Affettività e sessualità in carcere: “Ce lo chiede l’Europa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2022 “Il cuore oltre le sbarre, affettività e sessualità in carcere: diritti negati”, è il titolo del convegno organizzato dalla Commissione Carcere della Camera Penale di Padova “Francesco de Castello”. Si svolgerà martedì 31 maggio alle ore 15, presso il Centro Culturale San Gaetano. Una iniziativa che ritorna di attualità grazie alle recenti polemiche provenienti da alcune parti politiche, principalmente Lega e Fratelli d’Italia, totalmente avulse dalla realtà, senza minimamente prendere in considerazione che siamo tra i pochissimi paesi al mondo a rimanere indietro rispetto ai diritti già acquisiti altrove da molto tempo. “Le relazioni affettive devono avere uno “spazio riservato” e un “tempo disteso”. Vale per tutti. Anche per chi è privato della libertà ma non dovrebbe essere privato dei suoi diritti fondamentali, e quindi del diritto all’affettività e alla sessualità, la “salute sessuale” come la definisce l’Oms”, così spiega l’avvocata Annamaria Alborghetti, la responsabile Commissione Carcere Camera Penale di Padova e che concluderà i lavori del convegno. Sottolinea che “ce lo chiede l’Europa” con la raccomandazione 134/ 1997 del Consiglio d’Europa, invitando gli Stati membri a mettere a disposizione dei detenuti luoghi per incontrare la famiglia. Così come c’è la raccomandazione del Parlamento Europeo n. 2002/ 2188 del 2004 secondo cui i detenuti devono avere “una vita affettiva e sessuale attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi”. Chi ha risposto all’appello? Ben 31 paesi su 47 del Consiglio d’Europa senza distinzione di sistemi politici e con soluzioni diverse: dal colloquio prolungato non sorvegliato, come in Croazia o in Romania, alla predisposizione di stanze, come in Spagna, o di veri e propri appartamenti, a volte immersi nel verde e dotati di ogni comfort, dove il detenuto può incontrare il partner, ma anche i figli o gli amici, come in Norvegia, Danimarca e Olanda. O in Francia dove le Unités de Vie Familiale sono piccoli appartamenti con una o due stanze da letto, un bagno e una zona cucina separati dalle sezioni detentive ma all’interno del penitenziario. Nel Canton Ticino c’è il “congedo interno” per incontrare il partner, familiari e amici in una casetta, la c. d. “Silva”, o il “colloquio gastronomico”, un pasto in compagnia di parenti e amici. “Vivere l’affettività e la sessualità - spiega l’avvocata Alborghetti fa bene a tutti, sicuramente al detenuto, ma anche alla società nella quale il detenuto si reinserisce”. Eppure, sottolinea sempre la responsabile Commissione Carcere Camera Penale di Padova, da oltre 25 anni si tenta di adeguare l’Italia agli altri 31 Paesi del Consiglio Europeo: ci aveva provato nel 1997 il dr. Coiro, capo del DAP, con una circolare che invitava a trovare spazi adeguati, e ancora, fino all’eccezione di costituzionalità sollevata nel 2012, fino alle proposte di legge che attendono fiduciose in Commissione Giustizia. Qualcuno ha tentato di affermare che il diritto a consumare il matrimonio è garantito dalla Costituzione e ha invocato la concessione di un permesso di necessità ma la Cassazione ha detto che “tra gli eventi di particolare gravità può rientrare tutto ciò che ha il carattere dell’eccezionalità e non il diritto ad avere rapporti sessuali, che per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalità”. Magari per chi è detenuto anche sì. Il convegno di Padova vuole discutere sullo stato dell’arte e sulle proposte in discussione (forse), ma anche sui danni fisici e psicologici della privazione affettiva e sessuale, sul senso del tempo dell’affettività reclusa e, in concreto, come si progettano e realizzano gli spazi degli affetti dentro un luogo di detenzione. Coltivare gli affetti in carcere è possibile di Monica Cirinnà* The Post Internazionale, 27 maggio 2022 Le famiglie dei detenuti scontano una pena nella pena. Che la politica non può ignorare. È di pochi giorni fa la notizia che il Governo sarebbe intenzionato a stanziare circa 28 milioni di euro per sostenere il diritto all’affettività delle persone detenute, promuovendo così la costruzione - negli istituti penitenziari - di unità abitative idonee a consentire lo svolgimento di colloqui riservati tra la persona detenuta e i propri affetti più intimi, come già avvenuto ad esempio a Rebibbia. L’iniziativa del Governo si lega strettamente all’iter, in Senato, del disegno di legge proposto dal Consiglio regionale della Toscana e di cui sono relatrice, già arricchito dal deposito di un analogo disegno di legge da parte del Consiglio regionale del Lazio che intendo adeguatamente valorizzare. Il fatto che proprio dalle Regioni sia venuta una spinta così decisiva per i diritti delle persone detenute mi pare molto significativo: l’articolazione regionale degli Uffici del Garante dei detenuti rappresenta una risorsa importante per la politica. Proprio nel Lazio, ad esempio, la presentazione del disegno di legge di iniziativa consiliare è il risultato di un lavoro capillare di approfondimento e ricerca, promosso anche dal Garante regionale. Si tratta di progetti di legge dalla formulazione semplice e chiara, che prendono atto di una esigenza fondamentale per le persone detenute: essere messe nella condizione di coltivare i propri affetti più intimi con particolare attenzione, come ad esempio nel ddl laziale, ai rapporti con i figli minori. Allo stesso tempo, i testi si fondano su un robusto cambio di paradigma: sulla consapevolezza che il percorso di reinserimento sociale del condannato riguarda la persona, tutta intera. La Costituzione ci insegna che la persona affidata alla custodia dello Stato non perde la dignità. Essa deve essere affermata e realizzata in tutte le sue dimensioni, a partire dalla promozione della formazione e dei trattamenti volti al reinserimento sociale. Integrare in questo concetto anche la tutela delle relazioni affettive significa riconoscere nella persona detenuta un soggetto di diritti e responsabilità, e nella coltivazione degli affetti un fondamentale strumento di promozione dell’umanità. E significa anche riconoscere che le famiglie e gli affetti delle persone detenute scontano una pena nella pena, che la politica non può ignorare. Farò di tutto, in sinergia con l’attenzione che la Ministra Cartabia ha sempre mostrato al tema, affinché questa fondamentale legge di civiltà venga approvata entro la fine della legislatura. *Senatrice, responsabile nazionale diritti del PD Le “casette dell’amore” dei detenuti che non piacciono alla Polizia penitenziaria di Ivana Mingolla Il Domani, 27 maggio 2022 Nei giorni scorsi il governo ha sbloccato oltre 28 milioni di euro per la creazione di moduli abitativi per detenuti, al fine di garantire l’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità. Anche i detenuti hanno bisogni affettivi e sessuali, ma la polizia penitenziaria ne è disturbata, allora li irride. Pubblicamente. Nei giorni scorsi il sito della polizia penitenziaria ha riportato un articolo di Franco Bechis, pubblicato sul quotidiano La Verità, in cui il giornalista critica con toni coloriti la scelta del governo di stanziare oltre 28 milioni di euro per creare dei piccoli appartamenti in carcere, che ospitino i detenuti sottoposti al regime carcerario duro, al fine di permettere loro di incontrare e stare in intimità con il partner. Come spiega il giornalista, “il costo 2022 dell’operazione è 3,6 milioni di euro nel 2022 cui però si aggiungeranno altri 24,7 milioni di euro in un biennio per pagare 100 casette nuove e ristrutturare allo scopo altri 90 fabbricati esistenti in tutte le altre 190 carceri italiane”. Un “pensiero” del governo Draghi che il giornalista definisce “costoso e a luci rosse”. Le strutture - Il carcere duro non prevede la concessione di permessi premio, quelli cioè che generalmente permettono a chi sconta una pena carceraria di tornare a casa e stare in intimità con il partner, oltre che trascorrere del tempo con la famiglia. Nei giorni scorsi, è arrivata la notizia che i ministeri della Giustizia e dell’Economia e Finanze hanno stanziato oltre 28,3 milioni di euro per creare dei piccoli appartamenti all’interno del perimetro della casa circondariale. Quello dell’affettività dei detenuti è un tema di cui si parla da tempo. Lo stanziamento di questo denaro sarebbe un passo concreto nella direzione del riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti. Tuttavia una certa parte politica non ha accolto di buon grado la novità. E tra questi scontenti si è schierata anche la polizia penitenziaria che ha fatto sue le parole di Bechis. La polizia penitenziaria - Gli oltre 28 milioni di euro da dedicare ai carcerati “per fare sesso con la propria consorte, fidanzata, amante”, sono apparsi eccessivi non solo al giornalista, ma anche alla polizia penitenziaria, che ha ne ha sposato l’articolo, riproponendolo sul proprio sito. E allo stesso modo è apparso “difficile capirne l’urgenza” (della decisione) “nel bel mezzo di una guerra in Europa, con imprese italiane e cittadini che soffrono la crisi energetica che ne è derivata e il Pnrr che sta mostrando tutti i suoi limiti e lentezze”. “Con tutto il rispetto per le relazioni familiari stabili e la loro esigenza di carnalità, - si legge ancora - più che una casetta in ogni carcere dunque arriverà qualcosa di più simile a un casino, perché la sua funzione principale era proprio quella esercitata nelle case chiuse prima della legge Merlin. Nel “modulo abitativo” (così viene definito dal ministero Giustizia) infatti potranno esserci in contemporanea tre detenuti con la propria o il proprio partner”. Insomma, questo il tenore del racconto. Esiste la libertà di opinione. Peccato che un testo di questo tipo sia stato condiviso da una istituzione, quale è la polizia penitenziaria. Peraltro oltre all’articolo, sul suo sito, la polizia penitenziaria ha corredato il testo con immagini che definire sessiste è un eufemismo. No ai “guardoni di stato” - Ma la storia non è finita, c’è anche una ciliegina delicatamente adagiata sulla torta dal sindacato autonomo della polizia penitenziaria, Sappe. Il sindacato è intervenuto a sottolineare la posizione dei poliziotti, qualora non fosse stata chiara, e ha affermato che gli agenti non devono diventare “guardoni di stato”. “Ciclicamente - ha dichiarato il sindacato in una nota - viene fuori la proposta di destinare stanze o celle in carcere per favorire il sesso ai detenuti. Noi ribadiamo quel che diciamo da tempo, con fermezza ed altrettanta chiarezza: per il Sappe, i nostri penitenziari devono assicurare il mandato costituzionale dell’esecuzione della pena e i nostri agenti di polizia penitenziaria non devono diventare “guardoni di stato”!”. Il sindacato ha definito il “sesso in carcere” “una proposta inutile e demagogica, che offende anche chi ha subìto un reato anche molto grave”. E ha indicato quelle che sarebbero invece le vere emergenze. Così ha elencato gli atti di autolesionismo che si sono verificati nel 2021, (oltre 11mila), gli 1,6 mila tentati suicidi e le oltre 8mila colluttazioni. Insomma, una specie di guerra tra poveri traslata su bisogni e disagi. Rapporto Italia Eurispes: “No alla pena di morte, sì all’ergastolo e zero sconti di pena” adnkronos.com, 27 maggio 2022 Bocciata dalla maggioranza degli italiani la pena di morte ma sì al carcere, con ergastolo e zero sconti di pena, domiciliari o pene alternative. È la giustizia secondo gli italiani che emerge dal 34esimo Rapporto Italia dell’Eurispes per il 2022 sulle Misure alternative alla detenzione. “Il nostro ordinamento prevede - si legge nel rapporto - l’applicazione di misure alternative alla detenzione per provare a diminuire la popolosità delle carceri e tentare il recupero sociale di chi ha sbagliato, ma non tutti sono d’accordo con la loro applicazione. Messo di fronte a una serie di conseguenze previste dal nostro e da altri ordinamenti giuridici, come punizione per coloro che commettono reati di natura grave, il campione intervistato si divide. Il 24,7% si schiera a favore dell’abolizione dell’ergastolo e soltanto il 15,8% si dice favorevole alla reintroduzione della pena di morte, abolita all’interno del nostro ordinamento giuridico civile nel 1947 e nel 1994 anche dal Codice penale militare di guerra”. “In parallelo - evidenzia il Rapporto - possiamo dunque leggere i dati come segue: l’84,2% degli intervistati non è favorevole al reinserimento della pena capitale nel nostro ordinamento giuridico, il 75,3% non è favorevole all’abolizione della detenzione a vita, il 72,7% non è favorevole alla liberazione anticipata e il 70,5% non è favorevole alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova ai servizi sociali”. Opinioni diverse a seconda della parte politica e dell’età - “Sono gli elettori che si collocano politicamente a sinistra - si spiega - a riferire con maggiore frequenza di essere favorevoli all’abolizione della pena dell’ergastolo, mentre non sono d’accordo con questa possibilità soprattutto i cittadini di destra (82,7%), centrodestra (80,4%) e quanti non si sentono politicamente rappresentati (82,9%). A destra, d’altronde, è anche maggiore rispetto alle altre aree politiche di appartenenza la percentuale riferibile a quanti sarebbero d’accordo con l’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi (33,9%); così pure si dicono favorevoli all’abolizione dei provvedimenti alternativi alla detenzione per i reati più gravi, facendo registrare il valore più elevato rispetto agli altri orientamenti politici (39,9%)”. “Invece - sottolinea il Rapporto Eurispes - la possibilità di reintrodurre nel nostro ordinamento la pena di morte vede più consensi espressi dai cittadini di centro-destra (20,1%), seguiti dagli elettori del Movimento 5 Stelle (19,7%) e, quindi, da quelli di destra (19%). L’affermazione che trova maggior condivisione tra le fasce di età del campione esaminato riguarda l’eliminazione dei provvedimenti alternativi alla detenzione nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un reato grave: non è favorevole il 71,7% di quanti hanno un’età compresa tra 45 e 64 anni, il 70,9% dei 35-44enni, il 70,5% dei 25-34enni, il 69,9% di chi ha 65 anni o più e il 66,1% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni”. “L’abolizione dell’ergastolo - prosegue il Rapporto - fa segnare invece la più ampia distanza tra giovani e adulti, con una maggiore intransigenza degli over 64 (risponde di non concepirne l’abolizione il 79,7%) rispetto ai più giovani (risponde ‘no’ il 69,7% dei 18-24enni), maggiormente favorevoli a forme di recupero sociale degli incriminati per reati molto gravi; mentre le fasce intermedie rispondono di non essere d’accordo con una eventuale scomparsa dell’ergastolo nella misura del 75,6% per i 45-64enni, del 74,6% per i 25-34enni e del 70,9% per i 35-44enni. Per quanto riguarda l’abolizione degli sconti di pena per i reati peggiori troviamo un disaccordo maggiore da parte delle fasce intermedie della popolazione: affermano di non essere concordi il 76,5% dei 35-44enni e il 75,8% dei 25-34enni, seguiti dal 72,5% dei 45-64enni, dal 70,9% della fascia più giovane e dal 69,5% di coloro che hanno 65 anni e oltre”. “L’ipotetica reintroduzione della pena di morte - conclude il Rapporto - vedrebbe, infine, il favore del 19% della fascia d’età intermedia, comprendente cittadini di età compresa tra 35 e 44 anni, seguita dal 18,2% di chi ha tra 18 e 24 anni, dal 15,2% di coloro che hanno un’età compresa tra 45 e 64 anni, dal 14,8% degli ultra sessantaquattrenni e dal 14% di coloro che hanno tra i 25 e i 34 anni. Tra uomini e donne sono i primi ad essere in misura leggermente maggiore in accordo con l’abolizione delle misure alternative alla detenzione previste per chi è colpevole di aver compiuto reati gravi: il 30,7% vorrebbe che i reati maggiori venissero puniti esclusivamente con la reclusione in carcere, eliminando qualsiasi forma di provvedimento alternativo (contro il 28,3% delle donne), il 27,9% non vorrebbe più sentir parlare di sconti di pena quando il condannato sta scontando una pena per reato grave (contro il 26,6% delle donne) e il 26,9% si dice favorevole all’abolizione dell’ergastolo (contro il 22,4% dell’altro sesso). Anche se ad essere preso in esame è lo spinoso tema della pena di morte sono gli uomini, in misura leggermente superiore alle donne, a tenere in considerazione l’ipotesi di una possibile reintroduzione della pratica: lo afferma il 16,2% degli uomini contro il 15,4% delle donne”. Il Volontariato della Giustizia e la scarsa attenzione delle Istituzioni di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2022 Fra i principi dell’azione del volontariato, nelle carceri e nel sociale tutto, c’è quello di “indossare le scarpe del nuovo capo del DAP” (Papa Francesco) e di far indossare a lui le nostre, in una simbiosi dura, quotidiana, che produce risultati e l’attimo seguente vede i nostri risultati vanificati. Con questa frase in copertina si presenta il numero 1 dell’anno 24 di Ristretti Orizzonti. Perché ogni piccola conquista debba essere messa a dura prova continuamente, e anche la migliore pratica venga apparentemente contraddetta subito dopo? Non mi limiterei a parlare della nostra imperfezione umana. Come ribadito dalla CNVG, con la portavoce e presidente Ornella Favero negli scorsi mesi, la scarsa considerazione del volontariato in occasione dell’Istituzione di Commissioni sui temi delle pene e del carcere indica un comportamento colpevolmente trascurato da parte delle istituzioni. Il Volontariato non è un corpo unico, è composto di donne e uomini di varie età e provenienze, che non rinunciano alla loro occupazione principale, che gli permette di vivere, ma dedicano le energie libere all’assistenza ai detenuti, costruendo le condizioni migliori per coadiuvare il personale carcerario. Il nostro mettersi a disposizione della magistratura, delle camere penali, del DAP, del corpo degli agenti penitenziari, di tutte le strutture pedagogiche e sanitarie, è prezioso perché umile ma molto ragionato, attraverso riunioni periodiche di revisione. Il volontariato è inserito in un sistema tutt’ora punitivo, di impostazione retributiva della pena, un sistema patriarcale, e comunque le differenze fra esperienza ed esperienza derivano dalle situazioni, dalle pratiche confrontabili ed estendibili ad altri istituti. Il lavoro in carcere si scontra in Italia con una situazione di sovrappopolazione del 114%, che è diventata gravissima sotto la pandemia. Le professionalità impiegate nelle carceri sono, come peso specifico, principalmente costituite dagli agenti di polizia penitenziaria che corrispondono all’89,36% del personale presente negli istituti di pena italiani (gli educatori sono solo il 2,17%) ed il rapporto fra detenuti ed agenti è di 1,67, vale a dire poco più di un detenuto e mezzo per poliziotto. Ad ovviare a questa situazione leggiamo come positivi alcuni risultati della Commissione Ruotolo, nominata dalla ministra Cartabia. che ha terminato i suoi lavori a dicembre 2021. Ma se andiamo a confrontare le proposte, legate all’essenza della sofferenza del detenuto, l’installazione dei totem in ogni istituto per tutte le richieste dei detenuti così da cancellare quell’obbrobrio medievale che è la domandina cartacea alla quale lo stesso raramente riceve risposta, la possibilità per lo straniero di accedere dalla detenzione alle procedure per il rinnovo del permesso di soggiorno e per chiedere la protezione internazionale, pratica che oggi in non pochi istituti è vietata così aprendo la porta a espulsioni ingiustificate, la giusta attenzione alla sofferenza psichica, possiamo paragonare con senso di impotenza che le stesse proposte erano state presentate al termine di progetti svolti in carcere da associazioni di volontariato. Io sono testimone del lavoro Punto d’incontro dell’Osservatorio permanente sulle carceri delle Marche, nel 2003. In queste occasioni la Giustizia, e il Sistema Carcere, appaiono in tutte le loro contraddizioni ma soprattutto nell’impostazione errata da parte di popolazione e forze politiche che li rende ancora più difficili da trattare. La necessità del cambio di mentalità viaggia assieme alla necessità dell’approvazione di riforme come il DDL Mirabelli, sulla promozione del settore pedagogico. Mi sento di osservare come questi cortocircuiti, queste difficoltà di venire a capo delle varie problematiche, segnino negativamente