Carceri: Come ti costruisco una bufala, e come faccio abboccare giornalisti e politici di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2022 Ma possibile che nessuno si sia insospettito, leggendo gli articoli che hanno inondato il web sulle “casette dell’amore” per i detenuti? Eppure va bene che siamo abituati, sui temi delle pene e del carcere, a un giornalismo privo di scrupoli, che agisce senza controlli perché tanto i soggetti coinvolti sono soggetti con nessun potere e nessuna voce, ma i segnali di bufala erano inequivocabili: la fonte intanto era sempre la stessa, il quotidiano La Verità, e poi la descrizione del progetto e il pensare che il governo fosse così folle da presentarsi con questo biglietto da visita ai cittadini DOVEVANO far sorgere dei dubbi nel lettore, cito testualmente “Le strutture dovranno ospitare detenuti in regime di carcerazione duro e che quindi non possano godere di permessi premio, fino a un massimo di 24 ore consecutive al mese per fare sesso con la propria consorte, fidanzata, amante”. Ma qualcuno davvero può immaginare la ministra Cartabia e il premier Draghi che stanziano 28 milioni di euro per le amanti dei detenuti condannati al carcere duro? E allora le cose come stanno? Stanno che la Regione Toscana ha presentato nel 2020 un disegno di legge sull’affettività delle persone detenute e, spiega il Ministero della Giustizia in un Comunicato, “nello scorso mese di marzo la 5a commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al ministero della Giustizia tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione”. I tecnici del Ministero, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento, ma il Ministero “non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare”. Questa vicenda merita però di essere approfondita: * è possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche di notizie, che apparivano veramente sconclusionate al limite del ridicolo? Il fatto è che siamo abituati, nel nostro Paese, a ridicolizzare nel modo più triste e squallido quello che ha a che fare con gli affetti e con la sessualità delle persone detenute, e riteniamo lecito dire qualsiasi schifezza in materia, a partire dalla solita definizione di “celle a luci rosse”, mentre negli altri Paesi, evidentemente più civili del nostro, si pensa a fare leggi sensate e si capisce che in carcere ci stanno persone, che come tali vanno trattate; * è possibile che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non siano riusciti a fare una comunicazione attenta, tempestiva, precisa, esauriente su questa vicenda? Ci candidiamo allora, con la nostra Rassegna Stampa quotidiana, Ristretti News, a fare noi questo lavoro, e magari a essere riconosciuti e sostenuti, perché sappiamo che tanta parte dell’Amministrazione Penitenziaria legge il nostro Notiziario, e sappiamo anche che per sopravvivere dobbiamo fare i salti mortali; * dirigo Ristretti Orizzonti, un giornale di giornalisti detenuti “dilettanti”, e che per giunta, se sono finiti in carcere, è perché spesso nella vita non si sono distinti per il rispetto delle regole, quindi gli dovrei poter portare come esempio i professionisti dell’informazione che fanno questo mestiere da anni, e invece spesso succede il contrario, che siamo noi che stiamo molto più attenti di loro alle parole, ai contenuti, al rispetto dei lettori. Rispetto dei lettori significa rispetto dei lettori “liberi”, e noi lo abbiamo perché le persone in carcere sanno mettersi in discussione, confrontarsi con le vittime, assumersi le loro responsabilità, e rispetto dei lettori detenuti e delle loro famiglie, che in tutta questa storia si sono visti trattati con disprezzo, volgarità, miserabili bugie. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Carceri. Dap: “Su spazi per affettività nessuna iniziativa ministeriale” Agi, 28 maggio 2022 In merito a “notizie di stampa relative all’ipotesi di costruzione di spazi da dedicare alle relazioni familiari e affettive negli istituti penitenziari, si precisa che si tratta di una iniziativa di legge promossa dal Consiglio della Regione Toscana e risalente al 2020”. Così fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Nello scorso mese di marzo - spiegano - la 5a commissione del Senato (Bilancio) “ha richiesto al ministero della Giustizia” tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento “una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione. I tecnici di via Arenula, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento; hanno rappresentato la necessità di differirne la realizzazione nel tempo e, in ogni caso, di non intaccare i fondi già stanziati per l’edilizia penitenziaria, destinataria di plurimi interventi”. Il ministero “non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare. Allo stesso tempo, già dalla lettura della proposta di legge si evince come l’accesso a tali strutture sia incompatibile con il regime del 41bis, che presuppone rigidi controlli anche durante i colloqui”, affermano le fonti Dap. Tenere viva la fiaccola per l’affettività in carcere di Cesare Burdese* Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2022 Mi accingo a riordinare le mie idee in tema di affettività in carcere: sono stato invitato a parlare di questo al Convegno organizzato dalla Camera Penale di Padova, che in quella città si terrà il prossimo 31 maggio. Per una strana coincidenza della sorte, proprio in questi giorni il tema è balzato all’onore della cronaca dopo le notizie di stampa relative all’ipotesi di costruzione di spazi da dedicare alle relazioni familiari e affettive negli istituti penitenziari. Erroneamente peraltro molta stampa nazionale riporta con molto scalpore dello “sblocco da parte dei ministeri della Giustizia e dell’Economia di 28,3 milioni di euro necessari per allestire “moduli abitativi” all’interno di una casa circondariale in ogni regione” e di concedere la possibilità di rapporti sessuali anche ai detenuti del 41bis. In realtà - come da fonti DAP - non si tratta di una iniziativa ministeriale ma bensì di una iniziativa di legge promossa dal Consiglio della regione Toscana e risalente al 2020; nello scorso mese di marzo la 5° commissione del Senato (Bilancio) “ha richiesto al ministero della Giustizia, tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento, una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione” dei suddetti spazi. I tecnici di via Arenula, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento; hanno rappresentato la necessità di differirne la realizzazione nel tempo e, in ogni caso, di non intaccare i fondi già stanziati per l’edilizia penitenziaria, destinataria di plurimi interventi. Il ministero non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare. “Allo stesso tempo, già dalla lettura della proposta di legge si evince come l’accesso a tali strutture sia incompatibile con il regime del 41bis, che presuppone rigidi controlli anche durante i colloqui”, affermano le fonti DAP. Sulle pagine dei quotidiani nazionali si è aperto il dibattito, si fa per dire. “Una misura che permette ai detenuti di avere uno spazio a luci rosse (“casetta dell’amore”) dove ospitare partner o amanti occasionali e soddisfare i propri desideri sessuali” per alcuni, il rispetto del diritto costituzionale delle “relazioni affettive dei detenuti” per altri. Sono avvilito ed amareggiato mentre riguardo le pagine di un numero di Life del 1941 che illustra positivamente la cronaca, con tanto di immagini, dell’incontro con la propria consorte, per una intera giornata, di un detenuto nel Penitenziario di Città del Messico. Ritorno sulla stampa nazionale contemporanea - molta come sottolineato imprecisa ed abborracciata nella notizia - che illustra l’arretratezza che contraddistingue nei fatti, il nostro paese in tema di esecuzione penale ed ancora prima come stato di diritto; è anche l’immagine deprimente di una nazione composta di “bande” che si fronteggiano, piuttosto che di “classi” deputate a governare ed amministrare consapevolmente un paese. Esporre i contenuti di chi svilisce e strumentalizza e di chi al contrario esalta e argomenta, per quanto mi riguarda diventerebbe un esercizio stucchevole e scontato. Ho progettato negli anni spazi detentivi per l’affettività (dove le mamme detenute possono vivere con i loro bambini in tenera età, dove le famiglie in carcere possono ricongiungersi per qualche momento di normalità nonostante il carcere, dove fare sesso con il proprio partner, dove ricevere assistenza insieme con i propri bambini in attesa di entrare in carcere per una visita con un proprio caro...), ho partecipato ai tavoli tecnici ministeriali che nell’ultimo decennio hanno indicato soluzioni per ridurre il solco che separa il nostro carcere ideale (quello della Costituzione) da quello reale (quello del sovraffollamento, delle strutture fatiscenti, dell’ozio, delle violenze…), ho visto quanto succede all’estero. Ho avuto la soddisfazione di vedere concretizzate - almeno con la realizzazione dell’opera progettata - le istanze costituzionali e l’affermazione dei principi rispettosi della dignità della persona umana, che a vario titolo sperimenta il carcere. Di contro ho verificato di persona i limiti dei tavoli tecnici e delle commissioni ministeriali - per lo più “vuoti a perdere”, dove le rinunce - esclusivamente per logiche elettorali - prevalgono rispetto all’affermazione di delibere operative contrarie. I miei amici, profondi conoscitori del carcere e dell’”universo” che gli gravita intorno, certamente più consapevoli di me, tratteggiano per il nostro carcere una via senza ritorno, al punto di un loro disimpegno e di rinuncia al dibattito. Non condivido quelle posizioni perché la rinuncia non mi è congeniale e perché continuo a credere nel valore degli ideali e del libero pensiero, e che l’umanità, nonostante tutto, meriti attenzione. Tanto più leggo sui giornali dell’affettività in carcere ridotta all’atto di “scopare” e assisto a rinunce per puro calcolo elettorale (mi riferisco in questo caso ai recenti naufragi dei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale e della “Commissione Giostra”), tanto più si rafforza in me la convinzione del valore di tenere vivo un pensiero e di non disdegnare nessuna occasione per affermarlo e tramandarlo. *Architetto A tempo debito di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2022 Ha fatto notizia la decisione assunta lo scorso 20 maggio dal Presidente di Sezione del Tribunale di Torino, con la quale è stata rigettata l’istanza avanzata dai difensori di parte civile di anticipazione del dibattimento (la cui prima udienza è stata fissata al 4 luglio 2023!) a carico di 22 imputati di vari reati (tra questi, il delitto di tortura in danno di persone ristrette). In realtà la notizia è emersa nuda e cruda, sostanzialmente nel silenzio generale; le sole voci, quella di Lorenzo Guadagnucci, protagonista suo malgrado dei fatti della Diaz, ed il bel documento di Magistratura democratica (“a margine di un processo per tortura”). Rem tene, verba sequentur. “Queste registrazioni vengono rese note solo quattro anni dopo i fatti, con una tempistica che rende estremamente ardua la ricostruzione di quanto avvenuto”. Questo un passaggio della richiesta di archiviazione avanzata nel 2015 dal PM di Parma, nota (agli addetti ai lavori) per essere stata accompagnata dalla incredibile considerazione che le affermazioni della persona offesa in quel caso (“in carcere comandiamo noi, non esistono né avvocati né giudici”) “paiono più essere delle lezioni di vita carceraria che la guardia sta impartendo al detenuto che delle minacce o delle affermazioni di supremazia assoluta e di negazione dei diritti”. Il reato di tortura era ancora un miraggio nel nostro Ordinamento. Dal 2017 l’unico delitto costituzionalmente necessario, ex art.13 Cost., è finalmente legge dello Stato, sia pur introdotto solo per effetto delle condanne inflitte dalla Cedu nei confronti del nostro Paese, dopo la vergogna del G8 genovese. Da allora, come un fiume in piena, che rompe gli argini e si fa strada, diverse vicende processuali sono al vaglio dei Tribunali, come ricordato nell’ultimo rapporto di Antigone. Qualcosa sembra cambiato; lo Stato si costituisce finalmente in giudizio (laddove in precedenza si era sostenuto che la mattanza di Santa Maria Capua a Vetere era stata un’operazione di “ripristino della legalità”), e i processi vengono celebrati. E però; il processo relativo agli episodi di tortura, falso, lesioni, omissioni di atti di ufficio e altro, in corso davanti al Tribunale di Siena, è cominciato ad aprile 2020 (l’udienza preliminare). Dopo una prima condanna per cinque poliziotti che hanno scelto il rito abbreviato, l’istruttoria dibattimentale è in pieno svolgimento, ma non è ragionevole prevedere che si arrivi a sentenza prima del 2023. I fatti sono del 2018. Santa Maria Capua a Vetere, “la settimana santa” del 2020, pieno lockdown. Cominciata a dicembre del 2021 l’udienza preliminare, un vero e proprio maxi processo (a centinaia e centinaia nell’aula bunker del carcere Francesco Uccella, tra imputati, parti offese e avvocati), non è dato sapere quando il Gup deciderà sul più grave episodio di tortura contestato a pubblici ufficiali nel nostro Paese. Poiché tutti i 108 imputati (salvo due) non hanno avanzato richieste di riti alternativi, se venisse disposto il rinvio a giudizio è ragionevole ritenere che il dibattimento durerà degli anni, dovendosi peraltro sentire i detenuti, non essendosi svolto l’incidente probatorio. Altri processi sono in corso. E così torniamo a Torino. “Ragioni tabellari” vengono considerate prevalenti sul rappresentato rischio di prescrizione di alcuni reati satellite (ma di certo molto gravi) rispetto al delitto di tortura, ritenendosi difettare fattori di eccezionale gravità tali da determinare un trattamento preferenziale rispetto ad altri processi. In disparte la questione della prescrizione, ha fatto bene l’esecutivo di Magistratura democratica a stigmatizzare la decisione assunta, attesa la gravità delle accuse elevate (ovviamente tutte da provare le responsabilità dei singoli) che “in sé costituisce un giustificato motivo per disporre l’anticipazione dell’udienza”, ed ha colto nel segno nel rilevare come gli imputati, le persone offese, lo Stato, abbiano tutti un interesse ad ottenere in tempi ragionevoli una parola di Giustizia, per evitare quella “economia di diritti sospesi” di cui ci ha parlato Foucault a proposito del castigo. Però la tortura ancora non scuote le coscienze; dal tabù innominabile che era, oggi si può nominare, ma si tende a rimuoverla. Difficile raccontarla, difficile mostrarla, difficile provarla; la vittima è quasi sempre ribelle, fastidiosa, irregolare, e il tempo della pena fa i conti anche con questi aspetti. Eppure la Corte dei Diritti ricorda di continuo agli Stati gli obblighi positivi in materia, che devono precedere ed accompagnare il giudizio. Merita infine una riflessione l’inesistenza di un protocollo in Italia che regoli il concordato in appello, ex art.599 bis c.p.p., per quanto riguarda il reato di tortura, non prevedendo questa disposizione processuale alcuna preclusione alla rivisitazione della pena per il delitto di cui alll’art.613 bis c.p. Allo (S)tato, dunque, per questa ipotesi, pur riferibile all’art.3 della Cedu, che protegge Diritti inderogabili, i procuratori generali possono indicare ai magistrati del pubblico ministero i criteri idonei ad orientare la loro decisione. L’attenzione sul punto è rivolta ad altro, e non solo ai gravi reati ricordati dal Tribunale torinese (di natura sessuale, maltrattamenti, stalking). Non è qui in discussione il merito della scelta legislativa, né tantomeno si intende predicare necessariamente l’utilità di una sanzione non rivedibile in grado di appello, ma balza all’occhio l’attenzione su fattispecie ritenute di particolare allarme sociale, tra le quali, appunto, manca l’habeas corpus. Eppure, come ha scritto anni fa patrizio Gonnella (uno che di diritti storti se ne intende), “la memoria e il desiderio di giustizia in questi casi sono l’unica fonte di salvezza della persona torturata. Non è però solo una sua aspettativa privata il ricevere giustizia. È un dovere della comunità assicurargliela”. Era il 2013. Tra poco saranno passati dieci anni. A tempo debito. *Avvocato Abolire l’ergastolo? L’idea si fa strada tra i più giovani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 maggio 2022 No alla pena di morte, sì all’ergastolo senza sconti. Ma entrando più a fondo nei dati del 34esimo Rapporto Italia dell’Eurispes per il 2022 sulle “Misure alternative alla detenzione”, emerge che comincia a insinuarsi in un numero consistente di ragazzi e ragazze l’idea di considerare la pena, anche per i reati più gravi, proiettata verso libertà. “Il nostro ordinamento prevede - si legge nel rapporto - l’applicazione di misure alternative alla detenzione per provare a diminuire la popolosità delle carceri e tentare il recupero sociale di chi ha sbagliato, ma non tutti sono d’accordo con la loro applicazione. Messo di fronte a una serie di conseguenze previste dal nostro e da altri ordinamenti giuridici, come punizione per coloro che commettono reati di natura grave, il campione intervistato si divide. Il 24,7% si schiera a favore dell’abolizione dell’ergastolo e soltanto il 15,8% si dice favorevole alla reintroduzione della pena di morte, abolita all’interno del nostro ordinamento giuridico civile nel 1947 e nel 1994 anche dal Codice penale militare di guerra”. In parallelo, il rapporto di Eurispes, analizza l i dati come segue: l’84,2% degli intervistati non è favorevole al reinserimento della pena capitale nel nostro ordinamento giuridico, il 75,3% non è favorevole all’abolizione della detenzione a vita, il 72,7% non è favorevole alla liberazione anticipata e il 70,5% non è favorevole alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova ai servizi sociali. Dati abbastanza drammatici, visto che non sono in