“Pericoloso e desocializzante: nella realtà il carcere è il veleno e non la medicina” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 maggio 2022 Fiandaca: “Non esiste un carcere ideale. Non sono favorevole alla costruzione di istituti nuovi o più moderni, parteggio piuttosto per la loro progressiva riduzione. Non un carcere migliore ma quanto meno carcere possibile, limitando la detenzione ai soli casi in cui non se ne può fare a meno” Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, la strada per l’abolizione del carcere deve partire dall’eliminazione dell’ergastolo. Ma la strada è ancora lunga e servirebbe una pedagogia collettiva volta a spiegare ai cittadini che la prigione è spesso più un veleno che una medicina. Professore come descriverebbe la situazione attuale delle nostre carceri? L’universo penitenziario italiano è molto disomogeneo quanto a strutture edilizie, tasso di sovraffollamento, condizioni di vita intramuraria e opportunità rieducative rispetto a istruzione, formazione professionale, lavoro e all’insieme delle risorse trattamentali disponibili. Ad esempio, nella realtà siciliana che conosco meglio come Garante e nella quale esistono ventitré carceri per adulti, alcuni istituti sono collocati in edifici vecchi risalenti anche ad alcuni secoli addietro con infiltrazioni di umidità, molto freddi d’inverno perché tuttora privi di riscaldamento, con acqua calda disponibile solo in certe fasce orarie del giorno, privi di locali adeguati per la cosiddetta socialità, carenti di palestre o di campetti di calcio o di altre opportunità di svago. Ma per altro verso, se si tratta di istituti di piccole dimensioni con popolazione carceraria di poche decine di unità, come ad esempio nel caso del carcere di Sciacca che ho visitato di recente, questi inconvenienti strutturali e funzionali sono in qualche misura controbilanciati da una migliore qualità della vita comunitaria se confrontati con istituti di dimensioni molto più grandi e più moderni. C’è minore spersonalizzazione, i rapporti umani sono tendenzialmente meno conflittuali, e dunque più pacifici, sia tra i detenuti, sia tra questi ultimi e il personale carcerario. E gli stessi poliziotti penitenziari hanno maggiore disponibilità e capacità di ascolto delle svariate esigenze della piccola popolazione detenuta. Una realtà carceraria dunque nel complesso a macchia di leopardo, molto poco omogenea. Gli istituti più ambìti dai detenuti, che vorrebbero esservi trasferiti perché più all’avanguardia, sono pochi e concentrati al nord, mentre la gran parte delle strutture carcerarie, specialmente al sud, è invece di livello complessivo medio basso. Dati del 2015 ci dicono che in Italia l’82,6% dei condannati sconta la pena in carcere, in Francia e Gran Bretagna la percentuale scende al 24%, mentre la Svezia vanta uno degli indici di recidiva più bassi d’Europa. Eppure nella nostra Costituzione non c’è la parola carcere, ma ‘pene’. Oggi com’è la situazione? Secondo dati a mia conoscenza, relativi alla seconda metà di ottobre del 2021, il numero di quanti scontano pene extra-detentive avrebbe superato anche da noi quello della popolazione penitenziaria. A fronte di circa 54.000 reclusi, avrebbero fruito di sanzioni extracarcerarie circa 67.000 persone. È sperabile che questa crescita del numero dei soggetti in esecuzione penale esterna si incrementi sempre più nel futuro. Purtroppo rimane ancora elevato il numero dei sottoposti a pena detentiva: al carcere si ricorre a tutt’oggi in maniera sproporzionata per eccesso, non poche delle persone che scontano la pena in prigione non dovrebbero starci, perché si tratta di persone che non sono peggiori di quelle che si incontrano per strada o che addirittura frequentiamo nella cerchia delle nostre conoscenze e amicizie. Il nostro legislatore dovrebbe avere una buona volta il coraggio necessario per prendere davvero sul serio il principio della pena carceraria come extrema ratio. Ma occorre in proposito una rieducazione culturale della società, prima ancora che della politica. A proposito di questo, Michel Foucault in ‘Sorvegliare e punire. Nascita della prigione’ ci fa capire che parlare di carcere non significa parlare solo dei carcerati ma anche di noi stessi. È facile cedere all’illusione che ci sia un noi e un loro... Michel Foucault ha fortemente contribuito ad avvalorare una verità di cui però si era anche consapevoli prima di lui: cioè i tipi di punizione sono il riflesso, prima ancora che della storia degli ordinamenti giuridici in sé considerati, della struttura economica, dei rapporti di potere e delle caratteristiche politico-culturali predominanti nei vari modelli di società. E dobbiamo anche ricordare che Foucault, nel far risalire l’affermarsi della detenzione come pena principale al modello di società borghese che si è consolidato nel 19esimo secolo, ha anche scritto che il carcere è “la detestabile soluzione di cui non si saprebbe fare a meno”, sottintendendo così che non ne possiamo fare a meno finché non riusciamo ad inventare qualcosa di meglio. E questa è appunto la sfida che dovremmo raccogliere. Il paradosso è proprio questo, come ha messo in evidenza lo stesso Foucault: gli inconvenienti della prigione, la sua pericolosità come luogo di ulteriore desocializzazione e la sua non infrequente inutilità come istituzione rieducativa sono difetti di cui gli esperti sono divenuti consapevoli addirittura pochissimo tempo dopo che il carcere è storicamente divenuto la principale forma di punizione. Insomma, il carcere lo utilizziamo fino ad oggi nonostante sappiamo almeno dal secondo ottocento che esso è tutt’altro che il migliore dei rimedi possibili, anzi che esso in non pochi casi funge più da veleno che da medicina. Il nostro carcere cosa ci dice della nostra classe politica? Il populismo penale e il suo carcero-centrismo, come penalisti democratico-costituzionali, non ci siamo stancati negli ultimi anni e non ci stanchiamo di bollarli come una manifestazione di cultura giuridica primitiva e rozza, decisamente contraria alla Costituzione. Purtroppo tendenze iper-repressive sono emerse negli ultimi decenni più volte anche nel fronte politico cosiddetto progressista. Come giuristi dovremmo essere capaci di assumere un più efficace ruolo di intellettuali pubblici capaci di influenzare il dibattito in materia di giustizia e carcere. Fino ad ora sul carcere questo Governo sembra non aver fatto nulla. Ancora occorre mettere in pratica i risultati della Commissione Ruotolo... L’attuale Governo, e in particolare la ministra Cartabia, che stimo e apprezzo per diverse ragioni, hanno messo in cantiere più novità in tema di giustizia largamente intesa, alcune senz’altro positive, qualche altra non priva di ombre. Apprezzo senza dubbio i principi di riforma del sistema sanzionatorio contenuti nella legge delega già approvata, con riferimento in particolare al potenziamento delle sanzioni extra-detentive e all’ampio spazio attribuito agli strumenti della giustizia cosiddetta riparativa. Come noto in proposito sono ancora in fase di elaborazione i decreti delegati. Sul versante strettamente carcerario mi sarei aspettato qualcosa di più sollecito e concreto per sfoltire, ad esempio, la popolazione penitenziaria specie con riferimento a soggetti condannati che devono ancora scontare pene molto brevi. Ma vorrei dire che non ho perduto ogni speranza al riguardo, anche se il tempo corre, la legislatura è nella fase terminale e la materia carceraria non è certo la più facile da affrontare in questa contingenza storico, politico culturale. Possiamo dire che l’unico atto concreto della Ministra Cartabia è la nomina di Carlo Renoldi al Dap. Che ne pensa? Le pare poca cosa questa nomina di Renoldi? È una scelta che va condivisa e apprezzata questa di Renoldi e tengo a ribadirlo. Segna infatti una svolta rispetto al passato anche recente, sia perché Renoldi non proviene dalla magistratura d’accusa ma è un giudice per di più con lunga esperienza di sorveglianza, sia perché è molto competente dal punto di vista tecnico e anche equilibrato sul piano personale, come ho potuto constatare avendolo ben conosciuto alcuni anni fa. Gustavo Zagrebelsky nella postfazione al libro ‘Abolire il carcere’ (Autori Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Chiare Lettere 2015) si chiede: ‘non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità, che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali, non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?’. Lei come risponderebbe? L’interrogativo sollevato da Zagrebelsky è tutt’altro che nuovo e lui non è certo il solo a porlo. Il fatto è che non si tratta soltanto di concepire nuovi tipi di pena al posto del carcere: forse la fantasia punitiva è tutto sommato limitata. Non è facile escogitare tipologie di pena del tutto inedite. Anche le sanzioni riparatorie sono state, ad esempio, sperimentate più volte a cominciare da un lontano passato. La questione decisiva è verosimilmente diversa: dovremmo forse smettere di pensare in termini punitivi per reagire a quei fatti che per tradizione continuiamo a definire crimini o delitti e che sono in fondo, almeno in alcuni casi, fatti socialmente dannosi o pericolosi che dovremmo affrontare innanzitutto in via preventiva con strumenti di intervento a carattere economico, sociale, psicologico o assistenziale e così via. Insomma dovremmo cominciare a rinunciare mentalmente a ricorrere al paradigma della punizione come modalità di reazione a fenomeni disfunzionali, coinvolgendo esperti dotati delle più varie competenze per ideare modalità di reazione più intelligenti; lo suggerisce e raccomanda, ad esempio, la filosofa statunitense Martha Nussbaum. Concludendo, in poche parole dovremmo derubricare termini come criminalità e pena e parlare invece di disfunzioni o patologie sociali e di rimedi sociali a carattere preventivo o terapeutico. Quindi mi pare lei sia d’accordo con l’abolizione del carcere. Il percorso dovrebbe partire dall’abolizione dell’ergastolo? Si dovrebbe partire dall’eliminazione della pena dell’ergastolo, sono d’accordo. Non a caso sono tra gli autori del recente volume collettivo ‘Contro gli ergastoli’, curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto (Futura, Roma 2021, pp. 250). Tra gli altri, Anton Cechov ha già nel 1890 scritto che ‘la pena capitale, sia in Europa che da noi, non è stata abolita, bensì camuffata sotto altre vesti, meno scandalose per la sensibilità umana’ e che l’ergastolo è una pena inumana perché innanzitutto incompatibile col diritto umano alla speranza. Ma ancora c’è tanta strada da fare per riuscire ad abolire l’ergastolo. Gli autori del libro ‘Abolire il carcere’ hanno immaginato un percorso per abolire il carcere che comprende: giurisdizione penale minima, eliminazione della carcerazione preventiva, potenziamento delle misure alternative, riduzione dell’ambito di applicazione del 41bis. Però oggi ancora si sente parlare di costruzione di nuovi carceri. Lei è d’accordo con quel percorso tracciato e dal punto di vista dell’architettura, quale sarebbe per lei un carcere ideale? Dal mio punto di vista non esiste un carcere ideale. Non sono favorevole alla costruzione di istituti carcerari nuovi o più moderni, parteggio piuttosto per la progressiva riduzione del carcere. Non un carcere migliore ma quanto meno carcere possibile, limitando la carcerazione ai soli casi in cui non se ne può fare davvero a meno, cioè di soggetti di così comprovabile pericolosità da doverli tenere sotto controllo intramurario. Almeno finché non riusciremo ad inventare appunto qualcosa di meglio, di più intelligente e di più utile. Nel nostro Paese in cosa si può sperare? Con l’ottimismo della volontà direi che dovremmo sperare nella futura capacità di promuovere forme di pedagogia collettiva che pongano e diffondano le basi culturali per una drastica riduzione dell’utilizzo del carcere, spiegando alla maggioranza dei cittadini che il carcere quasi mai è la medicina e che, ribadisco, in non pochi casi funziona come un veleno e che perciò può risultare non solo inutile ma anche controproducente. E il suo impiego comporta uno spreco di risorse pubbliche che potrebbero avere una destinazione migliore. Contano i numeri non l’empatia: metà dei detenuti ha commesso reati non violenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 maggio 2022 Se si superasse gradualmente il carcere con misure non detentive miliardi di euro potrebbero essere dirottati per comunità, lavoro e alloggi per scontare le pene. Quando Franco Basaglia decise di mettere in pratica l’apertura dei cancelli nel manicomio di Gorizia, accadde che un paziente con problemi psichiatrici, una volta avuto la libera uscita, commise un omicidio spingendo dalle scale una donna. Ci fu indignazione, tanto che Basaglia fu costretto a lasciare l’istituto e passò a Parma, e due anni dopo fu nominato direttore del manicomio San Giovanni di Trieste. Il resto è storia. Quell’unico omicidio fortunatamente non condizionò il Parlamento italiano che qualche anno dopo decise di approvare la legge 180 che ha superato l’istituzione manicomiale. L’abolizione del manicomio ha superato lo scoglio del caso unico di cronaca, valorizzando i dati reali che dicono tutt’altro. Cosa che non accade con l’istituzione penitenziaria, la quale ha avuto una continua evoluzione fino ad arrivare nel periodo dell’Illuminismo nel quale si registra una profonda svolta, in quanto si rifiuta il principio punitivo della pena in carcere adottando quello basato sulla rieducazione e sull’umanizzazione, teso al rispetto della condizione personale del reo. Ma siamo rimasti ancora lì, in quanto manca una ulteriore evoluzione: il superamento dell’istituzione penitenziaria. Il primo scoglio da superare è quello del quale lo psicologo Paul Bloom, professore dell’università di Yale, parla nel suo libro dal titolo “Contro l’empatia. Una difesa della razionalità”. Vale per ogni ambito quando la politica si trova a fare delle scelte. Bloom dimostra quanto l’empatia ci porta a