sia i volontari, gli operatori e maggiormente i detenuti, che difficilmente riescono a trarre incoraggiamento dai risultati del loro lavoro. A questo proposito è utile accennare in questa sede al Concorso di letteratura e fotografia Storie da Musei, Archivi, Biblioteche, che si svolge nelle biblioteche carcerarie delle Marche dal 2013, con ottimi risultati di coinvolgimento dei detenuti come bibliotecari e come partecipanti, al pari di iniziative annuali come Nati per leggere. Dopo alcuni anni nei quali i detenuti partecipanti e vincitori sono stati premiati nei limiti della possibilità di raggiungerli, gli organizzatori hanno dato l’occasione ai detenuti stessi, durante la pandemia, di diventare Giuria di secondo livello degli elaborati, per la difficoltà stessa di svolgere attività intramurarie. La loro risposta è stata positiva, e in base al loro lavoro sono già due le edizioni del concorso la cui classifica viene stilata da questi particolari giurati, nella speranza di ritrovarli concorrenti. Gli organizzatori, i volontari, il DAP hanno menzionato questa pratica virtuosa nel progetto “La parola ai giurati”, che ha vinto il secondo posto al Concorso per bibliotecari “Maria Abenante”, nel 2021. Resta la speranza, ultima Dea, di poterne parlare con tutti assieme, per sedimentare qualcosa. La Partita con papà 2022 - Campagna “Carceri Aperte” bambinisenzasbarre.org, 27 maggio 2022 I bambini sono tutti uguali, anche i 100mila figli di genitori detenuti. Non escludiamoli dai giochi. C’è una partita da giocare, anche in carcere con papà. Dal 1° giugno 2022, negli istituti penitenziari italiani, si disputa La Partita con papà®, l’atteso incontro tra papà detenuti e i loro figli, all’interno della annuale campagna Carceri aperte, che può far accedere negli istituti le famiglie, dopo due anni di sospensione a causa della pandemia. La possibilità di giocare con il proprio papà e di condividere questo momento ludico, normale per tutti gli altri bambini, risulta eccezionale per questi bambini e le loro famiglie e rimane a lungo nella loro memoria. La Partita con papà è organizzata da Bambinisenzasbarre in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La Partita con papà e Carceri aperte si inscrivono, come ogni giugno, nella Campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” del network COPE (Children Of Prisoners Europe). La Campagna vuole sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha l’obiettivo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi di cui spesso sono vittime i 100 mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere e sono emarginati. Questi bambini vivono in silenzio il loro segreto del papà recluso per non essere stigmatizzati ed esclusi. Bambinisenzasbarre ha lanciato La partita con papà nel 2015. L’iniziativa è partita con l’adesione di 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti e si è tenuta tutti gli anni fino al 2019, quando sono state giocate 68 partite in altrettante carceri e città, da Belluno a Palermo, coinvolgendo gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori, 3150 bambini e 1700 genitori detenuti (situazione de La Partita con papà 2022 in tempo reale, con istituti partecipanti e date: QUI). Bambinisenzasbarre Onlus - L’Associazione difende i diritti dei bambini (“I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini”). È infatti impegnata nella cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno o entrambi i genitori, nella tutela del diritto del bambino alla continuità del legame affettivo e nella sensibilizzazione della rete istituzionale e della società civile. Bambinisenzasbarre è attiva in rete sul territorio nazionale con il Sistema Spazio Giallo. Opera direttamente in Lombardia (Milano, Voghera, Vigevano, Pavia e Bergamo), in Toscana, Campania e Calabria e supervisiona le attività dei partner in rete a Brescia, Varese e Lodi e in Piemonte, Marche, Puglia e Sicilia. Il Sistema Spazio Giallo comprende fra le varie attività la creazione e la gestione, nelle carceri, dello Spazio Giallo, ideato da Bambinisenzasbarre. È uno spazio relazionale di ascolto e sostegno psicologico alle famiglie e in particolare ai bambini che entrano in carcere quotidianamente per incontrare il genitore, un’interfaccia con funzione di mediazione tra il mondo esterno e il carcere. Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti - Firmata nel 2014 dal Ministero della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e da Bambinisenzasbarre Onlus, rinnovata nel dicembre 2021, ha recepito l’importanza di questo progetto e raccomanda che nelle carceri italiane siano presenti degli spazi dedicati ai bambini che vanno a trovare il genitore detenuto. La Carta riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla non discriminazione e alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione degli artt. 3 e 9 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Da allora Bambinisenzasbarre Onlus è impegnata nella diffusione e nel monitoraggio dell’applicazione delle linee guida della Carta negli istituti penitenziari italiani, partecipando al Tavolo nazionale di monitoraggio con Ministero di Giustizia e Autorità Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, organizzando e partecipando a seminari e convegni, creando una rete di attenzione nazionale di realtà istituzionali e del Terzo Settore e fornendo consulenza sui temi della genitorialità in carcere. A rafforzare l’impatto della Carta - e del ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec(2018)5, adottata ad aprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 47 stati membri. La Raccomandazione ha assunto come modello la Carta italiana per preservare i diritti e gli interessi dei bambini e ragazzi figli di detenuti, indicando Bambinisenzasbarre come ispiratore. Il referendum e i suoi sottintesi di Stefano Folli La Repubblica, 27 maggio 2022 Il voto del 12 giugno su cinque quesiti sulla giustizia e le sue implicazioni politiche. Molti si meravigliano dello scarso interesse verso i referendum sulla giustizia, a meno di tre settimane dal 12 giugno. Trattano temi che dovrebbero essere al centro della pubblica attenzione, essendo il mal funzionamento della macchina giudiziaria in cima all’agenda delle lamentele da parte dei cittadini. Il che non è certo un mistero. Invece, ora che è arrivato il momento di dare una spinta al Parlamento, di fronte al quale è già all’esame la riforma Cartabia, ecco la nebbia in cui sfumano tutti i buoni propositi. In realtà non assistiamo a quasi nulla di nuovo, salvo un’indifferenza persino maggiore che in passato. Come sempre accade, il referendum pone due ordini di problemi: uno di sostanza, che tocca il merito dei quesiti; e uno politico che investe il quadro generale, soprattutto nell’ambito della maggioranza. Sul primo punto - il merito dei problemi evocati dall’iniziativa referendaria - il fronte del “sì” è variegato, espressione disordinata della società. C’è il comitato promotore, ci sono i radicali e i leghisti, nonché un arcipelago di professori, intellettuali, professionisti, liberali senza partito, anche politici o ex politici che ritrovano un pezzetto della loro gioventù. Manca finora la mobilitazione che in altre occasioni lasciava presagire la vittoria (ma talvolta si trattava solo di un’illusione). Anche nel 1974, quando si votò per il divorzio, il percorso apparve tormentato. In quel caso c’era da difendere la legge Fortuna-Baslini, un socialista e un liberale, e a guidare la corsa c’era un personaggio carismatico, del tutto anomalo nella società politica, qual era Marco Pannella. Non fu semplice neanche allora scuotere la pigrizia del sistema: il Pci, ad esempio, si mosse solo all’ultimo e non condivise il palco “laico” di piazza del Popolo. Si avvertiva peraltro un’atmosfera elettrica oggi carente. Certo, il tema del divorzio era facilmente percepibile: Sì o No. Viceversa la materia della giustizia è complessa e il nodo gordiano si presta poco al taglio netto, come fa notare Sabino Cassese sulla Stampa. Tuttavia l’autorevole costituzionalista non ha dubbi sulla scelta: voterà “sì” ai cinque quesiti perché la paralisi dell’impianto giudiziario è intollerabile, per responsabilità che sono anche della magistratura e per la buona ragione che la riforma Cartabia, frutto di un difficile compromesso, ha bisogno di una scossa. La pensa allo stesso modo Claudio Petruccioli, uomo di sinistra oggi lontano dall’attività di partito, ma tra i fondatori dell’associazione Libertà Eguale: “C’è anche una questione di carattere politico - dice al Riformista - negli ultimi decenni sono stati alterati i rapporti tra i poteri”. Il che conduce al secondo aspetto: la prudenza dei partiti, a cominciare dal Pd schierato per il “no”, ma comprensivo per chi voterà “si”. Qui, non c’è dubbio, pesa il desiderio di non consentire una vittoria a Salvini che la userebbe per tirarsi fuori dal ginepraio in cui si è cacciato. Ma ci sono, è ovvio, anche altre considerazioni che non valgono solo per il Pd. I referendum sono pur sempre una sfida alla magistratura nel momento in cui la ministra Cartabia propone il suo saggio di equilibrismo. Chi vuole scuotere l’albero non se ne cura, perché vede che da tempo “i poteri sono alterati”. Chi invece ha responsabilità politiche si muove con cautela e spera che il quorum non sarà raggiunto. Come si è detto, niente di nuovo sotto il sole romano. La “giustizia giusta” e l’obiettivo dei referendum di Giovanni Russo Spena Left, 27 maggio 2022 Il pacchetto referendario con i cinque quesiti su cui saremo chiamati a votare il 12 giugno non rappresenta una riforma dell’ordinamento penale. Che invece è quello che serve adesso, anche per contrastare derive securitarie dettate da presunte emergenze. Lo scontro tra politica e magistratura è, dal secondo dopoguerra, fattore di logoramento della democrazia costituzionale. Non se ne può più. La stessa “riforma Cartabia”, il tentativo più recente, mi appare come un generoso ma mediocre compromesso, nato tra mille spinte, a volte contrapposte, a volte strumentali, delle forze politiche della composita maggioranza. Mentre la magistratura, dilaniata dal correntismo e dalla scarsa autorevolezza, dopo il doloroso “scandalo Palamara”, va ad uno sciopero tardivo e sostanzialmente privo di obiettivi. Uno sciopero senza grande rilievo e partecipazione. Non è una buona notizia. Parla di “fallimento” il segretario di Magistratura democratica; dobbiamo ripartire, dice, “dalla consapevolezza degli errori compiuti e dalla necessità di recuperare il valore della partecipazione”. Credo anche io che occorra un serio ripensamento, avendo come bussola i precisi riferimenti della Costituzione per quanto attiene all’ordinamento giudiziario. Il 12 giugno, non a caso, votiamo su 5 quesiti referendari attinenti all’ordinamento giudiziario. Ne abbiamo già parlato (su Left del 4 marzo 2022). Mi limito ad una riflessione, storica e di sistema: qual rapporto tra Parlamento (democrazia rappresentativa) ed istituto referendario? Io non credo, al contrario del giornalismo più docile verso il potere costituito, che i referendum rendano evanescente la funzione parlamentare. Credo, invece, alla luce degli articoli 71 e 75 della Costituzione, nel rapporto dialettico tra referendum e democrazia rappresentativa. Penso, però, sia sbagliato l’uso strumentale e fuorviante dei referendum. Il 12 giugno voteremo su un “pacchetto referendario”, su una “strategia referendaria”, come scrivono i proponenti. E sbagliato. Non è questa la strada per una “giustizia giusta”. Un’enfasi inopportuna, che finisce per limitare partecipazione, convinzione, adesione. Porto ad esempio un solo quesito, quello che, per esperienza professionale, ritengo il più importante socialmente ed il più complesso. Parlo del quesito collegato all’abuso della custodia cautelare. Problema fondativo per uno Stato di diritto, perché la custodia cautelare spesso si trasforma in un anticipo della pena: il carcere senza processo e senza sentenza. Ne soffre soprattutto la “povera gente”. Sappiamo, infatti, che l’esecuzione penale ha risvolti classisti. Il Parlamento, intanto, pur dopo la sentenza della Corte Costituzionale, non riesce, per le spinte più regressive in esso presenti, a legiferare correttamente nemmeno sul superamento dell’ergastolo ostativo. Quale è il punto? Il quesito, che affronta un tema così rilevante, è sbagliato; la sua approvazione recherebbe danno. Perché esso non interviene sugli abusi, ma opera una riduzione del campo di applicazione. Sarebbero impuniti reati come il finanziamento illecito dei partiti (non a caso), i reati ambientali, femminicidi, perché il giudice non potrebbe emettere misure cautelare basate sul pericolo della “reiterazione del reato”, se non in alcuni casi. Allora, forse, la via è un’altra per riformare realmente la giustizia; altre le priorità. Illustro le mie, con spirito collaborativo. Occorre ristrutturare profondamente il complessivo sistema organizzativo (personale, risorse, ecc.) affinché si giunga realmente ad un processo più breve. E dopo anni di arretramento, sono necessari radicali interventi di forte segno democratico, anche per costruire un argine al degrado securitario, patriarcale, omofobo, razzista, proibizionista. Quante norme dovremo abrogare? Quanti “pacchetti sicurezza”? Le vere riforme riguarderanno il codice penale e di procedura penale, ripristinando il rispetto della concezione costituzionale della pena (“mai vendetta di Stato”, disse Aldo Moro nell’Assemblea costituente), allargando i campi di applicazione delle misure alternative al carcere, fissando, come è nei Paesi europei, un tetto massimo alla pena detentiva. A tale scopo, inoltre, il pubblico ministero non può essere attratto nella sfera dell’esecutivo e diventare braccio armato del governo. Va rispettato il principio costituzionale della “obbligatorietà dell’azione penale”. Viviamo un passaggio di fase pericoloso. L’emergenzialismo post pandemia e, ora, il clima bellico e l’autonomia di guerra stanno segnando una deriva verso lo “Stato di eccezione”, lo “Stato del controllo”. Si diffondono misure repressive, arresti domiciliari, fogli di via, obblighi di firma, come strumenti del potere per “insorgenze di ordine pubblico”; cioè per colpire attivisti politici, movimenti politici, soggetti critici verso il potere. La casistica sta diventando preoccupante. Sembra, insomma, che all’ordinamento penale sia stata delegata la regolazione dei conti con il conflitto sociale. Non è giunto il momento di una discussione vera (che vorremmo ospitare) per lanciare una sfida democratica che rinnovi le istituzioni repubblicane? Referendum giustizia, quorum a rischio: solo il 36% è a conoscenza della chiamata alle urne di Fabio Bordignon La Repubblica, 27 maggio 2022 La frazione più consistente dell’elettorato, quasi la metà (47%), pur avendone nozione, non si sente preparata. Mentre il 16% ammette di esserne del tutto all’oscuro. Prima ancora della quota di Sì e di No, c’è una pre-condizione, per il successo di un referendum (abrogativo): il raggiungimento del quorum. Sebbene si tratti di fenomeni tra i più insondabili, è utile allora rilevare l’attenzione e la propensione al voto degli elettori. Che rimangono piuttosto basse in vista del prossimo 12 giugno, quando gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su ben cinque quesiti relativi ai temi della giustizia. Ma nemmeno poi così basse. Non mancano del resto questioni più pressanti a sovrastare l’imminente consultazione. I cui temi, dall’elevato contenuto tecnico, risultano ostici a molti cittadini. Non a caso, appena il 36% delle persone interpellate dall’Atlante politico di Demos si dichiara a conoscenza della chiamata alle urne e informato sui contenuti. La frazione più consistente dell’elettorato, quasi la metà (47%), pur avendone nozione, non si sente preparata. Mentre il 16% ammette di esserne del tutto all’oscuro. Va sottolineato che i sondaggi tendono a sovrastimare il grado di attenzione ai fatti politici. Ancor più, sovrastimano la propensione al voto. In questo caso, il 40% degli intervistati si dice convinto di recarsi ai seggi. Altri istituiti immaginano un’affluenza ancora minore: intorno al 30%. In ogni caso, dati lontani dalla soglia del 50%. Almeno ad oggi. Perché, come spesso accade, molto conterà l’ultimo miglio della campagna. Conteranno la salienza e la visibilità che la consultazione assumerà nel dibattito politico e mediatico. L’entità del booster delle comunali: si vota anche in quasi mille municipi, con un effetto sull’affluenza tutto da verificare. Conterà, soprattutto, l’eventuale apporto dei partiti. Matteo Salvini è il leader che ha investito maggiormente su questo appuntamento. Non a caso, gli elettori leghisti esibiscono maggiore attenzione (55%) e maggiore propensione al voto (58%). Seguono gli altri partiti di centro-destra e il Pd, al cui interno sta crescendo l’apertura su almeno alcuni quesiti. Decisamente più distratti e meno pronti ad attivarsi gli elettori del Movimento 5 stelle. Singolare, per una formazione che ha messo il tema della democrazia diretta al centro del proprio progetto. Pesano, in questo caso, gli orientamenti in materia di giustizia, anch’essi inscritti nel dna dei pentastellati. E l’astensione rimane il metodo più sicuro per far fallire un referendum. La sinistra abbia coraggio, votiamo sì ai referendum sulla giustizia di Massimiliano Smeriglio* Il Foglio, 27 maggio 2022 I quesiti referendari rilanciano il dibattito sul diritto e trattano aspetti fondamentali della vita di tutti. Un appello dell’europarlamentare Massimiliano Smeriglio. Il dibattito sulla giustizia e l’organizzazione della magistratura non deve essere consegnato esclusivamente agli addetti ai lavori. Dovrebbe invece essere fatto alla luce del sole proprio perché tocca aspetti fondamentali della vita dei cittadini e delle cittadine. Il fatto stesso che si voterà a giugno in un’unica giornata può mettere in difficoltà la partecipazione democratica. I referendum sono stati fin qui oggetto di pochissime trasmissioni di approfondimento, e quasi mai se ne è parlato in prima fascia, nei telegiornali e nei programmi di divulgazione generalista. Un vulnus a cui è importante porre al più presto rimedio. In fondo il servizio pubblico serve anche a questo. Credo anche che su questo tema la sinistra dovrebbe avere più coraggio. Il primo obiettivo riaprire un dibattito sulla giustizia che attraversi la società e che segni l’agenda politica per i prossimi anni. La giustizia che non funziona lede diritti, rende più fragili le istituzioni, crea incertezza per chi vuole investire. Ovviamente i referendum possono anche ispirare un’adeguata iniziativa parlamentare. A partire dal quesito sulla separazione delle funzioni dei magistrati. Credo sia importante che tra le carriere dei giudici giudicanti e dei pubblici ministeri venga marcata una differenza più netta. Questo a tutela dell’equilibrio processuale e dei diritti della difesa. Il Consiglio superiore della magistratura resterebbe come organo generale e universale di garanzia e raccordo, ma credo che mettere dei paletti chiari evitando la commistione di funzioni aiuti il sistema nel suo complesso a risultare non soltanto più leggibile e coerente, ma anche più efficace. Altro quesito fondamentale riguarda la legge Severino. L’applicazione di oggi determina il decadimento automatico da cariche elettive e l’incandidabilità nelle liste elettorali per chi sia stato condannato anche il primo grado di giudizio e perfino per reati minori come l’abuso di ufficio. Trovo questo automatismo ai limiti della costituzionalità per chi non sia incorso in condanna in via definitiva e reputo più opportuno che la valutazione venga effettuata da un giudice in grado di intervenire caso per caso. Penso infine all’aberrazione della carcerazione preventiva, uno strumento oggi fuori controllo capace di colpire prevalentemente i poveri cristi, chi non dispone di strumenti per un’adeguata difesa. Spesso usato indiscriminatamente, non solo nei casi di pericolosità sociale o di rischio conclamato di reiterazione del reato. Ci sono persone che passano in carcere mesi, addirittura in alcune circostanze anni in attesa di giudizio. Fatte salve le istanze che riguardano alcuni casi limite il legislatore potrebbe operare per raddrizzare l’attuale stortura, evitando violazioni plateali dello Stato di diritto e perfino dello stesso habeas corpus, ovvero l’inviolabilità della persona. Credo dunque che i