sintonia con la nostra Costituzione. Ma nel rapporto emerge un dato interessante che può aiutare a un ulteriore ragionamento: i più giovani si stanno distanziando dal populismo penale e stanno riscoprendo quei valori affossati dai più “vecchi”. In sostanza emergono opinioni diverse a seconda della parte politica e dell’età. “Sono gli elettori che si collocano politicamente a sinistra - si legge nel rapporto - a riferire con maggiore frequenza di essere favorevoli all’abolizione della pena dell’ergastolo, mentre non sono d’accordo con questa possibilità soprattutto i cittadini di destra (82,7%), centrodestra (80,4%) e quanti non si sentono politicamente rappresentati (82,9%). A destra, d’altronde, è anche maggiore rispetto alle altre aree politiche di appartenenza la percentuale riferibile a quanti sarebbero d’accordo con l’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi (33,9%); così pure si dicono favorevoli all’abolizione dei provvedimenti alternativi alla detenzione per i reati più gravi, facendo registrare il valore più elevato rispetto agli altri orientamenti politici (39,9%)”. Nel contempo, il Rapporto Eurispes, analizza l’affermazione che trova maggior condivisione tra le fasce di età del campione esaminato riguarda l’eliminazione dei provvedimenti alternativi alla detenzione nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un reato grave: non è favorevole il 71,7% di quanti hanno un’età compresa tra 45 e 64 anni, il 70,9% dei 35- 44enni, il 70,5% dei 25- 34enni, il 69,9% di chi ha 65 anni o più e il 66,1% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni. “L’abolizione dell’ergastolo - prosegue il Rapporto - fa segnare invece la più ampia distanza tra giovani e adulti, con una maggiore intransigenza degli over 64 (risponde di non concepirne l’abolizione il 79,7%) rispetto ai più giovani (risponde ‘ no’ il 69,7% dei 18- 24enni), maggiormente favorevoli a forme di recupero sociale degli incriminati per reati molto gravi; mentre le fasce intermedie rispondono di non essere d’accordo con una eventuale scomparsa dell’ergastolo nella misura del 75,6% per i 45- 64enni, del 74,6% per i 25-34enni e del 70,9% per i 35- 44enni”. Per quanto riguarda l’abolizione degli sconti di pena per i reati peggiori troviamo un disaccordo maggiore da parte delle fasce intermedie della popolazione: affermano di non essere concordi il 76,5% dei 35- 44enni e il 75,8% dei 25- 34enni, seguiti dal 72,5% dei 45- 64enni, dal 70,9% della fascia più giovane e dal 69,5% di coloro che hanno 65 anni e oltre. In sostanza, com’è detto, tra i giovanissimi, tra i 18 - 24enni, comincia a crescere la consapevolezza che l’ergastolo a vita è come la pena di morte, se non peggio. Una partita con papà, ma in carcere di Monica Coviello vanityfair.it, 28 maggio 2022 Dal primo giugno parte un appuntamento molto atteso: “La partita con papà”, che si disputa in molti penitenziari italiani fra i padri detenuti e i loro bambini. “Andiamo a giocare a pallone?”. Una proposta semplice, che ogni bambino può fare al padre. Anzi, non è proprio così. Ci sono figli che, per una partita con papà, devono sottostare a orari, regole, permessi. Sono i bambini dei detenuti, circa 100 mila in Italia (e 2,2 milioni in Europa). Per loro, dal primo giugno, parte un appuntamento molto atteso: “La partita con papà”, che si disputa in molti penitenziari italiani, che fa parte della annuale campagna “Carceri aperte” ed organizzata da Bambinisenzasbarre in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dopo due anni di stop per via della pandemia, torna la possibilità di giocare a calcio con i papà, un momento ordinario per la maggior parte dei bambini, ma eccezionale per i figli di chi è dietro le sbarre. Bambinisenzasbarre ha lanciato “La partita con papà” nel 2015. L’iniziativa è partita con l’adesione di 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti e si è tenuta tutti gli anni fino al 2019, quando sono state giocate 68 partite in altrettante carceri e città, da Belluno a Palermo, coinvolgendo gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori, 3150 bambini e 1700 genitori detenuti. L’obiettivo principale di questa iniziativa è il mantenimento del legame tra il bambino e il genitore detenuto, un diritto sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. “Per raggiungere questo obiettivo, Bambinisenzasbarre”, spiegano dall’associazione, “prepara i figli che entrano in carcere per il colloquio con i genitori, momento chiave per sostenere il rapporto genitoriale e per facilitarlo, con vari mezzi: per esempio il disegnare insieme, oppure con uno strumento molto coinvolgente, come una partita di calcio”. I bambini dei detenuti spesso dicono al papà: “Poi quando esci giochiamo a pallone”. La partita “rappresenta una possibile occasione d’incontro, efficace per attivare, consolidare, accrescere il legame tra genitori-figli e condividere un momento di normalità e vicinanza nonostante la detenzione”. “La vera punizione del carcere non è per noi”, spiega un papà detenuto, “ma è per le persone che amiamo. Mia moglie mi ha raccontato che i bambini hanno preparato una settimana prima della partita le borse con l’occorrente per giocare. Questo è normale nella vita quotidiana delle altre persone, ma noi non siamo abituati. Per noi è un’emozione”. E lo è anche per i bambini. Cristiano, 8 anni, dopo la partita era felice, perché “finalmente papà ha visto tutte le mosse da calciatore che ho imparato da internet, ora capirà che devo fare il calciatore”. Susanna, 11, ricorda: “Con papà andavamo sempre allo stadio, non sappiamo giocare bene a calcio, ma con lui ci siamo sempre divertite con il pallone”. Michele ha solo 5 anni, ma ha già una certezza: “Mi piace giocare con il mio papà, lui è il più forte di tutti!”. Giustizia, su referendum e riforma pesa il quorum di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2022 Verso il 12 giugno. La soglia per legittimare il voto avrà impatto anche sull’esame del Ddl su ordinamento e Csm al Senato: la Lega punta tutto sul quesito, il Pd difende la legge. Entra nel vivo la partita dei referendum. E l’intreccio con la riforma dell’ordinamento giudiziario rischia di fare salire ulteriormente la tensione in una maggioranza dove le crepe diventano sempre più evidenti. La data del 12 giugno è vicina e, si tratti di convinzione oppure di marketing, sui 5 referendum in agenda si concentrano le aspettative di chi è più insoddisfatto della piega che ha preso la riforma Cartabia. Tre dei quesiti infatti (separazione funzioni, numero di firme per la presentazione delle candidature a Csm e ruolo avvocati nelle valutazioni di professionalità dei magistrati) intervengono direttamente su punti oggetto del disegno di legge delega approvato alla Camera e ora in (faticosa) discussione al Senato. Detto che gli altri due referendum riguardano la soppressione della Legge Severino e la limitazione della custodia cautelare, la caccia al raggiungimento del quorum è aperta, nella consapevolezza che le decisioni della Corte costituzionale che ha considerato inammissibili i due referendum che più avrebbero fatto da traino nel promuovere la partecipazione, quelli su fine vita e coltivazione droghe leggere, rende l’obiettivo estremamente difficile da raggiungere. E una buona cartina di tornasole dell’impegno delle principali forze politiche è data dalla fotografia degli emendamenti depositati da pochi giorni al Senato sulla riforma Cartabia. Il maggior numero arriva infatti da chi ritiene che la riforma serva poco o sia del tutto inutile e che, di riflesso, i referendum siano lo strumento in questo momento più adatto per arrivare a un cambiamento sostanziale. Così se la Lega (che ha contribuito a raccogliere le firme per l’ammissibilità dei quesiti) ne ha presentati 60, Italia Viva ne ha depositati 86, mentre Fratelli d’Italia 92. Nessuno dal Pd che considera il risultato raggiunto alla Camera il migliore punto di equilibrio nelle condizioni date. Fuori dal Parlamento il passaggio referendario vede una magistratura schierata in maniera compatta per 5 no. I quesiti sommati al nuovo ordinamento giudiziario più le novità perii Csm sono letti come espressione di una spinta revanscista da parte di una larga parte della politica. Dove però mai, nel recente passato, la magistratura ha vissuto una fase di debolezza paragonabile a questa. L’ormai proverbiale “caso Palamara”, i suoi strascichi, le divisioni interne nelle recenti nomine ai vertici degli uffici giudiziari, il dissolversi del “rito ambrosiano” con l’offuscarsi del prestigio della Procura di Milano, tra processi persi e polemiche interne, hanno condotto a un’impasse di cui è stata prova la bassa adesione al recente sciopero sulla riforma. Oggi se ne parlerà al comitato centrale dell’Anm, ma certo una percentuale del 48% tutto può essere considerata tranne che un successo. Frustata del premier pure sul ddl Cartabia: “Ora il Senato voti” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 maggio 2022 Da Draghi messaggio ai partiti, che tengono la riforma del Csm a mollo. Ostellari (Lega): “L’esame sia approfondito”. “Gli italiani si aspettano dalla magistratura decisioni giuste e prevedibili, in tempi brevi. Gli stessi magistrati hanno bisogno di una riforma che rafforzi la loro credibilità e terzietà. Questi sono i principi alla base della riforma del governo, che auspico possa essere completata con prontezza”. Così il premier Mario Draghi ha abbandonato l’understatement a cui aveva obbedito per mesi a proposito del ddl Cartabia sul Csm. Lo ha fatto nel messaggio inviato ieri all’Università di Padova in occasione del convegno intitolato proprio “La riforma Cartabia - Nuove sfide per una giustizia che cambia”, organizzato per festeggiare l’ingresso dell’Ateneo nel suo nono secolo di vita. Messo già in sicurezza il ddl Concorrenza che, dopo l’esplicita sollecitazione trasmessa da Draghi alla presidente Casellati, sarà approvato entro la fine del mese, e incassata l’intesa di maggioranza sulla delega fiscale, il presidente del Consiglio dunque, guarda avanti e si concentra sul resto delle riforme, non ultima quella cruciale sulla giustizia. Draghi confida in tempi rapidi per la legge delega su ordinamento giudiziario e Csm e lo fa capire chiaramente. Dopo che il 20 maggio aveva scritto alla seconda carica dello Stato per sottrarre alle isterie dei partiti il provvedimento sulla concorrenza (e sui balneari), ora preme per una accelerazione anche sul testo della guardasigilli. Le parole di Draghi suonano come una strigliata ai partiti: niente giochetti per dilatare ulteriormente i tempi. Se è impensabile che si possa anticipare la data dell’approdo in aula a Palazzo Madama, previsto per il 14 giugno, il messaggio sembra però muoversi nella seguente direzione: “Cari partiti, non illudetevi di poter andare oltre quella deadline”. L’ultima volta che il premier aveva fatto sentire il proprio peso sulla questione risale al Consiglio dei ministri dell’11 febbraio, quando aveva chiesto ai partiti “l’impegno ad adoperarsi con i capigruppo per dare priorità assoluta in Parlamento all’approvazione della riforma in tempo utile per l’elezione del prossimo Csm”, assicurando che non avrebbe posto la fiducia sul testo. Ma questa volta il segnale che vuole dare è più forte, motivato forse anche da una certa stanchezza e insofferenza nei confronti dei gruppi che hanno presentato in commissione Giustizia al Senato ben 264 emendamenti. Interpellato dal Dubbio, il leghista Andrea Ostellari, che di quella commissione è il presidente e che è anche relatore del ddl, dice: “Presentare gli emendamenti e discuterli non impedisce di arrivare prontamente a una soluzione efficace e utile agli italiani, magistrati compresi, anzi. E vista l’importanza del tema e le grandi aspettative da parte di tutti, un approfondimento leale e fattivo merita di essere fatto”. Bisogna anche dire che al Carroccio conviene procedere a rilento anche per un altro motivo: rafforzare l’appuntamento referendario del 12 giugno, quando ci si dovrà esprimere sui cinque quesiti per una “giustizia giusta”, promossi insieme al Partito radicale. Poter dire ai cittadini che il Parlamento non è ancora riuscito ad approvare la riforma significa persuaderli di avere il potere di cambiare la giustizia nel nostro Paese a fronte di una politica inerte. È evidente che quei quesiti, se passasse il sì e si raggiungesse il quorum - evento alquanto improbabile - non sarebbero la panacea di tutti i mali del sistema giustizia, ma di certo la vittoria del sì, o almeno una sconfitta dignitosa, rappresenterebbero un segnale importante per la politica e per la magistratura. Tuttavia questa difficile partita a scacchi, soprattutto dopo le parole di Draghi, rischia di complicare i rapporti all’interno della maggioranza e tra i partiti e il governo stesso. Chi invece si schiera con il presidente del Consiglio è Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Partito democratico, che ci rilascia questa dichiarazione: “Draghi ci richiama alla responsabilità di non mettere indugio al completamento della riforma del Csm, il cui contenuto rafforza credibilità e terzietà della magistratura con risposte innovative. Il testo è frutto di un lungo confronto ed è stato largamente condiviso dalle forze di maggioranza in Parlamento. Il Pd è pronto e chiede di votarlo”. Su una posizione analoga è schierato un altro importante protagonista dell’iter della riforma ordinamentale, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa: il ddl, dichiara, “è frutto di un accordo in maggioranza e fa registrare importanti passi in avanti: rende più serie le valutazioni di professionalità, impedisce di fare ogni giorno conferenze stampa, limita i fuori ruolo, chiude le porte girevoli, limita i passaggi di funzioni. E non è poco”, assicura il deputato, “in una legislatura che era stata inaugurata dallo stop alla prescrizione e dalla spazzacorrotti. È il momento di concludere il percorso come sollecitato dal presidente Draghi”. A proposito di votazioni, sarebbe quasi impossibile porre la fiducia: alla Camera il testo è stato votato articolo per articolo, quindi se ora in Senato il governo decidesse di mettere la fiducia su un maxiemendamento, i testi sarebbero formalmente diversi e sarebbe comunque necessario il ritorno alla Camera. D’altronde, porre la fiducia su ciascuno dei 43 articoli significherebbe allungare tantissimo i tempi. Oggi intanto a Padova, nel secondo giorno del convegno a cui ha inviato il proprio messaggio Draghi, sono previsti, tra i numerosi interventi, anche quelli del consigliere della ministra Cartabia per le professioni Gian Luigi Gatta, di Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, Gian Domenico Caiazza, presidente Ucpi. Si chiuderà con la relazione del sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Sempre oggi ci sarà riunione del direttivo Anm: all’ordine del giorno l’esito dello sciopero contro la riforma del governo, che ha visto l’adesione del 48% dei magistrati. Il peso di Draghi sulla giustizia “Con la riforma avremo magistrati più terzi e credibili” di Felice Manti Il Giornale, 28 maggio 2022 Il premier sferza i giudici, invita le Camere ad approvare “con prontezza”. il testo Cartabia e guarda ai referendum per un segnale. Renzi freddo: norme inutili, scritte dalle toghe. Giorgetti: senza quorum perderebbe il Paese. “Alla magistratura serve una riforma che le restituisca terzietà e credibilità”. Chi pensava che Mario Draghi si sarebbe chiamato fuori dallo scannatoio giustizia è rimasto deluso. Incassato l’accordo di maggioranza su balneari e fisco, il premier spinge sull’acceleratore delle riforme, necessarie per portare a casa il Pnrr, e scrive una lettera all’Università di Padova che suona come una requisitoria contro le toghe, dilaniate dai referendum che potrebbero accelerare la separazione delle carriere. Non a caso parla di “terzietà” dei giudici, come a sancire che per troppo tempo le porte girevoli tra magistratura inquirente e giudicante, vorticosamente manipolate dalle correnti, hanno deciso carriere e processi, in una spirale distorta scoperchiata dall’ex leader dell’Anm Luca Palamara. Il governo si aspetta un segnale dal referendum del 12 giugno, che dovrebbe cambiare la valutazione dei giudici, modificando anche la legge elettorale del Csm per limitarne le correnti, mentre l’iter della riforma Cartabia, già incardinata in Parlamento dopo il sì della Camera e che Draghi auspica “possa essere completata con prontezza”, si dovrebbe rimettere in moto qualche giorno dopo la chiusura delle urne per essere approvata in tempi brevi così com’è uscita da Montecitorio, almeno questo è l’auspicio di Palazzo Chigi. Lunedì prossimo si riunirà la conferenza dei capigruppo al Senato che dovrebbe confermare la calendarizzazione della riforma del Csm per il 14 giugno. Sulla misura pesano gli esiti referendari ma anche i 60 emendamenti della Lega e gli 86 di Italia viva e soprattutto i 92 di Fratelli d’Italia, che voterà tre sì “su riforma del Csm, equa valutazione dei giudici e separazione delle carriere” e due no (abolizione della legge Severino e limiti alle misure cautelari). Italia viva va verso l’astensione in aula. Freddino Matteo Renzi, per cui la riforma Cartabia è “più inutile che dannosa” perché non risolve il problema: “Avrei dovuto fare di più ma nell’ufficio del ministero della Giustizia - spiega l’ex premier - ci sono magistrati che detengono il potere, che decidono, e scrivono fisicamente le leggi. Quando approvammo la responsabilità civile dei magistrati (quesito escluso dal referendum assieme a eutanasia e cannabis, ndr), la misura fu vissuta come una ferita”, ha sottolineato. Ma “le correnti sono state più forti di me”. Il Pd come da tradizione si presenta spaccato all’appuntamento referendario. Ai “cinque No come scelta migliore” dell’ex governatrice Debora Serracchiani rispondono i Dem con “tre sì ai quesiti per sostenere la riforma Cartabia” come Fdi, dice la corrente democrat guidata da Enrico