esprimere giudizi sbagliati e prendere decisioni irrazionali. In sostanza spiega che l’empatia riflette preconcetti e propensioni, similarmente al pregiudizio. Ad esempio, risulta più facile empatizzare con chi è più vicino o più simile a noi. Un ulteriore limite dell’empatia deriva dal fatto che tende a focalizzarsi su individui specifici, ed è quindi insensibile ai dati statistici (effetti delle nostre azioni su gruppi di persone) e alle stime costi-benefici. Ed ecco che, tra gli esempi, Bloom nel suo libro racconta anche un episodio sul carcere. Nei primi anni 90, un senatore americano riuscì a far approvare una legge che di, fatto, allargò le misure alternative alla detenzione nei confronti di una larghissima platea di reclusi. Ma accadde un episodio che creò forte indignazione. Uno dei detenuti scarcerati commise un brutale omicidio nei confronti di una donna. A seguito dell’evento ritirarono subito quella legge, nonostante i dati statistici rivelassero che quella misura funzionava: eliminava il sovraffollamento e riduceva la recidiva. Di fatto, è bastato un caso terribile che ha suscitato empatia, mentre la statistica non ha commosso nessuno. Eppure, ritornando in Italia, i dati rivelano che il carcere non serve allo scopo che il sistema gli assegna ufficialmente. Non garantisce nessuna giustizia, la società non è protetta meglio grazie a esso e non ha effetti tali sui detenuti da produrre una riduzione della criminalità. Molti pensano che in carcere ci siano principalmente stupratori, assassini e mafiosi, mentre la stragrande maggioranza dei detenuti, sono dentro per reati contro il patrimonio, droga e reati minori. Dai dati del ministero della Giustizia, emerge che nell’arco dell’anno 2021, risultano più di 31mila detenuti per reato contro il patrimonio, quasi 20 mila per droga, 8685 contro la pubblica amministrazione, quasi 4000 sono reati relativi alle contravvenzioni. Mentre, 7.274 sono reati mafiosi e 23mila contro la persona. Questo ci spiega, che se si puntasse sulla pena non carceraria per reati non violenti, si ridurrebbero vertiginosamente il numero delle carceri in Italia. Non solo. Dal rapporto elaborato lo scorso anno dal Consiglio d’Europa, ovvero Space 2020, si evince che solo nel 2019, l’amministrazione penitenziaria ha avuto bisogno di quasi 3 miliardi di euro. È in media il costo annuale per “sostenere” le carceri italiane. Se si applicasse una riforma che gradualmente superi l’istituzione attraverso misure non detentiva, miliardi di euro potrebbero essere dirottati per le comunità, il lavoro e gli alloggi per scontare la pena, l’allargamento del servizio sociale. Oltre alla valorizzazione del cosiddetto “stato sociale”, dove appunto la società si prende carico delle persone più vulnerabili. Non è utopia, anche perché le raccomandazioni internazionali, da anni, puntano in quella direzione. Ovvero la necessità di sviluppare strategie in materia di esecuzione penale esterna e probation. Quest’ultimo, secondo la definizione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per mezzo delle Raccomandazioni, descrive l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, definite dalla legge e imposte di un autore di reato. Comprende una serie di attività ed interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica. Noi l’applichiamo fin dall’ordinamento penitenziario del 1975, con l’aggiunta più recente di una forma di ‘probation giudiziale’, innovativa nel settore degli adulti, e rappresentata dalla messa alla prova, consistente nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado per reati di minore allarme sociale. Il solco verso il superamento del carcere è già tracciato da tempo, basterebbe proseguirlo e andare fio in fondo. Per questo è utile, ancora una volta, ritornare al libro di Paul Bloom. Ci esorta a dare più spazio alla ragione in un mondo in cui la pancia è spesso al primo posto nel determinare il nostro comportamento. Naturalmente il monito è rivolto soprattutto alla classe politica che deve assumere decisioni di vitale importanza e non può farlo per rispondere empaticamente agli umori della popolazione, molto spesso veicolati dagli articoli di cronaca. In politica, soprattutto per le grandi riforme, deve contare la statistica e non i singoli casi. Per il superamento del carcere, è fondamentale. Carcere, ora servono davvero le riforme di David Allegranti La Nazione, 2 maggio 2022 “La pandemia ci ha mostrato tutti i limiti di un mondo penitenziario bloccato e in ritardo su tante questioni”, ha detto il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, presentando l’ultimo rapporto sulle carceri. “I tassi di recidiva ci raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno, puntando sulle attività lavorative, scolastiche, ricreative e abbandonando la sua impronta securitaria”. In media, secondo l’associazione, i reati sono 2,37 per detenuto. “Al 31 dicembre 2008 il numero di reati per detenuto era più basso di 1,97. Dunque diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona”, spiega Antigone. “Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38 per cento era alla prima carcerazione. Il restante 62 per cento in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18 per cento c’era già stato in precedenza 5 o più volte. Tassi di recidiva dunque alti, su cui sarebbe utile che il ministero raccogliesse dati certi”. È anche fondamentale, ha detto Gonnella, “che il carcere diventi realmente l’extrema ratio a cui ricorrere solo in casi dove ce ne sia la reale necessità”. Come, peraltro, ha già detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia. “Al 31 dicembre 2021 ben 19.478 detenuti (poco meno del 40 per cento del totale dei reclusi), dovevano scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Una gran parte di loro potrebbe usufruire di misure alternative”, ha spiegato Antigone. Un aumento di queste misure permetterebbe di porre rimedio anche al cronico sovraffollamento delle carceri italiane: il tasso di affollamento è attualmente del 107 per cento, secondo i posti conteggiati dal ministero. “Tuttavia, se si considerano i posti realmente disponibili, a fronte di reparti e sezioni chiuse o celle inagibili, il tasso supera il 115 per cento. Un dato su cui pesano sempre meno gli stranieri che al 31 marzo 2022 sono il 31,3 per cento sul totale della popolazione detenuta, con un calo del 5,8% per cento rispetto al 2011. Il loro tasso di detenzione (calcolato nel rapporto tra popolazione straniera residente in Italia e stranieri presenti nelle carceri) ha visto una decisiva diminuzione, passando dallo 0,71 per cento del 2008 allo 0,33 per cento del 2021”. A dicembre 2021, ha detto Gonnella, “la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal professor Marco Ruotolo, ha elaborato e consegnato un documento con tutta una serie di riforme che si potrebbero fare in maniera piuttosto rapida. Inoltre la recente nomina di Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria apre una prospettiva importante da questo punto di vista”. Nelle carceri sono rinchiuse almeno sessanta persone con disturbi mentali: ma la legge lo vieta di Gloria Riva L’Espresso, 2 maggio 2022 Dovrebbero essere ospitate nelle Rems e curate, ma i posti sono pochi e così almeno sessanta pazienti (ma probabilmente molti di più) finiscono nei penitenziari ordinari. Malgrado le denunce della Corte costituzionale. Ecco perché il sistema non funziona. Per due anni Giacomo Seydou Sy, 28 anni, italiano, con problemi psichiatrici, è stato trattenuto illecitamente nel carcere romano di Rebibbia. Un fatto grave, tanto che a gennaio è piovuta sull’Italia la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Giacomo Seydou Sy è affetto da disturbo bipolare e della personalità e nel 2019 è stato accusato di molestie all’ex fidanzata, resistenza a pubblico ufficiale, percosse e lesioni. Così il giudice per le indagini preliminari di Roma lo ha indirizzato a una Rems, cioè una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le strutture che dal 2014 hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi perché erano “inconcepibili in qualsiasi paese appena civile”, come disse nel 2011 l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Nel caso di Giacomo Sy il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non aveva trovato posto nelle Rems, tutte strapiene. Il giovane era stato quindi trattenuto in carcere. Per due anni. Il caso di Giacomo Sy non è il solo, come testimoniano le fotografie scattate da Valerio Bispuri e come conferma la Corte Costituzionale, ci sono almeno sessanta persone in questa situazione, ma potrebbero essere molte di più, come rivela all’Espresso una fonte interna a uno dei maggiori penitenziari romani. Secondo la Corte di Strasburgo era dovere del governo italiano trovare a Giacomo Sy un posto nelle Rems “o un’altra soluzione adeguata”, come scrive la Corte dei diritti dell’Uomo nella sentenza. Proprio l’Italia, che ha picconato le mura dei manicomi nel 1978, oggi riporta i pazienti con disturbi psichici in condizioni disumane, violando le proprie leggi. A stretto giro, il 27 gennaio di quest’anno, anche la Corte Costituzionale ha emesso un giudizio con cui accende un faro sul cortocircuito istituzionale che si scarica sulle persone con disturbo mentale. Sono colpevoli di aver commesso un crimine e avrebbero diritto alla cura, invece finiscono in un limbo fra carcere e reparti di psichiatria, da cui rischiano di non uscire più, specialmente se sono di origine straniera e non possono permettersi un buon avvocato. Ma andiamo con ordine. Fino al 2014 le persone con un problema psichico e colpevoli di reato, anche prima di una sentenza, erano rinchiuse negli Opg, Ospedali psichiatrici giudiziari, delle case di reclusione che, dalla metà degli anni Settanta, sostituirono i manicomi criminali. Gli Opg, dopo che una scioccante indagine parlamentare - presieduta da Ignazio Marino - accertò le condizioni di estremo degrado degli istituti, vennero chiusi. Una legge del 2014 dice che queste persone devono essere curate e riabilitate sfruttando la rete territoriale di servizi di salute mentale, nati nel 1978 grazie alla Legge Basaglia. Solo nei casi in cui la persona autrice del crimine rischia di essere pericolosa per la comunità, il magistrato può disporre il ricovero in una Rems. Le Residenze, nate nel 2015, sono luoghi chiusi il cui obiettivo è curare la fase acuta della malattia e riabilitare il paziente attraverso un percorso di terapia e assistenza psicosociale. Tuttavia i posti nelle Rems scarseggiano, non perché siano troppo pochi, piuttosto perché chi ci entra difficilmente ne esce: l’assenza di strutture assistenziali locali, di centri diurni o abitazioni ad hoc, ne rende impossibile la dimissione. “In alcuni casi mancano le strutture residenziali pronte ad accogliere i pazienti affetti da disturbo mentale, in altri, non c’è la volontà dei comuni di farsi carico di queste persone, anche economicamente, per pagare parte della retta della Rsa che li ospiterebbe. Sono persone che, dopo aver trascorso un periodo qui da noi nella Rems e aver migliorato la propria condizione, non possono uscirne perché non c’è un luogo pronto ad accoglierle”, dice Corrado Villella, psichiatra della Rems romana. In base ai dati della Corte Costituzionale, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza in Italia sono 36, per un totale di 652 posti letto, insufficienti a coprire le richieste da parte dei tribunali italiani. Per il dipartimento di amministrazione penitenziaria la lista d’attesa ammonta a 750 persone, per lo più colpevoli di aver maltrattato un famigliare, compiuto una violenza, un omicidio, un’estorsione. Dati che non combaciano con quelli della Conferenza delle Regioni, secondo cui ad aspettare un posto sono 568 pazienti. Il fatto che non vi sia neppure certezza sui numeri la dice lunga sul caos istituzionale che si è venuto a creare. Il tempo medio di attesa è di dieci mesi, con punte di 458 giorni in Sicilia, dove si concentra un terzo dei pazienti in attesa. “È il magistrato a definire una sede temporanea per queste persone”, risponde Massimo Cozza, psichiatra e direttore del dipartimento Salute Mentale dell’Asl Roma 2, che continua: “Nei casi meno gravi il paziente sta ai domiciliari, in altri viene inviato agli Spdc”, cioè i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, ossia i reparti di psichiatria degli ospedali. Creando non pochi problemi: “In questi dipartimenti accede chi è stato colpito da una crisi acuta e, il più delle volte, punta a tornare ad una vita normale”, dice il medico, stimando in 12 giorni il tempo medio di degenza nel reparto di psichiatria dell’ospedale. “Mentre le persone inviate dalla magistratura restano in ospedale per oltre un anno, spesso accompagnate da agenti di polizia penitenziaria. È da anni che cerchiamo di combattere l’equazione fra pazienti psichici e criminali, uno stigma che risale ai tempi dei manicomi, ancora troppo forte fra la popolazione. E quando un giovane ricoverato in psichiatria vede la polizia in reparto è difficile convincerla che dal suo male si può guarire”. Un’altra parte dei pazienti, i più pericolosi, viene inviata dalla magistratura all’interno delle carceri in via più o meno temporanea. In base ai dati della corte costituzionale “risultano collocate in una struttura penitenziaria in attesa di internamento in Rems 61 persone”, dice la sentenza della corte costituzionale del 27 gennaio. In realtà i carcerati con problemi mentali sono di più, come riferisce all’Espresso una fonte che chiede l’anonimato. Molteplici sono i motivi della loro detenzione. “Quando sono stati chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari, non tutte le persone che vi si trovavano rinchiuse sono state trasferite nelle Rems. Fra i pazienti, infatti, c’erano anche persone imputabili nonostante il disagio mentale. In altri termini, il tribunale li ha giudicati colpevoli e ha imposto loro di scontare una pena perché il delitto commesso non aveva nulla a che fare con la loro