“Abolire il carcere”: se il castigo è peggio del delitto di Luigi Manconi La Repubblica, 26 maggio 2022 È immaginabile una società senza carcere se quest’ultimo non assolve al compito di rieducare? Secondo il sociologo sì. Come spiega in un saggio ora riedito, dal titolo “Abolire il carcere”, da cui è tratto questo brano. Qui si vuole trattare il carcere così come si tratta qualunque prodotto umano e sottoporlo a un test di validità. E i criteri fondamentali sono le quantità di bene e di male prodotte. In altre parole, il carcere produce bene se risponde allo scopo per il quale è stato creato. Produce male se non raggiunge il fine al quale è destinato e se determina danni che superino i benefici ottenuti. Si prenda un anno qualsiasi, il 1998, ad esempio: un anno come tanti nella recente storia italiana. Il 13 gennaio Alfredo Ormando si dà fuoco in piazza San Pietro per protestare contro l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti degli omosessuali: morirà dieci giorni dopo. Il 3 febbraio in Val di Fiemme un Grumman EA-6B Prowler, partito dalla base di Aviano, trancia il cavo della funivia del Cermis: venti saranno i morti, unico superstite il manovratore. Il 5 maggio a Sarno muoiono 137 persone sotto una frana causata dalla pioggia. Il 7 giugno Marco Pantani vince il Giro d’Italia. Il 13 settembre Gianni Amelio, con Così ridevano, ottiene il Leone d’Oro alla 55ª Mostra internazionale del cinema di Venezia. Due mesi dopo, il 13 novembre, arriva in Italia il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Öcalan: dopo alcuni mesi e molti intrighi, sarà catturato dai servizi segreti turchi in Kenya. Sempre in quell’anno - segnato come tutti gli anni da eventi consueti, routinari o eccezionali - 5772 persone già condannate in via definitiva vengono scarcerate dopo aver finito di scontare la propria pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3951 di loro saranno di nuovo in carcere, accusate o condannate per aver commesso altri reati. Si tratta esattamente del 68,45 per cento di quanti erano stati scarcerati nel 1998. Una percentuale enorme che costituisce, necessariamente, il punto di partenza di qualunque discorso sul sistema penitenziario. Ripetiamo, a scanso di equivoci: il 1998 fu un anno come tutti gli altri. Partiamo da lì solo perché è l’unico su cui l’amministrazione penitenziaria ci ha fatto conoscere, incidentalmente, questo piccolo e incontrovertibile dato sull’efficacia “rieducativa” della pena detentiva: una bocciatura senza appello. Certo, sull’altro piatto della bilancia ci sono alcune decine, forse alcune centinaia (non certo alcune migliaia) di detenuti che attraverso un corso di formazione, il lavoro all’interno del carcere, poi quello fuori e, magari, una misura alternativa alla detenzione, in galera non ci sono rientrati; ma il bilancio resta clamorosamente negativo e insistere sulle ammirevoli “buone prassi” rischia di farle apparire come foglie di fico sulla vergogna di un carcere insensato. Prenderne atto e pensare a come farne a meno è il minimo richiesto a quanti prendano sul serio il problema della devianza e della criminalità, delle loro cause e dei loro effetti. Possiamo continuare a invocare, minacciare, eseguire pene detentive sempre più dure per qualsiasi violazione della legge se il loro risultato, quando vengono applicate, è quello descritto da una fonte ufficiale come lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria? Realismo e misura impongono di trovare alternative, alla pena detentiva oggi così come all’istituzione carceraria domani. Perché osare è possibile. Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello Stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tantomeno nella Costituzione. È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate con cui si sminuzzavano i corpi nell’Ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui “dolcezza” avrebbe fatto decadere le punizioni più feroci. D’altra parte, anche le antiche usanze, pur se nate come “rivoluzionarie”, possono essere abbandonate se non corrispondono più alle domande della società. La nostra Costituzione, in uno dei suoi capolavori giuridico-letterari, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto da generare il sospetto che essa sia - in sostanza - una pena inumana. E si dimostrerà ancora come sempre la pena detentiva - nella grande maggioranza dei casi - non tenda alla “rieducazione” del condannato, ma costituisca una sua degradazione fino a connotarne tragicamente il destino. D’altro canto, la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averlo personalmente scontato durante il regime fascista) e la pena capitale, in modo saggio e miracolosamente lungimirante non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che voglia cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali. Siamo dunque autorizzati a osare. Il libro - “Abolire il carcere” di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta è edito da Chiarelettere (pagg. 128, euro 12). Caro Gratteri, il carcere è ancora una punizione corporale di Adriano Sofri Il Foglio, 26 maggio 2022 Gentile Nicola Gratteri, ho guardato la sua conversazione a “8 e ½”, nella quale si è trattato anche dei nuovi progetti criminali contro la sua vita, che suscitano una solidarietà incondizionata e per così dire affettuosa. Incondizionata. Poi, io ho pensieri ed esperienze che mi fanno dissentire da alcune sue opinioni, e non mi aspetto che la cosa le interessi. Ma c’è un punto che lei ha voluto sollevare in un modo che mi sembra demagogico e dunque contrastante con la franchezza del suo discorso. Lei ha parlato in tono scandalizzato, e teso a scandalizzare, di uno stanziamento “di 28 milioni di euro” previsto dal governo per “costruire le case dell’amore nelle carceri dove si consentirà ai detenuti ad Alta Sicurezza di incontrare la moglie, la fidanzata o l’amante per 24 ore al mese. Immaginate in quelle 24 ore quanti messaggi si possono mandare all’esterno”. Ha insistito sul punto: “l’Alta Sicurezza”. In realtà, il tema cosiddetto della “affettività” in carcere, nel quale rientra la possibilità di avere un’occasione di intimità sessuale fra detenuti e detenute e loro partner, viene sollevato e discusso, senza superare ancora la fase pruriginosa, da decenni, ed è stato serenamente definito nella maggior parte delle carceri d’Europa. Da noi è ancora fermo al Senato, dove fu parcheggiato un disegno di legge della Regione Toscana poi affiancata anche dalla Regione Lazio. Lo stanziamento dei “28,6 milioni” dei ministeri della Giustizia e dell’Economia coprirebbe i costi, in più anni, se non equivoco, per dotare le Case circondariali di strutture, prefabbricati o fabbricati esistenti e adattati, in cui consentire gli incontri riservati con partner e famiglie. Il presupposto è la constatazione che la forzata esclusione dai rapporti sessuali neghi una parte essenziale della vita degli umani, come degli altri animali. In galera ciò che è essenziale, a cominciare dall’aria che si respira, viene concesso e distillato - l’ora d’aria. L’ora