono norme di fatto che puniscano chi commette reati ma soprattutto bisogna che lo Stato non dia segni di cedimento e per quanto riguarda le carceri sia gestito interamente dai garanti dei detenuti o da quella minoritaria parte di opinione pubblica che vede il detenuto come vittima e non carnefice mortificando due volte le vittime e i familiari”. Viterbo. Pestaggi in carcere, il Gip di Perugia indaga sulla procura di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 maggio 2022 Violenze al Mammagialla e suicidio del detenuto Sharaf Hassan. Un fascicolo contro ignoti per rifiuto d’atti d’ufficio dopo gli esposti del Garante Anastasia. “Omessa iscrizione nel registro delle notizie di reato dei fatti denunciati nell’esposto del Garante dei detenuti per il Lazio pervenuto presso la procura di Viterbo l’8 giugno 2018”. Con questa motivazione il giudice per le indagini preliminari di Perugia Valerio D’Andria ha ordinato alla procura del capoluogo umbro di riaprire le indagini sull’operato dei magistrati requirenti di Viterbo per verificare se ci sia stato un rifiuto d’atti d’ufficio (articolo 328 del codice penale) a seguito degli esposti presentati dal Garante regionale Stefano Anastasia sui pestaggi subiti da alcuni detenuti all’interno del carcere Mammagialla e in particolare sulle violenze cui fu sottoposto Sharaf Ramadan Meckemar Hassan, detenuto egiziano suicida, impiccatosi nella sua cella il 31 luglio 2018. Il giudice è intervenuto confermando l’archiviazione del fascicolo aperto dalla Procura generale presso la corte d’Appello di Roma nei confronti di un sostituto procuratore di Viterbo che era stato indagato e poi scagionato perché i fatti a lui contestati “non costituiscono reato”. La richiesta di archiviazione era stata avanzata anche dalla stessa Procura generale che nel dicembre 2021 aveva avocato a sé il “caso Mammagialla”, togliendolo ai colleghi di Viterbo perché questi si erano limitati ad indagare solo per istigazione al suicidio. Nello stesso provvedimento però il Gip di Perugia (procura di competenza nei casi di denuncia penale a carico della magistratura laziale) ha rilevato che “l’esposto presentato dal Garante dei detenuti faceva riferimento ad una pluralità di episodi violenti che avevano interessato numerosi detenuti e per i quali era quantomeno ipotizzabile il delitto di cui all’articolo 571 c.p.”, ossia l’”abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”. All’epoca degli esposti presentati da Anastasia, infatti, Hassan - tossicodipendente di 21 anni e 50 kg di peso, detenuto in isolamento in un carcere per adulti malgrado, per esplicita richiesta della pubblica accusa, avrebbe dovuto essere trasferito in un carcere minorile perché scontava una pena per un reato (detenzione di una piccola quantità di hashish) commesso quando era minorenne - aveva raccontato “di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria che gli avrebbero provocato lesioni per tutto il corpo e con molta probabilità gli avrebbero lesionato il timpano dell’orecchio sinistro in quanto non riusciva più a sentire bene e sentiva il rumore “come di un fischio”“. “Mentre raccontava quanto aveva subito - scrive il Gip nell’ordinanza riportando stralci significativi dell’esposto di Anastasia - Sharaf velocemente si spogliava così da mostrare i segni sul corpo”. Eppure, sottolinea il Gip, esiste un certificato stilato da una donna medico che non è mai stata indagata malgrado abbia messo nero su bianco l’”idoneità al regime di isolamento ordinario del detenuto”. Quando si suicidò, Hassan aveva da scontare ancora solo 48 giorni di carcere. Non basta: quando la procura di Viterbo tentò di archiviare il caso di Hassan, le parti civili si opposero. Era il 2019, ma l’udienza camerale fu fissata a 5 anni di distanza, nel 2024, e solo dopo un ricorso venne anticipata di due anni. Ora il Gip di Perugia vuole indagare anche su quel grave episodio, ipotizzando ancora il rifiuto d’atti d’ufficio. Bisognerebbe essere grati al giudice D’Andria e, prima ancora, al Garante dei detenuti per il Lazio. Eppure, è bastato che Stefano Anastasia plaudesse all’”accertamento dei fatti”, sia “nell’interesse delle persone che hanno denunciato i maltrattamenti che della stessa amministrazione penitenziaria, che ha interesse a essere trasparente e ad accertare eventuali responsabilità”, che i sindacati di polizia penitenziaria (Sappe, Osapp, Sinappe, Cnpp, Uspp, Cisl, Uil: ossia tutti esclusa la Cgil) si siano sentiti chiamati in causa: “Altro che garante dei detenuti - scrivono in una nota congiunta dove denunciano l’aggressione di un agente da parte di un detenuto - Qui lo Stato dovrebbe prevedere il garante della polizia penitenziaria, quello della legalità, quello dalla parte giusta. Siamo continuamente sotto le aggressioni fisiche, che fanno coppia a quelle mediatiche”. E, dopo aver rimarcato il continuo “depauperamento del reparto di Viterbo”, chiedono “immediatamente le famose body cam”, le telecamere per filmare in diretta le aggressioni subite, dicono, “ad ogni intervento”. Torino. Carcere, gli abusi della Polizia penitenziaria non sono urgenti di Rosita Rijtano lavialibera.it, 31 maggio 2022 Sono accusati di aver picchiato e umiliato i detenuti nel carcere Lorusso-Cutugno di Torino, ma il processo inizierà a luglio del 2023. Intanto, gli agenti continuano a lavorare nella stessa casa circondariale, a contatto con le presunte vittime. Il Garante nazionale Mauro Palma a lavialibera: “Bisogna intervenire subito”. Sono accusati di aver picchiato e umiliato i detenuti nel carcere di Torino: maltrattamenti durati per tre anni, dal 2017 al 2019. Una delle ipotesi di reato è la tortura, ma il processo per lo scandalo che ha travolto l’istituto penitenziario Lorusso e Cutugno fino a toccarne i vertici, imputati per aver coperto i presunti abusi, inizierà solo a luglio del 2023. Domani ci sarà la prima udienza per le tre persone che hanno scelto il rito abbreviato, mentre per le altre 22 l’appuntamento in aula è tra un anno. Il 20 maggio scorso il presidente della terza sezione penale del tribunale di Torino, Marcello Pisanu, ha respinto la richiesta fatta dalle parti civili di anticipare la data: la questione “non è urgente”. Nel frattempo, gli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nell’inchiesta continueranno a lavorare nello stesso istituto e a contatto con le stesse persone. “Bisogna intervenire subito”, dice a lavialibera il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, aggiungendo che “non stiamo parlando di una piccola imputazione. I valori potenzialmente lesi richiederebbero un’urgenza diversa e gli accertamenti devono essere immediati per verificare se ci sono o meno delle responsabilità, e salvaguardare i detenuti da nuovi possibili abusi”. Violenze fisiche e verbali contro i detenuti - L’inchiesta è partita grazie alle segnalazioni della Garante di Torino, Monica Gallo, venuta a conoscenza di ripetuti episodi di violenza e dell’uso improprio di alcune celle per isolare i detenuti che davano segno di scompenso psichico, quando in questi casi l’istituto penitenziario del capoluogo piemontese dispone di una sezione ad hoc. La gran parte delle vittime, in totale 11, si trovava nel padiglione C, quello destinato anche ai cosiddetti sex offender, cioè gli autori di reati sessuali. A loro, stando alle carte dell’inchiesta, gli agenti riservavano pestaggi e umiliazioni. È il caso di D, preso a pugni al volto fino a perdere un dente, e bersagliato di sputi. O di C, svegliato in piena notte e preso a cinghiate. O di E, costretto a dormire sulla lastra di metallo della branda perché privato del materasso. Dopo le botte, seguivano le intimidazioni dirette a garantirsi il silenzio: in caso di denuncia, venivano assicurate ritorsioni persino peggiori. E così, in infermeria, la responsabilità di quegli occhi neri e di quei nasi fratturati era attribuita a un compagno di sezione o alla propria disattenzione: un’accidentale caduta dalle scale, o l’anta di uno stipetto lasciata aperta. Le violenze non si limitavano all’aspetto fisico. I pestaggi erano accompagnati e intervallati da violenze verbali e abusi che rendevano infernale la quotidianità dei detenuti. Come le perquisizioni arbitrarie nelle celle, dove gli agenti buttavano tutto per terra, strappavano le mensole dal muro e spruzzavano il detersivo per i piatti sul materasso e sui vestiti. “Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia di stare qui dentro” dicevano a D, costringendolo in un’altra occasione a ripetere ad alta voce nel corridoio della sezione: “Sono un pezzo di merda”. Poi c’erano gli inviti al suicidio (“Figlio di puttana, ti devi impiccare”), gli insulti (“Pedofilo, pezzo di merda”) e le confessioni: “Ti ammazzerei e invece devo tutelarti”. La copertura dei vertici del carcere - Una situazione di cui i vertici della casa circondariale erano a conoscenza. Ad avvertire Domenico Minervini, l’allora direttore della struttura, rimosso dopo le accuse di favoreggiamento e omessa denuncia, era stata Gallo. Ma una volta informato, Minervini aveva aiutato gli “agenti coinvolti ad eludere