patologia. Queste persone sono state trasferite in sezioni specialistiche psichiatriche del carcere, da cui si entra e si esce a seconda dell’autorizzazione di un giudice e in base alle diagnosi degli psichiatri penitenziari”, rivela la fonte dell’Espresso. Che aggiunge: “Poi ci sono moltissime persone che vivono nei circuiti ordinari carcerari, nonostante soffrano di un disturbo psichiatrico. Non accedono nell’articolazione sanitaria del carcere per i tempi lunghi della Magistratura e per le lungaggini nell’accertamento della malattia. Ma anche perché le aree di cura specialistica sono al completo”. Succede che nelle carceri di tutta Italia, ma soprattutto a Roma, ci siano persone con infermità mentale sia nei circuiti ordinari, sia nelle aree specialistiche: “Di fatto, chi può permettersi un buon avvocato e ha maggiori risorse culturali ed economiche, con facilità può ottenere un riconoscimento dell’infermità mentale e accedere a una Rems, mentre un detenuto povero (e spesso straniero), con un avvocato d’ufficio, senza perito di parte, è facile che resti nel carcere ordinario”. Sono stati materialmente chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma questo non significa che la questione sia stata risolta. L’assenza di normative chiare al proposito ha convinto il ministero della Salute a riaprire lo scorso dicembre l’Organismo di coordinamento del processo di superamento degli Opg che, tuttavia, non è ancora operativo. Tant’è che non era stato neppure coinvolto nella decisione del governo di aprire, in sordina, una nuova Rems a Calice, in Liguria. È stata la rete StopOpg.org ad accorgersi che nel decreto Energia approvato per affrontare la difficile partita dell’aumento del prezzo del gas provocato dalla guerra in Ucraina, è stato inserito l’articolo 32 per finanziare con 2,6 milioni di euro la creazione di una nuova Rems in Liguria dove non c’è un problema di liste d’attesa, visto che le difficoltà maggiori si riscontrano in Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia. “L’apertura di una nuova Rems non affronta il problema”, dice Stefano Cecconi, segretario della Cgil e membro di StopOpg.org, che continua: “La creazione di una nuova struttura non fa altro che riproporre la modalità delle carceri psichiatriche, tanto più che molti nostalgici del manicomio reclamano un aumento dei posti nelle Rems. Queste dovrebbero essere l’ultima opzione, mentre sembrano essere l’unica soluzione. Si è ricreato il modello degli Opg”. Prima di aprire nuove Rems, la Corte Costituzionale invita la politica a prendere misure urgenti e concrete per affrontare il tema del disagio mentale nel suo complesso, che sta assumendo dimensioni giganti fra la popolazione italiana, specialmente dopo i mesi di lockdown che hanno lasciato danni importanti sulla psiche di persone già fragili. Il tribunale fa notare che alla salute mentale andrebbe destinato il cinque per cento del fondo sanitario nazionale, mentre i soldi stanziati sono molti meno. Nell’ultimo rapporto Salute Mentale del ministero della Salute c’è scritto che nel 2020 al disagio psichico sono andati 3,2 miliardi, cioè il 2,75 per cento del fondo sanitario, l’anno precedente erano il 2,9 per cento, nel 2018 il 3,5 per cento. “All’appello mancano 11mila operatori”, dice Massimo Cozza dell’Asl Roma2, e continua: “Che la soluzione al problema non sia la realizzazione di nuove Rems è confermato dall’esperienza friulana, eccellenza mondiale nel campo della gestione della malattia mentale. In Friuli le Rems sono appartamenti, dove vivono più persone con problematiche psichiatriche, inserite nel tessuto sociale cittadino e sostenute da una progettazione da parte delle equipe dei centri di salute mentale delle Asl. L’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo giocano un ruolo importante nel miglioramento delle condizioni di vita di questi pazienti”, spiega Cozza. L’altra indicazione della Corte Costituzionale è rivolta al ministero della Giustizia e all’urgenza di abolire gli articoli del Codice Rocco, di epoca fascista, sulla non imputabilità dei “folli rei”. “Questo significa portare fino in fondo il principio cardine della Legge Basaglia, secondo cui il malato mentale è un cittadino a tutti gli effetti, con gli stessi diritti e doveri”, spiega lo psichiatra Cozza, che continua: “Quindi, se una persona con disagio psichico commette un reato, viene giudicata, processata e condannata, e parallelamente deve ricevere tutte le cure necessarie, sia all’interno del carcere, ma soprattutto fuori, dove è necessario potenziare e rimettere sui giusti binari quel sistema di cure territoriali che era alla base della Legge 180 e che oggi scricchiola”. La legge Basaglia è una norma eccezionale, nata nel 1978, che ha consentito all’Italia - unica al mondo - di chiudere i manicomi e di affrontare la malattia psichiatrica non con la contenzione e l’uso di farmaci, ma con l’inclusione del paziente nella società, con la terapia psicosociale, con l’inserimento lavorativo e ridando dignità di vita a chi soffre. Ora quella norma è a rischio, per l’assenza di personale e la scarsità di risorse. E molti rischiano di non guarire più. Giustizia, sciopero e arrocco di Mauro Anetrini L’Opinione, 2 maggio 2022 “Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati”. Altro che Cgil… questi sono davvero bravi, anzi, bravissimi: riescono a contrabbandare lo strumento di protesta per eccellenza, presentandolo come una sollecitazione al dialogo nell’interesse della Costituzione. Se non fosse che all’evocazione della legalità repubblicana ho fatto l’abitudine, direi che si tratta della mossa del cavallo. Invece è un arrocco, fatto da chi, forse per la prima volta da 70 anni a questa parte, deve prendere atto di non disporre più del potere di veto e prova la sgradevole sensazione dello scacco imminente. Spero con tutto il cuore che il Parlamento, rispettando gli obblighi che ha verso il Paese, non si faccia impressionare come in passato e dica, almeno una volta, che non esiste alcun monopolio nella lettura della Costituzione, mentre ci sono le attribuzioni, prima fra tutte quella legislativa. Spero, in altre parole, che le cose cambino e che, nel momento del voto, i parlamentari ricordino ciò che è accaduto in questi anni. Ma, soprattutto, spero che se ne ricordi il Popolo sovrano quando, il prossimo 12 giugno, avrà l’occasione di dire come la pensa. Detto ciò, scioperino pure. Anche questo, in fin dei conti, è un diritto costituzionale. Quel vecchio vizio dell’Anm: apparire vittima dei politici per avere consenso di Errico Novi Il Dubbio, 2 maggio 2022 L’Anm dice no al fascicolo di valutazione: eppure nel 2004 la protesta delle toghe ignorò una norma simile. Del precedente tentativo di istituire un monitoraggio sui “flop” (se troppo ricorrenti) dei magistrati, vi abbiamo detto sul Dubbio di martedì scorso. Ci provò Roberto Castelli, il guardasigilli della Lega che dà il nome alla riforma sulla magistratura del 2006. Vi abbiamo raccontato della stroncatura inflitta da Carlo Azeglio Ciampi a quel tentativo: nella lettera alle Camere con cui, il 18 dicembre 2004, il presidente della Repubblica chiese una nuova deliberazione sulla riforma, quell’”Ufficio per il monitoraggio sull’esito dei procedimenti” era il secondo dei punti ritenuti dal Colle manifestamente incostituzionali. Ve ne abbiamo parlato per mostrare quanto rischi di essere sottovalutata la riforma del Csm appena approvata alla Camera: il ddl ripropone appunto un monitoraggio sulla tenuta dei provvedimenti, il “fascicolo di valutazione”. Un atto di coraggio, che in ogni caso indebolisce la tesi di chi liquida il testo Cartabia come inconsistente. Resta, certo, la feroce opposizione dell’Anm, ostile innanzitutto all’istituzione del “fascicolo”. Tutte le correnti e componenti della magistratura (tutte o quasi, tra le eccezioni va annoverato il gip Guido Salvini, che ne ha parlato due giorni fa in un’intervista al Dubbio) ritengono il nuovo strumento “lesivo della libertà del magistrato”, perché lo incoraggerebbe ad appiattirsi sulla giurisprudenza dominante e a muoversi in modo da non essere smentito nelle fasi successive o dai gradi superiori di giudizio, con un effetto di “gerarchizzazione verticale” della magistratura. Quasi esclusivamente di questo si è parlato nell’assemblea generale dell’Anm. Non solo perché il “fascicolo” è lo spauracchio più evocato dalle toghe, tra i presunti disastri della riforma Cartabia, ma anche perché nella riunione plenaria che ha proclamato lo sciopero, erano presenti anche alcuni politici: Giulia Bongiorno (Lega), Catello Vitiello (Italia Viva), Giulia Sarti (Movimento 5 stelle) e ancora di Enrico Costa (Azione) e Anna Rossomando (Pd). Gli ultimi due sono figure chiave: il primo ha proposto l’emendamento sul fascicolo; la seconda, dopo l’iniziale perplessità dei dem in commissione Giustizia a Montecitorio, ha stabilito con i suoi di approvare la modifica, alla luce della riformulazione suggerita da via Arenula e delle rassicurazioni offerte sempre dal ministero. Ora, sulla praticabilità dello screening, che dovrà essere informatico, pure abbiamo già scritto (sul Dubbio del 21 aprile scorso). Giovedì ne ha scritto anche il Corriere della Sera. C’è poco da essere ottimisti: implementare lo strumento telematico sarà un’impresa. Ma non è solo questo il punto. Qui vogliamo segnalarvi un’altra cosa, a proposito del precedente citato all’inizio, la riforma Castelli. Oltre alle obiezioni formali di Ciampi, che costrinse il guardasigilli leghista a seppellire il “monitoraggio dei provvedimenti”, precursore del nuovo “fascicolo”, il ddl aveva suscitato prima di tutto la reazione durissima dell’Anm. Basterà leggere il “comunicato sindacale” con cui il parlamentino delle toghe annunciò lo sciopero il 5 maggio 2004. Critiche pesantissime sulla “separazione delle carriere”, sulla “impostazione eccessivamente gerarchica dell’organizzazione complessiva degli Uffici del pubblico ministero” e persino sulla dialettica tra Castelli e il Csm. Ma non una parola, non una, sull’”Ufficio per il monitoraggio dei provvedimenti”. Leggere per credere: non è difficile reperire il comunicato Anm in rete. Possibile che una norma così incisiva, di lì a poco meritevole dell’attenzione e della censura del Quirinale, non suscitò nell’Anm neppure un breve commento? Nulla di nulla. D’altronde si potrebbe ricordare che un principio analogo è già previsto dall’ordinamento giudiziario. Nella romanzesca disciplina delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Si tratta della circolare 20691 del 2007, che incoraggia (ma non obbliga a farlo) a monitorare il lavoro delle toghe anche rispetto all’eventuale “significativo rapporto tra i provvedimenti adottati e quelli non confermati”. E allora come si spiega il tanto esasperato allarme da parte dell’Anm, che ha criticato questo e altri aspetti della riforma persino con una pagina acquistata a pagamento su alcuni quotidiani? Com’è possibile che un’ipotesi sulla quale nel 2004 non si spese un rigo di comunicato sindacale ora viene rilanciata come l’armageddon che burocratizzerà la giurisdizione? Noi un sospetto ce l’abbiamo: serve a esasperare la “vittimizzazione presuntiva” della magistratura. A rappresentare come carnefici la politica, la ministra Marta Cartabia, il Parlamento, il povero Costa che oggi affronterà la fossa dei leoni dall’assemblea Anm. Ma insinuare intenzioni vendicative nei confronti della magistratura, non è che serve a riproporre un po’ lo schema conflittuale dell’era Berlusconi, e a far uscire, così, le toghe dall’angolo del caso Palamara? Il sospetto di una strategia politica è difficile da allontanare. Tanto più che sarebbe una strategia funzionale e utile anche per le singole correnti, che hanno tutte un chiaro interesse a ritrovare la fiducia dei colleghi in vista del voto per il nuovo Csm. Non che si voglia snobbare le critiche avanzate dalla magistratura. Ma forse è giusto pure tentare di osservarle con uno sguardo più disincantato. O altrimenti si rischia di assecondare una rappresentazione un po’ esasperata della riforma Cartabia, che riproporrebbe in modo paradossale un conflitto sulla giustizia già pagato a prezzo troppo caro dal nostro Paese. La riforma della giustizia della ministra Cartabia? Ce la chiede... la Nato di Saverio Lodato antimafiaduemila.com, 2 maggio 2022 Che i magistrati, in un paese democratico, siano costretti a scendere in sciopero a difesa di valori costituzionali, prerogative di indipendenza dal potere politico tradizionalmente riconosciute, contro una proposta di riforma della giustizia che considerano “inutile e dannosa”, che percepiscono, a torto o ragione poco importa, come punitiva nei loro confronti, è un pessimo segnale. In casi del genere, un premier, in questo caso Mario Draghi, non ci dovrebbe dormire la notte. Intanto perché la decisione dell’astensione dal lavoro è stata decisa a stragrande maggioranza nell’assemblea nazionale dei magistrati, con 1081 voti favorevoli e 169 contrari. Il che vuol dire che non siamo in presenza di sofismi interpretativi, del ribellismo di qualche Masaniello che veste la toga, ma di un rigetto profondo e diffuso che si manifesta in tutte le sedi giudiziarie, da un capo all’altro dell’Italia. Ciò significa che il progetto di riforma fa acqua da tutte le parti. E poi perché il precedente di una simile sollevazione delle toghe, risale agli anni del berlusconismo, quando i magistrati dovettero fare argine alle famigerate “leggi ad personam”, volute da Silvio Berlusconi, a tutela spudorata della sua “persona”. Insomma, i magistrati italiani non hanno lo sciopero facile. Invece il premier sembra non preoccuparsene più di tanto, avendo delegato alla ministra di grazia e giustizia Marta Cartabia, l’indelicato compito di ridimensionare proprio la magistratura, cogliendo a pretesto lo stato in cui la stessa magistratura si era ritrovata prima, durante e dopo il “caso Palamara”. La ministra Cartabia sta facendo del suo meglio. Ci ha messo la faccia. E procede imperterrita in mezzo alle