referendum del 12 giugno siano l’occasione giusta per segnare un punto, riaprire un confronto, riportare un tema fondamentale al centro del dibattito pubblico. Senza paura. Perché la giustizia non riguarda solo chi la esercita e amministra, ma la qualità e la credibilità delle istituzioni fondamentali della Repubblica. *Parlamentare europeo e coordinatore S&D in commissione Cultura Contro i pm trasformati in influencer. I 4 “Sì” del giudice Mirenda di Annalisa Chirico Il Foglio, 27 maggio 2022 “I pubblici ministeri si atteggiano da superstar. L’Anm è la vera minaccia all’indipendenza della magistratura. La politica non ha interesse a cambiare le cose, anzi si bea dell’esistenza delle correnti”. Il magistrato di sorveglianza di Verona spiega le ragioni del referendum sulla giustizia e perché voterà a favore in 4 casi su 5. “Per la magistratura, l’Anm rappresenta una minaccia ben più seria della riforma Cartabia che, se mi consente, è pericolosa quanto una cedrata Tassoni”, esordisce così al Foglio il magistrato di sorveglianza di Verona Andrea Mirenda, con tono risoluto e accorato insieme. “La legge in discussione in Parlamento è un pannicello caldo per la correntocrazia, l’Anm è la vera minaccia per l’indipendenza della magistratura”. Il 12 giugno lei, dottor Mirenda, voterà a favore dei quesiti referendari, promossi da Lega e Radicali. “Sì, concordo con quattro quesiti su cinque”. Partiamo dalla separazione delle carriere. “Io sono giudice, mia moglie è pm, nessuno di noi si sogna di cambiare funzione. Le carriere vanno separate perché è giusto che il pm, come l’avvocato, dia del ‘lei’ al giudice. Quel che serve è la blindatura costituzionale della pubblica accusa, si scriva chiaramente che il pm è indipendente e soggetto soltanto alla legge, non all’esecutivo. Serve un Csm della magistratura requirente, dobbiamo rompere il rapporto gerarchico con il procuratore. Si ricorre a frasi retoriche per difendere l’unitarietà delle carriere, ci si appella alla cultura giurisdizionale che sarebbe così tutelata, ma dal punto di vista fattuale già oggi i togati che passano da una funzione all’altra rappresentano percentuali omeopatiche. La verità è che i pm sono veri influencer, si atteggiano da superstar, e mantenendo una casa comune noi garantiamo loro questo protagonismo mediatico. Sono i pm a rilasciare sempre interviste. Lei ha mai sentito parlare il presidente del tribunale di Milano? Nessuno lo conosce”. Un quesito referendario riguarda i consigli giudiziari. “Ne ho fatto parte e dalla mia esperienza posso dire che gli avvocati forniscono un apporto prezioso. Una voce non corporativa in seno al consiglio offre un contributo conoscitivo. Il timore di chi si oppone dimostra quanto la magistratura sia ripiegata su se stessa perché il voto dell’avvocato ha un impatto minimo sul giudizio finale. Il giudice, come regola prima, deve accettare di essere giudicato. Se sei in cima alla piramide, devi accettare il giudizio di tutti”. Lei si è dimesso dalla presidenza della sezione fallimentare del Tribunale per occuparsi di detenuti. Scelta irrituale. “Ho fatto carriera al contrario, mi sono autoimposto un downgrade, per evidenziare quanto sia bello lavorare in magistratura, in qualunque ruolo, anche se al nostro interno il mestiere del magistrato di sorveglianza è ritenuto, forse a torto, il meno prestigioso”. Lei però è contrario al quesito che limita il ricorso alla custodia cautelare dietro le sbarre. “Il carcere non è la panacea ma, in presenza di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, serve a garantire la sicurezza sociale nelle more di un procedimento. Il disarmo dello stato può provocare reazioni di giustizia fai da te. Al legislatore suggerirei piuttosto una robusta opera di depenalizzazione. Abbiamo troppe fattispecie criminose che mettono in crisi l’obbligatorietà dell’azione penale. Perseguire ogni notizia di reato è umanamente impossibile”. Un altro quesito riguarda l’incandidabilità delle persone condannate in primo grado. “Sono contrario agli automatismi che escludono un cittadino dalla vita politica perché rappresentano una china preoccupante. Bisogna valutare la pericolosità concreta di un soggetto e poi lasciare che i cittadini scelgano attraverso l’esercizio del voto. Esisteva un’Italia repubblicana anche prima della cosiddetta ‘legge Severino’, non vivevamo nel Far West”. Secondo lei il quorum si raggiunge? “Sarà difficile ma, se pure il 3 per cento degli italiani dovesse esprimersi a favore del cambiamento, sarebbe un segnale importante per la politica. Non si può ragionare soltanto di legge Cartabia, una legge che peraltro non incide né sulla correntocrazia né sulla degenerazione del Csm, ridotto a un nominificio in mano a quattro associazioni di diritto privato. Lo ha ricordato recentemente anche Nicola Gratteri”. Lei però faceva parte di Md fino al 2008. “Mi sono dimesso, sono uscito anche dall’Anm che è la vera minaccia all’indipendenza della magistratura. Ha visto l’adesione allo sciopero contro la riforma Cartabia? Oltre la metà non ha aderito. Io l’ho detto: non sciopero con voi perché Cartabia è pericolosa quanto una cedrata Tassoni. Voi dell’Anm siete molto più pericolosi”. Lei critica il correntismo sulla base dell’esperienza, insomma. “Le correnti sono lo strumento di penetrazione e influenza della politica all’interno di dell’Anm e del Csm. La politica non ha interesse a cambiare le cose, anzi si bea dell’esistenza delle correnti. L’attuale presidente dell’Anm era un mandarino in servizio al ministero di via Arenula, e come lui molti altri. I procuratori di Napoli, Milano, Perugia vanno in pensione e, un attimo dopo, li ritroviamo engagé in qualche organo di nomina politica. Pensare che 8 mila giudici fermino il Parlamento è una ingenuità clamorosa: tra magistratura e politica c’è un concerto di amorosi intenti”. Referendum giustizia, separare le carriere per delegittimare i pm? di Leonardo Palmisano micromega.net, 27 maggio 2022 Una lettura politica dei referendum sulla giustizia a partire dal quesito relativo alla divisione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Mentre è difficile leggere, anche per chi ha una laurea in legge, i quesiti referendari, è abbastanza agevole, quando non scontato, leggerli politicamente. Alcuni quesiti più di altri. Uno su tutti quello riguardante la separazione delle carriere. Ora, ai più non sarà sfuggita la differenza di compiti tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, differenza che a volte contiene un approccio culturale diverso che necessita di essere integrato proprio grazie al passaggio produttivo, collaborativo quindi non corporativo, da una funzione all’altra. Quello che sfugge davvero è, invece, che dietro quest’idea delle separazioni delle carriere si cela un disegno volto a delegittimare, di fatto, il lavoro e i compiti dei pubblici ministeri e ad intasare il lavoro della magistratura giudicante, chiamata a valutare il lavoro dei Pm, quindi a influire sulla loro carriera, non solo a verificare la necessità del processo. Questo effetto di personalizzazione coatta della scelta e della valutazione delle carriere non aiuta la magistratura nel suo insieme, perché sospinge al personalismo alla base delle carriere e può condurre a forme inedite di nuovo corporativismo. In definitiva, non è con la separazione delle carriere che si neutralizza il corporativismo, ma con l’acquisizione reciproca, da parte di inquirenti e giudicanti, della cultura dell’altro, degli elementi distintivi delle due professioni. Ed infatti è più facile, quindi più veloce, giudicare se si ha cognizione della tecnica investigativo-accusatoria. Così come si riesce a valutare meglio il calibro di un reato se si è passati da una posizione giudicante. L’ammorbidimento per la custodia cautelare, contenuto in un altro quesito, è una concessione fatta a chi commette reati di peso, perché non tutela la vittima dalla reiterazione del reato, sottoponendola, di fatto, a forme acute di insicurezza da minaccia non esercitata fisicamente. Questo, nei casi estremi, può favorire membri di raffinate organizzazioni criminali, alimentando una profonda sfiducia istituzionale in alcune aree del paese. Questo quesito pare rispondere a un’esigenza di tutela riguardosa verso chi reiteratamente può danneggiare l’economia pubblica e privata. Sembra quasi la legittimazione referendaria di una condizione di fatto, una tolleranza verso fenomeni corruttivi sempre più spesso connessi alle mafie e alla loro ricchezza. Tolleranza aggravata dallo stato di crisi economica e politica del paese. La lettura più realistica, insomma, è quella di una fila di quesiti scritti male, difficilmente leggibili per l’italiano medio, tendenti a scaricare emotivamente solo sulla magistratura italiana annose ed irrisolte questioni di equilibrio tra i poteri. Cara Urbinati, vogliamo tornare alla “democrazia” notabilare? di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 27 maggio 2022 Le critiche ai referendum sulla giustizia di Nadia Urbinati su Il Domani di ieri sono sia di carattere generale che sui singoli questi. Ma non convincono né gli uni né gli altri. Appartengono alla prima categoria quelli che contestano la stessa scelta dello strumento, in quanto: la materia sarebbe complessa, i quesiti “astrusi”, l’obiettivo segnato da una “diffidenza” nei confronti della magistratura. La conclusione è che su tale materia non si sarebbe dovuto far votare i cittadini: “Dovrebbero essere il governo e il parlamento a impegnarsi responsabilmente e con competenza”. Sarebbe innanzitutto interessante sapere se l’autrice ritiene che la stessa “diffidenza” abbia animato anche il Presidente della Repubblica allorché, in occasione del suo discorso dopo la rielezione, ha affermato, tra l’altro, che “I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia”, né “avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che … incidono sulla vita delle persone”. Non si trattava ovviamente di preoccupazioni teoriche, ma della consapevolezza di problemi reali che, negli ultimi anni, sono stati squadernati da scandali e vicende preoccupanti. Ma anche sul piano teorico, sorprende che una studiosa del calibro della Urbinati consideri la “diffidenza” verso il potere (legislativo, esecutivo, giudiziario…) un atteggiamento criticabile. Il costituzionalismo negli ultimi due secoli si è sviluppato proprio per superare visioni “mistiche” del potere. Il punto di partenza è infatti che il potere è strutturalmente esposto al rischio di torcersi in abuso e che dev’essere sempre limitato, controllato, scrutinato. La “diffidenza” di cui parla Urbinati non è altro che la realistica consapevolezza (avvalorata peraltro dalle vicende recenti) che non si deve mai abbassare la guardia. Appartiene alle visioni mistiche invece l’idea che la magistratura, in quanto pubblico potere, sia di per sè estranea a questi rischi. Un poter immune. Il che non ha nulla a che vedere con uno sbrigativo giudizio “morale” di condanna. Come notava Montesquieu nell’elaborare proprio la sua teoria sul potere “anche la virtù ha bisogno di limiti”. Impostare i ragionamenti sulla divisione tra chi crede nella virtù dei magistrati e chi invece la nega è una banalizzazione che elude il cuore delle questioni legate al potere. Anche della magistratura. Quanto poi agli argomenti che liquidano la legittimità di un intervento mediante referendum invocando l’esclusiva del Parlamento, essi tradiscono una visione elitista della democrazia e contraddicono la funzione di questo istituto nell’equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, così come lo vollero i costituenti. Dire che i cittadini non debbano occuparsi di questioni complesse, non solo nega la storia dei referendum, alcuni dei quali (si pensi a quelli sulle leggi elettorali o sulla responsabilità civile dei giudici) hanno riguardato questioni altrettanto se non più complesse, ma soprattutto nega l’idea stessa della democrazia. Nella quale, ci piaccia o no (e a me sembrava che alla studiosa Urbinati piacesse), l’analfabeta e l’intellettuale hanno lo stesso diritto di decidere e pesano allo stesso modo. Vogliamo tornare alla “democrazia” notabilare o al voto multiplo che consentiva, ad esempio, ai professori universitari di valere per due? Il problema non è il diritto di deliberare, ma semmai gli strumenti per conoscere. E, a giudicare dal livello di informazione che offerta su questi sui referendum, conoscere non è esattamente un risultato facilmente conseguibile. Inviterei la Urbinati a fare un piccolo sondaggio con le persone che in Italia di incontrano per strada e verificare quanti conoscano, ancor prima del merito, il fatto (semplice, non complesso) che il 12 giugno si svolgeranno dei referendum. Quello dell’informazione è un tema che investe direttamente di responsabilità chi partecipa al dibattito. Per questo anche le specifiche motivazioni, pro e contro i singoli quesiti referendari, andrebbero approfondite uscendo dalla narrazione sloganistica e dal rischio di generare equivoci anziché aiutare a capire, cosicché poi ciascuno decida secondo il proprio giudizio. Su questo, spiace dirlo, le riflessioni della Urbinati non aiutano. Invocare la bontà di un certo argomento solo perché lo si legge nel “documento del comitato del NO”, non mi pare un gran contributo. Soprattutto allorché in quel documento si affermi che il referendum sull’applicazione delle misure cautelari, impedirebbe di colpire, ad esempio un “coniuge violento”. Si tratta di un’affermazione semplicemente falsa, perché il referendum non riguarda minimamente le misure cautelari nel caso sussista il rischio che siano commessi “gravi delitti con mezzi di violenza personale”. In questo caso, si tratta solo di cattiva informazione. Così come discutibile è l’argomento che la separazione delle funzioni priverebbe il pubblico ministero della altisonante “cultura della giurisdizione” senza che ci si domandi se invece, proprio la commistione non rischi di alimentare una “cultura dell’inquisizione” anche in chi giudica. Né aiutano gli argomenti a effetto che evocano obiettivi di “normalizzazione” della magistratura, con tanto di citazione di Berlusconi e Orbàn, per una soluzione (quella della separazione) che è praticata in tutti gli ordinamenti liberal-democratici più avanzati, che i costituenti avrebbero voluto attuare se solo il codice di procedura penale, all’epoca, fosse stato quello che è oggi, e che fu sostenuta con argomenti “laici” da Giovanni Falcone, il quale, già, allora prevedeva che sarebbe stato accusato, per questo, di attentato alla magistratura. Infine, per limitarci solo a un altro esempio, contestare la legittimità della scelta che i magistrati siano valutati da un organo misto (che comprenda avvocati e professori) e non solo dai propri colleghi invocando nuovamente l’obiettivo della normalizzazione, non ripropone solo l’idea misticheggiante di magistrati immuni dal rischio di tentazioni corporative. Dimentica, soprattutto che la soluzione di una composizione mista degli organi che si occupano dei magistrati (anche per irrogare misure disciplinari, ad esempio) è esattamente quella che ha scelto il nostro costituente istituendo il Consiglio Superiore della Magistratura. Informare e discutere per poter deliberare con cognizione di causa è un valore che dovrebbe essere caro a tutti, a prescindere dalle singole scelte politiche. Invocare, a corrente alternata, la Costituzione, omettendo quello che di essa non ci piace, mentre si paventano complotti rispetto al resto, appartiene anch’esso alle visioni mistiche e alle guerre ideologiche. Esattamente ciò di cui non abbiamo alcun bisogno. A meno che, come suggerisce la Urbinati, non si scelga di optare per l’astensione. In quel caso non c’è nemmeno bisogno di informarsi, come non si informa quell’alta percentuale di astensionisti cronici che ha deciso, spesso per senso di impotenza, di disinteressarsi e basta. Una bella scorciatoia per chi invece è così risolutamente convinto delle proprie ragioni. Una scorciatoia che non mi pare esattamente riflettere l’impegno etico del cittadino attivo che traspare da tanti altri scritti della Urbinati. La Caporetto di tribunali e toghe: due italiani su tre non si fidano del sistema giustizia di Stefano Zurlo Il Domani, 27 maggio 2022 Il rapporto Eurispes evidenzia un quadro impietoso: il 65,9% non crede nell’apparato e tra i giovani si supera il 70%. La conseguenza è che un italiano su 4 non denuncia neppure il reato subìto a causa dei processi-lumaca. Un italiano su quattro non denuncia il reato appena subito. E due su tre non hanno fiducia nella giustizia. Se non è una Caporetto, poco ci manca. L’Italia si avvicina con passo stanco e distratto all’appuntamento con i referendum, ma sotto la crosta dell’apparente indifferenza covano altri sentimenti: forse la rassegnazione e la disillusione, ma certo i nostri connazionali hanno le idee chiare. Il sistema non funziona e i primi a misurarne e percepirne i limiti sono i giovani che pure dovrebbero essere battezzati nel fonte dell’ottimismo. Non è così, in ogni caso la diagnosi mette al primo posto la malattia delle malattie: l’esasperante lentezza dei processi, antico e mai risolto male del nostro Paese. Abbiamo perso il conteggio dei proclami di chi prometteva di accorciare sul calendario i rituali e le tappe dei procedimenti, oggi siamo ancora qua, più o meno allo stesso punto, con la foto scattata dal trentaquattresimo Rapporto Italia dell’Eurispes. Le cifre sono davvero mortificanti e mostrano tutta la distanza che c’è fra i convegni e le interviste delle toghe e la realtà che viene vissuta quotidianamente nei palazzi di giustizia della penisola. Dunque, più di un cittadino su quattro - per la precisione il 27,3 per cento - preferisce non denunciare i gli illeciti. Un dato sconfortante che, fra l’altro, falsa tutte le classifiche e le statistiche sui reati e sul loro andamento. Le ragioni di questo comportamento? Purtroppo non c’è una sola causa: l’11% pensa che i fastidi nell’affrontare un percorso giudiziario siano superiori ai vantaggi; dieci potenziali utenti su 100 non si avventurano perché hanno paura di essere inghiottiti da meccanismi farraginosi che non promettono certezze ma solo spese su spese; un altro 6.2 per cento del campione si trincera dietro uno scudo formato da una sola parola: sfiducia. Gira e rigira, si torna sempre alla stessa casella: il 65,9 per cento degli intervistati da Eurispes afferma di non fidarsi dell’apparato giudiziario. Naturalmente con diverse gradazioni: il 45,3 per cento concede un piccolo credito ai giudici, contro un 20,6 per cento che ha perso ogni speranza. E le persone mettono in fila i motivi di questa presa di distanza. Al primo posto c’è, come prevedibile, l’esasperante lentezza dei processi, che viene impietosamente indicata dal 34,1 per cento delle persone ascoltate, mentre in seconda posizione il 19,8 per cento muove una critica più sottile, in qualche modo politica: non tutti sono uguali davanti alla legge e poi un importante 13,6 per cento sottolinea con amarezza che nel nostro Paese non c’è la certezza della pena. Insomma, il catalogo delle criticità è lungo e dovrebbe costringere i poteri dello Stato a una riflessione urgente per sbloccare finalmente le riforme che restano sepolte nell’armadio stracolmo degli annunci. C’è il testo che porta il nome del Guardasigilli Marta Cartabia, per carità, e si spera che un qualche risultato possa arrivare attraverso la spinta dei referendum, ma il rischio di non raggiungere il quorum del 50 per cento è purtroppo molto alto. Un altro elemento colpisce e mina drammaticamente la credibilità della magistratura: il 57,8 per cento degli italiani che si sono confessati con Eurispes ritiene che l’azione dei giudici sia condizionata dall’appartenenza politica, dunque dal pensarla in un modo piuttosto che in un altro, mentre il 31,1 per cento è convinto che le cose non stiano così. Se si scorporano i risultati del sondaggio si scopre, forse a sorpresa, che i primi a non scommettere sul buon andamento della macchina giudiziaria, giudicata inaffidabile, sono gli elettori che non si sentono rappresentati (73,4 per cento) e soprattutto quelli Cinque stelle (69,7 per cento). Ma le differenze, rispetto agli altri spicchi dell’emiciclo, sono modeste e nessuno pare più inseguire il sogno di un ordine giudiziario come modello e punto di riferimento per la società. L’ultima puntura di spillo è quella anagrafica: l’entusiasmo non va a braccetto con l’età, anzi. Sono