Morando, presidente di Libertà Eguale, che assieme al giornalista de Linkiesta Mario Lavia e all’avvocato Ada Lucia De Cesaris fanno appello all’informazione (“La Rai non ha fatto nulla”, dice) perché aiuti la comprensione dei quesiti, soprattutto quello sulla separazione delle funzioni, prevista anche dalla riforma. “La legge Cartabia riduce la possibilità di passaggio da una funzione all’altra da 4 a 1. Il Sì la ridurrebbe a zero”, spiega Morando. Per il costituzionalista Alfonso Celotto il rischio è che i referendum sulla giustizia non raggiungano il quorum. Ma al netto dell’affluenza, ragiona il capogruppo Pd in Affari costituzionali Stefano Ceccanti, il numero dei Sì sarebbe importante, dal punto di vista politico. “I referendum completano la riforma Cartabia così come migliorata, voteremo sì, ma bisogna che ne se parli un po’ di più. Dopo la riforma Cartabia bisogna andare avanti per una giustizia più giusta”, spiega il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani. “C’è un silenzio singolare”, è l’opinione del presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick. Secondo il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, invece, “se il referendum sulla giustizia non andasse a buon fine, non sarebbe un fallimento per la Lega”, che sul referendum è andata all in con mille gazebo nei prossimi due fine settimana (oggi e domani e 4-5 giugno) “ma per il sistema Paese”. Oggi intanto l’Anm si riunirà per le sue valutazioni sullo sciopero flop dello 16 maggio scorso e sulla riforma. La sensazione è che la magistratura rivendichi ancora una volta la propria innocenza rispetto ai disastri del sistema giustizia - dalle assoluzioni per Mps ai pasticci emersi nelle indagini su David Rossi, tanto per citare due casi recenti - e che accusi la politica di una qualche volontà di vendetta. Ennesimo segno che una riforma, o per via parlamentare o attraverso lo strumento referendario, è comunque ineluttabile. Perché gli avvocati dicono sì ai referendum sulla giustizia di Sergio Paparo e Vinicio Nardo Il Domani, 28 maggio 2022 Per l’Organismo congressuale forense anche se il referendum punta ad abrogare del tutto o in parte singole norme, il suo obiettivo più ampio è affermare una visione della giustizia su un terreno in cui il Parlamento è restio a mettere mano. È del tutto naturale che l’Organismo congressuale forense abbia mobilitato l’avvocatura per i referendum. Il primo obiettivo è rompere la cortina di silenzio che si è creata intorno a questo appuntamento elettorale. In quanto avvocati non possiamo rimanere inerti di fronte all’evidente tentativo di impedire il raggiungimento del quorum e così invalidare i quesiti. Sarebbe un regalo alle forze della conservazione, quelle che - da destra e da sinistra - ostacolano ogni tentativo riformista in ambito di giustizia, nonostante le carenze e, da ultimo, gli scandali interni alla magistratura. I referendum sono uno straordinario sistema di partecipazione diretta del cittadino all’attività legislativa, che è la funzione politica per eccellenza. Ciò non significa affermare che, rispondendo ai quesiti referendari, il cittadino “si fa” legislatore, ma piuttosto che il corpo elettorale opera delle “scelte” destinate a vincolare il Parlamento e le forze politiche. L’obiettivo è affermare una idea - Sebbene il referendum agisca chirurgicamente su singole norme, mirando ad abrogarle in tutto o in parte, il suo obiettivo ultimo è quello di affermare un’idea, una visione, con effetto massimo laddove il Parlamento appaia restio a mettere mano. Come sta accadendo sempre di più in questi anni, particolarmente in tema di giustizia. Si potrebbe obiettare che, al contrario, la Ministra Cartabia ha sfoderato un piglio riformatore di nuovo conio e non ha bisogno di spinte, ed è vero. Tuttavia, abbiamo assistito a mille inciampi nei percorsi parlamentari dei disegni di legge e conosciuto altrettanti modi di neutralizzare certi istinti innovatori. Il più abusato, nei casi di disegni di legge delega come le riforme in atto, è quello del tradimento della delega. C’è sempre il rischio che il Governo la lasci cadere o traduca in norme precettive solo una parte della delega. Questo soprattutto nei casi di avvicendamento alla guida del Paese, ma lo si è visto anche in casi di relativa stabilità del quadro politico. Ed allora non c’è ragione perché la riforma dell’ordinamento giudiziario, già approvata alla Camera ed ora all’esame del Senato, debba raffreddare la corsa dei referendum. Il raggiungimento del quorum e la vittoria dei SI ai tre quesiti ordinamentali (separazione funzioni dei magistrati, voto degli avvocati nei consigli giudiziari, e candidature extra-correntizie al Csm) mantengono tutta la loro importanza seppure non rappresentino, in questo caso, un moto di sfiducia, ma costituiscano di fatto un’azione di sostegno all’azione riformatrice del Legislatore. Sì a tutti i quesiti - L’impegno dell’Ocf è per il SI a tutti i quesiti referendari. E non perché pensiamo siano i quesiti migliori e meglio formulati del mondo, né perché ci illudiamo di mutare il corso della storia. Semplicemente perché vanno nella direzione giusta. Si pensi al quesito sulla custodia cautelare. Che ci sia stato un abuso della custodia cautelare non lo diciamo solo noi difensori, è stato detto finanche nel discorso del Presidente di inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte di cassazione. Che la Ministra Cartabia voglia invertire la deriva carcero-centrica del processo penale lo dice la sua iniziativa riformatrice per la sistemazione del sistema sanzionatorio penale (tendente a valorizzare le pene diverse da quella detentiva) e l’avvento della giustizia riparativa. Allora come si fa a non votare sì? E come potrebbe, comunque, un avvocato votare No? L’avvocatura negli ultimi trent’anni ha sostenuto le riforme che hanno cercato di circoscrivere i casi di possibile adozione della custodia cautelare in carcere utilizzando avverbi ed aggettivi sempre più severi nel delimitare il potere del giudice. Purtroppo, ogni nuova formula lessicale non ha impedito l’abuso. Il referendum vuole porre un punto fermo: laddove non c’è pericolo di reiterazione di atti violenti basta la custodia cautelare al domicilio; non occorre la galera. Pertanto, il Si al quesito sulla custodia cautelare si pone perfettamente nel solco della tradizione culturale degli avvocati: non richiede di attardarsi in spiegazioni. Lo stesso vale per l’abrogazione della legge Severino, con i suoi automatismi che urtano con la presunzione di innocenza che informa la nostra Costituzione ed anche le direttive comunitarie. Non è solo un problema di principio. Noi difensori sappiamo quanto facile sia per un amministratore pubblico finire nelle maglie di un procedimento penale, e quanto aleatori siano i giudizi di primo grado soprattutto se seguono a processi mediatici già celebrati e “risolti” con condanne a mezzo stampa. È un patrimonio di esperienza che non ci può lasciare indifferenti di fronte alle rigidità del regime introdotto dalla legge Severino. Ma, soprattutto, in questo tema si tocca la formidabile funzione di stimolo che può avere il referendum sulla politica. Diverse forze si sono dette d’accordo nel merito ma contrarie sul metodo perché, affermano, “la legge Severino non va abrogata ma va riformata in Parlamento”. Ebbene, sono anni che lo dicono ma non lo fanno: grazie al referendum sarà la volta buona perché la riforma, quanto mai urgente, la facciano sul serio. Tullio Padovani: “Il sistema giudiziario? Dai tempi di Tortora è cambiato in peggio” di Alberto Giannoni Il Giornale, 28 maggio 2022 Il penalista: “Il voto del 12 giugno non sarà la panacea, ma è un’occasione decisiva”. “La giustizia dai tempi di Tortora non è cambiata, o se è cambiata, è cambiata in peggio”. Tullio Padovani è docente di Diritto penale da 40 anni, avvocato e accademico dei Lincei, ma il prestigio accademico e forense, nel suo caso, si traduce in chiarezza adamantina, quando si tratta di analizzare lo stato del sistema giudiziario e l’effetto dei referendum del 12 giugno. Professore, da presidente onorario del Partito radicale lei ha partecipato all’elaborazione dei quesiti? “Solo a quello sul fine vita, quello dell’associazione Coscioni, e l’ho difeso alla Consulta, vanamente. Non ho preso parte invece alla stesura dei referendum sulla giustizia”. Ha detto tuttavia che li avrebbe firmati 500mila volte. Un’occasione importante? “Certo, io sono un vecchio radicale, e quei quesiti rispecchiamo la mia prospettiva di giustizia. Non realizzano la riforma, no, ma sono tutti indirizzati verso ciò che deve essere fatto affinché la giustizia acquisti carattere di modernità e civiltà”. Oggi non è moderna e civile? “Neanche lontanamente. Del resto, se due italiani su tre non hanno fiducia nella giustizia, qualcosa vorrà pur dire. Si è creato un clima di tale disaffezione da provocare quasi una crisi di rigetto. Ed è una situazione drammatica. Guardi, gli antropologi rilevano che in ogni aggregato umano la prima indefettibile funzione è la risoluzione dei conflitti. Poi viene tutto il resto, l’amministrazione può mancare, la legislazione si può affidare alla consuetudine, ma la giurisdizione no, o non c’è comunità”. Non regge la convivenza civile? “Non regge la comunità. Nel nostro caso abbiamo una iper giurisdizione. Sabino Cassese nel suo ultimo lavoro mostra come sia diventata straripante. E non sono tanto i giudici quanto i Pm, il potere d’accusa. Si è creato ulteriore squilibrio. Le indagini sono diventate il cuore del processo. La decisione cruciale è quella preliminare. È lì che l’opinione pubblica erige l’imputato a colpevole, poi l’esito si vedrà, si disperderà confinato in qualche notizia breve”. Lei è ancor più deciso di quando ha firmato per i referendum... “Sono più sdegnato e determinato, sì. Intendiamoci, il 12 giugno non è una panacea. Solo un ingenuo può pensare che sia la soluzione, ma comincia a esserlo, è un passo verso la soluzione, segnala alcuni punti. Punti dolenti”. Per esempio? “Il problema delle correnti, e quindi del Csm, la divisione delle carriere, il tema del potere sulla libertà personale, la valutazione sulla professionalità dei magistrati. Nodi particolarmente significativi, momenti essenziali. Anche la legge Severino, che anticipa effetti così dirompenti togliendo di mezzo una persona in modo drastico, mi pare manifestamente contraria alla presunzione di non colpevolezza”. Eppure il quorum è a rischio... “Problema ricorrente, salvo coi referendum che avevano forza evocativa così pregnante da assicurarlo; non solo divorzio e aborto ma anche responsabilità civile dei magistrati, vinto con percentuale travolgente, anche se poi sopravvenne una legge che ne negava gli effetti. Il fatto è questo: il referendum è una sorta di contropotere rispetto al legislatore e l’autorità lo vede con ostilità e se può lo frena. Magari lo fa coi guanti: un giorno di voto invece di due, magari un giorno in cui rinunciare a una gita è difficile. E silenzio tombale”. Ma si vota senza logiche partitiche. Senza badare a chi lo propone... “Cosa c’entra chi lo propone? Sono pretesti. Se io non voto è perché non mi importa un fico secco della giustizia. Se non votassi perché l’ha proposto la Lega (peraltro formalmente i richiedenti sono i Consigli regionali) sarebbe come se non prendessi un treno per antipatia delle officine che l’hanno costruito. Il punto è che mi porti dove devo andare. Dobbiamo chiederci in che Paese siamo”. Se comunque ci fossero milioni di sì? “Se votasse il 30%, sarebbe una dozzina di milioni di elettori. Coi sì al 90% sono 10 milioni di sì. Avrebbero un peso. Certo, qualcuno dovrebbe farlo valere: Ci sono 10 milioni di italiani per cui le cose non possono andare così”. È vero che la riforma Cartabia rende inutili alcuni quesiti? “Le riforme sono soggette a variabili continue. Le vedo da 52 anni, salutate come salvifiche, seguite poi da altre riforme. Due quesiti forse ballano, ma tutto è sul piano dell’eventualità. Bisogna vedere se va in porto”. Intanto votiamo, dice lei. Sono passati 34 anni dalla morte di Enzo Tortora. La nostra giustizia è ancora ingiusta? “Non ho un misuratore ma con assoluta serenità posso dire che è un sistema che non è cambiato, e se è cambiato è cambiato in peggio”. Vogliamo che funzioni la giustizia per i minori e la famiglia? Attuiamo la riforma Cartabia di Maria Giovanna Ruo*, Claudio Cecchella**, Cinzia Calabrese*** Il Dubbio, 28 maggio 2022 Gli avvocati di Aiaf (Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori), Cammino (Camera nazionale avvocati per le persone, i minorenni e le famiglie) e Ondif (Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia) rispondono volentieri all’appello alla responsabilità sulla giustizia, che riguarda le persone, i minorenni e le famiglie, sottoscritto dai presidenti dei Tribunali per i minorenni e dai procuratori della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni. Come avvocati siamo testimoni del disagio, della sofferenza, se non addirittura dello sconcerto delle persone anche minorenni (che rappresentiamo e difendiamo quali curatori speciali) che hanno a che fare con l’attuale nostro sistema di giustizia nelle materie relative alle relazioni interpersonali. In questa prospettiva, esercitando la responsabilità sociale che ci è propria, riteniamo doveroso intervenire nel dibattito in corso e responsabilmente affermiamo che lo stato della giustizia in tale area è gravemente sofferente e deficitario. Ciò emerge anche dalle numerosissime condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tutte le tipologie di controversie minorili: nell’ambito della relazione genitori-figli, della relazione nonni-nipoti, dell’adottabilità, dell’adozione, dell’affidamento, della tutela dei minori fragili. Intendiamo renderci interpreti della sfiducia nel sistema da parte dei cittadini che debbono necessariamente richiedere l’intervento giudiziale per la tutela dei diritti nelle relazioni familiari e, in particolare, dei minorenni. Responsabilmente sottolineiamo i tempi dilatati del suddetto intervento - inconciliabili con la tutela effettiva delle situazioni di vulnerabilità, in particolare di quelle relative ai minori di età; tempi lunghi e insostenibili causati anche dalla trattazione collegiale di molte decisioni. Responsabilmente stigmatizziamo i costi insostenibili per le parti conseguenti al proliferare di giudizi assegnati a più giudici, competenti per le stesse situazioni familiari, che, talvolta, si concludono con decisioni in contrasto l’una con l’altra. Responsabilmente affermiamo che, davanti ai Tribunali per i minorenni, la massiva delega di adempimenti istruttori ai giudici onorari portatori di altri saperi, comporta violazione dei diritti di difesa e del contraddittorio che profila ‘prassi distorsive’ e può violare l’art. 32 Cost. che esige che nessuno sia sottoposto a trattamento sanitario (anche diagnostico) senza suo previo libero e consapevole consenso. Responsabilmente affermiamo che l’approccio multidisciplinare nella giustizia minorile deve essere preservato, ma con modalità compatibili con il giusto processo e non attraverso esperti interni al collegio, bensì ad esso esterni, rispetto ai quali le parti possano essere rappresentate da un proprio esperto. Responsabilmente richiamiamo il documento del Comitato dei ministri del Consiglio d’ Europa in data 8- 9 marzo 2022, che ha evidenziato le gravissime falle dell’attuale sistema italiano della giustizia per le famiglie, le persone e per i minorenni. Condividiamo il necessario approccio multidisciplinare al sostegno e all’ascolto del minore ma invitiamo a evitare interpretazioni forzate della Risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2022 che ne inferiscano la necessità di partecipazione alle decisioni giudiziarie di esperti di altre discipline interni al collegio, ritenuta inidonea dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (D. M. e N. contro Italia, 20 gennaio 2022). Riteniamo responsabilmente che la riforma di cui alla legge 206/ 2021 risolva le suddette severe criticità e molte altre ancora, perché assicura un unico giusto processo regolato dalla legge, e non più un rito privo di regole, e istituisce un giudice unico, specializzato e prossimo, che assicurerà una migliore giustizia alle persone, ai minorenni e alle famiglie. Auspichiamo che la riforma sia sostenuta e attuata in modo sinergico da tutti gli operatori. Chiediamo quindi responsabilmente l’investimento di risorse per il migliore funzionamento della riforma; osserviamo anche che già la razionalizzazione del settore con la concentrazione delle competenze, l’eliminazione dell’inutile duplicazione dei giudizi, l’ampliamento della negoziazione assistita, la soppressione della collegialità non necessaria, la possibilità di evitare la duplicazione di separazione e divorzio, comporteranno una notevole liberazione di risorse da investire per rendere più efficiente la giustizia in questo settore. Sosteniamo, pertanto, in nome dell’utenza, l’assoluta necessità, che, in applicazione dei principi della normativa europea e della nostra Costituzione, entri in vigore al più presto la cosiddetta riforma Cartabia, di cui alla legge n. 206/ 2021, per una giustizia a tutela effettiva delle persone di età minore e degli altri soggetti vulnerabili. *Cammino, **Ondif, ***Aiaf “In cella a 12 anni”, giustizialisti e populisti dalla soluzione a portata di manette Francesca Sabella Il Riformista, 28 maggio 2022 Lo sentite anche voi il tintinnio delle manette luccicanti? Sì, sono tornati loro, i politici dalla soluzione facile a portata di mano… anzi di manette. I giustizialisti dalla cella sempre spalancata. Anche se si tratta di bambini. Al diavolo le motivazioni che ci sono dietro quegli sbagli. In gattabuia, subito. Questa volta i populisti con la forca in mano sono il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Carmela Rescigno e il coordinatore di Napoli di Fdi Sergio Rastrelli. “Fratelli