Carceri: Come ti costruisco una bufala, e come faccio abboccare giornalisti e politici di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2022 Ma possibile che nessuno si sia insospettito, leggendo gli articoli che hanno inondato il web sulle “casette dell’amore” per i detenuti? Eppure va bene che siamo abituati, sui temi delle pene e del carcere, a un giornalismo privo di scrupoli, che agisce senza controlli perché tanto i soggetti coinvolti sono soggetti con nessun potere e nessuna voce, ma i segnali di bufala erano inequivocabili: la fonte intanto era sempre la stessa, il quotidiano La Verità, e poi la descrizione del progetto e il pensare che il governo fosse così folle da presentarsi con questo biglietto da visita ai cittadini DOVEVANO far sorgere dei dubbi nel lettore, cito testualmente “Le strutture dovranno ospitare detenuti in regime di carcerazione duro e che quindi non possano godere di permessi premio, fino a un massimo di 24 ore consecutive al mese per fare sesso con la propria consorte, fidanzata, amante”. Ma qualcuno davvero può immaginare la ministra Cartabia e il premier Draghi che stanziano 28 milioni di euro per le amanti dei detenuti condannati al carcere duro? E allora le cose come stanno? Stanno che la Regione Toscana ha presentato nel 2020 un disegno di legge sull’affettività delle persone detenute e, spiega il Ministero della Giustizia in un Comunicato, “nello scorso mese di marzo la 5a commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al ministero della Giustizia tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione”. I tecnici del Ministero, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento, ma il Ministero “non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare”. Questa vicenda merita però di essere approfondita: * è possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche di notizie, che apparivano veramente sconclusionate al limite del ridicolo? Il fatto è che siamo abituati, nel nostro Paese, a ridicolizzare nel modo più triste e squallido quello che ha a che fare con gli affetti e con la sessualità delle persone detenute, e riteniamo lecito dire qualsiasi schifezza in materia, a partire dalla solita definizione di “celle a luci rosse”, mentre negli altri Paesi, evidentemente più civili del nostro, si pensa a fare leggi sensate e si capisce che in carcere ci stanno persone, che come tali vanno trattate; * è possibile che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non siano riusciti a fare una comunicazione attenta, tempestiva, precisa, esauriente su questa vicenda? Ci candidiamo allora, con la nostra Rassegna Stampa quotidiana, Ristretti News, a fare noi questo lavoro, e magari a essere riconosciuti e sostenuti, perché sappiamo che tanta parte dell’Amministrazione Penitenziaria legge il nostro Notiziario, e sappiamo anche che per sopravvivere dobbiamo fare i salti mortali; * dirigo Ristretti Orizzonti, un giornale di giornalisti detenuti “dilettanti”, e che per giunta, se sono finiti in carcere, è perché spesso nella vita non si sono distinti per il rispetto delle regole, quindi gli dovrei poter portare come esempio i professionisti dell’informazione che fanno questo mestiere da anni, e invece spesso succede il contrario, che siamo noi che stiamo molto più attenti di loro alle parole, ai contenuti, al rispetto dei lettori. Rispetto dei lettori significa rispetto dei lettori “liberi”, e noi lo abbiamo perché le persone in carcere sanno mettersi in discussione, confrontarsi con le vittime, assumersi le loro responsabilità, e rispetto dei lettori detenuti e delle loro famiglie, che in tutta questa storia si sono visti trattati con disprezzo, volgarità, miserabili bugie. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Carcere: Ripartire dalla Costituzione. Il 31 maggio a Udine di Franco Corleone L’Espresso, 29 maggio 2022 È esplosa una polemica indecente su un ipotetico finanziamento per costruire le maldestramente definite “case dell’amore” nelle carceri italiane. Lo scandalo vero, conclamato e ignobile, è che il Parlamento da più di venti anni non affronta la questione del diritto costituzionale all’affettività e alla sessualità per le detenute e i detenuti. Nei Regolamento penitenziario del 2000, Sandro Margara e io avevamo previsto una soluzione equilibrata e saggia, ma il Consiglio di Stato fece obiezione e il ministro della Giustizia Fassino chinò il capo. Anche la Corte Costituzionale sollecitò il Parlamento a approvare una legge. Finalmente il Consiglio Regionale della Toscana approvò un testo e lo inviò al Senato come prevede la Costituzione. L’esame del provvedimento si è arenato in Commissione Giustizia dopo una discussione scurrile e volgare, indegna di Palazzo Madama. L’Ufficio del garante dei diritti dei detenuti di Udine con le associazioni Icaro e la Società della Ragione ha organizzato un seminario sulla riforma possibile del carcere dopo i due anni tremendi della pandemia che hanno soppresso ogni forma di vita sociale nelle galere. Sarà illustrato un progetto di ristrutturazione del carcere di Via Spalato con un confronto tra le associazioni del volontariato e del terzo settore e la facoltà di architettura per creare un polo di formazione, cultura e lavoro. Il progetto elaborato dalla arch. Daniela Di Croce del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sarà approfondito dagli arch. La Varra, Marcetti e Scarcella. Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza dei Garanti regionali e territoriali, introdurrà le ipotesi di cambiamenti urgenti e immediati nella vita quotidiana per i reclusi. Infine la giornata si chiuderà con la presentazione del volume degli scritti di Alessandro Margara intitolato “La giustizia e il senso di umanità”. Ne parleranno i magistrati Antonietta Fiorillo, Giovanni Maria Pavarin e l’avvocato Conte. Il seminario sarà dedicato alla memoria di don Pierluigi Di Piazza, fondatore del Centro Balducci di Udine e figura straordinaria di riferimento della cultura e dell’accoglienza. Nella Sala Aiace del Comune di Udine si svilupperà un ragionamento che non vuole essere di testimonianza ma di reale cambiamento attraverso una mobilitazione di coscienze e intelligenze. Con intransigenza e senza rassegnazione. Affettività in carcere, Gratteri non ci sta: “Al governo non interessa la mafia” di Davide Varì Il Dubbio, 29 maggio 2022 Il procuratore di Catanzaro: “Hanno trovato più di 28 milioni di euro per costruire le Case dell’Amore. Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea?”. “Nel suo discorso di insediamento Draghi non ha detto una sola volta la parola mafia. Ha un piano? Una visione? Vorremmo sapere se ha delle proposte per contrastare le mafie, ma credo che la giustizia e la sicurezza non interessino a questo Governo e che Cartabia non sia il Ministro che serviva all’Italia. Appena nominata ha incontrato il Garante dei detenuti e Nessuno tocchi Caino, i magistrati li ha incontrati dopo un mese. Non cambia nulla? Forse. Ma la forma è sostanza. E questo fa capire l’indirizzo di questo Governo”. Inizia così l’intervento di Nicola Gratteri, Procuratore di Catanzaro, al corso “Le mafie ai tempi dei social”, organizzato da Fondazione Magna Grecia e ViaCondotti21 con il Gruppo Pubbliemme, Diemmecom, LaC Network e l’Università LUISS, andato in onda in diretta streaming su LaCNews24. Nel mirino del procuratore di Catanzaro, in particolare, i fondi per l’applicazione della legge sull’affettività in carcere, che però non è ancora stata discussa in commissione Giustizia del Senato. “Hanno trovato più di 28 milioni di euro per costruire le Case dell’Amore, un luogo dove i detenuti possono incontrarsi per 24 ore con moglie, marito e amanti”, ha polemizzato Gratteri. “Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea? Questo abbiamo portato a Palermo nel 30esimo anniversario della strage di Capaci, quando tutta la politica è andata a onorare Falcone, le Case dell’Amore”. Il procuratore ha parlato quindi dell’evoluzione delle mafie e dalla ricerca del consenso: “Le mafie oggi sono mimetizzate nel tessuto sociale ed economico, ma non esisterebbe la mafia senza la relazione con le classi dirigenti, sarebbe criminalità comune. La mafia ha bisogno del territorio e del consenso popolare, il boss ha bisogno di pubblicità, è un imprenditore. Così la ‘ndrangheta si è presa la Calabria e un quarto di Milano. Certe cose bisogna dirle. Io mi sono creato una vita da recluso, ma sono libero di dire quello che voglio perché non appartengo a nessuna corrente. Il silenzio è complicità”. Pulire gli scarti: il rito del carcere di Gustavo Zagrebelsky Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2022 Il carcere è prima di tutto segregazione. Alla sua base c’è l’idea implicita che la società sia l’effetto di due forze contrastanti, una forza di aggregazione e una di segregazione. L’aggregazione universale, l’agape fraterna estesa a tutti, può essere un nobile ideale, ma è un ideale utopico. L’inclusione che non conosce esclusione genera anomia, violenza, disfacimento, alla fine dissoluzione del vincolo sociale. La socialità implica l’antisocialità. Tutti associati equivale a nessuna associazione. Affinché per alcuni vi sia convivenza, per altri deve esserci separazione, esclusione. Si può parlare di polarità di forze in equilibrio. L’una si appoggia all’altra. C’è una figura universale che esprime questa tensione tra il dentro e il fuori, ed è il capro espiatorio, una figura della psicologia collettiva che si presenta in forme diverse ma svolge sempre la stessa funzione di tenuta, rassicurazione e autoassoluzione del gruppo sociale dalle proprie colpe attraverso la polarizzazione su di lui come unica vittima della violenza ch’esso cova endemicamente. È il polo negativo che rafforza quello positivo. La sua estromissione dalla vita comune allenta temporaneamente la tensione, fino a quando questa si ripropone e richiede di allentarsi in un qualcuno o qualcosa d’altro che ne incarni la funzione di equilibrio. C’è un racconto biblico sorprendente, ricchissimo di simboli e di mimetismi, eccentrico rispetto alle altre narrazioni delle opere del Cristo. Esso nel modo migliore esemplifica la funzione del capro espiatorio che ci interessa in questo momento. È l’indemoniato geraseno, una specie di morto vivente che porta il nome di “legione perché siamo tanti”, la cui storia, inquietante sotto diversi aspetti, è raccontata nei tre Vangeli sinottici. Marco (5, 1-20) ci dà i maggiori dettagli. Sono stati oggetto di magistrale interpretazione da parte di Jean Starobinski e di René Girard. “Legione” si chiama così perché in lui è rappresentato e concentrato l’insieme dei numerosi spiriti negativi che popolano la regione di Gerasa. La sua (o loro) esistenza non solo è tollerata dal popolo, ma è anche desiderata. La sua condizione era quella del reietto, ma di un reietto che veniva “custodito qui con noi”, come si provvede alla custodia di qualcuno di cui si ha bisogno. Dimorava tra i sepolcri, si aggirava nudo, senza posa, e nessuno lo teneva a bada quando era preso dal furore. Notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si feriva con le pietre. Incontrato Gesù, lo scongiurava non di essere guarito, ma di essere lasciato in pace, di essere abbandonato a se stesso. Al contrario degli altri miracolati che i Vangeli presentano come figure supplicanti d’un cambio di condizione (guarire, risuscitare, essere esorcizzati), egli era legato alla sua funzione: “Che cosa c’è tra me e te? Ti scongiuro per Dio di non tormentarmi”. Svolgeva un ruolo collettivo, pur nella sua singolare condizione di reietto: “Ed egli lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese”. Quando viene mondato (gli spiriti immondi trasferiti nei porci e i porci precipitati dal burrone nel mare), non mostra alcuna gratitudine né dà prova di alcuna conversione interiore, ma chiede di stare con Gesù, sotto la sua protezione, come se a quel punto avesse tradito il suo compito e fosse preso dalla paura di rimanere lì dov’era, con l’altra parte della popolazione. La quale, contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, non manifestò alcuna gratitudine verso il guaritore. Al contrario, ne fu costernata: quando vide l’uomo “vestito, sano di mente e nel pieno possesso delle sue facoltà”, cioè ricondotto alla normalità, “tutta la popolazione fu presa da spavento e chiese al Cristo di andarsene via da loro, perché avevano molta paura” (Lc 8, 35-37), come se fosse venuta meno una rassicurazione di cui avevano bisogno. L’indemoniato era segno di estrema segregazione dal mondo ordinato, ma serviva come rassicurazione! Era capro espiatorio del male del mondo ordinato. Perché, parlando di carcere, s’è presentato questo racconto? Perché è facile vedervi una rappresentazione d’una realtà sociale avente una consistenza che va al di là di Gerasa, dell’indemoniato, degli spiriti impuri, dei porci e del loro suicidio collettivo, eccetera, e che ci riguarda in quanto parla della funzione sociale della segregazione. Il Cristo vuole la conciliazione integrale, ma la società degli onesti non la vuole. Il carcere è nato, più che come sanzione, come pulizia della società dai suoi scarti: poveri, vagabondi, mendicanti, sbandati, irregolari d’ogni genere, da offrire in sacrificio all’ordine sociale. *** Se noi chiedessimo a chicchessia che cos’è per lui la pena normale per chi commette delitti, la risposta certamente sarebbe: il carcere. È stato detto che il carcere appare oggi una realtà metafisica, sempre esistita e inevitabile: una dolorosa necessità. In effetti, tutti ragioniamo così. Il carcere è la naturale risposta, il naturale castigo che segue il delitto. È la regola; le misure alternative sono eccezioni. Questo è il nostro fortissimo preconcetto. La Costituzione, tuttavia, non identifica la pena con il carcere, anche se le “restrizioni alla libertà personale” e la “carcerazione preventiva” dell’articolo 13 mostrano che, sullo sfondo, stava anche allora l’idea che la società non possa esistere senza appoggiarsi al carcere. Ma la pena carceraria non è certamente un istituto “costituzionalmente necessario”, né, per così dire, la “prima scelta” in materia di pene. È una possibilità giuridica alla quale si può attingere per necessità, una dolorosa necessità che s’impone a fronte dell’urgenza di difesa della convivenza civile, quando non esistono alternative. La finalità costituzionale della pena non è solo il castigo; è anche la rieducazione o, meglio, la socializzazione o risocializzazione del condannato. Quale che sia il rapporto tra punizione e recupero, e quali che siano le difficoltà di conciliare l’una con l’altro, una cosa è certa: il carcere di per sé e nella migliore delle ipotesi, quando cioè non è controproducente, non serve alla socializzazione. Tanto è vero che le pene alternative e sostitutive sono previste precisamente per il “recupero” del condannato alla società, impossibile nel regime carcerario, per quanto “umanizzato” esso possa diventare. Ora, la relazione problematica (per non dir di più) che il carcere ha con la protezione della dignità umana e l’inconciliabilità di carcere e socializzazione, dovrebbero indurre quantomeno a rovesciare il rapporto regola-eccezione. Il carcere come regola dovrebbe cedere al carcere come eccezione, come extrema ratio (ed è proprio quanto proposto da questo libro di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta). Questo rovesciamento dovrebbe indurci a una riflessione e, anche, a un’opera di progettazione. Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità, che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali, non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da celle, gabbie, sbarre dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci? E non ci stupisce il fatto che, tutto sommato, la coscienza sociale sia quieta di fronte a questa realtà? Lavoro ai detenuti: fa bene anche agli imprenditori che li assumono di Gabriella Cantafio iodonna.it, 29 maggio 2022 Il progetto Seconda Chance. Cronista giudiziaria, da sempre impegnata nel sociale, Flavia Filippi ha lanciato questa iniziativa per dare un’opportunità lavorativa a persone in esecuzione penale e consentire l’abbattimento del costo del personale a chi li assume. Dare lavoro ai detenuti e al contempo abbattere il costo del lavoro stesso. Significa compiere un gesto di grande valenza sociale, e per di più conveniente per le imprese: è la missione quotidiana di Flavia Filippi che, compatibilmente con il suo lavoro di cronista giudiziaria a La7, ha lanciato il progetto Seconda Chance. Il progetto Seconda Chance - “Durante il lockdown, a causa del fermo dell’attività giudiziaria, mi sono ritrovata con tanto tempo libero” racconta Filippi: “Da sempre impegnata nel s ociale, ho deciso di rendermi utile approfondendo la Legge Smuraglia, che prevede sgravi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti”. Così la giornalista racconta l’origine del suo progetto con cui offre a tante persone in esecuzione penale un’opportunità lavorativa nonché di reinserimento sociale. La rete costituita con aziende e istituzioni - A sostenerla sin dall’inizio, il Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che l’ha messa in contatto con il Provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone. “Poco più di un anno fa, ho iniziato a stipulare accordi e protocolli d’intesa con associazioni di categoria, cooperative e aziende pubbliche, come per esempio l’ANCE (Costruttori edili), con l’Unione Artigiani Italiani, con l’Istituto Superiore della Sanità. E sono riuscita a costruire una rete ben solida e articolata” spiega illustrando le sue giornate in cui si divide tra lavoro e incontri in bar, ristoranti, centri sportivi della capitale per chiedere ai proprietari se hanno bisogno di personale e, dunque, se hanno intenzione di dare una seconda chance a un detenuto, usufruendo dei vantaggi fiscali. L’empatia tra detenuti e imprenditori - Talvolta, inevitabilmente, si imbatte nella reticenza di alcuni titolari, ma, quando comprendono la valenza del progetto, la maggior parte aderisce: “Quando gli imprenditori arrivano in carcere e incontrano i detenuti per il colloquio, in quel preciso istante, scatta la scintilla dell’empatia e, talvolta, ne assumono più del previsto” dice l’ideatrice di Seconda Chance. Grande interesse ed entusiasmo si registra anche tra i detenuti del carcere di Rebibbia, da cui è partito il progetto, ora, in espansione sull’intero territorio nazionale. Lavoro ai detenuti di Rebibbia - “Non vengono scelti a caso, l’amministrazione penitenziaria seleziona i detenuti con il profilo più congruo alle figure professionali che mi richiedono all’esterno. Dopodiché organizziamo i colloqui a Rebibbia, tenuti dall’ispettore Cinzia Silvano insieme agli educatori che fanno raccontare le proprie competenze al detenuto, per poi comunicare le peculiarità dei singoli agli imprenditori” dichiara Filippi, sempre presente a ogni colloquio, durante i quali prende appunti per poi stilare le schede di ognuno. I detenuti assunti all’Istituto Superiore di Sanità - È una vera e propria cerniera che congiunge detenuti e imprenditori: in questi mesi ha raggiunto obiettivi importanti come l’assunzione di tre detenuti presso l’Istituto Superiore di Sanità. Inizialmente sono stati impiegati nella falegnameria, ora stanno svolgendo diversi lavori di riparazione e manutenzione all’interno e all’esterno dell’edificio e, presto, si occuperanno del restauro della sirena d’allarme di San Lorenzo che suonò prima del bombardamento del luglio 1943. “Le richieste aumentano quotidianamente, mi contattano da ogni angolo d’Italia, anche gente che si offre per aiutarmi a realizzare il sito e a registrare il marchio. Il mio impegno viene ripagato dalla soddisfazione che percepisco negli occhi dei detenuti. Sperano tanto di avere una possibilità per dimostrare di essere diversi rispetto al cliché che li fa apparire tutti inaffidabili” afferma la giornalista che, proprio in questi giorni, è riuscita a creare una connessione anche tra un’azienda di Garbagnate e il carcere di Bollate, oltre ad avere fatto assumere presso il Parco Nazionale del Circeo due persone in esecuzione penale nel carcere di Velletri. Il rispetto delle competenze - A breve partiranno corsi di formazione con la Croce Rossa e la Rai; a mostrare grande interesse anche il Ministero dell’Agricoltura con cui Filippi stipulerà un protocollo che consentirà di contribuire fattivamente alla carenza di personale nelle aziende agricole. “Mi batto affinché l’incrocio domanda-offerta avvenga nel rispetto delle competenze e delle attitudini di ogni singolo detenuto. Sembra una pretesa, ma, se possibile, ci tengo a garantire un lavoro che assecondi le loro propensioni” ribadisce soffermandosi sull’iter burocratico particolarmente controllato: trascorsi all’incirca due mesi, quando il magistrato di sorveglianza dà parere positivo, la persona selezionata va a lavorare presso l’azienda. La bacheca Seconda Chance a Rebibbia - In questi giorni, a semplificare l’incrocio domanda-offerta, è giunta la bacheca Seconda Chance realizzata all’interno di Rebibbia, dove ogni detenuto ammesso al lavoro all’esterno, in virtù dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario, può affiggere una scheda con le proprie competenze, aiutato da due detenuti laureati in legge. Il progetto in espansione - “Non mi aspettavo un tale successo nel giro di così pochi mesi - confida - tante persone mi stanno supportando, ci sono i presupposti per strutturare meglio questo progetto, prevedendo magari un referente in ogni regione o provincia. Sicuramente alcuni detenuti proseguiranno il rapporto di lavoro anche dopo aver finito di scontare la pena”. Mentre attende che venga registrato il dominio Seconda Chance, Filippi continua a ricevere decine e decine di mail da imprenditori che offrono posti di lavoro. L’indirizzo a cui scrivere per dare la propria disponibilità ad assumere è flavia.filippi@la7.it. L’ex detenuta che potrà riabbracciare le figlie - L’importanza di un reinserimento sociale anche prima della fine della pena è chiaro nelle parole di Flavia Fillippi e nelle storie delle persone che sta aiutando: “Con ogni singolo detenuto si instaura un rapporto umano. Qualche mese fa sono riuscita a far assumere anche una donna ex detenuta che non rientrava nei benefici previsti dalla Legge Smuraglia. Aveva disperato bisogno di un lavoro per recuperare la patria potestà sulle sue due figlie. Non è stato semplice, ma ora, grazie all’assunzione a tempo indeterminato in una ditta di pulizie, potrà ricongiungersi con i suoi affetti più cari” conclude Filippi, fiera di riuscire ad offrire un’opportunità di riscatto sociale, ma anche di poter attestare concretamente la funzione rieducativa della pena detentiva. Giustizia, referendum & quorum: missione (quasi) impossibile di Roberto Gressi Corriere della Sera, 29 maggio 2022 Solo il 30 per cento sa che si voterà, i temi sono complessi e le urne saranno aperte un solo giorno. Ecco perché ancora una volta i cinque quesiti sono in bilico. I radicali: il solito modo dei partiti per fermare la democrazia. Cinque domande sulla giustizia non facili da capire. Il traino dei quesiti sul fine vita e sulla legalizzazione delle droghe leggere azzoppato dalla Corte costituzionale che li ha giudicati improponibili. La chiamata alle urne spinta dai consigli regionali guidati dal centrodestra, seppur sostenuta dall’onda delle firme popolari. La coincidenza con una tornata di voto amministrativo che interessa poco meno di mille comuni e nove milioni di elettori. Almeno sulla carta, perché la fuga dalla partecipazione racconta che ai seggi ci andranno poco più della metà. I sondaggi - I sondaggisti che dicono che solo il trenta per cento dei cittadini sanno che si voterà e per cosa. Sempre i sondaggisti avvertono che la cifra è addirittura esagerata perché tanti dicono che sanno di cosa si tratta anche se non è vero. Un quorum imponente, oltre 25 milioni di schede, perché la consultazione sia valida. Un fronte del “no” che con grande probabilità si guarderà bene di fare più di tanto campagna di informazione e affiderà le sue truppe al generale Astensione. Una parte del fronte del “sì” non del tutto convinto di metterci la faccia per il timore di perderla se voteranno in pochi, soprattutto in vista delle elezioni politiche in inesorabile avvicinamento. Uno strumento di democrazia popolare, il referendum, sempre difficile da far funzionare: se furono l’87 per cento gli italiani che andarono a votare per difendere la legge sul divorzio, negli anni l’istituto ha mostrato segni di invecchiamento. Confronti in tv, alla radio e sui giornali che stentano e non si annunciano come campioni di share. Voto ristretto - Una sola giornata per votare, il 12 giugno, dalle 7 alle 23. L’estate a un passo, il mare, le scuole chiuse. Portare a casa il quorum pare un’impresa spericolata, da far impallidire i trecento di Leonida. Giulia Bongiorno, senatrice leghista, è uno degli avvocati più conosciuti nel Paese. La Lega, insieme ai Radicali, è il partito che più si è speso per arrivare a sottoporre i temi della giustizia al giudizio popolare, attraverso i referendum. “Ho visto raramente un silenzio così assordante su una consultazione, per di più su quesiti che riguardano la vita di ognuno di noi”, dice. “Un esempio per tutti: la separazione delle carriere. In un processo ci sono tre attori: il giudice, il pubblico ministero, che sostiene l’accusa, l’avvocato. Solo che giudice e pm appartengono allo stesso ordine. Con una metafora calcistica si può dire l’arbitro ha la stessa maglia di una delle parti. È un sistema che mina l’imparzialità del giudice. Tanto più con una magistratura preda delle correnti: se un pm fa parte di una corrente potente può anche condizionare la carriera di chi giudica. Sa che cosa mi chiedono i clienti? Ma il giudice, di quale corrente fa parte?”. Il Pd, pur lasciando libertà di voto ai singoli, si schiera per cinque “no”. Sui primi tre (elezione del Csm, Consigli giudiziari, separazione delle carriere), ritiene sufficiente la riforma in corso di approvazione in Parlamento. No anche all’abrogazione della legge Severino, sull’incandidabilità dei politici condannati (che va però cambiata là dove ritiene sufficiente per i sindaci il primo grado di giudizio), e no sulle misure cautelari. Necessaria poi la riforma dell’ordinamento penitenziario. Una linea che non convince tutti. Soprattutto sulla separazione delle carriere, per esempio, Enrico Morando e Stefano Ceccanti invitano a votare “sì”. Un passo indietro - Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, Pd, la vede così: “Intanto si parla di separazione delle funzioni e non delle carriere. È uno dei temi affrontati nella riforma Cartabia, frutto di un lavoro comune in Parlamento. Si riduce ormai a un solo passaggio previsto, sui quattro precedenti. E il numero dei casi riguarda una percentuale risibile. Il sì al referendum ci farebbe fare un passo indietro, in una vicenda così complessa. Che si possa mantenere la possibilità di uno spostamento da magistrato giudicante a pubblico ministero è condivisibile. Sarebbe un errore poi cancellare la legge Severino, che prevede l’incandidabilità. La completa abrogazione porterebbe alla possibilità di avere nelle istituzioni anche persone condannate con sentenza definitiva, anche per reati molto gravi. Diversa è invece la fattispecie che riguarda gli amministratori pubblici, soprattutto i sindaci, per il quali l’incandidabilità è prevista già dopo la sentenza di primo grado. Quello è un punto che va cambiato e abbiamo depositato proposte di legge sia alla Camera che al Senato. Sono anche incardinate in commissione e sono lì bloccate perché, strumentalmente, si vuole aspettare il referendum. Sbagliato anche il quesito sulle misure cautelari, furbescamente camuffato da custodia cautelare. Due esempi per tutti, nei quali serve prevenzione: con la completa abrogazione non si potrebbe più usare il braccialetto elettronico per gli stalker, né si potrebbero fermare i truffatori seriali degli anziani”. Troppo silenzio - Il radicale Maurizio Turco punta l’indice contro la mancanza di informazione: “Sa in quali fasce orarie sono previste le tribune referendarie? Alle 15,20 e alle 18,20. A parte le ore notturne non c’è niente di peggio. Così la Rai onora il contratto di servizio solo per finta, il confronto è relegato in un angolo. Nella settimana che precede il voto ci saranno solo due dibattiti, uno il 6 e l’altro il 10, poi basta. Altre volte si è votato in due giorni, questa volta ci si ferma ad uno. Né vale dire che i quesiti sono complessi. Derivano da leggi complesse che pure intervengono nella vita delle persone tutti i giorni. Basti pensare al sindaco di Alassio, Marco Melgrati, cacciato per la legge Severino dopo una condanna di primo grado e rieletto dopo essere stato assolto 35 volte in 35 processi. Dieci anni di vita devastati. La riforma Cartabia non risolve nulla, è figlia di troppi compromessi. La verità è che prevale la voglia dei partiti di mettere il bavaglio alla democrazia popolare”. L’informazione - Il poco spazio televisivo e radiofonico dedicato ai cinque referendum? Anna Rossomando non ci sta. “Veramente mi capita di partecipare frequentemente a confronti pubblici e il Pd ha dedicato una Direzione a questo argomento. Intervenire sulle tematiche della Giustizia è sempre difficile, perché in Parlamento ci sono sensibilità e politiche diverse. Ora, con l’ampia maggioranza che sostiene il governo Draghi, abbiamo una grande occasione. Quella di portare a casa riforme non di parte, condivise e destinate a durare. Una garanzia per tutti, se rinunciamo alla propaganda: dovremmo approfittarne”. Giulia Bongiorno ha due convinzioni: “Pochissimi sanno che si vota e per cosa si vota. Addirittura incontro avvocati che non sono informati sui referendum. L’altra cosa certa però è che non appena c’è la possibilità di spiegare non trovo una sola persona che non è pronta a votare