La politica reazionaria dei sovranisti sui diritti umani dei detenuti di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 30 maggio 2022 La destra ha contestato il governo per aver finanziato la realizzazione di luoghi dove i detenuti possano stare insieme al loro partner per un giorno al mese. Una misura di civiltà che non piace a chi rivendica il carcere quale esclusiva ignominia afflittiva. Nel competere in oscenità con la sinistra manettara e con l’armata forcaiola, quella che si compiace se un vecchio malato resta per sempre in carcere e ne esce soltanto “chiuso in una cassa” (così, testualmente, l’altra sera, l’ex magistrato e deputato progressista Giuseppe Ayala), la presunta controparte di destra si è recentemente esercitata nella contestazione dei propositi di stanziamento governativo per finanziare la realizzazione di luoghi in cui i detenuti, per un giorno al mese, possano stare in intimità con il partner. Ripugna alla destra moderna e cristiana (Rosario & Ordine, per capirsi) anche la sola idea che ai detenuti sia consentito di “sfogare i propri istinti” a spese dei contribuenti, e quindi essa si aduna nella protesta contro il governo per cui (così, ancora testualmente, si bercia dai ranghi di Fratelli di Italia): “La priorità è garantire ai detenuti il massimo comfort e una brillante vita sessuale”. Non c’è neppure, a sorreggere questa requisitoria, la improbabile esigenza securitaria evocata da un altro bel campione della giustizia piombata, quel Nicola Gratteri specializzato in rastrellamenti e nella prefazione di libri negazionisti firmati da autori di propaganda neonazista: c’è proprio, e soltanto, la rivendicazione del carcere quale esclusiva ignominia afflittiva, e il solito vellicamento della reazione plebea al lassismo oltraggioso che si preoccupa del sollazzo dei condannati. Se dovessimo fare ironia potremmo indugiare sulle abitudini di chi considera “brillante vita sessuale” il convegno di ventiquattro ore al mese (discutiamo di questo) in qualche ridotta di una prigione: chissà che tanta acrimonia, tanto risentimento, tanto ribollire di rabbia, non trovino causa in qualche insoddisfazione cui un po’ di esercizio offrirebbe salutare rimedio. Ma non c’è proprio nulla su cui scherzare, perché qui si tratta della disperante dimostrazione (Donna Giorgia perdonerà se usiamo il maschile) che il meglio fico del bigoncio di destra rimane sempre il frutto pessimo dell’eterno albero reazionario e illiberale. Quello che, per quanto la stampa coi fiocchi lo inzuccheri per adibirlo a punto di riferimento fortissimo delle affascinanti avventure alternative, va di traverso a chiunque chieda a qualsiasi leader del 2022 il minimo sindacale di un pizzico di civiltà. Riforma del Csm, l’Anm protesta contro gli emendamenti di Lega e Italia Viva di Francesco Grignetti La Stampa, 30 maggio 2022 Le toghe: “La riforma non è rozzamente in contrasto con la Costituzione, ma più insidiosa e insinuante; lavora ai fianchi del modello costituzionale di magistratura”. Neanche il tempo di riprendersi dalla brutta sorpresa di uno sciopero riuscito soltanto a metà, e per i magistrati c’è in agguato una nuova prova: al Senato, nei prossimi giorni, la riforma del Consiglio superiore della magistratura nasconde a loro dire una grave insidia. L’Anm, che ha riunito il suo esecutivo, teme infatti un serio peggioramento di una riforma che già non gli piace, al punto da aver deciso l’astensione dal lavoro per un giorno (e non accadeva da dodici anni). “Il testo del disegno di legge licenziato dalla Camera - scrivono - per più parti fermamente criticato per scelte che ignorano il confronto con il senso autentico dell’architettura costituzionale della giustizia, sembra aprirsi a consistenti peggioramenti”. Di qui un appello del presidente Giuseppe Santalucia e del segretario Salvatore Casciaro a non dividersi in questa fase, ma piuttosto a unirsi nel momento del pericolo. Un pericolo che porta il nome di Matteo Renzi e Matteo Salvini. Sono i loro due partiti, infatti, che più di tutti stanno cercando di riaprire la partita della riforma al Senato. E nel senso più indigesto all’Anm. “La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario - spiega dunque nella sua relazione il presidente Santalucia - non è rozzamente in contrasto con la Costituzione, ma più insidiosa e insinuante; lavora ai fianchi del modello costituzionale di magistratura. E se avevamo il timore fondato che c’è il disegno di cambiare il volto costituzionale della magistratura, sfogliando il fascicolo degli emendamenti al Senato ne abbiamo conferma”. Gli emendamenti, a firma Lega e Italia Viva, sono stati resi pubblici da qualche giorno. L’Anm li ha osservati con attenzione e a leggerne tre in particolare è passato un brivido per la schiena dei vertici. “Con gli emendamenti si propone separare del tutto le “carriere” di pubblico ministero e giudice; di reintrodurre un sistema di progressione per concorsi per esami, già abbandonato, per i rilevanti guasti prodotti in termini di esasperazione del carrierismo, sin dagli anni Sessanta del secolo scorso; di rendere diretta la responsabilità civile dei magistrati, e ciò non per rafforzare le pretese risarcitorie dei cittadini, già oggi meglio tutelate dalla responsabilità in prima battuta dello Stato, ma per intimidire il magistrato e indurlo a pavide cautele, distratto dal prioritario interesse di proteggere le proprie tasche”. I magistrati hanno insomma colto il rischio che al Senato, sull’onda del voto referendario del 12 giugno, si riscriva daccapo la riforma, e sarebbe ben diversa da quella che già non gli piace. Un rischio che M5S e Pd hanno ben presente, perché potrebbe aggregarsi una maggioranza trasversale, sommando il centrodestra, FdI compreso, i renziani e le più diverse opposizioni che hanno l’intento di far saltare tutto. “Si avverte - conclude l’Anm - l’amaro sapore di un progetto di riforma attraversato da sentimenti di rivalsa di talune espressioni delle forze politiche nei confronti della magistratura, a cui si addebita, al di là delle formali posizioni variamente argomentate, di aver osato esercitare un controllo di legalità senza riconoscere aree di sostanziale impunità, in fedele interpretazione dei principi costituzionali di legalità e di uguaglianza”. A fronte di questo pericolo, Santalucia e Casciaro hanno rivolto un appello all’unità. “È fortemente ingeneroso - dice Santalucia - definire lo sciopero un flop. Lo sciopero non è andato benissimo sotto il profilo delle adesioni, ma la finalità di parlare all’esterno l’abbiamo raggiunta. Ora dobbiamo rafforzare il passo, con la ricerca convinta dell’unità della magistratura; uno dei maggiori pericoli è rafforzare la frammentazione interna”. Anche per il segretario Salvatore Casciaro non si può parlare di fallimento: “Lo sciopero andava fatto e questa scelta va rivendicata orgogliosamente”. Parlano così alle correnti maggiori, molto deluse dall’andamento dello sciopero, a cominciare da Magistratura democratica. Ma soprattutto agli arrembanti del gruppo più recente, Articolo 101 (che sono degli eterodossi, e ad esempio vorrebbero il sorteggio per scegliere i rappresentanti dei magistrati al Csm). Proprio da questi è arrivato l’attacco più duro: “Lo sciopero - sono state le parole di Andrea Reale a nome di Articolo 101 - è stato clamorosamente una disfatta di questa dirigenza dell’Anm, che oggi è particolarmente delegittimata. Bisogna prendere atto del fallimento, dimettendoci tutti quanti”. A questo punto, il ritardo nell’approvazione della riforma - restando alle forme già votate dalla Camera - sarebbe il male minore per l’Anm. Ma pur sempre un male. “È stata imboccata una via di antistorica restaurazione burocratica della magistratura. Il tempo scorre e la legge tarda, ed è allora forte il pericolo che si andrà al rinnovo della composizione del Csm in carica, che sta per concludere il quadriennio, con la legge elettorale oggi in vigore, i cui vistosi difetti sono stati unanimemente riconosciuti”. Referendum. Dalle urne una spinta alla politica di Andrea Cangini* Il Giornale, 30 maggio 2022 Ci sono due buone ragioni per andare a votare i referendum sulla Giustizia, e ce n’è una ottima. La prima è di interesse generale: avere un sistema giudiziario efficiente ed uno costituzionale equilibrato. Non è il caso italiano. Confrontiamoci con la Francia. In proporzione al numero di abitanti, lo Stato italiano spende per amministrare la giustizia il 25% in più, i magistrati italiani guadagnano oltre il doppio e sono anche più numerosi (11,5 ogni 100mila abitanti, contro 10,9). Dovremmo, perciò, esibire risultati di assai migliori. Invece accade il contrario. Un processo civile da noi dura mediamente più di 7 anni, in Francia meno di 2; un processo penale da noi dura più di 3 anni, in Francia meno di 1; per ogni 100mila abitanti noi abbiamo 3.789 processi civili pendenti, loro uno. Il costo economico equivale a due punti di Pil l’anno. Una manovra finanziaria. In compenso, come ha ben descritto Sabino Cassese, da Mani Pulite in poi l’“ordine giudiziario si è fatto potere”. Un potere autocratico e sostanzialmente arbitrario esercitato a scapito dei poteri (democratici) esecutivo e legislativo, oltre che in evidente spregio di principi ed equilibri costituzionali. La seconda ragione è di interesse personale: ciascuno di noi, anche il più ligio e onesto, può finire stritolato in un ingranaggio giudiziario. La vicenda Tortora non ha insegnato nulla. Ogni anno tre quarti degli inquisiti risultano innocenti e mille innocenti risultano incarcerati. “Tutto dipende - diceva Francesco Cossiga - dal piede con cui si alza la mattina un pm”. Lo diceva, Cossiga, soprattutto a proposito dei politici. I quali terrorizzati dai magistrati non perché più colpevoli di altri, ma perché categoria in sé più ghiotta di altre. E veniamo così alla terza ragione, quella ottima. Condivido le ragioni particolari del Sì, ma credo che la forza di questi referendum sia di carattere generale. Duole ammetterlo, ma nessun leader con funzioni di governo si intesterà mai una riforma radicale, dunque costituzionale: troppa paura! Paura di rappresaglie. Ma semmai il quorum dovesse essere raggiunto la forza di un’opinione pubblica inaspettatamente schierata darebbe al ceto politico il coraggio che gli manca per metter mano in profondità al sistema partendo dalla lodevole ma superficiale riforma Cartabia. In caso contrario, sarà motivo d’orgoglio personale poter dire un giorno “il 12 giugno io c’ero”. *Senatore di Forza Italia Flick: “Referendum inadatti per questioni di giustizia” di Francesco Grignetti La Stampa, 30 maggio 2022 L’ex ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale: “Per quesiti tecnici non funziona la logica binaria del votare sì o no”. Il professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, osserva perplesso che attorno alla giustizia, secondo i costumi italiani, s’è scatenata la solita mischia di tutti contro tutti. Il prossimo appuntamento è con i referendum di Lega e Radicali, il 12 giugno. “Ma vedo che non se ne parla o quasi. E non capisco se sia un silenzio voluto dalla politica o conseguenza del disinteresse della gente. In un caso come nell’altro, un pessimo segnale per la democrazia”. Professore, lei ama i referendum? “Ripenso ai padri costituenti. Vollero lo strumento del referendum accanto a quello delle leggi di iniziativa popolare, come strumenti fondamentali per la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica. Un modo di coinvolgere il popolo. Svilire questi due strumenti, a mio modo di vedere, è grave”. Chi e cosa li avrebbe sviliti? “Di nuovo penso ai padri costituenti. Il nostro referendum è abrogativo. Cioè serve a dire sì o no a una legge esistente. Questa la sua funzione fondamentale. Per questo motivo il quesito deve essere chiaro, preciso, immediato. Sì o No. E ha funzionato per le grandi questioni: aborto, divorzio, nucleare. Sì o No? Ma quando ci si perde per i rivoli delle questioni tecniche, e la regolamentazione della giustizia è una di queste, allora la logica binaria non funziona più. Se ai cittadini si sottopongono questioni cariche di sfumature, diventa obiettivamente difficile dare una risposta. Io stesso, che nella mia vita