d’Italia denuncia con grande preoccupazione l’immobilismo delle istituzioni, locali e nazionali, a fronte dell’aumento esponenziale in città di fenomeni di criminalità minorile”. Ma a preoccupare davvero è la loro proposta. “Sul fronte legislativo, attraverso proposte di adeguamento dell’impianto normativo e del codice penale minorile, ormai del tutto inadeguati alla emergenza del momento; sul fronte amministrativo, attraverso un piano coordinato di intensificazione dei controlli; sul fronte educativo, provando a potenziare l’offerta scolastica. In tale ambito, il tema dell’adeguamento della età imputabile è un tema certo delicato, che va però assolutamente preso in considerazione, e senza vincoli ideologici, purché posto in stretta correlazione con l’esigenza di affrontare e risolvere le drammatiche condizioni delle carceri minorili, che sono diventate fucine di professionisti del crimine”. Quindi, li arrestiamo subito, a dodici anni e li mandiamo in comunità o nei centri di prima accoglienza. Poi contestualmente vediamo di migliorare un po’ la situazione delle carceri minorili. Ma non è tutto. Secondo Rescigno e Rastrelli “giusto prevedere la sospensione della patria potestà, e l’allontanamento dei minori da un contesto familiare inadeguato, magari con l’affidamento dei minori a rischio in istituti in regime semiconvittuale, ovvero individuando altre misure anche di ordine coercitivo - quale ad esempio la libertà vigilata, tese sempre però - ci tengono a precisare - alla rieducazione dei minori, e al loro reinserimento in funzione rieducativa”. “L’argomento non è nuovo: se si abbassasse l’età imputabile si risolverebbero i problemi. Credo che non risponda assolutamente a verità. Anzi - commenta l’avvocato Mario Covelli, presidente delle Camere Penali Minorili - l’età imputabile fissata a 14 anni andava bene nel 1930 perché i ragazzi erano più tranquilli e perché l’ambiente era diverso. Ora i tempi sono cambiati - aggiunge - ma secondo alcuni l’età è troppo alta per la soglia di imputabilità? È vero il contrario! Nella società semplice, soprattutto che viveva sulla base dell’agricoltura e con rapporti familiari solidi, un ragazzo di 14 anni era molto più maturo rispetto a un quattordicenne di oggi che vive in una società digitale sempre più complessa che dà vita a ragazzi molto fragili”. Una possibile soluzione sarebbe quella di prevenire l’atto violento. “Servirebbe un provvedimento chiaro per dare alla polizia l’autorizzazione a controllare di più i minori in modo da evitare tragedie - suggerisce Covelli - Basterebbe intervenire sull’istituto dell’accompagnamento e permettere alla polizia di accompagnare in questura i minori che hanno un comportamento aggressivo, chiamare i genitori e con loro verificare la situazione anche alla presenza di un legale”. Peccato che questa e altre proposte non possano essere fatte alla presenza degli addetti ai lavori. “Non riesco a capire perché la Camera penale minorile non viene invitata ai congressi nei quali si parla di minori. Il 6 giugno ce ne sarà uno a Napoli e nessuno ha chiesto la nostra presenza - afferma Covelli - Sono sicuro che ci saranno tante persone illustri ma non mi pare che abbiano mai frequentato le aule giudiziarie minorili”. La verità è che non si riesce a cercare le motivazioni dietro questi atti. Si fatica a capire che alla base di ogni comportamento criminoso da parte di un adolescente vi sono bisogni educativi, emotivi e materiali, insoddisfatti e una gravissima assenza degli adulti. Si ignora che la commissione di un reato da parte di un ragazzino è l’espressione di un fallimento, non del ragazzino, quanto dei grandi che non gli hanno saputo garantire quel benessere cui ogni minore avrebbe diritto. Ma d’altronde perché indagare sulle motivazioni se li si può sbattere in cella subito? Magari anche senza cena. Il pm dispone, il gip “esegue”: uno studio dice che è lo standard di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 maggio 2022 Ecco i risultati dell’approfondimento fatto a Brescia dalla Camera penale in collaborazione con i vertici di procura e Tribunale. Ma negli altri uffici giudiziari il dato rimane un mistero: impossibile calcolare il grado di appiattimento del giudice sulle richieste di misura cautelare. L’Ucpi: ora si cambi. “Purtroppo quanto affermato dal presidente delle Camere penali, il collega Gian Domenico Caiazza è la triste realtà: è praticamente impossibile avere il dato relativo alle percentuali di accoglimento delle richieste dei pm di applicazione delle varie misure cautelari da parte dei gip”. Ad affermarlo è l’avvocato Andrea Cavaliere, presidente della Camera penale di Brescia, che la scorsa settimana ha affrontato il tema della “cultura del dato” nel corso di una tavola rotonda alla presenza anche dei vertici degli uffici giudiziari della città lombarda. Durante l’incontro sono stati resi noti i risultati di una ricerca condotta, come è stato sottolineato, in modo empirico e senza alcuna pretesa di scientificità da parte dei penalisti e finalizzata ad avere una indicazione di massima della situazione relativa al numero di richieste di misura cautelare avanzate e poi accolte a Brescia nel corso del 2021. La ricerca ha evidenziato quello che tutti sospettavano: l’alta percentuale di ordinanze di accoglimento dei gip rispetto alle richieste dei pm, pari quasi al novanta per cento. “Questo dato deve essere valutato con estrema attenzione - puntualizza però Cavaliere - perché i sistemi informatici, al momento, non consentono di distinguere le ordinanze di convalida degli arresti in flagranza dalle ordinanze che decidono su richieste di applicazione di misura cautelare”. In altri termini, prosegue il penalista bresciano, “il dato non è sufficientemente attendibile per essere oggetto di una seria discussione e, tra l’altro, può essere interpretato in modi diametralmente opposti: da un lato l’avvocatura potrebbe evidenziare un pericoloso “appiattimento” del gip sulle posizioni del pm, ma dall’altro la stessa Procura potrebbe replicare - forse senza troppa convinzione - che l’alta percentuale di accoglimenti è la prova della serietà del lavoro dei pm e del fatto che le richieste di applicazione delle misure cautelari vengono avanzate solo quando sono effettivamente necessarie”. Circa la disponibilità di informazioni, invece, il “caso Brescia” è la classica eccezione che conferma la regola esposta nell’intervento del presidente dell’Upi Caiazza. “A Brescia - puntualizza Cavaliere - solo in virtù di una disponibilità particolare del procuratore della Repubblica, del coordinatore dell’Ufficio gip nonché del presidente del Tribunale e soprattutto del presidente della Corte d’appello Claudio Castelli, questi dati sono stati resi ostensibili a noi avvocati: nella maggior parte degli altri Uffici giudiziari italiani ciò non avviene. Come mai?”. La difficoltà di accedere a queste informazioni era stata stigmatizza dei penalisti, che tramite il loro Osservatorio stanno cercando in tutti i modi da anni di conoscere quante volte vengono accolte dal gip le misure cautelari e i sequestri richiesti dal pm. Ad oggi, infatti, il dato non è disponibile né al ministero della Giustizia né al Consiglio superiore della magistratura, in quanto non oggetto di apposito censimento. Tale circostanza non può non riportare l’attenzione di tutti gli operatori del diritto sull’annoso e mai risolto problema di ottenere questo genere di informazioni statistiche dai sistemi informatici delle Procure. Spesso, come da più parti evidenziato, anche per un evidente atteggiamento di chiusura degli uffici giudiziari ad aderire a richieste di accesso presentate da soggetti esterni. “Il mio augurio - aggiunge Cavaliere - è che tale situazione sia destinata finalmente a migliorare alla luce delle importanti affermazioni che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha esposto al Parlamento in occasione della sua relazione annuale lo scorso gennaio, parlando dell’importanza di sviluppare proprio la cultura del dato. Credo sia importante potere accedere direttamente alle stime di tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia, anche a quelli raccolti dai vari uffici giudiziari”, conclude quindi il presidente della Camera penale di Brescia, ricordando comunque che “la fruibilità dei dati dovrà sempre avvenire nel pieno rispetto, ovviamente, delle esigenze della riservatezza delle indagini e della tutela delle norme sulla privacy”. Magistratura “superiore” contro magistratura “inferiore”: ma è veramente così? di Rita Sanlorenzo Il Domani, 28 maggio 2022 Dopo lo sciopero delle toghe. I magistrati degli uffici di legittimità hanno partecipato in modo marginale allo sciopero indetto dall’Anm, con appena il 23 per cento di partecipazione. Significa che non gli interessano le sorti dei magistrati negli uffici di merito? Intanto, bisognerebbe prendere atto che molti magistrati non hanno scioperato non perché in accordo con la riforma, ma piuttosto per rifiuto dello strumento. Guardando al risultato complessivo dell’astensione dal lavoro dei magistrati indetta dall’Associazione Nazionale dei Magistrati nel corso dell’Assemblea Generale del 30 aprile scorso e fissata, a spron battuto, sedici giorni dopo, risultato sicuramente negativo per le percentuali di adesione, inferiori al 50%, alcuni dati spiccano più di altri. Uno fra questi riguarda sicuramente quello della partecipazione allo sciopero dei magistrati degli Uffici di legittimità, Corte di cassazione e Procura Generale presso la suddetta Corte, ferma al 23%, circa la metà di quello che è il risultato nazionale. Il che significa, in termini numerici, che meno di un quarto dei suoi 441 magistrati (372 giudicanti e 69 requirenti) ha deciso di seguire le indicazioni provenienti dall’Associazione a cui aderisce circa il 90% dei magistrati italiani. Dato preoccupante, su cui riflettere, e che ha dato luogo a polemiche che investono direttamente la collocazione nel sistema processuale ed ordinamentale della Corte, non per nulla denominata Suprema, in quanto giudice di ultima istanza, avente competenza su tutto il territorio nazionale, il cui compito è quello non solo di decidere definitivamente l’esito del processo, ma soprattutto di operare il controllo sull’”esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”. La piramide giurisdizionale - Una posizione di vertice nella piramide giurisdizionale, che ne fa custode ed artefice della nomofilachia, sulle sollecitazioni che le pervengono dalle impugnazioni delle sentenze, civili e penali, di tutta Italia. Un “vertice ambiguo”, come la definì acutamente un grande processualista, Michele Taruffo, irrisolto tra funzione di tutela del diritto oggettivo (jus constitutionis) e tutela dello jus litigatoris, ossia dei diritti delle parti nel processo. Un vertice che fatica a mantenere la propria autorevolezza, a fronte di una produttività giunta ormai a livelli numerici impressionanti (oltre 40 mila decisioni nel civile e 47 mila nel penale nel 2021), che pure non basta ad abbattere quell’arretrato (23 mila processi nel penale e 111 mila nel civile) che costituisce una zavorra capace di condizionare la stessa funzionalità della Corte, oltre a rendere estremamente difficile salvaguardare l’omogeneità degli indirizzi interpretativi. Così dato conto, in pochi cenni, di come e quanto si lavora in Cassazione, è giusto farsi carico di quelle considerazioni critiche che hanno investito i magistrati che ne fanno parte, a cui si imputa di avere in qualche modo già introiettato lo spirito della riforma, e la sua impostazione gerarchica, volta a premiare in termini di avanzamenti di carriera chi aderisce agli orientamenti già consolidati rinunciando a farsi protagonista del cambiamento, così incentivando il conformismo interpretativo a fini di interesse personale. Chi occupa un posto “in alto” nel sistema a piramide della nostra giustizia, sarebbe ben poco interessato a ciò che riguarda più da vicino chi opera nei gradi inferiori: dalla riforma anzi verrebbe valorizzato il ruolo di coloro dal cui giudizio dipende non solo l’esito finale del procedimento, ma in qualche modo anche la valutazione della professionalità del collega che si è espresso precedentemente. Ma è davvero così? A prescindere da un esame dell’effetto che la riforma (con l’introduzione del famigerato “fascicolo delle performances”, contenente l’indicazione dei dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, compresi quei “caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio”) potrà proiettare di qui in avanti sulla conformazione del modello di magistrato, esiste già oggi questa frattura tra chi giudica e chi è giudicato, per come decide e non solo per che cosa decide? Abbiamo assistito, dalla riforma Mastella in avanti, alla creazione di microcorporazioni all’interno della corporazione, ognuna delle quali persegue un diverso disegno, da un lato chi condivide e coltiva un percorso individuale “in ascesa”, dall’altro chi resta fedele al disegno costituzionale secondo cui quello giudiziario è un potere diffuso, orizzontale e paritario, all’interno del quale ci si distingue solo per funzioni? Un tale manicheismo non solo non descrive il reale, ma non aiuta nemmeno a comprendere l’evoluzione in corso. Le ragioni del mancato sciopero - Intanto, bisognerebbe prendere atto che molti magistrati non hanno scioperato non perché in accordo con la riforma, ma piuttosto per rifiuto dello strumento, difficile da giustificare in un momento di scarsa credibilità dell’intera magistratura a fronte di una opinione pubblica la cui fiducia nell’istituzione è crollata dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne. Molti di noi imputano alla stessa magistratura associata un qualche immobilismo, soprattutto per ciò che concerne la necessità di rilanciare il confronto con la politica avanzando serie proposte di riforma (ché tutto si può sostenere, tranne che si possa ancora difendere lo status quo). Per venire poi alla Cassazione, sarebbe bene che ognuno dei critici sapesse innanzitutto come ci si lavora: operando giornalmente “in frontiera”, rischiando di essere travolti dai numeri elevatissimi a cui la legittimità deve far fronte, così che la “performance” anche in questi Uffici è modellata prima di tutto - purtroppo - sul dato quantitativo. Poi occorrerebbe anche conoscere chi in Cassazione lavora: magistrati con più lungo percorso di carriera, quindi formati da sempre all’esperienza associativa, ritenuta (almeno una volta) il normale e doveroso completamento dell’impegno professionale. Storie personali di tale spessore, che appartengono a molti dei magistrati che vi lavorano, non autorizzano nessuno alla disinvolta accusa di abbandono del modello costituzionale che le ha ispirate sino alla Cassazione: senza cedimenti alle suggestioni del potere, senza cessioni interessate della propria autonomia ai fini di remunerazioni di carriera, nella difesa della propria indipendenza nel giudicare. Piuttosto che scavare solchi tra diverse espressioni della stessa funzione giudiziaria, sarebbe bene che di qui in avanti la magistratura ritrovasse quello spirito unitario necessario per riconquistare la fiducia dei cittadini che sembra venuta meno. Ammettendo da un lato che alle gravi cadute etiche che sono emerse la magistratura non è stata capace di opporre una reazione sufficientemente netta; dall’altro, che sul piano delle riforme, ce ne sarebbero alcune che potrebbero ben più incisivamente contrastare il carrierismo: effettiva rotazione dei ruoli dirigenziali, sottoposizione alle valutazioni di professionalità per tutto l’arco di vita professionale, ampliamento delle fonti di conoscenza a cui attingere, maggiore rilievo ai pareri forniti dagli organi decentrati di autogoverno in grado di meglio conoscere le capacità lavorative del magistrato. Alcune idee sotto cui la magistratura dovrebbe compattarsi, chiedendo una riforma finalmente in grado di segnare un’inversione di rotta. Quello che, purtroppo, la riforma Cartabia non sembra in grado di ottenere. Sistema europeo di informazione sui casellari giudiziali, via libera dal Cdm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2022 Il Dlgs che attua una direttiva Ue riguarda i cittadini di Paesi terzi. Draghi: Spero riforma della Giustizia sia completata con prontezza, serve anche alle toghe. Nella giornata di ieri, il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Mario Draghi e del ministro della giustizia Marta Cartabia, ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo di attuazione della direttiva (UE) 2019/884 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 che modifica la decisione quadro 2009/315/GAI del Consiglio per quanto riguarda lo scambio di informazione sui cittadini di Paesi terzi e il Sistema europeo di informazione sui casellari giudiziali (Ecris), e che sostituisce la decisione 2009/316/GAI del Consiglio. Questa mattina in un messaggio inviato al convegno ‘La riforma Cartabia - Nuove sfide per una giustizia che cambia’ in corso all’Università di Padova, il Presidente Draghi ha affermato: “Gli italiani si aspettano dalla magistratura decisioni giuste e prevedibili, in tempi brevi. Gli stessi magistrati hanno bisogno di una riforma che rafforzi la loro credibilità e terzietà. Questi sono i principi alla base della riforma del Governo, che auspico possa essere completata con prontezza”. L’obiettivo primario delle nuove norme, spiega un comunicato del Governo, è di consentire uno scambio efficace di informazioni sulle condanne di cittadini di paesi terzi tramite il Sistema europeo di informazione sui casellari giudiziali (Ecris). A tal fine, si adottano misure per garantire che le condanne siano corredate di informazioni sulla cittadinanza o sulle cittadinanze della persona condannata e procedure di risposta alle richieste di informazioni, con l’integrazione dell’estratto del casellario giudiziale richiesto da un cittadino di Paese terzo con le informazioni provenienti da altri Stati membri. Il diritto