sì. Questa è l’occasione da cogliere”. Referendum giustizia, rischio flop e i promotori scelgono la strategia del silenzio di Liana Milella La Repubblica, 29 maggio 2022 I partiti, compresa la Lega, non parlano della consultazione. La paura di dover fare i conti con la sconfitta. Referendum più “silenziosi” di così non s’erano mai visti. Si vota tra due domeniche, con le amministrative, per i cinque quesiti sulla giustizia. Ma a protestare per il “silenzio” che li circonda sono solo i Radicali, i veri artefici delle richieste di abrogazione, che hanno accettato, come compagna di strada, la Lega. Grande rumore del Carroccio durante la raccolta delle firme, mentre aumentavano i guai giudiziari di Salvini per via dello stop alle navi dei migranti, anche se poi non sono mai arrivate in Cassazione, e dietro i referendum ci sono le otto Regioni a trazione leghista. Adesso sono sempre i Radicali a prendersela con Rai e Agcom per un’informazione “latitante”. Ma a “latitare” sono soprattutto i promotori che tacciono. Silenzio strategico forse, visto che i referendum sono destinati alla sconfitta. La responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno nega che il suo partito non si stia impegnando a fondo. “Io personalmente - dice l’avvocata di Salvini - ho fatto degli spot che girano sui social. Noi ci siamo, ma le iniziative non hanno l’attenzione dei riflettori mediatici”. Quindi la colpa sarebbe dei media che boicotterebbero proprio le iniziative di Salvini sulla giustizia. Renzi dà la colpa alla Consulta visto che “sono saltati i tre quesiti fondamentali per attirare le persone, quelli su cannabis, eutanasia e responsabilità civile”. Si voterà invece per cancellare la legge Severino del 2012 sull’incandidabilità e decadenza dei condannati (scheda rossa), per impedire la custodia cautelare quando c’è il pericolo di compiere di nuovo lo stesso delitto (scheda arancione), per eliminare del tutto il passaggio di funzioni da giudice a pm (scheda gialla). E poi sugli avvocati con diritto di voto nei consigli giudiziari e in Cassazione (scheda grigia), e sullo stop alle firme, da 25 a 50, per chi vuole candidarsi al Csm scheda verde). Materie, le ultime due, che incrociano la riforma del Csm della Guardasigilli Marta Cartabia, tant’è che il quesito sulle firme, se la legge passa, è da buttare via. Legge che crea un evidente imbarazzo alla Lega perché i parlamentari di Salvini nello stesso tempo lavorano a norme in conflitto coi referendum. E mentre la legge passa i referendum finiscono nel dimenticatoio. Sostenerli è solo fonte di una brutta figura. Non si pone il problema Anna Rossomando, la responsabile giustizia del Pd, che va ovunque a parlare di referendum, tant’è che solo negli ultimi 2 giorni ha fatto iniziative a l’Aquila e Rimini. E a Repubblica dice: “Io e tanti altri esponenti del Pd stiamo partecipando a ogni occasione di confronto per illustrare la nostra posizione sui referendum e il lavoro fatto sulle riforme della giustizia. Certamente la riforma Cartabia del Csm è migliore e più incisiva. Probabilmente c’è poco interesse perché i quesiti appaiono strumentali e superati dalla riforma”. Berlusconi ha invitato i suoi a sostenere i quesiti, ma pure a votare la riforma Cartabia, anche se “non è certamente la nostra riforma”. Tant’è che Francesco Paolo Sisto, come sottosegretario forzista alla Giustizia, in aula sostiene la riforma, ma considera “grave ignorare l’opportunità dei referendum”. Referendum e riforma assieme? Ne è convinto Enrico Costa di Azione, appena reduce con Calenda da una manifestazione sul tema: “I quesiti sono complementari alle novità importanti introdotte dalla riforma Cartabia. Tant’è che noi siamo per rispondere sei volte sì: ai cinque referendum e alla riforma del Csm”. Quanto al “silenzio”, Costa lo legge così: “È figlio di una raccolta di firme trattata come affare privato di una forza politica, a cui il tutto è stato appaltato in esclusiva, impedendo un gioco di squadra che sarebbe stato prezioso soprattutto ora che quella forza politica si è sostanzialmente sfilata”. Referendum giustizia, perché dire basta al carcere preventivo di Paolo Becchi e Giuseppe Palma nicolaporro.it, 29 maggio 2022 Il 12 giugno si avvicina e il dibattito in merito ai referendum sulla giustizia stenta ancora a partire. Non se ne parla a sufficienza. Sarà anche vero che gli italiani hanno altre preoccupazioni: il lavoro, le bollette e l’affitto da pagare, e sullo sfondo la paura degli effetti della guerra e di nuove pandemie. Eppure, questo è l’ultimo treno per cercare di cambiare la giustizia e sarebbe un peccato perderlo. Ci siamo occupati di questo referendum con diversi nostri articoli e speciali, da ultimo con un libretto dal titolo “Referendum Giustizia: tutte le ragioni per votare Sì”, sostenendo in modo convinto la necessità di votare Sì a tutti e cinque i quesiti referendari. In un precedente post abbiamo analizzato il quesito più controverso, quello sulla “Legge Severino”, oggi vogliamo porre l’attenzione su quello che riguarda i “limiti agli abusi della custodia cautelare”. Prima però vogliamo fare due passi indietro… Il tintinnio delle manette Era il 31 dicembre 1997 quando l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, denunciò a reti unificate nel suo discorso di fine anno l’uso sconsiderato della custodia cautelare in carcere: “Il tintinnare le manette in faccia a uno che viene interrogato da qualche collaboratore, questo è un sistema abietto, perché è di offesa. Anche l’imputato di imputazioni peggiori ha diritto al rispetto”. Scalfaro si riferiva alla stagione di Mani Pulite, quando era solito, quasi quotidiano, sbattere gli indagati in cella perché rivelassero ciò che gli inquirenti cercavano. Tanto per rendere l’idea dell’uso distorto che è stato fatto della misura cautelare carceraria, in merito alla stagione di Tangentopoli Francesco Saverio Borrelli ebbe modo di dire: “Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Lo scandalo, in realtà, sono le idee inquisitorie che si nascondono dietro queste parole. Il supplizio di Enzo Tortora - Il caso più clamoroso, tuttavia, è più risalente nel tempo. Giugno 1983, viene arrestato Enzo Tortora, il noto presentatore televisivo accusato da alcuni collaboratori di giustizia di trafficare droga per conto della Nuova Camorra Organizzata (NCO) di Raffaele Cutolo. Gli inquirenti di Napoli si fidarono delle rivelazioni di uno psicopatico, tale Giovanni Pandico (detto ‘o pazzo), che leggendo sull’agendina di un’amica del camorrista Giuseppe Puca il nome di un tale Enzo Tortona (con la n), rivelò si trattasse di Enzo Tortora, “quello del pappagallo”. I giudici istruttori ritennero credibile una tale ricostruzione, avallata da altri pentiti del calibro di ‘o animale (Pasquale Barra) e cha-cha-cha (Gianni Melluso). Fatto sta che Tortora, completamente estraneo ai fatti, passerà in totale 271 giorni in carcere, per poi essere condannato a 10 anni di reclusione in primo grado per associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. L’assoluzione con formula piena arriva in appello solo nel 1986, confermata in Cassazione un anno più tardi. Pm, giudici istruttori e giudici del tribunale di Napoli, nonostante i gravi errori commessi, furono tutti promossi. Cosa prevede il quesito referendario? - L’oggetto del referendum è chiaro. Si tratta di limitare gli abusi della custodia cautelare. Vediamo come funziona. Quando sussiste almeno una delle esigenze cautelari previste dal codice di procedura penale (pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato), e solo quando il pericolo è concreto ed attuale, il Pm può chiedere al Gip l’applicazione di una misura cautelare nei confronti della persona sottoposta ad indagini. La difesa non può nulla, se non presentare (dopo che la misura è stata eseguita) istanza al tribunale del riesame oppure depositare allo stesso Gip istanze di revoca o di sostituzione della misura (in quest’ultimo caso solo se sussistono elementi nuovi ai sensi dell’art. 299 c.p.p.). Il quesito referendario intende abrogare l’art. 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale (d.p.r. n. 447/1988), limitatamente alla parte in cui consente l’applicazione della misura cautelare per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e, per la custodia cautelare in carcere, per i delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti. Cosa accade se vincono i Sì? - In pratica, nel caso in cui i cittadini decidessero di abrogare la norma oggetto del quesito referendario, le misure cautelari sarebbero applicabili soltanto nei casi stabiliti dal primo periodo della lettera c) dell’art. 274, comma I c.p.p., vale a dire solo per “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. Il quesito mira, dunque, a limitare in modo decisivo il ricorso alle misure cautelari, in primis la custodia cautelare in carcere che resterebbe in vigore solo per quei reati particolarmente gravi che giustificano un’attenzione sensibilmente alta da parte dello Stato. Non è vero che assassini, rapinatori o stupratori non finirebbero più in galera: per questi reati, e per quelli di mafia o di sovversione dell’ordine democratico, la custodia cautelare in carcere resterebbe una misura ancora applicabile. In tutti gli altri casi, se il popolo votasse per l’abrogazione, si finirebbe in galera o in detenzione domiciliare solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, cancellando definitivamente la barbarie dell’anticipazione della pena. Il quesito mira anche ad abrogare il ricorso alle misure cautelari in ordine al reato di finanziamento illecito dei partiti, con trent’anni di ritardo rispetto a quanto accaduto nella stagione 1992-93. Ci aveva già provato il Governo Amato col “decreto-legge Conso” nel 1993 con cui depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti, ma Scalfaro allora si rifiutò di firmarlo sotto una forte pressione mediatica e della Procura di Milano. Solo qualche anno dopo di rese conto dell’errore che aveva fatto. In un Paese civile chi sbaglia paga, ma solo dopo un regolare processo che conduca - esperiti tutti i gradi di giudizio previsti dalla legge - a sentenza definitiva. Viaggio nel popolo del Sì. “I giudici non pagano mai” di Alberto Giannoni Il Giornale, 29 maggio 2022 Tra i militanti dei gazebo leghisti in vista del voto: “Gli errori giudiziari travolgono la vita”. “Chi sbaglia paga”. È scritto sugli adesivi, sulle borse per la spesa, e soprattutto nel vissuto degli elettori, leghisti e del centrodestra: “I giudici - dicono un po’ tutti - sono gli unici che non pagano mai”. In piazza Marconi ad Abbiategrasso, davanti al Municipio si è riunito un gruppetto di militanti. Donatella garantisce che Matteo Salvini, alla battaglia per la giustizia giusta, ci crede davvero: “Ci sono imprenditori e cittadini - racconta la dirigente locale del partito - che sono incappati nella giustizia e ci sono rimasti imbottigliati per anni”. Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici è stato cassato, ma l’idea è che lo strapotere delle toghe debba essere limitato e responsabilizzato. Al tavolo si avvicina Luigi, candidato alle Comunali, e racconta la sua storia. Stava guidando di ritorno da Genova e un’auto l’ha fatto volare giù da un viadotto. “Sono salvo per miracolo - dice - Avevo 30 anni e un figlio piccolo e di me dicevano: Chèst chì al camina più. Quel tizio al volante aveva bevuto e chissà cos’altro. Otto anni per definire la cosa nel processo civile e alla fine ho avuto un risarcimento che non è bastato neanche a pagare la macchina. Fiducia nella giustizia? Glielo dico in abbiatese: Mì gha l’hoo no”. Lo scrive in un post-it, e assicura che quello è “l’idem sentire” della gente. È il penultimo fine settimana di campagna referendaria, prima del voto del 12 giugno sui 5 quesiti promossi da Partito Radicale e Carroccio. I leghisti hanno aperto i loro gazebo in mille piazze e nel prossimo week-and faranno il bis. Intanto si mobilitano anche “Più Europa” e Azione di Carlo Calenda. La Lega solo in Lombardia è in 500 piazze. Ad Abbiategrasso come in molti altri centri ci sarà il “traino” delle Comunali. Ma l’astensione preoccupa. Aldo è un militante leghista da anni, ma viene dal Psi e ricorda la campagna degli anni Ottanta, sull’onda del caso Tortora. “Per portare la gente a votare - dice - abbiamo affisso i manifesti in tutti i Comuni, anche dove non si vota, e lasciamo i volantini nelle cassette”. Francesco, assessore comunale, spiega che la giustizia lenta e inefficiente è un problema per l’economia, e fa scappare gli investimenti proprio come la burocrazia farraginosa. “Qui sono venuti a firmare anche elettori di sinistra, di Iv - raccontano - e poi ci sono i comitati del Sì degli avvocati”. Nella vicina Magenta ci si prepara alla rievocazione della battaglia risorgimentale. Ma prima ancora, la battaglia sarà quella per il sindaco, e per il “Sì”. Il candidato del centrodestra, Luca Del Gobbo, non ha dubbi. “Voto convinto perché il tema giustizia non è più rinviabile”. Grande fermento in piazza Liberazione. Arriva per un saluto il coordinatore lombardo della Lega Fabrizio Cecchetti: “In due mesi estivi avevamo raccolto 800mila firme - ricorda - la gente è molto interessata, ma purtroppo non è informata. Gli errori giudiziari costano, l’Italia è al 120° posto su 190 Paesi al mondo. E la vita delle persone viene travolta. Persone normali, oltre che politici trattati come mostri”. Un elettore confessa: “Grazie al cielo niente problemi col mio lavoro”, ma poi cita le peripezie del divorzio, e quelle per una multa davanti al giudice di pace. Chi sta sul territorio, poi, sa quanto è difficile arruolare amministratori in gamba: “Nei paesi a volte non si riesce a trovare persone che si candidino - spiega la consigliera regionale Silvia Scurati - Pensano che sia una follia. Ma chi te lo fa fare, perché sanno che si va incontro a qualche grana, poi l’assoluzione finisce in una breve”. L’Anm chiede unità: “Lo sciopero non è stato un flop” di Simona Musco Il Dubbio, 29 maggio 2022 Il presidente Santalucia nella prima riunione dopo la giornata di astensione: “L’obiettivo è centrato. Gli emendamenti alla riforma confermano i nostri timori”. Sisto: “Importante votare i referendum”. Non è stato un successo, ma neanche un fallimento: lo sciopero proclamato dalla magistratura associata lo scorso 16 maggio contro la riforma Cartabia - che ha registrato adesioni sotto il 50% - ha “centrato l’obiettivo” che era quello di “comunicare all’esterno” le ragioni delle nette critiche delle toghe al ddl tuttora al vaglio del Senato. Questa l’analisi svolta dai vertici dell’Anm - il presidente Giuseppe Santalucia e il segretario Salvatore Casciaro - in apertura della riunione del direttivo del sindacato delle toghe, la prima dopo la giornata di sciopero. “Non c’è stata l’adesione al 100% che tutti ci saremmo augurati, ma il dato è stato poi corretto, e dal 48% siamo intorno al 50%, un magistrato su due ha aderito”, sottolinea Santalucia. “Non c’è stata un’adesione