sono stato magistrato, avvocato, professore di diritto, ministro della Giustizia e giudice costituzionale, non saprei dare una risposta secca”. Facciamo un esempio: che ne pensa del quesito che impedirebbe la custodia cautelare nel caso di pericolo di reiterazione del reato? “Ecco, esempio perfetto. Io credo sinceramente che l’uso della custodia cautelare vada limitata. In Italia ne è stato fatto abuso da parte dei magistrati. Anche se lo negano, è evidente che a volte la custodia cautelare è stata usata per placare le paure dell’opinione pubblica o per costringere un indagato a collaborare. Però non è materia da trattare con l’accetta. In certi casi, la custodia cautelare può essere necessaria anche per impedire il pericolo di reiterazione del reato. Qui la logica binaria del Sì o del No è fuorviante. In materia penale, contano i bilanciamenti che si possono studiare in Parlamento, non gli slogan. Ma ognuno dei cinque quesiti del 12 giugno presenta una serie di alternative che rende davvero difficile rispondere con un Sì o un No”. Dunque, lei ce l’ha soprattutto con l’uso e l’abuso di referendum? “Oltre al problema di quesiti sempre più tecnici e incomprensibili, c’è da considerare che la società è cambiata. Viviamo in un flusso caotico di informazioni, mal percepite, mal metabolizzate. In questo modo diventa difficile usare lo strumento stesso, che infatti sta perdendo il suo valore intrinseco”. Molti dicono: serve da stimolo per il Parlamento... “E io però rispondo che il Parlamento non dovrebbe avere bisogno di stimoli. E capisco bene la logica degli “stimolatori”, ma dico loro: attenzione, avviando referendum di cui si sa già in partenza che non si arriverà fino in fondo perché non si raggiungerà mai il quorum, siete voi che svilite l’istituto del referendum”. Il Senato ha rallentato i lavori per permettere prima ai cittadini di esprimersi... “Scelta corretta. Pensate per un attimo, se il legislatore con fretta indiavolata avesse varato la riforma una settimana prima del voto e poi i cittadini il 12 giugno avessero bocciato le sue scelte. Meglio aspettare che i cittadini si esprimano e poi si decide”. Intanto i magistrati si leccano le ferite per uno sciopero che è stato un mezzo fallimento... “La ministra Marta Cartabia ha colto indubbiamente un successo, e le va dato atto: per la prima volta dopo molti anni, ha fatto una riforma a cui i magistrati non hanno potuto opporre un potere di veto. Ma è un successo solo apparente, temo, perché un attimo dopo avere sgombrato il campo dal sasso di una magistratura che pretendeva di partecipare al processo legislativo, è iniziata la faida tra i partiti. È evidente a tutti che la riforma arriva in ritardo e con fatica. Forse era inevitabile, perché se si vuol riformare la giustizia, bisognava partire dalla testa, cioè dal Csm, e poi arrivare alla coda, su come velocizzare il processo penale e quello civile. Resta che la ministra è riuscita a superare la pretesa di chi voleva un monopolio”. Si dice: la magistratura è in caduta libera, in termini di credibilità e autorevolezza, dopo lo scandalo Palamara... “Di quello che è stato combinato nel 2019 è meglio non parlarne nemmeno più, tanta è la vergogna. Basta confrontare i discorsi d’insediamento del Capo dello Stato: nel 2015 rese omaggio alla magistratura; stavolta gli ha detto a brutto muso che devono recuperare la fiducia dei cittadini”. In conclusione, che pensa della riforma del Csm? “Non voglio appoggiare la tesi che sia solo efficientismo, ma il pericolo c’è. Tra velocità necessaria, evoluzione tecnologica e digitalizzazione, si rischia di privilegiare solo l’efficienza e non la qualità. La verità è che dei due frutti che ci aspettiamo dall’albero della giustizia - ragionevole durata del processo e ragionevole prevedibilità delle sentenze - nessuno dei due è ancora germogliato”. Referendum, Rossomando: “Un errore cancellare la legge Severino e le misure cautelari” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 maggio 2022 La senatrice Pd: giusto cambiare le norme sui sindaci, ma con l’abrogazione integrale potremmo avere nelle istituzioni persone condannate in via definitiva per reati gravi. Mancano due settimane all’Election day: il 12 giugno si voterà per i cinque quesiti referendari sulla giustizia proposti da Radicali e Lega ed ammessi dalla Consulta. Lo stesso giorno in cui 8,5 milioni di elettori saranno chiamati alle urne per il rinnovo delle amministrazioni di circa 950 Comuni (i ballottaggi sono fissati per il 26 giugno). Anna Rossomando, senatrice del Pd, illustra la posizione del partito sui cinque referendum: “In generale la riforma Cartabia prevede interventi più incisivi e realmente riformatori rispetto ai tre quesiti referendari sull’ordinamento giudiziario - spiega - Mentre sulla legge Severino sarebbe un errore cancellare l’intera legge che prevede l’incandidabilità. La completa abrogazione infatti porterebbe alla possibilità di avere nelle istituzioni persone condannate con sentenza definitiva, anche per reati gravi”. Rossomando aggiunge che è “diversa è invece la fattispecie che riguarda gli amministratori pubblici, soprattutto i sindaci, per i quali oggi è prevista la sospensione dall’incarico già dopo la sentenza di primo grado. Quello è un punto che vogliamo cambiare e abbiamo depositato proposte di legge sia alla Camera che al Senato. Sono già incardinate in commissione e sono ferme perché, strumentalmente, si vuole aspettare il referendum. In ascolto alle richieste dei sindaci abbiamo, insieme a questa proposta, presentato modifiche su reati omissivi degli amministratori e sul reato di abuso di ufficio”. Infine - in linea con quanto sostenuto dal segretario del Pd, Enrico Letta, che ha espresso “netta contrarietà su custodia cautelare e legge Severino” - Rossomando afferma di ritenere “sbagliato anche il quesito sulle misure cautelari, erroneamente identificato con la sola custodia in carcere”. E aggiunge due esempi che mostrano che “serve prevenzione: con la completa abrogazione non si potrebbe più usare il braccialetto elettronico per gli stalker o il divieto di avvicinamento, e ai truffatori seriali degli anziani non si potrà applicare neanche l’obbligo di firma”. Giustizia, Maurizio Lupi chiede il sì al referendum di Dario Martini Il Tempo, 30 maggio 2022 Maurizio Lupi, presidente di Noi con l’Italia e vicepresidente del gruppo Misto della Camera. Lei sostiene con convinzione il sì ai cinque quesiti referendari sulla giustizia in programma il prossimo 12 giugno. “Assolutamente sì. Mai come questa volta c’è una possibilità concreta da parte dei cittadini di dare un segnale molto forte. Occorre riequilibrare i poteri, c’è bisogno di una giustizia che si metta al servizio dei cittadini, che sia un punto oggettivo a cui tutti i cittadini possono guardare. Bisogna tornare a tempi certi per la giustizia e ad un giusto processo: non bisogna essere condannati per un avviso di garanzia”. Quale quesito assume, a suo avviso, una rilevanza particolare? “Quello sulla legge Severino. Si tratta di un provvedimento che ha provocato una distorsione nel rapporto tra politica e magistratura. La politica è rappresentanza di interessi e la Costituzione stabilisce che fino a quando non c’è una sentenza definitiva, vige il principio della presunzione di non colpevolezza. Anche la richiesta di condanna nei confronti di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter dimostra, più che mai, che è necessario lanciare un segnale importante perché l’uso strumentale della giustizia non fa bene neppure alle toghe, la ricerca della visibilità e dei riflettori non aiuta il servizio della giustizia”. Il premier, Mario Draghi, si è augurato una rapida approvazione della riforma Cartabia... “Noi abbiamo fatto un primo passo in avanti con la riforma appunto della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ma con i referendum i cittadini potrebbero affermare il principio per cui l’equilibrio tra i poteri è l’unico modo per potere far andare avanti il Paese in maniera civile. Negli anni, grazie alla debolezza della politica, la magistratura ha occupato uno spazio che non le compete. Quando un potere esorbita, rispetto agli altri, dalle proprie competenze e si pone come potere assoluto, provoca dei danni. I giudici non sono lì per criticare le leggi, ma per attuarle. È il Parlamento che fa le leggi ed è il popolo che attraverso il semplice esercizio del voto e della democrazia decide se i suoi rappresentanti hanno bene operato oppure no. Dal 1992, con Mani pulite, si è verificata questa distorsione del servizio della giustizia, con un protagonismo mediatico da parte dei giudici. Le toghe non hanno bisogno del consenso popolare. Sono gli esponenti politici che vengono giudicati dal popolo. Un atteggiamento simile lo ha avuto, del resto, la politica quando si è ritenuta inattaccabile e sovrana su tutto”. Le forze politiche del centrodestra sono compatte sul sì ai referendum... “Credo che il centrodestra debba innanzitutto ripartire dalle ragioni della propria unità. Da sempre, la coalizione è compatta sulle grandi questioni: giustizia, famiglia, libertà, sussidiarietà. Temi che ci accomunano e sui quali ognuno cerca di portare il proprio contributo. Serve, quindi, riscoprire le ragioni di questa unità e speriamo che i referendum e le prossime elezioni Amministrative ci aiutino a farlo”. Abuso d’ufficio, non c’è mai reato se si esercita un potere discrezionale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2022 La Cassazione cambia rotta rispetto alle prime pronunce dopo la riforma del 2020. Non è possibile contestare il delitto solo per violazioni dei principi costituzionali. I giudici iniziano a restringere il campo sul reato di abuso d’ufficio, applicando i principi portati avanti con la riforma del 2020 (decreto legge 76). Infatti, la Corte costituzionale prima (sentenza 8/2022) e la Cassazione poi (sentenza 13136/2022) hanno sottolineato l’esigenza di evitare controlli eccessivi del giudice penale sulla discrezionalità dell’attività amministrativa. Due decisioni che paiono segnare un’inversione di tendenza rispetto alle pronunce seguite alla riforma. Il nodo, come ha chiarito la Consulta, è il legame tra l’ampiezza del reato di abuso d’ufficio e la “burocrazia difensiva”, per la quale i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che riterrebbero utili per l’interesse pubblico, optando per altre meno impegnative, o addirittura scelgono di rimanere inerti, per timore di andare sotto processo. Un fenomeno che ha “significativi riflessi negativi in termini di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati” e che non è placato dall’“enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico”, tra la mole dei procedimenti promossi e “l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi”. Il delitto, disciplinato dall’articolo 323 del Codice penale, prevede a carico di chi lo compie la reclusione da uno a quattro anni. Alle sanzioni penali si aggiungono quelle previste dal decreto legislativo 231/2001 per le persone giuridiche nel cui interesse o vantaggio viene commesso un abuso d’ufficio che offende gli interessi dell’Unione europea la condotta del funzionario può infatti concorrere con quella del privato che ne abbia beneficiato. La punibilità scatta in presenza di un danno ingiusto, o di un vantaggio patrimoniale ingiusto, causati dalla mancata astensione in presenza di un conflitto di interesse, o dalla violazione di regole di condotta non discrezionali previste da norme primarie. Il reato è stato riformato tre volte dal1990, per contemperare l’esigenza di contrastare il malaffare nella pubblica amministrazione con il suo legittimo potere di fare scelte discrezionali per perseguire gli interessi pubblici Ma gli interventi non hanno prodotto il risultato sperato. Da ultimo, il decreto legge 76/2022 ha ristretto il campo d’azione penale alla violazione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, oltre ai casi in cui il pubblico funzionario abbia un dovere di astensione. L’orientamento dei giudici La giurisprudenza che si è formata dopo la riforma ha però recuperato i principi espressi in passato, limitando gli effetti delle novità (si veda la scheda a fianco). Di qui