di dirsi innocenti di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 28 maggio 2022 Una lunga e approfondita puntata che la trasmissione “Le Iene” ha dedicato al delitto di Garlasco, dando ascolto al definitivamente condannato Alberto Stasi ed alla sua ferma, dignitosa e soprattutto legittima proclamazione di innocenza, ha scatenato la reazione furibonda del giornalista Gianluigi Nuzzi. La veemenza di quell’articolo (La Stampa, 25 maggio 2022), i toni sdegnati e sarcastici, l’ostentato compiacimento nel riferirsi “all’assassino” Stasi, mi ha lasciato senza fiato. Ignoro se Nuzzi abbia qualche personale ragione di animosità in relazione a questo caso (ho rinvenuto in rete un articolo non meno furibondo, in occasione dell’annuncio del ricorso per revisione da parte dei difensori di Stasi qualche anno fa). Quel che è chiaro è che egli non tollera l’idea, che a suo dire sarebbe un diffuso malcostume, per la quale chi sia stato definitivamente giudicato responsabile di un delitto, vedendosi per di più respingere - come nel caso dell’omicidio di Garlasco - l’istanza di revisione, possa continuare a proclamarsi innocente. La cosa lo indigna, e gli fa scrivere parole di fuoco. Questo - di proclamarsi vittime di un drammatico errore giudiziario - sarebbe la indecente paraculata di “assassini” (adora il termine) che “più sono colpevoli, più sollecitano… la pancia del Paese” contro le legittime sentenze. E così, “gridano al complotto ed all’errore” nella speranza di sottrarsi - sentite questo terrificante sproposito - “al braciere della verità”. E dopo averci sinistramente ricordato che “il male è un sole nero”, che non può riscaldare sentimenti di pietà o anche solo di considerazione verso chi ne è artefice, conclude tronfio: “Per scardinare un processo ci vuole l’innocenza, ed è un bene non negoziabile”. Io guardo sempre con stupore, ma soprattutto con diffidenza e con profondo disagio, a chi ama manifestare in modo così scomposto, iattante ed assertivo una idea che si vorrebbe ispirata a rigoroso civismo, ma che è invece semplicemente becera e sinistramente ottusa. L’idea cioè che una sentenza definitiva di condanna sia la verità non più discutibile; e che discuterla equivalga a contravvenire alle regole fondative dell’ordinato vivere civile, per di più oltraggiando la pietas verso le vittime. Le sentenze definitive si eseguono, e le condanne da esse irrogate si scontano; questa è l’unica regola civile che, a cominciare da Alberto Stasi, nessuno mette in discussione. Ma la pretesa che un imputato che si è dichiarato non colpevole dal primo minuto, per sovrappiù assistito da ben due pronunce assolutorie (!!), debba rassegnarsi alla propria colpevolezza, la dice lunga sui disastri incommensurabili che il populismo giustizialista ha prodotto in questo Paese. Se poi ci riflettete, questa furiosa difesa della intangibilità delle sentenze emerge sempre, come acqua putrida dai tombini, solo riguardo a quelle di condanna. L’assolto no, è sempre sospettato “di averla fatta franca” (espressione davighiana ben nota, non a caso saccheggiata da Nuzzi); in tal caso coltivare il dubbio è un dovere civico, perché il delitto impunito turba i sonni, mentre il rischio dell’innocente in galera ci lascia dormire sereni come i pupi. Come osa, dunque, questo Stasi, insistere sulla propria innocenza? Non c’è limite alla decenza. Si dichiari colpevole, nel rispetto del giudicato penale, e taccia per sempre. D’altronde, non meraviglia che a scatenarsi in questa incontrollabile indignazione sia un protagonista indiscusso dei processi mediatici, cioè del più velenoso veicolo di corruzione della idea stessa di giustizia penale nella pubblica opinione. Processi mediatici che egli - e non è certo il solo, purtroppo- celebra settimanalmente in uno studio televisivo, in parallelo con il processo in Aula, ma anche e soprattutto prima del processo in aula. Processi che, come si sa, affollano il set di consulenti paralleli, criminologi paralleli, testimoni paralleli, avvocati in cerca di gloria, psicologi che decrittano colpevolezze dalla postura dell’imputato. Processi mediatici nella quasi totalità colpevolisti, ovviamente (l’innocenza non fa audience, salvo clamorose ed imprevedibili eccezioni). Io farei già fatica a trovare una buona ragione per rivolgermi ad un assassino confesso, dandogli dell’assassino. Ma davvero non so come si faccia a compiacersi nel dare dell’assassino a chi si è sempre proclamato innocente, come tale giudicato in ben due sentenze pronunciate sul medesimo materiale probatorio che lo ha poi voluto definitivamente colpevole. Non capisco quale sia il gusto intellettuale, di quali letture e di quali frequentazioni sia il frutto, quale sia il senso di infierire su chi la pena la sta già ordinatamente scontando. Ma che questa lezione di indignazione un tanto al chilo debba provenire da chi usa celebrare processi in tv, ravanando nelle tragedie umane a caccia di ascolti e seminando il terreno più infido e velenoso, quello del giudizio penale popolare, beh mi è parso davvero troppo. “Il braciere della verità”?! Come direbbe Totò: ma mi faccia il piacere! Indennizzo per ingiusta detenzione, nessun ostacolo dall’esercizio della facoltà di non rispondere di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2022 Il silenzio serbato dall’arresto alla fase di giudizio non può essere indice della colpa grave o del dolo dell’imputato. L’esercizio del diritto di difesa non può integrare quel comportamento gravemente colposo o doloso che è ostativo al riconoscimento dell’“ingiustizia” della detenzione subita e del relativo ristoro economico. La sentenza n. 20657/2022 della Cassazione penale - a seguito dell’innovazione normativa del Dlgs 188/2021 - adotta un orientamento netto che manda in soffitta quello precedentemente più diffuso dove si affermava che l’esercizio della facoltà di non rispondere può essere elemento indiziario della colpa grave o del dolo del comportamento dell’imputato, che avrebbe perciò concorso a determinare l’errore giudiziario. Il Dlgs 188 adegua in modo più compiuto la normativa nazionale alle disposizioni della direttiva comunitaria 343/2016 e, in particolare, al suo articolo 7 che disciplina il diritto al silenzio e a non autoincriminarsi. L’articolo 4 del Dlgs 188 (lettera b del comma 1) ha espressamente modificato l’articolo 314 del Codice di procedura penale (ultima parte del comma 1) dove afferma che il giudice non può giudicare come incidente sul diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione la circostanza che l’imputato abbia fatto esercizio della facoltà di non rispondere come prevista dall’articolo 64, comma 3, lettera b). La chiarezza della norma sia comunitaria che nazionale non consentono di dar quindi rilevanza al silenzio serbato al momento dell’arresto e in sede di convalida della misura coercitiva o durante il procedimento in cui l’imputato si è avvalso della facoltà di non rispondere fino alla sentenza di assoluzione. In tema di indici di grave colpevolezza o dolo nell’aver dato concorso all’errore giudiziario la Cassazione conclude indicando che comunque il giudice della riparazione può desumerli rivalutando fatti penalmente irrilevanti, ma accertati dal giudice di merito. Bolzano. L’autopsia conferma: “Soffocato dal gas” di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 28 maggio 2022 L’esame non chiarisce il giallo, l’indagine resta aperta. L’autopsia, eseguita nei giorni scorsi sul cadavere di Oskar Kozlowski, ha confermato che la causa del decesso del giovane è da ricondurre ad un’intossicazione di gas: accanto al suo cadavere, nella cella del carcere di via Dante la settimana scorsa, era stato infatti trovato un fornelletto da cucina in dotazione ai detenuti. Per la relazione completa dell’autopsia, eseguita dal medico Dario Raniero, bisognerà comunque ancora attendere diverse settimane ma non è detto che questo accertamento consentirà di chiarire se si sia trattato di un suicidio o di un incidente, cioè se l’inalazione sia stata volontaria per farla finita oppure solo per cercare un momentaneo stordimento. “Voglio sapere come e perché è morto mio figlio” ha detto nei giorni scorsi la madre di Oskar, come riferito dal Corriere dell’Alto Adige, che ha dato notizia dell’indagine aperta dalla Procura per omicidio colposo, contro ignoti. La Procura ha anche dato il nulla osta ai funerali, che saranno celebrati oggi con inizio alle 14 a Brunico. Kozlowski era cattolico ma in passato si era avvicinato al satanismo: proprio per praticare un rito satanico, il giovane si era recato la sera del 28 luglio dello scorso anno nell’appartamento di Brunico del suo conoscente Maxim Zanella, bagnino trentenne, che uccise con una pugnalata al collo, senza un chiaro movente. Ancora prima di iniziare a praticare il rito, infatti, che sarebbe consistito nel versare alcune gocce di sangue su un teschio animale, il 23enne aveva estratto un coltello e colpito l’amico con un unico fendente al collo. Zanella era morto poco dopo, mentre Kozloswki aveva iniziato a vagare per le strade di Brunico, dando poi l’allarme. Il giovane polacco, pur se reo confesso, non aveva però saputo spiegare agli inquirenti il motivo dell’improvvisa e inaspettata coltellata mortale che aveva inferto al povero Maxim Zanella, il quale non aveva avuto nemmeno il tempo di reagire. Da segnalare infine che, se l’indagine per l’omicidio viene archiviata per la morte dell’unico indagato, proseguirà invece quella, a sé stante, per favoreggiamento personale a carico dei quattro amici di Kozlowski che secondo l’accusa lo avrebbero aiutato a liberarsi del coltello e del suo cellulare, gettandoli nel fiume Rienza subito dopo il delitto. Torino. Cella o domiciliari, la mano pesante contro i ventenni in corteo di Giulia Merlo Il Domani, 28 maggio 2022 Tutto nasce con la manifestazione contro l’alternanza scuola lavoro nel capoluogo torinese del 18 febbraio scorso. Il clima è teso dopo gli scontri delle settimane precedenti, i giovani provano ad entrare nella sede di Confindustria, le forze dell’ordine li bloccano e loro lanciano oggetti e colpiscono con i bastoni di plastica delle bandiere. L’11 maggio, infatti, undici ragazzi di cui il più vecchio ha 22 anni, vengono prelevati da casa e portati in commissariato dalla Digos: per tre di loro è scattata la misura cautelare in carcere, altri sono finiti ai domiciliari, altri ancora hanno avuto l’obbligo di firma. Queste misure sono state solo lievemente ridimensionate dal tribunale del riesame: uno dei ragazzi rimane in carcere, altri sono ai domiciliari. Il reato è resistenza aggravata a pubblico ufficiale e le misure sono state disposte sull’ipotesi che la pena superi i tre anni. Ma per casi molto più gravi, la pena non ha mai superato i due anni e mezzo. Il tribunale del Riesame di Torino ha scelto la linea dura contro i ragazzi che hanno manifestato contro l’alternanza scuola-lavoro, confermando la scelta di utilizzare misure cautelari pesanti nei confronti di giovani incensurati in attesa del processo. Tutto nasce con la manifestazione nel capoluogo torinese del 18 febbraio scorso. Appena tre settimane prima, nella manifestazione del 28 gennaio, gli studenti in piazza erano stati picchiati dalle forze dell’ordine e venti ragazzi erano rimasti feriti. Il clima, quindi, era già teso alla vigilia. Nella manifestazione di febbraio, il corteo punta verso la sede dell’Unione degli industriali e i manifestanti chiedono di entrare per lanciare un messaggio politico. La sede è presidiata dalla polizia in assetto antisommossa, che ha creato un cordone dietro al cancello automatico di ingresso. Il corteo spinge, parte il lancio di oggetti contro l’edificio e i ragazzi infilano le aste delle bandiere tra le sbarre della cancellata colpendo i poliziotti. Poi, provando a forzare il cancello, spingono sugli scudi. Il bilancio finale della giornata è di sette agenti feriti, il più grave dei quali con una prognosi di 10 giorni. Le misure cautelari - Torino, però, non è una città qualsiasi: è dal 2010, dall’inizio dei movimenti No tav, che è nota in tutta Italia per essere luogo in cui le manifestazioni con contrasti tra polizia e manifestanti non passano mai impunite, soprattutto attraverso l’utilizzo delle misure cautelari. Così è anche in questo caso. L’11 maggio, infatti, undici ragazzi di cui il più vecchio ha 22 anni, vengono prelevati da casa e portati in commissariato dalla Digos: per tre di loro è scattata la misura cautelare in carcere, altri sono finiti ai domiciliari, altri ancora hanno avuto l’obbligo di firma. Per tutti, il reato contestato è quello di resistenza aggravata a pubblico ufficiale perchè “in concorso tra loro, nel corso di una manifestazione studentesca, nel tentativo di varcare un cancello carrabile, aggredivano ripetutamente con aste, bastoni, pugni e uova di vernice” le forze dell’ordine. Il reato, secondo il capo di imputazione, sarebbe aggravato dal fatto che la violenza sia stata commessa mediante lancio di “corpi contundenti” da più di 10 persone, alcune delle quali erano travisate (indossavano le mascherine, perchè ancora obbligatorie dalle restrizioni Covid). La sproporzione - Immediatamente, le famiglie dei ragazzi fanno ricorso al tribunale del Riesame chiedendo che le misure cautelari vengano revocate: si tratta di ragazzi giovani, tutti incensurati e alcuni nemmeno noti alle forze dell’ordine per precedenti manifestazioni. Invece, il tribunale attenua solamente le decisioni del Gip: dei tre in carcere solo due vengono messi agli arresti domiciliari ma con obbligo di braccialetto elettronico (quindi la misura verrà eseguita solo quando e se si troverà il braccialetto), “e con prescrizioni durissime, che non si vedono nemmeno in caso di reati molto più gravi: possono vedere solo chi convive con loro, hanno divieto di comunicazione con mezzi anche tecnologici e il divieto di andare a scuola o all’università e al lavoro”, dice l’avvocato Valentina Colletta che li difende. Alcuni di quelli agli arresti domiciliari ottengono invece l’obbligo di firma quotidiano, mentre Sara - la ragazza diventata simbolo della precedente manifestazione per la foto che la ritraeva insanguinata - deve rimanere ai domiciliari. Per tutti loro, il tribunale ha ritenuto che esista il rischio di reiterazione del reato e che quindi siano necessarie misure così restrittive, prima ancora che il processo cominci e si verifichino effettivamente le loro responsabilità. C’è un dato eclatante, nella posizione dei giudici torinesi: “il Gip ha applicato le misure dei domiciliari e del carcere sul presupposto per cui si presume che avranno in giudizio una pena superiore a 3 anni”, spiega l’avvocato Andrea Novaro, che difende alcuni dei ragazzi, perché in caso contrario le misure custodiali non possono essere utilizzate. Il che sarebbe anche plausibile, visto che da codice penale si tratta di un reato con pene particolarmente rilevanti. Ma cozza contro la realtà dei processi per resistenza contro pubblico ufficiale. “Prendendo un caso estremo come il maxi-processo contro i no Tav per i fatti del luglio 2011 in val di Susa, in cui ci furono più di 200 feriti tra le forze dell’ordine e gli imputati avevano anche precedenti penali, la pena massima è stata di 2 anni”, spiega Novaro, “per questo ritengo che la decisione del tribunale del riesame sia in contrasto con i principi dell’ordinamento penale”. Invece, per un caso di resistenza a pubblico ufficiale con una dinamica decisamente lieve, commesso da ragazzi molto giovani e tutti incensurati, sono state applicate misure cautelari con l’ipotesi che la pena possa essere superiore ai tre anni di carcere. Consultando la giurisprudenza in casi di questo tipo, è ipotizzabile che anche i ragazzi che non verranno prosciolti avranno una pena decisamente inferiore ai due anni di carcere e a tutti sarà applicata la condizionale, visto che sono incensurati. Tradotto: con tutta probabilità, a posteriori bisognerà constatare che le misure cautelari applicate siano state effettivamente abnormi e come tali lo Stato potrebbe anche trovarsi a doverle risarcire come ingiuste detenzioni. In particolare per chi è rimasto per settimane o mesi nel carcere delle Vallette, considerato tra i più duri d’Italia. Il caso Torino - L’interrogativo è sul perché di un trattamento di questo tipo, che in altre città sarebbe impensabile. La causa, probabilmente, va identificata nel clima che da anni scalda Torino. Tutti i ragazzi sottoposti a misure cautelari, infatti, sono attivisti politici e una parte di loro è già nota alle forze dell’ordine per aver partecipato alle manifestazioni contro l’alta velocità: alcuni di loro, infatti, sono attivisti politici no tav e per questo hanno segnalazioni di polizia fatte dalla Digos per altre manifestazioni anche in val di Susa. Nei confronti dei movimenti no tav la procura di Torino - in sintonia con le forze dell’ordine - utilizza da sempre una mano molto pesante per reprimere fenomeni violenti, con ampio utilizzo in particolare delle misure cautelari. Proprio la repressione di questo tipo di antagonismo politico, Torino può contare su un pool di magistrati specializzati. Nel 2010 e dunque prima dello scoppio della contestazione no tav in tutta la sua violenza, infatti, la procura ha istituito un nucleo chiamato ad occuparsi solo di conflitto sociale, con la denominazione di pool “Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Reati in occasione di manifestazioni pubbliche”. E proprio a questo dipartimento interno alla procura sono state affidate anche le indagini a carico dei ragazzi alle manifestazioni contro l’alternanza scuola-lavoro. Napoli. Processo Cella zero, gli agenti rinunciano alla prescrizione di Viviana Lanza Il Riformista, 28 maggio 2022 “Vogliamo l’assoluzione piena”. Sette agenti della polizia penitenziaria, imputati nel processo sulla cosiddetta “cella zero” del carcere di Poggioreale, la cella più temuta dove, secondo l’accusa, venivano portati i detenuti da punire con flessioni e botte, hanno