proprio i ragazzi fra i 18 e i 24 anni ad avere poca (50,9 per cento) o nessuna (22,4 per cento) fiducia nella giustizia. Il 73,3 per cento degli under 24 entra nel mondo adulto osservando con preoccupazione, o peggio con scetticismo, quel che avviene nei tribunali. Depistaggio Report e archivio Persichetti: la solidarietà a dondolo del sindacato di Frank Cimini Il Riformista, 27 maggio 2022 Chi spaccia bufale e chi le contrasta. Chi diffonde la panzana su Stefano Delle Chiaie presente a Capaci riceve la solidarietà del sindacato dei pennini e di tanti “sinceri democratici”: il destino di Report. Chi contrasta la dietrologia sul caso Moro e sulla storia maledetta degli anni ‘70 sta sotto inchiesta da un anno, perquisito, con l’archivio sequestrato e impossibilitato a lavorare: il destino del ricercatore indipendente Paolo Persichetti. Viene da pensare a un mondo alla rovescia, ma questa è la realtà. Report vive ossessionato dai mandanti esterni a Cosa Nostra, un’ipotesi che Giovanni Falcone aveva escluso con le famose parole sull’inesistenza del famoso “terzo livello”. Ma da trent’anni si commemora Falcone stravolgendo il significato e il valore della sua attività di magistrato, arrivando a “dimenticare” le posizioni che prendeva come quella favorevole alla separazione delle carriere. Torna la “pista nera” dopo che una sentenza ha mandato al macero la storia della trattativa Stato-mafia. Non si vuole prendere atto che Cosa Nostra non prende ordini da nessuno. La responsabilità però non è solo dei dietrologi nel mondo dell’informazione. C’è nelle procure chi non si rassegna ad archiviare in via definitiva la bufala di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi. Va ricordato che Report ha una tradizione complottarda già dai tempi di Gabanelli. Indimenticabile una puntata di ore e ore sull’11 settembre e Bush che se l’era fatto da solo. Persichetti invece diciamo che non ha la forza di attrarre solidarietà. Un’inchiesta già archiviata a Milano su presunti favoreggiatori della latitanza di Cesare Battisti con il pm Nobili che cestina una richiesta di perquisizione formulata dalla polizia approda a Roma. Qui il pm Eugenio Albamonte (Md) ipotizza l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo poggiata sulla divulgazione di atti della commissione Moro che segreti non erano. Così ha deciso il perito nominato dal gip. Ma il giudice pure lui di Md non ha avuto il coraggio di dissequestrare il maltolto tra cui i certificati medici del figlio di Persichetti. Gli atti sono stati restituiti al pm che indagherà ancora almeno fino alla fine dell’anno in corso dopo aver messo in dubbio nell’udienza del 20 maggio scorso la validità del lavoro del perito. Il capo di incolpazione è già cambiato 5 volte. Siamo tornati alla violazione del segreto d’ufficio che non può essere contestato a fini di terrorismo formalmente. Ma lo è in pratica. Politicamente perché il problema è politico. Non si vuole ammettere che dietro le Br c’erano solo le Br come dietro Cosa Nostra c’era e c’è solo Cosa Nostra. E non si tratta di una dietrologia fine a se stessa. Serve in modo diverso per governare e riprodurre potere oggi. L’imputato è al funerale del padre, ma per il tribunale non è legittimo impedimento di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 27 maggio 2022 L’incredibile caso a Vercelli. Rifiutata la richiesta, l’uomo ha impugnato la sentenza di condanna in appello e in Cassazione. Che però ha dato ragione al tribunale. Udienza penale e funerale di uno stretto congiunto possono essere compatibili. Il caso riguarda una persona sotto processo a Vercelli, che ha chiesto di partecipare ai funerali del padre e presentato, tramite il suo avvocato, istanza di legittimo impedimento. Di fronte alle norme, però, neppure una dolorosa vicenda personale può rendere meno rigidi i giudici. È l’amara constatazione alla quale si giunge prendendo in considerazione quanto accaduto in Piemonte. Il Tribunale di Vercelli è andato avanti spedito senza tener conto dell’istanza di legittimo impedimento dell’imputato, che però ha impugnato la sentenza di condanna davanti alla Corte di appello di Torino per poi giungere pure in Cassazione. Quest’ultima ha confermato quanto stabilito dal Tribunale, ma ha rivisto il trattamento sanzionatorio. I giudici di secondo grado hanno preso in considerazione le due diverse esigenze dell’imputato, vale a dire l’orario di celebrazione del processo e quello dei funerali del padre, e hanno considerato l’impedimento non assoluto, riconoscendo comunque che lo stato emotivo dell’imputato può essere stato condizionato. Un’analisi fredda, scandita dall’incrocio dei dati - l’ora dell’udienza e quella di un evento tanto triste quanto intimo -, con la considerazione della “correttezza della decisione del Tribunale, sebbene indicativa di una modesta sensibilità dei componenti del collegio, che avrebbero potuto acconsentire ad un rinvio del processo”. La difesa non ha mollato e ha chiesto l’intervento della Corte di Cassazione, ponendo l’accento sul coinvolgimento emotivo della persona imputata, in procinto di essere ascoltata in udienza (decisiva per le sorti del processo) e in uno stato emotivo alterato, considerata la concomitanza del funerale del padre. Poco più di una settimana fa la sentenza della Suprema Corte (la numero 19678 del 19 maggio). I legali del condannato hanno insistito sulla contraddittorietà della motivazione della Corte d’appello, che nel sottolineare la non assolutezza del dedotto impedimento ha, comunque, condiviso la tesi della mancanza di lucidità del ricorrente tale da giustificare una richiesta di rinvio del suo esame. Qual è stata la strada seguita dalla Cassazione per giungere alle sue conclusioni? I giudici di Piazza Cavour hanno preliminarmente evidenziato che nell’atto di appello la difesa aveva impugnato la sentenza di primo grado anche in merito al rigetto della richiesta di differimento del processo, avanzata dal ricorrente per l’udienza del giorno in cui doveva celebrarsi il funerale del padre. In Corte d’appello il ragionamento dei giudici si è basato sugli orari. È stata affermata la natura non assoluta dell’impedimento, dato che il funerale del padre dell’imputato si sarebbe celebrato a Garbagnate Milanese nel primo pomeriggio (alle 14.30), mentre il processo ha avuto inizio davanti al Tribunale di Vercelli alle 9.43 e si è concluso alle 11.08 con la lettura del dispositivo. I giudici di secondo grado hanno evidenziato che “l’imputato avrebbe avuto modo di presenziare tanto all’udienza (eventualmente chiedendo un rinvio per rendere l’esame dibattimentale ove fosse stato in condizioni emotive tali da non riuscire a difendersi adeguatamente), quanto al funerale del proprio padre, previsto per le ore 14,30 del pomeriggio”, confermando la correttezza della decisione del Tribunale. Se l’impedimento non è assoluto, dunque, il processo si celebra e in udienza si deve andare. Inoltre, è stato sostenuto che “il difensore non aveva dedotto un impedimento assoluto ed effettivo dell’imputato, poiché l’udienza e il funerale non si sovrapponevano tra loro”. Il carattere non assoluto dell’impossibilità dell’imputato di essere presente in udienza era collegato non alla natura dell’impegno quanto alla sua compatibilità con la presenza in udienza, che deriva da una verifica operata “a posteriori”. La valutazione, invece, si sarebbe dovuta basare - con l’utilizzazione anche del criterio della “probabilità” di cui al capoverso dell’articolo 420-ter del Codice di Procedura penale - prima della sua celebrazione. Dunque, il desiderio di portare l’ultimo saluto ad uno stretto congiunto non rappresenta un legittimo impedimento (assoluto) e si scontra con la freddezza delle norme, delle sentenze e della irremovibilità dei giudici. Viene in mente il titolo di un recente libro del professor Gerardo Villanacci: “Giustizia cinica”. Roma. Ufficio di Sorveglianza in crisi: i diritti dei detenuti e la sicurezza di tutti noi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 maggio 2022 Giudici e avvocati chiedono che la giustizia applicata ai reclusi funzioni e non sia di serie B. Su 77 impiegati in realtà in servizio effettivo ce ne sono soltanto 25. E anche i magistrati sono sotto organico. Solitamente ci appaiono su fronti contrapposti: avvocati da una parte e magistrati dall’altra, ognuno a sostenere le proprie ragioni e prerogative. Stavolta invece stanno dalla stessa parte, giudici di sorveglianza e penalisti uniti nel chiedere che la giustizia applicata ai detenuti sia messa in grado di funzionare e non venga abbandonata nella “serie B” in cui è da tempo retrocessa. La Camera penale di Roma ieri ha scioperato perché, come ha spiegato il presidente Vincenzo Comi, “il problema che affligge la Sorveglianza è atavico, cronico, e si traduce in un servizio del tutto inadeguato”. Stessi termini utilizzati dai magistrati del distretto per descrivere una sostanziale denegata giustizia “a dispetto dell’impegno dei singoli”. I problemi cominciano dalla cancelleria, dove è quasi impossibile per i legali accedere ai fascicoli delle istanze presentate. Che dal momento in cui vengono depositate hanno tempi di attesa lunghissimi. Basti pensare ai condannati a pene inferiori ai quattro anni, che hanno diritto a scontarle fuori dal carcere, lo chiedono, e sono costretti ad aspettare anni prima di vedere accolta o respinta la domanda. Li chiamano i “sospesi” e lo sono a tutti gli effetti, con ricadute facilmente immaginabili sulle loro esistenze. Così come quelle derivanti dalle ugualmente intollerabili attese per colloqui, permessi e ogni altra misura che possa aiutare la “rieducazione” dei detenuti. Che dovrebbe aiutare il reinserimento nella società, ma di fatto lo allontana. Chi esce dal carcere sarà un cittadino migliore o peggiore anche a seconda di come ha vissuto la detenzione, ma in queste condizioni è difficile che esca migliore. “I diritti che non trovano concreta attuazione e quindi è come se non esistessero”, denunciano i magistrati. E le risorse per garantirli restano scarsissime. Il personale amministrativo dell’ufficio di sorveglianza di Roma sulla carta dovrebbe contare su 77 impiegati, ma nella realtà sono 51, che tolti quelli a tempo determinato, part-time, autorizzati ai permessi per motivi familiari, in congedo o in aspettativa si riducono a 25 in servizio permanente effettivo. I magistrati sono anch’essi insufficienti, a fronte di incombenze sempre maggiori: le più ampie in Italia per via della competenza nazionale sui reclusi al “41 bis” e i collaboratori di giustizia. Mancano le aule per le udienze, i computer e gli altri strumenti necessari a un’informatizzazione degna di questo nome. Il rispetto dei diritti dei condannati non è un problema confinato al mondo chiuso dalle sbarre in cui vivono, ma riguarda l’intera società di cui sono parte: la nostra. Garantirli o negarli ha ricadute sull’intera collettività, e chi deve “sorvegliare” dev’essere messo in condizioni di farlo. Ne va della sicurezza di tutti. Milano. Donne con le donne: le detenute lavorano per le pazienti oncologiche di Giampaolo Cerri vita.it, 27 maggio 2022 Il progetto “Il Filo d’Arianna”, promosso dall’Istituto Tumori di Milano con l’associazione GO5, offre supporto multidisciplinare dopo un intervento al seno. Dalle carceri femminili di Milano e Vigevano, arrivano invece i turbanti post-chemio realizzati con tessuti donati dalle industrie della seta e disegnati sui bozzetti di Helen Field. Dopo una prima edizione con risultati oltre le aspettative, diventa un format da poter esportare anche in altri centri oncologici ‘Il filo di Arianna’, ideato dall’équipe di psicologi e oncologi dell’Istituto Nazionale dei Tumori, di Milano e dedicato alle pazienti con il tumore metastatico al seno per aiutarle a trovare l’equilibrio necessario per condurre una vita normale. Il progetto, presentato oggi allo Spazio Alda Merini del capoluogo lombardo, è nato grazie alla collaborazione con GO5, associazione non profit costituita nel 2017 per dare un supporto concreto alle pazienti in cura all’Istituto. L’idea è stata quella di finanziare progetti di aiuto alle malate coinvolgendo altre donne in difficoltà, come ad esempio le detenute. Il primo passo è stato avviare una collaborazione con il carcere San Vittore a Milano, dove sono stati creati e offerti turbanti, il copricapo ormai più usato dalle donne che a causa delle terapie perdono i capelli. Successivamente sono state coinvolte le detenute del reparto di alta sicurezza di Vigevano, le quali, in collaborazione con Caritas, confezionano borse ed altri accessori, tra cui gli immancabili turbanti, disegnati da Helen Field, proposti in eventi solidali (Velvet & Friends). I tessuti provengono da campionari o di fine collezione donati da aziende tessili, come le comasche Ratti e Clerici Tessuto, o da imprenditori del settore come Max Pavesi, all’insegna dell’economia circolare. Proprio il ricavato della vendita di questi accessori è stato utilizzato per finanziare il Filo di Arianna. Durante l’incontro, illustrati i risultati della prima edizione del progetto, che si concretizza attraverso cicli di incontri di gruppo a cadenza settimanale, sia in presenza sia via web, in cui psicologi, oncologi, terapisti del dolore, radioterapisti, nutrizionisti ed anche dermatologi ed esperti di make up, affiancano le donne nel loro percorso di cure. All’evento sono intervenute Claudia Borreani, responsabile della struttura di Psicologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, Luciana Murru e Sara Alfieri, psicologhe e coordinatrici del progetto. Insieme a loro anche l prof. Alberto Scanni, presidente emerito del Collegio Primari Oncologi Ospedalieri. Alcune attrici del CETEC-Centro Europeo Teatro e Carcere, con un suggestivo reading, hanno dato voce alla testimonianza di una paziente. Lauro (Av). Il libro sospeso per le mamme detenute e i loro figli di Pasquale Sorrentino giornaledelcilento.it, 27 maggio 2022 La cultura, la lettura, per superare le sbarre. Non per eliminarle ma quanto meno affrontarle. Da questo concetto, probabilmente, della nuova idea del vulcanico Michele Gentile, l’ideatore del libro sospeso. Il libraio di Polla ha infatti ideato un nuovo viaggio del suo libro sospeso: tra le mura del carcere di Lauro, in provincia di Avellino, dedicato alle mamme detenute. Il libro sospeso che partirà da Polla, ovvero ognuno potrà regalare un tomo, avrà come obiettivo quello di raggiungere queste mamme e i loro figli fino a 6 anni. Un progetto portato avanti con Samuele Ciambriello - Garante campano dei detenuti per la collaborazione. Fondamentale è stata la disponibilità di Carmela Esposito. Si potranno regalare libri e sogni, in questo modo. Si potrà dare l’opportunità ai piccoli di leggere oppure di sentire la voce delle loro mamme mentre leggono qualche favola. Livorno. Un incontro europeo per confrontarsi su carcere e lavoro livornopress.it, 27 maggio 2022 Dal progetto Self design ai progetti di Livorno per le persone detenute. Si è tenuta presso la sede del Palio Marinaro la conferenza stampa che ha ospitato 22 delegati del progetto europeo Self Design provenienti da 4 paesi europei. La presentazione del progetto Self Design, proposto dal partner francese ISC (Institut Saumurois de la Communication) e coordinato in Italia da Linc (acronimo di Lavorare Insieme Nella Comunità), è stata l’occasione per un confronto che ha messo attorno al tavolo istituzioni e associazioni che si occupano di esecuzione penale. Per l’amministrazione comunale ha salutato gli ospiti europei l’assessore Andrea Raspanti. L’assessore ha ribadito l’importanza di percorsi come quello presentato per sostenere l’impegno profuso dalla città di Livorno e questa amministrazione sui temi dell’integrazione sociale e del benessere della comunità. Maurizio Quercioli, presidente del comitato organizzatore Palio Marinaro, che da tempo si spende in progetti di inclusione sociale, ha ringraziato gli ospiti ricordando come “Livorno sia una città nata sull’inclusione e quindi votata alla costruzione di nuove opportunità. Uno spirito che proviamo a portare avanti anche con le iniziative del nostro comitato” Il progetto è stato uno spunto per allargare la collaborazione tra chi opera a Livorno e altre organizzazioni europee analoghe: “Con Linc da anni ci spendiamo nella progettazione e realizzazione di interventi di comunità ed il lavoro con le carceri rientra pienamente nella nostra mission. Costruire opportunità per le persone detenute, per i giovani, per i quartieri di periferia, o per le scuole ha per noi la stessa importanza: sono tutti pezzi inscindibili che una comunità deve curare per potersi dire in salute.” dichiara Guido Ricci, psicologo di comunità e referente livornese di Linc. Dopo la presentazione degli obiettivi e delle attività del progetto europeo è intervenuta Cristina Necchi, direttrice di UEPE Livorno, che ha sottolineato l’importanza che l’integrazione tra comunità e istituzioni ha per tutti i percorsi rivolti alle persone che stanno scontando una pena. Hanno chiuso la giornata gli interventi di Marco Solimano, garante delle persone private della libertà per il comune di Livorno, e il direttore Carlo Mazzerbo che in questi giorni hanno accompagnato gli ospiti europei nelle visite presso la Casa di reclusione “Le Sughere” e la sezione di Gorgona. Per Solimano “progetti come questo sono importanti per costruire percorsi che siano in grado di riempire in senso positivo il tempo della pena, per essere già pronti nel momento dell’incontro con il territorio. Un lavoro che facciamo tutti i giorni con fatica e che ci ha portato a siglare un’importante patto di collaborazione tra carcere, amministrazione, garante ed alcune realtà produttive livornesi per garantire un percorso di formazione permanente in carcere”. Il direttore Mazzerbo ha concluso sottolineando “quanto sia centrale per la casa di reclusione un costante rapporto con “il fuori”. Bisogna aprire il carcere alle energie che possono arrivare dal mondo esterno: associazioni, cooperative, mondo produttivo, tutto ciò che può riempire e dar senso al tempo della reclusione. E nello stesso tempo è importante che il dentro dialoghi con l’esterno, attraverso percorsi di volontariato, inserimento lavorativo, opportunità formative”. Il progetto Self design si dà quindi appuntamento all’autunno con nuovi incontri e una collaborazione ancora più stretta con Uepe, Casa di Reclusione e Amministrazione comunale. Trieste. I detenuti diventano attori: applausi per lo spettacolo al Coroneo di Stefano Mattia Pribetti triesteprima.it, 27 maggio 2022 Lo spettacolo per la regia di Elisa Menon ha emozionato il pubblico, che eccezionalmente ha potuto accedere alla casa circondariale. Si tratta della performance conclusiva del corso di teatro promosso da Enaip FVG e dalla casa Circondariale stessa e realizzata dalla Compagnia Fierascena in un percorso di collaborazione con il teatro Rossetti. I detenuti diventano attori nello spettacolo “Questo immenso - dialoghi con il tempo e con il cuore umano”, andato in scena al carcere del Coroneo oggi, giovedì 26 maggio, alle 15, mentre una replica (sold out) è prevista domani alla stessa ora. Lo spettacolo, per la regia di Elisa Menon, è la performance conclusiva del corso di teatro “Rinascere dalle ceneri” promosso da Enaip FVG e dalla casa Circondariale stessa e realizzata dalla Compagnia Fierascena in un percorso di collaborazione con il teatro Rossetti. Lo spettacolo è una riflessione recitata sul tempo, quello che in carcere non passa mai, l’unità di misura che definisce la gravità della pena per la popolazione detenuta. Parte del testo è stata scritta dagli attori stessi, che stanno scontando la pena al Coroneo e, proprio per questo, restituiscono allo spettatore un vivo e appassionato punto di vista interno al tema. Un’esperienza che trapela dall’intero spettacolo, costruito durante il percorso di formazione e improvvisazione teatrale in sinergia con la regista, che è anche parte del cast. “Non c’è un copione vero e proprio - ha dichiarato Elisa Menon - ma si crea una relazione tra attore e regista, è un incontro di bisogni grazie agli strumenti del teatro”. Lo spettacolo sarebbe dovuto andare in scena alla sala Bartoli del Rossetti, ma la pandemia ha reso necessaria la rappresentazione nella casa circondariale. Un inconveniente che ha tuttavia reso possibile un’occasione unica e interessante per gli spettatori. I giovani interpreti hanno saputo regalare al