l’importanza dell’intervento della Consulta, cui si era rivolto un giudice di Catanzaro lamentando che la riforma, oltre a non avere i presupposti per essere adottata con la forma del decreto legge, avrebbe lasciato impuniti coloro che, “detenendo il potere di decidere discrezionalmente, si trovano in una condizione privilegiata per abusarne”. La Consulta ha respinto questa tesi e ha sancito la legittimità dei requisiti di urgenza e necessità per l’inserimento della riforma dell’abuso di ufficio nel decreto legge 76/2020. Dopo il monito della Consulta, la Cassazione ha fatto un primo passo indietro verso il recupero degli obiettivi perseguiti dal legislatore del 2020. Con la sentenza 13136/2022, i giudici hanno infatti escluso che per integrare l’abuso d’ufficio sia sufficiente contestare violazioni genericamente ricavabili dall’articolo 97 della Costituzione, sottolineando che la riforma del 2020 ha escluso la rilevanza penale ogni qual volta le regole di condotta seguite dal funzionario pubblico “rispondano in concreto, anche in misura marginale, all’esercizio di un potere discrezionale”. Inoltre, la sentenza ha ricordato che i comportamenti da prendere in esame non possono essere ricavati da norme secondarie, ma solo direttamente dalla legge, o da atti equipollenti. Si tratta ora di capire se la giurisprudenza si consoliderà in questo senso: è probabile, vista la presenza di orientamenti differenti, che debbano pronunciarsi le Sezioni Unite per fare chiarezza definitiva. Viterbo. Pm sotto accusa: “Non indagarono sui pestaggi e sulle violenze in carcere” di Alessio Campana La Repubblica, 30 maggio 2022 L’accusa, al momento contro ignoti, è quella di rifiuto di atti di ufficio. Gli accertamenti disposti dal Gip del tribunale di Perugia Valerio D’Andria, competente per le toghe della Tuscia. Nessuna inchiesta dopo la denuncia di pestaggi e violenze ai detenuti nel carcere di Viterbo. E ora la procura di Perugia indaga sui magistrati viterbesi che avrebbero dovuto aprire un fascicolo sugli eventuali reati commessi nel penitenziario della Tuscia e che invece non fecero nulla. L’accusa, al momento contro ignoti, è quella di rifiuto di atti di ufficio. A ordinarlo è il Gip del tribunale di Perugia Valerio D’Andria, competente per le toghe della Tuscia. La vicenda nasce dal caso di Hassan Sharaf, detenuto egiziano ventenne che si suicidò in cella a Viterbo nel luglio 2018, e da una denuncia presentata dagli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano alla procura di Perugia. Per lo stesso caso fu aperto un procedimento nei confronti del Pm viterbese Franco Pacifi, accusato una eventuale omissione dell’esercizio dell’azione penale, ma il gip ha archiviato la posizione del pubblico ministero sostenendo che effettivamente “non sussistessero gli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. E ora le indagini si sono concentrate su chi, nella procura di Viterbo, non avrebbe dato seguito all’esposto del garante Anastasìa. L’esposto - Nell’esposto si fa riferimento a plurimi pestaggi che sarebbero stati subìti nel tempo da 8 detenuti del penitenziario viterbese. Hassan Sharaf, che come detto si è tolto la vita impiccandosi in cella, il 21 marzo del 2018 ha raccontato “di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria, i quali gli avrebbero provocato lesioni per tutto il corpo e con molta probabilità gli avevano lesionato il timpano dell’orecchio sinistro in quanto non riusciva più a sentire bene e sentiva il rumore “come di un fischio”. Mentre raccontava quanto aveva subìto, Sharaf velocemente si spogliava così da mostrare i segni sul corpo. Un altro detenuto, il 20 aprile del 2018, aveva riferito che “il 13.12.2017 a seguito di un diverbio con alcuni agenti era stato trasportato presso le scale dell’istituto e lì un gruppo di circa dieci agenti di polizia penitenziaria lo avrebbe picchiato. Il detenuto aveva specificato che il volto degli agenti era coperto da un passamontagna e che pertanto lui aveva potuto vedere soltanto gli occhi e che era riuscito a riconoscere uno di loro in quanto aveva degli occhi particolari, come quelli di un “cinese”. Riferiva poi che era stata molto violenta: lo avrebbero colpito con calci e pugni su tutto il corpo”. Dalle carte emerge che in seguito alle testimonianze riportate fu avviato un procedimento per fatti non costituenti reato, definito con la trasmissione degli atti in archivio. Secondo il Gip perugino, invece, l’esposto presentato dal garante dei detenuti faceva riferimento a una pluralità di episodi violenti per i quali era quantomeno ipotizzabile il delitto di abuso dei mezzi di correzione. E dunque il reato ci sarebbe stato. Per questo s’indaga per rifiuto di atti di ufficio da parte di un pubblico ufficiale della procura. “Si tratta in ipotesi del rifiuto di un atto - precisa il Gip - che si sarebbe dovuto compiere senza ritardo e per il quale non è riconoscibile in capo al magistrato alcun margine di discrezionalità tenuto conto della chiara rappresentanza nell’esposto di una pluralità di notizie di reati perseguibili d’ufficio”. Il Pm perugino dovrà dunque svolgere approfondimenti per “identificare il pubblico ufficiale che ha omesso l’adempimento doveroso”. Le indagini sulla morte di Hassan Sharaf, tra l’altro, sono state recentemente avocate dalla procura generale della corte di appello di Roma. Un agente della penitenziaria è stato già rinviato a giudizio per abuso di mezzi di correzione: lo avrebbe colpito con uno schiaffo. I ritardi del processo - C’è un altro aspetto su cui la magistratura umbra vuole fare chiarezza. Nel processo per la morte di Sharaf, prima dell’avocazione da parte della procura generale romana, fu richiesta l’archiviazione. Ebbene l’udienza di opposizione (richiesta nel 2019) venne fissata inizialmente al 2024. Sull’indicazione di una data distante 5 anni il Gip ordina vederci chiaro e di aprire una indagine. In seguito, l’udienza fu anticipata di due anni, ossia 27 gennaio 2022 e che la richiesta di archiviazione è stata revocata dalla procura generale della corte d’appello di Roma. Imperia. Carcere nel caos: rientrata solo a tarda notte la rivolta dei detenuti primalariviera.it, 30 maggio 2022 A quanto si apprende tutto sarebbe partito dalla richiesta di effettuare più videochiamate con WhatsApp ed essere coinvolti in più attività. È durata fino alle 4.30 circa, ed è stata sedata grazie ai rinforzi della polizia penitenziaria di Genova, la protesta dei detenuti del carcere di Imperia, in rivolta dal primo pomeriggio di ieri. Le grida si sentivano addirittura dalle strade vicino al carcere. Tutto sarebbe partito dalla richiesta di effettuare più videochiamate con WhatsApp, oltre a quella di essere coinvolti in maggiori attività anche esterne al penitenziario. L’intervento di Fabio Pagani della Uil Penitenziaria - “È stato necessario il supporto dei colleghi di Genova per chiudere, con non poche difficoltà i detenuti nelle celle”, afferma Fabio Pagani, segretario della Uil Penitenziaria. Una trentina di detenuti del secondo piano, che al momento dei fatti erano fuori dalle proprie celle, si sono rifiutati di rientrare, occupando l’intera sezione. L’agente di servizio è così uscito dalla sezione, chiudendo i detenuti all’interno della stessa, in modo che non prendessero il sopravvento. “Ringrazio il personale della polizia penitenziaria, che è esausta - conclude Pagani. In particolare il supporto degli uomini e delle donne di Genova intervenuti questa notte per aver gestito con esemplare professionalità ed equilibrio ore di tensione”. A quanto sembra, i detenuti avrebbero danneggiato il sistema di videosorveglianza, tentando di accendere qualche fuoco. Avrebbero pure messo le brande nel corridoio. Taranto. L’allarme dei sindacati: “Personale in fuga dal carcere” di Maristella Massari Gazzetta del Mezzogiorno, 30 maggio 2022 I sindacati Fp Cgil e Cisl Fp contro “Le promesse mai mantenute dei vertici centrali dell’amministrazione”. “A mancare nel carcere di Taranto non è solo il personale della polizia penitenziaria, come denunciano giornalmente le organizzazioni sindacali di categoria, ma anche i dipendenti del Comparto Funzioni Centrali. Ritorna, infatti, prepotente e pericolosa la carenza in vari settori vitali per l’istituto di pena, fra i quali i funzionari dell’area educativa o il personale dell’ufficio contabile, quest’ultimo addirittura chiuso in qualche giorno pur essendo indispensabile per allentare la crescente tensione fra detenuti”. Lo sottolineano Cosimo Sardelli della Fp Cgil e Massimo Ferri della Cisl Fp di Taranto-Brindisi, aggiungendo che si tratta dell’Istituto di pena “più sovraffollato d’Italia con il doppio dei detenuti (700) rispetto alla capienza, ma con il minor numero di addetti”. Per i rappresentanti dei sindacati non fa più notizia il carcere di Taranto, definito senza giri di parole l’istituto di pena più sovraffollato d’Italia con il doppio dei detenuti rispetto alla capienza massima prevista, ma con il minor numero di addetti. “Ritorna, infatti, prepotente e pericolosa - sottolineano ancora Ferri e Sardelli - la carenza in vari settori vitali per l’istituto di pena, fra i quali i funzionari dell’area educativa o il personale dell’ufficio contabile, quest’ultimo addirittura chiuso in qualche giorno pur essendo indispensabile per allentare la crescente tensione fra detenuti”. Poi la denuncia, ferma e diretta: “Tante le promesse mai mantenute dai vertici, anche politici, dell’amministrazione penitenziaria che, evidentemente sono parte del problema”. “Aumenta senza soste, infatti, il numero dei detenuti ma diminuisce il numero degli educatori, attraverso alchimie e compiacenze dell’amministrazione centrale che ha autorizzato distacchi di alcuni e il loro trasferimento verso istituti evidentemente più comodi - aggiungono i due sindacalisti - anche alle spalle di chi ne avrebbe maggior diritto”. “Non vi sono ormai aggettivi che possano descrivere lo sdegno dei dipendenti rimasti, la loro sfiducia verso le istituzioni, il risentimento per le promesse mancate di coloro che, periodicamente, visitano la struttura promettendo un impegno che si scioglie come neve al sole o le cui parole si perdono nel vento, come la loro credibilità”. “Ne è conferma il sempre più impietoso Rapporto Antigone sull’amministrazione penitenziaria, colpevole di una cattiva distribuzione del personale nei diversi istituti”. “Dunque non solo una insufficienza organica complessiva ma, per il carcere Carmelo Magli di Taranto, una indifferenza che si ripete nel tempo, con una pianta organica, già anacronistica nella sua stesura originaria, divenuta ora surreale e che pone una intera comunità, anche in tale ambito, all’ultimo posto in Italia”. “La gravità delle condizioni di vita e di lavoro nell’Istituto richiede una iniziativa straordinaria che, abbiamo visto, non può provenire dalle Istituzioni interne”. “I tempi appaiono, dunque - concludono i rappresentanti delle due organizzazioni sindacali di categoria -, maturi per una commissione parlamentare d’inchiesta di cui la Fp Cgil e la Cisl Fp territoriali sollecitano l’attivazione alle Commissioni della Giustizia, alle quali questa nota è anche indirizzata, unitamente all’intervento della Prefettura di Taranto”. Caserta. Vecchio e malato, ma per i giudici deve stare in carcere di Attilio Nettuno casertanews.it, 30 maggio 2022 Ha 79 anni ed era stato ammesso ai domiciliari per motivi di salute. “Può essere assistito meglio in cella”, questa la decisione dei giudici della Corte di Cassazione che hanno rigettato la richiesta di Antonio Oliva, ritenuto referente dei Casalesi a Lusciano, che aveva impugnato la decisione del Magistrato di Sorveglianza che ha riesaminato la sua compatibilità con il regime detentivo. Nel 2017 Oliva, 79 anni, era stato ammesso dallo stesso magistrato ad espiare la pena - il cui termine è previsto nel 2040 - agli arresti domiciliari per motivi di salute. In sede di verifica della proroga della misura, però, il giudice ha ritenuto la compatibilità delle condizioni di salute di Oliva con la carcerazione. Una tesi che è stata confermata anche dalla suprema corte. Per la Cassazione “il parere del medico legale ha tenuto conto dei pregressi accertamenti sanitari ed ha quindi