massiccia - insiste Santalucia - ma è fortemente ingeneroso definirlo un flop. Con lo sciopero non volevamo creare disagi all’utenza, fare una protesta fine a se stessa, ma si è trattato di un tentativo di comunicare all’esterno e questo obiettivo è stato centrato. Potevamo avere di più, ma in base a questa finalità l’abbiamo raggiunto”. Quanto alle critiche interne, il presidente dell’Associazione magistrati risponde con un appello all’unità: “Mi sarei aspettato che il voto assembleare, che ha deliberato lo sciopero, fosse rispettato fino in fondo da chi partecipa alla vita associativa: bisognava scioperare, questo aveva voluto l’assemblea”, ha osservato Santalucia, secondo il quale “ora va rafforzato il passo, con la ricerca di una condivisa e sincera unità” tra le toghe. “Lo sciopero andava fatto - ha sottolineato poi Casciaro - questa è una scelta che va rivendicata”, replicando ad alcune critiche interne all’associazione che “l’Anm non è stata dormiente, finché si è potuto dialogare, finché si è coltivata la speranza che si trattasse di un ascolto reale, l’interlocuzione è andata avanti. Poi ci siamo mossi con assoluta tempestività”. Il presidente dell’Anm passa quindi alla riforma Cartabia, all’indomani della strigliata di Draghi ai partiti per accelerare i tempi. “Quello che stiamo vedendo con gli emendamenti proposti al Senato alla riforma è ciò che ci dà ragione - spiega Santalucia -. Se avevamo il timore fondato che c’era quel disegno di cambiare il volto costituzionale della magistratura gli emendamenti del Senato ne danno conferma”. “È contro questa degenerazione che dobbiamo trovare il coraggio di combattere democraticamente, fare di tutto per fare capire che abbiamo buone ragioni, diverse dalla difesa di interessi di categoria - sottolinea. È in gioco una determinata idea di giustizia, su questo ci stiamo spendendo”. Ma sulle proteste dei magistrati ha da dire anche il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Per il quale “c’è una parte della magistratura che sembra non riesca a leggere nei gravi fatti che si sono verificati la necessità di un cambiamento. Non si può ignorare la crisi della giustizia: è necessario ridare decisamente smalto a tutto il sistema”. “La riforma dell’ordinamento giudiziario in buona parte anticipa i temi referendari, benché non li esaurisca”, spiega Sisto. Ed è per questo che è importante andare a votare il 12 giugno: i quesiti sono “un importante passo avanti verso la ripresa dei principi costituzionali”. Giustizia, all’Anm non piace la riforma. Ma teme che arrivi tardi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 maggio 2022 “Nella riforma sentimenti di rivalsa verso toghe”. Più deboli dopo lo sciopero fallito, i magistrati vedono il rischio che il testo Cartabia possa persino peggiorare al Senato (dove si voterà dopo i referendum del 12 giugno). E vedono un pericolo anche nella falsa partenza dell’ufficio del processo. Dello sciopero non si parla nel documento approvato ieri sera dall’Associazione nazionale magistrati, che pure è tornata a riunire il comitato direttivo centrale per la prima volta dopo la deludente giornata di astensione dal lavoro del 16 maggio scorso. “Ha scioperato un magistrato su due”, ha ricordato il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, “non c’è stata un’adesione massiccia ma non credo sia stato un flop. Non volevamo fare una protesta fine a sé stessa ma un tentativo di comunicare all’esterno e questo obiettivo è stato centrato”. All’attacco solo la corrente-non corrente di Articolo 101 che chiede le dimissioni di tutto il comitato centrale (anche se a sentir loro gli scioperi avrebbero dovuto essere di più), critica la corrente di sinistra, Magistratura democratica, che subito aveva giudicato lo sciopero un azzardo. “Bisognerebbe ripartire con iniziative come gli stati generali della giustizia, giornate di ascolto e confronto, incontri pubblici dove leggere le sentenze innovative che hanno fatto avanzare il riconoscimento dei diritti nel nostro paese e che adesso rischiano di diventare merce rara”, ha detto Stefano Celli per Md. In realtà, a stare al documento con cui a fine aprile l’assemblea di tutte le toghe (quasi tutte per delega) aveva lanciato lo sciopero contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario voluta dal governo, in caso di mancato ascolto il vertice dell’Anm avrebbe dovuto valutare una nuova giornata di astensione. Visto il risultato deludente della prima, nessuno ci pensa più. Anche se l’Anm in qualche modo riconosce l’inefficacia della sua - pur estrema - iniziativa di protesta quando nel documento approvato ieri sera scrive che il disegno di legge in fase di approvazione al senato “sembra aprirsi a consistenti peggioramenti, come facilmente si può arguire dai contenuti di molti degli emendamenti presentati in sede referente al senato”. Come volevasi dimostrare, visti i rapporti di forza al senato, se il testo approvato alla camera si aprisse a modifiche queste non andrebbero affatto incontro alle richieste dei magistrati, ma nella direzione opposta. Solo il Pd, nella maggioranza, ha rispettato le consegne di non proporre emendamenti: Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Pietro Grasso per Leu ne hanno presentati meno di dieci a testa, Italia viva una novantina e la Lega una sessantina. In più ci sono un centinaio di emendamenti arrivati da Fratelli d’Italia, in totale oltre 260. La commissione giustizia del senato, oltretutto, si è bloccata e lungi dall’approvare definitivamente il provvedimento entro metà maggio, come voleva la ministra Cartabia che sperava di tenere le elezioni per il nuovo Csm con le nuove regole a scadenza naturale (luglio), porterà il testo in aula solo dopo che gli elettori saranno andati a votare (o a non votare) per i cinque referendum sulla giustizia (come da obiettivo della Lega). A questo punto l’Anm denuncia il rischio che si vada al rinnovo del Csm “con la legge elettorale in vigore, i cui vistosi difetti sono stati unanimemente riconosciuti”. In realtà è un’eventualità che si può escludere: si sposteranno probabilmente a settembre le elezioni. Ma i magistrati, con buoni argomenti, sono assai critici anche verso la nuova legge elettorale, quella di cui denunciano la ritardata adozione. Paradosso frutto del momento di grande debolezza dell’Anm. Che ieri ha deciso di avviare un monitoraggio sull’efficacia del nuovo ufficio del processo voluto nei tribunali dalla ministra Cartabia per accelerare le pratiche. La paura è che lo strumento si dimostri poco efficace, i tempi della giustizia diminuiscano meno degli obiettivi indicati nel Pnrr e la colpa ricada sui magistrati. Procure e tribunali, medici legali in fuga: tariffe ferme da 20 anni e onorari in ritardo di Gianni Santucci Corriere della Sera, 29 maggio 2022 Un’autopsia viene pagata 67,66 euro come nel 2002. L’ambito penale è abbandonato da quasi tutti i professionisti: “Così si crea una disaffezione dei giovani per il lavoro al servizio del pubblico”. Cristina Cattaneo, antropologa e patologa forense: “Servono riforme”. Un ladro ucciso mentre prova ad entrare in un appartamento. Anno 2014. Caso complesso. Gli accertamenti medico-legali (come quasi sempre accade) sono decisivi: autopsia, sopralluoghi, approfondita consulenza tecnica per il pubblico ministero (e intorno, una forte attenzione dell’opinione pubblica). Tralasciando la vicenda giudiziaria, è interessante oggi sapere come, e quanto, è stato liquidato il lavoro di quel professionista: 1.400 euro (ovviamente lordi), ma soprattutto pagati nel 2021. Basterebbe questo esempio per rendersi conto di quanto sia profonda la crisi che sta allontanando dalle Procure e dai Tribunali tutti i professionisti di maggior livello di cui la giustizia ha invece un bisogno sempre più massiccio. Pagati con onorari “indecorosi”. In più: pagati in ritardo, anche macroscopico. E, non di rado, coi compensi tagliati al momento della liquidazione. Nei mesi scorsi il Corriere si è occupato di informatici forensi, ingegneri, criminologi. Stessi problemi. L’ambito della medicina legale può avere però ricadute sociali ancora più pesanti. Basta valutare l’aspetto che ha minor rilevanza mediatica, ma che tocca invece un numero enorme di persone: e cioè tutte le controversie su contributi pubblici per invalidità o inabilità, gli infortuni sul lavoro. Se i professionisti chiamati a fare accertamenti su queste controversie sono superficiali, da una parte si può sprecare denaro pubblico, dall’altra si può rovinare una persona che avrebbe pieno diritto a un aiuto e non lo ottiene. “La medicina legale in questi ambiti ha riflessi sociali enormi”, riflette Carlo Bernabei, professionista che ha lavorato a lungo per studi legali e uffici giudiziari soprattutto a Milano, Como, Varese e Genova, su delitti, colpe mediche e risarcimenti. Il listino dei compensi - Tornando all’ambito penale, bisogna partire dal listino dei compensi, fermo al 2002: per l’autopsia, 67,66 euro; per l’autopsia su “cadavere esumato”, 96,58 euro; per una consulenza tecnica con “accertamenti medici, diagnostici, identificazione di agenti patogeni”, da 38,03, a 290,77 euro. Quando i lavori si prolungano (e si prolungano sempre, come è intuitivo) i pagamenti passano “a vacazione” (una vacazione equivale a due ore e viene liquidata con 8,15 euro (tariffa che Milano ha raddoppiato). “Anche per questo l’ambito penale è abbandonato da quasi tutti i professionisti. Chiediamo che siano rivisti gli onorari, non per diventare ricchi, ma per poter continuare a lavorare al servizio della giustizia con un compenso decoroso”, continua Bernabei. E Riccardo Zoja, direttore dell’Istituto di medicina legale della Statale e fino a pochi mesi fa presidente della Società italiana di medicina legale, analizza: “Nell’ambito della giustizia cercano tutti di fare miracoli ma le procedure burocratiche sono lentissime. Le tempistiche della retribuzione sono migliorate leggermente, ma arrivano oggi pagamenti del 2017: non è sostenibile. Oltre ai ritardi c’è anche il fatto che gli onorari sono fermi dal 2002. Una retribuzione iniqua rispetto all’impegno della prestazione. In questo contesto si crea una disaffezione dei giovani per il lavoro al servizio del pubblico. E anche i medici legali esperti svolgono per il pubblico le prestazioni solo su casi interessanti, ma devono compensare con quote crescenti di lavoro nel privato”. Abruzzo. Allarme sanitario nelle carceri per la scadenza gli incarichi degli Oss chietitoday.it, 29 maggio 2022 Il 31 maggio è l’ultimo giorno degli incarichi, ma al momento non è ancora chiaro se verranno prorogati. “Stringono i tempi per cercare di salvare il penitenziario di Sulmona in particolare e quelli abruzzesi in generale dal tracollo sanitario”. È l’allarme lanciato da Mauro Nardella, segretario organizzativo della Uil Pa. Il 31 maggio scadono, infatti, i tempi per rinnovare l’incarico agli operatori socio sanitari. E, come denuncia il sindacalista, non è ancora noto se i loro contratti saranno prorogati. “Ad ora - lamenta - nulla si sa circa il fatto se gli stessi potranno contribuire o meno a fare galleggiare una barca che fa acqua da tutte le parti. Eppure è stato più volte evidenziato e dimostrato che se il sistema sanitario penitenziario non è saltato, considerato il venir sempre meno del supporto dato in termini di presenza di professionisti del campo, è grazie a questa preziosa figura. Molte e tra le più disparate sono le prestazioni che rischiano di non essere più erogate a favore dei detenuti. Tutto questo i detenuti lo hanno capito tanto da aver anche loro, a quanto sembra, prodotto documenti in tal senso”. Nardella evidenzia che la situazione “preoccupa non solo chi in carcere vive per scontare una pena, ma anche chi è chiamato a svolgere la propria professione visto che un problema che si crea in carcere ne attira molti altri. La Uil ha fatto molto e continuerà a fare l’impossibile per evitare lo sfacelo che si sta presentando all’orizzonte. Noi lo stiamo rappresentando da molto tempo a chi, come nel caso dell’assessorato regionale alla sanità, è competente in materia. Rendere strutturale nei penitenziari questa figura è di vitale importanza”. Si dice concorde con quanto evidenziato da Nardella il garante dei detenuti Gianmarco Cifaldi che, dopo un lungo confronto, si è detto disponibile a farsi promotore di tutto quello che sarà necessario per rilanciare il valore della sanità penitenziaria, compresa la permanenza con conseguente strutturazione della figura dell’Oss. Viterbo. Pestaggi a Mammagialla, il Garante dei detenuti: “Sia fatta luce su ogni episodio” di Massimo Chiaravalli Il Messaggero, 29 maggio 2022 “Mi auguro che sia fatta piena luce su ogni episodio di pestaggio denunciato”. È partito tutto da lui, da Stefano Anastasia (nella foto durante un consiglio comunale a Viterbo), il garante dei detenuti. Tanto da essere “parzialmente informato dei fatti” poiché già ascoltato. Eccoli, i fatti: il gip del tribunale di Perugia, Valerio D’Andria, ha ordinato al pm di aprire un fascicolo per rifiuto di atti d’ufficio. Nel mirino c’è la Procura di Viterbo, sulla vicenda nata dal caso del ventenne egiziano Hassan Sharaf, morto suicida a Mammagialla il 30 luglio del 2018. A Perugia vogliono vederci chiaro: nella denuncia presentata dagli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano sono infatti riportati diversi casi di pestaggi ai danni del giovane, oltre a quelli sollevati dal garante. Violenze su cui c’è da approfondire, cosa che a Viterbo non è avvenuta. “Sapevo che erano in corso accertamenti - dice Anastasia - perché sono stato convocato dalla Procura generale di Perugia, che mi ha chiesto informazioni sugli esposti. La sollecitazione del gip a svolgere attività investigative? Mi sembra giusta e importante, perché nulla di quello che accade all’interno di un istituto penitenziario deve rimanere nell’ombra e incerto”. Il garante ha registrato i fatti e li ha segnalati alla Procura. “Sono denunce di maltrattamenti su alcuni detenuti - continua - parliamo di cose di quattro anni fa. A seguito del procedimento su Hassan Sharaf il gip ha escluso una responsabilità penale a carico di un magistrato (Franco Pacifici, ndr), va sottolineato, ma allo stesso tempo ha detto che i fatti rappresentati meritano di essere verificati”. Di quanti si tratta? “Mi pare siano 8 nell’arco di un anno e mezzo, 2018 e inizio 2019”. Non sono pochi, ma “ognuno è un caso a sé. Se la frequenza sia perché sono accaduti o perché in quel periodo i detenuti sono stati più solleciti a denunciare non lo so”. Il ragazzo egiziano a marzo 2018 sosteneva di essere stato maltrattato e diceva di aver paura di morire, a luglio è stato trovato impiccato in cella di isolamento alle sbarre della finestra. “C’è anche una relazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che, a seguito di una visita al carcere di Viterbo, ha segnalato al governo di aver ricevuto numerose denunce di maltrattamenti nei confronti di detenuti. Lo stesso comitato le giudica credibili. Sharaf e il suo compagno di stanza denunciavano le stesse cose”. Cosa auspica che accada ora? “Che su ognuno di questi casi, in particolare quelli più gravi come per Hassan Sharaf, si faccia piena luce. Mi auguro che da parte della magistratura viterbese e laziale, nel caso della Procura generale, ci sia la giusta attenzione. Perché la legittimazione dello Stato all’esercizio della pena detentiva si fonda sulla massima correttezza e il massimo rispetto delle persone detenute. Alla magistratura inquirente e a quella giudicante è riservato questo onere, che tutto sia fatto nel migliore dei modi - conclude Anastasia - assicurando la massima chiarezza sugli episodi denunciati”. Lecce. 