presentato una rinuncia, qualora dovesse sopraggiungere, alla prescrizione dei reati. Il Riformista lo aveva anticipato. Ieri in udienza la formalizzazione della richiesta. Il processo sulle presunte violenze in carcere dura da anni, ebbe inizio nel 2018 in relazione a fatti contestati che risalgono al 2012. Il tema della prescrizione è tema dibattuto in questo processo. L’avvocato Marcello Severino, del collegio di difesa, ha voluto chiarire che “gli imputati già dall’inizio del processo hanno manifestato la volontà di rinunciare alla prescrizione qualora fosse maturata”. Oltre agli agenti difesi dall’avvocato Severino, anche quelli assistiti dagli avvocati Mino Capasso, Carlo De Stavola e Marco Monica hanno optato per la stessa richiesta. Chiedono ai giudici di esprimersi nel merito delle accuse, dei fatti contestati. Sotto processo sono in dodici, a vario titolo chiamati a rispondere di reati che vanno dall’abuso di potere ai maltrattamenti. Accuse nate dalla denuncia di quattro ex detenuti del carcere di Poggioreale, che presero coraggio e raccontarono all’allora garante dei detenuti e poi agli inquirenti il metodo con cui chi osava rispondere o sostenere lo sguardo di un poliziotto sarebbe stato punito. “Il metodo Poggioreale”, si disse. Un’espressione che si è ascoltata anche nelle chat intercettate fra agenti indagati per i pestaggi del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Solo una coincidenza, una suggestione? Chissà. I detenuti hanno raccontato l’orrore della cella zero, gli agenti si sono difesi negando le accuse. Il processo riprenderà tra qualche settimana. È ancora nella fase del dibattimento. Gorizia. “Verso una pena alternativa”, parla il cappellano del carcere di Selina Trevisan voceisontina.eu, 28 maggio 2022 Prendendo spunto dalle tematiche sviluppate nel recente convegno sul Progetto Esodo per l’inclusività sociale dei detenuti, parliamo con don Zuttion, cappellano del Carcere di Gorizia, sui passi da compiere anche in questa struttura. Negli scorsi giorni una delegazione della Caritas diocesana di Gorizia ha assistito a Verona al convegno “Esodo, non solo carcere. Misure alternative, formazione, lavoro: 10 anni di inclusione sociale”, momento di riflessione sul decennale del Progetto Esodo, promosso dalle diocesi di Verona, Vicenza e Belluno-Feltre e sostenuto da Fondazione Cariverona, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Verona, Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e Provveditorato Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria del triveneto. Il Progetto ha dato risultati molto positivi e incoraggianti: grazie alle sue attività inclusive infatti ha fatto registrare una netta caduta della recidività al delinquere e ha permesso quasi 1.800 inserimenti lavorativi e più di 2.200 percorsi di formazione professionalizzante. L’incontro ha suscitato la riflessione sulla situazione locale, in particolar modo del carcere di Gorizia. Quali attività sono presenti, affinché la pena non sia solo detentiva ma anche educativa? Che prospettive per chi ha scontato la sua pena? Ne abbiamo parlato con don Paolo Zuttion, cappellano presso la Casa Circondariale di Gorizia. Don Paolo, la pandemia ha dato lo stop a tutte le attività presenti nelle carceri, non potendo accedere personale esterno. Ora che le cose sono migliorate, che situazione si presenta nel carcere cittadino per quanto riguarda le attività del volontariato? Sostanzialmente fino a 15 giorni fa le attività proposte dal volontariato all’interno della struttura erano state tutte fermate, sono stati due anni di stand by. Per fortuna durante questo tempo i volontari - che provengono da Rinnovamento nello Spirito e da alcune parrocchie - hanno continuato a mantenersi in contatto e legati anche attraverso un gruppo che abbiamo su Whatsapp. Ora si è potuta riprendere la distribuzione del vestiario e dei prodotti per l’igiene, che raccogliamo solitamente a Natale in città e poi distribuiamo durante il corso dell’anno. Quando non era possibile entrare nella struttura, ero chiamato a fare questo servizio; ora, grazie alla riapertura, ho la grande possibilità di essere aiutato dai volontari. A livello di animazione non è ancora stato possibile riprendere le liturgie ma ritorneranno ben presto come avveniva nel periodo pre-Covid. Tra i volontari c’è ora il desiderio, da parte di un gruppetto, di creare un Centro di Ascolto, per rilevare, porsi in ascolto appunto delle problematiche, delle preoccupazioni. C’è già una volontaria che lo fa ma in maniera autonoma, vorremmo dare a questo servizio una forma più strutturata. Per quanto riguarda poi le attività all’interno del carcere? Veniva proposto il teatro sociale, sarà ancora possibile? Il teatro sociale verrà riproposto, il percorso ripartirà nei prossimi mesi. Il teatro sociale ha una forte funzione pedagogica per i carcerati, aiutandoli in qualche modo a “rientrare” in sé stessi e mettendo in movimento molte dinamiche. Questo tipo di teatro è svolto nel carcere di Gorizia dalla compagnia Fierascena, con cui da tempo la Caritas diocesana collabora. Oltre a rappresentare una terapia personale per chi vi partecipa, ha poi la grande funzione, il grande compito, di portare il territorio nel carcere: in passato si sono svolte rappresentazioni che hanno portato anche 200 spettatori all’interno della struttura carceraria; allo stesso tempo porta il carcere fuori, lo apre sul territorio, aiuta a farlo conoscere ospitandolo nei teatri, come avvenuto ad esempio al Teatro Verdi che ha accolto rappresentazioni proposte da compagnie composte da detenuti o ex detenuti e che hanno richiamato molti spettatori. Guardando ai passi da compiere ora, cosa manca a Gorizia per offrire una pena che sia formativa? Proprio al convegno sul Progetto Esodo la dottoressa Lucia Castellano del Ministero della Giustizia, ha parlato della riforma della Giustizia; punto fondamentale è che, secondo questa nuova visione, il carcere diventerà l’estrema ratio in fase di giudizio. Ora la situazione è ribaltata: una persona va in carcere e poi, se ha una buona condotta, può avere la possibilità di godere delle misure alternative. Con la riforma avverrebbe quindi il contrario: per pene fino a 4 anni si prevede la possibilità che il giudice, invece di condannare alla detenzione, possa scegliere la pena alternativa e rieducativa all’esterno del carcere in strutture che garantiscano un percorso. Questo è un cambiamento radicale, soprattutto per il carcere di Gorizia che ospita per la maggioranza detenuti con pene sotto i 4 anni. Il territorio è così chiamato a prepararsi per un’accoglienza che preveda queste misure alternative e il lavoro - in primis come Chiesa - da svolgere in prospettiva in questi anni, è quello di far nascere nuove realtà e possibilità, soprattutto qui a Gorizia dove mancano organismi che si occupino di questo. Un possibile progetto - che nasce da don Alberto De Nadai, uno degli “storici” operatori del carcere, che se ne occupa da più di 50 anni come volontario - è la sistemazione di un piano di una palazzina di proprietà del Comune, situata proprio accanto al carcere, come luogo di accoglienza per le famiglie che vengono a visitare i carcerati: molte vengono da lontano e ora sono costrette ad attendere il proprio turno all’esterno, dove non c’è né spazio né una tettoia, sotto la pioggia o il sole cocente. Questa casa di accoglienza ha bisogno però di essere gestita, quindi l’idea - che nascerà spero tra poco - è di realizzare un’associazione di “amici” dei detenuti, alla quale possano partecipare anche ex detenuti; quest’associazione, oltre a gestire questo luogo, potrebbe avere anche un’operatività nel ricercare lavoro per chi terminerà la pena, uno dei grandi problemi attuali, oppure ancora potrà occuparsi della ricerca di strutture o appartamenti dove poter collocare queste persone. È un lavoro sul territorio che in parte era iniziato con il progetto Disma della Caritas diocesana, concluso negli scorsi mesi, che vogliamo portare avanti perché rappresenta l’attenzione dell’intero territorio all’accoglienza di queste persone, appunto anche secondo i dettami della nuova riforma della Giustizia. Don Paolo, cosa significa per lei essere cappellano del carcere? Significa prendersi a cuore la situazione di tante persone e questo non significa soltanto ascoltare le situazioni di chi si trova in carcere ma anche intessere relazioni con le famiglie: a volte sono persone anziane, che si trovano un figlio in carcere e magari non possono nemmeno venire a trovarlo perché non ne hanno la possibilità; oppure situazioni di sofferenza incredibile da parte della famiglia per questo suo membro incarcerato. Essere cappellano significa anche mettersi alla ricerca di opportunità lavorative, abitative, per chi conclude la pena o può usufruire delle misure alternative, ed è una richiesta costante - anche se questo non dovrebbe essere propriamente il mio compito, lo faccio come supplenza; motivo per cui stiamo cercando di costruire una realtà che operi in questo senso. Il mio compito primo è quello di essere accanto alle persone, di portare la Parola di Dio e la consolazione che viene dal Signore. Spesso dal confronto con loro, magari durante o al termine della Messa, emergono riflessioni importanti: è lì che sento di rispondere a quello che è il mio mandato. Verona. Donne liberate dalla tratta. Tra cucito e sartoria per ricostruirsi una vita di Alice D’Este Corriere del Veneto, 28 maggio 2022 Stipendio e reinserimento per le vittime di sfruttamento. È “D-Hub”, atelier e allo stesso tempo luogo di incontro. Una svolta anche per il quartiere: “Riempiamo di attività il vuoto”. Entrano portando tra le braccia le stoffe per il laboratorio, accendono la luce, poi le macchine da cucire. “Che facciamo oggi? Una borsa potrebbe essere molto bella con questo motivo qui, che ne dici?”. Amina e Prescious vivono a Verona e si conoscono da qualche mese. Hanno trovato “D-Hub, atelier di riuso creativo” mentre affrontavano un percorso di fuoriuscita dalla tratta e lì hanno scoperto uno spazio libero dove incontrarsi, fermarsi e ripartire. Alle loro spalle c’è un mondo di sfruttamento, di perdita dell’identità personale. Ma dopo anni passati a credersi senza altre prospettive qualcosa è cambiato. “Non sempre l’unica soluzione è uscire dallo sfruttamento. O meglio: è la soluzione - spiega Maria Antonietta Bergamasco, oggi presidente e una delle fondatrici di D-Hub - ma spesso non basta. Le donne che hanno vissuto una situazione di questo tipo ci mettono mesi per riuscire a ripensarsi. Prima viene la fuoriuscita dalla tratta, poi l’essere spesso “testate” dalla società come madri e solo e solo alla fine, dopo molti mesi, possono riscoprirsi come donne, con le loro capacità. Ma perché aspettare tutto questo tempo?”. D-Hub nasce a Verona a dicembre 2013 dalla volontà di un piccolo gruppo di operatrici sociali che lavorava con donne e con famiglie. E nasce proprio per questo. “Volevamo dare vita a uno spazio libero dove sperimentare delle forme ibride di inserimento sociale e lavorativo - dice Bergamasco - che non fossero dettate dai caratteri dell’urgenza: per cose di questo tipo c’è bisogno di tempi lenti. Di respiro”. E il respiro le donne di D-Hub lo hanno trovato a Veronetta. Un quartiere centrale di Verona in cui hanno deciso fin da subito di stabilire la sede della loro sartoria sociale. La scelta di stare in un quartiere centrale non è stata facile ma alla fine si può dire che la loro sia stata una scommessa vinta. La sartoria sociale infatti è stato il primo passo, ma poi il quartiere ha accolto un punto swap di abiti, libri e tessuti in un piccolo giardino cittadino preso in gestione dalla cooperativa in epoca Covid. “Faticavamo a tenerlo aperto all’inizio, siamo pochi e facciamo molte cose. Poi è arrivato Giancarlo”, spiega Bergamasco. Giancarlo ha 70 anni e una casa di 30 metri quadri. Abita a Veronetta e per lui il parco negli anni era diventata una risorsa per poter incontrare altre persone, per dare alla sua vita sociale una speranza, in un momento di solitudine, peggiorata dal Covid. “All’inizio non lo conoscevamo bene - continua la presidente - ma gli abbiamo dato fiducia. Ora ha le chiavi, è uno dei responsabili delle aperture di quello spazio”. Il giardino di Veronetta è fiorito con Giancarlo e con D-Hub. E nell’officina che c’è dentro fanno la carta, lavori di tessitura, sartoria. “Quando abbiamo iniziato a dar vita a D-Hub - spiega Maria Antonietta Bergamasco - volevamo proprio questo: inserirci dove altri non c’erano. Non siamo partite pensando di sostituirci a nessuno, ma pensando di coprire spazi vuoti”. Uno dei tanti spazi vuoti da colmare è quello di chi esce da una pena detentiva, specialmente per le donne. Certo, magari trova un lavoro. Certo, magari riparte. Ma ci sono mesi di attesa in cui non esistono forme di sostegno o sono molto difficili da raggiungere. “Un esempio? Una delle nostre ragazze ha finito la pena a marzo e anche se ha già trovato un lavoretto part time verrà pagata per la prima volta a giugno - spiega Bergamasco - nel frattempo come avrebbe vissuto? Sarebbe dovuta andare in dormitori pubblici e vivere senza stipendio. Ha cominciato con noi mesi fa e siamo riuscite ad anticiparle qualcosa”. Piccole luci, segnali di ripartenza. Che uno dietro l’altro diventano un cammino. “Penso sempre che le nostre persone se fossero andate in qualunque altro ufficio sarebbero state utenti - chiude Bergamasco - mentre qui sono diventate le colonne portanti del nostro progetto. Ovviamente è un rischio. Ma solo così sentiamo di fare la differenza, rendendo protagonista chi no. San Gimignano (Si). Il giudice costituzionale Viganò ha incontrato i detenuti quinewsvaldelsa.it, 28 maggio 2022 Il togato della Corte Costituzionale in collaborazione con l’Università ha incontrato i carcerati del penitenziario di alta sicurezza di San Gimignano. Un appuntamento di spessore questa mattina si è svolto in un luogo dove le implicazioni della giustizia sono la vita quotidiana. Il giudice della Corte Costituzionale Francesco Viganò ha incontrato oggi, i detenuti della Casa di reclusione di San Gimignano, in un evento organizzato Gruppo di ricerca e formazione sul diritto pubblico europeo e comparato dell’Università di Siena. Durante l’incontro, il giudice Viganò ha tenuto una lezione sulla Corte costituzionale e i diritti, cui ha fatto seguito un dibattito con i detenuti. L’evento si pone sui lati di un triangolo virtuoso che idealmente unisce l’Università, la casa circondariale di Ranza e il Giudice delle leggi. Il rapporto tra il carcere di San Gimignano e l’Università di Siena si è stretto e consolidato negli anni, nella convinzione condivisa e suffragata da numerosi studi che l’istruzione sia, con il lavoro, uno degli assi preferenziali attraverso cui passa la rieducazione del recluso prevista dalla nostra Carta fondamentale. Attualmente, sono circa 40 gli ospiti della Casa di reclusione iscritti ai corsi di laurea dell’Università di Siena, cui vanno ad aggiungersi altri che hanno già conseguito la laurea e, in alcuni casi, anche la laurea magistrale. Non meno importante è il legame che da qualche anno si è creato tra la Corte costituzionale e il carcere. I giudici della Corte hanno infatti avvertito un’esigenza di apertura nei confronti della società civile concretizzatasi, non a caso, anche attraverso l’incontro con altre istituzioni quali la scuola e il carcere. L’esperienza ha dato vita al docufilm “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, per la regia di Fabio Cavalli. Francesco Viganò è stato nominato Giudice costituzionale dal Presidente della Repubblica nel 2018, dopo aver svolto la carriera accademica nel settore del Diritto penale italiano e transnazionale. I suoi interessi di ricerca spaziano dai temi classici della teoria del reato e della parte speciale, ad argomenti di attualità quali la cooperazione europea ed internazionale in materia penale, la criminalità organizzata e il terrorismo di matrice islamica, la corruzione, la responsabilità medica e le decisioni di fine vita, i rapporti tra diritto penale e fonti sovranazionali e il dialogo fra corti interne e corti europee. Un appuntamento significativo sia per il luogo che per la platea, ma sicuramente interessante e presente vista la diffusione dello studio universitario all’interno del penitenziario. Roma. L’omaggio dell’arte ai martiri della giustizia. Al Noa la mostra di Carlo Inglese di Orazio La Rocca La Repubblica, 28 maggio 2022 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, omaggiati anche dal mondo dell’arte a trenta anni dalla strage di Capaci e di via D’Amelio, inseriti in una ideale galleria di martiri della giustizia, del libero pensiero e dei diritti umani di qualsiasi epoca. Al di là di colori politici, religioni, nazionalità. È il messaggio che il pittore Carlo Inglese lancia nella sua nuova esposizione personale al NOA (Nuova Officina delle Arti) di Largo Giorgio Maccagno 28, a Roma. La mostra - intitolata Parla piano. Di silenzi e di censure resterà aperta al pubblico fino al 26 luglio - è dedicata ai grandi personaggi storici che si sono battuti per la libertà, la pace, rispetto della legge, non violenza, contro guerre e corsa agli armamenti, difesa dei poveri, fino al martirio, con testimonial d’eccezione. Primo tra tutti, Cristo, affiancato dalle figure più significative del Novecento e del Terzo Millennio, sia religiose che laiche. Ed i due magistrati vittime, insieme alle loro scorte, della mafia di trenta anni fa ne sono di sicuro gli esempi che hanno maggiormente colpito l’opinione pubblica nel secolo scorso. Carlo Inglese - seguendo un filo conduttore ispirato ai contenuti della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo e ai più grandi fatti di cronaca degli ultimi decenni -, reinterpreta Falcone e Borsellino insieme ad una serie di figure di ieri e di oggi che - a partire da Gesù crocifisso -, hanno segnato la Storia battendosi per il bene comune e la