le investigazioni dell’autorità, omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza”, scrive il pubblico ministero Francesco Saverio Pelosi nella richiesta di rinvio a giudizio presentata a luglio 2021. Stesso modus operandi adottato anche dall’ex comandante Giovanni Battista Alberotanza, accusato di favoreggiamento per aver anche lui aiutato gli “agenti coinvolti ad eludere le investigazioni delle autorità, omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni”, ma non solo: ha condotto “un’istruttoria interna dolosamente rivolta a smentire quanto accaduto”. Alberotanza - si legge sempre nella richiesta di rinvio a giudizio - era stato informato dell’indagine avviata dalla procura di Torino da due sindacalisti dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp): Leo Beneduci e Gerardo Romano. Grazie a loro, Alberotanza aveva saputo di avere il telefono sotto controllo per un’inchiesta sui pestaggi all’interno del Lorusso-Cutugno. Entrambi gli ex dirigenti, più un agente, hanno scelto il rito abbreviato che inizierà domattina. Mentre per tutti gli altri il processo partirà a luglio del 2023. A nulla è servita l’istanza per chiedere di anticipare la prima udienza presentata da tutte le parti civili: la Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino, Monica Gallo, il Garante regionale, il Garante nazionale, e l’associazione Antigone (seguita nel processo dall’avvocato Simona Filippi). Il presidente della terza sezione penale del tribunale del capoluogo piemontese, a cui è stato affidato il fascicolo, l’ha rigettata considerando la faccenda “non urgente”. Il motivo - a suo avviso - è che l’istanza di anticipazione dell’udienza si fondava sulla possibile prescrizione di alcuni dei reati contestati: elementi che non costituiscono “quell’eccezionale gravità” considerata “idonea a giustificare un trattamento preferenziale rispetto ad altri processi”, visto il sotto organico di personale. Accertamento dei fatti a rischio - “Il fatto che alcuni reati potrebbero essere prescritti a breve non dovrebbe essere una ragione così da poco”, commenta l’avvocato Francesca Fornelli, difensora di Gallo. Ma per Fornelli non è l’unico problema: “Una data così lontana nel tempo rischia di pregiudicare l’accertamento stesso delle responsabilità dei soggetti coinvolti, visto che alcuni episodi si sono verificati nel 2017”. Parlando con lavialibera, sulla questione è voluto intervenire il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma: “I valori potenzialmente lesi richiederebbero un’urgenza diversa”, dice, ricordando che intanto gli agenti continuano a lavorare nello stesso penitenziario. Per il Garante la situazione torinese è sintomatica non solo di come certi valori vengano “erroneamente giudicati di secondaria importanza”, ma anche di come “il problema della lunga durata dei processi non sia solo un problema teorico, che attiene agli uffici, ma ha ricadute dirette sui diritti delle persone”. Palermo. Tavolo tecnico dedicato ai figli minori di genitori detenuti palermomania.it, 31 maggio 2022 “Dobbiamo mettere in campo una più ampia strategia di contrasto al dilagare del fenomeno della criminalità minorile”, scrive la deputata alla Camera del M5S Roberta Alaimo. “Insieme ad Andrea Giarrizzo abbiamo impegnato il Governo a istituire un tavolo tecnico interministeriale, dedicato ai figli minori di genitori detenuti e volto ad analizzare gli effetti di questa situazione sulla salute psicofisica e sulla continuità del percorso scolastico di questi ragazzi. La condizione delle detenute madri, infatti, si ripercuote inevitabilmente sui minori, vittime incolpevoli di un destino che non hanno scelto, provocando in loro particolari sofferenze sia nel caso in cui restino con la madre all’interno di istituti penitenziari, sia nel caso in cui vengano portati fuori dal carcere, subendo, dunque, il distacco dalla figura materna, alla quale viene impedita la possibilità di prestare assistenza e cura continue al figlio. Non possiamo sottovalutare la sofferenza che questo tipo di esperienza genere sui bambini e sugli adolescenti che, se non adeguatamente seguiti, possano essere coinvolti in episodi criminali e violenti. Negli ultimi mesi stiamo assistendo, specie a Palermo, ad una preoccupante escalation di violenza tra i giovani che non deve essere sottovalutata. Qualche giorno fa in Commissione Affari Costituzionali, ho interrogato il Ministro Lamorgese, chiedendo proprio di intervenire immediatamente per arginare il fenomeno. Alla richiesta di attenzione segue oggi un impegno concreto del Governo; questo deve trasformarsi presto in un atto concreto. Dobbiamo mettere in campo una più ampia strategia di contrasto al dilagare del fenomeno della criminalità minorile”. Scrive su Facebook la deputata alla Camera, Roberta Alaimo, dopo l’approvazione dell’Ordine del Giorno sul tema della violenza minorile. Pordenone. Il carcere ospita soltanto 25 detenuti e potrebbe chiudere tra un mese di Loris Del Frate Il Gazzettino, 31 maggio 2022 Il carcere cittadino, il Castello, potrebbe chiudere prima che sia terminato quello nuovo di San Vito ancora impantanato nei ricorsi. Anzi, la chiusura se il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria accetterà la richiesta che ha in mano il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, potrebbe essere questione di poco tempo. Forse un mese. L’ipotesi di chiudere definitivamente il Castello è emersa nel corso della visita che lo stesso sottosegretario Sisto ha fatto a Pordenone la settimana scorsa. Alla base di questa scelta ci sono seri problemi di sicurezza. Nel carcere di piazza della Motta, infatti, sono in corso dei lavori che stanno creando problemi e interessano la realizzazione dell’intero sistema dei servizi igienici comprese le docce e poi c’è da sistemare l’ala in cui è caduto un pezzo di tetto rendendo inagibili alcune celle. Non a caso il numero dei detenuti è il più basso in assoluto: attualmente ci sono solo 25 persone. “Prima di tutto - spiega il senatore Franco Dal Mas che ha accompagnato il sottosegretario nella visita al carcere - c’è da rimarcare la dedizione del personale che opera in condizioni “estreme” all’intero della struttura pordenonese. Sono sotto organico da diverso tempo e nonostante questo solo grazie alla loro volontà è possibile tenerlo aperto. Non a caso la richiesta di chiudere anticipatamente il carcere per questioni di sicurezza, ma anche in considerazione dello stato di degrado dell’opera e dei lavori in corso - è partita proprio dagli operatori di giustizia. A questo proposito - va avanti Dal Mas - una richiesta in tal senso era arrivata anche dal presidente dei magistrati di sorveglianza e dal procuratore generale della Corte d’Appello”. “C’è poi da aggiungere - va avanti - che i 25 detenuti presenti oggi a Pordenone sono un numero esiguo e quindi potrebbero trovare facilmente posto smistati nelle altre strutture della regione, compreso Tolmezzo. In ogni caso, proprio per la presenza dei lavori non sarà possibile ampliare il numero dei detenuti per parecchio tempo. A questo punto, quindi, tanto vale chiudere definitivamente il Castello e aspettare la realizzazione della nuova struttura a San Vito”. C’è però un problema. I lavori nel sito sanvitese sono fermi e sino ad ora sono andati avanti a singhiozzo. È stato allestito il cantiere e poco più. Il perché è presto spiegato: c’è un ricorso che deve essere discusso al Consiglio di Stato. La struttura avrebbe dovuto essere completata nel 2024, ma le continue beghe giudiziari tra le imprese che hanno partecipato alla gara hanno fatto slittare la data di almeno tre anni. C’è il concreto rischio, insomma, chiudendo anticipatamente e definitivamente il Castello, che la provincia resti senza un carcere per diversi anni. “Non è da escludere invece - incalza il senatore Dal Mas - che questa situazione possa accelerare l’iter di San Vito”. Nei prossimi giorni il sottosegretario Sisto si incontrerà con i responsabili del Dap per portare avanti l’istanza di chiusura del Castello e se sarà accolta il giro di chiave potrebbe arrivare tra pochi mesi. Il problema vero, però, è un altro. I lavori del carcere di San Vito non sono mai partiti e c’è pure il rischio che i soldi per la realizzazione dell’opera non ci siano più perchè spalmati su altri capitoli di spesa. Morale della favola con l’eventuale chiusura anticipata di Pordenone la possibilità che la provincia rimanga senza un carcere si fa più concreta. Bologna. Pulizia graffiti, Piazza (M5S): “Impiegare i detenuti” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 31 maggio 2022 La proposta del capogruppo Piazza destinata ai detenuti della Dozza che possono svolgere attività fuori dal carcere. Impiegare i detenuti nella pulizia dei muri della città e dare loro un’opportunità lavorativa. È la proposta che il capogruppo del Movimento 5 Stelle a Palazzo d’Accursio, Marco Piazza, ha illustrato in consiglio comunale: “In questi giorni è di grandissima attualità il tema della pulitura dei muri della città dai graffiti. E giustamente dato che i portici di Bologna sono stati dichiarati