d’amore. La mutilazione della sessualità contraddice ogni bella parola sulla restituzione dei detenuti alla società. I nemici giurati di questa “concessione” rivelano nel linguaggio di cui si compiacciono di quale rieducazione avrebbero un urgente bisogno: legga pure commenti e guardi le figure che li accompagnano in certi siti penitenziari e non, frustrati ed eccitati. Lei non ha ceduto a questa tentazione, e ha invece spinto su altri due pedali: il denaro (in un periodo come questo, dicono quei commenti, con una pandemia alle spalle, una guerra, i cereali che marciscono nei silos di Odessa…) come se in tempi di vacche meno macilente la questione trovasse ascolto. E soprattutto, per la sua competenza, l’allarme sui “messaggi” che in quelle 24 ore potrebbero essere trasmessi fuori dalle mura. Ma l’Alta Sicurezza, che è un “circuito” carcerario (con tre sotto-circuiti) regolato solo da circolari e largamente arbitrario e inerte, non è il 41 bis, la cui principale ratio dichiarata è di impedire le comunicazioni fra i boss e le organizzazioni di provenienza. I detenuti in “Alta Sicurezza”, che sono infatti molti, quasi diecimila, non hanno, salvi casi specifici fissati dalle autorità competenti, i magistrati o il Dap, restrizioni alle comunicazioni tali da dover contare sul giorno mensile nella “casa dell’amore” (il casino, correggono quelli di cui sopra) per mandare messaggi all’esterno. Chiederei, al linguaggio franco di cui lei si vale, di rinunciare a un argomento che infierisce su una vera mutilazione corporale delle persone detenute - la galera è infatti ancora una, compiaciuta o distratta, punizione corporale - e che carezza lungo il pelo la paura per la sicurezza e il disappunto per l’umanità: “Ci hanno pure la televisione, e vogliono pure scopare!”. Cartabia: “Nell’incontro tra vittime e autori di reato, la chiave del cambiamento” di Marco Belli gnewsonline.it, 26 maggio 2022 “Di tutti gli ingredienti che possono essere presenti negli istituti penitenziari, un punto rimane ineludibile: il lavoro su se stessi, la riflessione sul proprio vissuto per innescare una possibilità di cambiamento: il tempo trascorso in carcere sia per accompagnare al cancello una persona diversa da quella entrata. E proprio nell’incontro fra autori del reato e vittime vi è la chiave di volta”. Sala Zuccari, Palazzo Giustiniani del Senato. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, interviene al convegno “Una mappa per la pena”, dopo aver a lungo ascoltato detenuti ed ex detenuti degli istituti penitenziari milanesi di Opera e Bollate, che partecipano al gruppo Trasgressione.net. E dopo aver soprattutto ascoltato Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela, uccisa insieme al marito, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, 40 anni fa, parte anche lui di quest’esperienza portata avanti da Angelo Aparo, presidente di Trasgressioni.net. “Sono venuta qui per ascoltare, vedere e imparare. In questo convegno così poco convenzionale, sono stati offerti alla riflessione di tutti i vissuti di tante persone, fra autori di reato e vittime”, ha aggiunto la Guardasigilli, che ha ricordato gli interventi in atto per permettere il più possibile al carcere di assolvere alla sua funzione costituzionale di rieducazione. “Insieme al capo del Dipartimento, stiamo lavorando alacremente: riunioni settimanali anche per dare attuazione alle proposte emerse dai lavori della Commissione Ruotolo per cambiare la quotidianità dello stare in carcere”. All’incontro è intervenuto anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi. “Come giudice penale sono abituato a guardare la realtà su un piano specificamente orientato alle azioni e ai fatti. Ma nell’esecuzione penale le azioni rimangono sullo sfondo e la persona resta al centro del processo di rieducazione. Che è soprattutto un processo di responsabilizzazione. La responsabilità nasce dalla riscoperta di sé e questa non può non passare dalla presa di coscienza dei propri errori”, ha sottolineato il Capo del Dap. “Case dell’amore” ai boss: 3 milioni alle prime 20 in 6 mesi. Lite Lega-Pd di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2022 I quasi 30 milioni di euro sbloccati dal governo per fare le “casette dell’amore” per detenuti, anche dell’alta sicurezza, cioè condannati per reati gravissimi, ha innescato uno scontro tra Lega e Pd al Senato dove, in commissione Giustizia, si trova un ddl che tratta della sessualità dei detenuti, relatrice la dem Monica Cirinnà, responsabile nazionale Diritti dei dem. La lite politica all’interno della maggioranza si spiega con lo sblocco di una cifra di tutto rilievo per un progetto non certo ritenuto una priorità. Un programma per molti destinato a creare un altro problema di sicurezza rispetto alle comunicazioni possibili della criminalità organizzata che, per comandare dal carcere, potrebbe servirsi del diritto alla sessualità, garantito-comprensibilmente in altri Paesi dove, però, non hanno le nostre mafie. Per il presidente della Commissione, Andrea Ostellari (Lega), il Pd “non smette di sostenere iniziative ideologiche ignorando le priorità del Paese” e aggiunge: “I soldi dei cittadini vanno spesi prima di tutto per il corpo di Polizia Penitenziaria, costretto a lavorare sotto organico”. La senatrice Cirinnà la mette sul piano culturale e accusa Ostellari di avere “l’arretrata visione del carcere come discarica sociale, visione incostituzionale. Garantire l’affettività delle persone detenute, assicurando loro colloqui in ambienti idonei con i familiari è uno strumento fondamentale per tutelare la loro dignità e rafforzare i percorsi di reinserimento sociale”. Cirinnà è supportata dal capogruppo in commissione Giustizia per il Pd, Franco Mirabelli: “Non capisco perché la Lega contrapponga la giusta necessità di tutelare il lavoro della Polizia penitenziaria alla creazione di luoghi per l’affettività dei detenuti. Due temi entrambi importanti e che rispondono ad esigenze di persone in carne ed ossa”. Sarcastico Andrea Delmastro, responsabile Giustizia di FdI: “Arrivano i primi investimenti del ministro Cartabia sul pianeta carcere. Si costruiscono nuovi istituti? No! Cartabia investe 28 milioni di euro per le casette dell’amore. La sessualità del mafioso assicurata anche per defatiganti 24 ore consecutive”. A lanciare l’allarme è stato il procuratore anti ‘ndrangheta Nicola Gratteri, preoccupato che in queste casette, non video-sorvegliate, potranno arrivare o uscire messaggi della criminalità organizzata: “Purtroppo la politica non sta facendo le riforme che servono. Questo governo ha stanziato 28 milioni di euro, nel momento in cui non ci sono soldi, per costruire le case dell’amore”, ha detto al Costanzo Show. Il ddl sulle “relazioni affettive dei detenuti” è una proposta del Consiglio regionale della Toscana, comunicato a Palazzo Chigi nel 2020, ma adesso, con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, che va d’amore e d’accordo con il neo direttore del Dap, Carlo Renoldi, quello dell’antimafia “arroccata nel culto dei martiri” e con Draghi presidente del Consiglio, le casette diventano una priorità. “I detenuti e gli internati - si legge nel ddl - hanno diritto a una visita al mese, della durata minima di 6 ore e massima di 24 ore, delle persone autorizzate ai colloqui”. Le visite nelle “apposite unità abitative” nelle carceri saranno “senza controlli visivi e auditivi”. Il governo riconosce che i bisogni affettivi-sessuali si soddisfano al meglio con “il permesso premio” ma poiché non tutti i detenuti pericolosi non possono accedere al beneficio, ecco le casette. Si chiama in causa l’articolo 32 della Costituzione, secondo cui “la salute psico-fisica viene compromessa da forzati e prolungati periodi di astinenza sessuale”. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge “il diritto alle visite deve essere garantito in almeno un istituto penitenziario per regione”, dovranno esserci 20 casette, una per ogni Regione, per un costo di oltre 3 milioni e mezzo. Invece, “entro sei mesi dalla data di entrata in vigore, il diritto alle visite deve essere garantito in tutti gli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale”. Quindi i restanti 24 milioni saranno utilizzati per costruire altre 100 casette e ristrutturare 90 prefabbricati nei 190 penitenziari presenti in Italia. Il Dap ha bisogno di una regia sistemica, i magistrati ritornino nei Tribunali di Gianni Marilotti* Il Dubbio, 26 maggio 2022 Mio fratello Sandro è stato a lungo dirigente penitenziario, perciò conosco di carceri quali luoghi ove lo Stato si misura con le proprie leggi non solo securitarie, ma anche di welfare, di cultura, di salute, per cui la proposta di Sbriglia, con la sua esperienza, coniugata con il Cesp, nella persona del professor De Rossi, e sostenuta dal Il Dubbio, con il direttore Davide Varì, non mi sorprende, perché sono decenni che il nostro sistema penitenziario risulta comatoso. Ricordo una vicenda giudiziaria degli anni 90, conclusasi in modo favorevole verso mio fratello, “colpevole”, agli occhi di alcuni, di interpretare correttamente l’Ordinamento Penitenziario e la Carta Costituzionale, quando dirigeva la Colonia Agricola di Is Arenas, 2700 ettari di terreno che andava dalla collina fino al mare, e che aveva trasformato in una Comunità di operatori penitenziari e di persone detenute che lavoravano fianco a fianco, riqualificando quel “non luogo” in un contenitore di sperimentazione sociale, nonostante si comprendesse fin d’allora di come si preferisse un sistema “altro”, a mente delle carceri di massima sicurezza; “ L’Unità” dell’epoca scriveva, che “tutto deve restare così com’è”. Già in quel tempo si preferiva la gestione monolitica, con al suo vertice dei magistrati, essi sì davvero “migrati” dalle aule di giustizia, per andare a svolgere compiti di alta amministrazione del potere esecutivo, con le conseguenze che oggi constatiamo. Non si tratta di esprimere un giudizio di valore verso gli innumerevoli capi del Dap che si sono avvicendati negli ultimi 30 o 40 anni; solo in questa legislatura già tre (Basentini, Petralia, Renoldi), mentre nella precedente almeno due (Tamburino e Consolo): ben cinque in nemmeno otto anni. Sicuramente erano, sono, magistrati di alto livello, ma non possono essere considerati dei manager pubblici, per quanto possano, genuinamente, avere sentito la fascinazione del fare amministrativo piuttosto che della giurisdizione. Pensate anche al disagio di tanti loro colleghi, che potrebbero essere stati psicologicamente “impediti” a osservare con piglio “giudiziario” le carceri in questi 40- 50 anni, non solo perché quasi sempre si preferivano a capo del Dap dei pm, ma anche perché le scelte dei guardasigilli dovevano scontare il consenso del Csm. Il solo sollevare dei dubbi sulle obiettive capacità, o imputare ai magistrati fuori ruolo gli insuccessi del sistema penitenziario, avrebbe verosimilmente potuto determinare conflitti in un contesto che, come siamo costretti a leggere e conoscere negli ultimi tempi, si era adattato a logiche correntizie, seppure a fin di bene per scegliere i “migliori”. Altrimenti sarebbe inspiegabile come mai, di fronte a scenari così devastanti nei luoghi dove solo lo Stato può esercitare legittimamente la sua influenza, le cose andassero e vadano così male. Se poi penso alla mia Sardegna, dove si percepisce il disagio della mancata continuità territoriale con il continente, e dove pure l’attuale capo del Dap, Carlo Renoldi ha operato come magistrato di Sorveglianza, mi chiedo cosa si sia fatto per modificare lo stato pietoso delle nostre prigioni insulari e assicurare il livello di legalità, e quindi di rispetto dei principi ordinamentali e costituzionali, nei confronti delle persone detenute ospitate nelle carceri sarde. Come si è potuta giustificare la continua deportazione di detenuti da altre zone d’Italia, privi di radicamento nella nostra regione, oppure il numero altissimo di prigionieri costretti all’ozio permanente effettivo pure nelle carceri, o la qualità deficitaria dei servizi sanitari, compresa quella rivolta ai soggetti psichiatrici, o la inadeguatezza delle strutture, indicate come “nuove”, dove nemmeno l’acqua potabile sembrerebbe essere garantita o dove i miasmi provenienti da aziende che lavorano le carcasse animali ne impestano l’aria? Possibile che vi siano mai stati dei deficit di programmazione e pianificazione per le carceri insulari, dove perfino i direttori, che dovrebbero guidarle, sono oramai ridotti a poche dita di una sola mano, con sedi sempre vacanti ? No, la proposta di Sbriglia non è scandalosa, ma è la conseguenza di una criticità antica che deve essere sanata, conferendo piena responsabilità di gestione non ad un ministero ma a tutta la compagine governativa e, da qui, alla presidenza del Consiglio. L’auspicio è che il presidente Draghi recepisca l’esortazione. A tal proposito, trasferire il Dap, come alcune organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria vorrebbero, presso il ministero dell’Interno, significherebbe ancora una volta parcellizzare le responsabilità di gestione accumulate, mentre si richiede una regia sistemica, consentendo contemporaneamente alla magistratura di rientrare nei propri naturali compiti, costituzionalmente imposti. *Senatore Pd, presidente Commissione biblioteca e archivio storico La Giustizia nell’urna: nei referendum di Lega e Radicali c’è più di una riforma di Francesco Grignetti La Stampa, 26 maggio 2022 Mancano due settimane ai referendum sulla giustizia di Lega e Radicali (si voterà per i cinque quesiti il 12 giugno, dal mattino alla sera, in abbinamento alle Amministrative in diversi Comuni italiani) e di colpo la temperatura s’arroventa. Al di là del dettaglio tecnico, infatti, è chiarissimo che la raffica di referendum hanno una valenza politica e simbolica. Matteo Salvini li ha voluti nel momento in cui era più forte lo scontro, a seguito dei processi intentatigli in Sicilia per le diverse navi umanitarie che aveva bloccato in ogni maniera quand’era ministro dell’Interno. Ora la magistratura milanese tocca il