piccolo pubblico (ristretto per ragioni logistiche, ma che ha comunque occupato tutti i posti disponibili) una rosa di emozioni, dalla pesantezza del tempo alla voglia di riscatto, alla solidarietà tra compagni di cella, a volte in grado di inventare la speranza e materializzare perfino il mare all’interno di quattro mura. Toccante soprattutto il loro sguardo alla fine dello spettacolo, quando gli applausi calorosi degli spettatori hanno creato per un momento una connessione tra il mondo interno al carcere e il tanto agognato mondo esterno, come un’anticipazione dell’auspicato inserimento nella società alla fine della pena. Al termine dello spettacolo il direttore della casa circondariale Graziano Pujia è intervenuto per parlare della funzione riabilitativa del carcere, con l’augurio che, con esperienze come questa “il tempo in carcere non sia tempo sprecato, ma un’occasione per riscattarsi e riscoprire le proprie potenzialità”. Presente anche la responsabile dell’area comportamentale del carcere, che ha sottolineato come “il pubblico di oggi rappresenta un ponte tra la società libera e i detenuti, a cui dev’essere concessa una seconda possibilità di riscatto, ed è giusto che la società sia pronta a rischiare per questo”. Lo spettacolo è stato diretto da Elisa Menon, fondatrice di Fierascena, esperta di Teatro sociale ed Applied Theater. Conduce laboratori teatrali nelle carceri di Gorizia e Trieste in contesti di fragilità e di emergenza in cui il teatro diventa una risorsa di benessere per chi lo pratica. Gli interpreti, oltre alla regista stessa, sono Giulia Possamai, Luis Alberto, Leudy, Aimen, Luca e Leonard. Roma. Il carcere nel pallone con Atletico Diritti e Carolina Antonucci di Gianfranco Falcone L’Espresso, 27 maggio 2022 Chi è Carolina Antonucci e come incontra il carcere? Ho incontrato il carcere ai tempi dell’università. Ho iniziato lì a studiare, ad approfondire questo tema partendo da una tesi che avevo fatto durante la magistrale sulla nascita del sistema penitenziario. Poi da lì ho continuato su questo tema con un dottorato di ricerca in studi politici. Parallelamente incontravo anche Antigone, l’associazione per la quale attualmente lavoro. La incontravo non solo perché Antigone è una delle associazioni più importanti, se non la più importante, che si occupa di questo argomento. La incontravo anche perché Antigone nel 2014 ha fatto nascere una polisportiva che si chiama Atletico Diritti, e da luglio del 2014 ho iniziato a collaborare con questa polisportiva. Perché il mio passato è un passato di giocatrice ma anche di appassionata di calcio. Ho fatto parte di un’altra associazione sportiva in precedenza e all’epoca ho iniziato ad occuparmi di alcune questioni burocratiche per una squadra di calcio maschile. Da lì per diversi anni ho fatto attività di volontariato. Sul finire del mio dottorato ho iniziato a lavorare anche per Antigone. Ho 33 anni. Sono laureata in Scienze della politica alla sapienza di Roma. Il livello più alto che ho raggiunto a calcio è stata una serie B di calcio a undici. In quale carcere operi? Io sono a Rebibbia al femminile. A Rebibbia ci sono quattro istituti. Il più grande è il nuovo complesso maschile. Poi ci sono altri due istituti sempre maschili, uno dei quali è Rebibbia penale che è una casa di reclusione. Poi c’è un istituto più piccolino che è un istituto a custodia attenuata per detenuti con problemi di tossico dipendenza. Poi c’è Rebibbia femminile che invece è un grande istituto interamente femminile. È il più grande istituto femminile d’Europa con 306donne detenute. Ti riporto alcuni dati relativi alla detenzione femminile tratti dal rapporto dell’associazione Antigone del marzo del 2021 sulle condizioni di detenzione. In Italia le donne detenute sono 2.250, delle quali 26 con figli a seguito. Le donne costituiscono il 4,2% della popolazione carceraria complessiva. Al 31 gennaio 2021 le donne straniere detenute erano 755, vale a dire il 33,6% delle donne detenute. Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 549 donne. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 donne sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Nonostante la riforma dell’ordinamento penitenziario entrata in vigore nell’ottobre 2018 abbia introdotto all’art. 14 l’esplicita specificazione che le donne ospitate in apposite sezioni devono essere “in numero tale da non compromettere le attività trattamentali”, si continua ad andare dalle 109 presenze femminili nel carcere milanese di Bollate o dalle 110 nel carcere di Torino fino alle 10 di Barcellona Pozzo di Gotto, le 6 di Mantova, le 2 di Paliano. Capita anche di incontrare un’unica detenuta donna probabilmente di passaggio nel carcere di Brindisi o in quello napoletano di Poggioreale. Difficile organizzare occupazioni significative per queste persone, nell’approccio generale che quasi mai permette la frequentazione diurna di uomini e donne per partecipare ad attività congiunte. Poche le donne che lavoravano fuori dal carcere come previsto dall’art. 21 dell’ordinamento penitenziario: Quali sono i laboratori aperti per le donne Rebibbia? Non saprei elencarli tutti ma so che alcune ragazze che giocano hanno partecipato a dei corsi da sommelier, nei quali hanno conseguito un titolo. Hanno partecipato a corsi sulla preparazione di marmellate. Poi hanno seguito un corso di pet therapy. Una cosa importante che c’è a Rebibbia femminile in questo momento è la presenza di una lavorazione molto grande della Linkem [Società di telecomunicazioni italiana. nda.]. Per cui alcune detenute lavorano all’interno del carcere e producono dei software. Tu sei l’allenatrice della squadra di calcio a cinque del carcere di Rebibbia femminile. Quali sono le maggiori difficoltà che hai nel portare avanti un’attività agonistica in carcere? Le difficoltà che si incontrano sono diverse e su diversi piani. Se rimaniamo sul lato meramente sportivo una difficoltà che si incontra è quella di rendersi conto che molte donne, mi azzardo a dire molte donne in generale non per forza donne detenute, ma forse le donne detenute ancora di più per certi versi, non hanno mai fatto sport nella loro vita. Questo significa un analfabetismo totale dal punto di vista motorio. Questo a livello di allenamento pone delle esigenze diverse rispetto per esempio ad allenare ragazzi o ragazze che nella loro vita hanno sempre fatto se non calcio un altro sport. Questi ultimi hanno delle conoscenze coordinative, hanno delle conoscenze atletiche. Questo è il primo fronte. Chiaramente non tutte le ragazze non hanno mai avuto esperienza di sport. Molto spesso quello che si incontra è comunque una ragazza, una donna, che ha avuto esperienze di gioco. Magari giocava per strada, giocava con gli amici. Però difficilmente ha avuto esperienze di sport. Tutt’al più alcune di loro possono aver fatto ad esempio palestra. Altre niente. Mi è capitato in passato di allenare una ragazza che non aveva mai fatto un passo laterale, non sapeva coordinare il suo corpo per fare un passo laterale. Sono cose che sembrano un po’ assurde però sono importanti. Quindi c’è un problema di accessibilità allo sport da parte delle donne? Penso che il modello culturale che viene proposto dalla società in generale è comunque un modello in cui una bambina e una ragazza lo sport non lo fanno, oppure fanno determinati tipi di sport. È un modello che probabilmente si sta un po’ estinguendo. Io credo che le bambine oggi abbiano più opportunità da questo punto di vista. Però è un modello che fino a poco tempo fa era assolutamente predominante. E lo è soprattutto se le donne in questione non sono donne italiane. Allora è ancora più probabile che ci sia questa mancanza di un’educazione motoria di base, anche semplicemente di quell’ora di educazione fisica che dalle medie in poi nel nostro paese si fa. È poco ma quantomeno è un’infarinatura. Questo ha anche a che vedere col fatto che molte delle persone detenute, non solo donne, sono persone che a scuola smettono di andarci molto presto. Mi sono spesso interrogata su questi temi, ho cercato di elaborare delle ipotesi. Allo stesso tempo posso dire che, per quanto possa sembrare strano, l’interesse che queste donne hanno per il gioco del calcio è un interesse molto vivo. Non bisogna immaginare che le donne non amino questo sport. Anzi, tra loro ci sono molte ragazze che hanno giocato per strada, magari gran parte di loro, che hanno anche delle doti molto spiccate. Forse se avessero avuto delle opportunità diverse, se avessero scelto di condurre delle vite diverse avrebbero potuto giocare divertendosi a dei buoni livelli. Invece per quelle che non hanno mai giocato rimane uno sport che coinvolge perché è divertente. Come fai a creare una sintesi tra i diversi linguaggi presenti all’interno del carcere? C’è il linguaggio dei detenuti, quello delle guardie, quello burocratico, quello degli educatori... Penso sia importante saper parlare diversi tipo di linguaggi. In questo caso lo sport è un facilitatore perché è un linguaggio che va aldilà delle parole molto spesso. E rende tutti uguali al di là delle differenze tecniche, fisiche, atletiche. Perché l’unica differenza che parla è quella poi delle capacità. Onestamente questa problematica non la vivo. Non ho problemi a confrontarmi. Per gli altri operatori non saprei dire. Sicuramente nel tempo si sono anche creati dei lessici peculiari al mondo detentivo che permettono una coesistenza. Gli educatori sono molto pochi. Questo è un tema importante, a fronte non solo di un’ampia popolazione detentiva ma anche di una discreta presenza di polizia penitenziaria. Il personale civile è molto sotto dimensionato. Sono pochi gli assistenti sociali, sono pochi gli psicologi, sono pochi gli educatori. Probabilmente anche le guardie vivono tutta una serie di tensioni legati alla condizione detentiva. La soffrono anche loro perché molto spesso sono in sotto numero. Abbiamo parlato di problematiche legate all’attività agonistica. Quali sono invece le difficoltà del lavorare in carcere con le donne? Le problematiche non sono limitate alla questione sportiva. L’attenzione che dobbiamo fare noi operatori quando entriamo è proprio quella di renderci conto che le persone che vengono lì hanno delle difficoltà, che sono amplificate dallo stare lì, sono preesistenti, oppure a volte sono generate dal luogo. Magari ci sono ragazze che l’ora prima di venire a calcio hanno fatto un colloquio con un familiare, che magari è andato male, o magari è andato diversamente da come si aspettavano. Oppure durante il quale magari hanno ricevuto brutta notizia, oppure hanno provato a chiamare a casa ma non ci sono riuscite. Sono chiaramente tutte problematiche che vanno inserite in un contesto, e che è comunque un contesto a livello emotivo molto provante. Quindi, non è che si può adottare la tecnica a livello pedagogico, di pedagogia sportiva, che si adotterebbe magari fuori. Non dico che si debba essere meno allenatori. Ma comunque diciamo che l’aspetto sportivo poi è quasi secondario. È un corollario, e se non c’è attenzione a tutto il resto viene meno. Se io mi mettessi lì e dicessi bene ora facciamo venti giri di campo, poi facciamo le flessioni, poi squat, poi… sarei matta. Quindi chiaramente bisogna saper cogliere le emozioni dell’altro. Poi chiaramente siamo tutti esseri umani e le difficoltà stanno un po’ ovunque. Questa è una delle difficoltà maggiori. Non sempre si è in grado di soddisfare magari l’attenzione che viene richiesta in quel momento. Perché tu che arrivi a quell’ora magari non sai tutto quello che è successo prima. Come per ogni bravo allenatore non è soltanto un problema agonistico. È anche un problema di tenuta emotiva e psicologica... Certo, comunque la cosa importante è far sì che quelle due ore siano due ore di gioia, due ore in grado di far dimenticare tutto il resto, di far dimenticare il luogo in cui si è. Se si dovesse andare lì per appesantire ancora di più le vite di queste persone, già molto complicate, non sarebbe il caso di andarci. Quante ore al giorno vi allenate? Sono due entrate alla settimana per due ore. In più durante i mesi dell’autunno e dell’inverno, e i primi mesi della primavera, facciamo anche un campionato. Quindi, sono tre ingressi alla settimana. Il sabato si gioca la partita. Per giocare la partita entrano anche delle squadre dall’esterno, di ragazze libere. Vengono a giocare contro le nostre ragazze che giocano sempre in casa. È la prima e unica squadra di calcio femminile in un carcere, composta esclusivamente da detenute. In Italia o in Europa? In Italia sicuramente. Ma trovare questo genere di informazioni non è semplice perché, e questo è un altro tema molto caro a noi di Antigone e anche a me, lo sport un po’ anche a livello di società non viene considerato come qualcosa di meritevole, di degno di attenzione. Lo sport è come se fosse un diversivo, invece dovrebbe essere considerato come anche un diritto umano, perché così viene definito anche dall’Unesco. Così è da considerarsi. Poi se diamo credito al Consiglio d’Europa, all’Organizzazione Mondiale della Sanità lo sport ha anche tutta un’altra serie di vantaggi per chi lo pratica, che vanno dal benessere fisico a quello psichico. Quindi, in un luogo come il carcere dove c’è una sedentarietà purtroppo sia coatta sia diffusa, lo sport dovrebbe essere garantito a tutti. Ma questo non avviene. Quindi la risposta alla domanda “In Italia o in Europa?” è “Non si sa”. Perché anche in Europa non si sa mai chi è che dovrebbe farlo praticare, da chi dovrebbe arrivare l’input. Insomma ogni paese è a sé. Ci sono paesi virtuosi come Belgio e Olanda, e ci sono paesi in cui lo sport proprio non esiste. Oppure come avviene in molti istituti penitenziari italiani viene detto “Questa è la palla, questo è il campo, divertitevi”. Che però non è sport. Mi stai fornendo la fotografia di una situazione carceraria in cui si fa fatica ad aprirsi alla cultura, alla società in generale. Lo stesso problema dello sport c’è per quanto riguarda il teatro. Mi raccontavano di come la recidiva scenda dal 70%, come media nazionale, al 6% per quei detenuti che praticano teatro in carcere... Sarebbe auspicabile che il carcere si aprisse a tutti i possibili linguaggi, dal teatro allo sport, dalla scuola, all’alfabetizzazione, alla professionalizzazione. Per intendere il carcere non come mondi separato ma come mondo facenti parte in tutto e per tutto del nostro sociale. Parlavi del campionato in cui giocano le ragazze che alleni. Di che campionato si tratta? È il campionato di una confederazione sportiva che si chiama Centro Sportivo Italiano. È un campionato amatoriale. È amatoriale anche perché per anni noi abbiamo giocato sul cemento. Poi l’istituto ha fatto un grande lavoro, e ha permesso alle ragazze di avere un campo in erba sintetica. Però questo è avvenuto dopo Natale, tra il 2021 e il 2022, quindi di recente. Questa è stata una delle motivazioni. Ma in realtà non è la sola. Nel senso che un istituto come quello di Rebibbia femminile è un istituto in cui le ragazze, le donne che sono recluse, proprio perché Rebibbia femminile è una casa circondariale, hanno un Grande turn-over. Questo impedisce la creazione di una squadra in cui tu sai che ci sono sempre quelle venti persone che si allenano, e che permettono di lavorare su lungo periodo. L’amatoriale si fa confà meglio alla circostanza... È un campionato amatoriale, cittadino, a cui partecipano circa diciotto squadre. È un campionato che negli anni è cresciuto molto. Va dato merito al Centro Sportivo Italiano di averci creduto ancora prima che il calcio femminile diventasse qualcosa di rilevante. È da tanti anni che fanno questo torneo. Quest’anno noi eravamo in uno dei due gironi e anche lì il livello è molto cresciuto. Questo posso dirlo anche perché tanti anni fa da giocatrice ho partecipato a un torneo di questo tipo Quali sono le necessità maggiormente sentiti delle ragazze e delle donne con cui lavori? Sicuramente l’aspetto familiare è notevole. Poi ci sono le necessità che ci sono per tutti, ma per le donne ancora di più, di avere delle seconde possibilità, di riuscire a costruirsi in carcere una professionalità, una scolarizzazione, che fuori è mancata. Avere comunque una forma di accompagnamento al ritorno in società più forte. Tra le detenute ci sono anche donne transessuali? Questa è una domanda molto giusta. Le donne transessuali intendendo con questo chi fa il passaggio M to F [dal maschile al femminile nda] si trovano nel carcere maschile, in reparti appositi per transgender. Viceversa gli uomini transessuali che fanno il passaggio F to M [dal femminile al maschile nda] si trovano al femminile. Questa collocazione la trovo una vera e propria forma di cattiveria. Proprio tenendo conto di quello che è la transessualità. Se io sono una donna transgender vuol dire che ho fatto un percorso, per cui ritrovarmi in un carcere maschile vuol dire che tu stai negando il mio percorso. Sono d’accordo con te. Ma d’altronde l’impressione che sto avendo e mi è stato confermato da diversi magistrati è che almeno metà dei detenuti nel carcere italiane formano quello che è il fenomeno della detenzione sociale. Si tratta di gente povera, disperata, che non sa dove andare, che cosa fare. E se li si mettono in strada dall’oggi al domani non saprebbero dove andare, perché c’è povertà, Abbandono e miseria. È questo il vero problema per questa fetta di popolazione carceraria, non tanto gli atti compiuti che sono di piccola entità. Infatti è per questo che parlavo dell’accompagnamento. Perché poi alcune storie sono proprio storie di persone che fuori non hanno niente. Che non solo non hanno niente, ma non hanno mai avuto qualcosa. Per cui non hanno una rete sociale che possa accoglierli, farsi carico nel primo periodo di quando si esce dal carcere, per aiutarti a ricostruire la tua vita. Per cui ti accolgo a casa e banalmente ti do da mangiare. Sono persone che devono preoccuparsi di come pagare l’affitto appena mettono piede fuori al carcere. Questo paradossalmente crea quasi una voglia di non uscire, una preoccupazione infinita. Questi sono discorsi che io sento, a cui io assisto. E non credo che siano poi così tanto minoritari. Ci sono differenze tra la detenzione maschile e quella femminile? Mi verrebbe da dirti di sì. Credo che la differenza stia proprio in questo aspetto di cui stavamo parlando adesso. Cioè, il fatto che la detenzione femminile ancora di più di quella maschile affonda le sue radici nel problema della marginalità sociale. Con tutti i problemi che ci sono nella marginalità sociale che vanno dalla scarsa scolarizzazione, dalla mancanza di opportunità che la vita ti ha offerto. Questo chiaramente ha delle conseguenze. Anche a livello di criminalità molto spesso è una criminalità spesso legate alle cose a cui facevi riferimento tu, ovvero una criminalità di strada, di basso calibro, una manovalanza criminale. Sia chiaro che è un problema che c’è anche per il maschile, ma al femminile è una caratteristica più presente. In realtà è lo stesso ritratto presente nella società fuori. Il carcere amplifica tutti i problemi e quindi anche quello dell’inserimento lavorativo delle donne, dei percorsi di autonomia, di libertà. Siamo in un’epoca in cui gli Stati Uniti stanno ridiscutendo la legge sulla libertà d’aborto. Se anche una società che viene dipinta come liberale arriva a mettere in discussione alcune libertà. Mi viene da mettere le mani nei capelli pensando a quello che può succedere in società più arretrate. Ti faccio una domanda personale. Hai trentatré anni e il carcere è un ambiente duro. Quante volte ti è venuta voglia di gettare la spugna, di cambiare lavoro cambiare mondo e perché non l’hai fatto? Io svolgo la mia attività nel carcere femminile di Rebibbia dal 2018. Ho avuto una prima fase di ambientamento e all’inizio ho dovuto imparare a comprendere il luogo. All’inizio non è stata sicuramente facile, anche per un sovraccarico emotivo. Perché non è che stai allenando il giocatore. Ma questo non succede mai. Nel senso che l’allenatore di serie A non allena il giocatore, allena comunque anche la persona. Tanto più, ma tantissimo più, questo avviene in un contesto come quello del carcere. Quindi, all’inizio è stato uno choc notevole. Dopodiché penso di aver imparato. Ho acquisito degli strumenti. Sicuramente tutto è perfezionabile. Si lavora sempre per migliorarsi. Adesso riesco a gestire meglio mie cose, non intendo dire che riesco a gestire la situazione. Quella è sempre diversa e richiede sempre un adattamento. Però a gestire le mie sensazioni ho imparato con il tempo. Quindi adesso non mi viene in mente di gettare la spugna. All’inizio forse era più una domanda inconscia “Sono in grado di fare questa cosa?”