rappresentato il complessivo quadro patologico in termini che non sono contestati, giungendo a formulare una valutazione che, dal punto di vista strettamente medico, ritiene che anche in carcere possono essere somministrate le terapie farmacologiche e, quanto alla qualità della vita in carcere, ritiene sia assicurato il rispetto della dignità umana”. Anzi, per il medico legale “in carcere Oliva poteva ricevere una assistenza non inferiore rispetto a quella che potrebbe ricevere presso la propria abitazione”. Milano. Storia di Flavio Patriarca, dal carcere Beccaria alla laurea in Legge con 110 di Federica Cavadini Corriere della Sera, 30 maggio 2022 “E ora sogno la politica”. Flavio Patriarca, 25 anni, è praticante avvocato in uno studio legale: alla festa di laurea all’Università Cattolica c’erano anche l’assistente sociale e i giudici che lo hanno seguito nella sua adolescenza difficile. “Farò il penalista”. Mostra la foto della laurea e inizia così a raccontare la sua storia che poi sono due e una inizia dove finisce l’altra. La storia dell’adolescente che entra al Beccaria perché comincia a commettere reati finché una giudice non firma un ordine di custodia cautelare e lo ferma, e la storia del giovane neolaureato in Giurisprudenza che ha scelto di studiare per diventare avvocato dopo il passaggio in carcere e in comunità ed è andato spedito fino al giorno del diploma, 21 aprile, all’università Cattolica. Cinque anni di studi: voto 110 - “Sono uscito con 110 e in cinque anni”, dice con orgoglio Flavio Patriarca, 25 anni, da una settimana praticante in uno studio legale. Nella foto è in primo piano e con lui c’è chi lo ha traghettato dalla prima alla seconda storia. C’è Claudia Mazzucato, relatrice della sua tesi sulla giustizia riparativa: “L’incontro che mi ha cambiato la vita - dice emozionato. Con il suo supporto e la sua umanità ha incarnato lo spirito più alto dell’insegnamento”. Silvia Sacerdote, assistente sociale: “Ha sempre avuto per me le parole giuste”. Rosanna Calzolari, giudice: “La intervistai per la tesina di maturità sulla “messa alla prova” che avevo superato da poco”. Marilena Chessa: “La giudice che mi ha seguito nel programma fino all’estinzione del reato”. E Anna Zappia: “Fu lei a firmare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere”. La storia di Flavio Patriarca - Era il 2013. Nove anni dopo Flavio Patriarca, che vuole diventare penalista “e sogno anche un futuro in politica” decide di raccontare tutta la storia: “La conoscono in pochi. Qualcuno mi giudicherà ma voglio dare speranza a chi si trova in situazioni difficili”. “Si può cambiare - ripete più volte. Dipende dalle persone che incontri. Tante mi hanno trasmesso fiducia e stima e c’erano tutte il giorno della laurea”. È arrivato il preside del liceo Fermi, Giuseppe d’Arrigo: “Scrisse una bella lettera per farmi uscire dal Beccaria ed entrare in comunità e permettermi di andare a scuola”. E il responsabile della comunità Arimo, Alberto dal Pozzo: “Sempre vicino”. E l’avvocato Sergio Nesti: “È stato per me anche educatore”. “Tutti insieme - dice guardando la foto - abbiamo attuato l’articolo 27 comma 3 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena”. Avere 15 anni alla Barona - Il suo percorso, dall’adolescenza nel quartiere Barona, Patriarca lo ha raccontato nelle scuole superiori e ai detenuti di Opera. “Spiego come ci si può perdere e poi ritrovare. Avevo 15 anni, cercavo figure e ambienti che sembravano affascinanti, volevo soldi facili, così sono finito in carcere. Sono ripartito grazie a chi mi ha dato fiducia. Sono cambiato, ho capito che è ingiusto creare sofferenza agli altri”. Poi la scelta di studiare legge. “Al Beccaria e in comunità ho visto giovani con vite rovinate. Ho sentito la responsabilità di provare a cambiare le cose e e mi impegnerò per costruire un sistema giuridico migliore”. Dice ancora che il suo messaggio è anche “per chi ha un figlio, o fratello come ero io a quindici anni”: “La famiglia mi è sempre stata vicina, senza giudicare e senza chiedere. Zia Marcella aveva 90 anni e mi scriveva in carcere, solo parole di conforto e nessuna domanda. Senza loro non sarei arrivato sin qui”. Udine. Lungo e articolato seminario sul futuro delle carceri friulionline.com, 30 maggio 2022 “Carcere: Ripartire dalla Costituzione” è il titolo del seminario in programma a Udine martedì 31 maggio, dalle 9 alle 18, in Sala Ajace. L’evento è organizzato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, in collaborazione con l’Associazione Icaro Volontariato Giustizia e l’Associazione La Società della Ragione. Il seminario è di particolare interesse e rappresenta un contributo al dibattito sulla riforma possibile e sull’analisi delle questioni che riguardano la vita in carcere, oltre che occasione di costruzione di un progetto partecipato con le associazioni e tutte le realtà coinvolte sul tema, per il ridisegno degli spazi della pena, della formazione, dello studio e del trattamento. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili. Per informazioni: info@icaro.fvg.it / 389 5813222 (anche WhatsApp) garante.detenuti@comune.udine.it / 0432 1272109. Programma - Ore 9 Presentazione - Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine; Roberta Casco, Presidente Icaro Volontariato Giustizia odv - Ore 9.30 - Saluti istituzionali: Pietro Fontanini, Sindaco di Udine; Piero Mauro Zanin, Presidente del Consiglio Regionale; Maria Milano, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto; Tiziana Paolini, Direttore della Casa Circondariale di Udine; Monica Sensales, Comandante della Casa Circondariale di Udine; Rita Bonura, Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna Udine e Pordenone; Mara Pellizzari, Direttore del Distretto Sanitario di Udine; Nicoletta Stradi, Dirigente del Servizio Sociale dei Comuni Ambito Territoriale “Friuli Centrale”; Flavia Virgilio, Dirigente Scolastico Centro Provinciale Istruzione Adulti - Ore 10 - Prima sessione - “Gli spazi della pena: Il ridisegno di Via Spalato” Relazione dell’arch. Daniela Di Croce; Interventi degli architetti: Corrado Marcetti e Leonardo Scarcella; Presentazione del workshop “Verso un progetto partecipato per costruire dignità e diritti nella vita quotidiana” del dottorato di ricerca interateneo in Ingegneria Civile-Ambientale e Architettura delle Università di Trieste e di Udine; Interventi degli architetti: Giovanni La Varra e Linda Roveredo - Ore 11.30 - Tavola rotonda con Enti di Formazione e Terzo Settore - Coordina: Massimo Brianese - Cefap Massimo Marino, Csg “G. Micesio” Raffaella Cavallo, Enaip Fvg Paola Stuparich, Ial Fvg Guido Fradeloni, Ires Fvg Tania Agnola, Soform Fabio Dubolino, Forum Terzo Settore Fvg Marco Iob, ConfCooperative Alpe Adria Paola Benini, LegaCoop Fvg Paolo Felice, Arte e Libro Società Cooperativa Onlus Virginia Di Lazzaro, Css Teatro stabile di innovazione del Fvg Alberto Bevilaqua, Vicini di Casa Antonella Nonino, Centro Caritas Udine Annarita De Nardo, Icaro Volontariato Giustizia, MoVi Fvg Alberto Fabris - Ore 13.30 - buffet - Ore 14.30 - Seconda sessione – “La riforma possibile” Relazione di Stefano Anastasia. Interventi: Antonella Calcaterra, Avvocata del Foro di Milano; Carmelo Cantone, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio; Paolo Pittaro, Garante dei diritti dei detenuti del Fvg; Francesco Santin, Comitato direttivo dell’Associazione Antigone. - Ore 16.30 - Presentazione del volume di Alessandro Margara “La Giustizia e il senso di umanità” - Partecipano: Raffaele Conte, Presidente della Camera Penale Friulana di Udine; Antonietta Fiorillo, già Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze e di Bologna; Giovanni Maria Pavarin, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste e del Conams (Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza). - Ore 18 Conclusioni. Firenze. Seminario sul lavoro dei detenuti: stessi diritti di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 30 maggio 2022 Il 20 maggio scorso si è tenuto a Firenze il seminario “Il diritto del lavoro penitenziario: quali forme giuridiche del contratto di lavoro?”, organizzato da Camera del Lavoro, Cgil Nazionale e associazione L’Altro Diritto. Il lavoro è elemento cardine della rieducazione, ed è elemento fondante del nostro ordinamento Costituzionale, fin dall’articolo 1. La Costituzione non fa differenza fra lavoratori detenuti e non, tutela il lavoro in tutte le sue forme; per questo, in carcere, deve perdere ogni carattere afflittivo, di sfruttamento, di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e pari diritti. Anche la giurisprudenza costituzionale, come la Corte europea dei Diritti Umani, ha ripetutamente affermato la formale equipollenza del lavoro penitenziario con il lavoro libero, ed il fatto che sia finalizzato alla rieducazione non implica alcuna deroga alla comune disciplina giuslavoristica e previdenziale. Non può essere un obbligo né un’opportunità, è un diritto/dovere, e l’amministrazione “è tenuta a” garantirlo. Eppure, ancora oggi, permangono differenze importanti, a partire dalla retribuzione, stabilita nella misura dei due terzi di quella contrattualmente prevista, o nell’accesso agli ammortizzatori, cosa assolutamente non scontata, se pensiamo all’impegno assunto, insieme ad Inca Cgil, promuovendo vertenze per garantire il diritto al riconoscimento della Naspi ai detenuti. La non completa declinazione di tutele e diritti mette in discussione proprio il progetto inclusivo di rieducazione e reinserimento sociale da attuarsi attraverso il lavoro: la natura “educativa” del lavoro penitenziario deriva dal fatto che si ripropone il vincolo di subordinazione proprio dei comuni, normali, rapporti di lavoro, e dal fatto che sia accompagnato dalle comuni tutele giuslavoristiche. Solo riconoscendo piene tutele e concreti diritti la persona ristretta può riconoscersi appieno come lavoratore. La riforma, seppur molto parziale, del D. Lgs 124/2018 ha previsto (art. 2) modalità di assunzione “equipollenti” a quelle comuni: la precedente normativa non prevedeva nessuna formalità per l’inserimento al lavoro delle persone ristrette, mentre adesso è previsto che anche ai lavoratori detenuti che prestano la loro attività all’interno degli istituti penitenziari siano date tutte le comunicazioni previste per l’ordinario lavoro dipendente, e che entro cinque giorni dall’assunzione venga inviata alla sezione circoscrizionale per l’impiego una comunicazione contenente il nominativo del lavoratore, la data di assunzione, la tipologia contrattuale, la qualifica e il trattamento economico. E’ una previsione ancora in buona parte disattesa. Le modalità di assunzione delle persone ristrette si basano ancora troppo spesso su prassi informali, che possono anche essere diverse fra i vari istituti. Se il lavoro non è una componente accessoria della pena, ma un diritto/dovere che l’amministrazione è tenuta a garantire, il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di agire il proprio lavoro sapendo esattamente quale è il proprio rapporto di lavoro, come si declina e articola, quali sono i diritti, quali i doveri. Il contratto individuale di lavoro è il prerequisito, perché vengano riconosciuti ad ogni lavoratore i diritti del lavoro e la corretta applicazione del Ccnl di riferimento, perché il lavoratore abbia piena contezza di come si declina nella pratica il suo rapporto di lavoro. In questo sta l’importanza di iniziative come questa: la proposta di un modello di contratto di lavoro per chi lavora all’interno del carcere, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, significa declinare nella pratica concreta l’equiparazione del lavoro in carcere al lavoro libero, significa superare le differenze che ancora esistono nel rapporto di lavoro delle persone ristrette se lavorano per ditte esterne o per l’amministrazione stessa. Il lavoro penitenziario è lavoro a tutti gli effetti, e se non deve avere diritti e rappresentanza diversi per le persone ristrette, il contratto individuale è punto di partenza imprescindibile per entrambe le parti, datore di lavoro e lavoratore. Le modalità di assunzione non possono essere ancora basate su prassi informali, il lavoratore non può non sapere quale è