Patrimonio mondiale dell’umanità Unesco e che importanti cantieri prepareranno Bologna al futuro - ha detto Piazza, lanciando appunto la proposta di - creare una nuova attività per i detenuti: la pulizia dei graffiti e il decoro dei muri. Alcuni detenuti della casa circondariale della Dozza, infatti, possono svolgere attività fuori dal carcere”. Come infatti prevede la legge 354/1975, il lavoro delle persone ristrette in carcere può svolgersi alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e alle dipendenze di soggetti esternie possono richiedere di essere ammesse “a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’ambito di progetti di pubblica utilità, tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative”. Per Piazza infatti “c’è grande bisogno di aumentare i posti di lavoro e formazione per i detenuti ospiti della nostra casa circondariale. Ad oggi la somma delle attività proposte arriva circa a 150 posti su un totale di 800 detenuti - ma sarebbe anche di valore simbolico, ovvero impiegarle - per lavori di manutenzione della città e di riparazione di atti vandalici”. Nel 2019, il vice segretario regionale del Sinappe - sindacato penitenziario - Nicola D’amore, inoltrò la proposta all’allora assessore Alberto Aitini (con le deleghe di Sicurezza urbana integrata, commercio, Polizia Locale, Protezione Civile, manutenzione del patrimonio e del verde pubblico, rapporti con il Consiglio comunale) di impiegare i detenuti nella raccolta differenziata in tutti gli uffici e alloggi del carcere di Bologna e nei luoghi che ospitano le persone detenute”. Come fare: la proposta - Il consigliere 5 Stelle propone “di segnalare agli amministratori di condominio la possibilità di avvalersi di questa realtà che potrebbe specializzarsi nelle tecniche più moderne per la rimozione dei graffiti e alle specificità della nostra città (materiali, colori…). Con gli enti pubblici questa realtà potrebbe iniziare ad operare nell’ambito dei patti di collaborazione anche con attività legate alla tutela del patrimonio pubblico”. Piazza ipotizza inoltre che “tra un paio d’anni, una volta consolidata e acquisita esperienza, potrebbe anche entrare tra le componenti del nuovo global 2024: i nostri bandi prevedono infatti premialità per l’impiego di lavoratori svantaggiati e quindi avrebbe molto senso e coglierebbe l’incentivo. Insomma un’opportunità che spero possa essere studiata e magari concretizzata” conclude. Larino (Cb). Biodiversità cercasi, detenuti e studenti scrivono un libro e fanno una mostra primonumero.it, 31 maggio 2022 Obiettivo raggiunto: adesso lo scrigno naturalistico che è conservato nell’area del basso Molise può contare su tanti difensori in più, pronti a tutelarlo sempre. Questa era la meta che si era prefissata l’associazione Ambiente Basso Molise quando, nel gennaio 2021, diede inizio al progetto ‘AAA Biodiversità cercasi’ e che è stata raggiunta grazie alle tante iniziative realizzate. Le somme sono state tirate dal presidente Luigi Lucchese nel corso dell’incontro conclusivo che si è svolto il 26 maggio scorso a Guglionesi, nella sala della Casa del fanciullo. Visite guidate nell’area del bosco Fantine con migliaia di studenti e cittadini coinvolti, tutti protagonisti di attività in favore della natura: pulizia della spiaggia, raccolta rifiuti, birdwatching, lezioni su flora e fauna. E ancora, la realizzazione del libro ‘Piccoli amici’, curato dal socio Walter Caterina, che in più di un’occasione è stato donato ai partecipanti delle varie giornate. Una mostra fotografica, allestita in modo permanente al Cea, il Centro di educazione ambientale ubicato nel bosco Fantine, gestito dai volontari coordinati dal presidente Lucchese. Si tratta di una collettiva di fotografie, scattate da Walter Caterina, che verrà ‘esportata’ in Puglia, ad Andria. E ancora, la grande opera di riqualificazione proprio del bosco di Campomarino, svolta anche grazie alla collaborazione di tre detenuti della casa circondariale di Larino. Queste le attività cruciali del progetto che ha ricevuto un finanziamento dalla Regione Molise, essendo risultato tra i vincitori del bando pubblicato lo scorso anno in favore degli enti non profit, e che ha visto il sostegno dell’Istituto di pena frentano, del Csv Molise, dei Comuni di Montenero di Bisaccia e Campomarino e dell’Istituto Omnicomprensivo di Guglionesi. I risultati di ‘AAA Biodiversità cercasi’, esposti dal presidente Lucchese, sono stati evidenziati anche dalla dirigente scolastica Patrizia Ancora, dalla sindaca di Montenero Simona Contucci e dal fotografo Caterina, alla presenza di circa 80 ragazzi. I giovani, in maniera entusiastica hanno preso parte e una serie di giornate tese a diffondere l’importanza di preservare le bellezze naturalistiche locali. “Ringrazio le tante persone che hanno aderito e i partner che ci hanno supportato - le parole del presidente Luigi Lucchese -. Stiamo continuando a ricevere richieste dal Molise e da fuori regionee a ospitare cittadini di ogni età e di ogni parte d’Italia che hanno modo di scoprire le qualità del nostro territorio. Il messaggio è sempre lo stesso: con delle piccole accortezze possiamo garantire la sopravvivenza dell’uomo e del paesaggio”. Il Centro di servizio per il volontariato, al termine di questo percorso di elevato valore formativo, ha inteso esprimere il proprio plauso al presidente Lucchese e a tutti i volontari che, come accade da quasi 20 anni, portano in alto la causa ambientalista. Pesaro. Arti sceniche nelle carceri, si presenta il progetto europeo “Escape” viverepesaro.it, 31 maggio 2022 Nel gennaio 2020, diverse organizzazioni di Spagna, Italia e Portogallo hanno unito le forze per realizzare un progetto finanziato dal programma europeo Erasmus+ con l’obiettivo di migliorare l’uso e l’impatto delle arti performative nelle pratiche educative all’interno dei sistemi carcerari. Il 2 giugno 2022 viene organizzato nella Ex Chiesa della Maddalena di Pesaro un evento in cui il progetto viene presentato al pubblico con interventi del team di ricerca, performance teatrali, la proiezione del docufilm sul progetto realizzato dal regista Andrea Anconetani e del video “I sopravvissuti...” realizzato dalla regista Maria Celeste Taliani che racconta la creazione dell’omonima performance teatrale prodotta dal Teatro Universitario Aenigma e dalla Compagnia Lo Spacco della Casa Circondariale di Pesaro con la direzione di Francesco Gigliotti. Il 1° giugno il progetto verrà presentato all’Istituto Comprensivo Galilei con la proiezione di “I sopravvissuti...” e il 3 giugno nella Ex Chiesa della Maddalena ad un gruppo di studenti delle scuole superiori con la rappresentazione della performance teatrale “I sopravvissuti...” e di una creazione ad esso ispirata e realizzata con un gruppo di studenti universitari di Urbino. L’ingresso è gratuito ed è possibile prenotare i posti online in www.eventbrite.it/e/biglietti-presentazione-pubblica-progetto-escape-346994318347 Affettività e sessualità in carcere: un libro contro la demagogia di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 31 maggio 2022 Pubblichiamo la prefazione del libro di Sarah Grieco “Il diritto all’affettività delle persone recluse”, edito da Editoriale Scientifica. “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile, in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà” diceva l’11 marzo del 1999 l’allora Direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, durante l’audizione davanti alla II Commissione Giustizia della Camera dei deputati in ordine al futuro Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario. Un carcere vivibile, una pena non afflittiva, non oltre la perdita della libertà di movimento. Questo l’antico sogno dei riformatori di ogni tempo, condito da progetti e propositi di recupero e di reinserimento sociale dei condannati, secondo cui la necessità della pena può diventare l’occasione di una vita nuova. Nonostante le ripetute repliche della storia, mai clementi con i buoni propositi dell’umanesimo penale, quei paletti restano fissi, ben piantati anche nella nostra Costituzione: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (non possono cioè riprodurre mimeticamente l’offesa compiuta dal delitto) e devono tendere alla rieducazione del condannato, devono cioè cogliere l’occasione per offrire al condannato una opportunità di reinserimento sociale nella legalità, nell’interesse dell’intera comunità. Ne viene di conseguenza l’attenzione dell’ordinamento penitenziario alle relazioni con l’esterno, sia nel senso del mantenimento di quelle relazioni affettive che riempiono di senso la vita di ogni persona, sia nel senso della necessità di coltivare i contatti con quell’ambiente esterno entro cui il condannato dovrà auspicabilmente reinserirsi. Non a caso i colloqui con i familiari non possono mai essere del tutto annullati, neanche nei regimi di massima sicurezza e di sorveglianza particolare, e l’articolo 1 della legge penitenziaria specifica da subito che “il trattamento tende, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale”, per poi annoverare i “contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia” tra gli “elementi del trattamento” (art. 15 OP). Questo libro di Sarah Grieco - frutto di una ricerca sul campo svolta da una equipe interdisciplinare dell’Università di Cassino nei mesi della pandemia, quando il problema dell’affettività e delle relazioni con la comunità esterna e con i familiari è stato vissuto più drammaticamente dalle persone detenute - dà conto della rilevanza del problema e prospetta soluzioni normative, fatte proprie dal Consiglio regionale del Lazio (committente della ricerca) e proposte al Parlamento con un’apposita iniziativa legislativa. Nella pandemia, si sa, oltre alle ripetute chiusure al mondo esterno, sono stati prima bruscamente interrotti i colloqui con i familiari e poi sperimentate nuove modalità comunicative, attraverso smartphone messi a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria che hanno fatto cadere il tabù del digitale, che fino al mese di marzo del 2020 era considerato più un pericolo per la società esterna (come se la detenzione in carcere fosse una misura di prevenzione e non di giustizia, in fase cautelare o esecutiva) che un’opportunità di relazione con il mondo esterno per le persone detenute. Oggi si tratta di consolidare quanto la pandemia ha fatto emergere, riconoscendo l’insufficienza delle previsioni normative del Novecento analogico, tuttora vigenti (10 minuti di telefonata alla settimana, un colloquio in presenza alla settimana per una o due ore), e la necessità di andare verso una progressiva liberalizzazione delle comunicazioni con l’esterno (fatti salvi i vincoli stabiliti dall’autorità giudiziaria per ragioni di indagine) con tutti i mezzi che il XXI secolo digitale mette a nostra disposizione, dalle videochiamate alla posta elettronica, fino all’uso dei telefoni personali, come suggerito dalla Commissione ministeriale per l’innovazione nel sistema penitenziario, almeno per i detenuti di media sicurezza e verso utenze identificate e autorizzate. Ne verrebbe una piccola rivoluzione che ci metterebbe al pari di molti Paesi europei ed extraeuropei. Così come una piccola rivoluzione è necessaria per superare l’altro tabù di cui si tratta in questo lavoro, quello della sessualità: bandita e nascosta, vietata e rubata nelle nostre carceri, quando invece altrove è pacificamente accettata, come componente essenziale del benessere e della dignità della persona detenuta. Il progetto di riforma del regolamento penitenziario che Alessandro Margara illustrava alle Camere nel 1999, proponeva già allora la possibilità per i detenuti di trascorrere con i propri congiunti fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno dell’istituto penitenziario, al riparo dal controllo visivo degli operatori penitenziari previsto per i colloqui ordinari. Il Consiglio di Stato obbiettò che la deroga a quel controllo visivo dovesse essere prevista per legge e da allora più nulla è successo, nonostante una pronuncia della Corte costituzionale che pure ha riconosciuto la rilevanza del tema, affidando però a un legislatore troppo timoroso la responsabilità di determinare la disciplina della materia. Qui, in questo libro, si dice come fare, e perché, a partire dalle voci, dai sentimenti e delle esperienze delle persone detenute intervistate nelle carceri di Cassino, Frosinone, Paliano e Roma (femminile). Un patrimonio di conoscenze che è importante divulgare e far conoscere, per superare gli stereotipi e i pregiudizi e per far fare alle nostre carceri altri importanti passi avanti nel lungo e incessante processo di civilizzazione delle pene. Una storia italiana di potere, mafia e trent’anni di depistaggi di Paolo Morando Il Domani, 31 maggio 2022 La lettura dell’ultimo libro di Enrico Deaglio, “Qualcuno visse più a lungo”, è abbastanza sconvolgente, poiché mette in fila responsabilità precise di più parti dello stato nel tremendo susseguirsi dei fatti (le morti di Falcone e Borsellino, le stragi in “continente”, la gestione dei collaboratori di giustizia, i processi, il caso Scarantino). È un libro che si legge d’un fiato, un affresco di storia nazionale che parte ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi nella politica italiana (gennaio 1994, snodo esiziale) risalendo invece a quando la Sicilia ha iniziato a diventare un “narcostato”. Spiega Deaglio: “Questo libro è un po’ il finale di partita, visto il trentennale: gli ho voluto dare una patina di qualcosa avvenuta in tempi passati, di cui rimangono ricordi vaghi, deformati. Ma, ad essere sinceri, è da un po’ di tempo che mi ha accompagnato un senso di rabbia per la capacità che il potere ha avuto di mentire, di deformare, di depistare coinvolgendo tutta l’Italia”. Ci mancava solo Stefano Delle Chiaie. Che lo storico leader di Avanguardia nazionale (ovviamente scomparso, funziona sempre così) fosse o meno trent’anni fa a Capaci, nell’imminenza dell’attentato a Giovanni Falcone e alla sua scorta, la sola ipotesi un effetto concreto lo ha già prodotto. Il primo: le perquisizioni della procura nella redazione di “Report” e a casa del giornalista Paolo Mondani, a caccia però di qualcosa di più di semplici elementi relativi a violazioni del segreto istruttorio (e lo stesso Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, lo ha implicitamente riconosciuto). Il secondo: le immancabili schermaglie tra aficionados e detrattori della trasmissione di Rai 3, che grande spazio ha dato alla questione. Poi però ce n’è un terzo, perfido e sottotraccia: l’effetto di spazzare via gli elementi di realtà concretissimi sulla stagione delle stragi di mafia, con i quali l’Italia dovrebbe finalmente fare i conti, compresa la possibilità che oggi qualcuno si sia forse incaricato di schermarli dietro un gran polverone. La lettura dell’ultimo libro di Enrico Deaglio, Qualcuno visse più a lungo, pubblicato in questi giorni da Feltrinelli, ci riporta invece con i piedi per terra (Deaglio è anche un collaboratore di Domani). Ed è una lettura abbastanza sconvolgente, poiché mette in fila responsabilità precise di più parti dello stato nel tremendo susseguirsi dei fatti (le morti di Falcone e Borsellino, le stragi in “continente”, la gestione dei collaboratori di giustizia, i processi, il caso Scarantino). Un altro pianeta - Non aspettatevi un groviglio di verbali, intercettazioni e dibattimenti, materiale sempre da vagliare a fondo quando si tratta di cose siciliane. No: questo è un libro che si legge d’un fiato, un affresco di storia nazionale che parte ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi nella politica italiana (gennaio 1994, snodo esiziale) risalendo invece a quando la Sicilia ha iniziato a diventare un “narcostato”. E siamo quindi nella seconda metà degli anni Settanta, con la parabola di un certo Michele Sindona, e negli Ottanta della grande mattanza: Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, i poliziotti e carabinieri Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Emanuele Basile, i magistrati Rocco Chinnici, Gaetano Costa, Cesare Terranova. Ed è una lista parziale. Deaglio coltiva una lunga consuetudine con le vicende di Sicilia. Vi è sceso nel 1982 proprio a seguire i funerali del segretario regionale comunista Pio La Torre, “padre” della legge sulla confisca dei patrimoni ai mafiosi. E si è trovato di fronte una realtà inattesa: donne vestite di nero dietro al feretro, Enrico Berlinguer e Sandro Pertini pallidissimi, 100mila persone. “Un senso di tragedia incombente: mi ha colpito molto, sembrava un altro pianeta - racconta -. Da quel giorno non ho mai smesso di andare in Sicilia, per i giornali e la televisione. Seguivo in particolare storie di piccola mafia nella provincia di Agrigento, poi c’è stato l’omicidio del mio amico Mauro Rostagno a Trapani”. Nel 1993 ha scritto un libro sulla seconda guerra di mafia, Raccolto rosso. Perché quel titolo? “Ero rimasto incuriosito dal fatto che quel famoso giallo americano scritto da uno scrittore comunista, Red Harvest di Dashiell Hammett, dove non ci sono i buoni e i cattivi ma solo una violenza che cresce inarrestabile, fosse stato citato sia da Leonardo Sciascia sia da Falcone e fosse nelle loro librerie”. Depistaggi - Una decina di anni fa, Deaglio ha scritto poi quello che lui chiama “un libretto”, ma avercene di libretti così: si trattava infatti di Il vile agguato, dove per primo squadernava l’incredibile vicenda dei depistaggi sull’attentato a Borsellino. Oggi il caso Scarantino è noto come, sintetizza Deaglio, “un’impostura ordita dalla procura di Caltanissetta, da Arnaldo La Barbera, con il tacito assenso di un centinaio di magistrati, del Csm e dei vari governi che si sono succeduti”. Un’impostura durata 15 anni e per la quale sempre a Caltanissetta è in chiusura un processo con alla sbarra, per calunnia aggravata, tre agenti di polizia che facevano parte appunto del pool che indagava sulla strage di via D’Amelio. La Barbera, morto da tempo, è un personaggio chiave. La sua incredibile carriera di super poliziotto è raccontata da Deaglio quasi fosse il personaggio di un film. Ma senza nulla risparmiargli, a partire