. “Faccio del bene? Faccio del male?”. “Sono d’aiuto oppure amplifico?”. Era più questo secondo me, che un voler fuggire a livello egoistico. Quali sono le domande che gli amici conoscenti ti fanno più spesso sul tuo lavoro? Molto spesso le domande che vengono fatte sono “Ma che cosa hanno fatto per essere lì?”. Questo ce lo chiedono pure le ragazze che entrano, quando vengono a giocare la loro partita. L’interesse e la curiosità sono sempre su quello. Non lo so perché. Forse perché ci si chiede per quali tipi di scelte si va a finire di fare una vita che poi ti costringe magari a stare per anni rinchiusa in un carcere. Questo invece è l’aspetto che a me interessa meno. Io non chiedo mai nulla. Se loro vogliono raccontare allora io ascolto. Però da parte mia non comincio mai chiedendo per quale motivo sei qui. Perché poi alla fine è pure un’informazione insufficiente. È solo una parte, quella per la quale si è finiti lì, in un percorso penale e penitenziario poi. Però non è che sai tutto il resto. Quindi tanto vale non saperlo. Programma minimo: cancellare la prigione in 10 mosse di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta Il Riformista, 27 maggio 2022 Dalla depenalizzazione al numero chiuso, dal superamento della custodia cautelare alle misure alternative, ecco un decalogo di riforme da poter approvare subito per decarcerizzare il codice: passi necessari nel cammino verso l’abolizione della galera. Pubblichiamo un estratto del libro “Abolire il carcere - Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”, di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta (Chiarelettere, pp. 192, 16 euro). In una prospettiva di avvicinamento all’abolizione del carcere, le pene non detentive dovrebbero rappresentare la soluzione da preferire in linea generale, riservando la prigione ai soli reati non punibili altrimenti, commessi da soggetti la cui pericolosità sociale ne giustifichi una detenzione temporanea. Anche se riservata a questi limitati casi, la pena detentiva dovrebbe comunque essere profondamente riformata nei contenuti e nelle modalità di esecuzione. Altrettanto (e anzi, ancor più) residuale dovrebbe essere effettivamente la custodia cautelare in carcere. Per questo, proponiamo di seguito un programma minimo di modifiche al sistema penale e penitenziario che si può approvare subito, quale presupposto necessario per l’abolizione del carcere e non certo come termine finale del percorso riformatore da noi auspicato. Extrema ratio - Il pesce puzza dalla testa, e se non si mette fine all’abuso del diritto penale non si riuscirà mai a ridurre e tantomeno ad abolire il carcere. Se ogni violazione delle regole di convivenza merita una sanzione penale (chi ha provato a contarle parla di circa 35.000 fattispecie penali previste dal nostro ordinamento), è inevitabile che il giudizio sulla loro effettiva gravità si sposti nella definizione della modalità sanzionatoria, innescando una spirale al rialzo nel ricorso alla prigione. Per questo è necessaria un’ampia opera deflattiva del diritto penale, in astratto e in concreto. La prima modifica deve operare con una depenalizzazione generale e ulteriore rispetto a quella prevista dalla legge 67/2014 e ben oltre il diritto penale bagatellare (quello che tratta i reati minori), sostituendo la sanzione penale con quella amministrativa o civile rispetto a fattispecie non espressive di particolare pericolosità dell’autore e per il contrasto delle quali la misura non penale possa ritenersi sufficientemente dissuasiva. I criteri guida devono dunque essere quelli non solo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto, ma anche della sussidiarietà (ricorso alla sanzione meno afflittiva per garantire il grado di tutela adeguato) e della incongruenza della sanzione penale per fattispecie che una misura amministrativa può comunque contrastare con efficacia. Anzi, con efficacia a volte addirittura maggiore considerando che all’illecito amministrativo non si applicano gli istituti sospensivi, sostitutivi o alternativi alla pena e si ammette invece la responsabilità solidale, che evita complessi procedimenti di esecuzione coattiva, dall’esito spesso incerto. La depenalizzazione qui suggerita dovrebbe poi essere “compensata” dal rafforzamento della responsabilità delle persone giuridiche, dimostratasi particolarmente efficace nel contrasto della criminalità d’impresa. 1. Il diritto penale - Se non si mette fine all’abuso del diritto penale non si riuscirà mai a ridurre il carcere. Se ogni violazione delle regole di convivenza merita una sanzione penale, il giudizio sulla loro gravità si sposta nella definizione della modalità sanzionatoria, innescando una spirale al rialzo nel ricorso alla prigione. Disboscato il diritto penale da previsioni illiberali e da inutili superfetazioni, il passo successivo verso l’abolizione del carcere è ridurre drasticamente le previsioni penali, a partire dall’abolizione dell’ergastolo. Escludendo la possibilità di reinserimento sociale del condannato, il carcere a vita contrasta con il principio rieducativo al quale, come qui insistentemente ribadito e secondo il dettato costituzionale, deve ispirarsi la pena. 2. Abolire l’ergastolo, ridurre le pene che privano della libertà - La Consulta con le sentenze 264/1974, 274/1983 e 168/1994, ha escluso l’illegittimità dell’ergastolo proprio per la prevista possibilità che non sia perpetuo, grazie all’applicazione della liberazione condizionale (o della eventuale grazia). Ma va ricordato che l’applicazione della liberazione condizionale è subordinata alla prognosi positiva di ravvedimento del condannato ed è comunque preclusa per i detenuti per reati ostativi. Su 1779 ergastolani, a giugno 2021 gli ostativi nelle nostre carceri erano 1259, ovvero il 70,77 per cento, presumibilmente tutti destinati a morire in stato di detenzione; la liberazione condizionale è stata concessa a un ergastolano nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nei primi sei mesi del 2021. Porre un tetto alla durata possibile della pena detentiva, tramite l’abolizione dell’ergastolo, consente di commisurare tutte le pene in base a quello, rimodulandole verso il basso. Non diciamo, come Vittorio Foa, che “nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni”, ma è ragionevole la più moderata delle proposte di Luigi Ferrajoli, secondo cui la reclusione non dovrebbe superare i quindici anni, cui ne potrebbero seguire, a data certa, altri due di detenzione domiciliare e tre di affidamento in prova al servizio sociale. Posto a vent’anni il limite massimo della durata di una simile, articolata sanzione per i reati più gravi, tutti gli altri verrebbero a seguire e una miriade di violazioni meno gravi non avrebbero più il carcere come pena o addirittura non avrebbero più il diritto penale come riferimento. Un intervento legislativo sul punto è improcrastinabile, soprattutto a seguito della già citata ordinanza 97 del 15 aprile 2021, con cui la Corte costituzionale ha rinviato all’udienza del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate - rispetto agli articoli 3, 27 comma 3, e 117 comma 1 della Costituzione - in relazione alla preclusione dell’ammissione alla liberazione condizionale al condannato all’ergastolo per delitti commessi con finalità o metodo mafioso, che non abbia collaborato con la giustizia. 3. Il carcere residuale - Si deve poi procedere a un’altrettanto ampia decarcerizzazione nel codice e nella legislazione penale speciale, limitando le sanzioni detentive ai soli delitti più gravi, che ledano valori rilevanti per la società ed esprimano particolare pericolosità sociale. Attuando anche le indicazioni dei più recenti progetti di riforma del codice penale e valorizzando ulteriormente la strada intrapresa dalla riforma Cartabia, si dovrebbe ampliare in misura significativa la tipologia delle sanzioni, rendendo quelle carcerarie davvero l’extrema ratio. Si avrebbe allora un sistema sanzionatorio articolato come segue: a) sanzioni a carattere interdittivo, da prevedersi quali pene principali ove presentino un contenuto di afflittività equivalente al danno arrecato, in quanto consentono un’efficace prevenzione del rischio di recidiva. La relativa tipologia va ampliata rispetto a quella oggi prevista a titolo di sanzioni accessorie, anche includendovi misure quali, ad esempio, il divieto di emettere assegni o di utilizzare carte di credito e la revoca o la sospensione della patente di guida; b) pene pecuniarie, irrogate - estendendo l’innovazione introdotta dalla riforma Cartabia rispetto alle pene sostitutive - secondo un adeguato sistema di tassi o quote periodiche, che permettano di modulare la sanzione in base alle effettive condizioni economiche e patrimoniali del reo, nonché agli obblighi giuridici cui debba adempiere (ad esempio, il mantenimento di famigliari); c) sanzioni civili proporzionate alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento dell’autore, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze del reato, nonché alla sua personalità e alle sue condizioni economiche. Si dovrebbe prevedere, in particolare, che il danno patrimoniale venga determinato dal giudice in via equitativa e sia disposto a favore della collettività in uno specifico fondo, anche in assenza di costituzione di parte civile, che in molti casi (soprattutto in materia di criminalità organizzata) non è frutto di una libera scelta ma del timore di ritorsioni. Tra le sanzioni patrimoniali da prevedersi in via principale va poi compresa la confisca (anche dell’impiego dei proventi del reato e, ove di essi non sia possibile la sottrazione, di beni di valore equivalente); d) sanzioni a carattere prescrittivo (con un contenuto anche interdittivo) sul modello dell’affidamento in prova al servizio sociale. Esse dovrebbero consistere nell’imposizione di una serie di obblighi e divieti tali da limitare la libertà di movimento del soggetto, nell’adempimento di ingiunzioni a carattere risarcitorio e riparativo delle conseguenze del reato, nella prestazione - con il consenso del condannato - di lavori di pubblica utilità, nello svolgimento di un programma terapeutico qualora il fatto di reato sia conseguenza di una condizione soggettiva patologica. La soluzione prefigurata dalla riforma Cartabia, a titolo di causa estintiva dei reati contravvenzionali, andrebbe dunque estesa significativamente ed elevata a sanzione principale; e) sanzioni detentive solo per i delitti più gravi, da eseguirsi presso il domicilio del condannato o, in mancanza, presso appositi luoghi di dimora sociale, limitando la reclusione in carcere ai soli casi nei quali le esigenze di difesa sociale non siano altrimenti tutelabili. 4) Una giurisdizione penale minima - La riduzione in concreto del diritto penale deve realizzarsi anche con strumenti di selezione e modulazione nel processo, capaci di concentrare la sanzione su fattispecie che effettivamente lo richiedano, pur nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, agendo da un lato sulla procedibilità e dall’altro sulle vicende estintive del reato. In questo senso, vanno estesi i casi di procedibilità a querela, oltre alla previsione dell’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie. Va poi estesa ai delitti l’oblazione (versamento di una somma di denaro), in termini obbligatori almeno per i delitti puniti con la sola pena pecuniaria e facoltativi per quelli puniti in via alternativa o congiunta, previa eliminazione delle conseguenze dannose del reato. Al fine di incentivare questa forma di estinzione del reato, sarebbe auspicabile anche estenderne l’ammissibilità oltre la fase dell’apertura del dibattimento. Andrebbe poi prevista, come anticipato, una causa di estinzione generale del reato conseguente a condotte riparatorie e conciliative (dando ulteriormente rilievo alle innovazioni introdotte dalla riforma Cartabia), così da declinare le istanze deflattive secondo il modello della giustizia riparativa, capace di valorizzare le esigenze della vittima e di ricomposizione del conflitto. Inoltre, va valorizzata, al di là di quanto già oggi previsto - pur con le estensioni contemplate anche su questo dalla riforma Cartabia - la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto che, oltre a concentrare il processo sugli episodi realmente meritevoli di sanzione, consente di soddisfare le esigenze della vittima, non pregiudicando l’esercizio dell’azione risarcitoria. 5. Niente carcere prima del giudizio - Un terzo dei detenuti nelle nostre carceri è in attesa di giudizio. Non si tratta, peraltro, di un dato episodico o congiunturale, dal momento che le statistiche degli ultimi quindici anni registrano valori addirittura superiori. Tassi così elevati di custodia cautelare in carcere non possono quindi imputarsi a un contingente aumento della devianza (o di quel tipo di devianza che renda opportuno il ricorso a tale misura), ma a una disciplina generale inidonea a limitarne realmente l’applicazione. Le riduzioni nel tasso di ingresso o permanenza in carcere prima del giudizio, conseguenti alle modifiche normative emanate a seguito delle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani, sono troppo recenti per valutarne la reale portata “a regime”. Certo è che alcune soluzioni prefigurate dai decreti legge del 2011 e del 2013 andavano nella giusta direzione e meritano di essere ulteriormente ampliate e rafforzate: ovvero la riduzione (ulteriore rispetto a quella già disposta dalla legge 47/2015) dell’ambito di applicazione della custodia cautelare e la maggiore ammissibilità di altre misure nei confronti degli imputati. In tal senso, in particolare, andrebbe esteso il divieto di applicazione della misura custodiale in carcere in ragione della previsione della pena che sarà irrogata (oggi fissata in tre anni: soglia troppo bassa e con troppe esclusioni per tipo di reato o per indisponibilità di un luogo destinato agli arresti domiciliari). In ogni caso sarebbe opportuno istituire luoghi di “dimora sociale” modellati sulle caratteristiche dell’abitazione - come suggerito dalla Commissione ministeriale presieduta da Francesco Carlo Palazzo -, presso cui eseguire la misura cautelare personale o la detenzione domiciliare nei confronti di quanti non dispongano di un proprio domicilio. In analogia con altri ordinamenti europei, nonché sulla base di indicazioni della stessa Cedu, andrebbe poi introdotto l’istituto della “prestazione di cauzione”, quale misura cautelare autonoma (da applicare da sola o unitamente ad altre misure non custodiali), che consiste nel deposito di una somma di denaro, generalmente rateizzabile, commisurata alle condizioni economiche dell’imputato e alla gravità del fatto. Inoltre, per ridurre drasticamente (e in prospettiva eliminare del tutto) la custodia cautelare, va esteso l’uso, attualmente troppo marginale, delle misure interdittive, parificando il loro regime di durata a quello proprio delle misure coercitive non custodiali. Per i casi nei quali si ritenga indispensabile mantenere la custodia cautelare in carcere, si dovrebbero istituire controlli d’ufficio periodici sulla necessità della sua prosecuzione e disporne l’estinzione (ferma l’adottabilità di altra misura) qualora essa abbia raggiunto una misura pari alla metà, o al massimo ai due terzi, della pena irrogabile. 6. Garantire le alternative al carcere in corso di esecuzione - La pena della detenzione, sia in carcere sia a casa, dovrebbe prevedere la sua predeterminata conversione in sanzioni non limitative della libertà personale. Sinché si scelga di mantenere il carcere, è necessario potenziare le misure alternative alla detenzione, ampliandone la tipologia, estendendone l’ambito di applicazione ed eliminando le condizioni che la impediscono, e offrendo a ciascun condannato la possibilità di svolgere un percorso di reinserimento sociale al termine della privazione della libertà. Al contrario, la conversione in pena detentiva della sanzione non detentiva dovrebbe essere ammessa solo a fronte di gravi e plurime violazioni delle prescrizioni a essa inerenti, e comunque secondo un criterio di gradualità che, a fronte di infrazioni occasionali e non gravi, privilegi la conversione in sanzioni meno afflittive, quali ad esempio quelle detentive non carcerarie. In ogni caso, va abrogato il divieto di concessione di misure alternative (o sostitutive, per nuova condanna) al detenuto la cui pena sospesa sia stata convertita in reclusione, a seguito di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura sostitutiva. Anche sotto questo profilo, la riforma Cartabia va nella giusta direzione. 7. Diritti in carcere - Nella misura in cui il carcere sopravviva, per i reati più gravi seppure per pene di minore durata, esso deve diventare un luogo presidiato da diritti e garanzie, unica condizione affinché svolga una funzione in qualche modo rieducativa nei confronti di coloro che vi sono costretti. Diritto alla salute e alla cura del corpo, diritto alle relazioni famigliari, amicali e sessuali, diritto a un’adeguata offerta di istruzione, formativa e lavorativa, diritto alle pratiche di culto: tutti diritti che non possono essere compressi per alcuna ragione finanziaria o organizzativa. L’ordinamento, l’organizzazione, il patrimonio e il bilancio dell’amministrazione penitenziaria vanno rivisti a tal fine, per garantire alle persone detenute l’effettività di tutti i diritti comunque esigibili in condizione di privazione della libertà, sulla base del principio della minimizzazione della sofferenza penale cui si ispira il nostro ordinamento costituzionale. A tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, il reato di tortura, introdotto dalla legge 110/2017 - pur con alcuni difetti di configurazione -, rappresenta sicuramente uno strumento utile, soprattutto se ne verrà fornita un’interpretazione lungimirante. Nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti, dovrebbero infine essere introdotti il “numero chiuso” e le “liste d’attesa”, codificando un’ulteriore ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità, cosa che la Consulta ha dichiarato di non poter determinare per propria sentenza, dal momento che tale scelta implica una discrezionalità politica inevitabilmente rimessa al legislatore. 8. Umanizzare il trattamento penitenziario e superare i circuiti differenziati - Il diritto al trattamento, che spetta a tutti i detenuti, impone il superamento delle classificazioni penitenziarie limitative dei diritti, a partire dalla previsione di una “alta sicurezza”, peraltro non contemplata dalla legge e dal regolamento penitenziario. Andrebbe poi fortemente ridotto l’ambito di applicazione del “carcere duro” (art. 41-bis), riservandolo ai casi di estrema e comprovata indispensabilità. E limitando l’efficacia temporale dei provvedimenti e delle eventuali proroghe, potenziando le garanzie giurisdizionali per gli interessati e, soprattutto, circoscrivendo le restrizioni previste solo ed esclusivamente all’unica finalità voluta dalla legge: la rottura delle relazioni con l’organizzazione criminale di appartenenza. Ciò deve portare all’eliminazione di tutte le ulteriori forme di afflizione, privazione, limitazione di diritti che non siano indirizzate a quello scopo, diversamente da quanto oggi accade. Andrebbe infine abrogato l’isolamento come sanzione accessoria alla detenzione, eventualmente attribuendone la competenza alla magistratura di sorveglianza, a fronte di condotte tali da esporre a serio pericolo gli altri detenuti (già l’art. 7 dei Principi fondamentali sul trattamento dei detenuti adottati dall’Onu nel 1990 invitava gli Stati a minimizzare se non abolire del tutto l’isolamento). Le concrete modalità di esecuzione della pena e di gestione della vita penitenziaria hanno, infatti, una rilevanza determinante anche in termini di efficacia rieducativa della stessa misura detentiva. Come sottolineato nell’articolo di Riccardo De Vito, “L’indiscutibile vantaggio dell’adozione di sistemi aperti emerge in modo nitido dallo studio - proposto in questo obiettivo - che Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni hanno condotto confrontando l’espiazione della pena a Bollate, carcere aperto per eccellenza, con quella effettuata in altri Istituti. Dall’applicazione di un metodo statistico rigoroso, tale da eliminare tutte le possibili fallacie e distorsioni di cui sono accusate le proiezioni in materia di recidiva, emerge un risultato univoco: “la sostituzione di un anno in un carcere ‘chiuso e duro’ con un anno in un carcere ‘aperto e umano’ riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali”. 