suo ritrovato alleato Silvio Berlusconi, e Salvini esplode: “Altro processo, altra richiesta di condanna per Berlusconi per il caso Ruby. Ma basta, non se ne può più! 12 giugno, con i Sì ai referendum la giustizia cambia”. Ecco i quesiti sui quali saremo chiamati a votare. DECRETO SEVERINO - Basta incandidabilità? Tra i favorevoli Fi e Iv - Quesito 1 (Scheda rossa): abrogazione del decreto Severino quanto a sospensione, incandidabilità e decadenza per condanne. È un tema molto sentito dagli amministratori locali di Comuni e Regioni, in quando è un problema serio quello delle sospensioni di amministratori locali e regionali per sentenze non definitive, che poi spesso vengono smentite nei gradi successivi di giudizio. L’Anci, per dire, protesta da anni. In Parlamento sono quasi tutti d’accordo che questa automatica sospensione dalla carica andrebbe eliminata. Una leggina di riforma s’è però impantanata in qualche corridoio. Il quesito però va molto al di là del caso degli amministratori locali, perché cassa per intero anche la decadenza e l’incandidabilità di un eletto a seguito di sentenze definitive. A parte i proponenti (Lega e Radicali), sono favorevoli all’abolizione i renziani di Italia Viva, i berlusconiniani di Forza Italia, il partito Azione di Carlo Calenda e il suo alleato +Europa. Contrari il Pd e il M5S. Contrari anche i meloniani di Fratelli d’Italia. All’interno del Partito democratico c’è però un dibattito effervescente in merito ai referendum. Enrico Letta ha ribadito cinque No, ma ha anche tenuto a rimarcare che il Pd “non è una caserma”. E infatti ci sono diversi esponenti che a titolo personale si sono espressi per qualche Sì. Su questo quesito è favorevole Giorgio Gori, sindaco di Brescia. MISURE CAUTELARI - Rischio reiterazione, niente più carcere - Quesito 2 (scheda arancione): Misure cautelari, compresa la custodia cautelare in carcere. Il quesito limita le possibilità di adottare misure cautelari (obblighi di firma, arresti domiciliari) e soprattutto la carcerazione preventiva. “Eliminando la possibilità di procedere con la custodia cautelare per il rischio di “reiterazione del medesimo reato”, faremo in modo che finiscano in carcere prima di poter avere un processo soltanto gli accusati di reati gravi”, spiega il Comitato proponente. Con il quesito, si interviene infatti su uno dei tre motivi per cui i giudici possono ordinare una custodia cautelare in carcere (il pericolo di reiterazione del medesimo reato), limitandolo ad altri due casi (pericolo di fuga, pericolo di inquinamento della prova). La norma è draconiana. Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega, la spiega così: “Massimo di garanzie per chi finisce sotto processo, e però, poi, se condannato, la pena si deve scontare sul serio”. Ricordando che la Lega e i Radicali sono i proponenti, e ribadiscono il loro Sì, sono a favore anche Forza Italia, Italia Viva, Azione, +Europa. Contrari il Pd e il M5S. Contrario anche il partito di Giorgia Meloni. Contrario anche il deputato dem Stefano Ceccanti, che pure è a favore di altri quesiti: “In casi di stalking, truffa, reati fiscali e finanziari, cancellare il carcere per possibile reiterazione del reato è obiettivamente un pericolo” SEPARAZIONE DEI RUOLI - Giudice oppure pm, verso il sì anche FdI - Quesito 3 (scheda gialla): separazione delle funzioni tra pubblici ministeri dell’accusa e magistrati che giudicano. Oggi sono ammessi quattro passaggi di funzione nel corso della carriera di un magistrato, che verrebbero esclusi. È forse il quesito più importante in termini di sistema. C’è da dire però che il Parlamento si va orientando, con la riforma Cartabia che presto sarà votata anche dal Senato, a ridurre questi passaggi da quattro a uno. “Ci sono magistrati - sono le ragioni del Comitato per il Sì - che lavorano anni per costruire castelli accusatori in qualità di pubblici ministeri e poi, d’un tratto, diventano giudici. Chiediamo la separazione delle carriere per garantire a tutti un giudice che sia veramente “terzo” e trasparenza nei ruoli. Il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale”. A favore, come per gli altri, Lega, Radicali, Forza Italia, Italia Viva, +Europa. Per questo specifico quesito, è a favore anche FdI. Contrari il Pd e M5S. La separazione delle funzioni, però, attira molti liberal del Pd. Sono a favore, per dire, Stefano Ceccanti ed Enrico Morando: “L’articolo 111 della Costituzione richiede un giudice terzo rispetto ad accusa e difesa. Un sistema in cui da una parte stanno insieme giudice e accusatore e dall’altro il difensore dà vita a uno squilibrio strutturale”. VALUTAZIONE - L’idea è coinvolgere università e avvocati - Quesito 4 (scheda grigia): valutazione dei magistrati. “La valutazione della professionalità e della competenza dei magistrati è operata dal Csm, che decide sulla base di valutazioni fatte anche dai Consigli giudiziari. Si tratta di organismi territoriali nei quali, però, decidono solo i componenti appartenenti alla magistratura. Questa sovrapposizione tra “controllore” e “controllato” rende poco attendibili le valutazioni e favorisce la logica corporativa. Con il referendum si vuole estendere anche ai rappresentanti dell’Università e dell’Avvocatura nei Consigli giudiziari la possibilità di avere voce in capitolo nella valutazione”. Fin qui, le ragioni dei proponenti. L’idea che nei Consigli giudiziari territoriali debbano intervenire e votare sulle carriere dei giudici anche i rappresentanti dell’Ordine degli avvocati ha fatto breccia in tutti i partiti, tant’è che è una norma prevista dalla riforma in arrivo del Csm. Norma che però risulta sommamente indigesta all’Associazione nazionale magistrati. Sono a favore del quesito (che estenderebbe il voto nei Consigli giudiziari territoriali anche a rappresentanti dell’università) Lega, Radicali, Forza Italia, Italia Viva, Azione, +Europa e anche Fratelli d’Italia. Contrari Pd e M5S. Sono in dissenso con la linea del partito i liberal del Pd. Dice Ceccanti: “Vi è la necessità di introdurre elementi di valutazione che rompano l’autoreferenzialità” ELEZIONE DEL CSM - Stop alla raccolta firme, argine alle correnti - Quesito 5 (scheda verde): sistema elettorale del Csm. Il quesito mira, per ridurre il peso delle correnti organizzate, a favorire le candidature indipendenti di magistrati che vogliano partecipare al Consiglio superiore della magistratura. Si elimina così la raccolta di firme (ne servono da 25 a 50, e ovviamente serve la capacità organizzativa di una corrente) per la presentazione dei candidati togati, tornando alla situazione del 1958, cioè alla legge come era in origine. “Oggi - sostiene il Comitato proponente - su capacità e competenza prevale il sostegno delle correnti: con il sì al referendum se ne elimina il peso nella selezione delle candidature, colpendo il “correntismo” e il condizionamento della politica sulla giustizia”. L’idea è stata recepita dalla riforma Cartabia, già votata alla Camera, e prossimamente in discussione al Senato. Se la riforma fosse stata approvata per