intemperie. La decisione dello sciopero è però il primo sonoro ceffone (figurato s’intende) ricevuto dalla guardasigilli che sin qui aveva fatto spallucce di fronte a qualsiasi critica al suo operato. Ne scrivemmo per settimane. Non fu da parte sua un buon comportamento ignorare le pesanti obiezioni che venivano, ad esempio, sul tema della lotta alla mafia, dall’eccellenza di quei magistrati che per decenni non si sono occupati che di lotta alla mafia. Da Giancarlo Caselli a Piero Grasso. Da Roberto Scarpinato a Nino Di Matteo a Nicola Gratteri. E tanti altri. Bene. La Cartabia ci ha messo la faccia, ma girando la testa dall’altra parte. Non ritendendo mai di essere tenuta a un confronto con magistrati che forse, sull’argomento, non sono proprio gli ultimi arrivati. E magari ne sanno un po’ più di lei. Poi è andata avanti, quando si è trattato di nominare un nuovo capo del Dap, da lei scelto nonostante alcune imbarazzanti dichiarazioni dell’interessato che si dichiarava contrario alla lotta alla mafia intesa come “celebrazione del sangue dei martiri”. Fatto sta che il diretto interessato, che esprimeva tali opinioni, adesso siede alla direzione del Dap. E arriviamo ad oggi. Diciamo, a scanso di equivoci, che la ministra Cartabia non sta proponendo una riforma ad personam. Non vuole favorire singole persone. Ci mancherebbe. Ma la separazione delle carriere, come lei la vorrebbe congegnare; l’esame scolastico della professionalità dei magistrati affidato agli avvocati; il bavaglio ai pubblici ministeri; l’ ignoranza del ruolo debordante dell’ avvocatura in Parlamento e dell’inevitabile conflitto di interessi che ne consegue; a non voler poi tornare, come sta facendo puntigliosamente proprio in questi giorni Roberto Scarpinato, sul tema dell’ergastolo ostativo; tutto dà la misura di una riforma “ad potere politico”. Il quale potere politico, nel primo passaggio alla Camera, gradisce e vota a favore. E poco contano le poche obiezioni di quelle poche forze politiche che periodicamente minacciano mari e monti ma, puntualmente, rispondono “obbedisco”. E lei? La diretta interessata? Invitata per l’ennesima volta a un confronto nella sede dell’Associazione magistrati se ne è guardata bene. Ha spedito un suo sostituto, facente funzione, con la scusa di non volere essere “invadente”. Ma se i magistrati l’avevano invitata, perché lei temeva, se avesse accolto l’invito, di fare la figura dell’imbucata? Vai a sapere. Come finirà? Di certo c’è che la riforma Cartabia è ancora a metà del guado parlamentare. Ma quest’idea di riforma ha già provocato un primo sciopero di risposta da parte della magistratura. Cosa che forse, per il capo dello Stato, Sergio Mattarella, sarebbe stato preferibile evitare. Ma sono solo nostre supposizioni. Ma ricordate all’inizio? La riforma veniva giustificata con lo slogan: “Ce lo chiede l’Europa”. Forse, visto il punto al quale siamo arrivati, la ministra Cartabia lo slogan dovrebbe aggiornarlo così: “La mia riforma ce la chiede la Nato”. Referendum, Salvini ora si sfila e prepara il piano B di Valentina Stella Il Dubbio, 2 maggio 2022 A meno di 50 giorni dai referendum per “la giustizia giusta” persino i social di Salvini tacciono. Le accuse del Radicali. Manca meno di un mese e mezzo all’election day del 12 giugno, quando circa 9 milioni di italiani saranno chiamati alle urne per il voto amministrativo e l’intero corpo elettorale sarà coinvolto nell’appuntamento con i referendum per la ‘ giustizia giusta’, promosso da Lega e Partito radicale. In particolare saranno 980 i Comuni coinvolti (143 superiori a 15mila abitanti, di cui 26 capoluoghi, e 837 sotto i 15mila). Si tratterà di un doppio banco di prova per il Carroccio ma soprattutto per Matteo Salvini: il suo partito è in calo nei sondaggi, sotto di 6 punti rispetto a Pd e Fratelli d’Italia che si contendono il primo posto, ma lo stesso leader deve riprendersi dalla figuraccia in Polonia, mostrare come del tutto reciso il vecchio legame con Putin, riacquisire forza all’interno del suo stesso partito. Ma come si riverbera tutto questo sulla partita referendaria? Due settimane fa sembrava che Salvini avesse gettato la spugna, consapevole che la strada è molto più che in salita: “I primi 5 titoli dei Tg sono sulla guerra - aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera - il sesto sul covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, risparmi e magari flat tax. Ma io spero di arrivare a maggio con il covid archiviato e la guerra ferma”. Il covid c’è ancora anche se in forma un po’ meno aggressiva, ma le nuove regole di comportamento dopo il 30 aprile riempiono la cronaca, e lo scenario bellico si complica ogni giorno di più. Inoltre, come sappiamo, la Corte costituzionale, bocciando i quesiti cosiddetti “portagente” - ossia quelli su eutanasia, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati - ha di fatto frenato molto la spinta popolare verso le urne. Dall’altro lato si ci avvicina ai referendum nella totale assenza di informazione e dibattiti non solo nei tg, ma anche negli spazi di approfondimento. Dunque Salvini si arrende? In apparenza sembrerebbe di sì: basti notare che da Pasqua non ha fatto neanche un post Facebook o lanciato un tweet sui referendum. Diversa sarebbe la situazione sui territori, come ci spiega il senatore leghista della commissione Giustizia Francesco Urraro, componente del Comitato ‘ Io dico sì’: “Per noi la strada maestra per la riforma della giustizia sono i referendum e stiamo organizzando iniziative da nord a sud affinché il tema diventi sempre di più un patrimonio nella disponibilità del Paese”. Il parlamentare è comunque consapevole delle difficoltà: “Noi avevamo chiesto di poter andare alle urne a fine maggio o aggiungere la data di lunedì 13, ma questo non ferma il nostro impegno, anzi”. Lo stesso concetto ribadito dalla responsabile Giustizia del Carroccio, la senatrice Giulia Bongiorno, sempre più volto ufficiale della campagna: “La strada del vero cambiamento passa dai referendum”. Ma siccome è quasi certo che il quorum non si raggiungerà, come deve muoversi la Lega? Il pensiero più comune tra gli analisti è quello secondo cui proverà a dare almeno l’impressione di battersi fino all’ultimo per poi addossare le responsabilità del mancato quorum al Viminale che ha scelto, anche se di concerto coi partiti, la data balneare del 12 giugno. Ma intanto deve far il possibile almeno per salvare la faccia, e convincere innanzitutto Giorgia Meloni a sostenere non solo i referendum sulla riforma del Csm e separazione delle funzioni ma anche quelli su legge Severino e voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Sarà di sicuro impossibile trascinarla su quello relativo alla custodia cautelare, impopolare tra gli stessi leghisti. E in tutto questo, come si colloca il Partito radicale? Chissà che non si stia pentendo dell’alleato leghista, che fin da subito gli ha giocato un brutto scherzo, con il mancato deposito delle firme in Cassazione, che di fatto ha privato il partito di Pannella di un accesso ufficiale a fondi e spazi televisivi. Ma è proprio sulla comunicazione che si gioca la partita storica dei radicali. Come ci dice la tesoriera Irene Testa, “negare ai cittadini italiani il diritto di conoscere che si terranno il 12 giugno dei referendum epocali sulla giustizia, non consentire che su questo nasca un dibattito e trovi accoglienza in sede pubblica, rappresenta nient’altro che il perpetuarsi del regime antidemocratico che dagli albori della Repubblica sovverte subdolamente e intimamente il dettato costituzionale. Con il segretario del Partito radicale, Maurizio Turco, abbiamo fatto appello alle società di sondaggi di inserire nelle loro ricerche un semplice quesito: ‘ Sai che a giugno si voteranno i referendum per la giustizia?’”. Testa non ha torto, se guardiamo i dati pubblicati dall’Agcom e relativi al periodo 7- 23 aprile: solo per fare qualche esempio, Tg1, Tg2, Tg3, Rainews24 hanno dedicato in totale ai quesiti poco più di 8 minuti, mentre al di fuori dei Tg, la televisione pubblica ha concesso alla campagna 7 minuti. I Tg Mediaset salgono di poco attestandosi in totale su 31 minuti, mentre extra-Tg fanno registrare solo 2 minuti e mezzo. Va molto peggio con Cairo, che si ferma sotto i 2 minuti. Ma a dire di Marco Beltrandi, membro della segreteria del Partito radicale, già deputato della Vigilanza Rai, la situazione è ancora più grave: “Siamo dinanzi a una beffa e a un sistematico boicottaggio dei referendum sul sito dell’Agcom: sono state pubblicate tabelle intitolate alla ‘Campagna referendaria’. Spiace constatare che abbiano incluso tra l’informazione della campagna referendaria gli interventi, in voce o meno, in cui si parla di giustizia, Csm, riforma Cartabia, ma neppure si fa cenno alle proposte referendarie. Cioè, tutti interventi in cui mai, dico mai, si è menzionato i referendum, la loro tenuta, il contenuto dei quesiti, ma quelli in cui solo alcuni temi sono paralleli a quelli referendari. Ma che nulla hanno a che vedere, ovviamente, con la campagna referendaria che sta a zero”. Referendum, da Milano una spinta per mobilitare il Foro di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 maggio 2022 L’Ordine degli avvocati di Milano ha dichiarato questa settimana il proprio sostegno ai referendum sulla giustizia. “Mi fa piacere, erano mesi che aspettavo questo momento. Ora spero che questa decisione possa fungere da volano per gli Ordini forensi di tutta Italia”, afferma l’avvocata milanese Simona Giannetti, consigliere generale del Partito radicale. La penalista plaude alla decisione assunta dal Coa del capoluogo lombardo, e dal presidente Vinicio Nardo, che la rilanciata con un appassionato intervento pubblicato ieri su queste pagine. Ed è soddisfatto per la mobilitazione del Foro milanese anche l’avvocato Nino La Lumia, presidente di Movimento Forense. “Insieme a Simona Giannetti abbiamo più volte richiamato l’attenzione degli avvocati sulla necessità di farsi parte attiva di un cambiamento reale, e non di mera facciata, delle norme che regolano l’ordinamento giudiziario. Abbiamo fatto ben tre gazebi per raccogliere le firme davanti al nostro Palazzo di giustizia”, ricorda La Lumia, che pure fa parte del Foro milanese. Il quesito sulla separazione delle funzioni, fanno sapere i due legali, è di certo ben più decisivo rispetto a quello proposto dal legislatore. “Perché i magistrati debbono per forza fare l’esperienza di inquirente e giudicante, come se fosse necessaria l’una per fare bene l’altra?”, si domandano. “Dobbiamo andare a votare”, è l’appello di La Lumia, “è un traguardo di civiltà a cui partecipiamo anche come cittadini in una democrazia, ma occorre pure rendersi parte diligente per spronare i media a parlare di ciò di cui non si parla, cioè di un referendum che si occupa di una normativa intoccabile, viste anche le ultime novità circa l’eventuale sciopero della magistratura associata”. “Quando andiamo a votare un referendum siamo noi stessi legislatori, e chi meglio degli avvocati può esercitare un diritto di voto così nobile sui temi della giustizia giusta, disponendo di strumenti e formazione?”, fanno sapere i due avvocati a chi gli chiede come convincere i colleghi ad andare a votare. “Per una volta abbiamo l’occasione di prendere posizione in una vicenda storica che non potrà non avere conseguenze legislative: sarebbe un peccato mancare all’appuntamento”, concludono quindi i due professionisti milanesi. Festival della giustizia, Cartabia: avvocati centrali per la “Sostenibilità” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 maggio 2022 In corso a Roma il Festival organizzato da Aiga e 4cLegal con il Gruppo 24Ore media partner dell’evento. Tema scelto per questa seconda edizione della kermesse è quello della “Sostenibilità” del sistema Giustizia. “Gli avvocati hanno una grande responsabilità sociale nella costruzione dei diritti delle generazioni future”. Lo ha detto la Ministra Marta Cartabia intervenendo, con un videomessaggio, al Festival della giustizia organizzato da Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) e 4cLegal con il Gruppo 24 Ore media partner dell’evento. Tema scelto per questa seconda edizione della kermesse è quello della “Sostenibilità” del sistema Giustizia. Nel saluto istituzionale, la Guardasigilli ha fatto una rassegna delle azioni intraprese dal ministero per seguire la direzione di una “giustizia che incontra la sostenibilità pensando alle nuove generazioni”. “Circa tre miliardi di euro - ha proseguito - sono stati investiti dal Governo per interventi su questi settori, cruciali per la sostenibilità dell’amministrazione della giustizia, un servizio pilastro della nostra democrazia, da rinsaldare costantemente all’insegna di indipendenza, qualità ed efficienza: questi sono i tre valori fondamentali che i rapporti della Commissione europea sullo stato di diritto continuamente ribadiscono nei confronti di tutti gli ordinamenti dell’Unione”. “È arrivato inoltre il tempo - ha aggiunto - per una seria riflessione sull’accesso alle professioni legali. E i dati del recente rapporto Censis per la Cassa di previdenza forense - che registra le incertezze degli avvocati sulle prospettive future e le maggiori difficoltà soprattutto per le donne - devono interrogarci con sguardo consapevole, proprio nella prospettiva che voi ponete della “sostenibilità”. Cartabia ha poi ricordato l’avvio nei giorni scorsi, presso il Ministero, dei lavori della Commissione che dovrà elaborare le linee generali dei programmi per i corsi di specializzazione per gli avvocati. “In un mondo sempre più complesso - ha aggiunto -, la specializzazione dell’avvocato è un fattore di indubbia importanza. Anche a tale proposito i contributi che l’avvocatura e la vostra Associazione vorrà fornire saranno certamente presi in attenta considerazione”. Per la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi: “La sostenibilità vive strettamente legata al mondo della giustizia. E non potrebbe essere diversamente se si pensa che