9. Abolire il carcere minorile. Mai più bambini in carcere - A più di vent’anni dalla riforma della procedura penale minorile che ha reso residuale la detenzione dei minori autori di reato, è arrivato il tempo di pensare seriamente al definitivo superamento di questa forma di punizione, che in Italia riguarda solo alcune centinaia di ragazzi e ragazze i quali potrebbero avere altre opportunità di sostegno nel loro percorso di reinserimento sociale. Come anticipato alla fine del capitolo “Il carcere non è sempre esistito”, il 15 gennaio 2022 su 316 detenuti in Ipm, i minori erano solo 131. D’altro canto, una delle conseguenze più inaccettabili del carcere degli adulti è la presenza di bambini dietro le sbarre, in cella con madri detenute prive di un domicilio o ritenute socialmente pericolose e, pertanto, non meritevoli di misure domiciliari e neppure dell’assegnazione agli Istituti a custodia attenuata (Icam) o a case-famiglia protette (peraltro oggi rarissime). Finché il carcere non verrà del tutto abolito, quindi, almeno per le madri (o i padri, in assenza dell’altro genitore) di bambini di età inferiore ai dieci anni la detenzione in carcere (a titolo di pena o di custodia cautelare) va del tutto esclusa (anche oltre i limiti di pena residua, da espiare) e sostituita con la detenzione domiciliare. In assenza di dimora o in presenza di esigenze di sicurezza particolari, si deve prediligere l’invio a una casa-famiglia protetta o, ove questa non fosse disponibile, l’assegnazione a un Istituto a custodia attenuata per detenute madri: entrambe le strutture dovrebbero essere potenziate ed estese. Nell’immediato si dovrebbe comunque: a) consentire l’applicazione della sospensione facoltativa dell’esecuzione della pena anche alle condannate madri di bambini da zero a dieci anni; b) in caso di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, prevedere, quale unica modalità di applicazione delle misure cautelari personali, che le madri di bambini sotto i dieci anni vengano assegnate a case-famiglia protette, con possibilità di rimanervi anche oltre i dieci anni del bambino, qualora sia ritenuta comunque preferibile sotto il profilo psicologico la convivenza con il genitore; c) con particolare riferimento alle detenute straniere, consentire la revoca dell’espulsione adottata a titolo di misura di sicurezza, misura alternativa o sostitutiva della pena detentiva, quando essa rischi di pregiudicare lo sviluppo psicofisico del minore presente in Italia; d) prevedere adeguati stanziamenti per la realizzazione degli Icam e, preferibilmente, delle case-famiglia protette. Va dunque ammesso il ricorso alle case-famiglia protette, ove la madre di un figlio minore di sei anni non disponga di un luogo in cui scontare i domiciliari, per evitare che la misura sia per questo eseguita in carcere; la custodia cautelare in carcere deve essere ammessa solo negli Icam e il differimento della pena deve essere previsto come derogabile solo per la reclusione in un tale istituto o per l’ingresso in una casa-famiglia protetta, non per il carcere. Si tratta, del resto, di un problema che non impone chissà quali investimenti o difficoltà, se si considera che al 31 ottobre 2021, al seguito delle loro (19) madri in carcere vi erano solo 22 bambini. 10. Abolire le misure di sicurezza detentive e affrontare il disagio psichico in condizioni di restrizione della libertà - Aboliti i vecchi Ospedali psichiatrici giudiziari e cancellata per legge la possibilità di eseguire gli “ergastoli bianchi” a danno dei prosciolti per vizio di mente (ma, si ricordi, che quella abolizione per ora è solo sulla carta), andrebbe completamente rivista la materia delle misure di sicurezza detentive. Senza entrare nel merito delle questioni relative all’imputabilità dei malati di mente e delle misure loro riservate, occorre eliminare ogni altra misura di sicurezza detentiva che, nella pratica, si risolve in un prolungamento ingiustificato della pena. Occorre infine vigilare sull’attuazione della legge che abolisce gli Opg, affinché le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie (Rems) siano effettivamente sussidiarie a interventi di cura e sostegno da garantire sul territorio e a domicilio. La legge 81/2014 ha, infatti, certamente introdotto innovazioni radicali e determinanti, oltre che nel sancire la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, nel prevedere un termine per l’applicazione delle misure di sicurezza detentive (prima di durata indeterminata), nell’escludere l’handicap sociale (i fattori di fragilità socioeconomica) dal novero dei parametri in base ai quali valutare la pericolosità sociale e nell’individuare nel ricovero in strutture a carattere terapeutico e non eminentemente custodiale (le Rems, appunto) la misura applicabile ai soggetti prosciolti per infermità mentale totale o parziale, la cui attuale pericolosità non ne consenta il solo affidamento a programmi terapeutici individualizzati. Resta, tuttavia, la difficile attuazione della legge, testimoniata dalle liste d’attesa per l’accesso alle strutture e che sconta soprattutto la carenza dei servizi psichiatrici territoriali, ai quali invece la nuova disciplina affida un ruolo centrale, e una cultura giurisdizionale non sempre appieno consapevole delle potenzialità terapeutiche della riforma psichiatrica. Più complessivamente, va affrontato in maniera adeguata il problema del disagio psichico, per il quale la prima versione dei decreti legislativi attuativi della riforma Orlando, sulla scorta delle indicazioni della Commissione Pelissero, proponeva alcune soluzioni. La strada da preferire non è, comunque, quella di ricreare - ad esempio attraverso le Articolazioni per la salute mentale (Asm) - istituzioni nelle istituzioni, ma approntare servizi psichiatrici multiprofessionali (con psichiatri, psicologi, terapisti della riabilitazione, infermieri...) che prendano in carico i pazienti con problemi di salute mentale (senza necessariamente confinarli in sezioni ad hoc), ove le loro condizioni non siano incompatibili secondo i parametri della sentenza 99/2019. Per quanto riguarda le Rems, a fronte del fenomeno delle liste di attesa dovuto all’indisponibilità dei posti nelle strutture, un deciso monito al legislatore è stato rivolto dalla sentenza 22/2022, con cui la Consulta pur nell’ambito di una pronuncia d’inammissibilità ha sottolineato l’”urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati [ovvero garantendo l’effettività della tutela dell’”intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una Rems mira a tutelare”]; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi”. Perché si può abolire il carcere di Gherardo Colombo Left, 27 maggio 2022 Una ampliata e nuova edizione del volume “Abolire il carcere” di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta affronta il tema del superamento delle “inutili galere” lontane dai principi della Costituzione e quello della sicurezza dei cittadini. Un obiettivo possibile e giusto, scrive l’ex magistrato Gherardo Colombo nella prefazione che pubblichiamo. Taglio laico, intento dimostrativo. Questo libro vuol far vedere che è giusto abolire il carcere e che è possibile farlo. Per darne, appunto, dimostrazione, espone le tematiche di maggior rilievo in modo chiaro e comprensibile a tutti. E sufficiente scorrere l’indice per constatare quanti sono gli aspetti che entrano in gioco per rispondere alla domanda: è opportuno, è necessario, occorre abolire il carcere? Ecco dunque le pagine dedicate alla ricostruzione storica, che mostrano come solo da anni relativamente recenti la pena per antonomasia consista nella reclusione; quelle che descrivono cosa è il carcere oggi e quali effetti provoca; quelle che ragionano sulla sua sostanziale inutilità per garantire la sicurezza dei cittadini, e sul suo effettivo contributo a renderla più problematica. Ecco i paragrafi sulle contraddizioni di cui il carcere vive; sul conflitto permanente di cui si nutre tra le “guardie” e i “ladri”, gli appartenenti alla polizia penitenziaria da una parte e i detenuti dall’altra; sulle tragedie che provoca, difficilmente descrivibili (ma gli autori ne descrivono non poche), che hanno come uno dei più drammatici prodotti la frequenza dei suicidi (nei detenuti è, in media, 17-18 volte quella delle persone libere, e anche negli appartenenti alla polizia penitenziaria è superiore alla media nazionale); sul costante disconoscimento reciproco, che presenta raramente eccezioni. E ancora, ecco le puntuali note sulla irrazionalità di un sistema che costa nell’anno in corso (2022) quasi 3 miliardi e 200 milioni di euro, per gestire circa 55.000 detenuti con una spesa giornaliera di circa 160 euro a detenuto - faceva argutamente notare un ospite di un istituto di pena milanese: “Me ne dessero la metà sicuramente smetterei di delinquere” - ottenendo come risultato finale che meno di un terzo di chi dal carcere esce non ci ritorna di nuovo per aver commesso un altro reato. Ecco le osservazioni sulle contraddizioni, spesso gravi, tra quel che sta scritto nella Costituzione e la realtà del carcere. Il testo è molto ricco, pur rimanendo la sua consultazione agile e rapida. Tutti gli argomenti costituiscono la base, gli ingredienti per rispondere alla domanda iniziale, la domanda essenziale, quella che dà senso a tutto il lavoro: “Possiamo fare a meno del carcere?”, da cui il titolo del libro, Abolire il carcere. Si tratta cioè di verificare se questa espressione così forte (e così generatrice di timori in tante persone) sia davvero praticabile: si può abolire il carcere? Se ciò non fosse, se non si potesse fare a meno del carcere, il testo si risolverebbe in una lamentela, certo giustificata sotto tanti profili, ma sterile quanto al raggiungimento dell’obiettivo finale, quello appunto dell’eliminazione del sistema penitenziario. Se il carcere non si può abolire, è inutile porsi lo scopo di eliminarlo; si potranno svolgere attività dirette a migliorarlo, a renderlo più umano, più efficace; ma il carcere non potrà essere sostituito proprio perché ineliminabile. Mi pare evidente che la risposta richieda di chiarire la materia. Ciò di cui si prospetta l’abolizione è il carcere così come è praticato, come funziona, come vi si vive oggi: appunto una macchina da oltre tre miliardi di euro (quante imprese in Italia hanno un bilancio del genere?) applicata a circa 55.000 persone che mediamente vivono in circa tre metri quadrati a testa, nella cosiddetta camera di pernottamento (che, cambiato il nome, corrisponde per il resto, nella generalità dei casi, allo spazio fino a poco tempo fa denominato cella). Una macchina dove la cura dell’igiene dipende spesso dai volontari; dove il lavoro, per quanto si vada a piccoli passi verso un miglioramento, non è garantito alla gran parte di chi vi vive, dove la cura dell’istruzione è molto approssimativa, e via dicendo (e ci sarebbe molto altro da dire). Gli autori, dopo avere esposto con grande chiarezza le ragioni dell’abolizione, precisano in che cosa questa debba consistere. I; abolizione è illustrata attraverso dieci punti, racchiusi nel penultimo capitolo, dal titolo Per abolirlo davvero. Se si leggono i dieci punti, le persone perplesse, e una parte consistente di quelle che si indignerebbero e/o si spaventerebbero anche solo a sentir parlare di abolizione del carcere, converrebbero che la cosa si può fare: cito soltanto tre dei dieci punti: Il carcere residuale; Niente carcere prima del giudizio; Diritti in carcere. Se si parla di carcere residuale, di diritti in carcere, se si esclude che in carcere si possa andare prima del giudizio, si dice che il carcere continuerà a esistere anche dopo la sua “abolizione”. Il fatto è che se si realizzasse tutto quel che gli autori propongono il carcere che ne uscirebbe sarebbe così diverso da quello attuale che il nome che ora usiamo per definirlo non lo identificherebbe più. Il “carcere” incomincerebbe finalmente a svolgere la sua funzione di tutela della collettività, senza però tradire la Costituzione e cioè senza privare coloro che vi sono ristretti dell’esercizio dei loro diritti fondamentali, che con la tutela di tutti non confliggono. Un carcere davvero residuale, nel quale siano ristrette le persone nei cui confronti non possano essere usate misure alternative (delle quali ora ne sono previste alcune, che già potrebbero incidere notevolmente anche nella riduzione della popolazione carceraria, ma nulla vieta se ne possano introdurre altre, come si suggerisce ampiamente) senza mettere a rischio la sicurezza della cittadinanza; un carcere che non sia il succedaneo, il surrogato molto approssimativo e assai negativo dell’assistenza e delle cure che dovrebbero essere dedicate alle persone malate; un carcere che garantisca lo spazio vitale, ora spesso da noi violato non soltanto per quel che riguarda le camere di pernottamento ma anche gli altri luoghi nei quali dovrebbe svolgersi la vita dei detenuti; un carcere che curi l’igiene, l’istruzione, la cultura, e si preoccupi di garantire anche il diritto alla affettività. Un carcere che non uccida la speranza di coloro che vi sono reclusi sapendo di poter uscire solo da morti, e la speranza di tutti noi che l’essere umano, qualsiasi atrocità abbia commesso, possa tuttavia cambiare e riprendere a intrattenere relazioni libere e positive con il resto del mondo. Io, vi confesso, sarei andato ancora più in là: avrei proposto di svincolare completamente il carcere dalla natura e dalla gravità del reato, e di legarlo esclusivamente alla pericolosità: in carcere ci sta solo chi è pericoloso e solo per il tempo in cui è pericoloso. Gli autori sono più giudiziosi, tengono i piedi ben fermi per terra, non pensano all’azzardo di abolire del tutto il carattere retributivo della pena (anche se ci vanno vicino) e si rendono conto (su questo li seguo anch’io) che le modifiche che propongono, così significative, non possono essere introdotte dall’oggi al domani. Credo possa continuare a spaventare l’idea dell’abolizione dell’ergastolo, che gli autori pure sostengono (e che mi vede completamente d’accordo): ritengo tuttavia che condividerebbero, ove si arrivasse a escludere la pena perpetua, l’introduzione di misure che impediscano, a chi continui a essere pericoloso, una volta scontata la pena, di riprendere a fare del male a chi gli sta intorno. “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto”, di Cosima Buccoliero e Serena Uccello recensione di Roberto Cagliero Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2022 “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Così scriveva Italo Calvino in “Le città invisibili”, e questo dare spazio a ciò che nell’inferno non è inferno sembra descrivere perfettamente il lavoro di direttore fatto in carcere da Cosima Buccoliero e qui raccontato con ampiezza di particolari. L’autrice è attualmente direttrice del carcere di Torino, dopo avere rivestito lo stesso incarico a quello di Bollate (MI) e all’Istituto penale minorile Beccaria di Milano. Per chi si occupa di carcere il nome Bollate evoca un criterio di eccellenza, un esperimento di rieducazione che anziché porsi come sperimentale dovrebbe essere al centro di qualsiasi contesto penitenziario. Sappiamo bene che così non è. Buccoliero ha creato un progetto carcerario che non definirei umanitario né caritatevole, ma piuttosto adeguato ai dettami di un luogo inteso come spazio di cura, di attenzione, di riprogrammazione dell’esistenza: “Un sistema carcerario efficiente non è quello che ha l’obiettivo di aumentare le sbarre, di raddoppiarle, decuplicarle, ma al contrario è quello che ipotizza una carcerazione senza sbarre, perché se la carcerazione è recupero e non afflizione queste sbarre non hanno più ragione di esistere”. Le sbarre del carcere invece sono tante, sono quelle afflizioni che chiamerei supplementari, difficoltà di cui il fatto di essere reclusi costituisce soltanto una minima parte. Il detenuto spesso arriva da esperienze traumatiche, o dell’infanzia o della età adulta, di cui la vita in cella non costituisce che una piccola parte. Sappiamo che il trauma è una costante tra le popolazioni a rischio, e quella carceraria lo è a pieno titolo. Lo si coglie leggendo il famoso studio dello psichiatra Van der Kolk, “Il corpo accusa il colpo” (edizioni Raffaello Cortina); quella che vede chi entra a contatto con i detenuti spesso non è che la ciliegina su una torta composta da una catena di traumi iniziati molto tempo prima. Sono i frequentissimi casi in cui, come si legge in “Senza sbarre”, “il dolore sta in quel luogo misterioso che è la mente” e allora “l’espropriazione è ancora maggiore”. Si diceva di una idea del carcere trasformativa e potenzialmente risolutiva, progetto che di per sé dovrebbe ottenere il plauso generale e che invece incontra, almeno in Italia, un’opposizione sempre più forte della politica e anche di un pubblico addestrato ad avere paura, manipolato soprattutto dall’irruzione mediatica nel campo della giustizia (su questo tema ottimo il recente “Giustizia mediatica” di Vittorio Manes, pubblicato da Il Mulino). In questo contesto il lavoro di Buccoliero è riassumibile in termini secchi, statisticamente inoppugnabili: Bollate, sotto la sua guida, ha toccato un minimo di recidiva del 18%, a fronte di una media nazionale che si aggira intorno al 70% (non ho sottomano i dati precisi ma credo di non sbagliarmi di molto). In questo 18 invece di 70 si racchiude uno sforzo durato a lungo, e tuttora in azione, per trasformare i detenuti in soggetti sociali, e per dare loro non soltanto la dignità ma un sé compatto, funzionale, consapevole. Il che, ovviamente, implica un passaggio dall’idea di pena all’idea di rieducazione. “Senza sbarre”, scritto insieme alla giornalista e scrittrice Serena Uccello, è la storia di questa parabola: “ora che tutto si è concluso ci può essere lo spazio per le parole, per il racconto, per riflettere e spiegare”. Ed è, più di ogni altra cosa, la dimostrazione che in carcere le istituzioni possono fare molto. Questo testo soltanto in parte autobiografico racconta una avventura costellata di grandi successi ma anche di fallimenti poiché, tra le persone determinate a dare una svolta alla loro esistenza, si mescolano anche uomini della folla che, come nel racconto di Poe, sono “il tipo e il genio del crimine profondo”. Sembrerà una forzatura romantica ma le storie di carcere sono costellate di casi irrisolvibili. Questo libro riflette anche la vulnerabilità di chi cerca di modificare coloro che resistono a ogni tentativo di trasformarli, ed è disposto a subirne i rimbalzi sul piano emotivo e professionale. Non sono molte le persone aperte ad ammettere la loro vulnerabilità. Ci vuole un grande equilibrio per permettersi di ammettere. “La brutalità del carcere può essere raccontata in mille modi” e quello più difficile consiste, come in questo caso, nell’esporre le proprie difficoltà di fronte alla sofferenza dell’altro. Ma il carcere, nella prospettiva di trasformazione che emana dal testo, non è luogo in cui “la vita si ferma; continua e continuano le esperienze. La capacità di ipotizzare e progettare, di sentire e animarsi”. La grammatica del modello Buccoliero si articola in una serie di capitoli dedicati a verbi che descrivono un funzionario posizionato al contempo davanti e dentro al mondo penitenziario: incontrare, guardare, vivere, decidere, rischiare, sbagliare, rinascere, cambiare. Eh si, perché alla fine di questo arcobaleno il lettore si ritroverà convinto che non siano soltanto i detenuti a dovere cambiare, ma anche e soprattutto il carcere. Sono tanti gli aspetti che il libro affronta. Ad esempio la dinamica della distinzione, la necessità del detenuto di rivendicare una propria identità in un luogo dove corpi e pensieri non sembrano più indicare appartenenza; una necessità in cui spesso la relativa gravità del reato commesso è utilizzata per collocarsi al di sopra degli altri, finendo così per identificarsi proprio con il reato stesso. Ma vi è anche una necessità di condivisione, di essere riconosciuti dall’altro. E la valenza simbolica del cibo, forma primaria di condivisione