tempo, insomma, questo quesito sarebbe obiettivamente decaduto. Sono a favore Lega e Radicali, Italia Viva, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione, +Europa. Risultano contrari il Pd e il M5S, anche se, curiosamente, hanno appena votato a favore di questa norma in Parlamento nell’ambito della riforma Cartabia. Ci vorrà ben altro comunque per ridimensionare la presa delle correnti sulla magistratura italiana, perché l’impatto di questa novità è soprattutto simbolico. Referendum, Cassese: “I miei cinque sì per sbloccare una crisi causata anche dai magistrati” di Francesco Grignetti La Stampa, 26 maggio 2022 Il giurista ed ex giudice costituzionale: “Il voto non è lo strumento più adatto ma può sollecitare un Parlamento che non riesce a decidere”. Al professor Sabino Cassese, eminente giurista ed ex giudice costituzionale, si addice il ruolo del fustigatore. Il suo ultimo libro “Il governo dei giudici” (Laterza) segnala che la grave crisi della giustizia è innanzitutto una divaricazione fortissima tra domanda e risposta del sistema. E i magistrati italiani, secondo lui, non sono affatto esenti da errori. Perciò Cassese è pronto a rovesciare ogni tavolo. “Il referendum - dice - è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione”. Intanto, professore, i tempi del processo civile si sono allungati ancor di più. Eppure la pandemia c’è stata per tutti. Come se lo spiega? “I motivi sono numerosi. Innanzitutto, c’è una legislazione che non considera i tempi della giustizia e ignora che una giustizia in ritardo non è giusta. In secondo luogo, vi è un numero di eccessivo di avvocati: l’Italia ha 20 milioni di abitanti in meno della Germania e 100 mila avvocati in più. In terzo luogo, vi è l’organizzazione rudimentale del processo, a cui si sta ponendo mano con il cosiddetto ufficio del processo. Infine, c’è la completa disattenzione, da parte della magistratura, dei tempi della giustizia”. Lei scrive che, anche in Italia, la giustizia acquista sempre maggior peso, solo che da noi il sistema non riesce a stare al passo con questo ruolo crescente. Colpa dei magistrati o colpa del sistema? “La macchina della giustizia è così complessa e le disfunzioni sono tante, che stabilire imputazioni e attribuire colpe è molto difficile. Vi è un insieme di concause che producono l’attuale situazione, a partire dalla antiquata distribuzione dei tribunali sul territorio fino alla irrazionale assegnazione dei magistrati ai tribunali, passando per la quasi completa assenza di attenzione per gli aspetti che riguardano i tempi e gli impatti delle decisioni sulla domanda di giustizia”. Ritiene che le riforme Cartabia del penale e del civile riusciranno a farci invertire la china? “Non credo che risolveranno i problemi, ma credo che vadano nella direzione giusta. L’idea di fondo che la giustizia sia un organismo della cui organizzazione, della cui efficienza, delle cui performance ci si deve interessare, costituisce il punto d’avvio di ogni possibile riforma della giustizia. Purtroppo, tra i magistrati è diffusa un’idea diversa della giustizia, atemporale, incapace di misurare se stessa e i propri effetti, non correlata con la domanda sociale”. Lo sciopero dei magistrati non è andato bene. “Ho già detto, prima dello svolgimento dello sciopero, che si trattava di un atto suicida. I risultati hanno confermato il giudizio. La motivazione ufficiale era: vogliamo essere sentiti. Di fatto, la motivazione era un’altra: vogliamo decidere noi”. Lei denuncia una “continuità” tra alcune procure, una parte dell’informazione, e pezzi della politica. Ciò creerebbe un vulnus quantomeno culturale nel corpo stesso della magistratura. Se questa è la diagnosi, che cosa pensa del quesito referendario per la separazione assoluta delle funzioni tra inquirente e giudicante? “Ritengo che sia un dovere di tutti i cittadini partecipare ai referendum ed esprimersi. Ritengo, in secondo luogo, che bisognerà votare a favore di quei quesiti che affrontano problemi che non saranno stati risolti dal Senato nell’ultimo passaggio della riforma Cartabia. Il referendum è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione di un Parlamento che non riesce a decidere. Non credo che la separazione delle carriere sia risolutiva, ma ha acquisito sia nella percezione pubblica, sia nel modo in cui viene considerata dal corpo della magistratura, un significato tale per cui può servire da stimolo per i magistrati assegnati alle funzioni requirenti e inquirenti al rispetto di quell’articolo della Costituzione che prescrive la riservatezza dell’accusa. Detto questo, ritengo che si tratta di due mestieri diversi e che sarà bene reclutare le persone chiamate svolgerli con criteri diversi”. Sugli altri quesiti: quale la sua posizione sul quesito che limita la carcerazione preventiva? E sull’abrogazione della legge Severino, nella parte che colpisce gli amministratori in presenza di sentenze non definitive? Sulla valutazione estesa agli avvocati e professori universitari nei giudizi di professionalità per i magistrati (idea recepita parzialmente anche questa nella riforma in itinere)? “Ripeto: se il Parlamento non decide per tempo, sarà giocoforza rispondere positivamente ai quesiti referendari”. Il tema del Csm è ovviamente centrale in ogni disegno di riforma. Il quesito referendario elimina la raccolta di firme per una candidatura. Il problema è affrontato in maniera simile dal ddl in discussione, ma si intende cambiare anche la legge elettorale dei giudici. Lei pensa che si arriverebbe sul serio a limitare le degenerazioni del correntismo, oppure auspica un intervento più radicale? “Certamente il problema non sarà risolto. Tuttavia ci si sarà avviati verso una soluzione, da tanto tempo attesa. Per questo motivo, anche i primi passi vanno salutati con favore. Il Csm vedrà la soluzione dei suoi problemi quando la smetterà di ritenersi organo di autogoverno e comincerà a svolgere davvero le funzioni che ad esso assegna la Costituzione. Ben due volte, all’articolo 87 e all’articolo 104, la Costituzione dispone che il presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura. L’articolo 105 definisce chiaramente i compiti del Consiglio: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti nei riguardi dei magistrati”. Solo queste sono le funzioni e vanno svolte secondo i criteri dettati dalla legge”. Ci sono ragioni etiche e politiche per bocciare i referendum sulla giustizia di Nadia Urbinati* Il Domani, 26 maggio 2022 La decisione di accorpare nella stessa giornata il voto referendario con il voto amministrativo in molti Comuni è stata una scelta sbagliata perché distoglie l’interesse dei cittadini e dell’opinione dal tema delicatissimo che propongono, lasciandoli alla propaganda populista. Questa scelta è stata contestata tra gli altri dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale che, in aggiunta, ha promosso un Comitato per il No ai referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai Radicali e sostenuti da Forza Italia, Italia Viva, Azione e, ma solo parzialmente, da