la durata del proprio contratto, o come si articola il rapporto di lavoro in quanto, per esempio, a orari e turni. Il contratto individuale rende esigibile e trasparente tutto ciò che riguarda un rapporto di lavoro, la bozza di modello elaborato da Cgil e Altro Diritto, proposta alla discussione, prevede cose assolutamente ‘normali’ in ogni contratto individuale: mansioni, inquadramento, durata del rapporto di lavoro, trattamento economico, orario. Cose scontate fuori dal carcere, non altrettanto all’interno. Lo spirito e il senso che hanno motivato la nostra iniziativa si sostanziano in questo: fare in modo che al lavoro penitenziario si riconoscano, finalmente, appieno i diritti dei lavoratori, quelli che 52 anni fa stabilì, proprio in questa data, lo Statuto dei Lavoratori, quelli che oggi la Cgil sostiene con la Carta dei diritti universali del lavoro. Napoli. “La politica incontra il carcere”: convegno su luci ed ombre del sistema penitenziario leccesera.it, 30 maggio 2022 È in programma, per lunedì 30 maggio, alle ore 15:00, presso l’aula del Consiglio regionale della Campania (Isola F13) - Centro Direzionale di Napoli, il convegno dal titolo “La politica incontra il carcere”, promosso dal Garante campano Samuele Ciambriello, d’intesa con la Conferenza dei Garante regionali e territoriali dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale. A presiedere la tavola rotonda sarà Valeria Ciarambino, vicepresidente del Consiglio regionale della Campania. Aprirà i lavori e modererà il Garante Ciambriello, a cui seguirà la discussione del Portavoce della Conferenza dei Garanti e, anche, Garante della regione Lazio, Stefano Anastasia. Interverrà, poi, il Capo Gabinetto del Ministero della Giustizia, Raffaele Piccirillo, e concluderà il Sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina. Interverranno, anche, i Garanti dell’Abruzzo e della Puglia, Gianmarco Cifaldi e Piero Rossi, e il Garante metropolitano di Reggio Calabria, Paolo Praticò e porteranno la loro esperienza di operatori del Terzo settore Don Franco Esposito, direttore della Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli, Angelo Moretti, Presidente “Rete di economia civile Sale della Terra” e Patrizia Sannino, dell’associazione “Carcere vivo”. Attesi anche i senatori Mariolina Castellone, Valeria Valente, Domenico De Siano e Paola Nugnes, nonché i deputati Piero De Luca, Catello Vitiello e Raffaele Bruno. Verbania. L’emozione di incontrare il Papa per due detenuti nel carcere di Pallanza di Cristina Pastore La Stampa, 30 maggio 2022 Un’esperienza emozionante. Così la delegazione verbanese, composta anche da due carcerati, riassume il viaggio a Roma per incontrare il Papa. Tutto nasce un anno fa, con un’intervista di Silvia Magistrini a Radio Vaticana. La garante dei detenuti di Verbania aveva raccontato le iniziative messe in campo nella casa circondariale di via Castelli a Pallanza per trasformare il periodo di espiazione della pena in una reale opportunità di ricostruzione. E dal carcere era stata inviata al Pontefice una scatola di dolcetti bio della “Banda Biscotti”, laboratorio in cui a lavorare sono proprio i carcerati. Insieme era stato spedito un ricamo di Michele e Lorenzo. “Ogni punto è un pensiero” avevano scritto a Papa Bergoglio, che a quei doni e a quelle parole ha risposto con un invito all’udienza del mercoledì. Di mezzo ci son stati mesi di pandemia e alla fine la visita è stata programmata per la scorsa settimana. In piazza San Pietro Michele e Lorenzo - a nome di tutti i detenuti a Verbania - non si sono presentati a mani vuote, ma con un grande ricamo, alto un metro e lungo due, che rappresenta le insegne papali. È composto da un milione e 300 mila punti ed è stato fatto con i fili regalati al carcere di Verbania dalle benedettine di clausura del monastero dell’isola di San Giulio. Una corrispondenza di relazioni tra chi vive in cella per contemplare l’amore divino e pregare per l’umanità e coloro che vi sono costretti per azioni commesse. Con i due ricamatori a Roma c’erano la direttrice del carcere Stefania Mussio, il comandante Domenico La Gala, i magistrati dell’ufficio di sorveglianza di Novara Monica Cali e Marta Criscuolo, gli agenti di polizia penitenziaria Simone Paolucci, Luca Zaretti, Manuel D’Angelo, l’educatrice Franca Facciabene, il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, la garante comunale Magistrini e il vice sindaco di Verbania Marinella Franzetti. “Dopo l’udienza generale abbiamo avuto la grande gioia di un colloquio con Papa Francesco. È stata un’emozione indescrivibile” rivela Franzetti. “Fogli dal carcere”. Il diario della prigionia di una militante No Tav recensione di Italo Di Sabato contropiano.org, 30 maggio 2022 Nicoletta Dosio è un’attivista e volto storico del Movimento No Tav. Figlia di operai e insegnante in campo umanistico dal 1973 fino al 2006, ha sempre partecipato alla vita politica e sociale del territorio piemontese. Impegnata contro le guerre - dalla Jugoslavia all’Iraq e l’Afghanistan - a partire dalle manifestazioni contro le basi di Comiso e Sigonella, continua a battersi per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo Palestinese, spendendosi in prima persona nella lotta alla repressione ai danni tutti i movimenti sociali, dei poveri e degli emarginati. Per questa ragione, scegliendo di violare le misure cautelari emesse nei suoi confronti, affronta un periodo di detenzione, dedicando il suo Fogli dal carcere a questa esperienza. Ritenuta colpevole di essere parte di quel grande movimento di donne e uomini che lottano per la loro terra - il movimento No Tav - Nicoletta Dosio viene tradotta in carcere quando ha superato le settantacinque primavere senza però aver mostrato la benché minima intenzione di arrendersi alla devastazione e al saccheggio a cui il progetto del treno ad alta velocità ha condannato la Val di Susa, in Piemonte. Tra le sbarre delle Vallette di Torino, la Dosio riceve l’incredibile solidarietà dei tanti che, in Italia e non solo, riconoscono nella resistenza della Val di Susa un simbolo di tutto ciò che è necessario cambiare per riguadagnare la speranza di una vita davvero sostenibile. Al tempo stesso, nel carcere, Nicoletta divide il suo angusto spazio con un’umanità sofferente e perseguitata: costretta a pagare con la galera una vita di povertà e di stenti. Reagendo alla desolazione, Nicoletta intreccia un dialogo con ciò che è dentro e ciò che è fuori il carcere, strappando alla prigione i fogli che compongono il suo straordinario omaggio alla libertà. La sua vita e la sua personalità trasmettono un messaggio di resistenza, lo stesso che anima il Movimento No Tav, e che deve diventare pratica per tutti i popoli e per tutte le rivendicazioni: i diritti non si possono elemosinare, si conquistano nelle strade e nelle piazze, là dove vivono le lotte. Con scritti di Haidi Gaggio Giuliani, Daniela Bezzi, Valentina Colletta, Emanuele D’Amico e Italo Di Sabato. Per superare la cultura della pena La postfazione al libro di Italo Di Sabato dell’Osservatorio Repressione - La popolazione carceraria è oggi una massa informe alla quale è sempre più difficile distinguere il colpevole dall’innocente, colui che sta bene da quello che sta male, l’indagato dal condannato. Ancora oggi in piena emergenza pandemica, migliaia di persone sono sottoposte a misure restrittive con pene inferiori a cinque anni di reclusione e tuttavia questo non sembra scandalizzare la politica e il grosso dell’opinione pubblica. Ancora peggio quelle poche voci che si levano nella società per porsi e porre interrogativi vengono tacciate di connivenza con le più svariate forme di criminalità. La detenzione diventa, quindi, qualcosa di indicibile; delle condizioni carcerarie si preferisce non parlare, si accresce e si stabilizza un processo di annichilimento e di codificazione che ha precedenti amari solo nelle parti più buie della storia umana. Il diario di Nicoletta ci parla e ci mostra il punto di vista dei “criminalizzati”, che l’orribile pensiero forcaiolo che attraversa la politica da destra a sinistra vuole seppellire vivi e insieme ad esse il dettato costituzionale che regola la privazione di libertà. L’assunto inaccettabile è che passa la nozione che al detenuto si possa fare di tutto, con spirito vendicativo e secondo il principio che la sofferenza deve agire come deterrente verso altri. Nicoletta ci racconta l’umanità delle “non persone”, ci fa guardare il carcere e ci mostra come negli ultimi decenni in Italia ci sia stata una criminalizzazione scriteriata, in cui la logica del diritto penale è diventata dominante e si sono manifestati tutti i sintomi del morbo populista: l’allarmismo sulla sicurezza che condiziona un’opinione pubblica sempre più insicura, eccitata dall’antipolitica e dalla spettacolarizzazione della giustizia; il ruolo moralizzatore assunto dalla magistratura; la strumentalizzazione delle vittime che trasfigura la giustizia in un risarcimento simbolico all’intera comunità e che rende insostenibile la presunzione di innocenza. Ma dietro alla criminalizzazione, si profila lo spettro della guerra di tutti contro tutti in cui lo Stato, che non è più in grado di distribuire giustizia sociale, promette repressione. Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del livello di criminalità nell’ultimo decennio, la percezione di insicurezza e paura, alimentate da politica e media, genera consenso verso chi si propone come giustiziere. Tornano le classi pericolose, e questo lo si rintraccia nella punizione sempre più aspra dei comportamenti ai marginali o sovversivi e nell’allargamento dell’utilizzo dei reati associativi. Il diritto penale diviene, quindi, terreno di scontro e di conflitto. Un diritto penale del nemico, perché sempre di più la pratica e la legislazione segnano la natura di un diritto di parte verso i più forti. Attivisti, dissidenti, marginali, tossicodipendenti, migranti, poveri, di queste categorie si riempiono le carceri, e si riempiono non per l’aumentare dei diritti ma per l’irrigidimento delle norme e delle scelte dei magistrati. Un doppio binario, da una parte il diritto “dei galantuomini” dall’altro “il diritto dei bagatellari”: se un furto con scasso è punito sempre più duramente, il falso in bilancio per miliardi di euro è di fatto depenalizzato. Se fino ai primi anni settanta del secolo scorso il conflitto sociale, le lotte per allargare i diritti erano entrate nella costituzione formale e materiale dell’Italia, oggi, invece, il conflitto viene presentato come una patologia. Il sistema politico e istituzionale è totalmente sordo verso qualsiasi rivendicazione sociale mettendo in discussione la libertà di espressione e di dissenso e riducendo la politica all’applicazione della sanzione penale. Lo scenario ci appare dunque come un doppio legame. Da un lato la politica si è svuotata di senso, riempendosi solo dell’universalismo repressivo della categoria di ordine pubblico, per cui la qualifica della condizione di cittadino non è più definita in virtù della provvigione di servizi come diritto universale, ma in funzione dell’essere sottoposto a norme, dall’altro l’apparente neutralità della norma si riempie invece di politicità, poiché la norma (e i dispositivi che ne garantiscono il rispetto) diventa lo strumento principe per far fronte alle diverse emergenze sociali. Un dispositivo politico-governamentale frutto di una sua strategia egemonica che è ben rappresentata da quello che si può definire un dogma politico: “il rispetto della legalità”, che si è velocemente fatto senso comune. L’educazione civica alla legalità ha progressivamente perso il suo carattere di tensione alla giustizia per cristallizzarsi in una militaresca propaganda sull’osservanza dovuta all’obbligo di legge, producendo gradualmente l’impossibilità di mettere in discussione il già “sancito”. La legalità si è quindi trasformata nell’occasione di produrre l’accettazione acritica della legge, e l’illegittimità del dissenso e della contestazione. E infatti, gradualmente, il concetto di legalità ha finito di stigmatizzare qualsiasi forma di protesta e dissenso, fino alla completa criminalizzazione. L’ideologia della “legalità”, quindi, costituisce oggi il cardine