in cella e spesso strumento di potere. “Senza sbarre” presenta per queste e altre problematiche vari casi specifici, e racconta per tutti loro la reazione dell’autrice che si impone soluzioni complesse, in cui il benessere del detenuto va strutturalmente anteposto a considerazioni di altro genere. Chiarisce molti interrogativi il capitolo sulla carcerazione femminile (pp. 69-79), un mondo interno a un mondo già interno, con dinamiche sociali e mentali diverse. Tutti coloro che entrano in contatto con una sezione femminile di un carcere dovrebbero leggerlo per cogliere dinamiche apparentemente misteriose. La sofferenza della donna in carcere porta a un rifiuto che non si coglie tra gli uomini: “il loro rifiuto non è momentaneo, un passaggio iniziale, una fase dell’adattamento. È quasi strutturale: rifiutano l’ambiente perché non è il loro ambiente, rifiutano lo spazio perché non è il loro spazio (...). Ogni coinvolgimento è ondivago. A grandi slanci possono seguire immotivate o sofferte ritirate”. Un punto fermo del progetto di Buccoliero è la finalizzazione delle attività alla vita futura, al momento difficile del reinserimento. Poco incline a dare spazio a laboratori che rivestano un ruolo di semplice intrattenimento (anche perché sarebbero ad esempio più efficaci gli interventi terapeutici), l’autrice ha sempre concesso maggiore attenzione ai progetti qualificanti, con l’obiettivo di creare le condizioni per una occupazione futura. Credo che “Senza sbarre” sia un testo molto importante. Lo dovrebbero leggere operatori e non, studenti e soprattutto persone che non entreranno mai in contatto con l’universo penitenziario, per imparare quella necessità di sottrarsi a giudizi e pregiudizi che sta alla base della tolleranza e della capacità di elaborare strategie vincenti di convivenza. Non ultima poi l’attenzione alla forma: idee profonde espresse con una scrittura nitida, che rispondono a un presupposto a mio avviso fondamentale - quando si scrive male non si ha nulla da dire. Concludo con un’ultima citazione, la cui portata va ben oltre il mondo della prigione, riconoscendo a questo libro la capacità di farci riflettere e non solo sul tema che affronta: “(…) nessuno di noi è al riparo. La sovversione che è piombata nella vita di queste persone può investire chiunque. Etichettare è quasi un moto spontaneo. Non farlo richiede sforzo e consapevolezza. Lo facciamo ogni giorno d’istinto, ma se su questo istinto ci abbiamo lavorato, se proviamo a ripetere a noi stessi che no, non dobbiamo, è possibile sfuggire al suo condizionamento. In questi anni ho imparato a evitare questo genere di inganni, perché nessuno è in salvo”. Venti di pace a Lampedusa di Christian Giacinto Elia Il Manifesto, 27 maggio 2022 La Sicilia nel cuore d’Europa. L’ex base Nato Loran sull’isola diventa la casa di un Centro internazionale contro la guerra, il cambiamento climatico e tutte le tragedie che spingono le persone a fuggire dai propri paesi. Osservare i ruderi della base Nato Loran a Lampedusa, in giorni di guerra, è come un monito alla caducità dell’idea che la militarizzazione sia la risposta per i problemi del nostro tempo. L’antenna di oltre 190 metri, spazzata dal vento caldo che scuote l’isola, dagli anni 70 fino al 1994, è stata un occhio dell’Alleanza atlantica nel Mediterraneo. Oggi, che la Guerra fredda e Gheddafi sembrano solo uno sbiadito ricordo, è solo un cumulo di cemento, mentre venti di guerra scuotono ancora il mondo. Nel 1986, a pochi chilometri da Lampedusa, affondarono gli Scud lanciati dalla Libia. Oggi, proprio a Capo Ponente nella parte più occidentale e disabitata dell’isola, può nascere una proposta di pace. L’ex base Loran, infatti, si appresta a diventare un Centro Internazionale per la Pace. Un progetto lanciato dal Comune, che si connette al lavoro che da quattro anni - grazie al progetto europeo Snapshots from the Borders - ha visto Lampedusa protagonista della nascita del Border Towns and Islands Network, un consorzio di municipalità di frontiera in Europa, dall’Ungheria alle Canarie, dall’isola di Lesbo alle coste francesi di fronte alla Gran Bretagna, che vogliono darsi un’unica voce per portare alle istituzioni europee un messaggio chiaro: non siamo la periferia di nessuna politica decisa dal centro, ma che da decenni ricade sui nostri territori. Un nuovo patto, che permetta di restare umani di fronte alle stragi e ai morti di frontiera, ma che non abbandoni i territori di confine al loro destino. La periferia non vuole più essere, come Lampedusa, un destino, che nel caso dell’isola siciliana l’ha vista passare da campo di confino per i criminali del Regno d’Italia a quello per i prigionieri politici del fascismo, fino al confinamento dei migranti di oggi. Anzi, la periferia rilancia e vuole essere motore del cambiamento. Dopo 4 anni di lavoro con il partenariato, l’amministrazione di Lampedusa rilancia, e lavora a un Centro Internazionale, che lavori a quel concetto di pace che è ineludibile: non solo l’assenza di guerra, ma il contrasto a tutte quelle condizioni dei contesti di origine che spingono le persone a fuggire. E allora al contrasto alla guerra si unisce la lotta al cambiamento climatico e alle disuguaglianze. Con il coinvolgimento della Regione siciliana e dei ministeri della Cultura e della Difesa, il progetto prevede il recupero delle vecchie strutture della base Loran e di altri vecchi fortini militari abbandonati dell’isola. A trasformarla sarà l’architetto Stefano Boeri, che è già stato sull’isola con collaboratori e consulenti. “Quando a Lampedusa parliamo di migrazione - ha detto durante il sopralluogo - parliamo di vite in movimento, di storie, dì identità che nei secoli si sono incontrate lasciando su quest’isola al centro del Mediterraneo tracce culturali e sociali profonde. Se è vero che le identità si costruiscono nel rapporto con l’altro, Lampedusa, l’isola delle Storie, può diventare l’epicentro planetario dì una riflessione sui destini dell’umanità”. “Oggi Lampedusa ha iniziato un percorso nuovo: nel cuore del Mediterraneo si accende una voce di pace. Vogliamo che la nostra esperienza nell’accoglienza umanitaria, la nostra esperienza di isola di frontiera così come il nostro impegno per il rispetto dei diritti umani, si trasformino in proposte ed azioni in grado di creare occasioni di dialogo, solidarietà e cooperazione internazionale”, ha commentato il sindaco di Lampedusa Totò Martello, in occasione dell’evento del 28 aprile che ha visto partecipare lo stesso Boeri, il presidente della Camera Roberto Fico, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto e molti altri. Giorno dopo giorno quest’idea cresce e si connette ad esperienze altre, mette in rete comuni e istituzioni, italiane ed europee. Il progetto cresce, con radici solide, e immagina un centro ricerche internazionali, poli museali e per eventi pubblici, conferenze e operazioni di mediazione internazionale. Il tutto molto legato alla vita dell’isola, che oggi è famosa in tutto il mondo per quegli ‘sbarchi’ e che vive di turismo, ma vuole fare delle migrazioni una risorsa culturale, anche per offrire ai ragazzi dell’isola un futuro potenziale. Perché, come ti raccontano sempre a Lampedusa, l’Italia si ricorda dell’isola solo quando le serve, ma per il resto fa sentire i residenti cittadini di seconda classe, sempre in lotta con il costo della vita e la difficoltà dei trasporti, costretti a essere migranti - ieri come oggi - gli stessi lampedusani, fosse anche solo per partorire o farsi curare. Come da protocollo siglato tra comune di Lampedusa e Regione siciliana, il Centro vedrà la nascita anche di un auditorium, un museo con un archivio digitale per ospitare opere e anche atti performativi e narrazioni sul tema dei grandi flussi migratori e delle loro interrelazioni con le sfide del cambiamento climatico e della povertà. Previsti anche un sistema di laboratori e luoghi di studio e residenza per studiosi, ricercatori, artisti e testimoni della grande fenomenologia delle migrazioni che saranno ricavati dal riutilizzo dei fortini militari dismessi che perimetrano l’isola. Guardare le strutture abbandonate della base Loran e immaginare il futuro, come chi vive qui è abituato a fare guardando il mare e come chi viene dal mare guarda a Lampedusa. Perché l’Europa, sempre più in crisi di visione e d’identità, non ha altra scelta che ripartire dai suoi margini per ritrovare sé stessa. Migranti. L'emergenza sanitaria è finita ma le navi quarantena sono ancora là di Mauro Palma garantenpl.it, 27 maggio 2022 Le navi allestite per far trascorrere la quarantena precauzionale alle persone migranti provenienti dal Mediterraneo sono sempre state considerate dal Garante nazionale come una soluzione transitoria ed eccezionale legata allo stato di emergenza sanitaria. Lo stato d’emergenza è però terminato il 31 di marzo (quasi due mesi fa!) e le navi quarantena non sono state ancora dismesse. Anche se, attraverso visite ad hoc, abbiamo verificato che nelle navi quarantena le condizioni di vita sono migliori che in altre situazioni, queste non possono assolutamente diventare la regola per il trattenimento delle persone. Perseverare con l’utilizzo delle navi quarantena configurerebbe una illegittima privazione della libertà personale, trasformando quella che doveva essere una sistemazione di prevenzione sanitaria in hotspot galleggianti. Occorre al più presto ridisegnare il modello di accoglienza per le persone che arrivano nel nostro paese dal Mediterraneo centrale, per uscire da uno stato di emergenza permanente. Stati Uniti. Rassegnazione di Biden e del Congresso: le armi non si possono regolare di Marina Catucci Il Manifesto, 27 maggio 2022 Non cambia la posizione del Gop dopo la strage di Uvalde. Ma un ordine esecutivo nell’anniversario della morte di George Floyd dispone la riforma delle forze di polizia federali Rassegnazione di Biden e del Congresso: le armi non si possono regolare. Nel suo discorso sul massacro di Uvalde, Texas, dove sono stati uccisi 19 bambini e 2 adulti, Joe Biden ha chiesto nuove restrizioni sulle armi, senza però identificare delle proposte specifiche; il mese scorso aveva firmato una serie di ordini esecutivi proprio per cercare di ridurre la violenza armata, e non sembra intenzionato a farne altri. Il risultato complessivo è quello di un presidente a cui è rimasto ben poco al di là dei discorsi, e che ha abbassato le speranze di dare una vera risposta al problema delle sparatorie. L’aria che si respira al Congressi è di rassegnazione, con la maggior parte del Gop schierato in difesa dei diritti sulle armi e i Dem che si sentono con le mani legate. I gruppi che si battono per il controllo delle armi stanno chiedendo all’amministrazione di muoversi almeno per ampliare la definizione di “persone impegnate nel business della vendita di armi da fuoco”, in quanto questo cambiamento consentirebbe al governo di perseguire chi vende armi senza licenza, e di prevenire gli acquisti all’ingrosso di armi. Ieri un disegno di legge sul terrorismo interno, già approvato dalla Camera, è naufragato scontrandosi con il muro repubblicano al Senato, che ha definito la legge un tentativo dei Dem di politicizzare i mass shooting. A livello nazionale ci sono due progetti di legge passati alla Camera, entrambi incentrati sul controllo dei precedenti di chi vuole acquistare un’arma: il leader della maggioranza Dem al Senato Chuck Schumer, consapevole che andando al voto al Senato anche questi disegni di legge naufragherebbero, ha detto di volere dare il tempo di negoziare un nuovo disegno bipartisan. Nel frattempo, i democratici alla Camera stanno pianificando un’altra proposta di legge che consentirebbe ai tribunali di togliere temporaneamente le armi ai soggetti ritenuti pericolosi. Gli stati quando si tratta di leggi sulle armi restano divisi: 21 consentono di portare una pistola nascosta anche senza un porto d’armi, mentre 10 stati e Washington DC hanno limitato le armi fantasma (assemblate a mano e senza numero di serie). In questa paralisi normativa Biden è riuscito però a firmare un altro importante ordine esecutivo. Nel secondo anniversario della morte di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis, il presidente ha dato il via alla riforma delle forze dell’ordine federali. L’ordine crea un database nazionale che contiene i record di cattiva condotta degli agenti federali, comprese condanne, licenziamenti, de-certificazioni, sentenze civili, dimissioni e prepensionamenti. Si richiede inoltre a tutte le forze dell’ordine di rivedere le politiche sull’uso della forza, vieta i soffocamenti e limita l’uso dei mandati senza preavviso. Lo stupro come arma di guerra: le donne ucraine meritano giustizia di Rula Jebreal La Stampa, 27 maggio 2022 L’otto febbraio, durante una conferenza stampa che rimarrà nella storia, Putin ha dichiarato guerra all’Ucraina paragonandola a una donna morta, sottoposta a uno stupro. Per farlo, ha usato alcuni versi agghiaccianti della canzone russa “La bella addormentata”, un inno rap allo stupro e alla necrofilia. “Che ti piaccia o no è il tuo dovere bellezza mia”. Una frase che, riascoltata oggi, alla luce del novantunesimo giorno di guerra, risulta premonitrice e allude all’intento genocida del dittatore russo. Le donne ucraine hanno subito compreso il significato di quelle parole e hanno fondato una chat sui social riguardante gli stupri da parte dei soldati russi. La giornalista Olga Tokariuk mi ha raccontato telefonicamente che, su varie chat e social media, molte donne in Ucraina raccontano di essersi attivate per l’uso della spirale, così da non rimanere incinte in caso di stupro. Le parole di Putin erano un codice militare, un ordine ai soldati di incominciare la compagna di stupri di massa, a danno delle donne ucraine. Infatti, tre mesi dopo l’inizio dell’invasione le autorità ucraine hanno raccolto centinaia di testimonianze di donne e ragazze catturate e violentate dei soldati russi. Nelle telefonate intercettate di alcuni soldati russi, in molti si vantano e ammettono di aver abusato sessualmente di donne e bambini, nonostante il Cremlino continui a smentire. La commissaria ucraina per i diritti umani ha raccolto testimonianze delle vittime e ha stilato un rapporto che denuncia stupri di bambini, violentati dai soldati russi davanti alle loro madri. Il rapporto dettagliato descrive lesioni genitali gravissime di una bambina di nove mesi violentata con una candela, e di un altro bambino di un anno violentato con un fucile da ben due soldati russi e deceduto in seguito alla brutalizzazione. E di una terza bambina di due anni, sempre stuprata da due soldati russi. Bambini sodomizzati e torturati da un gruppo di soldati mentre un secondo gruppo stuprava le madri davanti a loro. Anche donne e uomini anziani ucraini hanno testimoniato di essere stati abusati dai soldati invasori russi. Dopo il massacro di Bucha furono ritrovate venticinque bambine e ragazze, catturate e trattenute in schiavitù sessuale, per ben tre settimane. Il rapporto conclude che quello che sta accadendo in Ucraina è a tutti gli effetti un genocidio. Gli stupri di massa sono un’arma di guerra che insieme ai bombardamenti a tappeto, ai massacri, alle fosse comuni, alle torture e alle deportazioni mirano a distruggere le identità di un popolo sovrano. Gli stupri sistematici di massa sono diventati il simbolo del genocidio sia in Bosnia ed Erzegovina sia in Rwanda. Centinaia di migliaia di donne furono stuprate in questi due Paesi. In Bosnia, i criminali di guerra Milosevic e Mladic istituirono veri e propri campi di stupro. Questo accadde nel cuore dell’Europa negli anni Novanta. La comunità internazionale dovette attendere la fine di queste due guerre per approvare il riconoscimento dello stupro come arma di guerra; questo fu il motore dietro al quale nacque la dottrina della responsabilità di proteggere. Oggi siamo davanti a migliaia di testimonianze, prove inconfutabili e segnalazioni documentate, molto simili a quelle già viste nei due esempi precedentemente menzionati. I leader politici di destra e gli opinionisti che sostengono che la sottomissione e la cessione di una fetta del territorio ucraino a Putin porterebbe alla pace dovrebbero sapere che questo equivale a dire che non ci interessano i diritti umani e non ci interessa il numero di cittadini ucraini torturati, deportati, stuprati e uccisi dalle milizie russe. È un fallimento morale e politico chiedere all’Ucraina di accettare quello che nessuno Stato sovrano accetterebbe. Lo stupro è uno degli aspetti di questo conflitto che continua ad essere totalmente ignorato. Questa è una guerra feroce voluta da un uomo, un dittatore che ha già dimostrato, negli ultimi vent’anni al potere, che nessuna trattativa, dialogo, o accordo può fermare la sua sete di conquiste imperialistiche. Conquiste per le quali è disposto a usare qualsiasi arma. “Non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese” sarà lo slogan di questa guerra: sono le parole di un diplomatico russo che coraggiosamente si è dimesso in protesta contro questa invasione e Putin. Le giornaliste ucraine che hanno vinto il premio Pulitzer e che denunciano su tutte le televisioni mondiali i crimini di guerra russi hanno dichiarato in un’intervista al giornale statunitense più influente “Politico” che con tristezza rinunciano e condannano il giornalismo televisivo in Italia. Queste donne coraggiose, che rischiano la vita ogni giorno raccontando gli orrori di questa guerra, si sono trovate costrette a rinunciare ad apparire nei programmi televisivi italiani a causa della ormai dilagata propaganda russa e al numero allarmante di talk show che prediligono gli share e la spettacolarizzazione della guerra alla verità e che concedono colpevolmente spazio a opinioni o teorie palesemente illogiche, contraddittorie o persino ipocrite. Questa è una denuncia grave che dovrebbe farci riflettere e che pone un interrogativo importante: davanti a tutti questi crimini di guerra orchestrati e ordinati da Putin chi siamo noi e fin quando continueremo ad accettare lo stupro semplicemente come uno dei danni collaterali di questa guerra? Specialmente dopo aver assistito alla premiazione dei soldati che portano avanti questi atti brutali. L’ennesima dimostrazione che Putin sta esportando la sua natura con le bombe, con gli stupri, con il ricatto energetico e alimentare con la propaganda e la corruzione. Coloro che continuano ad ignorare le atrocità e il menù di barbarie che i russi stanno imponendo al popolo ucraino stanno abdicando alla loro responsabilità morale, barattando la democrazia, sottomettendosi al regime autocratico di Mosca che mira a convincerci che l’Italia dei diritti è una causa persa. Russia. Attivista russa contro la guerra rischia dieci anni di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 maggio 2022 Aleksandra Skochilenko, artista ed esponente della Resistenza femminista contro la guerra, è detenuta dall’11 aprile a San Pietroburgo. Il suo caso verrà esaminato il 1° giugno: se rinviata a processo e giudicata colpevole, rischia fino a dieci anni di carcere. Skochilenko è indagata per “aver diffuso consapevolmente false informazioni sulle forze armate russe”, uno dei nuovi reati introdotti dalle autorità russe all’indomani dell’aggressione contro l’Ucraina. Il “reato” consiste nell’essere entrata in un supermercato e aver sostituito i cartellini dei prezzi, sugli scaffali, con scritte contro la guerra. A chiamare la polizia era stato un cliente. La sua salute è precaria: oltre al duro trattamento carcerario, a Skochilenko non è fornita la dieta specifica cui avrebbe diritto, essendo celiaca, né viene consegnato il cibo preparato dalla famiglia. Skochilenko fa parte della Resistenza femminista contro la guerra, un gruppo costituitosi il 25 febbraio e che ha assunto la guida delle proteste. “La guerra è contraria a tutti gli obiettivi del movimento femminista”, ha dichiarato una delle fondatrici, Ella Rossman. Migliaia di attiviste del gruppo hanno preso parte a picchetti silenziosi o ad altre forme di protesta nonviolenta, come la diffusione di volantini, la realizzazione di graffiti o, come nel caso di Skochilenko, le azioni nei supermercati. Sono almeno 100 le attiviste della Resistenza femminista contro la guerra arrestate, sottoposte a perquisizioni o minacciate di rappresaglie giudiziarie. Amnesty International ha lanciato un appello affinché le accuse contro Skochilenko siano annullate e l’attivista sia scarcerata.