Fratelli d’Italia; contrari il M5s e il Pd (che però lascia libertà di voto). Al di là delle convenienze di bottega, i quesiti messi a referendum oltre ad essere astrusi e di difficile comprensione per la stragrande maggioranza dei cittadini, sono inoltre controversi nella forma, nella mentalità e per i contenuti. Nella forma: la riforma della giustizia diventa una materia di propaganda elettorale quando dovrebbe essere il parlamento e il governo ad impegnarsi responsabilmente e con competenza. Tra l’altro, alcuni dei referendum intervengono su questioni già affrontate dalla riforma strutturale della giustizia targata ministra della Giustizia Marta Cartabia su cui sta ancora votando in parlamento. Ma i quesiti sono anche controversi per la mentalità che li alimenta, segnati da una forte diffidenza nei confronti della magistratura, della giustizia e del controllo della legalità. Ritorno al berlusconismo - Si tratta di una mentalità che ci riporta alle scaturigini di Forza Italia, in sintonia con il peggiore lascito del berlusconismo, sorto anche con l’obiettivo di piegare la giustizia ad interessi particolari e al potere politico (una deriva che ha avuto successo nell’Ungheria di Viktor Orbán e che è stata fin qui ostacolata in Italia). Infine, i quesiti referendari sono controversi per i contenuti. Il quesito sulle modalità di presentazione delle candidature dei magistrati per le elezioni del Csm e quello sulla partecipazione dei membri laici (avvocati e professori universitari) alla redazione delle “pagelle” professionali dei magistrati - si tratta di una proposta tecnoburocratica di valutazione delle performance dei magistrati tra l’altro inserita nella riforma di Cartabia; è stata giudicata molto severamente dai magistrati, non solo per le difficoltà tecniche di attuazione ma soprattutto perché contiene un messaggio punitivo e può tradursi in una pratica di conformismo per quieto vivere. Non migliore è il quesito sulla revisione delle carriere tra Pubblici ministeri e giudici che avrebbe l’effetto di allontanare il Pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione, “schiacciandolo su un’attività di polizia”, si legge nel documento per il Comitato per il No. Questo fu uno dei tradizionali cavalli di battaglia del berlusconismo. Circa il quesito sulla custodia cautelare, esso è ingannevole in quanto si riferisce a tutte le misure, ovvero sia coercitive che interdittive; ma esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, “l’effetto sarebbe quello di impedire la custodia cautelare non solo per chi ha commesso reati gravi, ma anche l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge violento o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona vittima di atti persecutori”, si legge nel documento del Comitato per il No. Contro la legalità - Decisamente pessimo è infine il quesito per l’abrogazione della legge Severino, una proposta che va nella direzione di proteggere i corrotti - a questo condurrebbe l’abrogazione della disciplina riguardante la decadenza e l’incandidabilità degli eletti condannati con sentenza definitiva a una pena superiore a due anni. Difeso nel nome dell’esigenza di evitare la sospensione di sindaci e amministratori locali condannati con sentenza non definitiva, il quesito riguarda anche la decadenza e l’incandidabilità dei parlamentari condannati con sentenza definitiva ad una pena superiore a due anni di reclusione (il caso Berlusconi). Traspare in questi quesiti l’insofferenza del ceto politico per il controllo di legalità della propria attività, il peggio della cultura politica inaugurata da Forza Italia, una vera e propria rivolta dei politici contro i controlli, proprio nel mentre la politica è percepita da molti cittadini come un privilegio e un’attività che richiede poche competenze a fronte di molte conoscenze. Per almeno queste ragioni etico-politiche, tutti i quesiti dovrebbero essere bocciati. Come per i referendum abrogativi, anche in questo caso si prevede il raggiungimento del quorum di validità (devono partecipare al voto la maggioranza più uno degli aventi diritto). E non sarebbe irragionevole sperare che il quorum non venisse raggiunto. *Politologa Referendum giustizia: se ascolti un processo poi vai a votare di Simona Bonfante huffingtonpost.it, 26 maggio 2022 È alla portata di tutti e chiunque può farsi un’idea di come si traduca la ostica giustizia, con i suoi tecnicismi per indiziati, in vita reale delle persone, potenzialmente anche della propria. La giustizia è un tema ostico - si dice per liquidare l’iniziativa referendaria del prossimo 12 giugno. I quesiti proposti da Partito Radicale e da (opportunisticamente) Lega, affrontano aspetti tecnici che l’uomo comune, privo di strumenti conoscitivi adeguati, non sarebbe in grado di valutare. Csm, separazione delle funzioni dei magistrati… Serve per questo il Parlamento - dicono i partiti che siedono in Parlamento ma che ai problemi affrontati dai referendum non hanno sin qui inteso dare risposta. Eppure le questioni della giustizia assumono una connotazione molto concreta e tutt’altro che ostica quando si assiste a un processo. Nelle aule dei tribunali, la giustizia si manifesta per quello che è nel mondo reale - con i suoi protagonisti, i suoi tempi, le sue regole e discrezionalità. Tutto l’ostico del tema giustizia si traduce d’emblée in persone, argomenti, circostanze reali. I processi sono pubblici, salvo eccezioni. Grazie ai microfoni di Radio Radicale, che svolge da decenni questo impareggiabile servizio pubblico, abbiamo la possibilità di seguire in podcast buona parte dei processi che hanno destato maggiore interesse pubblico nel nostro Paese. L’archivio della radio è nutrito come la piattaforma Netflix. Si trova il processo a Marco Cappato per l’aiuto al suicidio di Dj Fabo o quello, tutt’ora in corso, a Salvini martire. Si possono seguire le udienze del processo Consip che vede in giudizio il padre dell’ex presidente del Consiglio Renzi, la sterminata serie dei processi Cucchi, i due gradi di giudizio ai ragazzi americani responsabili della morte del brigadiere Cerciello Rega, o gli interminabili processi per le stragi del secolo scorso. Centinaia di storie processuali per tutti i gusti. Ciascun processo è scandito in udienze, che seguono un ritmo narrativo come gli episodi di una serie tv. Si comincia a conoscere i personaggi e inquadrare il contesto, si prende familiarità con le procedure, le norme, i cavilli, la burocrazia. Si ascoltano i testi, gli imputati, gli avvocati, le parti civili, gli operanti di polizia e gli ufficiali, i tecnici informatici e i periti, il Pm e il giudice. Si vedono le persone dietro le funzioni, i ruoli e le immagini pubbliche. Talvolta ci si sorprende di quanto un mostro non sia così mostro e un santo non poi così santo. Si comprende con quale facilità si possa finire coinvolti in un incubo giudiziario, magari a causa di un’intercettazione di una terza persona che fa un’allusione o pronuncia un nome che viene trascritto male. Ci si appassiona al processo, come per le