ai giuristi spetta il compito di riconoscere e garantire i bisogni e far sì che questi bisogni siano riconosciuti come diritto”. Maria Masi ha sottolineato come un ruolo determinante per l’affermazione dei diritti legati alla sostenibilità può e deve essere svolto dagli avvocati. E come un passaggio essenziale per l’affermazione dei principi di sostenibilità sia un meccanismo di accesso più equo alla giustizia oltre che un sistema più rapido di decisione senza rinunciare alle garanzie. Per il Primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio, “La sostenibilità amplia la domanda di giustizia”. In questo contesto, tuttavia, la legislazione “stenta a tenere il passo dell’innovazione e dunque tende ad esprimersi per principi”, lasciando così ampi margini di interpretazione alla giurisdizione. Curzio ha poi ricordato che nei procedimenti tributari pendenti davanti alla Corte di legittimità è “incagliato” più di 1 miliardo di euro. “Anche questo - ha aggiunto - è un tema di sostenibilità per il nostro sistema giudiziario”. Secondo Curzio gli innesti di personale, come l’Ufficio del processo sono importanti e devono essere “assimilati” come “nuove forze” per il servizio giustizia, ma “restano 1.300 scoperture nei ruoli dei magistrati su un organico di 10 mila” toghe, un numero dunque “molto rilevante” ha sottolineato. In questo contesto “l’Università non riesce a fornire il numero di candidati idonei a superare il concorso. Questo è un problema da risolvere, ma certo non abbassando il livello del concorso”. Il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ha richiamato “le scelte adottate in questa parte di legislatura, anche per l’avvocatura, che è diventata veramente centrale come centrale è il diritto di difesa secondo il dettato dalla Carta”. “Qualcuno ha detto - ha proseguito - che la sostenibilità si è trasformata da un principio ‘ambientale ed economico’ in un principio giuridico. Ed è vero. Lo dimostrano anche le scelte adottate in questa parte di legislatura”. “Nella prima parte della legislatura - ha proseguito - siamo stati abituati ad interventi ‘a macchia di leopardo’ e a un diritto penale del consenso che concepiva il legiferare come un ‘eccipiente politico’ momentaneo, slegato da qualsivoglia valutazione di sostenibilità. Oggi, al contrario, questo principio, che richiede di contemperare le esigenze del presente con quelle future, è alla base delle innovazioni legislative su durata dei processi, presunzione di innocenza, crisi di impresa, ordinamento giudiziario. Tutti provvedimenti che non hanno solo un valore economico ma costituiscono un notevole passo avanti verso la piena attuazione dei princìpi della nostra Costituzione”, ha concluso. Sulla semplicità delle norme per una giustizia più sostenibile si è soffermato il Presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini. “Nel nostro sistema - ha detto - esiste un problema di tecnica normativa che affastella norme su norme rendendole alla fine sempre meno intellegibili. La riforma del Codice degli appalti su cui stiamo lavorando su delega al Consiglio di Stato va in questa direzione di “leggibilità” e cioè conoscenza della norma”. Il presidente ha però aggiunto che la chiarezza “deve essere un imperativo anche e soprattutto per le nostre sentenze, che devono essere comprensibili non solo e non tanto agli avvocati, quanto ai cittadini e prima ancora alle parti”. Frattini ha annunciato di aver imposto un obbligo di formazione ai vincitori di concorso per Tar e Consiglio di Stato e di avere in progetto una “formazione comune per magistrati e avvocati amministrativisti”. Il presidente del Cds ha detto poi che la “sinteticità” sarà oggetto di un decreto “non rinnovato dal 2016” e che “riguarderà non solo gli atti delle parti, perché verrà estesa alle nostre sentenze”. Infine Frattini ha offerto un posto nella commissione di riforma del Codice appalti “a un giovane avvocato dell’Aiga esperto di questa materia”. L’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano, ora avvocato in un grosso studio internazionale, ha invitato i giovani avvocati in platea a superare una vecchia concezione del diritto aprendosi a nuove esperienze professionali. “Piuttosto che fare la coda per depositate un atto davanti a un giudice di pace - ha detto -, probabilmente è più stimolante mediare una controversia sul 110% in un condominio”. “Non si può fermare l’innovazione, così come dopo la primavera arriva l’estate, la giustizia può solo scegliere di stare al passo”. Sullo stesso tema è tornato anche l’onorevole Jacopo Morrone, membro della Commissione giustizia della Camera e già sottosegretario. Parlando del peso dell’arretrato, Morrone ha poi raccontato un aneddoto ricordando la rivoluzione introdotta in un tribunale del Nord per mezzo di una semplice circolare che introduceva cartelline di colori diversi per i fascicoli a seconda della loro anzianità, una misura che da solo costringeva ad evadere prima le pratiche più risalenti. Per la professoressa Curtotti, ordinario di Procedura penale all’Università di Foggia, però non si può delegare tutto alla digitalizzazione, non è lì la chiave di volta del sistema ma nell’uomo e nella sua formazione universitaria e professionale. Riforma del processo penale: il Ministero costituisce i gruppi di lavoro di Sara Occhipinti altalex.com, 2 maggio 2022 L’obiettivo è quello di avvalersi di qualificati esperti, anche esterni all’Amministrazione, per accelerare i tempi di elaborazione dei decreti legislativi. Con decreto del 14 aprile scorso, il Ministero della Giustizia ha costituito un nuovo gruppo di lavoro per l’attuazione della legge delega sulla riforma del processo penale. L’obiettivo è quello di avvalersi di qualificati esperti anche esterni all’Amministrazione, per accelerare i tempi di elaborazione dei decreti legislativi. Sono già all’opera i cinque gruppi di lavoro istituiti col decreto del 28 ottobre 2021. I primi tre sono dedicati alla riforma del processo penale e coordinati rispettivamente da Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte Costituzionale, Ernesto Lupo e Giovanni Canzio, presidenti emeriti della Corte di Cassazione; il quarto gruppo è al lavoro sulla riforma del sistema sanzionatorio (coordinato da Gian Luigi Gatta, professore ordinario di diritto penale nell’Università degli Studi di Milano e Consigliere della ministra della Giustizia). Il quinto gruppo si sta occupando di giustizia riparativa, sotto la guida di Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia nell’Università di Milano-Bicocca. A questi si aggiunge il nuovo team costituito con il decreto del 14 aprile, col il compito di occuparsi del processo penale telematico e dell’ufficio per il processo penale. Coordinatore del nuovo gruppo sarà il Prof. Caianiello dell’Università di Bologna. Tra i 24 componenti nominati con l’ultimo decreto ci sono accademici, funzionari, magistrati e avvocati. a Prof.ssa Castano dell’Università di Milano, la prof.ssa Colamussi dell’ateneo barese la prof.ssa Galgani dell’Università di Pisa, la professoressa Quattrocolo dell’Università del Piemonte Orientale. Tra i magistrati, il dott. Andolfatto della Corte Costituzionale, il Dott. Arituro della Procura di Napoli, il dott. Beluzzi del Tribunale di Cremona, il dott. Bisogni della Procura di Catania, il dott. Janelli del Tribunale di Palermo, il dott. Tremolada del Tribunale di Milano, il dott. Corbo della Corte di Cassazione e il dott. Giordano della Procura generale presso la Suprema Corte. Fanno parte del gruppo di esperti anche qualificati funzionari delle Cancellerie e Segreterie, e due avvocati, l’avvocata Becca del foro di Bologna e l’avv. Totani del Foro de l’Aquila. La predisposizione delle bozze degli schemi di decreto legislativo e delle relazioni illustrative è prevista per il 20 giugno 2022. Ferrara. Rissa dentro al carcere: molti feriti, monta la protesta dei sindacati di polizia di Marcello Pulidori La Nuova Ferrara, 2 maggio 2022 Botte tra detenuti italiani ed extracomunitari a colpi di bastone. I sindacati proclamano lo stato di agitazione: “Serve l’intervento del ministro”. Cresce la tensione oltre i cancelli del carcere ferrarese dell’Arginone. Botte da orbi, la scorsa notte, tra due fazioni di detenuti. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, due “bande” (una di detenuti italiani e albanesi, l’altra di extracomunitari) si sono affrontate a colpi di lamette e bastoni. Ancora ignote le cause che avrebbero dato origine alla rissa. In tutto sarebbero stati una trentina i carcerati coinvolti nel deplorevole episodio che soltanto grazie al tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria è stato sedato. Insomma, una escalation di violenza preoccupante, soprattutto perché avviene in un penitenziario da sempre considerato tra i meno problematici e dove negli ultimi anni sono stati trasferiti personaggi molto noti. La rissa furiosa sarebbe nata nel reparto di detenuti giudicabili, cioè quelli che sono in attesa del giudizio di primo grado. Tra i circa 30 detenuti coinvolti nei tumulti vi sarebbero persone di varie etnie. Come si accennava, l’intervento immediato e provvidenziale dei pochi agenti in servizio, - scrivono Sappe, Osapp, Uilpa, Sinappe, Uspp, Fns cisl, Fp cgil, Cnpp, Asppe, che nel frattempo hanno proclamato lo stato di agitazione - “è risultato complesso, ma rapido ed efficace e ha permesso di evitare conseguenze, tanto è vero che nessun operatore avrebbe riportato ferite. Nelle stesse ore - scrivono i sindacati della Polizia Penitenziaria - in un altro reparto un detenuto metteva in scena un tentativo di suicidio, scongiurato dall’intervento del poliziotto in servizio”. I sindacati concludono chiedendo al ministro di Grazia e Giustizia di intervenire con provvedimenti urgenti per la gestione di un “istituto complesso, se non altro per l’alta varietà delle tipologie di detenuti ospitati”. Bologna. Gomito a Gomito: un lavoro per i detenuti e le detenute news48.it, 2 maggio 2022 Gomito a Gomito è il nome del laboratorio di sartoria collocato all’interno della Casa Circondariale Dozza di Bologna e gestito dalla cooperativa Siamo Qua. Il progetto, protagonista della prima puntata di AD Maiora - il format di AD Communications dedicato a storie resilienti e di coraggio, nasce nel 2010 con lo scopo di dare un lavoro dignitoso e retribuito ai detenuti e alle detenute. Il nome “Gomito a Gomito” dice tante cose: il carcere di Bologna si trova in via del Gomito. Chi ci vive e ci lavora fa i conti con lo spazio ristretto e l’affollamento, tipici di una struttura detentiva. Vicinanza, sostegno, prossimità, aiuto caratterizzano anche la relazione tra i volontari della cooperativa e le detenute e i detenuti impiegati nel laboratorio. Lavorare quotidianamente, migliorare la propria professionalità, poter esprimere la propria creatività, è la strada più efficace per aiutare le persone ad attrezzarsi per l’inserimento nella società una volta scontata la pena. Scommettere sul lavoro in carcere vuol dire promuovere la funzione rieducativa della pena, secondo quanto dice la nostra della Costituzione all’articolo 27: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questi sono gli obiettivi principali del progetto: poter impiegare il tempo in modo costruttivo e sperimentare la propria creatività e manualità; riacquistare fiducia in se stessi; condividere entusiasmo e gioia nel lavorare assieme per raggiungere i risultati prefissati. Formazione, lavoro, creatività, opportunità sono le parole chiave del progetto Gomito a Gomito. Venezia. Al via il primo corso di formazione di volontari per istituti penitenziari del Patriarcato veneziatoday.it, 2 maggio 2022 Il Patriarca Francesco Moraglia venerdì è intervenuto al primo appuntamento di formazione per i volontari della Pastorale degli istituti penitenziari del Patriarcato di Venezia. Il corso “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” è promosso dalla Pastorale degli istituti penitenziari, curata dal sacerdote diocesano don Antonio Biancotto. Questo cammino di formazione è una felice “prima volta”, una novità, non solo nel Patriarcato di Venezia. Vi hanno preso parte la direttrice del carcere maschile e femminile di Venezia, Immacolata Mannarella, insieme al comandante delle guardie carcerarie e all’educatore capo area. L’incontro si è svolto al convento dei Carmelitani Scalzi di Venezia, e ha avuto inizio il corso di formazione per i volontari degli istituti penitenziari. Un cammino che proseguirà fino a giugno di quest’anno, articolato in otto incontri, ogni venerdì, dalle 18.30 alle 20. Il primo relatore del corso è stato proprio il Patriarca Francesco che, sviluppando il tema “Motivazioni spirituali del volontariato negli istituti penitenziari”, ha proposto il venerabile Jacques Fesch, giovane laico francese, in causa di beatificazione, nato nel 1930 e morto per esecuzione della condanna capitale il primo ottobre del 1957 in un carcere parigino. Dopo aver subito un’infanzia difficile, con un padre violento e cinico, Jacques si avvicina alla malavita. Il padre giungerà anche a deporre ubriaco al suo processo. Questo testimone dimostra, per il Patriarca, come anche il contesto del penitenziario può esser un luogo di rinnovamento e rinascita. “Jacques, pur essendo imputato di gravi reati, compie un cammino di conversione reale, sviluppando un rapporto esemplare con i compagni di carcere e suscitando ammirazione, diventando un esempio per gli altri. Vi sono delle lettere tenerissime di lui alla moglie scritte dal penitenziario”. Per giungere a queste ripartenze, ha spiegato il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, “chi esercita un servizio in carcere deve guardare in modo benevolo il detenuto e saper far rete con tutti. Il volontario deve accompagnarlo a guardare alla dignità della sua persona e a tutte le componenti della sua umanità, per aiutarlo a compiere un cammino. In questo servizio il volontario deve saper dialogare con le altre competenze e professionalità presenti nell’istituto penitenziario, dalla direzione agli educatori, in modo da favorire la rieducazione, nella consapevolezza che anche chi ha compiuto gravi delitti può riscattarsi. Il carcere può, e deve, essere un luogo di rinnovamento umano e spirituale delle persone”. “La misericordia non fa parte del diritto - continua Moraglia - ma rispettando le caratteristiche del diritto consente di amministrare la giustizia in modo più umano. La giustizia, in quanto strumento umano e applicato da uomini, è fallibile. Lo Stato, per questo, nell’esercitare il suo compito di punire il condannato deve sempre guardare alla rieducazione. La giustizia deve essere adeguata al caso concreto, né buonista né crudele, poiché in entrambi i casi non sarebbe vera giustizia”. Proseguirà fino a giugno di quest’anno, articolato in otto incontri. Il Patriarca Francesco Moraglia è intervenuto al primo appuntamento. “Guardare alla dignità delle persone per aiutarle a compiere un cammino”. Trani (Bat). Riabilitazione psichiatrica in carcere, presentati i progetti traniviva.it, 2 maggio 2022 Nei giorni scorsi, nella biblioteca comunale, c’è stata la presentazione dei progetti di riabilitazione psichiatrica realizzati presso il carcere maschile e il carcere femminile di Trani nel corso del 2020-2021 e la presentazione del progetto “Spazio Cielo” che si svilupperà nel 2022. Inoltre è stato proiettato il corto “Viva!”, realizzato a conclusione di un progetto di riabilitazione psichiatrica della Asl Bt condotto in collaborazione con l’ente EPASSS all’interno del carcere femminile di Trani: all’incontro era presenti due detenute, protagoniste del corto. “Cogito, ergo sum. Chi sono io? Una donna che cammina perché finché si cammina si va avanti. Non sono nessuno ma si può diventare qualcuno con l’impegno. La luce noi dobbiamo catturarla. Il dolore fa parte della vita. Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia. Non so cosa sarà del dopo. La mia ultima spiaggia non l’ho ancora raggiunta. Mi rimane il desiderio di tante bracciate. Il silenzio è la mia forma di sopravvivenza. Non mi pentirò mai delle parole che non ho detto”. Con le parole di Lucia che aprono il corto “Viva” si vuole raccontare il senso di un “lavoro” nelle carceri di Trani che si compone di tante anime: quelle delle istituzioni che credono nel potere della riabilitazione, degli operatori che non smettono mai di farsi domande, dei detenuti che costruiscono giorno dopo giorno il loro personale “dopo”. La Asl, gli Istituti Penitenziari, il Comune, il Dipartimento di Salute Mentale, l’EPASS ci mettono competenza e organizzazione, le detenute ci hanno messo la loro capacità di mettersi in discussione. “Viva” è un omaggio ai loro desideri di bracciate libere. All’incontro è stato infine sottoscritto un protocollo di intesa per la costituzione di un tavolo tecnico.? L’obiettivo del tavolo tecnico è quello sviluppare programmi tesi al recupero e al reinserimento sociale dei pazienti psichiatrici in esecuzione di pena anche? attraverso la creazione di opportunità lavorative.? Roma. “Destinazione non umana” al Teatro Tor Bella Monaca romatoday.it, 2 maggio 2022 Giovedì 5 e venerdì 6 maggio ore 21 al Teatro Tor Bella Monaca Fort Apache Cinema Teatro presenta Destinazione Non Umana, una favola senza morale scritta e diretta da Valentina Esposito, con Fabio Albanese, Alessandro Bernardini, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli, Emma Grossi, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi. Il progetto è stato realizzato con il sostegno di Ministero della cultura, Regione Lazio, Fondi Otto per mille della Chiesa Valdese. Fort Apache Cinema Teatro è un progetto che coinvolge attori ex detenuti o detenuti in misura alternativa (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, affidamento in centri di prevenzione alla tossicodipendenza, detenzione domiciliare), che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo, oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Esperienza unica in Italia, Fort Apache Cinema Teatro è struttura permanente di accoglienza per coloro che escono dal carcere, punto di riferimento nel delicato passaggio dalla reclusione alla libertà (anche in termini di ricaduta e prevenzione della recidiva). Destinazione Non Umana vede in scena sette cavalli da corsa geneticamente difettosi che condividono forzatamente la vecchiaia in attesa della macellazione. Nel gioco scenico e drammaturgico, l’immaginifica vicenda di bestie umane diventa pretesto per una riflessione profonda sul tema tragico della predestinazione, della malattia, della morte, della precarietà e brevità dell’esistenza, della responsabilità individuale rispetto alle scelte maturate nel corso della vita. Destinazione non umana è una favola senza morale, amara e disumana quanto può esserlo una fiaba, costruita sulle solitudini alle quali ci costringe il tempo che viviamo e sul pensiero della morte, sul vuoto lasciato da chi se n’è andato, sul dolore, la rabbia, la paura. Sullo sforzo bestiale di vivere contro e nonostante la certezza della morte. In collaborazione con Ministero della giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Sapienza Università di Roma, Atcl - Spazio Rossellini Polo Culturale Multidisciplinare della Regione Lazio, Artisti 7607, CAE Città dell’Altra Economia di Roma. La ferita della pena si può sanare solo ripensando il carcere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 maggio 2022 Il volume curato da Cristina Gobbi e Marta Mengozzi offre un contributo sulla rimeditazione del trattamento penitenziario. La vita negli istituti penitenziari e dietro le sbarre viene spesso dimenticata. Una realtà che tante volte il mondo esterno con la sua frenesia, le sue distrazioni e le sue normalità - alcune presunte - tende ad ignorare (volutamente); tende a tenere lontano per lavarsi la coscienza, mettendo del tutto su un secondo piano il principio di umanità della pena. Quest’ultimo non è un concetto astratto e buonista, ma trova piena cittadinanza nell’articolo 3 della Cedu e ha un obiettivo preciso: garantire il rispetto e la tutela della integrità fisica del condannato. Il libro intitolato “La ferita della pena e la sua cura. Spunti e testimonianze per una rimeditazione del trattamento penitenziario” (Ed. Paolo Loffredo), curato da Cristina Gobbi (già ricercatrice in Diritto penale nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) e Marta Mengozzi (ricercatrice confermata in Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) accende i riflettori sul mondo carcerario e offre un contributo sulla rimeditazione del trattamento penitenziario. È un argomento su cui si discute spesso, a più livelli, con il coinvolgimento di istituzioni diverse, ma solo nei momenti di drammatica eccezionalità viene posta la giusta attenzione dell’opinione pubblica. Oltre a Cristina Gobbi e Marta Mengozzi, il volume contiene i contributi di Filippo Rigano, Irene Baccarini, Cosimo Rega, Cristina Pace, Giovanni Colonia, Laura Capraro, Fabio Falbo, Francesca Fernanda Aversa, Juan Dario Bonetti, Anna D’Acuti, Fabio Falbo, Luisa Di Bagno, Giuseppe Gambacorta, Giuseppe Perrone. Lo studio rientra nel progetto di ricerca e formazione finanziato dalla “Fondazione Terzo Pilastro Internazionale” e condotto nell’Università di Roma “Tor Vergata”, sotto la responsabilità della professoressa Marina Formica, “con l’obiettivo di ampliare il livello di consapevolezza e di conoscenza nella gestione delle complessità che si manifestano nella fase del trattamento penitenziario, utilizzando un approccio interdisciplinare”. “Nella vicinanza concreta con il carcere evidenziano le curatrici Gobbi e Mengozzi abbiamo toccato con mano che la pena è sofferenza. Da qui, in mancanza di un radicale ripensamento dell’istituzione carceraria, che sembra impraticabile nella prospettiva di breve periodo, l’esigenza di interrogarci sui possibili modi di curare la ferita prodotta dalla pena, quantomeno per alleviare il dolore, renderlo sopportabile o farne un’occasione di rinascita, riflettendo su un diverso o più ampio uso degli strumenti di cui già oggi disponiamo. Gli elementi potenzialmente idonei a questo scopo sono moltissimi, tanti quanti le direzioni cui può rivolgersi la creatività e la curiosità della mente umana, perché da ogni interesse e da ogni attività possono scaturire spinte di rinnovamento e sarebbe impossibile farne una rassegna esaustiva” Cristina Gobbi si sofferma sulla connessione tra il fatto e la pena, ponendo l’attenzione sulla giusta commisurazione della seconda. “Il fatto di reato - afferma - rimane il punto di partenza della pena ed allo stesso modo la pena trova il suo limite nella descrizione del fatto, nell’ampiezza dell’offesa al bene giuridico tutelato e nella colpevolezza soggettiva, dato che la pena “giusta” non può non essere commisurata alla colpevolezza, nella ricerca di una proporzione, che, necessariamente, deve caratterizzare la dimensione della pena, anche per temperarne il connaturale carattere retributivo. Ne consegue che le teorie sulla pena sono intimamente connesse alle teorie sul reato e si fondano sugli stessi principi, primo fra tutti il principio di legalità, che si estende, per espressa previsione costituzionale, alle conseguenze giuridiche necessarie del reato (così come alle misure di sicurezza). Dunque, l’intervento afflittivo, che si svolge nelle forme dell’esecuzione penale, necessita della previsione di un reato ad opera di una legge e di una pena che segua negli stessi termini”. Gobbi pone l’accento sull’esigenza di considerare il diritto penale che privilegia la garanzia rispetto alla repressione. La premessa è l’inviolabilità della libertà personale, “intesa, in negativo, contro le interferenze abusive e, in senso positivo, come facoltà di fare ciò che non è espressamente oggetto di divieto”. In tale contesto si inserisce il diritto penale garantista, dove il potere di punire fa un passo indietro rispetto alle “istanze tipiche della democrazia”. “Il garantismo - sostiene Gobbi - vuole una volontà debole di punire perché la pena, per come ancora oggi è declinata, è sofferenza. In un sistema di tal fatta, non si devono infliggere sofferenze oltre la necessità e il diritto penale deve rappresentare l’ultima tra le alternative possibili, deve cioè imporsi come necessità, come extrema ratio”. Come è possibile mantenere il contatto con il mondo esterno dall’interno del carcere? A questa e ad altre domande risponde Marta Mengozzi, affrontando la questione dell’istruzione di chi è privato della libertà. Questo tema, scrive, “si trova all’intersezione tra molteplici diposizioni della Carta, incrociandosi qui, da un lato, tutte le previsioni connesse allo stato di detenzione, tra le quali emergono la finalizzazione rieducativa delle pene e il divieto che queste siano contrarie al senso di umanità (articolo 27, comma 3, della Costituzione) e, dall’altro, le norme che attengono in termini più generali al ruolo e alla disciplina costituzionale del sistema di istruzione”. Ritornare a studiare in carcere rappresenta uno dei primi affacci al mondo esterno con la speranza di viverlo in maniera diversa e con un nuovo protagonismo. “Mio figlio”, un docu-film per ricordare che si è padri anche in carcere di Emiliano Moccia vita.it, 2 maggio 2022 L’associazione Lavori in Corso di Lucera, che si prende cura delle famiglie dei detenuti ed opera per rafforzare il legame tra bambini e genitori, ha realizzato il video “Mio figlio” per ribadire il messaggio che un padre resta tale anche in carcere. Un giovane detenuto ha soli due minuti di tempo per parlare al telefono e rispondere alla chiamata che ha ricevuto. La guardia che lo scorta fino all’apparecchio telefonico che si trova nel penitenziario, è stata molto chiara. L’uomo afferra la cornetta del telefono e con lo sguardo un po’ preoccupato dice: “Ho pensato a quella cosa che mi avevi chiesto”. Silenzio. “Hai il mio permesso”. E a queste parole un grido di felicità sbuca fuori dai fori dell’apparecchio. È la squillante voce del figlio, che incassata la risposta affermativa dal padre corre ad abbracciare la madre che lo aspetta sulla spiaggia. “Papà mi ha detto che posso dormire da Marco” e via, a correre felice verso l’amico e verso il mare che ha di fronte. Intanto il padre, il detenuto, l’uomo che aveva appena parlato con il figlio, sempre scorato dalla guardia carceraria si avvia lentamente verso la sua cella. Abbozza un sorriso, un sorriso che diventa sempre più grande, più espressivo. Che lo completa come padre e come uomo. Perché un padre resta tale anche in carcere. È questo, infatti, il senso di “Mio figlio”, il video promozionale realizzato dall’associazione Lavori in Corso di Lucera che dal 2006 si prende cura delle famiglie dei detenuti e contribuisce a rafforzare il legame tra i bambini e i genitori che sono dietro le sbarre. Un’associazione nata su iniziativa degli avvocati Antonietta Clemente e Umberto Di Gioia “credendo fermamente nel cambiamento, nelle opportunità, nelle seconde possibilità”. Nelle carceri italiane sono al momento reclusi oltre 50mila uomini. Molti dei quali sono genitori, con figli che sentono poco o niente, con bambini che non sempre hanno la possibilità di andare a trovare il proprio papà nel penitenziario in cui è recluso. “Tutti i figli hanno il diritto di conservare un rapporto con i propri genitori, anche se reclusi, e un padre resta tale anche in carcere” spiegano gli avvocati Clemente e Di Gioia. “La nostra associazione progetta “vite libere” insieme a chi vive l’esperienza del carcere e desidera un futuro diverso per sé e per la propria famiglia. Migliorare e chiarire i rapporti di coppia, i legami genitoriali e familiari, favorisce il reinserimento sociale a fine pena”. Secondo alcuni studi, infatti, un recluso che ha conservato i legami familiari rischia, in percentuale, tre volte meno la recidiva rispetto a un detenuto i cui legami familiari sono stati spezzati. Per questo motivo la famiglia è al centro delle attività messe in campo da Lavori in Corso, che nella realizzazione dei suoi