10 condannati sconteranno la pena lavorando in oratorio di Francesco Oliva La Repubblica, 29 maggio 2022 “Un’alternativa al carcere che aiuta anche le famiglie”. Il progetto voluto da don Giuseppe Spedicato, parroco della chiesa Maria Santissima dell’Immacolata a Monteroni. Spiega la responsabile, Anna Pecora: “Le istanze per la messa alla prova sono già tante”. Attività di volontariato in oratorio per i condannati ai lavori di pubblica utilità o ammessi alla prova in un percorso di legalità finalizzato a ridurre il ricorso alla pena carceraria. A Monteroni, paese di 13mila e 600 abitanti in provincia di Lecce, la chiesa Maria Santissima Assunta accoglierà a breve 10 condannati (3 contemporaneamente) per un periodo di riabilitazione di almeno 6 mesi. Un obiettivo arrivato dopo che il parroco don Giuseppe Spedicato ha stipulato una convenzione tramite l’avvocata Anna Pecora con il ministero della Giustizia nella ferma convinzione di poter offrire a queste persone che hanno subìto una condanna la concreta possibilità di responsabilizzarsi e risocializzarsi. Una via alternativa per evitare il ricorso al carcere e consentire ai condannati di poter espiare la propria pena compiendo opere di bene verso il prossimo. I condannati utilizzeranno l’oratorio come banco di prova per comprendere se sono nelle condizioni di poter ritornare nella socialità. In base alle attitudini e alle competenze di ognuno verranno destinati a svolgere lavori differenti: attività di giardinaggio; sorveglianza e custodia del campetto da tennis; volontariato all’interno dell’oratorio. “Monteroni - spiega l’avvocata Anna Pecora, delegata e responsabile del progetto - annovera tante persone sottoposte alle messa alla prova e abbiamo così pensato di essere attivi nel percorso di reinserimento non solo del singolo soggetto ma anche delle loro famiglie. È indubbio infatti che a beneficiare di un simile trattamento siano anche tutti gli altri componenti del nucleo familiare del condannato con un passato, a volte, molto complicato”. Le richieste sono già tante ma in attesa della stipula della convenzione (che avrà una durata di 3 anni) non è stato possibile istruire le prime pratiche. “Le istanze - precisa l’avvocata - sono già tante e saranno vagliate valutando di volta in volta la compatibilità rispetto alle attitudini e elle mansioni”. Un traguardo divenuto disponibile grazie all’impegno e alla solerzia del parroco Giuseppe Spedicato “che - precisa la responsabile - ha dimostrato grande sensibilità rimettendo in piedi una struttura rimasta per anni in uno stato di totale abbandono”. Roma. Ergastolano ottiene la quarta laurea in trent’anni di reclusione di Biagio Valerio La Repubblica, 29 maggio 2022 Permesso speciale per discutere la tesi a Tor Vergata. Giuseppe Perrone protagonista negli anni 80 dell’ascesa della Sacra Corona in Salento, si è laureato in Editoria e Comunicazione. La tesi? “Gli abissi di una pena a partire da Primo Levi” e gli è valsa il massimo dei voti. Entra in carcere da ergastolano ma se ne uscirà, prima o poi, sarà da umanista e letterato. Giuseppe Perrone, da trent’anni rinchiuso in una cella, consegue la quarta laurea. Questa volta in presenza, nell’ateneo di Tor Vergata, grazie ad un permesso speciale per discutere la tesi che è stato rilasciato per la prima volta in assoluto nell’ateneo romano Perrone, che oggi ha 56 anni, è originario di Trepuzzi, grosso centro del nord di Lecce, e come diversi suoi conterranei si trovò ad essere protagonista, negli anni Ottanta, nel turbine che portò ad affermarsi la cosiddetta “quarta mafia”, la Sacra corona unita. Un momento storico spaventoso per le province salentine che diventarono teatro di una guerra di malavita con scontri quotidiani, caratterizzati da uccisioni e faide tra gruppi avversari, per l’affermarsi di una inedita, per il Salento, mentalità criminale. In questo scenario un uomo, in particolare, si afferma nell’area di Trepuzzi e si chiama Tonio Perrone, detto “l’Italiano”. Perrone, da studente universitario a Padova si trova invischiato nelle vicende della sua terra e assurge a ruolo di boss della zona. Ma ben presto la parabola decade e viene arrestato e condannato a 49 anni di carcere. “Fine pena mai”, dunque, come il film con Claudio Santamaria che nel 2008 viene presentato in tutta Italia e prende spunto esplicito proprio dal libro scritto da Tonio Perrone per Manni editore e che si intitola “Vista d’interni. Diario di carcere, di scuri e seghe, di trip e di sventure”, un viaggio lucido tra droga, traffici, musica e mare nei paesaggi assolati della provincia di Lecce. Tonio, infine, morirà a 64 anni nella sua Trepuzzi, a metà di dicembre del 2021, pochi mesi fa. Un percorso che agli occhi degli osservatori appare parallelo, per molti versi, è quello del fratello Giuseppe, classe 1966. Anche lui viene invischiato in vicende criminali e, soprattutto, in un omicidio di uno studente modello di terza liceo di Brindisi, che viene scambiato per un killer e freddato da una serie di colpi di arma da fuoco a Casalabate, alla viglia del ferragosto del ‘92. Per quel delitto alcuni collaboratori di giustizia indicarono, come esecutore materiale, proprio il giovane Giuseppe Perrone che si professerà, sempre e continuamente, innocente. Invocando lo scambio di persona perché in quel periodo un affiliato alla Scu circolava nelle marine leccesi con una automobile dai colori sgargianti, del tutto identica alla sua. Ma il verdetto non cambia e Perrone entra in carcere il 23 gennaio 1993 per non uscirci più: isola di Pianosa, San Gimignano e altri trasferimenti in diverse carceri italiane. Una vicenda giudiziaria intricata, composta come un puzzle da controverse dichiarazioni dei pentiti e da richieste di revisioni dei processi che non hanno cambiato il corso degli eventi: Perrone è passato, in trent’anni, da un carcere all’altro e in ognuno ha lasciato il suo segno. Con quattro lauree conseguite e alcuni esami sostenuti pure nella Facoltà di teologia a Parma. Perrone, infatti, si è laureato prima in Dams, poi in Discipline teatrali, infine in Lettere a Bologna e l’ultima laurea conseguita, quella di pochi giorni fa, in Editoria, Informazione e Comunicazione a Roma Tor Vergata. La tesi? Specialistica, ovviamente, e dettata dalla dura esperienza della reclusione, “Gli abissi di una pena a partire da Primo Levi”, che gli è valsa il massimo dei voti. Un evento unico e non solo per questo. Dopo oltre due anni trascorsi per le restrizioni del Covid, infatti, Perrone ha potuto stringere la mano alla moglie, Sonia Reale, che non ha mai smesso di credere nell’innocenza del marito e al piccolo figlio di soli sei anni, arrivato grazie alle tecniche di fecondazione assistita. Cosenza. Il teatro come anelito di libertà, l’esperienza del carcere Cosmai di Enrica Riera Quotidiano del Sud, 29 maggio 2022 Dietro le quinte del nuovo spettacolo che Adamo prepara con i detenuti: In scena il riadattamento de “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Sebastiano Panepinto, 40 anni, di Napoli, ha ancora nella mente le immagini della rivolta a cui a marzo scorso, nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid, ha assistito nel carcere di Poggioreale. “Ero arrivato da appena due giorni e da appena due giorni mi trovavo a condividere la cella con altri undici detenuti. Poi il caos, un migliaio di persone, per via delle condizioni a cui erano da tempo costrette hanno dato fuoco a qualsiasi cosa si trovassero davanti”, racconta l’uomo, ora all’interno della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza dove è stato trasferito. È qui, nella struttura detentiva diretta da Maria Luisa Mendicino, che “Il Quotidiano del Sud” è entrato e lo ha conosciuto, insieme agli altri ristretti che da febbraio partecipano (grazie pure al Dap e al Prap) alla quarta edizione del progetto di teatro - intitolato “Amore sbarrato” e realizzato dall’attore e regista Adolfo Adamo - che, come di consueto, culminerà, probabilmente nel mese di ottobre, in un vero e proprio spettacolo al teatro “Alfonso Rendano”. Quando questo giornale fa ingresso nel carcere della città bruzia Sebastiano e i suoi compagni stanno per l’appunto prendendo parte alle prove di quella che sarà la futura rappresentazione. Nella sala comune ci sono Sandro Maestro, 69 anni, di Cosenza, l’unico ad aver già recitato nell’ambito di “Amore sbarrato”; Nicola Fazzari, 34, di Reggio Calabria; Mario Trilli, 51, di Cosenza; Michele De Vuono, 40, di Cosenza; Silvano Ritiro, 32, di Sibari; Damiano Pardera, 37, di Vibo Valentia; Andrea Bevilacqua, 39, di Cosenza e Carlo Migliori, 35, sempre di Cosenza. Ma, in realtà, è di ben venticinque reclusi il cast messo insieme da Adamo. “Questo pomeriggio - dice il regista - come accade spesso, non riusciamo a essere al completo: qualcuno magari è a processo, qualcun altro a colloquio col proprio avvocato o con la propria famiglia”. Fatto sta che non è un martedì come tutti gli altri, qui in media sicurezza (il giovedì è invece dedicato alle prove dei detenuti di alta sicurezza). Si tratta, infatti, del pomeriggio del teatro, “dove - spiega Nicola - per qualche ora possiamo viaggiare con la mente, incontrare Adolfo che ormai è diventato per noi un amico che ci guarda senza pregiudizio, scoprire cosa significhi avere una passione”. I fogli che i detenuti hanno con sé sono poi quelli del copione di “Hic et Nunc”: questa la denominazione della futura rappresentazione di Adamo, liberamente ispirata al romanzo di Dino Buzzati “Il deserto dei tartari”. “L’abbiamo letto tutti insieme il volume - spiega ancora il regista - e ci siamo concentrati sul concetto di attesa, rendendoci conto di come Giovanni Drogo aspetti la morte, mentre noi la vita”. Ecco, dunque, la potenza del teatro, di quell’arte che quando la conosci ti fa sembrare la cella una prigione. “Tramite il mio progetto - prosegue Adamo - si punta alla vera rieducazione del recluso, alla sua risocializzazione, a quello che può essere il reinserimento lavorativo nella società. I ragazzi - afferma -, con la cultura, possono davvero andare incontro a un’opportunità di crescita, oltre ad accendere il faro dell’autostima”. Lo conferma pure Mario: “Magari, una volta uscito da qui, quello dell’attore potrebbe diventare un mestiere e poi è sicuramente un modo per rendere orgogliose le nostre famiglie”. E, ancora, Nicola: “Si tratta di una maniera per prepararci all’esterno, anche se forse l’esterno non è preparato a noi”. Nelle oltre due ore di laboratorio, oltre a parlare pure di quella che sarà la scenografia, con l’elemento portante di un orologio senza lancette, si affronta il discorso del carcere, inteso come istituzione, e della posizione di chi si batte appassionatamente per la tutela di diritti e prerogative di chi è sottoposto alla risposta sanzionatoria dello Stato, senza avallare però l’abolizione del sistema carcerario tout court. Noi stessi - dicono all’unisono i carcerati - non siamo pronti per eliminare il carcere dalla società, vorremmo tuttavia che il reinserimento fosse effettivo, l’umanizzazione della pena, conservare la nostra dignità”. Perché sì, chi si trova in stato di detenzione conserva sempre un residuo della sua libertà, ultimo brandello in cui può espandersi il proprio “io”. “Lo abbiamo capito facendo teatro - dice a questo proposito Andrea - Abituati a un tempo senza tempo, al limbo delle nostre celle, ci sentiamo liberi quando recitiamo”. Da qui l’idea del maestro Adamo, il cui progetto è in cantiere per la casa di reclusione di Rossano, di mettere su una compagnia di teatro stabile nel carcere di Cosenza. Un po’ come ha fatto Armando Punzo a Volterra dando vita alla Compagnia della Fortezza. “Le basi ci sono tutte, se pensiamo del resto al fatto che un ex detenuto ha voluto, nonostante stia fuori, prendere parte anche a questo prossimo spettacolo dove, per la prima volta, reciteranno e reciteranno insieme detenuti di alta e media sicurezza - conclude Adamo. Realizzare una compagnia stabile è un atto politico, significa dire al mondo che il teatro non è solo passione, ma una possibilità di vita”. Capire quel che si legge e non lavorare gratis: è ora di ripensare il sistema istruzione di Lirio Abbate L’Espresso, 29 maggio 2022 Troppi studenti hanno difficoltà nella comprensione di un testo scritto. E l’alternanza scuola-lavoro spesso diventa una forma di sfruttamento. Per quale motivo molti studenti italiani hanno difficoltà nella comprensione di un testo? Chi ha la responsabilità di questa tendenza preoccupante che riguarda ormai almeno il 40 per cento degli allievi? Tra gli addetti ai lavori, in particolare tra gli insegnanti, c’è la convinzione che le “colpe” siano esterne alla scuola: il dato emerge da conteggi automatici di una ricerca svolta in rete nei giorni scorsi da “La tecnica della scuola”, alla quale hanno partecipato circa millequattrocento persone, prevalentemente docenti, a seguire i genitori, dal quale risulta sotto accusa l’operato degli ultimi governi, del ministero dell’Istruzione e della politica in generale. Le istituzioni responsabili della scuola sarebbero colpevoli soprattutto delle pessime riforme, secondo quanto espresso dai lettori, introdotte più per tagliare fondi che per migliorare la didattica. Riforme definite di volta in volta scellerate, devastanti, fallimentari. Questo è oggi il mondo della scuola e degli studenti al quale si aggiunge l’ex alternanza scuola lavoro, che a volte copre una forma mascherata di sfruttamento. La formazione deve diventare un diritto permanente, non solo mentre si studia. Ci sono esperienze in questo ambito che lasciano gli studenti soddisfatti. Purtroppo, non sempre i progetti sono pensati “a misura di studente”. Ci sono alcuni elementi che aumentano il tasso di soddisfazione: coerenza con gli studi, sicurezza, la possibilità di misurarsi con attività pratiche in reali luoghi lavorativi senza smart working, la presenza di una figura che li segua durante le attività. Però la sicurezza deve essere maggiore, e bisogna distinguere tra formazione e orientamento. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi intervenuto la scorsa settimana in commissione congiunta Affari Costituzionali-Cultura al Senato, ha detto: “Abbiamo avuto degli incidenti molto gravi in questo periodo in cui sono rimasti coinvolti ragazzi. Si è parlato di ex alternanza scuola-lavoro, ma tutti e tre gli incidenti riguardavano la formazione professionale, impartita dalle Regioni. Dobbiamo iniziare a considerare anche questo pezzo di formazione come parte del sistema nazionale della formazione e quindi dobbiamo anche garantire le stesse condizioni di sicurezza a tutti”. Ecco, garantire la sicurezza, ma evitare anche lo sfruttamento del lavoro. A tutto ciò si aggiunge una modifica sostanziale del decreto scuola, più risorse per il contratto, lo stralcio di tutte le parti che sono oggetto di contrattazione, nuovo percorso di abilitazione e stabilizzazione del rapporto di lavoro dei precari con 36 mesi di servizio: sono le richieste avanzate dai sindacati alla base dello sciopero del 30 maggio. “Lo scorso anno abbiamo sottoscritto un patto ma gli impegni assunti dal ministro dell’Istruzione sono rimasti in gran parte lettera morta”, hanno detto i sindacati, che lamentano la mancanza di confronto con il governo e chiedono più risorse e investimenti. Si va adesso verso la chiusura delle lezioni, accompagnata dai problemi segnalati dagli studenti, le criticità sottolineate dai docenti e le preoccupazioni dei precari. Il ministero dell’Istruzione ha tutto il tempo per attuare i programmi e i progetti di riforma per una buona scuola. La vergogna senza fine degli studenti sfruttati in nome dell’apprendimento di Chiara Sgreccia L’Espresso, 29 maggio 2022 Tuttofare gratis senza controlli e garanzie. E poche prospettive per il futuro occupazionale. Così l’alternanza scuola-lavoro è diventata un’occasione mancata e rischiosa. Più operai da sfruttare a costo zero che apprendisti. I piani di alternanza scuola-lavoro, con il bollettino di inadeguatezze quotidiane e grandi disgrazie, due morti e un ferito grave nei primi mesi del 2022, dimostrano quanta distanza corra tra gli annunci e la realizzazione concreta. Da un lato un mercato del lavoro asfittico che punta più sui risparmi gestionali che sulla modernizzazione. Dall’altro, la scuola, incapace di innovarsi non tanto per mancanza di idee, quanto di fondi. Sorda alle richieste che gli studenti hanno gridato dalla maggior parte delle piazze del Paese. Per segnalare le carenze del sistema scolastico e la sua incapacità di rispondere alle necessità di chi lo vive tutti i giorni. Per denunciare le condizioni inammissibili con cui nella prassi si svolgono i percorsi di alternanza scuola-lavoro: scarsa formazione, scarsa sicurezza, scarso monitoraggio. Che hanno portato alla morte di due studenti: Lorenzo, 18 anni, schiacciato da una putrella durante il suo ultimo giorno di tirocinio a Udine; Giuseppe, 16 anni, vittima di un incidente stradale mentre svolgeva lo stage per una ditta termoidraulica a Fermo. Un mesto elenco a cui va aggiunto il caso di uno studente diciassettenne ricoverato venerdì 20 maggio in condizioni gravi perché rimasto ustionato a causa di un ritorno di fiamma all’interno di un’officina a Merano. “La scuola dovrebbe gettare le basi per una concezione del lavoro che sia retribuito, gratificante, sicuro, consapevole. E invece la mancanza di tutele e l’assenza di diritti degli studenti nei Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto) costruisce un modello di istruzione sempre più vicino alle necessità delle aziende in cui veniamo svenduti come carne da macello. Per questo chiediamo la sospensione dei progetti di Pcto che hanno mostrato apertamente il loro volto di sfruttamento e la subalternità delle scuole alle aziende”. Così scrivevano, dopo la morte di Lorenzo Parelli, gli studenti della Lupa, il movimento nato per coordinare le attività dei singoli collettivi studenteschi a Roma. Ma nonostante le proteste, i cortei, gli scioperi e le occupazioni iniziati nel 2021 e proseguiti nel 2022, nonostante le dichiarazioni dei ministri dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, e del Lavoro, Andrea Orlando, secondo cui sarebbe stato fondamentale “mandare i ragazzi a formarsi in luoghi dove lo standard sia ancora più elevato di quello previsto dalla legge”, niente è ancora cambiato. Mercoledì scorso, in audizione in Senato sulle misure di attuazione del Pnrr, il ministro Bianchi ha provato un sottile distinguo: “Abbiamo avuto alcuni incidenti gravi, anche in questi giorni, si è parlato di alternanza scuola-lavoro ma tutti e tre gli incidenti riguardavano la formazione professionale che concerne le Regioni: la verità è che vanno garantite le stesse condizioni di sicurezza in tutto il sistema della formazione. Dobbiamo dare eguale dignità a tutti i percorsi educativi, sono parte di un unico sistema di formazione”. Questo perché sotto il grande cappello che comunemente viene chiamata “alternanza” convivono due sistemi: gli stage per chi frequenta gli istituti che fanno parte del sistema regionale di istruzione e formazione professionale e i Pcto per le altre scuole secondarie di II° grado statali. L’equivoco nasce dal fatto che al momento dell’introduzione, con la riforma Moratti nel 2003, quelli che adesso si chiamano Pcto erano denominati “alternanza”, diventata obbligatoria con la riforma della “buona scuola” del governo Renzi, nel 2015. Ha preso il nome di Pcto nel 2019, da quando, con la legge di Bilancio, è stato ridotto il monte ore (90 ore per i licei, 150 per i tecnici e 210 per i professionali) necessario per rendere valido il percorso. Nel Paese in cui nel 2021 ci sono stati tre morti al giorno sul lavoro, 126 donne e 1095 uomini, “è importante ricordare che il pericolo per gli studenti durante le esperienze nelle aziende è ancora più alto. Perché non parliamo di lavoratori professionalizzati ma di chi ha meno consapevolezza dei rischi a cui potrebbe andare incontro”, spiega Raffaele Fabozzi, professore di Diritto del lavoro all’università Luiss. “Per questo è fondamentale che venga fatta formazione anche prima di entrare in azienda. Che i Pcto siano coerenti con i reali interessi e le inclinazioni dello studente. Che le imprese selezionate siano certificate. Che l’attività venga costantemente monitorata sia dal tutor aziendale sia da quello scolastico”. Mentre quello che succede troppe volte durante l’alternanza scuola-lavoro è lo sfruttamento di manodopera. “L’ho vissuto sulla mia pelle”, racconta Mattia Boselli, studente al quinto anno di un istituto tecnico industriale in provincia di Parma, che ha da poco concluso il suo percorso in un laboratorio chimico di analisi. “In poche parole, ho lavorato senza essere stato pagato. Per il 95 per cento del tempo ho svolto mansioni lunghe e ripetitive, utili all’azienda, mentre la parte di formazione è stata quasi nulla. In più, nel mio caso le condizioni di sicurezza erano buone ma parlando con altri ragazzi, visto che sono rappresentante di istituto, ho capito che non per tutti è stato così”. Secondo Boselli l’esperienza sarebbe stata molto più formativa e sicura se la scuola avesse avuto attrezzature e laboratori a disposizione degli studenti. “Così avrei potuto mettere in pratica le conoscenze apprese in classe, procedere per tentativi e sbagliare. Fuori dall’ottica del profitto che regola l’azienda”. Invece, i soldi per la scuola sono sempre meno. Tagli e mancati investimenti che incidono su spazi e strumenti che gli istituti possono offrire. Con ricadute negative sull’impegno e la voglia di fare del personale docente. “L’aumento delle spese militari rischia di pesare sulle risorse che il nostro Paese dedica all’istruzione, che sono già al di sotto della media europea. Mentre, dall’altro lato, i fondi che negli ultimi anni sono stati dedicati ai Pcto hanno rafforzato un modello di scuola sempre più nelle mani dei privati, che piega la formazione ai loro interessi”, sottolinea Lorenzo Lang del Fronte della gioventù comunista. Per Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil scuola, “i Pcto rappresentano un problema proprio per come sono stati concepiti. Perché la loro obbligatorietà porta le scuole a rincorrere le aziende e non a selezionarle con cura, per la qualità. Imprese che non sono capaci di fare formazione ai dipendenti possono accogliere gli studenti? In più, ogni professione dovrebbe richiedere un tipo di formazione diversa, con specifiche e durata proprie, mentre i Pcto, così come sono ora, perdono la loro natura che dovrebbe essere didattica e diventano maschere per rapporti di lavoro subordinato o parasubordinato gratuito”. Perché è un pessimo inizio formare i giovani per un lavoro, non pagandoli per nulla. E destinandoli a compiti che hanno poco a che fare con l’apprendimento e molto con le necessità delle aziende. Così la pensa anche Federico Bernardini, presidente della consulta di Torino. “Gli studenti continuano a rischiare la vita in luoghi di lavoro non sicuri dove invece dell’apprendimento viene favorito lo sfruttamento. Noi lo stiamo dicendo ma il problema è che nessuno ci ascolta: le istituzioni continuano a rinviare il confronto con gli studenti. L’unico che ci considera è il ministero dell’Interno”. Bernardini conclude con una battuta amara, riferendosi al fatto che la Digos di Torino sta dando esecuzione a undici misure cautelari nei confronti dei partecipanti alla manifestazione contro Confindustria dello scorso 18 febbraio. “Ci hanno detto bravi quando siamo scesi in piazza per chiedere più sicurezza ma appena abbiamo alzato la voce è iniziata la repressione”, dice Cristian Morgante, lo studente dell’IIS Pirelli di Roma che era stato sospeso per 16 giorni dopo l’occupazione della scuola. “È davvero brutto che alla fine rimanga sempre tutto com’era”. Eppure, nonostante il rifiuto da parte delle istituzioni di aprire un dialogo costruttivo, gli studenti non si scoraggiano e continuano a fare la loro parte rivendicando una crescita economica del Paese più sostenibile, inclusiva e dignitosa. A partire dalla scuola. “Noi, braccianti ora liberi dal giogo del caporalato” di Karima Moual La Repubblica, 29 maggio 2022 Nel ghetto di Rignano Garganico, in Puglia, gravitano 1.300 persone l’anno. I fondatori della cooperativa: “Questo è un ponte di approdo per chi non ha nulla. Perché non cadano nelle braccia dei caporali, facciamo noi da intermediari, gestendo anche i contratti”. Cosa puoi fare quando non sei più una persona ma solo due braccia da sfruttare? Quando hai rischiato la morte per arrivare in un Paese, col sogno di una vita decente, e invece ti svegli in un luogo dove le tue competenze e ambizioni non contano niente perché sei solo braccia e mani; mani d’oro da sfruttare. La storia che vi raccontiamo in questo nuovo viaggio di “Vite ai margini” è ambientata nei campi agricoli della Puglia. È la storia di uomini che, partendo dalle loro mani, e dal più sfruttato dei lavori, quello del bracciante, provano a rompere le catene dello sfruttamento, lo schiavismo del caporalato. Un fenomeno diffuso capillarmente in Italia ma che colpisce soprattutto le persone più vulnerabili, cittadini italiani ma anche, soprattutto, extra comunitari, preferibilmente irregolari, che vengono impiegati illegalmente nel settore agricolo. Sono più di 400 mila le vittime del caporalato, che si traducono in un danno per il Paese quantificabile in oltre 600 milioni di euro. Una cifra enorme, ma è ancora più raccapricciante il fatto che sia visibile anche a occhio nudo lo sfruttamento, con quei corpi che a macchia d’olio si muovono da Nord a Sud della penisola, durante tutto l’anno per le varie raccolte stagionali, svegliati all’alba, ammassati sui furgoncini dei caporali, poi sui campi a spaccarsi la schiena per ritirarsi a sera in baracche di lamiera che ricordano immagini lontane. Di nazioni povere, che vivono nel sottosviluppo o nella guerra, ma che in realtà sono una brutta istantanea scattata nel nostro Paese, nel cuore dell’Europa. Un’illegalità visibile e minacciosa - Nel ghetto di Rignano Garganico, ad esempio, durante l’anno gravitano 1.300 persone, 500 delle quali sono fisse. Al suo interno vive e matura un’illegalità visibile e minacciosa. È un inferno a cielo aperto, dove caporalato, prostituzione, malavita e droga hanno trovato casa. “Non avrei mai pensato che dall’Africa sarei arrivato in Puglia per fare ... la rivoluzione. È esattamente quello che ci è toccato fare per liberarci dallo schiavismo che vivevamo tutti i giorni nei campi agricoli schiacciati dal caporalato”. Latyr Faye, arrivato dal Senegal nel 2007 con tanti sogni nella valigia, si è trovato di fronte a una realtà da incubo. Ad accoglierlo in Italia c’era solo sfruttamento. Per lui come per tanti altri. Uomini stranieri, neri, africani e maledettamente soli, obbligati a combattere per sopravvivere in quello che dovrebbe essere il Paese dei diritti. Mentre oggi Latyr Faye si racconta dietro una scrivania e un pc, è difficile pensare che solo qualche anno fa quest’uomo elegante, con i colori degli abiti scelti accuratamente, era chino nei campi di pomodoro a riempire più casse possibili per riuscire ad arrivare almeno a 20 euro a giornata dopo più di dodici ore sotto il sole. In Senegal, invece, lavorava in un’agenzia immobiliare. “Sono stato schiavo, e non mi vergogno a dirlo. Ma lo schiavo che non si ribella, merita le sue catene”. Oggi è presidente di Casa Sankara, organizzazione di volontariato nata nel 2016 per continuare il lavoro avviato quattro anni prima in modo informale da un gruppo di migranti impegnati nella creazione di una realtà alternativa, dove poter vivere e progettare un percorso legale e dignitoso di inserimento economico e sociale. Una ‘casa’ per uscire dalla rete dello sfruttamento - Alcuni di quei braccianti, invisibili e sfruttati, si sono rimboccati le maniche per liberarsi. Da qualche anno gestiscono l’azienda agricola Fortore, in agro di San Severo, in concessione della Regione Puglia. Qui, negli anni, sono riusciti ad accogliere centinaia di migranti. E oggi la struttura è dotata di una foresteria che ospita più di 400 persone. Prefabbricati con quattro letti, aria condizionata, un frigorifero e un tavolo. “Certo - non è un hotel a cinque stelle - spiega Mbaye Ndiaye, uno dei fondatori di Casa Sankara, anche lui uscito dalla rete dello sfruttamento - ma almeno qui i lavoratori trovano un posto dignitoso quando tornano dalla fatica giornaliera. Questa casa è un ponte di approdo per chi non ha nulla. Perché non cadano nelle braccia dei caporali, facciamo noi da intermediari tra i braccianti e i datori di lavoro, gestendo anche i contratti”. Far conoscere i propri diritti - Spezzare il legame tra i caporali, e lo sfruttamento di molti braccianti africani è complicato, mi spiegano. Alcuni non sanno nemmeno di essere sfruttati. Un po’ per cultura, un po’ per fragilità. Tanti non conoscono i loro diritti e sono abituati a lavori di un giorno con pagamento in contante. Non conoscono i contributi e i diritti. C’è dunque tutto un lavoro di sensibilizzazione e integrazione da fare a monte. Lamine Gueye, anche lui con anni di sfruttamento sulle spalle, oggi dalla sua piccola stanza mi fa vedere sul telefono le foto della moglie e dei figli rimasti in