discorsivo di quel dispositivo che legittima la trasformazione in soggetto politico degli apparati di polizia e sicurezza. Il suo meccanismo di fatto opera un rovesciamento tra causa ed effetto: i comportamenti istigati dalla necessità di attingere all’economia informale (sia essa strettamente criminale o no) diventano, nell’economia del discorso legalitario, la certificazione di una colpa, quella di essere, appunto, fuori dalla legalità, il che a sua volta diventa, nella percezione comune, il vero stigma della condizione di marginalità. Nicoletta ci fa capire come la sfera del giuridico non esprime solo tecnica ma anche aspetti profondamente politici: la continua ridefinizione dei confini del lecito e dell’illecito, della legittimità e dell’illegittimità, quella sorta di pendolo che è la legalità di come la sfera del giuridico è un terreno di conflitto dove però oggi ad essere attrezzata è solo una delle parti. Il punto è proprio qui, non ci si può più esimere dal costruire un intervento politico sulla giuridicità. Se si vuole tornare a far respirare la società bisogna allargare il più possibile le maglie che la contengono. Rivendicare l’amnistia è una battaglia politica anche per cancellare i reati anacronistici o meno gravi commessi in passato nell’attesa che, in futuro, gli stessi siano abrogati. L’amnistia è di fatto l’anticipazione di un sistema penale diverso (e non una semplice, ancorché preziosa, aspirina per diminuire temporaneamente la sofferenza di un carcere che scoppia). L’amnistia è una battaglia politica per chi coltiva l’idea di una società giusta e fatta di uguali sapendo di andare incontro a scomuniche e veti bipartisan. Ma parlarne significa aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale e porre la necessità di abolire il carcere in quando retaggio della premodernità, in quanto non solo tradisce la sua mission preventiva, cioè non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali. Liberarsi dalla necessità del carcere perché pena inutile e crudele non comporta affatto rinunciare a tutelare il bene pubblico della sicurezza dalla criminalità. Anzi: per il solo fatto di rinunciare al carcere si produce più sicurezza dal pericolo criminale, stante che il carcere è fattore criminogeno esso stesso. Una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza pena di morte. La risposta al delitto non può che essere un intervento volto ad educare a una libertà consapevole attraverso la pratica della libertà. Questa deve essere la regola. Per superare la cultura della pena e del carcere e riportare le persone che hanno violato la legge è assolutamente necessario che anche le regole siano rispettose delle persone. Quest’orizzonte ideale, dopo anni di ossessione securitaria e di sfrenato panpenalismo, può apparire un puro esercizio di parole in libertà, ma lo sforzo è quello di realizzare un’utopia concreta. Italia e diseguaglianze, la differenza di reddito è la più intollerabile di Ilvo Diamanti La Repubblica, 30 maggio 2022 Disabili, precari e donne le categorie più penalizzate. Il divario aumenta al Sud. L’Italia è un Paese “diseguale”. Questo profilo non riguarda solo l’Italia. Ma il nostro Paese appare particolarmente segnato, da questo “squilibrio”. I dati di Eurostat mostrano come l’Italia, alcuni anni fa, fosse il secondo Paese, per grado di diseguaglianza, in Europa Occidentale. Preceduto, in questa graduatoria (poco prestigiosa), solo dalla Spagna. I dati oggettivi sono, peraltro, sostenuti da quelli soggettivi, dettati dalle percezioni dei cittadini. Secondo un recente sondaggio di Demos, infatti, più di 3 italiani su 4 considerano gravi le diseguaglianze, in Italia, sul piano della distribuzione del reddito e della ricchezza. Ma quanti lamentano differenze profonde rispetto all’accesso ai servizi, alle libertà e ai diritti civili sono pochi di meno, come coloro che denunciano la difficoltà di venire ascoltati. In politica. Insomma, la diseguaglianza, in Italia, non costituisce solo un problema statistico, perché coinvolge la società. Ne influenza e condiziona la visione e le immagini del “mondo intorno”. In modo generale e generalizzato. Anche se delinea una scena colorata con diversi gradi di grigio (e scuro). Infatti, secondo una larga maggioranza di italiani, la “diseguaglianza” non riguarda in modo “uguale” la società, ma “investe”, in modo particolare e con maggiore intensità, alcune categorie di persone. I disabili, per primi. E, subito dopo, i lavoratori precari. Soprattutto i più giovani. E le donne. Ma “investe”, con forza, anche altri gruppi sociali. Segnati - e svantaggiati - dalla residenza in alcune zone specifiche del Paese, storicamente “svantaggiate”. Il Mezzogiorno, i piccoli centri, le periferie. La diseguaglianza appare, inoltre, collegata alla provenienza territoriale e nazionale delle persone. Coinvolge soprattutto gli stranieri. Gli immigrati. Tanto più se caratterizzati da una “fede religiosa” diversa da quella prevalente nel Paese. Agli occhi degli italiani, dunque, si delinea una “geografia della diseguaglianza” ampia e articolata, nella quale le componenti, o meglio, le “regioni”, non comprese nell’area degli svantaggiati, se non degli esclusi, sono circoscritte. Tuttavia, questo sguardo sul nostro mondo rivela prospettive e angolazioni diverse. Le diseguaglianze, in altri termini, non appaiono necessariamente un “male oscuro” e, tantomeno, incurabile. Perché attraversano da tempo la nostra vita, la nostra realtà. E di conseguenza, ci siamo, abituati a considerarle come problemi senza soluzione. Ai quali ci dobbiamo “rassegnare”. Così, divengono parte (“regioni”) di un mondo ri-conosciuto e, per questo, “dato per scontato”. Infatti, la diseguaglianza, meglio le diseguaglianze, sono considerate “accettabili” da quasi i due terzi degli italiani. Mentre circa metà le ritiene “inevitabili” e perfino “utili”. In una certa misura, necessarie. Meccanismi di un sistema che premia e promuove “il merito”. Le componenti più capaci ed efficienti. Per lo stesso motivo, le diseguaglianze appaiono un “motore dello sviluppo”. Sul piano generale e individuale. Per questa ragione, le possiamo valutare - anzi, le valutiamo - in modo negativo. Ma, alla fine, le accettiamo. Anche se con molte riserve. Con distacco e distinzioni. Perché si preferisce “predicare l’uguaglianza” senza rinunciare ai benefici prodotti dalla diseguaglianza, che appare un canale e un moltiplicatore di efficienza e produttività. Si tratta di una contraddizione apparente, che non riguarda solo l’Italia. Una figura importante e autorevole, nel campo delle scienze storiche e sociali, come Pierre Rosanvallon, commentando una ricerca condotta in Francia alcuni anni fa, osservava che “una larghissima maggioranza dei cittadini esprime un giudizio schiacciante nel condannare le diseguaglianze e nel formulare un ambizioso concetto della giustizia”. Ma ritiene, al tempo stesso, “che le disparità di reddito sono accettabili qualora riconoscano i diversi meriti individuali”. In altri termini, “si condannano le diseguaglianze di fatto mentre si riconoscono implicitamente come legittime le cause della diseguaglianza che le condizionano”. Perché ci aiutano a conseguire risultati concreti. Ci permettono di realizzare i nostri progetti, i nostri obiettivi. Senza entrare in contraddizione e in contrasto con noi stessi. Con i nostri valori e le nostre idee. Le diseguaglianze, in altri termini, diventano mezzi per superare i limiti e i problemi che vediamo e incontriamo, incontro a noi. Per “andare oltre”. Noi, uguali e diversi. Uguali perché diversi. Non per legge o per obbligo. Ma per “merito”. Per superare e contrastare le diseguaglianze è, dunque, necessario anzitutto partire da noi. Dal nostro sguardo sul mondo. Sugli altri. È, importante, per questo, convincersi e convincere che l’uguaglianza di opportunità, diritti, condizioni, non è solo giusta. Ma utile. A migliorare la nostra società. E la nostra vita. Dallo Ius Soli allo Ius Scholae: è l’ora di un cambio di passo nel dibattito di Elisa Bacciotti* Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2022 Il 25 maggio la conferenza dei capigruppo della Camera dei Deputati ha annunciato di aver calendarizzato la discussione sulla proposta di legge sullo Ius Scholae dal prossimo 24 giugno. Un risultato importante, ottenuto anche grazie alla mobilitazione di migliaia di studenti, reti e associazioni in decine di piazze d’Italia, come la Rete per la Riforma della Cittadinanza. La proposta di legge prevede infatti la possibilità per i minori stranieri nati in Italia o che siano arrivati nel nostro paese entro i 12 anni di acquisire la cittadinanza italiana su richiesta dei genitori, a patto che abbiano risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e abbiano frequentato regolarmente, per almeno 5 anni, uno o più cicli scolastici. Si tratta di una riforma della cittadinanza ulteriormente ripensata a seguito del naufragio del progetto di legge sullo Ius Soli del 2017, che ne riprende alcune disposizioni e che appare sostenuta da un più ampio consenso parlamentare. Il dibattito si preannuncia comunque acceso, a giudicare da quanto già avvenuto in Commissione, con numerosi emendamenti presentati anche da partiti dell’attuale compagine di Governo, che hanno avuto l’effetto di rallentare ulteriormente la discussione. In questo contesto non è quindi inverosimile aspettarsi che il confronto alla Camera avvenga in un contesto marcato dalla messa in circolazione e dalla diffusione di informazioni non completamente basate sulla lettura della proposta di legge, quanto su una sua interpretazione mirata ad esasperare i toni del dibattito. Un fenomeno già osservato nel 2017 e durante l’esame di altre proposte di legge, come il ddl Zan, che proponevano un sostanziale avanzamento nella difesa dei diritti civili, per categorie oggi non sufficientemente tutelate. In gioco il presente e il futuro di 880 mila ragazzi - Una dinamica pericolosa non solo per l’effetto negativo sulla qualità del dibattito nel nostro paese, ma perché rischia di avere impatti molto concreti sui circa 880 mila studenti di cittadinanza non italiana oggi presenti nelle nostre scuole. Alunni che studiano fianco a fianco con i loro coetanei cittadini italiani e che tuttavia oggi sono esposti, in misura largamente superiore rispetto a loro, ad attacchi di bullismo e odio proprio in virtù del loro essere percepiti “soggetti di serie B”. Come sottolineato in un recente rapporto della Fondazione Openpolis, gli studenti stranieri sono più spesso vittime di bullismo o cyberbullismo rispetto agli italiani. Un fenomeno che ha varie cause ma che è suscettibile di essere amplificato dalla diffusione di informazioni non accurate e mirate a generare odio verso questo segmento della popolazione. Per dirla con le parole dell’avvocata Anna Prandina, membro del comitato scientifico dell’Associazione Italiana Cyberbullismo e Sexting: “sarebbe semplicistico affermare con certezza che vi sia un nesso di causalità tra il bullismo e il cyberbullismo verso i ragazzi stranieri e i discorsi d’odio che si rinvengono sul web soprattutto nei confronti degli immigrati. Possiamo però dire che certamente si risente di un certo clima culturale diffuso di ostilità e di paura nei confronti del “diverso”. Una campagna contro le fake news e i discorsi d’odio che colpiscono i più fragili - Contrastare la disinformazione su questo ed altri temi - che riguardano categorie di popolazione più vulnerabili - assume quindi una doppia importanza: da un lato contribuisce alla creazione di un dibattito pubblico migliore e più equilibrato, dall’altro tutela maggiormente i singoli dalla creazione di un clima d’odio che è suscettibile di avere effetti concreti e molto pericolosi sulle loro vite. Ed è proprio per contrastare la disinformazione che nasce la campagna #iononcondivido - Notizie che feriscono, promossa da Oxfam Italia e Fondazione Openpolis. Un’iniziativa che chiede ai cittadini di non condividere le notizie che appaiono false, artificiose o costruite ad arte in merito ai diritti, ma anzi di segnalarle sulla piattaforma https://checknews.openpolis.it/, affinché possano essere analizzate facendo riferimento a fonti verificate. È possibile