progetti ha coinvolto ben 1.600 detenuti degli istituti penitenziari di Foggia e Lucera. In questi anni, dunque, il sodalizio “ha progettato e costruito luoghi fisici e relazionali all’interno del carcere, in cui i bambini si preparano all’incontro con il genitore e possono comprendere meglio le emozioni dell’incontro avvenuto, accompagnati da personale competente e formato”. Non a caso, il logo scelto da Lavori in Corso e realizzato da Antonella Tolve prende spunto dalla conta dei giorni che i detenuti fanno in carcere per “segnare” il tempo che passa, e raffigura le sbarre tagliate da un fascio di luce: uno spazio in cui tutto può succedere. Oltre a lanciare il video “Mio figlio”, l’associazione ha messo online anche il nuovo sito che “rappresenta uno strumento utile non solo per sensibilizzare la cittadinanza e diffondere i risultati delle attività messe in campo, ma” concludono Clemente e Di Gioia “anche per permettere ai parenti dei detenuti di contattare direttamente l’associazione, di fruire di strumenti pratici per gestire le problematiche che vivono quotidianamente e di avere un supporto psicologico, educativo e legale sulle tematiche legate alla genitorialità in carcere. I nostri “cantieri di cambiaMenti” hanno l’obiettivo di offrire un modello di presa in carico totale della persona rea, coinvolgendola in un percorso di reinserimento sociale, affettivo e genitoriale”. Di qui, l’idea dell’associazione lucerina di realizzare il video scritto e diretto da Antonio Petruccelli, prodotto da Effetto Kulešov e con protagonista Adriano Santoro. Lavoro e rappresentanza: i tormenti del mondo aperto di Dario Di Vico Corriere della Sera, 2 maggio 2022 Sarebbe necessario rimettere in piedi una cultura politica della mediazione sociale e non delegare al populismo la rappresentanza dei diseguali. Forse è arrivato il momento, almeno a livello di dibattito pubblico, di fare un passo in avanti. Continuare a sostenere, come molti di noi fanno, che Trump ha perso ma i suoi elettori hanno vinto e, ancora, che Macron ha vinto ma chi ha votato Le Pen aveva ragione, ha poco costrutto e in qualche caso nasconde una discreta dose di ipocrisia. Detto questo però le società aperte sono chiamate a rispondere agli interrogativi sottesi a quei giudizi. Se i nostri sistemi di democrazia e trasparenza continuano ad avere paura dei loro elettori, se i partiti responsabili temono il giudizio irreversibile dei cittadini meno protetti, se ogni tornata elettorale nei Paesi dell’Ovest finisce per essere un’alternativa tra continuità e baratro, c’è qualcosa da mettere a punto. Un alfabeto da riformulare, alcune priorità da ridefinire. Quei timori di instabilità o peggio quelle Vandee sempre alle porte finiscono per colpire la stessa ragione sociale delle nostre democrazie ovvero il loro grado di apertura, di scalabilità. Ma come può prosperare una democrazia senza demos? Per uscire da questo cul de sac nel quale le società aperte rischiano l’asfissia serve forse ribaltare la prospettiva, smetterla di temere il rancore e il disagio ed elaborare una nuova visione dello spazio sociale valida almeno per questi complicatissimi anni Venti. Non si tratta di sventolare parole d’ordine che sanno inevitabilmente di ossimoro (il riformismo radicale) né tantomeno di buttarsi opportunisticamente a sinistra come ironizzava Totò. Si tratta invece di rimettere in piedi una cultura politica della mediazione sociale e non delegare al populismo la rappresentanza dei diseguali. Il tutto ovviamente deve essere però rapportato ai cambiamenti strutturali del nostro tempo e in una chiave che veda prevalere la ricerca di soluzioni piuttosto che la giaculatoria dei problemi. Già se, approfittando della festa del Primo Maggio, prendessimo in esame le trasformazioni del lavoro causate dalla sosta forzata della pandemia e dalla straordinaria alfabetizzazione tecnologica che ha investito gli italiani, la ricerca di un nuovo spazio sociale sarebbe meno peregrina. Incontreremmo figure nuove che non c’erano nelle fotografie di solo qualche anno fa: lo smart worker, il lavoratore che vuole scegliersi il posto di lavoro (Pietro Ichino docet), il fattorino Amazon e via di questo passo. E incontreremmo anche temi che non conoscevamo come la depressione causa di inabilità lavorativa. Per dialogare con questa nuova soggettività va al più presto aggiornata la riflessione sulla localizzazione del lavoro, sulla sua durata effettiva, sulla flessibilità che non appare più una parola malata, sulle tutele di nuovo conio. Con tutto il rispetto che si può portare al sindacato (senza il suo concorso non si firmano i patti sociali di cui le società occidentali hanno bisogno) dobbiamo sapere che non ha più il monopolio della rappresentanza degli esclusi come nel secolo scorso, vuoi perché il paesaggio sociale è diventato infinitamente più complesso rispetto alla sola cittadella del lavoro tutelato vuoi perché l’offensiva del populismo ha inferto molti colpi alla cultura della mediazione sociale. Per cui ben venga un sindacalismo che recuperi la forza morale del passato (in proposito su YouTube c’è uno straordinario video in cui il sociologo Bruno Manghi racconta l’antropologia dei dirigenti Cisl dei tempi di Carniti) ma deve essere cosciente di impersonare uno dei soggetti del nuovo spazio sociale, non l’unico. Un ruolo, infatti, andrà anche riconosciuto alla rappresentanza del lavoro autonomo, eterno figlio di un dio minore. Tutte le ricerche avevano preconizzato che nella società post-industriale l’occupazione degli indipendenti sarebbe aumentata a volontà per effetto dei processi di esternalizzazione varati dalle grandi organizzazioni. In Italia, purtroppo, non è avvenuto niente di ciò sia dal punto di vista quantitativo sia sul versante della qualità. Abbiamo un impresentabile terziario low cost che ci fa apparire dei nani della società dei servizi a confronto dei partner europei. Ed è proprio questo settore a fare la differenza in negativo in termini di export, valore aggiunto, produttività al cospetto di un manifatturiero invece pienamente inserito nel triangolo renano con Francia e Germania. Nel riconoscere piena dignità al lavoro autonomo c’è anche la chiave per incidere sul conflitto città-campagna, che vede gli elettori urbani premiare le forze della responsabilità e dell’innovazione e il ceto medio dei piccoli centri affidarsi al populismo o alla destra anti-sistema. Un altro soggetto decisivo nella riorganizzazione dello spazio sociale è sicuramente il Terzo settore. Come ben sappiamo negli anni della pandemia ha svolto ruoli di supplenza delle istituzioni colte di sorpresa dalla diffusione del virus, ha saputo realizzare una convergenza di sforzi per cui a Milano hanno lavorato fianco a fianco iniziative private come Pane Quotidiano, le Caritas ed Emergency. Nella gestione della tragedia dei profughi ucraini ancora una volta il Terzo settore sta dando ampia prova di sé grazie alla professionalità del suo capitale umano ma anche grazie al fatto che, a differenza di altre organizzazioni, le Ong non sono a digiuno di politica internazionale, anzi operano già in un contesto globale. Se in estrema sintesi queste sono le condizioni di partenza e i soggetti per ricostruire lo spazio sociale l’ultima considerazione riguarda il legame tra la condizione psicologica del Paese e gli scenari di guerra calda e fredda che appaiono all’orizzonte. Il più clamoroso degli autogol delle società liberaldemocratiche sarebbe quello di contrapporre solidarietà atlantica e solidarietà sociale e per evitare questo secondo cul de sac la strada è quella di allargare la cittadinanza, di evitare che le inquietudini dei penultimi aiutino l’azione di quanti consapevolmente vogliono portare il nostro Paese fuori dal campo occidentale. Le società aperte non sono territori del solo merito ma anche del bisogno. Si dice che la polarizzazione verso le ali estreme è tipica delle post-democrazie del nostro tempo e che la sua forza corrosiva sia tanto maggiore quanto più sono deboli gli “aggregatori centripeti”, le forze della responsabilità. Ma non è affatto detto che l’allargamento del perimetro dei consensi di cui ha bisogno la democrazia italiana debba passare solo dalla ricostruzione del mitico Centro o dalla revisione della legge elettorale, può accompagnarsi utilmente a un rinnovato ciclo di protagonismo sociale. Milioni di disoccupati in balìa del caporalato e degli altri ricatti di Cecilia Ferrara e Rachele Gonnelli Il Domani, 2 maggio 2022 Un mercato del lavoro senza regole sta corrodendo il tessuto sociale. La nuova tendenza negli Stati Uniti è dimettersi, sbattere la porta. Se n’è accorto all’inizio della pandemia un professore dell’università del Texas, Anthony Koltz, e ha iniziato a studiare il fenomeno. Da allora si contano 50 milioni di americani che hanno deciso di lasciare il lavoro volontariamente. Hanno fatto questa scelta per curare figli o parenti malati o perché stanchi dell’impiego che avevano. Koltz l’ha denominata Great Resignation (dimissioni di massa) e gli scienziati sociali su entrambe le sponde dell’Atlantico si si interrogano su origini e conseguenze di questa generale insoddisfazione lavorativa. Ma rimane il fatto che poche di queste persone che hanno dato le dimissioni sono rimaste a casa con le mani in mano. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è stato a marzo il 3,6 per cento, il più basso degli ultimi cinquant’anni, pienamente nei limiti della piena occupazione. Il caso italiano è opposto. Abbiamo due record negativi, il più alto tasso di inattività dell’Europa sviluppata (31,2 per cento, un terzo della popolazione in età di lavoro, tra i 20 e i 64 anni) e una delle percentuali più alte di disoccupazione, il 9,2 per cento. E bisogna ricordare che la statistica include i disoccupati tra gli attivi, in quanto figurano alla ricerca di un impiego. In Italia il lavoro non si lascia come negli Stati Uniti, più facilmente si perde. E quello che si ritrova è pagato sempre meno, più precario, intermittente. I disoccupati sono l’esercito industriale “di riserva” che serve a comprimere le condizioni di lavoro di tutti, si direbbe in base ai vecchi testi classici. L’inchiesta Fino a che punto tutto ciò è sostenibile? Quanto e come l’inselvatichimento del mercato del lavoro sta corrodendo il tessuto sociale? Con l’inchiesta “Geografia dello sfruttamento dei lavoratori”, che chiediamo ai lettori di sostenere, puntiamo a scoprire giorno per giorno, là dove si nasconde lo sfruttamento marginale, le persone e le storie intrappolate nelle pieghe di questa involuzione dell’economia. L’obiettivo è di ricostruire come la mappa delle ingiustizie si stia modificando, anche geograficamente, da nord a sud, e come le scarse tutele si stiano diffondendo per osmosi anche a settori un tempo considerati “garantiti”. Anche nei servizi essenziali, quelli di cui la società non poteva fare a meno durante il lockdown e che quindi ci si aspetta di trovare più preziosi, più tutelati e meglio retribuiti. Le diseguaglianze si sono ampliate durante l’emergenza Covid anche dal punto di vista occupazionale. Stanno venendo a galla, come nel caso dei 4 milioni di lavoratori autonomi - o finti autonomi - la metà dei quali ha avuto bisogno dei bonus statali per sopravvivere durante la pandemia. Segnalano l’emergenza sociale i casi emblematici scoperti dalle inchieste del nucleo dei carabinieri per la tutela del lavoro: emerge uno sfruttamento che rasenta lo schiavismo, soprattutto nell’agricoltura e nella logistica, ma non solo. E suonano l’allarme le associazioni di giuristi e avvocati impegnati nelle cause di lavoro. Il lavoratore è a disposizione con sempre meno possibilità di rivendicare i propri diritti. L’associazione di avvocati del lavoro “Comma2” ha chiesto i dati al ministero della Giustizia: dal 2014 al 2020 il contenzioso presso i giudici del lavoro è calato di oltre il 32 per cento, sia nel pubblico che nel privato. “Sempre meno persone si rivolgono al giudice del lavoro, anche perché sempre più spesso i giudici condannano il lavoratore a pagare le spese legali, anche quelle dell’azienda. Senza contare il contributo unificato, una tassa, per chi ha redditi familiari sopra i 35 mila euro, quindi solo chi è molto povero è esentato”, spiega Alberto Piccinini, presidente di Comma2. “Quando è nato il nuovo processo del lavoro negli anni ‘70 l’idea era di ristabilire un equilibrio nel rapporto di potere, naturalmente impari, tra azienda e lavoratore. I giudici inizialmente avevano bene in mente questo principio quando sceglievano il tribunale del lavoro, adesso è diventata una sezione come un’altra”. I dati di Comma2 sono confermati dalle esperienze di un’altra associazione giuslavorista: “Si comincia ad avere timore del contenzioso e se ne fa un uso molto limitato - spiega Aurora Notarianni dell’Agi, Associazione Giuslavoristi Italiani - non ci sono più cause sulle questioni retributive, sulle mansioni, sulla sorveglianza”. Fa paura la lentezza della giustizia ma anche il rischio di dover pagare le spese legali dell’azienda: “Il lavoratore pubblico demansionato si fa due calcoli, si rende conto che deve spendere 10 mila euro e rinuncia. Si tiene il demansionamento”. C’è un enorme problema salariale che discende dall’alta disoccupazione e si riflette in un gap di competitività del sistema, una competizione giocata sul taglio del costo del lavoro e sullo sfruttamento intensivo delle persone piuttosto che sugli investimenti e sull’innovazione tecnologica. Anche Carlos Tavares, amministratore delegato del gruppo Stellantis (Fca-Psa), nell’intervista al Corriere della Sera del 19 gennaio scorso ha riconosciuto che il costo del lavoro in Italia è più basso ma non impedisce alle sue fabbriche italiane di avere costi di produzione più alti rispetto a quelle in altri paesi europei. La corsa al ribasso delle retribuzioni finisce per funzionare da disincentivo per l’innovazione e per generare inefficienza. I salari italiani, segnala il centro studi Inapp-ministero del Lavoro, dopo quasi un