Africa. La figlia già laureata, la seconda che ancora deve finire gli studi e il maschio che ha deciso di fare lo stilista. Tutti sulle sue spalle. E tutti i mesi lui manda loro metà dello stipendio, così come fatto gli altri braccianti. Mbaye è orgoglioso di mostrare i faldoni che tira fuori dall’armadio, con tutti i documenti e i contratti dei lavoratori che sono in foresteria. La sua emozione è palpabile quando tocca le tessere, le foto con data di nascita, luogo, contributi. Chi dal Ghana e chi dal Senegal, o dal Burkina Faso. “Ci sono almeno 30 nazionalità qui”, spiega. Poi, un filo di commozione nella sua voce, di chi sente di essere arrivato a tanto ma con fatica. “Tutto questo, ha dato tanto fastidio. Abbiamo rotto un pezzetto di sistema mafioso, che frutta molto. Mi sono arrivate minacce di morte, pallottole a casa e qui nella sede, telefonate anonime, intimidazioni, fili del motore della mia macchina manomessi. Mi hanno anche proposto la scorta, ma ho rifiutato”. Gli occhi grandi di Mbaye improvvisamente si fanno lucidi. Ha paura? “Io ho la fede, e chi ha fede non ha paura della morte. Se vogliono ammazzarmi lo facciano pure. Da noi si dice che ci sono due cose che uno non può dare al suo prossimo: la morte e la fortuna”. In Africa la crisi alimentare viene da lontano di Andrea Spinelli Barrile Il Manifesto, 29 maggio 2022 Caro pane. La siccità, il cambiamento climatico, l’insicurezza, la pandemia e, oggi, il conflitto russo-ucraino, che ha chiuso l’ultimo canale cerealicolo, sta portando il continente sull’orlo del baratro. Secondo Oxfam le persone che soffrono la fame aumenteranno a 38 milioni entro la fine di giugno. La scorsa settimana il sindacato dei fornai del Burkina Faso ha indetto una serrata in segno di protesta contro il blocco imposto dal governo sugli aumenti del prezzo del pane. In Burkina Faso una baguette da 200 grammi costa 150 franchi Cfa (circa 0,23 euro), un prezzo calmierato e uguale per tutti gli esercenti. Con il recente aumento del costo del grano d’importazione i prezzi all’ingrosso sono lievitati e gli artigiani non riescono più a fare fronte ai costi. Il sindacato dei fornai aveva deciso unilateralmente di aumentare il prezzo del pane, da 150 a 200 franchi (circa 0,30 euro) per ogni baguette, facendo montare una polemica enorme sui giornali e tra le associazioni di consumatori. Il governo di Ouagadougou, due giorni dopo, ha deciso di bloccare gli aumenti con un decreto legge, imposizione che ha portato i fornai a dichiarare uno sciopero per giovedì 26 maggio: “Siamo tra l’incudine e il martello: a monte il prezzo delle materie prime continua a salire e a valle abbiamo un decreto che fissa il prezzo del pane a 150 franchi. O aumentiamo i prezzi o chiudiamo i negozi” ha dichiarato a LeFaso Nina Sori, segretaria generale della federazione dei fornai. Giovedì mattina, la gendarmeria ha riaperto con la forza le panetterie e costretto i fornai non solo a tornare al lavoro ma a continuare a vendere il pane al prezzo di prima. Da settimane i fornai e il ministero del Commercio burkinabé discutono dell’impennata dei prezzi delle materie prime e dei modi per mitigarla ma, almeno fino ad ora, la soluzione sembra non esistere. Localmente, il prezzo del grano per tonnellata è salito in meno di due mesi da 350.000 franchi Cfa (531 euro circa) a 505.000 franchi (760 euro) ed è interessante comparare questi prezzi con quelli attuali del mercato europeo, dove il grano è attualmente ai suoi massimi storici: 438 euro la tonnellata. Il doppio di un anno fa ma, comunque, considerevolmente più basso che nei paesi più poveri. La crisi del pane in Burkina Faso è solo una delle tante, su uno dei tanti prodotti di importazione. L’Africa, un continente tanto ricco di materie prime quanto privo di capacità di trasformazione, potrebbe presto essere travolta dagli effetti collaterali della crisi in Europa occidentale. In Africa il blocco delle esportazioni di grano ha provocato un aumento medio dei prezzi del 60%: la Banca africana di sviluppo (AfDB) ha approvato un piano da 1,5 miliardi per contrastare la crisi alimentare in corso e quella in arrivo, quantificando in 30 milioni di tonnellate la carenza di cibo attuale, tra mais, grano e soia. In Togo il prezzo della baguette prima della guerra in Ucraina era di 100 franchi (0,15 euro), salito a 125, poi a 150 e oggi è sui 200 franchi (0,30 euro), sempre che ve ne sia disponibilità, cosa non scontata. Dallo scoppio del conflitto russo-ucraino la farina di frumento immessa nel mercato togolese è meno di un terzo rispetto a un anno fa e sull’approvvigionamento la decisione di esentare l’Iva per diversi prodotti importati (come grano o latte) semplicemente non funziona. I prezzi alimentari globali erano già in aumento per via dell’interruzione delle catene di approvvigionamento dovute alla pandemia. La guerra ha rimescolato ulteriormente le carte: con il valore del mercato azionario delle materie prime agricole globali in forte aumento, questa improvvisa carenza di grano in un’economia già gonfiata incide negativamente sulla sicurezza alimentare in molti paesi in via di sviluppo come Egitto, Sudan e Kenya. Secondo un documento della Fao tra giugno e agosto più di 19 milioni di cittadini nigeriani si troveranno a fronteggiare una crisi alimentare. 14,4 milioni stanno già soffrendo la fame, l’anno scorso erano 8-9 milioni in meno. Il banditismo sempre più diffuso, il terrorismo islamista che rosicchia porzioni di territorio allo stato federale, la crisi dei carburanti e l’aumento del prezzo delle importazioni di cibo sono tutte concause all’imminente crisi in quella che è uno dei Paesi più popolosi e complessi del continente, che a febbraio andrà a elezioni. Secondo Oxfam l’Africa occidentale è colpita dalla peggiore crisi alimentare degli ultimi dieci anni: già all’inizio di aprile le persone che soffrivano la fame erano quantificate in 27 milioni, un numero che è destinato inesorabilmente ad aumentare fino a 38 milioni di persone entro la fine di giugno. Non è una crisi di oggi: tra il 2015 e il 2022, con il deteriorarsi della sicurezza in Burkina Faso, Niger, Ciad, Mali e Nigeria il numero di persone bisognose di assistenza alimentare è quasi quadruplicato, da 7 a 27 milioni. Negli ultimi cinque anni i prezzi dei generi alimentari sono cresciuti mediamente del 20-30% e la produzione agricola nel Sahel si è ridotta fino a quasi sparire (solo nell’ultimo anno di circa il 33%) complici la siccità, il cambiamento climatico, l’insicurezza, la pandemia e, oggi, il conflitto russo-ucraino, che ha chiuso l’ultimo canale cerealicolo da cui si approvvigionavano governi e popolazioni di questi Paesi, oggi sull’orlo del baratro. L’embargo del grano deciso dall’India il 17 maggio, sulla falsariga dell’embargo dei vaccini durante la pandemia, non potrà che peggiorare le cose. Di soluzioni africane a questa crisi ce ne sono già ma sono troppo parziali e non sufficienti per tutti: in molti paesi i consumatori si convertono a miglio, polenta, manioca e sorgo per sopperire alla mancanza o al prezzo stellare della farina di grano e in occasione del Fesma del 10 maggio scorso, il Festival della gastronomia africana tenutosi nella capitale togolese, molti chef hanno elargito consigli su come ridurre il contenuto di farina di frumento nelle ricette del 20-25%, sostituendolo con altre farine come la manioca o il sorgo e ottenendo prodotti di qualità nutrizionale invariata. Altri sforzi sono in atto sul come sostituire le farine più care o introvabili con altre più tradizionali di cui si è perso l’uso, come ad esempio la farina di fonio. L’Egitto, un paese da 102 milioni di abitanti che è anche il più grande importatore di grano del mondo, sta preparando diversi progetti per frenare le importazioni e produrre localmente materie prime e cibo ma l’orizzonte temporale è al 2030 mentre la fame si fa già sentire. Nel 2021 il Paese ha importato 8 miliardi di dollari di grano, mais e soia, principalmente dall’Ucraina. L’Algeria, diversamente, importa il suo grano dalla Russia e non sembra subire gravi ripercussioni sulle importazioni. Restando in Nord Africa, il Marocco invece ha gravi problemi climatici legati alla desertificazione, alla siccità e all’innalzamento del livello dell’oceano Atlantico e non ha la possibilità di sopperire alle carenze delle importazioni con la produzione interna. O, almeno, non da subito. Stati Uniti. La democrazia del mitragliatore di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 29 maggio 2022 Negli Stati Uniti, nonostante le stragi, esiste ancora una minoranza capace di sconfiggere, nelle primarie, qualsiasi candidato che chieda controlli sulle armi. Il blog/forum Italians, da cui questa rubrica prende il nome, ha quasi ventiquattro anni. Quando siamo apparsi su Corriere.it, nel 1998, il nome “blog” ancora non esisteva. Italians è stato un social prima dei social. Un social sano. Ho appena conosciuto la dirigente di una grande azienda farmaceutica, che frequentava Italians a diciassette anni, quand’era studentessa negli Stati Uniti. Molte amicizie e qualche assunzione sono nate così, mi ha raccontato. Oggi il blog è modernariato digitale, ma riporta ancora testimonianze interessanti. Come quella di don Stefano Colombo, da molto tempo negli Usa: “Dopo il massacro in Texas, la scuola dove insegno ha messo a disposizione counselors per gli studenti. Io ho offerto la messa quotidiana per le vittime e le loro famiglie (anche per l’aggressore, perché così Gesù ci ha insegnato). Non molti ragazzi hanno partecipato. Ci si abitua a tutto: alla guerra in Ucraina, alle sparatorie tra gang a Chicago e Baltimora, agli school shootings, alle stragi nei cinema, nelle chiese, nelle sinagoghe, nelle moschee o al supermarket, come giorni fa a Buffalo”. Prosegue don Stefano: “Un articolo della Costituzione sancisce il diritto a detenere armi. Viene dalla Guerra di Indipendenza, quando la cittadinanza organizzata in una “ben regolata milizia” riuscì a opporsi alla Corona britannica. È un marchio d’onore e di identità per gli americani, ci piaccia o no (...). Molti reagiscono alle stragi in modo brutalmente semplice: comprano più armi perché - come s’è visto in Texas - la polizia arriva tardi ed è meglio potersi difendere da soli. A questo punto il circolo si chiude. Possiamo romperlo?”. Risposta: sì, il cerchio si può interrompere. Basta volerlo. I democratici sono contrari all’estrema facilità con cui chiunque si può procurare un’arma semiautomatica (un’idiozia, indegna di una nazione pensante). Appellarsi a una norma del 1791 è grottesco: la Corte Suprema dovrebbe intervenire. Anche tanti elettori repubblicani ne sono convinti, ma esiste una minoranza capace di sconfiggere, nelle primarie, qualsiasi candidato che chieda controlli sulle armi. È su costoro che bisogna lavorare. Poiché si dichiarano religiosi e credenti, la Chiesa può far molto. Domanda: lo fa? Iran. Djalali è ancora vivo ma il boia è vicino. Ipotesi di scambio con detenuti iraniani di Farian Sabahi Il Manifesto, 29 maggio 2022 Il ricercatore svedese avrebbe dovuto essere giustiziato il 21 maggio, ma è tutto sospeso. Si spera nell’intervento delle diplomazie europee. Esecuzioni in aumento nella Repubblica islamica: dalle 246 del 2020 alle 314 del 2021, il 42% per droga. L’impiccagione del ricercatore iraniano Ahmad Reza Djalali era prevista entro la fine del mese di Ordibehesht del calendario persiano, ovvero entro il 21 maggio. “Quella data è passata ed è finito un incubo, ma ne è subito iniziato un altro perché già sappiamo che la magistratura di Teheran ha terminato la procedura di revisione del suo caso e il cappio del boia potrebbe stringersi ben presto attorno al collo del ricercatore universitario”, commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte, “dal 2017 in Iran si è registrato un aumento delle condanne capitali: si è passati da almeno 246 esecuzioni nel 2020 ad almeno 314 nel 2021, con un aumento percentuale del 28%. Il dato è il più alto registrato nel paese dal 2017. La parte più consistente di queste esecuzioni (42%) è costituita da esecuzioni di condannati a morte per reati di droga (132 in totale), il cui ammontare è cresciuto più di cinque volte rispetto al 2020”. Quella di Djalali è però tutta un’altra storia. Nato cinquant’anni fa nella località di Sarab nella regione iraniana dell’Azerbaigian, Ahmad Reza Djalali è specializzato in medicina di emergenza e ha svolto ricerca in diversi istituti europei tra cui l’Università degli Studi del Piemonte orientale, il centro Crimedim di Novara, la Vrije Universiteit di Bruxelles e l’Istituto Karolinska di Solna, a pochi chilometri da Stoccolma. Era stato arrestato nel 2016 mentre si trovava in Iran su invito dell’Università di Teheran e Shiraz. Sotto tortura, aveva confessato di essere una spia al soldo dello Stato ebraico e di aver indicato al Mossad due scienziati nucleari, poi uccisi nel 2010. Nel gennaio 2017 era stato trasferito nella sezione 15 del tribunale rivoluzionario di Teheran con l’accusa di spionaggio. Senza avvocato, al quale era stato impedito di presenziare alle udienze, nell’ottobre dello stesso anno il ricercatore era stato incarcerato nella prigione di Evin e condannato a morte per impiccagione con l’accusa di “corruzione sulla terra”. Dopodiché, nel luglio 2019 era stato trasferito in un luogo ignoto in attesa della condanna capitale. In questi anni sono stati numerosi gli appelli a favore di Djalali. Si è anche ipotizzato uno scambio con un detenuto iraniano, Hamid Nouri, che un tribunale svedese potrebbe condannare all’ergastolo il prossimo 14 luglio anche se nega ogni capo d’accusa e dice trattarsi di un caso di omonimia. Si tratterebbe di un ex funzionario della magistratura iraniana, arrestato nel 2019 all’aeroporto di Stoccolma e recentemente sotto processo in Svezia per il suo presunto coinvolgimento nell’esecuzione di massa di dissidenti negli anni Ottanta nelle carceri iraniane. Il portavoce della magistratura di Teheran, Massoud Setayeshi, ha però escluso l’ipotesi di uno scambio di prigionieri: “Non c’è alcun piano per scambiare Nouri con Djalali e quest’ultimo verrà giustiziato a tempo debito”. In Italia il caso di Djalali è noto perché il ricercatore iraniano aveva lavorato all’Università del Piemonte orientale, a Novara, dove non si erano però concretizzare opportunità. Si era trasferito in Svezia, che nel 2018 gli ha concesso la cittadinanza. Durante la presidenza del moderato Rohani, il ministro degli Esteri svedese Ann Linde aveva chiesto al suo omologo Javad Zarif di intercedere, ma il portavoce del ministero di Teheran aveva risposto: “Sfortunatamente, le informazioni a disposizione delle autorità svedesi sul caso di Djalali sono incomplete e false”. In ogni caso, ha aggiunto, “la magistratura è indipendente dall’esecutivo”. In carcere, Djalali ha acquisito la cittadinanza svedese, ma dal punto di vista legale vale ben poco: l’Iran non riconosce la doppia cittadinanza. Di pari passo, non serve granché la cittadinanza onoraria