dal ruolo che avrebbe avuto - stando a rivelazioni di Francesco Di Carlo, prima boss e poi collaboratore di giustizia - nell’attentato fallito-avvertimento a Falcone all’Addaura, il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il magistrato aveva affittato per il periodo estivo. E poi come “arruolatore” del cugino di Di Carlo, Nino Gioè, poi implicato nell’organizzazione della strage di Capaci. Quello stesso La Barbera che, responsabile della sicurezza sia di Falcone sia di Borsellino, è stato l’unico tra i “papaveri” palermitani a non venire rimosso dopo i massacri in cui hanno perso la vita i due magistrati. La questione è scottante e Deaglio comprende ovviamente anche l’episodio del suicidio di Gioè in carcere (ma tale ovviamente non è), all’indomani delle strage di Milano del 27 luglio del 1993 e degli attentati romani della stessa notte. Il potere che mente - Spiega Deaglio: “Questo libro è un po’ il finale di partita, visto il trentennale: gli ho voluto dare una patina di qualcosa avvenuta in tempi passati, di cui rimangono ricordi vaghi, deformati. Ma, ad essere sinceri, è da un po’ di tempo che mi ha accompagnato un senso di rabbia per la capacità che il potere ha avuto di mentire, di deformare, di depistare coinvolgendo tutta l’Italia”. Il caso Scarantino in tutto questo è ovviamente centrale, ma a fargli da sfondo è una trama da film in cui, guarda caso, spuntano continuamente citazioni e ricorrenze del film sulla mafia per antonomasia, Il padrino di Francis Ford Coppola. E senza dimenticarne la conclusione, quel terzo atto in cui sotto le vesti di don Lucchesi si riconosce senza fatica il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Deaglio rievoca anche un proprio colloquio con il regista, qualche anno fa a San Francisco. E scrive: “Come aveva “osato” mettere nel film Andreotti come capo della mafia? Allora nessuno in Italia si sarebbe permesso. Mi guardò stranito: “Andiamo, lo sapevano tutti”. Un film nel film è quello dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, anzi, dell’intera famiglia Graviano e di come il quartiere di Brancaccio sia diventato negli anni simbolo della loro forza. A partire dal San Paolo Palace Hotel inaugurato nel 1990, mastodonte di 14 piani a quattro stelle, piscina in terrazza, eliporto, 260 stanze e dieci suite, sale fitness, due ristoranti e ben nove sale congressi, per una capienza complessiva di 1.800 posti. Tutta roba dei Graviano, ovvio. Ha ospitato, ed è un dettaglio pazzesco, anche poliziotti e carabinieri impegnati nell’arresto di Totò Riina. O meglio: nella messa in scena del suo arresto. Perché, come suggerisce Deaglio, la cattura altro non sarebbe che una consegna, frutto di un patto inconfessabile tra gli stessi Graviano (che sostituiranno l’odiato Riina ai vertici di Cosa Nostra) e i servizi. La discesa in campo - Follow the money, recita un celebre dettame investigativo, che andrebbe particolarmente osservato con riferimento alle tragedie di Falcone e Borsellino: anche Deaglio sottolinea infatti che la vera causa delle loro morti sta nelle loro indagini, da più parti ostacolate, su mafia e appalti. Ma a quella raccomandazione ne andrebbe aggiunta un’altra: occhio alle date. Come quella dell’arresto a Milano dei Graviano: 27 gennaio 1994. Una notizia che allora sui giornali passò in secondo piano, zeppe come erano le pagine di reazioni e commenti alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, appena avvenuta. Un caso? Nuovi referenti politici - No, secondo Deaglio, che fa ampia citazione delle motivazioni della sentenza di primo grado del processo “‘ndrangheta stragista”, di appena due anni fa: dove si parla della convinzione dello stesso Giuseppe Graviano, che fino a quel momento godeva di una “copertura favolosa” (parole sue), di come l’inatteso arresto sia stato “il frutto di un accordo messo in atto da vari soggetti (…) per impedire la formalizzazione, già fissata per il mese successivo, dell’accordo stipulato con Silvio Berlusconi che aveva comportato l’investimento negli anni settanta di ingenti somme di denaro”. Va detto che in sentenza i giudici affermano pure che “tale versione dei fatti, cioè che l’arresto fosse stato eseguito per evitare che venisse poi formalizzato un accordo di natura economica che vedeva coinvolto Silvio Berlusconi, con una sorta di complicità da parte dell’Arma dei Carabinieri, è rimasto totalmente indimostrato e risulta allo stato sfornito di elementi di supporto”. Così come Mediaset ha sempre smentito che sia mai avvenuto un incontro tra il Cavaliere e Giuseppe Graviano, come sostenuto invece da quest’ultimo. Ma attenzione: secondo la Corte di Reggio Calabria “ciò che è certo è che Graviano, dopo avere vissuto indisturbato da latitante per circa dieci anni, non immaginava di essere arrestato proprio quando aveva individuato dei nuovi referenti politici che egli erroneamente aveva ritenuto affidabili”. Che filmone ne verrebbe fuori, se solo qualcuno avesse il coraggio di produrlo. La tribù bianca e l’ideologia delle “guerre giuste” di Ascanio Celestini Il Manifesto, 31 maggio 2022 Incontro con Alex Zanotelli, una vita dalla parte degli ultimi: “Con una mano diamo aiuti, con l’altra vendiamo armi”. Ucraina e non-violenza? “Dovevamo pensarci nel 2014”. “È sbalorditivo questo fatto che siamo tornati di nuovo al concetto di guerra giusta. E soprattutto in difesa della civiltà occidentale. Io pensavo che certe cose le avessimo ormai digerite, e invece no”. Sono le prime parole che pronuncia Alex Zanotelli, poi si interrompe, ci pensa e mi chiede se voglio un decaffeinato. Ringrazio. L’ho già preso al bar appena arrivato alla stazione di Napoli. Mentre accendo il registratore si mette seduto nell’angolo della stanzetta dietro al tavolino. Io dico “registro così posso usare proprio le tue parole”. “Sì, sì, tranquillo” e riprende il discorso. “Papa Francesco è stato chiarissimo nell’enciclica Fratelli Tutti. Cioè che oggi con lo “sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche”, ma anche con la Cyberwarfare “si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile” ed è diventato assurdo “parlare di una possibile guerra giusta”. Così l’unico vincitore di questa guerra è il complesso militare industriale. Questa è la cosa veramente paradossale della nostra storia. Con il problema che se effettivamente la Russia viene incastrata è capacissima di usare l’atomica. Stiamo ballando letteralmente sul baratro di un’esplosione atomica e dell’inverno nucleare. Io non riesco a capire perché la gente non lo comprende”. Caro Alex - gli suggerisco - la gente non lo comprende++++ perché non è facile spiegare che rispondere alla violenza con la violenza è un suicidio oltre che un omicidio. Le televisioni hanno cominciato subito dopo Natale a mostrare gli ucraini che si esercitavano coi fucili di legno e i ragazzini che preparavano le molotov. Era la storia di Davide contro Golia. Parli col vicino di casa e ti dice: “Che faresti se invadessero l’Italia? Ti ricordi i partigiani che hanno combattuto il nazifascismo?”. Come faccio a rispondere al mio dirimpettaio che gli ucraini possono scegliere una resistenza nonviolenta? “Oggi è inutile - mi risponde - che parliamo di nonviolenza in Ucraina. No. È solo tempo perso. Dovevamo farlo prima. Dal 2014 ad oggi sappiamo bene quello che stava avvenendo. Se noi avessimo cominciato seriamente a lavorare col popolo ucraino per coscientizzarlo, per prepararlo a una resistenza nonviolenta qualcosa poteva avvenire. C’è l’esempio della Danimarca quando Hitler ha dichiarato guerra. Quei quattro gatti di esercito che avevano si sono subito arresi con l’intenzione di resistere al nazismo. Infatti il re andava in giro con la stella di David. Hanno salvato, portato in una notte tutti gli ebrei fuori dalla Danimarca. Li han portati in Svezia. E hanno fatto una resistenza. Il popolo ha sempre un potere enorme. Pensa a quello che ha fatto Mandela in Sud Africa. Tutti noi eravamo convinti che laggiù si sarebbe arrivati a una guerra terribile tra bianchi e neri. E invece…Però tutto questo richiede preparazione. La nonviolenza non si inventa dal nulla. Quando ero direttore di Nigrizia - racconta - ho appoggiato tutte le lotte armate in Africa contro il colonialismo perché mi sembrava che fosse l’unica cosa che si poteva fare. Bisognava stare da quella parte. Oggi mi pento. Io sono un convertito alla nonviolenza di Gesù. Lui cosa aveva capito? Che il suo popolo stava andando dritto alla guerra contro Roma. E tutti si aspettavano che sarebbe stato lui a guidarla. E la più grande tentazione che ha avuto Gesù quando è arrivato a Gerusalemme era guidare duecento, trecentomila ebrei che lo aspettavano. E invece lui è entrato su un asino. Ci ha preso in giro tutti. Pensa a Gandhi - conclude - che ha liberato l’India contro l’impero britannico e con lui c’era B?sh? Kh?n che guidava i musulmani”. Alex Zanotelli è nato a Livo in Trentino. Dalla metà degli anni 50 ha studiato a Cincinnati, Ohio, poi nel 1965 ha insegnato in Sudan. In Africa ha preso coscienza che “la ricchezza di pochi è pagata dalla miseria di troppi”. Come