partecipare alla campagna visitando la piattaforma e facendo una segnalazione, che sarà poi presa in carico e ritwittata. La campagna #iononcondivido mira a restituire, tramite una interazione circolare, informazioni validate e di qualità, stimolando l’impegno dei newscheckers, ovvero delle persone che hanno a cuore lo svolgimento di un dibattito pubblico anche aspro, ma trasparente e informato, e che anche in Italia sono sempre di più. *Responsabile campagne di Oxfam Italia Il tempo percepito della guerra di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 30 maggio 2022 Lo scorrere delle ore non viene avvertito ovunque allo stesso modo. In Oriente non c’è una scadenza. Si possono sopportare la fase carsica, il conflitto d’attrito e di logoramento, il piano quinquennale, il lungo periodo. Il sacrificio della vita umana diventa necessità. La guerra, la pace, l’amore, la morte: è sempre questione di tempo. Ma siamo sicuri che venga percepito ovunque alla stessa maniera? E che cosa ne deriverebbe se così non fosse? Prendiamo, ad esempio, la comicità. Si usa dire che equivalga alla somma di tragedia più tempo. Quando arriva la canzone di Checco Zalone (La vacinada per il Covid, Sulla barca dell’oligarca per la guerra in Ucraina) è evidente che per noi, qui in Italia, l’ora più buia sia considerata trascorsa. Desideriamo andare oltre, volgere il dramma in parodia, le foto dell’orrore in meme ironici. Abbiamo, e questo vale per l’Europa di cui facciamo parte, non soltanto un diverso fuso orario, ma anche un differente rapporto con il tempo e, di conseguenza, con la pazienza, la progettualità, l’attesa. In Oriente, in Russia, ma anche nel mondo arabo, è come se scorresse diversamente, quasi tendesse al “tempo di Dio”, alla pur discussa equiparazione tra “giorni” e “anni”, al millennio che passa come un turno di veglia nella notte. Non c’è una scadenza, la scadenza è una fissazione che impone la conclusione del lavoro in tempo, o scatta la pena, addirittura la morte, infatti in inglese è deadline. Altrove ci vuole il tempo che ci vuole. Per questo si possono sopportare la fase carsica, la guerra d’attrito e di logoramento, il piano quinquennale, il lungo periodo. Per questo e perché il sacrificio della vita umana che qui è scandalo altrove è necessità. Si può fare, si può ragionare sul raggiungimento di un obiettivo in termini di generazioni. Spazio e tempo sono convenzioni che in una guerra si rompono. Sono convenzioni spaziali i confini che infatti vengono rimessi in discussione. Neppure il tempo sopravvive allo strappo. L’idea di un tempo uniforme è un’illusione, seppur diffusa. Già i greci avevano quattro parole differenti per indicarlo e di queste noi consideriamo solo quello, chronos, che si riferisce al tempo sequenziale, dimenticando soprattutto kairos, il senso di momento opportuno, o supremo, quello che determina l’evoluzione delle cose e che va preparato lasciando scorrere, anche su di sé, il resto. È stato Henri Bergson a scindere tempo vissuto e tempo oggettivo e a spiegarci che viene percepito diversamente a seconda del nostro stato d’animo. Einstein ha sostenuto, poi è stato dimostrato, che il tempo scorre più veloce in montagna che in pianura. Qui siamo su una vetta, altrove c’è la steppa tendente all’infinito. Non c’è stata la guerra lampo? Si procederà altrimenti, giorno dopo giorno, maceria su maceria, a qualunque costo e sacrificio (umano). Molti morti, nessuna deadline. È stato filosoficamente discusso “il paradosso dell’artificiere”. Si immagina che in un edificio venga trovata una bomba collegata a un timer. Viene chiamato un artificiere. Esamina l’ordigno e si convince che sia uguale a un altro che ha disinnescato il giorno prima. Per farlo aveva impiegato 2 minuti netti. Qui il timer ne segna 2 e 10 secondi, quindi è sicuro di farcela. Certo, se il tempo è oggettivo e non convenzionale. Qualcuno potrebbe fargli sorgere il dubbio per cui niente può garantire che due eventi non contemporanei abbiano la stessa durata e la sua fiducia nelle proprie capacità non sia giustificata e sufficiente. Ma soprattutto, che cosa resta dei quotidiani conteggi sulle perdite umane ed economiche di un esercito e di un Paese se chi lo guida, chi lo segue e chi eventualmente gli dovesse succedere è disposto a sacrificare per il proprio obiettivo un artificiere dopo l’altro ogni 2 minuti, per quanto durino? Guerra Russia-Ucraina, per i prigionieri dell’Azovstal processo farsa stile Norimberga di Anna Zafesova La Stampa, 30 maggio 2022 Mosca valuta il trattamento da riservare ai combattenti dell’acciaieria dalla forca al tribunale internazionale per fugare l’accusa di genocidio. Botte sulle dita e sulle ferite aperte, con il calcio del fucile. Pinze. Elettroshock. Strangolamenti. “Le donne militari catturate prigioniere vengono costrette a compiere atti sessuali”, denuncia asciutto il report della commissaria per i diritti umani di Kyiv Lyudmyla Denisova sui prigionieri ucraini detenuti nelle carceri di Donetsk, Taganrog e Voronezh. Un accanimento particolare viene riservato ai membri del battaglione Azov, che si sono consegnati dopo due mesi e mezzo di resistenza a Mariupol. Ma anche militari di altri reparti vengono sottoposti a torture fisiche e psicologiche: molti prigionieri hanno riferito alla missione umanitaria venuta a verificare le loro condizioni che vengono stipati in venti in celle da 2-3 posti, ricevono pochissimo cibo e acqua, non hanno la possibilità di lavarsi e sono privati di assistenza medica. Alcuni denunciano di essere stati sottoposti a somministrazione di farmaci psicotropici, e di essere stati costretti a recitare la poesia “Perdonateci, cari russi”, a imparare l’inno russo e la storia della bandiera e dello stemma della Federazione Russa: chi si rifiutava veniva picchiato e torturato. Mentre Emmanuel Macron e Olaf Scholz nelle loro telefonate al Cremlino chiedono di liberare i quasi 2500 militari ucraini finiti dai bunker di Azovstal nelle prigioni russe, a Mosca sta maturando il piano non soltanto di non scambiarli con le centinaia di soldati russi caduti prigionieri degli ucraini, ma di organizzare un processo esemplare. Subito dopo la caduta di Mariupol, mentre Volodymyr Zelenzky rivelava che Putin aveva dato garanzie per l’incolumità dei combattenti, e il loro successivo scambio, molti parlamentari della Duma sono insorti per non riconsegnarli all’Ucraina, processandoli invece in Russia, addirittura di reintrodurre la pena di morte per i “criminali nazisti”, come li definisce la propaganda russa. Invece di trattarli come prigionieri di guerra tutelati da accordi internazionali, la Russia avrebbe intenzione di processare i militari ucraini in un “tribunale internazionale” per una punizione esemplare, sostiene Denis Pushilin, il “presidente” della enclave separatista di Donetsk, che vorrebbe ispirarsi al processo di Kharkiv, dove nel 1943 i sovietici condannarono all’impiccaggione tre tedeschi e un ucraino. E il capo della Crimea annessa Igor Aksyonov ha invocato la pena di morte, “una lezione per chi si è dimenticato Norimberga”. Sarebbe un “processo politico per sostenere la narrativa sulla “denazificazione” promossa da Putin”, ha dichiarato al Guardian Francine Hirsch, storica americana che ha scritto un libro sul processo di Norimberga e il ruolo dei sovietici. Un processo-spettacolo, sul modello di quelli lanciati da Stalin contro le presunte congiure “trozkiste”, parte di quella ricostruzione dell’Unione Sovietica che il Cremlino sta ormai portando all’ossessione. La guerra in Ucraina viene presentata da Putin come la prosecuzione diretta della Seconda guerra mondiale, con le copie della “bandiera rossa della vittoria” issata sul Reichstag affisse ai municipi dei paesi ucraini occupati dai russi nel Donbass. I fake sul “governo neonazista” di Kiev da combattere come erede diretto dei seguaci di Hitler servono sia a motivare i russi, sia - almeno nell’immaginario del Cremlino - a spiazzare l’Occidente, accusandolo di “sostenere i nazisti”. Un processo dove almeno qualcuno dei reduci di Mariupol venisse costretto - con i farmaci, con le torture, con il ricatto - a “confessare” davanti alle telecamere, verrebbe presentato da Mosca come una “prova” della fondatezza della sua aggressione contro l’Ucraina. Curiosamente, dopo due settimane la risoluzione che proibisce lo scambio dei militari di Azov non è stata ancora messa ai voti, e fonti della Duma hanno rivelato al quotidiano Kommersant che in questo momento sarebbe “inopportuno”. Lo stesso giornale cita però informatori del Cremlino che sostengono che l’idea di una “Norimberga 2.0” non sia stata affatto accantonata, e che piace molto anche al ministero degli Esteri - ormai un ente di propaganda più che di diplomazia - come qualcosa da opporre alle accuse di crimini contro l’umanità rivolte ai russi dopo le stragi di civili a Bucha e in altre città ucraine. I parlamenti di sei Paesi hanno già riconosciuto la guerra lanciata dalla Russia come “genocidio del popolo ucraino”, e mentre non è chiaro cosa i magistrati russi potrebbero incriminare ai militari di Azov, team di periti e legali internazionali stanno documentando le decine di migliaia di casi di bombardamenti, esecuzioni e stupri commessi in Ucraina dai russi. Per ironia della sorte, a voler lanciare una Norimberga è proprio quel Cremlino che rischia di finire al tribunale internazionale all’Aja. Crisi del grano ucraino, gli effetti globali della guerra di Nicolas Lozito La Stampa, 30 maggio 2022 A causa del conflitto, nel porto di Odessa sono bloccate 25 milioni di tonnellate di grano, mais e cereali ucraini. Lo stallo, unito alla volatilità dei prezzi e ai cambiamenti climatici, aumenta l’insicurezza alimentare globale: quest’anno potrebbe colpire 1 miliardo di persone. Dopo la pandemia, dopo la guerra, ora la fame. A causa dell’invasione russa, nei silos del porto di Odessa sono bloccati 25 milioni di tonnellate di grano, mais e altri cereali, in attesa di essere esportati ai Paesi che dipendono dalle materie prime alimentari ucraine per la produzione di cibo. Le scorte internazionali diminuiscono, i prezzi salgono e si allarga la crisi alimentare, che rischia di esplodere nei prossimi mesi. La situazione di stallo prosegue da mesi, ma negli ultimi giorni è diventata uno dei temi più importanti dei negoziati internazionali. È proprio il premier italiano Draghi che sta provando a mediare una tregua. Nella giornata di sabato anche Olaf Scholz, cancelliere tedesco, e Emanuel Macron, presidente francese, hanno provato a triangolare una trattativa con Vladimir Putin. L’obiettivo sarebbe creare un corridoio alimentare per riaprire le rotte via mare del grano ucraino. Il tempo è sempre meno, per due motivi. Primo, la crisi alimentare sta colpendo i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente fortemente dipendenti dalle forniture ucraine e russe. E secondo, fra meno di un mese inizierà il raccolto estivo: se non si trova il modo di svuotare depositi e silos del vecchio raccolto, il rischio è che molte materie prime finiscano per marcire. Il valore dell’export russo e ucraino - L’Ucraina, infatti, è il quinto esportato di grano al mondo, e il primo nell’export dell’olio di semi. La tradizione agricola ucraina, che fino all’anno scorso contribuiva al 10% del Pil nazionale, ha radici storiche profonde: non è un caso che la bandiera ucraina sia gialla e blu: il giallo rappresenta i campi di grano, l’azzurro il cielo oltre l’orizzonte. Anche la Russia è un fondamentale esportatore di materie prime alimentari. Fino all’anno scorso, Russia e Ucraina esportavano così tanti prodotti alimentari da supplire al 12% del consumo calorico globale. In altre parole, questi due paesi contribuivano a più di un decimo della dieta del mondo. Insieme, esportavano il 29% dell’orzo commerciato in tutto il mondo, il 28% del grano, il 15% del granoturco. E il 75% dell’olio di girasole. L’export ucraino è interrotto dal primo giorno di guerra. Il territorio è devastato dai bombardamenti: sono stati colpiti i campi coltivati, gli stock di fertilizzante, allevamenti e infrastrutture idriche. Quest’anno si coltiverà almeno il 30% in meno dei cereali del 2021. E le scorte pregresse, non riescono a uscire dal