conferita dal Comune di Novara, dopo che Djalali era detenuto nelle carceri iraniane da tre anni. Secondo Noury, “ora la palla passa alla diplomazia europea, in particolare a quella dei Paesi in cui Djalali ha lavorato: Italia, Belgio e Svezia. Ad avere un ruolo prioritario saranno Bruxelles e Stoccolma, perché nelle loro carceri ci sono prigionieri iraniani che gli ayatollah e i pasdaran vorrebbero liberare. Da anni l’Iran arresta iraniani che hanno acquisito una seconda cittadinanza europea, con l’obiettivo di scambiarli con altri iraniani detenuti nel vecchio continente. Questa strategia è inaccettabile, le persone non possono diventare pedine”. Egitto. Scioperi e mobilitazioni diplomatiche per l’attivista che fa paura al Cairo di Laura Cappon Il Domani, 29 maggio 2022 Alaa Abdel Fattah è in sciopero della fame da 58 giorni contro l’accanimento dei carcerieri egiziani Il trasferimento lo ha portato dalla “repressione in stile medievale a una più moderna”, dice la madre. Lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah, blogger e simbolo della rivoluzione egiziana, arriva anche in Italia. L’attivista ha smesso di mangiare da 58 giorni, in protesta contro le condizioni di detenzione, definite “disumane” dalla sua famiglia, a cui è sottoposto dal 2019. Un gesto estremo, che dopo l’appello fatto da diversi parlamentari nel Regno Unito e negli Stati Uniti sta mobilitando anche la società civile italiana. Ieri Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha dato il via a uno sciopero a staffetta annunciato alcuni giorni fa su Twitter. “Abbiamo pensato che un piccolo gesto di solidarietà, ossia stare almeno un giorno nelle condizioni di Alaa, sarebbe servito a perorare la sua causa”, dice Noury. Le adesioni da parte di cittadini e associazioni iniziano ad arrivare, mentre la madre dell’attivista, Laila Soueif, ha parlato mercoledì scorso in videoconferenza al Comitato permanente sui diritti umani della Camera e ha denunciato un accanimento contro di lui da parte delle autorità carcerarie, nel penitenziario di Tora al Cairo. Per più di due anni, infatti, Alaa non ha avuto diritto a carta e penna, libri, ora d’aria e nemmeno a un orologio. Le condizioni in carcere - Dall’inizio dello sciopero della fame, il regime egiziano ha fatto alcune piccole concessioni. Il 18 maggio Alaa è stato trasferito dal penitenziario di Tora al carcere di Wadi el Natrun, mentre giovedì scorso le autorità carcerarie gli hanno permesso di ricevere alcuni libri e le sue amate copie di Topolino portate dalla madre. Ma resta ancora senza l’ora d’aria e in una cella, sorvegliata 24 ore su 24, in cui non è possibile spegnere la luce. “È passato dalla repressione in stile medievale del carcere di Tora a una repressione più moderna. Ci sono le telecamere che lo controllano tutto il giorno e ha un sistema di comunicazione diretto con le guardie che al momento sembrano essere persino gentili”, dice con una punta di sarcasmo la madre dell’attivista. “Ci ha scritto una lunga lettera, dice che al momento continua lo sciopero. Beve solo acqua e latte con un po’ di zucchero, sono circa 100 calorie al giorno”, continua. “Non si fermerà sino a quando non otterrà tutte le sue richieste, compreso l’incontro con le autorità consolari britanniche”. La diplomazia di Londra è coinvolta in maniera diretta nel caso dallo scorso aprile. Dieci giorni dopo l’inizio del digiuno volontario, infatti, l’attivista ha preso la cittadinanza del Regno Unito proprio grazie alla madre, nata a Londra nel 1956. Pressione internazionale - Il nuovo passaporto è l’ennesimo tentativo dell’attivista di dare una svolta alla sua vicenda giudiziaria che lo ha portato a trascorrere sette anni di carcere negli ultimi suoi otto anni di vita. L’ultimo arresto risale al 2019, poi il 20 dicembre del 2021 è arrivata la condanna a 5 anni di carcere per diffusione di notizie false dal tribunale per i reati minori di New Cairo. Una sentenza inappellabile perché emessa secondo il rito previsto dallo stato di emergenza. Secondo il triste copione che il sistema giudiziario egiziano segue sulle decine di migliaia di detenuti di coscienza, chi riceve una pena definitiva non ha quasi alcuna via di uscita se non quella di chiedere l’annullamento del processo. Così, negli ultimi anni, alcuni attivisti con doppia cittadinanza, sfruttando un decreto presidenziale del 2014, hanno ritrovato la libertà rinunciando al passaporto egiziano. Se Alaa vorrà seguire questa strada non è ancora certo. Quello che chiede ora, insieme alla sua famiglia, è pressione diplomatica. “Sono convinta che la mobilitazione dei paesi occidentali abbia giocato un ruolo fondamentale nel far trasferire mio figlio in un altro penitenziario ma ora serve qualcosa di più”, dice Soueif. “Egitto e Gran Bretagna sono in ottimi rapporti, quindi dovremmo aspettarci che le richieste di Londra su mio figlio vengano accettate dal governo del Cairo”. Che il regime egiziano, impegnato da diversi mesi in una nuova operazione di recupero della credibilità sui diritti umani, stia cercando di dare un segnale alla comunità internazionale è un dato di fatto. Ora cerca di farlo anche con gli attivisti di punta della rivoluzione contro i quali, sino a ora, non aveva mai allentato la morsa della repressione. Soprattutto con Alaa, definito ormai il Gramsci d’Egitto, fonte di ispirazione per una generazione di attivisti, non solo egiziani. Il suo libro, Non siete stati ancora sconfitti, una raccolta di scritti dal carcere, è stato pubblicato in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti e presto arriverà in Germania. “Il regime egiziano ha paura di Alaa. Nonostante sia costantemente privato della sua libertà personale, da più di dieci anni trasmette messaggi di cambiamento sulla democrazia e sui diritti umani”, spiega Noury. “Credo soprattutto che i palazzi del potere del Cairo stiano iniziando a temere la mobilitazione che c’è intorno a lui. E questo sta succedendo grazie anche al suo libro, che sta arrivando nei luoghi di cultura più importanti del mondo, e sta facendo diventare il suo caso una campagna globale”. Afghanistan. Il Relatore speciale dell’Onu: i talebani mirano a rendere le donne invisibili di Marjana Sadat La Repubblica, 29 maggio 2022 L’allarme lanciato da Richard Bennett. Le adolescenti non possono andare a scuola, la maggior parte delle impiegate è stata licenziata e nessuna donna può viaggiare se non è accompagnata da un tutore maschio. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, durante la sua visita a Kabul ha affermato che l’obiettivo finale dei talebani è quello di rendere le donne invisibili nella società e ha espresso la sua preoccupazione per le notizie non confermate di abusi nei confronti dei civili. Richard Bennett, che ha iniziato a visitare l’Afghanistan per indagare sulla situazione umanitaria del Paese, giovedì ha affermato che i talebani impongono restrizioni alle donne per renderle “invisibili”. Da quando hanno ripreso il potere a metà agosto del 2021, i talebani stanno cercando di imporre restrizioni alle donne per diffondere la loro interpretazione dell’Islam. Le adolescenti non possono andare a scuola, la maggior parte delle impiegate è stata licenziata e nessuna donna può viaggiare se non è accompagnata da un tutore maschio. Il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, ha recentemente ordinato che le donne si coprano il volto negli spazi pubblici, preferibilmente indossando il burqa. Il decreto dei talebani impone inoltre che le donne rimangano a casa, a meno che non abbiano importanti commissioni da sbrigare. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite ha dichiarato ai giornalisti che le politiche messe in atto dai talebani sono l’esempio di un’assoluta discriminazione di genere e vengono applicate per renderle “invisibili”. “Le autorità de facto non hanno riconosciuto l’entità e la gravità degli abusi commessi, molti dei quali a loro nome”, ha dichiarato Bennett. Mentre Bennett rendeva pubbliche queste osservazioni, le milizie talebane reprimevano la protesta delle donne a Kabul che chiedevano la riapertura delle scuole medie e superiori. “Le milizie talebane erano arrabbiate, sono arrivate e ci hanno disperso”, ha detto all’agenzia France Press Munisa Mubariz, un’organizzatrice della manifestazione. I governi stranieri hanno sottolineato che l’eventuale riconoscimento dei talebani dipende dal loro comportamento nei confronti dei diritti umani, in particolare delle donne. Negli ultimi vent’anni, le donne e le ragazze afghane hanno ottenuto molte conquiste, ma oggi in gran parte le stanno perdendo di nuovo. Ecuador. Ola Bini, un caso anomalo della giustizia di Davide Matrone Il Manifesto, 29 maggio 2022 La storia dell’informatico svedese che vive in Ecuador: è stato arrestato ed è sotto processo soprattutto perché amico di Julian Assange. Il caso Julian Assange è tornato alla ribalta lo scorso 20 aprile quando le autorità giudiziarie britanniche hanno concesso il via libera all’estradizione del giornalista australiano verso gli Stati Uniti. Il suo è fra i più controversi casi della giustizia contemporanea e coinvolge diverse persone “intrappolate” in una persecuzione giudiziaria e mediatica senza precedenti: chi ha lavorato con WikiLeaks e/o è amico di Assange è infatti sottoposto a pressioni di ogni genere. Tra questi, c’è l’informatico svedese Ola Bini che vive in Ecuador dal 2013 e si definisce un difensore del software libero e della privacy. Bini e Assange sono amici da lungo tempo e si sono incontrati almeno dieci volte all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, durante l’esilio del giornalista, dal 2012 al 2019. La storia giudiziaria di entrambi è profondamente intrecciata. Nello stesso giorno, ossia l’11 aprile del 2019, in cui il governo di Lenín Moreno ha negato l’asilo politico ad Assange (che poi sarà arrestato in Inghilterra), Ola Bini finisce detenuto a Quito. Le autorità ecuadoregne hanno perquisito la sede del Centro di autonomia digitale (Cad) diretto da Ola Bini, a Quito. Il Cad è un’organizzazione senza fine di lucro fondata nel 2017 nella città di São Paulo in Brasile con l’obiettivo di sviluppare strumenti per la protezione della privacy per utenti del mondo della cibernetica. Nel 2019 venne aperta una sede nella capitale dell’Ecuador e Bini ne perse le redini. Ad aiutarci a sbrogliare la matassa, è il giornalista ecuadoregno, Diego Cazar Baquero, al timone della rivista digitale La Barra Espaciadora, che da anni si interessa al caso. Cosa sta succedendo nuovamente all’informatico Bini? Seguo la sua storia giudiziaria sin dall’inizio e sto scrivendo un libro. La sua storia può riassumersi in un processo di politicizzazione della giustizia dal momento dell’espulsione di Julian Assange dall’ambasciata dell’Ecuador, a Londra. L’allora governo di Lenín Moreno approfittò della situazione, attraverso la ministra degli interni María Paula Romo, per allontanare Assange e poi far arrestare il cittadino e programmatore svedese Ola Bini, associandolo al primo per la loro amicizia. Alle 10 dell’11 aprile del 2019, la ministra Romo durante una conferenza stampa dichiarò: “Da vari anni vive in Ecuador uno dei membri chiave dell’organizzazione WikiLeaks, una persona molto vicina a Julian Assange. Abbiamo prove sufficienti che abbia collaborato in tentativi di destabilizzazione contro il governo. Inoltre, abbiamo dati ed ubicazione che verranno consegnati alla magistratura di due hacker russi che vivono in Ecuador”. Durante l’incontro, la ministra non nominò mai Bini, tuttavia gli agenti della polizia erano tutti indirizzati verso il programmatore svedese che intanto si stava dirigendo all’aeroporto di Quito (doveva andare in Giappone per un allenamento di arti marziali). La sua detenzione - che scattò quel giorno stesso - non fu sostanziata da nessun ordine giudiziario. Di qui in avanti, cominciarono una serie di irregolarità. Uno degli elementi principali controversi è stata una chiamata anonima al “1800 delitto” (servizio pubblico della polizia dell’Ecuador) in cui si dichiarava che l’hacker russo Ola Bini - menzionato nella conferenza stampa dalla ministra Paula Romo - stava scappando dal paese. Tutto questo era parte di una grande menzogna e assai incongruente. La ministra non aveva mai nominato Ola Bini, tanto meno detto che fosse in fuga. In più, la registrazione di quella telefonata è scomparsa: le autorità della polizia hanno dichiarato che i registratori si erano danneggiati proprio in quel momento della giornata. A questo si aggiunse il cambiamento dei capi d’imputazione a Bini. Dopo essere stato accusato per aver attaccato un sistema informatico, nel giro di quattro mesi si riformulò tutto: accesso non consentito al sistema di comunicazione Cnt (Corporazione nazionale di telecomunicazioni). Con questa accusa cominciò la prima udienza del processo nel mese di gennaio di quest’anno, cioè un anno e otto mesi dopo l’arresto. Da allora, si è registrata un’interruzione (la seconda udienza era prevista a metà maggio). Ola Bini, a tal proposito, ha confidato alla Cnn spagnola che “tutto è stato fin qui molto frustrante. È già trascorso troppo tempo. Questo ritardo dimostra che il governo ha avuto paura di andare avanti in quanto non ha nessuna prova reale e di nessun tipo contro di me”. Quali sono le prove dell’accusa? In quella prima udienza si presentarono le prove della magistratura - che non provavano nulla, realmente. Si mostrarono alcune foto dell’aeroporto come se fosse il luogo del fatto. Inoltre, si è cominciato un processo giudiziario contro una persona senza che ci fossero prove concrete e ciò rappresenta una violazione del giusto processo. Per andare ancora più a fondo, la prova che ha dato origine al caso giudiziario - la chiamata telefonica - non esiste. Dopo tre anni, il processo continua senza la presenza di “fatti”. Ora la decisione resterà al Tribunale che emetterà una sentenza. In definitiva, si vuole accusare Ola Bini di un delitto informatico con una prova documentale non informatica, bensì una fotografia. L’avvocato della sua difesa ha affermato anche che non c’è nessuna verifica da parte del governo e delle autorità dell’Ecuador che stabilisca una relazione criminale tra Ola Bini e Julian Assange. Qual è stata la reazione rispetto al caso? Oltre cento organizzazioni a livello internazionale hanno manifestato la loro contrarietà contro le irregolarità del processo, tra queste la Cidh (Commissione interamericana dei diritti umani) guidata dall’avvocato colombiano Pedro Vaca, l’Ufficio del relatore speciale per la Libertà d’espressione dell’Onu e dell’Oea (Organizzazione degli stati americani), l’organizzazione spagnola Electronic Frontier Fondation, l’Organizzazione statunitense Accessnow e Amnesty International, tra le altre. Lo stesso governo svedese, sebbene sia stato tiepido fino ad adesso, ha inviato una serie di comunicati sottoponendoli all’attenzione del ministro degli esteri dell’Ecuador: la richiesta è che si rispetti il giusto processo del caso.