direttore di Nigrizia, il mensile dei missionari comboniani, ha denunciato lo squilibrio tra i pochi aiuti ai poveri e i grandi introiti per il commercio di armi. Oggi l’Italia arriva più o meno a 400 milioni di euro per la cooperazione allo sviluppo (dati Openaid AICS), ma presto raggiungerà il 2% del PIL per le armi, cioè quasi 40 miliardi. “Mi domandavo: “come è possibile che con una mano l’Italia offra aiuti e con l’altra invece venda armi?” scrive in un suo libro che ha pubblicato Feltrinelli da poche settimane “Lettera alla tribù bianca”. Il titolo viene dalla sua esperienza nella baraccopoli di Korogocho, periferia di Nairobi. Accanto alla “enorme e spaventosa discarica di Dandora” dove anche i bambini diventano scavengers, raccoglitori di rifiuti, le bambine si prostituiscono e spesso muoiono di Aids prima di diventare maggiorenni. Dopo dodici anni in mezzo ai rifiuti dell’umanità è tornato in Europa “perché, se oggi viviamo in un pianeta di immense folle di impoveriti, la responsabilità è in gran parte della tribù bianca. E come missionario sono tornato dalla mia gente, dalla mia tribù bianca a convertirla”. Accompagno Zanotelli a piazza Carità dove l’aspettano per un volantinaggio contro la guerra. Andiamo insieme verso il Ponte della Sanità costruito all’inizio dell’800 da Gioacchino Murat per favorire il passaggio dal centro della città alla reggia di Capodimonte evitando ai sovrani di passare in mezzo alla plebe. Gli impoveriti della nostra tribù bianca dove padre Alex è andato a portare un riscatto di pace e dignità, una resistenza nonviolenta. Danielle Madam: “Io, campionessa colpita dall’odio ogni volta che oso parlare di diritti” di Mattia Chiusano La Repubblica, 31 maggio 2022 “Ho detto che mi piacerebbe vedere una donna nera, con la giusta preparazione, che conduce un Tg. Le risposte non si sono fatte attendere: mi hanno minacciata, scrivendomi che devo essere grata del fatto di non essere stata picchiata, di non aver subito violenza in questo Paese”. La voce di Danielle Frédérique Madam arriva limpida dal campo di allenamento di Pavia, dove si sta preparando nel lancio del peso, specialità in cui ha vinto cinque titoli italiani juniores. Qualche anno fa divenne famosa, lei figlia di genitori del Camerun, cresciuta in Italia a partire dalla terza elementare, per aver vinto un campionato senza poter avere una chance azzurra, lungo un cammino di diciassette anni per ottenere il passaporto italiano. Lo scorso anno ha accompagnato la vittoria dell’Italia di Mancini come conduttrice di Notti Europee su Rai 1. Quest’anno è diventata testimonial di Amref per il lancio del rapporto sull’Africa Mediata, sottolineando in un’intervista all’Huffington Post che non c’è spazio per gli italiani di seconda generazione nei media. Da quel momento, sui suoi canali social si è scatenata la parte più selvaggia del Paese. “Un Paese che io amo, e che ho l’orgoglio di rappresentare nonostante quel che mi sta succedendo, e la lunga attesa per il passaporto che mi è costata anche l’ingresso nei gruppi militari”. Danielle Madam, la sua vita non è mai stata semplice... “Mia madre mi ha spedita piccola in Italia, da uno zio che viveva qui, per salvarmi da una sanguinosa faida familiare. Dalle suore ho imparato il pavese, di cui vado fiera, e che tanto utile mi è stato per parlare coi vecchietti quando lavoravo come cameriera in un bar”. Anche di questo sembra orgogliosa... “Assolutamente sì. Ho lavorato anche come donna delle pulizie e non lo nascondo, perché mi ha permesso di pagare gli studi: mi sto laureando in comunicazione, innovazione e multimedialità a Pavia. Per la tesi ho scelto come tema la rappresentazione della seconda generazione sui media italiani”. La scintilla che ha scatenato gli haters... “Ho approfondito il report che Amref ha fatto in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia: si capisce come venga rappresentata poco e male l’Africa, attraverso stereotipi, il vucumprà, il ladro, il disonesto, mentre la donna viene associata ai lavori più umili. Nel cinema ragazze di seconda generazione mi dicono di non ricevere mai offerte per ruoli principali, si parla soprattutto di parti come prostituta. E pensare che ci sono plurilaureati, medici, ingegneri”. Ha paura? “Certo non fa piacere ricevere minacce, sentir parlare di fortuna nel non essere stata picchiata, essere invitata a tornare nel proprio Paese (che è l’Italia, lo sapete?). Al tuo Paese mettono bianche al Tg? mi hanno pure chiesto. Non mi sono mai confrontata con tanto odio. Diamo un nome a questa cosa: si chiama razzismo”. C’è un problema Italia? “Me lo chiedo sempre, e la risposta che mi do è la mediatizzazione della seconda generazione. Impiegati di banca, chimici, infermieri, ma non hanno nessuna rappresentazione in tv. Quando appaiono, sono ladri, o emarginati di periferia”. Ancora troppi i suicidi in custodia cautelare in carcere in Europa di Francesca Bormioli Italia Oggi, 31 maggio 2022 In Europa il tasso di suicidio dei detenuti in attesa di giudizio è il doppio di quello dei detenuti condannati, rivela un’inchiesta collaborativa fra otto giornali europei coordinata da Civio. “C’è una grande tristezza in prigione, mascherata da ostilità. Il dolore è visibile, chiaramente, anche nei volti di chi è più arrabbiato”. Questo messaggio e’ stato pubblicato sull’account Twitter di John McAfee il 10 giugno 2021. Tredici giorni dopo, il creatore dell’antivirus McAfee e’ morto nella sua cella, nel carcere Brians 2 di Barcellona, dove aveva trascorso otto mesi in detenzione cautelare, in attesa di estradizione negli Stati Uniti per diversi (e presunti reati) di evasione fiscale e mancato pagamento delle tasse. Poco prima del gesto, McAfee ha lasciato un biglietto nella sua tasca: “Visto che non posso viverlo pienamente, almeno voglio controllare il mio futuro, che non esiste”. Un’autopsia ha confermato il suicidio. Nel 2021, secondo i dati dello studio SPACE del Consiglio d’Europa, 480 persone si sono suicidate nelle prigioni dei paesi dell’Ue: di queste, 172 si trovavano in detenzione preventiva. Si tratta di persone in attesa di giudizio: questo significa che la loro presenza in carcere non era dovuta ad una condanna definitiva. La prigione, specialmente quando si tratta di custodia cautelare, aumenta il rischio di suicidio: nel 2021, ci sono stati 17,5 suicidi ogni 10.000 detenuti in custodia cautelare, il doppio del resto della popolazione carceraria (8,54). Per paese, i tassi piu’ alti si sono registrati in Repubblica Ceca (51 suicidi per 10.000 detenuti in custodia cautelare), Lettonia (50,3), Austria (47,3) e Francia (43,1). In numeri assoluti, le cifre peggiori sono state registrate nel 2021 in Francia, dove 175 persone si sono tolte la vita (77 di loro erano ancora in attesa di giudizio). Queste cifre non sono un problema isolato: uno studio, condotto in 24 paesi e pubblicato nel 2017 sulla rivista The Lancet Psychiatry, aveva gia’ messo in guardia rispetto all’alta prevalenza di suicidi nelle prigioni francesi. “Non sapevo se sarei uscito, quindi ho messo le dita [nella presa] per provare, ma non e’ successo niente perche’ le prese erano protette, altrimenti sarebbe finita li’“, racconta al telefono Jose’ Luis, che ricorda con particolare durezza il periodo di detenzione preventiva nel carcere spagnolo di Picassent. Jose’ Luis ha trascorso in quel carcere un anno e diversi mesi in attesa di giudizio, fino a quando e’ stato trasferito nell’ospedale psichiatrico del carcere di Fontcalent, perche’ le accuse penali sono cadute a causa della diagnosi di schizofrenia, malattia di cui soffre. Prima che la misura venisse decretata, la situazione di Jose’ Luis era molto complicata: “Avevo commesso un crimine, mi trovavo in uno stato d’animo pessimo, nella fase peggiore del mio disturbo. Non avevo una percezione chiara della realta’, ne conservo un ricordo orribile”. L’esperienza di Jose’ Luis non e’ unica, la maggior parte dei detenuti in detenzione cautelare affronta, stando alle parole dell’esperta Vanessa Michel, “il cataclisma dello sradicamento”. Michel, specialista al Secular Service of Aid to the Litigants and Victims (SLAJ-V) in Belgio, continua: “Penso che tutta questa incertezza crei molta ansia, un’ansia che e’ molto diversa dall’ansia che segue la condanna”. Essere in detenzione cautelare genera un’attesa incerta, nella quale i detenuti non sanno quando potranno comparire davanti al giudice o quando (e se) il mandato d’arresto potra’ essere revocato. Inoltre, da un giorno all’altro, devono abituarsi a un ambiente molto diverso da quello al quale sono abituati e che viene loro imposto, insieme a degli sconosciuti. Jose’ Luis, a questo proposito, ricorda di aver passato un periodo difficile a causa di problemi con altri prigionieri. A questo si aggiunge la mancanza di controllo sulla situazione, di cui soffrono molte persone in attesa di giudizio. “Si passa dal pensare di avere il controllo sulla propria vita, all’essere improvvisamente controllati 24 ore al giorno e non avere assolutamente il potere di cambiare le cose. Quella sensazione di impotenza e’ molto dura