Paese. Fino a pochi mesi fa il 98% delle materie prime alimentari usciva via mare, dirette verso il Nord Africa e il Medio Oriente, in particolare dal porto di Odessa. Ma le sue acque sono piene di mine piazzate dall’esercito ucraino. Gli ucraini non sembrano pronti a sminare le acque di fronte a Odessa, per paura di un attacco anfibio a sorpresa. D’altra parte, i russi non vogliono concedere una tregua e così interrompere la loro offensiva sull’est e il sud del Paese. Il Mar Nero è ostaggio della guerra e Mosca teme, inoltre, che l’arrivo di navi occidentali a Odessa possa fornire nuovi armamenti e rifornimenti all’esercito ucraino. Dopo quasi 100 giorni di conflitto, le parti non si fidano l’una dell’altra. Ma anche davanti a una possibile tregua russa, i problemi non svanirebbero all’istante: minare le acque è semplice, sminare è molto più complesso. Anche le esportazioni russe di materie prime alimentari hanno subito rallentamenti. Le sanzioni economico-finanziarie non colpiscono direttamente il mercato dei cereali, ma lo scenario di guerra ha reso poco opportuni gli affari con i fornitori russi. Il cibo come arma - Il cibo si è trasformato in un’arma. Secondo la Fao 53 Paesi dipendono almeno al 30% dal grano russo e ucraino; e 26 ben oltre il 50%. Nel mondo quattro Paesi su cinque importano più cibo di quanto esportano. In altre parole, il tanto cibo che consumiamo viene prodotto in pochi Paesi Come ha scritto Carlo Petrini su La Stampa, “la sovranità alimentare non esiste più da decenni”. È anche per questo motivo che oggi il mondo fatica a trovare una soluzione rapida alla crisi del grano ucraino. Il direttore del World Food Programme, David Beasley, già a febbraio aveva detto: “Se non affrontiamo subito la questione, nei prossimi nove mesi vedremo carestie, destabilizzazioni nazionali e migrazioni di massa”. Il Programma alimentare mondiale dà cibo a 115 milioni di persone che soffrono la carestia in tutto il mondo. Il 50% delle derrate alimentari fornite dall’organizzazione umanitaria dipendono proprio dal grano ucraino. Proprio come le forniture di gas russo, è difficile sostituire da un giorno all’altro le materie alimentari di Mosca e Kiev. Anche perché coltivare grano ha perso redditività. Per almeno tre fattori: la volatilità dei prezzi, dettata proprio dall’incertezze di questi ultimi anni post-pandemici e dell’inflazione; i costi di energia e fertilizzanti crescenti; la resa scostante dei raccolti. Molti agricoltori, scoraggiati dai margini di guadagno sempre più basso, convertono i propri campi in colture per mangimi o per produrre bio-carburanti: costano meno, rendono di più. Non solo: sempre più Stati, spaventati dalla situazione, stanno vietando le esportazioni, in un’ondata di vero e proprio protezionismo applicato ai cereali. India, Cina, Kazakistan, Kuwait: sono 23 i Paesi che hanno applicato nuove restrizioni, bloccando l’equivalente del 15% delle calorie commerciate nel mondo. L’effetto moltiplicatore del cambiamento climatico - Le ripercussioni economico-sociali ricadono sui Paesi più poveri, dove il costo del cibo incide per più di un quarto del reddito e buona parte della dieta si basa proprio sul pane. Come in Egitto, fortemente dipendente dalla fornitura ucraina e dove il 40% del reddito va consumato per l’alimentazione. A oggi il prezzo del grano è aumentato di più del 50%. C’è un’altra causa dietro la crisi alimentare che sta colpendo il Pianeta. Si tratta del cambiamento climatico, che agisce come moltiplicatore di vulnerabilità. Il divieto indiano all’export di grano nasce proprio per far fronte al caldo estremo che ha colpito i raccolti e ne diminuirà la resa. La Cina ha rivisto le stime dei suoi raccolti dopo che negli scorsi mesi ha piovuto troppo poco. La siccità colpisce il Corno d’Africa, ma anche l’Europa e l’America. L’altra faccia della medaglia del grande caldo sono gli eventi meteorologici estremi: tempeste, uragani e alluvioni, che nascono proprio perché una temperatura media maggiore accelera l’evaporazione dell’acqua e la formazione delle nuvole. Secondo le stime delle Nazioni unite, negli ultimi vent’anni gli eventi meteo estremi sono aumentati dell’83% rispetto al ventennio precedente. E in futuro potrebbero crescere in maniera esponenziale. Nell’era del caos climatico, l’agricoltura è il primo settore a essere colpito. Il diritto negato alla sicurezza alimentare - Pandemia, guerra, climate change provocano una crescente insicurezza alimentare globale. Dalla seconda guerra mondiale in poi il numero di persone malnutrite è diminuito sempre, ma il trend si è invertito dal 2015. Da sette anni il numero di persone che vive in situazione di insicurezza alimentare è cresciuto. Nel 2020 secondo la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, erano più di 800 milioni, ma quest’anno si rischia di superare il miliardo. Una persona su otto. La sicurezza alimentare, così come il diritto al cibo, sono due fondamentali cardini degli obiettivi di sviluppo prefissati dalla comunità internazionali. Per sicurezza alimentare esiste, secondo la definizione della Fao: “quando tutti gli esseri umani hanno, in ogni momento, l’opportunità fisica, sociale ed economica di ottenere cibo sufficiente, sano e nutriente per consentire loro di soddisfare le proprie esigenze e preferenze alimentari per condurre una vita sana e attiva”. Alla luce di questa definizione, il diritto al cibo è oggi un diritto negato. Oggi il mondo produce 4 miliardi di tonnellate di cibo all’anno. Mai così tante nella storia. Eppure almeno un quarto va sprecato. Secondo un celebre studio pubblicato nel 2012 sul Journal of Sustainable Agriculture, tutto il cibo prodotto nel mondo potrebbe sfamare in media una popolazione di 10 miliardi di persone. Due miliardi in più di quanti abitano il pianeta ora. Egitto. 15 anni di carcere per il dissidente Abu Fotouh e il deputato islamista Mahmoud Ezzat agenzianova.com, 30 maggio 2022 La guida ad interim della Fratellanza musulmana, Mahmoud Ezzat, 77 anni, e l’ex candidato alla presidenza Abdel Moneim Aboul Fotouh, 71 anni, fondatore del partito Egitto Forte, sono stati condannati a 15 anni di carcere con l’accusa di “diffusione di false notizie”. La sentenza è stata emessa oggi dalla Terza circoscrizione per il terrorismo della Corte penale suprema di emergenza per la sicurezza dello Stato. Nello stesso processo i giudici hanno condannato altre 15 persone all’ergastolo. Secondo il quotidiano governativo “Al Ahram”, gli imputati sono accusati di “lesione degli interessi nazionali del Paese” e di aver presieduto un “gruppo costituito in violazione delle disposizioni di legge”. Le attività della Fratellanza sono state bandite in Egitto nel settembre del 2013, dopo la deposizione dell’ex presidente Mohamed Morsi, esponente di spicco del gruppo islamico. Nell’ottobre dello stesso 2013 il governo ha formato un comitato “ad hoc” incaricato di gestire i fondi e le proprietà della Fratellanza. Tale organismo ha sequestrato decine di strutture - come aziende, scuole e centri islamici - del valore di miliardi di sterline egiziane come parte del giro di vite contro il gruppo considerato ormai fuorilegge in Egitto. Se in Afghanistan governa Al Qaeda di Stefano Pontecorvo La Repubblica, 30 maggio 2022 Il gruppo terroristico può contare su un suo esponente, Sirajuddin Haqqani, come ministro dell’Interno. Un fatto che mette in allarme i servizi di sicurezza nel mondo. La notizia è di quelle che fanno drizzare i capelli e le orecchie in giro per il mondo. Il gruppo terroristico Al Qaeda può contare, per la prima volta nella sua storia, su un suo esponente quale ministro di un governo al potere in uno Stato che è parte integrante della comunità internazionale. Trattasi di Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno dell’emirato islamico afghano, capo dell’omonimo gruppo che fa parte dei talebani e contemporaneamente, secondo l’Onu, l’intelligence americana e quella britannica, membro di Al Qaeda. La madre di Sirajuddin è un’araba e proviene da una delle famiglie che seguirono Osama Bin Laden quando quest’ultimo si stabilì in Afghanistan. Pare che essa fosse anche imparentata con Osama ma la notizia non è certa. Già un rapporto Onu del giugno dell’anno scorso aveva definito Sirajuddin come “membro della più ampia dirigenza di Al Qaeda, ma non della sua leadership ristretta”. Da allora, grazie ad evidenze ed elementi supplementari la valutazione è cambiata, facendo capire che Sirajuddin è tutt’altro che un comprimario tra i qaedisti bensì membro effettivo dei suoi vertici. Egli ha vissuto nell’ombra fino a quando ha potuto; la sua prima fotografia confermata risale al 6 marzo di quest’anno, scattata durante una cerimonia presso l’accademia di polizia di Kabul. Il legame tra gli Haqqani ed Al Qaeda, rafforzati dai circa trecento matrimoni contratti tra famiglie degli Haqqani e di Al Qaeda non è mai stato un mistero, anche se la leadership talebana e gli Haqqani stessi lo hanno sempre negato (anche direttamente a chi scrive in occasione di un incontro). La commistione tra i due gruppi è stata comunque provata persino sul campo di battaglia, in cui talebani e qaedisti sono stati visti combattere assieme e, in alcuni casi, sono stati uccisi fianco a fianco. Che Al Qaeda, con la vittoria dei talebani nello scorso agosto, goda di una libertà di manovra assai superiore rispetto al passato è testimoniato dalle numerose apparizioni pubbliche in Afghanistan di noti esponenti dell’organizzazione terroristica i quali agiscono indisturbati nel Paese, nonché dal moltiplicarsi delle esternazioni, tra cui ben otto messaggi video, del capo di Al Qaeda ed ex vice dello stesso Osama, Ayman al Zawahiri, riemerso dopo anni passati a nascondersi. Il fatto che un dirigente di Al Qaeda abbia in mano un ministero chiave afghano, che controlla il territorio e le frontiere oltreché servizi fondamentali quali l’intelligence ed il rilascio dei passaporti, è di per sé inquietante e, assieme alla libertà di movimento della quale gode Al Qaeda, mette in allarme i servizi di sicurezza nel mondo. I vicini si sono già mossi, convocando nella capitale tagika di Dushanbe una due giorni alla quale hanno partecipato i Consiglieri per la Sicurezza nazionale di Russia, Cina, India, Iran, Kazakistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan e Tagikistan dedicata alla deteriorata situazione di sicurezza in Afghanistan discussa con accenti di grande tensione. Il problema essendo che la dirigenza di Kabul e Kandahar è di fatto impotente di fronte allo strapotere interno degli Haqqani, anche se essa è ben consapevole dei pericoli di isolamento internazionale nel dare mano troppo libera ad Al Qaeda, specie in un momento nel quale Isis-K sta rafforzando forze e capacità di azione, come dimostrato dagli oltre dieci attacchi e decine di morti causati solo nell’ultimo mese. L’Afghanistan rischia di trasformarsi nei prossimi mesi in un terreno di scontro, se non in una polveriera, con i talebani impreparati alle sfide. Non è certo per capriccio bensì per necessità che i cinesi si sono appropriati, agendo con prudente silenzio, di una parte della ex base americana di Bagram nella quale conducono corsi di addestramento per le unità talebane chiamate a contrastare Isis. Ai guai dei talebani si aggiunge anche il Fronte nazionale della resistenza di Ahmad Massoud che ha compiuto nelle settimane scorse una efficace azione dimostrativa nel suo feudo storico della valle del Panshir causando centinaia di vittime tra i talebani, che sono stati costretti ad inviare circa cinquemila combattenti per riprendersi il territorio perduto. Su questo sfondo lo scenario peggiore possibile, che non si può escludere, è una cooperazione sempre più aperta e concreta di Al Qaeda con i talebani a contrasto sia di Isis che del Fronte di Massoud, che darebbe all’organizzazione terroristica spazi di manovra più ampi all’interno e all’esterno dell’Afghanistan. Come ho già espresso in passato non sono solo le restrizioni e le angherie perpetrate contro le donne afghane, fatti gravissimi da contrastare in ogni modo possibile, che ci devono far preoccupare. Un terrorista come ministro dell’Interno pone oggi la questione afghana sotto una luce ben diversa.