quindicennio di sostanziale stagnazione, restano in Italia molto più bassi che nel resto dei paesi avanzati. L’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari, dal 1990 a oggi, sono diminuiti. Alla vigilia della pandemia, secondo i dati Inps elaborati dalla fondazione Di Vittorio, il salario lordo medio annuo dei 15 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato era inferiore ai 22 mila euro, inferiore grosso modo di un quarto a quello di tedeschi e francesi. Dopo due anni di pandemia, e ora con la guerra in Ucraina, la situazione non sembra affatto migliorata. Nel 2019 l’Italia era l’unico paese tra le sei maggiori economie europee a non aver ancora recuperato il livello salariale che aveva prima della crisi finanziaria del 2008. A fronte di 19,636 milioni di lavoratori dipendenti con contratti diversi, sia a tempo determinato che indeterminato, cala il totale del monte ore lavorato. Ma l’Istat considera occupato chi lavora anche un’ora in una settimana, e stima che i dipendenti lavorano mediamente 28 ore alla settimana, quindi si dividono le ore di lavoro (e il salario) di 13,7 milioni che lavorassero normalmente otto ore al giorno. La ripresa dell’occupazione dopo la pandemia c’è stata soprattutto grazie ai contratti a tempo determinato: nei primi 10 mesi del 2021 su 603 mila nuovi posti di lavoro 458.810 sono a tempo determinato, il 76 per cento. Si tratta di contratti sempre più corti. Sono 5,2 milioni (più di un quarto) i lavoratori dipendenti discontinui con un reddito medio annuo intorno ai 10 mila euro lordi. Secondo l’Istat sono per il 58,6 per cento contratti fino a 6 mesi, di cui il 39,5 per cento per meno di 30 giorni e il 13,3 per cento di un solo giorno. Solo lo 0,9 per cento dei contratti a tempo determinato ha durata superiore ad un anno. Mentre si stanno diffondendo, come segnala anche un recente studio Inapp-Luiss, contratti anche ripetuti ma di appena due o tre giorni alla volta: lavoro puntiforme. Sappiamo dunque che l’Italia, al contrario degli Stati Uniti, soffre di una grande piaga che si chiama disoccupazione e che la statistica tende a edulcorare. Per l’Istat è disoccupato chi non ha lavoro ma lo sta cercando attivamente ed è disponibile da subito. La disoccupazione ufficiale è rimasta nel 2020 al tasso del 9,2 per cento. Nel 2021 non abbiamo recuperato i livelli di occupazione pre Covid, eppure è un dato che non dice tutta la verità. La fondazione Di Vittorio ad esempio propone di considerare un indice di disoccupazione sostanziale che include alcune categorie di inattivi assimilabili ai disoccupati - persone che sarebbero disponibili ad accettare un lavoro ma non lo cercano: spesso perché scoraggiati o bloccati dal dover prendersi cura di familiari anziani o parenti disabili, oppure ancora in attesta di una risposta. Molte sono donne e giovani sotto i 35 anni. Seguendo la tassonomia della fondazione Di Vittorio la disoccupazione sostanziale raggiunge per il 2020 il 14,5 per cento, cinque punti più alta di quella ufficiale e molto più lontana dai paesi europei più sviluppati come Francia e Germania. Nel puzzle che si va formando la tessera successiva è quella della categoria dei lavoratori fragili. Quelli con contratti atipici, non standard, non a tempo indeterminato, che soffrono di grandi intermittenze lavorative: occupati sì, ma che per larga parte del tempo in verità sono disoccupati. Sono ad esempio le donne costrette ad accettare contratti part time involontari. O anche gli esodati e i trentenni diplomati o laureati con figli a carico costretti mansioni di bassa qualifica a meno di nove euro l’ora. La disoccupazione è ciò che ricatta il lavoratore, gli fa accettare ad esempio un contratto pirata che non rispetta i minimi e le tutele dei contratti nazionali siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Ci sono attualmente oltre 600 contratti diversi che vengono imposti ai lavoratori per fare dumping contrattuale, mentre oltre 6 milioni di lavoratori dipendenti aspettano un normale rinnovo contrattuale e magari un ristoro dal riaccendersi dell’inflazione a tassi quasi americani. In questi due anni di sofferenza pandemica non sono stati eliminati i paradossi italiani del mondo del lavoro: siamo ancora la nazione europea dove si lavora di più e si viene pagati di meno. In base alle rilevazioni Eurostat abbiamo la quota più alta di ore lavorate in un anno e l’incidenza più bassa del loro valore monetario sul Pil. Se i lavoratori hanno a disposizione una quota così bassa di ricchezza prodotta così bassa tutto il sistema economico rischia di farne le spese. I bassi salari significano basse contribuzioni previdenziali e mettono a rischio il sistema pensionistico, delineando un futuro nel quale insieme all’autunno demografico avremo una povertà generalizzata e un impoverimento del welfare per restringimento della base contributiva. Non una bella prospettiva neanche per mettere in cantiere un qualsiasi progetto. Primo Maggio, scontri a Torino: corteo spezzato per la guerra, due comizi di Irene Famà, Maurizio Tropeano, Raphael Zanotti La Stampa, 2 maggio 2022 Le istituzioni in piazza Castello, lo spezzone sociale in via Roma. Il partigiano Gastone Cottino: “A quasi cento anni ancora mi ribello, siamo per la pace e non per la guerra”. Che ci sarebbero state tensioni al corteo del Primo Maggio a Torino era cosa prevedibile. Il tema divisivo della guerra in Ucraina attraversa le anime della sinistra torinese da settimane con polemiche che hanno coinvolto anche l’Anpi, ma in tanti anni di manifestazioni non era mai successo che il corteo si spezzasse. E invece oggi è successo. Dopo gli scontri tra la polizia e lo spezzone sociale, il fondo del corteo che da sempre raccoglie l’anima più contestataria dei partecipanti insieme ai centri sociali, in via Roma è stato allestito un contro comizio. In contrapposizione anche fisica rispetto al comizio ufficiale in piazza San Carlo, area dove da anni lo spezzone sociale non viene fatto entrare per paura di contestazioni e motivo, da sempre, di violenti scontri con la polizia. È circa mezzogiorno quando Angelo D’Orsi, accademico ed ex candidato a sindaco di Torino per la sinistra sinistra, sale su un palco improvvisato da Rifondazione e inizia il contro comizio. Invoca lo sciopero generale contro la guerra. Subito dopo sale un’altra figura di peso che contesta il veto posto allo spezzone sociale di entrare in piazza San Carlo: è Gastone Cottino, 97 anni, partigiano e docente di diritto commerciale. “Dobbiamo tenere duro - arringa la folla - Qui vogliono mettere in discussione principi costituzionali. Il Primo Maggio è di tutti, di tutti i compagni e di tutti i lavoratori. Io ho quasi cent’anni ma vi posso dire che nella mia lunga vita un episodio così vergognoso come quello di oggi raramente l’ho visto. E per questo mi ribello con tutte le mie forze. Ne ho ormai poche ma vi dico che la mia generazione si è battuta per la libertà. Anche voi, tenete duro: libertà. Noi siamo contro la guerra e per la pace”. Nel frattempo, sotto i portici di via Roma, la polizia viene allontanata dai manifestanti. Ed è così, con un doppio palco e un doppio comizio, che le anime della sinistra torinese anche plasticamente sono arrivate a questo Primo Maggio. Non sono mancati gli scontri, come ogni anno. Avvengono alle 11,30 quando in via Roma all’altezza di via Cesare Battisti scoppiano tensioni tra lo spezzone sociale e le forze dell’ordine. I manifestanti cercano, utilizzando i bastoni di bandiere e striscioni, di sfondare il cordone della polizia per raggiungere il palco istituzionale. Le forze dell’ordine rispondono con delle cariche. “Via via la polizia”, “Vergogna”, urlano dal corteo. La contestazione era stata annunciata sui social già nei giorni scorsi dal centro sociale Askatasuna e dal Fronte della gioventù comunista. “La guerra è sempre un crimine. Chi sta parlando in questo momento in piazza San Carlo è complice. Lasciateci passare”. Poco prima erano già scoppiate scaramucce con la polizia, ma questa volta non con lo spezzone sociale. Verso le 10,50 i rider avevano contestato al passaggio del sindaco. Ma per la polizia contestatori e “bersaglio” erano troppo vicini, così si sono frapposti. All’interno del corteo si sono scontrate anche due anime tra chi voleva far entrare i rider nel corteo e chi invece li voleva fuori per evitare tensioni. Il corteo, partito alle 9,45 da piazza Vittorio Veneto, come da tradizione, aveva subito avuto un intoppo. Dieci minuti dopo che la colonna umana si era avviata verso piazza San Carlo si era già tutti fermi. In via Roma qualcuno si era dimenticato di togliere le enormi fioriere ai lati della strada. Un pericolo per il corteo e per la paura di contestazioni a Pd e sindacati da parte degli spezzoni più accesi del corteo. Strigliata del sindaco, Stefano Lo Russo. Il Verde pubblico si precipita nella via e inizia il trasloco dei grandi vasi, il tutto senza dispositivi di sicurezza. Non proprio il massimo per la giornata del lavoro. Questo è il primo corteo del Primo Maggio dopo due anni di pandemia. Una ricorrenza particolare con la guerra in Ucraina scatenata dall’invasione russa che si porta dietro morte e distruzione, milioni di profughi e un aumento dell’incertezza economica per milioni di famiglie in Italia. “Al lavoro per la pace” è lo slogan scelto dai sindacati per mobilitare i lavoratori. All’appello hanno risposto in tantissimi. In corteo anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, l’assessore regionale alle attività produttive, Andrea Tronzano e tanti primi cittadini. Poi lo striscione dell’Anpi, le rappresentanze sindacali. C’è chi sfila con le bandiere dell’Ucraina. Massiccia la presenza delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa e in borghese per il timore di contestazioni nei confronti del Pd e delle posizioni sindacali sul conflitto in corso. Il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo: “Siamo al lavoro per la pace a livello mondiale ma anche per la pace sociale in Italia prima emergenza è la sicurezza sui luoghi di lavoro ma è anche necessario aumentare i salari”. Alla fine del corteo arriva la conta. La questura comunica 8 agenti feriti del Reparto mobile e la Digos dichiara di aver individuato 145 antagonisti su cui saranno effettuati accertamenti “per risalire ai responsabili degli scontri”. Secondo la polizia la “regia” p del centro sociale Askatasuna. Dalla casa occupata di corso Regina Margherita commentano: “Il re è nudo: il Pd, il governo e le istituzioni guerrafondaie vogliono tenere lontane le voci incompatibili con la retorica della guerra. Basta con la militarizzazione della società: voglia di diritti, pace e reddito subito”. Crimini di guerra nazisti: Berlino denuncia l’Italia alla Corte internazionale di giustizia di Paolo Virtuani Corriere della Sera, 2 maggio 2022 Secondo la Germania, Roma consente richieste di risarcimenti allo Stato tedesco nonostante una sentenza della Corte del 2012 le definisca “una violazione”. Germania contro Italia. Non è un incontro dei Mondiali di calcio, ma un procedimento depositato venerdì sera da Berlino che ha portato Roma davanti alla Corte internazionale di giustizia (Icj) dell’Aia. Sostiene la Germania che l’Italia continua a permettere alle vittime dei crimini di guerra nazisti della seconda guerra mondiale di chiedere risarcimenti allo Stato tedesco nonostante una sentenza del 2012 del tribunale dell’Onu stabilisca che tali richieste violano “il diritto internazionale”. Il ricorso - Secondo Berlino “i tribunali italiani dal 2012 hanno accolto un numero significativo di nuove richieste”. In particolare la Germania si riferisce alla sentenza n. 238 del 22 ottobre 2014 della Corte costituzionale italiana che ha riconosciuto “l’obbligo del giudice italiano di conformarsi alla sentenza dell’Icj” ma lo “ha sottoposto alla tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali del diritto costituzionale italiano, per consentire alle vittime di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità di presentare ricorsi individuali contro gli Stati sovrani”. Diverse interpretazioni - Per i tedeschi la sentenza della Corte costituzionale italiana, “adottata in violazione consapevole del diritto internazionale e del dovere dell’Italia di conformarsi a una sentenza del principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha avuto conseguenze di ampia portata”: “almeno 25 nuove cause sono state intentate contro la Germania davanti ai tribunali italiani” e “in almeno quindici procedimenti i tribunali italiani hanno preso in considerazione e proceduto a richieste di risarcimento contro la Germania in relazione alla condotta del Reich tedesco durante la seconda guerra mondiale”. Per soddisfare le richieste, in due casi i tribunali italiani hanno disposto il sequestro a Roma di proprietà dello Stato tedesco. Berlino chiede la garanzia che le proprietà tedesche “non siano sottoposte a un’asta pubblica in attesa di una sentenza dell’Icj”. Venezuela. Rivolta in carcere. “47 detenuti in una cella che può ospitarne 10” La Repubblica, 2 maggio 2022 Lo riferisce una organizzazione non governativa. Un poliziotto è stato ferito. Quarantasette detenuti rinchiusi in una cella che può ospitare dieci persone si sono ribellati e hanno preso in ostaggio due poliziotti. Lo riferisce una organizzazione non governativa che si occupa della tutela dei diritti dei carcerati. “La rivolta è scoppiata in una delle cinque celle della stazione di polizia dove dovrebbero esserci al massimo 10 persone”, ha detto Carolina Giron, direttrice dell’Osservatorio venezuelano delle prigioni (OVP), spesso critica nei confronti delle azioni del governo. Nei video postati sui social network, si può vedere uno degli agenti che viene tenuto fermo contro le sbarre della cella. Un poliziotto è stato ferito all’orecchio. I detenuti di questa stazione della Polizia Nazionale Bolivariana (PNB), situata a Los Guayos, nello stato di Carabobo (circa 160 km da Caracas), lamentano violazioni dei diritti umani e ritardi procedurali.