vicende di un reality show. Nel processo vero i personaggi, le circostanze, i fatti sono spesso molto diversi dalle rielaborazioni dei talk show. Dei magistrati, per esempio, si ha un’idea castale, elitaria. Nelle aule vere però pm e giudici si manifestano in una maggioritaria medietà, non di rado espressa da un’imbarazzante povertà di linguaggio (saranno i vincitori di concorso del periodo del mito Di Pietro) e una capacità logica che talvolta appare compromessa da pregiudizio e superficialità. Ascoltare un processo è interessante e talvolta persino avvincente. È alla portata di tutti e chiunque può farsi un’idea di come si traduca la ostica giustizia, con i suoi tecnicismi per indiziati, in vita reale delle persone, potenzialmente anche della propria. La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano. La via democratica e costituzionale perché il popolo si esprima è il referendum. Anche i più refrattari possono trovare costruttivo togliersi la curiosità di seguire uno dei tanti processi dibattuti nel nostro paese, uno a caso. Probabilmente il 12 giugno decideranno di essere anche loro in grado di esprimersi e andranno a votare. Bavaglio ai pm, super-poteri al Guardasigilli. L’assalto di Lega e Iv alla riforma Cartabia di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2022 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, aveva accettato di far votare la riforma del Csm il 14 giugno, due giorni dopo il referendum, chiedendo però la garanzia ai partiti di maggioranza di non presentare emendamenti in commissione Giustizia al Senato. Ma le forze di governo, Lega e Italia Viva su tutti, le hanno fatto trovare una sorpresa: gli emendamenti presentati sono 264, di cui 146 solo di Lega (60) e renziani (86). Quattro sono di Forza Italia, 8 del M5S, 8 di Pietro Grasso e 92 di FdI. L’assalto alla riforma però viene soprattutto da Lega e Italia Viva che hanno presentato proposte di modifiche in chiave anti-pm. Gli emendamenti del Carroccio riguardano soprattutto i temi del referendum del 12 giugno: in caso di fallimento per mancanza di quorum la Lega proverà a far rientrare quei temi nella riforma. Così ha presentato modifiche per introdurre la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei pm, limitare la custodia cautelare e abrogare la legge Severino. La Lega chiede anche che, una volta finito il mandato da membro del Csm, per cinque anni non si possa correre per un incarico direttivo e abolire l’immunità per i componenti dell’organo. Curioso un emendamento che specifica il concetto di “merito” per valutare i magistrati: sarà basato su “capacità professionali, competenze, risultati conseguiti, competenze sociali e leadership”. Anche i renziani hanno presentato molte proposte in senso punitivo nei confronti dei magistrati. Oltre ai temi leghisti, Iv propone un “bavaglio” tout court: nessun pm potrà fare dichiarazioni ai mezzi di informazione “sull’attività giudiziaria dell’ufficio” e, in caso contrario, il procuratore sarà obbligato a segnalare l’infrazione al consiglio giudiziario. I renziani chiedono anche che il fascicolo introdotto dalla riforma per valutare i pm si basi sulla media delle inchieste, sui rinvii e sul numero di assoluzioni e che si possa avviare un’azione disciplinare contro i pm che “con negligenza o superficialità” adottano provvedimenti di limitazione della libertà personale. Iv poi ha presentato un emendamento per far gestire al Guardasigilli il processo dell’azione disciplinare e un altro per modificare la riforma Castelli (2005) togliendo il potere dalle mani dei procuratori. Il M5S invece vuole tornare all’impianto della “Bonafede” (4 possibili passaggi di funzione tra pm e giudice e “no” al fascicolo). Lega e renziani insieme potrebbero creare problemi a Cartabia visto che in commissione Giustizia, insieme a Forza Italia, hanno i numeri. Salvini: “La giustizia italiana fa paura. I pm alimentano lo scontro” di Paolo Bracalini Il Giornale, 26 maggio 2022 Il referendum sulla giustizia del prossimo 12 giugno è in buona parte merito di Matteo Salvini che insieme ai Radicali ha promosso la raccolta firme e contribuito a rilanciare l’urgenza di una questione, quella del malfunzionamento della giustizia e della politicizzazione delle toghe, che in passato ha diviso lo stesso centrodestra. In questa consapevolezza ha contribuito l’esperienza vissuta da Salvini sulla propria pelle, accusato di “sequestro di persona” per aver chiuso i porti all’immigrazione clandestina da ministro dell’Interno. “Il mio processo per aver difeso i confini dell’Italia andrà avanti mesi o anni, la prossima udienza sarà venerdì 17 giugno ed è frutto della volontà politica di 5Stelle e sinistra che hanno fatto di tutto per mandarmi alla sbarra - spiega al Giornale il leader della Lega. È il loro modo per battere gli avversari politici, non è un caso se c’è una preoccupante censura a proposito dei quesiti sulla giustizia”. Uno dei quali riguarda il Csm, l’organo che dovrebbe governare la magistratura ma che invece, nel sistema scoperchiato da Palamara e Sallusti, è il centro di smistamento delle carriere e delle promozioni in base all’appartenenza ideologica dei magistrati. “I cittadini hanno paura della giustizia anche perché si apprende di spaventose guerre tra magistrati. Anche la procura di Milano sta vivendo queste profonde lacerazioni. Occorre demolire e ricostruire il Csm, ma con il Pd e i 5Stelle è impossibile farlo perché bloccano tutto. Difende l’esistente. E la riforma Cartabia da sola non basta” dice Salvini. Che rilegge sotto questa luce la vicenda del processo Ruby contro Silvio Berlusconi, compresa l’ultima requisitoria del pm che ieri ha chiesto una condanna a 6 anni di reclusione per l’ex premier. “Alcuni pubblici ministeri della Procura di Milano si dimostrano fuori dal tempo, preferiscono alimentare una contrapposizione di natura politica al di fuori di ogni logica. Contro Silvio Berlusconi sembra ci sia un accanimento, descritto in modo sconvolgente anche dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara: nonostante sentenze di assoluzione e scandali che coinvolgono le toghe, le richieste di condanna e i processi contro il Cavaliere non finiscono mai - commenta il leader leghista -. Sono rimasto molto colpito dal fatto che alcuni passaggi della requisitoria che ha letto il pm sembravano una censura morale più che giuridica. I magistrati devono solo esaminare norme, non dare giudizi sui comportamenti privati, addirittura censurando il comportamento di alcune famiglie delle ragazze coinvolte. Il richiamo a Putin (il pm Tiziana Siciliano ha tenuto a sottolineare l’amicizia tra Berlusconi e “Putin che ora sta mettendo in ginocchio il mondo”, ndr) appare del tutto fuori luogo, gravissimo, frutto di pregiudizio politico e di evidente antipatia”. A colpire il segretario della Lega sono anche i tempi del processo Ruby Ter. “L’inizio indagini risale al 2015: è inammissibile essere vicini alla prima sentenza dopo 7 anni. Sette anni! Aggiungo che il processo principale sul caso Ruby è finito con una