da sopportare. Per me e’ la cosa peggiore del carcere”, spiega la psicologa carceraria María Yela, che ha lavorato in diverse prigioni spagnole e dove, dopo il pensionamento, lavora come volontaria. “Inoltre bisogna confrontarsi con il fatto di essere sospettato di qualcosa, l’insicurezza, l’imprevedibilita’ del futuro, e’ un’esperienza esistenziale”, aggiunge Eric Maes, ricercatore presso il dipartimento di criminologia operativa al National Institute of Criminalistics and Criminology (INCC) in Belgio. La probabilita’ di suicidio, avverte l’Organizzazione Mondiale della Sanita’, aumenta durante le prime ore o giorni di detenzione. “Si tratta di un periodo molto, molto fragile, molto critico”, continua Maes. Quando fattori come l’isolamento improvviso, la mancanza di informazioni o un alto livello di stress si uniscono, e’ possibile entrare nel rischio di un comportamento suicida. Altre volte puo’ entrare in gioco la sindrome di astinenza, nel caso di detenuti che fanno uso di droghe, o l’impatto dei media, che possono anche influenzare le persone. “Abbiamo meccanismi di adattamento, che funzionano piu’ o meno bene e, con il passare del tempo, raggiungiamo un equilibrio, per quanto precario possa essere”, spiega Enrique Pe’rez, capo della sezione di psichiatria dell’Ospedale Generale di Alicante (Spagna) e consulente dei centri penitenziari di Villena (Alicante II) e Alicante I. Essere in detenzione preventiva e’ uno dei principali fattori di rischio per i casi di suicidio. Lo dimostrano studi condotti nelle carceri in Francia, Norvegia, Catalogna (Spagna) e Germania. Di fronte a questo problema di salute pubblica, diversi paesi europei hanno messo in atto dei protocolli nelle prigioni, a scopo preventivo. Si tratta di programmi che possono includere misure come la rimozione di possibili mezzi o materiali con cui il detenuto potrebbe recarsi danno, un maggiore monitoraggio da parte di psicologi del carcere e l’assegnazione di personedi supporto, che diventano l’ombra della persona ritenuta a rischio di suicidio. Nonostante il generale buon funzionamento di questi sistemi, paesi come la Francia non hanno ancora un protocollo efficace, come denunciato nel 2019 da uno studio che ha spinto per l’adozione del piano VigilanS nelle prigioni, piano rivolto, di base, alla popolazione generale. Per Laure Baudrihaye-Ge’rard, direttore legale in Europa di Fair Trials, “va detto che nelle prigioni europee (in Francia e Belgio, in particolare) vigono condizioni orribili, profondamente degradanti: il suicidio da’ un vero significato a cio’ che questa condizione rappresenta, perdita di umanita’“. Baudrihaye-Ge’rard continua, aggiungendo: “Non sai dove ti trovi e le pressioni sono enormi. E poi c’e’ la mancanza di accessibilita’ dei detenuti. Voglio dire, pensate che in giro ci siano degli psichiatri? O psicologi che ti sostengono?” Questa mancanza di risorse a cui fa riferimento Baudrihaye-Ge’rard riguarda anche le prigioni dove esistono protocolli contro il suicidio. “La percentuale di detenuti che sono assegnati a uno psicologo, o a qualsiasi altro professionista, e’ enorme. Non si puo’ lavorare cosi’“, racconta María Yela, psicologa penitenziaria. L’esperienza di Jose’ Luis non e’ stata migliore: “A Picassent vedevo lo psichiatra per cinque minuti ogni tre mesi e in quel momento ti valutava e ti diceva ‘continua con i tuoi farmaci’“. Anche per le persone che non hanno una precedente diagnosi di salute mentale, andare in prigione ha un enorme impatto psicologico che puo’ finire per pesare sulla situazione. Uno studio in Germania ha scoperto che i detenuti in attesa di giudizio sviluppano spesso disturbi di adattamento con sintomi depressivi, e occasionalmente, pensieri paranoici. Il verificarsi di questi problemi, secondo lo studio, mostra “la maggiore vulnerabilita’ psicosociale” dei detenuti. La prevenzione del suicidio, tuttavia, rimane una questione molto complessa. “Gli esseri umani sono imprevedibili. Dobbiamo aiutare, cercare di fare prevenzione, ma e’ un comportamento che, se la persona vuole agire, non saremo in grado di impedire”, spiega María Yela. Secondo lo psichiatra Enrique Perez, anche il sostegno che i detenuti ricevono dall’esterno del carcere, e la vita che hanno condotto precedentemente, possono giocare un ruolo essenziale nella prevenzione di queste morti. Per Jose’ Luis, i mezzi per evitarlo erano fondamentali: “Se avessi potuto suicidarmi, l’avrei fatto”. Abolizione della pena di morte, l’Africa si muove di Luca Cereda vita.it, 31 maggio 2022 Un cammino lento e inesorabile che conquista sempre più Stati. La notizia della decisione del Parlamento centrafricano di abolire la pena di morte, dopo che nel 2021 l’ha abolita la Sierra Leone. In Guinea e in Ghana se ne sta discutendo. Il 27 maggio l’Assemblea nazionale della Repubblica Centrafricana ha approvato per acclamazione e in uno scroscio di applausi l’abolizione della pena di morte: un gesto di straordinaria importanza, in un paese che dal 2013 ha conosciuto pochi momenti di pace stabile e che comunque ha deciso che non è con la pena capitale che quella pace andrà ritrovata. Governo e società civile ora auspicano che l’approvazione del presidente Faustin Archange Touadéra non si faccia attendere e che presto, dunque, la Repubblica Centrafricana si aggiungerà ai due terzi del mondo che hanno già abolito la pena di morte. Appena due giorni prima, il 25 maggio, in occasione della Festa dell’Africa, il presidente dello Zambia Hakainde Hichilema aveva comunicato al parlamento e alla nazione l’intenzione di abolire la pena capitale. Da anni l’Africa subsahariana sta facendo grandi passi avanti in tema di pena di morte. Nel 2021 l’ha abolita la Sierra Leone. In Guinea e in Ghana se ne sta discutendo e non è escluso che da qui alla fine dell’anno la lista degli stati abolizionisti africani si sarà allungata. Nel 2021 sono state attuate 579 esecuzioni capitali, un dato in aumento del 20% rispetto all’anno precedente in cui si è registrato uno stop per la pandemia di Covid. Per giunta alla fine dello scorso anno almeno 28.760 persone erano detenute con una condanna alla pena capitale, 40% in più rispetto al 2020. A riferirlo è Amnesty International nel suo rapporto annuale dedicato alla pena di morte nel mondo, denunciando un “aumento preoccupante” anche se attualmente ad applicarla sono soltanto 18 Paesi, “il numero più basso da quando teniamo questo conteggio”. Tuttavia la statistica dell’ong non tiene conto delle pene capitali eseguite in Cina, Corea del Nord e Vietnam, Paesi che bloccano l’accesso a tali dati. La maggioranza delle persone detenute per una condanna a morte si trovano in Iraq, Pakistan, Nigeria, Stati Uniti, Bangladesh, Malesia, Vietnam, Algeria e Sri Lanka. Il record di esecuzioni è detenuto dall’Iran, dove nel 2021 almeno 314 pene capitali sono state attuate. Il secondo posto va all’Egitto, con 83 esecuzioni capitali, seguito dall’Arabia Saudita, con 65. Negli Stati Uniti sono ancora 28 gli Stati che prevedono la pena capitale. Nel 2014 l’86 % delle esecuzioni si è concentrato in Texas, Georgia e Missouri; solo sei Stati hanno eseguito condanne, e la maggioranza relativa dei giudici della Corte suprema ha espresso dubbi di costituzionalità. Nel 2021 le esecuzioni sono state 11 rispetto alle 17 del 2020 e a entrambi i numeri aveva contribuito la l’allora presidente Trump aveva dato via libera - scadendo il suo mandato il 20 gennaio 2021, complessivamente a 13 condanne ed esecuzioni federali, tre delle quali negli ultimi giorni del suo mandato. Con l’insediamento di Biden alla Casa Bianca a livello federale è in vigore una moratoria sulle esecuzioni. Intanto anche in Europa la pena di morte continua ad esistere: la Bielorussia è l’unico Paese del Vecchio continente che adotta le esecuzioni capitali come pena presente nel codice penale dal 1991, e la impiega con regolarità. Anche se non esistono statistiche ufficiali in merito alle esecuzioni e le informazioni che si riescono ad ottenere sono scarse e incomplete. Inoltre dittatore Lukashenko ha introdotto la punizione capitale per il reato di pianificazione di atti terroristici: una mossa che colpisce i molti esponenti dell’opposizione detenuti nelle carceri dopo gli arresti di massa degli ultimi anni. Stati Uniti. Arrestato bambino di 10 anni: aveva minacciato sparatoria di massa di Danilo Taino Corriere della Sera, 31 maggio 2022 Il bambino, studente della Patriot Elementary School di Cape Coral, in Florida, è stato ammanettato e portato via. “Non è il momento di agire come un piccolo delinquente, non è divertente”, ha detto la polizia. Un bambino di 10 anni è stato arrestato in Florida per aver minacciato una sparatoria di massa tramite dei messaggini. Lo riferisce il New York Post citando la polizia. Il bimbo, studente di una scuola elementare di cape Coral, è stato ammanettato e portato via. “Non è il momento di agire come un piccolo delinquente, non è divertente. Questo bambino ha lanciato una falsa minaccia e ora ne sta pagando le vere conseguenze”, afferma lo sceriffo Carmine Marceno. La minaccia segue la strage alla