pace, come, tra gli altri, Martin Lutero, Martin Luter King, Ghandi, papi (Giovanni Paolo I, Benedetto XVI...), altre vittime delle mafie (Peppino Impastato...), ma anche sportivi e nomi dello spettacolo (Pier Paolo Pasolini, Enzo Tortora, Marylin Monroe, Mia Martini, Marco Pantani...). Nomi e volti noti al grande pubblico dipinti con una tecnica d’avanguardia, tipica dell’arte pittorica di Carlo Inglese, basata sulla ricerca e l’armonia dei colori, l’uso di materiali cosiddetti poveri, ma che hanno dato ai primi piani dei personaggi ritratti dall’artista espressioni vive, dinamiche, così come sono rimaste nei ricordi della gente. “Martiri, testimoni (forse in molti casi loro malgrado) di un tempo che ancora, duemila anni fa come oggi, non tutela le minoranze o non consente al dissenso di esprimersi. A loro Carlo Inglese nelle sue tele - spiega Francesca Rinaldi curatrice della mostra - tappa letteralmente la bocca con un nastro rosso a forma di croce posto sulle labbra. Ci piacerebbe che almeno in questo piccolo spazio si possa loro rendere giustizia anche solo con un ricordo e un senso di riconoscenza”. Parla piano. Di silenzi e di censure, si legge nella nota dell’ufficio stampa del Noa, “nasce per essere un piccolo e doveroso omaggio a quei personaggi considerati “scomodi”, figure con una visione del mondo utopistica, sognatori impopolari o semplicemente amanti della giustizia e dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Statisti, uomini di fede, intellettuali, personaggi dello spettacolo, uomini politici, papi, giornalisti, atleti, artisti; tutti accomunati dall’aver vissuto o dall’essersi espressi fuori dal coro...il colore della pelle, l’orientamento sessuale, il pensiero politico, la scelta di denunciare anziché tacere, il desiderio di verità e di giustizia o un ideale non canonico sono stati la loro “colpa”. A loro Carlo Inglese, nelle sue tele esposte al NOA, “dopo aver sapientemente mescolato a manifesti e carte varie in stile dripping (gocciolante), bitume, calce e bruciature - concludono i curatori della mostra - pone sulle labbra una vistosa croce rossa per ricordare graficamente l’ingiuria del silenzio imposto con forza e violenza ai martiri della pace e della giustizia esposti alla mostra e, idealmente, a tutte le anonime vittime cadute per gli stessi valori in ogni tempo e paese”. Provocazione-monito a futura memoria. Roma. A Piazza di Siena “Caffè Galeotto” e abiti “Made in Rebibbia” di Antonella Barone gnewsonline.it, 28 maggio 2022 Gli spettatori del concorso ippico di Piazza di Siena, in corso da ieri a domenica 29 maggio a Roma presso Villa Borghese, dopo aver visitato stand che espongono articoli di prestigiosi e rinomati marchi internazionali, possono sostare in quello del “Caffè galeotto” e assaggiare una miscela lavorata e confezionata nella torrefazione della Casa circondariale di Rebibbia NC da persone che stanno scontando una pena, ma che hanno avuto la possibilità di essere formati e inseriti nel mondo del lavoro. Lo stand, aperto dalle 10 alle 20, espone e vende anche altri prodotti di economia carceraria realizzati nell’istituto romano, come dolci, pane, abbigliamento, ma anche un frac e un abito femminile da gran sera confezionati nel laboratorio sartoriale “Made in Rebibbia”. A illustrare e vendere gli articoli, insieme ai responsabili di cooperative che offrono lavoro a persone in espiazione della pena, ci sono tre persone detenute e una quarta in misura alternativa. Tra di loro un esperto nella riparazione di macchine da caffè e l’ex coordinatore della torrefazione di Rebibbia, dal 3 novembre assunto come falegname all’Istituto Superiore di Sanità. Infine una curiosità: la collocazione dello stand gestito da detenuti vicino a quello di Rolex non ha mancato di provocare più di qualche battuta, anche fra gli stessi standisti. In realtà, si tratta di categorie di valori “alti”, anche se qualitativamente diversi: da una parte l’esclusività del design e del marchio universalmente noto nel mondo del lusso, dall’altra la proposta di progetti eco-sostenibili e solidali. I venditori del Caffè galeotto, d’altronde, sono i primi ad aver imparato a proprie spese che… la libertà non ha prezzo. Firenze. “Tra le righe”, Paolo Cognetti a Sollicciano per un progetto di letture comune.fi.it, 28 maggio 2022 Lunedì 30 maggio si concluderà con un evento davvero speciale l’edizione 2022 del progetto di lettura ad alta voce “Tra le righe”, promosso da Arci Firenze e realizzato grazie alla collaborazione e al sostegno della Direzione di Solicciano NCP e dell’Istituto scolastico CPIA 1 Firenze, proprio all’interno del carcere. Dopo otto incontri nei quali i volontari e le volontarie di Arci Firenze hanno proposto la lettura ad alta voce del romanzo “Senza mai arrivare in cima” di Paolo Cognetti, sarà proprio l’autore, Premio Strega nel 2017 con “Le Otto Montagne” e in libreria con il suo ultimo libro, “La felicità del lupo”, uscito a novembre 2021, a concludere questo percorso incontrando i detenuti che hanno partecipato al progetto e gli allievi della scuola lunedì alle ore 14:00 proprio a Sollicciano. Il progetto è iniziato nell’autunno del 2018 quando nell’ambito dei cicli formativi rivolti ai propri volontari, Arci Firenze realizzò un percorso formativo dedicato alla lettura a voce alta con l’obiettivo di creare un gruppo di persone capaci di promuovere la passione per la lettura anche in contesti usualmente estranei a questo tipo di attività. Da lì si è costituito un gruppo di persone capaci di leggere dei testi letterari valorizzandone la bellezza e la comunicatività e soprattutto capace di trasmettere sensazioni e stimoli agli ascoltatori. L’obiettivo generale era e rimane quello di far conoscere ad una fascia sempre più ampia di persone, a prescindere dal proprio bagaglio culturale di partenza, il fascino della lettura ed il potere comunicativo di molti testi letterari, creando inoltre occasione di confronto e di riflessione sulle pagine via via lette a voce alta dai nostri volontari. Da qui nacque l’idea di “Tra Le Righe”, la proposta di un ciclo di incontri di lettura a voce alta per la popolazione di Sollicciano realizzata con il CPIA1 Firenze, con cui collaboriamo da anni. Dopo il capolavoro di Tabucchi “Sostiene Pereira” nel 2020 e “Niente caffè per Spinoza” di Alice Cappagli nel 2021, quest’anno è stato proposto “Senza mai arrivare in cima” di Paolo Cognetti. Le letture dei vari capitoli del libro sono state affidate a 4 volontari e volontarie che in 8 incontri tenuti tra marzo e maggio 2022 hanno affrontato l’intera narrazione coinvolgendo un gruppo di detenuti che al termine della lettura sono stati stimolati ad una serie di riflessioni e di domande che lunedì, grazie alla disponibilità di Paolo Cognetti, potranno rivolgere direttamente all’autore in un incontro davvero eccezionale che sarà anche un invito alla lettura per gli allievi della scuola. Napoli. Mostra fotografica: “Anime perse. Donne, madri nelle carceri italiane” di Marco Molino Corriere del Mezzogiorno, 28 maggio 2022 L’orizzonte è una grigia parete scrostata, eppure gli sguardi decisi sembrano puntare oltre la pietra e le solide sbarre. Questi volti segnati dalla vita cercano un riscatto e nelle ruvide immagini della mostra “Anime perse - Donne, madri nelle carceri italiane”, visitabile gratuitamente fino al 10 giugno nel complesso monumentale di San Severo al Pendino, emerge il desiderio di ritrovare la libertà principalmente in sé stesse. La rassegna del fotoreporter Giampiero Corelli, organizzata in collaborazione con la sartoria sociale e sostenibile Palingen, presente all’interno del carcere femminile di Pozzuoli, non mira infatti a suscitare soltanto commozione. Le protagoniste degli scatti in bianco e nero ovviamente soffrono, ma non si piangono addosso e si fortificano immergendosi nel lavoro, che concerne nel recupero di tessuti altrimenti destinati allo scarto. Per questo servizio le detenute vengono regolarmente assunte e retribuite, avendo nel contempo la possibilità di formarsi nell’arte della sartoria e tentare un concreto reinserimento al termine della pena. Nella mostra sono raccolte 45 immagini che fanno parte di un lungo reportage realizzato da Corelli in numerose carceri italiane dal 2008 a oggi. Un progetto focalizzato sulle sezioni e carceri femminili, per cogliere i sentimenti delle detenute, spesso anche madri, ma includendo pure le addette di polizia penitenziaria che vivono gran parte delle loro giornate nei medesimi ambienti. Tra le sbarre c’è insofferenza, prevale la rabbia e la depressione, però nascono anche rapporti fondati sul comune sentire, sulla condivisione di un percorso di rinascita. Da sempre interessato alle problematiche sociali, il fotoreporter ravennate Corelli vuole sottolineare con i suoi ritratti la funzione redentrice del lavoro e ricorda come siano soltanto il dieci per cento i casi di recidiva nei detenuti che hanno partecipato ad un programma lavorativo o di reinserimento. Queste donne rammendano vestiti insieme alle loro stesse vite. Angela Davis, lottare per nuove forme di giustizia recensione di Carla Panico Il Manifesto, 28 maggio 2022 “Aboliamo le prigioni?”, dell’attivista e femminista statunitense. Edito da Minimum fax un volume di testi contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale. Negli Stati Uniti, il sistema carcerario è diretta estensione di quello schiavile, nasce in continuità con l’epoca dei linciaggi e crea una nuova forma di lavoro non pagato. Se possiamo pensare di abolire le prigioni, è anche grazie alle persone trans e non binarie che ci hanno mostrato come pensare al di fuori della scatola di ciò che è considerato “la normalità”, diceva Angela Davis nel 2020. Abolire il carcere è, anzitutto, un potentissimo atto immaginativo, oltre la norma: questo il tema del celebre saggio Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale (Minimum fax, pp. 278, euro 18, traduzione di Giuliana Lupi). Qual è la necessità di tornare a pubblicare un libro che, in poco meno di 20 anni di esistenza, è già un classico del pensiero intersezionale e abolizionista? Riportare nell’Italia contemporanea lo straordinario lavoro teorico e politico che ha coperto oltre un trentennio della vita di Angela Davis è una operazione in buona parte impossibile. Le carceri statunitensi, nella precisa genealogia tracciata nella prima parte del volume, esistono in quanto diretta estensione del sistema schiavile: il sistema carcerario, scrive Davis, nasce in continuità con l’epoca dei linciaggi e crea una nuova forma di lavoro non pagato, adatta al quadro istituzionale post-schiavile e capitalista - ciò che Davis definisce il complesso carcerario - industriale. La seconda parte del volume raccoglie una serie di lunghe interviste realizzate a pochi anni dall’11 settembre e immediatamente dopo la diffusione delle immagini delle torture di Abu Ghraib, che avevano prodotto uno shock negli Usa di Bush. La differenza tra Abu Ghraib e una qualsiasi prigione non è qualitativa, ma risiede esclusivamente nei diversi regimi di visibilità in cui le vicende si trovano ad accadere: una visibilità pressoché spettacolarizzata che non deve stupire, se consideriamo che la tortura viene esercitata su corpi considerati non umani affatto o non umani abbastanza; su quelle che Judith Butler, riferendosi ai prigionieri politici di Guantánamo avrebbe definito vite che non valgono la pena di essere vissute. La postfazione all’edizione italiana - di Valeria Verdolini di “Antigone” - evoca le recenti immagini del carcere di Santa Maria Capua Vetere, la ritualità organizzata delle torture della cosiddetta mattanza della Settimana Santa del 2020 che ha scioccato un intero Paese in cui il sovraffollamento carcerario è una realtà consolidata, pallidamente apparsa agli onori della cronaca solo nel drammatico contesto della pandemia e in cui le violenze strutturali del sistema poliziesco - e di polizia carceraria in particolare - vengono ancora trattate, nella migliore delle ipotesi, con il paradigma delle mele marce. Ma anche un Paese in cui esistono forme di profilazione razziale dei presunti criminali - perché è importante evitare l’errore di cancellare l’elemento centrale del lavoro di Davis, quello della razza - sicuramente diverse da quelle statunitensi, ma che portano un numero enorme di persone migranti ad essere detenute per reati minori, criminalizzate a causa di una legge che ha reso la clandestinità reato, rinchiuse in centri detentivi speciali il cui regime di invisibilità e opacità è addirittura molto superiore a quello delle carceri ordinarie. Eppure, anche in queste occasioni estreme, si riesce a pensare al carcere solo in termini di riforma, cioè di miglioramento di un sistema nato strutturalmente per disumanizzare chi ne fa parte. La lotta abolizionista, ci insegna Davis, è una lotta intersezionale che metta prima di tutto al centro la restituzione dell’umanità che non si riesce a riconoscere ai soggetti detenuti, la possibilità radicale che le loro vite, come quelle di chiunque altro, valgano la pena di essere vissute. Se guardiamo ai movimenti femministi, Aboliamo le prigioni vede la luce in un’epoca diversa dalla nostra, prima della “quarta onda”, del #metoo e di Ni una menos. Una contraddizione sembra più che mai attuale: come è possibile conciliare l’abolizionismo con un femminismo incentrato sulla questione della violenza? Il movimento femminista si è dovuto confrontare con un sistema giudiziario e legislativo patriarcale, che tende a disconoscere la violenza di genere mediante condanne lievi - quando non inesistenti - agli aggressori. Istanze punitive sono emerse davanti a sentenze di assoluzione o pene estremamente lievi - come nel famoso caso de La Manada in Spagna: di fronte al costante disconoscimento della violenza di genere e al diffuso senso di sospetto nei confronti delle vittime - fortissimo laddove la cultura dello stupro è dominante - il tribunale diventa l’unico spazio creatore di verità inoppugnabili, la pena si trasforma nell’unica modalità possibile per essere credute o protette. Senza operare nessun giudizio sulle scelte individuali e continuando a sostenere collettivamente le sopravviventi che denunciano, come si può continuare ad esercitare un pensiero ed una pratica abolizionista? Di fronte ai crimini sessuali e di genere l’atto immaginativo che ci viene richiesto per pensare un mondo senza prigioni si fa esercizio estremamente complicato e doloroso, eppure necessario. Ci viene in aiuto Davis, che traccia un’articolazione piuttosto chiara della violenza patriarcale, sessista e razzista delle istituzioni, che si concentra sulla figura dello stupratore nero - ma, potremmo aggiungere, dello stupratore migrante, del musulmano sessista, dello straniero violento - a discapito di quella che, già nel 2003, Davis definiva una “pandemia di violenza domestica” passata completamente inosservata, perpetrata da soggetti rispettabili, integranti il tessuto sociale produttivo, per i quali la prigione non è stata prevista né pensata. Davis ci ricorda, in altre parole, che la credibilità delle donne che subiscono violenza passa ancora dalla profilazione degli aggressori e che un sistema strutturalmente costituito per riprodurre diseguaglianza difficilmente potrà assicurare giustizia sociale. Come ha scritto l’antropologa Rita Segato, uscire dal binomio violenza/punizione è difficile proprio perché questa è l’unica alternativa da sempre proposta. Molto più difficile è immaginare una lotta alla violenza patriarcale che non passi tanto dalla punizione di violenza già accadute quanto dalla trasformazione sociale - sul piano dell’educazione affettiva, della creazione di nuove forme di relazione tra generi - affinché queste non accadano. Tanto quanto immaginare un futuro in cui le donne che denunciano la violenza di genere vengano semplicemente, prima di tutto, credute, senza il bisogno di una sentenza - il più delle volte viziata da bias razzisti e patriarcali - che stabilisca la verità in base ad anni di galera commisurati oppure no. L’atto di credere alle persone che subiscono violenze è la condizione necessaria e minima per la presa in carico collettiva della loro storia dolorosa, per la riparazione sociale - non di un torto individualmente subito, ma di una ferita alla società intera - per immaginare nuove forme di giustizia comunitaria che rompano l’incantesimo ineluttabile che la prigione esercita sulle nostre vite. “Il teatro è uno spazio di libertà in cui riempire i vuoti che la carcerazione crea” di Renata Savo scenecontemporanee.it, 28 maggio 2022 Intervista a Renato Bandoli e a Enrico Casale. Nell’ambito della quarta annualità del progetto Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, promosso sul territorio nazionale da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria, ha debuttato ieri sera e replicherà stasera, venerdì 27 maggio, alle 21.00 al Teatro degli Impavidi di Sarzana, lo spettacolo teatrale Tutto quello che sono, sviluppato dallo studio presentato nel settembre 2021 con il titolo Operine, che vede in scena gli attori-detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino” della Spezia. Lo spettacolo ruota attorno alla figura dell’attore Ettore Petrolini, emblema di un Teatro di Varietà che fu spesso preso di mira dalla critica per la sua apparente superficialità. Abbiamo intervistato Enrico Casale e Renato Bandoli, registi e conduttori che, insieme a Simone Benelli, hanno guidato il progetto di teatro in carcere promuovendo con i partecipanti (Luca Colli, Andrea Lombardi, Preng Doda, Marco Conti, Tornello Leonardo, Haitem Rammah, Wimin Rosario Lopez, Jose Paul Bravo Pazmino, Gennaro D’angelo, Valentin Marius Neacsu, Alessandro Vailatti, Salihovic Halid, Mirco Vasoli, Sandro Riviera, Emiliano Shota, Bartolomeo De Cola, Alice Parodi, Simone Benelli, Giovanni Franceschini) proprio il rovesciamento degli stereotipi legati a questo genere di teatro in auge negli anni ‘20 del Novecento, e cercando, attraverso