scuola elementare del Texas, dove un diciottenne ha aperto il fuoco e ucciso 21 persone. “La condotta di questo studente è rivoltante, specie dopo la recente tragedia di Uvalde, in Texas. È imperativo assicurarci che i nostri figli siano al sicuro”, ha dichiarato lo sceriffo della contea di Lee, Carmine Marceno. L’allarme era scattato sabato, come si legge sul post Facebook dell’ufficio di Marceno, quando lo sceriffo della contea di Lee è venuto a conoscenza di un messaggio con un testo minaccioso inviato dallo studente di quinta elementare della Patriot Elementary School di Cape Coral. Il team per l’analisi delle minacce scolastiche è stato immediatamente allertato e ha iniziato ad esaminare il caso. Gli investigatori hanno interrogato il sospetto e hanno ipotizzato il suo arresto, con l’accusa di aver minacciato per iscritto di voler portare a termine una sparatoria di massa. Il presidente Usa Joe Biden, intanto, ha ipotizzato con le autorità della città texana di Uvalde la possibilità di radere al suolo la scuola elementare Robb teatro della strage e di costruirne una nuova. Centomila morti di overdose legalizzare o proibire? Gli oppioidi anti dolore lacerano l’America di Danilo Taino Corriere della Sera, 31 maggio 2022 Dal 1995 l’OxyContin, prodotto dalla Purdue Pharma della famiglia Sackler, è stato al centro di una grande operazione di lobbyng e quindi prescritto massicciamente: il farmaco, per molti analisti, è all’origine dell’ondata record di decessi (causati da fentanyl e altre droghe sintetiche). I Sackler con il loro “Impero del Dolore” sono ora in disgrazia. E torna l’interrogativo sulle strategie L’Impero del Dolore aveva il suo monumento nell’ala Nord del Metropolitan Museum of Art di New York. Un’immensa sala e un’immensa vetrata per contenere il Tempio di Dendur, costruito duemila anni fa sulle rive del Nilo e regalato dall’Egitto agli Stati Uniti nel 1965. Era la Sackler Wing, in onore della famiglia grande benefattrice delle arti ma non necessariamente della società americana. Lo scorso dicembre, il Met ha cancellato il nome Sackler, dopo che l’impero farmaceutico costruito dalla famiglia in sette decenni è crollato nel disonore e nei tribunali. Ora, mantenerne la gloria fa male alla reputazione: anche il Louvre ha rimosso il nome da alcune sale e la Serpentine Gallery di Londra ha rifiutato il denaro della famiglia. I musei, in fondo, se la cavano in fretta. Altrove, le onde sono invece più alte: la caduta dei Sackler ha aperto un’introspezione americana: proibizionismo o legalizzazione nella lotta alla crisi da oppioidi e alle morti da overdose? La domanda, che non sembra avere una risposta univoca, è salita nella scala degli interrogativi che si pongono gli americani da quando, questo maggio, l’agenzia governativa Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) ha pubblicato i dati sulle morti per overdose da droghe riferiti al 2021: 108 mila, secondo dati preliminari. Il tetto psicologico delle centomila vittime all’anno è stato frantumato. La pandemia e i lockdown sono le cause dell’impennata dei decessi degli scorsi due anni, aumentati del 30% nel 2020 e del 15% nel 2021; l’anno scorso, pari a quasi un quarto dei morti americani per Covid. Ma la tendenza viene da lontano: il numero delle vittime da overdose è aumentato regolarmente dal 2000, con la sola eccezione del 2018. La crisi da oppioidi è oggi uno dei principali motivi di decesso negli Stati Uniti, più dell’Aids, più delle armi, più degli incidenti stradali. Se si considerano le morti degli scorsi vent’anni, il dilemma proibizionismo vs legalizzazione, che sembrava pendere a favore della seconda, si complica. Gli spacciatori di fentanyl, killer di massa - Le droghe illegali responsabili delle overdosi sono in gran parte oppioidi sintetici, in particolare il fentanyl (71 mila vittime l’anno scorso), e stimolanti come le metanfetamine (33 mila vittime), spesso mixati. In particolare, l’oppioide fentanyl, nato per lenire il dolore, nelle mani degli spacciatori è diventato un killer di massa. È poco costoso, viene realizzato per lo più in laboratori in Messico, con componenti di base cinesi, e poi fatto entrare clandestinamente negli Stati Uniti. È cinquanta volte più potente dell’eroina e cento volte più della morfina. Prima di venderlo ai consumatori, le gang lo mischiano con altre droghe e altri stimolanti, addirittura contraffanno pillole alle quali poi danno nomi di farmaci, per esempio lo Xanax. Chi compra questi prodotti, nelle strade della California o dell’Ohio, spesso non sa che contengono fentanyl o in quale quantità: il rischio di overdose è alto. Un pezzo di America continua a ritenere che il Paese debba essere drugfree, cioè debba condurre una guerra senza tregua all’uso di droghe, a chi le commercia e, secondo alcuni, anche a chi le consuma. Un altro pezzo si domanda se non sia meglio legalizzarne in qualche forma il commercio in modo da abbassare il rischio di trovare prodotti mortali sul mercato illegale. Un dilemma non risolto da anni, diventato ora dirimente nel pieno della opioid-crisis. Lo scarso successo della politica di zero-droghe fa propendere per l’abbandono del proibizionismo totale e per la legalizzazione regolamentata. Ma è qui che a confondere le cose entrano in campo i Sackler e il loro “Impero del dolore”, come l’ha chiamato Patrick Radden Keefe nel suo libro Empire of Pain. Perché sono proprio certe droghe legali e regolate all’origine della opioid-crisis di oggi, secondo la grande maggioranza degli esperti. Gli errori della famiglia Sackler - Tutto comincia nel 1995, quando la Food and Drug Administration permette la commercializzazione dell’OxyContin prodotto dalla Purdue Pharma, gruppo posseduto dalla famiglia Sackler. L’OxyContin è un oppioide semisintetico per il trattamento dei dolori. Nei primi anni di commercializzazione, tutto procede con una certa regolarità. Nel 2001, succede però che la Joint Commission - un’organizzazione non-profit di enorme rilevanza nel sistema sanitario degli Stati Uniti - indica ai fornitori di servizi medici di chiedere ai pazienti se sentono un “dolore”, dal momento che lo ritiene un sintomo di malessere poco indagato. Da allora, il dolore inizia a essere considerato il “quinto parametro vitale” per iniziare a stabilire lo stato di salute di una persona, dopo la temperatura, la pressione del sangue, la capacità respiratoria e il battito cardiaco. Molti medici ritengono che in realtà il dolore sia un sintomo, non un segnale, fatto sta che da allora le prescrizioni di oppioidi contro il dolore iniziano a crescere. Purdue Pharma vede l’opportunità e inizia una politica di lobbying, di pubbliche relazioni, di coinvolgimento di medici, di convegni per sostenere l’efficacia e la sicurezza, non provata, dell’OxyContin. E organizza una forza di vendite e di marketing che rende il farmaco dominante sul mercato. Altre case farmaceutiche realizzano prodotti del genere ma l’OxyContin batte tutti: dal 1996, ha portato nelle casse di Purdue 35 miliardi di dollari, dicono le stime. Gli Slacker si arricchiscono ulteriormente fino a quando non scoppia lo scandalo delle pratiche scorrette dell’azienda e tutto finisce nei tribunali con un rosario di cause molto serie. E con la convinzione generalizzata che la opioid-crisis sia iniziata così, con un oppioide legale “pompato” sul mercato e tra i medici che ha aperto la strada al fentalyn e simili illegali. I filantropi che fanno soldi sul dolore - La famiglia, fino a quel momento apprezzata come un esempio di generosità filantropica, crolla nella reputazione e deve affrontare corti e avvocati. Lo scorso marzo, ha raggiunto un accordo da sei miliardi di dollari per aiutare le comunità a mitigare la crisi da oppioidi. Un altro miliardo e mezzo lo sborserà la Purdue. E la McKinsey ha trovato un accordo per il quale verserà quasi 600 milioni a 47 Stati americani per avere contribuito, con le sue consulenze, alle turbo-vendite della Purdue. Anche la legalizzazione regolamentata, insomma, si porta dietro dei rischi. Il Proibizionismo americano sul commercio di alcol, dal 1920 al 1933, non eliminò gli speakeasy, il contrabbando dei Roaring Twenties e nemmeno le gang criminali. E la guerra alla droga dei decenni scorsi non si può definire di successo. Dipendenze e spaccio nelle strade e nei parchi - Dall’altra parte, il caso dei farmaci legali che hanno indotto l’epidemia da oppioidi in corso negli Stati Uniti racconta che i rischi di diffusione sono alti comunque. Con ogni probabilità, la legalizzazione toglierebbe una parte di business ai cartelli criminali ma difficilmente li smantellerebbe: forse i casi di overdose si ridurrebbero ma molte vittime della dipendenza, soprattutto le più povere, continuerebbero a rifornirsi nelle strade e nei parchi, è l’opinione di gran parte degli esperti. La questione resta non risolta. D’altra parte, anche sciogliere il dilemma non sarebbe forse risolutivo. La droga non è solo un problema di offerta: c’è anche la domanda che sale dalla solitudine e da una società disorientata. Quella società che aveva fatto grande l’Impero del Dolore.