di esso, un aggancio con il presente. L’esperienza prova a integrare il teatro e la pratica artistica con la necessità di “riempire quei vuoti che comunque l’esecuzione della pena crea”. Sono ben 11 le fondazioni bancarie che sostengono il progetto Per Aspera ad Astra in cui s’inserisce lo spettacolo. Sempre più spesso, mi pare di constatare, sono le banche a finanziare la cultura e i progetti artistici: è stato sempre così o è una tendenza più recente? È possibile che prima della pandemia il cosiddetto teatro sociale fosse il più finanziato e sostenuto rispetto ad altri tipi di progetti teatrali, e che la pandemia, che ha promosso a livello istituzionale l’idea di un isolamento coatto, abbia rimescolato le carte e le priorità di finanziamento pubblico? Renato Bandoli: Il progetto Per Aspera ad Astra nasce prima della pandemia, nel 2017-18, per volontà proprio del direttore generale di Acri, Giorgio Righetti. Acri è l’associazione nazionale delle fondazioni di origine bancaria, che ha voluto, sulla base dell’esperienza ultratrentennale di VolterraTeatro e della Compagnia della Fortezza, mettere a sistema non tanto il modello di Armando Punzo quanto la possibilità di interagire in maniera permanente e strategica con i diversi istituti di pena. Al progetto culturale hanno aderito così le diverse fondazioni bancarie che fanno parte della cordata. Noi abbiamo avuto delle interruzioni, ovviamente, all’interno delle varie carceri, perché la pandemia ha senz’altro aggravato certe situazioni. In compenso da parte delle fondazioni c’è stata molta più tolleranza verso il percorso fatto all’interno dei processi creativi. Tutto quello che sono si è sviluppato da uno studio che è stato presentato nel settembre 2021, Operine… con un tragico sorriso sulle labbra. Siamo a maggio 2022. Cosa è avvenuto in questi mesi di lavoro e com’è stato lavorare nel contesto “difficile” della Casa Circondariale della Spezia? Quali sono state per voi le maggiori difficoltà e in che cosa vi è sembrato di sentirvi più agevolati in questo percorso? Enrico Casale: “Agevolazione” è una parola molto difficile da usare in un contesto come quello della Casa Circondariale della Spezia. Le pene dei detenuti da scontare sono di solito medio-brevi, c’è un grande viavai. Il carcere è un po’ un porto di mare, perché per fortuna alcuni di loro vengono scarcerati, altri vengono trasferiti… Rispetto al primo studio di settembre è cambiato praticamente tutto il cast: il lavoro si è adeguato ai nuovi partecipanti al laboratorio, ai quali abbiamo fatto conoscere lo spettacolo realizzato in precedenza. Chiaramente, cambiando il cast, come succede sempre, muta anche la prospettiva della drammaturgia, perché le persone coinvolte sul palco sono diverse e a loro volta portano altre suggestioni e spunti creativi. Chi dunque ha visto lo spettacolo a settembre vedrà di sicuro qualcosa di differente, ma che rivive sempre sotto l’ala protettrice di Ettore Petrolini, detentore di una comicità che non si usa più ma che è estremamente raffinata, e differente da quella a cui i detenuti sono abituati. Renato Bandoli: C’è anche da dire che del vecchio cast, essendo uscite misure alternative, due attori sono rimasti e continuano a lavorare con noi all’esterno: può continuare quindi questo rapporto teatrale anche quando non si è più detenuti. È possibile immaginare quindi anche un “futuro” di questa esperienza? Renato Bandoli: Sì, sicuramente. Alcuni di questi detenuti hanno contratto il virus della passione teatrale e vogliono continuare a lavorare con noi indipendentemente dal progetto Per Aspera ad Astra, che comunque vedrà già la sua quinta edizione appena finita questa che è la quarta. Enrico Casale: Per esempio Marco Conti non è più ospite del carcere della Spezia ma si trova a vivere un’altra situazione, questo gli ha permesso di lavorare tutto l’anno con noi in teatro, quindi fuori dalla saletta prove. Ha incontrato per caso un nutrito gruppo di ragazzi diversamente abili, con cui lavoriamo da anni, in uno degli spazi che gestiamo, il Ruggiero a La Spezia, si è innamorato di questi ragazzi e per questo abbiamo cominciato a lavorare con lui e il gruppo, tentando un inizio di approccio verso una collaborazione. Noi crediamo che per una persona come Marco, al di là del suo passato ma per come è ora mentalmente e creativamente si possa aprire magari in futuro, sempre attraverso la formazione, un proprio percorso come pedagogo con i ragazzi diversamente abili. Queste sono le piccole conquiste che un progetto del genere può far realizzare. Avete scelto di lavorare sulla figura di Ettore Petrolini che, come si diceva, incarna l’ideale di una comicità diversa, un po’ perduta, anche se a me, devo ammettere, fa venire in mente quella comicità un po’ strana e grottesca che ritroviamo su TikTok, per esempio nel fenomeno contemporaneo di Khaby Lame. Come mai proprio Ettore Petrolini? Enrico Casale: Il parallelismo con la contemporaneità che fai è giustissimo. Io e Renato abbiamo chiaramente dei gusti, musicali anche, che sono un po’ più indietro nel tempo. Quando abbiamo fatto ascoltare la versione di Fortunello di Petrolini ai detenuti, che essendo anche più giovani sono più dentro il background contemporaneo, hanno detto che ricorda loro la ‘trap’: velocissimo, sconclusionato, politico anche, in un certo senso. Sicuramente da Petrolini è stata ereditata molta comicità contemporanea. I ragazzi sentono Petrolini come un personaggio che riescono a riconoscere. Per farli avvicinare di più, abbiamo mostrato molte volte come Gigi Proietti o Alberto Sordi - nomi che loro conoscevano attraverso la televisione - interpretavano Petrolini. Da lì li abbiamo portati a comprendere come nello spettacolo ci sono anche degli agganci con ciò che è stato Petrolini per i futuristi. Quella di Petrolini è stata una figura che, forse anche inconsapevolmente, ha rivoluzionato tutto, e non solo in Italia. Gordon Craig affermò che Petrolini era il vero inventore della biomeccanica non Mejerchol’d. Renato Bandoli: Rispetto all’anno scorso, cioè a Operine, in cui aleggiava lo spirito di Petrolini, ovvero c’era la figura di Petrolini in quanto tale, quest’anno ci siamo focalizzati sulla sua personalità artistica. Petrolini era uno che non aveva studiato e che diceva “io guardo la strada”. Aveva una grande sapienza pratica del teatro e tutto quello che ha inventato lo ha fatto contro l’Accademia. I critici all’inizio lo snobbavano e lo attaccavano, ma alla fine ne hanno riconosciuto il valore artistico. Il tipo di comicità di cui era portatore Petrolini, il famoso comico-grottesco, è proprio la cifra di lavoro che a noi interessa indagare con queste persone che non sono attori professionisti. Andiamo così a cercare nel rovesciamento dei luoghi comuni, tipici del linguaggio artistico di Petrolini. Penso ai suoi calembour, a tutte le sue iperboli linguistiche. Ci sembra più interessante e più vicino scavare in una realtà che può sembrare anche dolorosa per vederne i lati comici ridicolizzando tutto il nostro pensiero perbenista. È tutto lì: nel rovesciamento dei luoghi comuni. Può nascere la gioia, il divertimento. “Con un tragico sorriso sulle labbra”, come ha mutuato Zavattini da Petrolini. C’è in questo anche un parallelismo con le vite dei detenuti, perché devono rovesciare per se stessi i luoghi comuni associati al loro passato, cercare di uscire dallo stereotipo dell’essere tutti o buoni o cattivi. Questo discorso riguarda loro. Ma cosa vedremo in scena? Renato Bandoli: Non c’è nessun biografismo. Non ci sono storie degli attori in scena, perché non ci interessa esporli attraverso le loro storie. Quello a cui stiamo cercando di avvicinarci è un oggetto artistico. Proprio il tipo di comicità di Petrolini svela l’artisticità nella ricerca tra le pieghe del reale di ciò che è nascosto, di qualcosa della realtà che altrimenti non vedremmo, e lo fa attraverso il comico, e per la precisione usando quella forma popolare che era il teatro di varietà dell’epoca di Petrolini, esaltato anche nel Manifesto del teatro di varietà (1913) composto da Filippo Tommaso Marinetti. Il lavoro con i detenuti avviene all’interno di una struttura concentrazionaria come il carcere, ma non abbiamo uno spazio teatrale. Usiamo la chiesa del carcere, e questo ci penalizza nel nostro lavoro. Eppure questo non ci riserva dal dire loro che il teatro è uno spazio di libertà in cui riempire dei vuoti che comunque l’esecuzione della pena crea. Lo scopo del laboratorio è di riempire questo vuoto attraverso il teatro, il gesto, la voce, i testi (di Petrolini, ma non solo). E questo è il tipo di approccio con gli attori-detenuti. Non siamo interessati alle loro biografie. L’importante è comprendere come una maggiore consapevolezza attraverso il teatro possa poi far crescere e maturare questi ragazzi. Il compianto Claudio Meldolesi, tra l’altro uno degli scopritori del lavoro di Armando Punzo, aveva scritto un saggio negli anni ‘80 dal titolo Immaginazione contro emarginazione che affrontava proprio il problema del teatro in carcere e del teatro sociale in genere. Esperienze di questo tipo dovrebbero sempre fare leva non tanto sulle biografie degli attori, ma proprio su quel patrimonio di suggestioni, di visioni e immagini, che si possono avere ma che sono costrette in un rapporto con la realtà che è filtrato (spesso dalla televisione). Alcuni dei nostri attori-detenuti, che non leggevano, si sono avvicinati alla letteratura attraverso il teatro. È un fatto importante. Immaginazione contro l’emarginazione, ovvero qualcosa di artistico contro qualcosa più legato a una funzione “terapeutica” o salvifica. A proposito di questa “artisticità”, per voi una domanda forse meno banale di quanto possa sembrare, date le condizioni complicate in cui voi artisti vi trovate a lavorare. Siete soddisfatti del risultato? Renato Bandoli: Per il progetto, sì, siamo soddisfatti. Per i lavori concreti che facciamo, invece, siamo sempre insoddisfatti. Vorremmo sempre ottenere il meglio dai ragazzi e prima di tutto da noi stessi. Siamo anche crudeli, di quella crudeltà di cui parla Artaud, che affermava che la Verità è crudele, in quanto non è edulcorabile. E anche se restituzioni finali di tanti spettacoli che abbiamo fatto hanno incontrato il pubblico e la critica in maniera positiva, noi non siamo mai soddisfatti. Crisi del grano e allarme profughi: 400 mila in Italia di Francesco Verderami Corriere della Sera, 28 maggio 2022 Se la trattativa sul grano fallisse, se quei ventidue milioni di derrate dovessero marcire nei porti ucraini, la carestia nelle zone più povere dell’Africa e dell’Asia provocherebbe un’ondata migratoria senza precedenti verso l’Europa. E colpirebbe per primi gli Stati rivieraschi. Da settimane l’intelligence italiana ha informato il governo che il Paese rischia di essere investito da un flusso straordinario di arrivi, calcolato in “centinaia di migliaia” di persone. “Quattrocentomila”, conferma un esponente dell’esecutivo. Ecco l’ordigno con cui i russi minacciano il Vecchio Continente e tentano di trasformare le sue coste in un’altra trincea. Il tavolo tecnico sull’emergenza - L’emergenza è al centro delle discussioni al tavolo tecnico che riunisce palazzo Chigi, Farnesina, Viminale e servizi. È un tema affrontato davanti al Copasir dal direttore del Dis Belloni e dal ministro dell’Interno, che da giorni infatti ammonisce sull’imminenza di “una gravissima crisi umanitaria”: ha i dati degli sbarchi, già passati dai 15-20mila degli anni precedenti ai 55mila attuali. E non a caso il maggior numero di migranti arriva da Egitto, Bangladesh, Tunisia: proprio i Paesi che importavano ingenti quote di grano ucraino e che ora devono rivolgersi ad altri mercati a prezzi altissimi. “Il blocco dei porti inciderà sui flussi. Lo stiamo già vedendo. E non si potrà dire - ha detto ieri polemicamente la Lamorgese - che è per colpa mia. È un problema che l’Europa deve mettere al centro dei suoi programmi, visto lo scenario geo-politico che si sta determinando”. Il vertice a Venezia - Il 3 e 4 giugno i ministri dell’Interno dei Paesi Ue del Mediterraneo si riuniranno a Venezia, in vista del Consiglio europeo per gli affari interni della settimana seguente. Non si tratterà di un summit ordinario. Perché le conseguenze della guerra del grano - secondo la titolare del Viminale - “toccheranno in prima battuta certi Paesi, ma poi colpiranno l’intera Europa”. Una sorta di preavviso ai partner: stavolta non potranno voltarsi dall’altra parte. La drammatica quotidianità delle notizie che arrivano ai servizi raccontano come ancora oggi - per esempio - Grecia e Turchia lascino passare i barconi nelle loro zone di competenza. O come una dozzina di imbarcazioni delle Ong siano poste davanti al golfo della Sirte, in attesa di far rotta verso l’Italia. Le cose stanno cambiando, se è vero che dalla Tunisia sfidano il mare persino a remi. “Non abbiamo visto niente”, sospirava settimane fa il ministro Giorgetti. Per dirla con Renzi, “con la carestia rischiamo l’osso del collo. E ne pagheremmo le conseguenze”. Il “ricatto del grano - così lo definisce il dem Fiano - è parte di una chiara strategia, degna del Kgb. Putin e i suoi servizi pensano infatti di usare l’aumento della pressione migratoria come strumento politico per destabilizzare l’Europa e incrinare l’atteggiamento che ha adottato contro la Russia”. Come non bastassero le divisioni nella Ue sulle sanzioni contro Mosca. Gli scenari - Il punto è che se davvero quattrocentomila persone muovessero verso il Vecchio Continente, il Mediterraneo diverrebbe una sorta di Mar Nero, una proiezione dell’area di conflitto ucraino. In base a questi scenari, il sottosegretario alla Difesa Mulè ritiene che un domani l’Italia dovrebbe dotarsi di un ministero del Mare, mentre oggi “serve una risposta tempestiva per far fronte all’emergenza”. La minaccia russa di far deflagrare la bomba migratoria smonta le tesi di chi parla di “pace” guardando ai sondaggi. Ma nonostante non veda “spiragli”, sullo sblocco dei porti Draghi sta tentando una difficile mediazione con Putin e Zelensky: come spiegò a Biden, per quanto l’interlocuzione con Mosca sia “fortemente complessa”, la questione del grano può essere una prima occasione per la costruzione della fiducia. E per evitare “conseguenze terribili”. Maurizio Martina (Fao): “La fame colpirà 220 milioni di persone” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 28 maggio 2022 Maurizio Martina, lei che è vicedirettore della Fao, ci sa dire quando parliamo di merci bloccate nei porti ucraini di che quantità si parla? E di quali merci? “Stiamo parlando di almeno sei milioni di tonnellate di grano e di circa quattordici milioni di tonnellate di mais, se ci riferiamo ai due principali cereali di cui l’Ucraina è storicamente un grande produttore mondiale”. Qual è la percentuale di grano che la Ue importa dalla Ucraina? E i paesi in via di sviluppo? E l’Italia? “L’Italia importava circa il 13% del mais dall’Ucraina. Per il frumento tenero le importazioni dirette sono minori - circa il 3% - ma certamente anche il nostro Paese risente dell’effetto indiretto dell’aumento dei costi sul mercato globale. In generale, le esportazioni di grano dall’Ucraina in Europa nel 2020 sono state di circa 5,4 miliardi di euro. Per i Paesi in via di sviluppo la situazione è molto più delicata e preoccupante: ci sono almeno 36 dei 55 Paesi con crisi alimentari che dipendono dall’Ucraina e dalle esportazioni russe per oltre il 10% delle loro importazioni totali di grano”. Quali merci fondamentali per l’agricoltura vengono a mancare per la guerra? “Accanto al problema delle tonnellate di beni agricoli primari come grano e mais fermi da settimane nei porti - e che rischiano di deperire con il passare dei giorni - vorrei sottolineare l’effetto negativo a cui stiamo assistendo anche in relazione al prezzo e alla disponibilità dei fertilizzanti. Se i prezzi rimangono così alti e l’accesso diventa sempre più difficile per le agricolture dei Paesi in via di sviluppo gli impatti saranno molto problematici con diminuzioni drastiche dei raccolti”. Quante persone nel mondo non avranno cibo a sufficienza per via della guerra? “Già prima di questo conflitto la fame nel mondo stava crescendo. Quasi 200 milioni di persone in 53 Paesi nel 2021 sono entrate in una situazione quotidiana di fame acuta con un balzo di 40 milioni di persone in soli dodici mesi. Questa guerra aggraverà ancora lo scenario, le nostre prime stime indicano un aumento di altre 18 milioni di persone ma è chiaro che molto dipenderà anche dall’evoluzione del conflitto”. In che misura la guerra influisce sull’aumento del prezzo del grano? “Come ha stimato la banca mondiale un aumento dell’1% dei prezzi alimentari di base può significare almeno 10 milioni di persone a rischio fame. Nessuna politica nazionale può affrontare da sola l’insicurezza alimentare globale. Serve una nuova stagione multilaterale a partire proprio dal cibo”. Il premier Draghi sta lavorando alla creazione di corridoi alimentari: che conseguenze ci sarebbero se l’iniziativa dovesse fallire? “Se non si liberano quelle tonnellate bloccate l’insicurezza alimentare continuerà ad aumentare. L’azione del presidente Draghi conferma l’attenzione che il nostro Paese sui temi della sicurezza alimentare e a questo proposito voglio anche segnalare che con il ministro Di Maio stiamo lavorando a una specifica iniziativa che si terrà tra qualche giorno dedicata all’area mediterranea”. Le strade e la rete ferroviaria potrebbero supplire all’attività portuale? “Si può tentare di muovere beni agricoli ma in quantità relative che di certo non possono supplire alle attività portuali. Si sta provando a organizzare spedizioni di cereali in Romania usando i camion per imbarcarle da lì verso il delta del Danubio. C’è anche il rischio che non si trovino più luoghi adatti per immagazzinare le prossime raccolte di giugno. Abbiamo bisogno che i porti riaprano per muovere le grandi quantità necessarie”.