assoluzione: sembra singolare che si continuino a inseguire filoni di processo quando il principale ha dato ragione a Berlusconi. Sono certo che il Cavaliere ne uscirà bene, ma qui c’è l’ennesima dimostrazione della necessità dei referendum sulla giustizia. È nell’interesse di tutti avere la certezza che chi ha il potere di fare indagini e di chiedere 6 anni di pena sia un magistrato indipendente. Attenzione: la mia non è una accusa a questi pm, ma sono convinto della necessità che tutti i magistrati siano svincolati dalle correnti”. Altrettanto netto è il giudizio sul merito del processo alle serate ad Arcore: “È ridicola prima ancora che offensiva l’idea di chiedere sei anni di reclusione per rieducare un imprenditore del suo calibro e un uomo politico che è stato per nove anni presidente del Consiglio e ha quasi 86 anni. Ha sempre aiutato, in totale trasparenza e per tutta la sua vita, persone che riteneva ne avessero necessità. Lo aveva detto anche lui stesso nel corso di un’udienza del processo dal quale, poi, era stato assolto. Insieme, con il referendum, vinceremo questa grande sfida, contro tutto e tutti: non credo a un’Italia condannata a una giustizia ingiusta e inefficiente”. Meloni aspetta in silenzio il cadavere di Salvini sulla riva del referendum giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 maggio 2022 Il referendum rischia di assumere le forme dell’ennesima resa dei conti per la leadership del centrodestra, e tutto sembra andare a vantaggio di Fratelli d’Italia. Intervista ad Andrea Delmastro, responsabile giustizia di Fdi. Dopo mesi di silenzio, lunedì Matteo Salvini è tornato a parlare del referendum sulla giustizia previsto per il 12 giugno, proclamando addirittura una “mobilitazione generale” per i prossimi fine settimana: “Ci saranno centinaia di gazebo in tutta Italia per informare sui referendum, visto il silenzio di quasi tutte le tv e di molta stampa”, ha detto. La schizofrenia mostrata da Salvini attorno al referendum (prima il grande clamore durante la raccolta firme, poi il silenzio assoluto, ora la mobilitazione generale) è la prova del sentimento che nelle ultime settimane sta animando il leader della Lega: la paura. Che il referendum promosso con convinzione dalla Lega rischi di rivelarsi un flop, a causa del mancato raggiungimento del quorum, è chiaro a tutti. Secondo un recente sondaggio Ipsos, appena il 28 per cento degli italiani si recherà alle urne. Ma la paura di Salvini è legata a qualcosa di ben più importante: il referendum rischia infatti di assumere le forme dell’ennesima resa dei conti per la leadership del centrodestra. Il segretario della Lega invita i cittadini a votare a favore di tutti e cinque i quesiti referendari ma, secondo il medesimo sondaggio, tra coloro che dichiarano di andare alle urne prevale il “sì” su tre quesiti (quelli sulla separazione delle funzioni, la valutazione dei magistrati e le candidature al Csm), mentre tende a prevalere il “no” sui due quesiti che riguardano l’abrogazione della legge Severino e i limiti al ricorso alla custodia cautelare. Si tratta esattamente della posizione assunta da Fratelli d’Italia, che fin da subito si smarcò da Salvini sui due quesiti (“Sicurezza e lotta alla corruzione sono valori non negoziabili”, disse Giorgia Meloni). Ecco spiegata allora l’inattesa chiamata alle armi di Salvini: va bene andare a sbattere contro il quorum, ma addirittura veder prevalere sui propri quesiti il “no” di Fdi costituirebbe una doppia figuraccia (e una doppia goduria per Meloni, che sembra attendere il cadavere di Salvini sulla riva del fiume del referendum). “Noi siamo per il sì ai tre quesiti che disegnano una giustizia più liberale”, ribadisce al Foglio il deputato Andrea Delmastro, responsabile giustizia di Fdi, riferendosi al quesito “che tenta di affrontare con un primo timido passo il problema delle correnti nel Csm, anche se sarebbe stato meglio affrontarlo attraverso il meccanismo del sorteggio”, a quello sulla valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari con la partecipazione degli avvocati e dei docenti universitari, e infine a quello sulla separazione delle funzioni. Delmastro conferma, però, il no agli altri due quesiti, a partire da quello che limita il ricorso alla custodia cautelare: “Per quanto in Italia vi sia un uso smodato della misura cautelare, a volte anche per fini confessori, non possiamo privare la magistratura di uno strumento così importante per arrestare la progressione dell’attività criminale. Non esiste una sola misura cautelare nei confronti di uno spacciatore che non sia fondata sul presupposto del pericolo di reiterazione del reato. Lo stesso vale per gli stalker e coloro che fanno furti in abitazione”. No anche all’abolizione tout court della legge Severino: “Fratelli d’Italia ha depositato una proposta di riforma della legge Severino - premette Delmastro - soprattutto nelle parti della sua applicazione più infernale e diabolica (quelle per le quali, per esempio, in pendenza di una condanna soltanto di primo grado c’è la sospensione dalla carica elettiva). Tuttavia, esiste un problema di corruzione in politica. Per noi il corrotto, se condannato con sentenza passata in giudicato, non può rappresentare più il popolo italiano”. “Io credo che il centrodestra non abbia compreso bene la portata di questi due quesiti”, afferma Delmastro. “Trovo inaccettabile questo cedimento sotto il profilo della sicurezza, dell’ordine e della legalità. C’è un centrodestra a volte situazionista, che a seconda delle battaglie del momento prende posizione, e un centrodestra eterno, rappresentato da Fratelli d’Italia, le cui posizioni prescindono dalle occasioni storiche”. Dunque Salvini si sta comportando da situazionista con il referendum? “In questo caso sì”. L’annuncio improvviso di una mobilitazione generale da parte del leader della Lega mira a evitare la figuraccia di vedersi bocciati i due quesiti su custodia cautelare e legge Severino? “Questo bisognerebbe chiederlo a Salvini - risponde Delmastro - Certo, dopo che per anni hai spiegato ai tuoi elettori che se ti entra in casa un ladro lo puoi abbattere, è difficile dirgli che se invece arriva un carabiniere, questo deve fermare il ladro e poi liberarlo”. E il giudice fu smentito dai giudici di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 26 maggio 2022 Le correnti della magistratura, in perenne contrasto, si sono trovate d’accordo contro il commissario d’esame che aveva criticato gli aspiranti magistrati in gran parte bocciati al concorso. Non c’è che da condividere l’editoriale di Antonio Polito, uscito ieri sul Corriere, a proposito dell’istruzione che offre la scuola italiana ai suoi giovani, se molti quindicenni, come ha denunciato qualche giorno fa Save the Children, non comprendono i testi che leggono. E va condiviso anche l’allarme che si è aggiunto proprio martedì, quando è stato comunicato l’esito catastrofico del concorso per la magistratura, superato da soli 220 candidati su quasi quattromila. La stragrande maggioranza è stata bocciata nella prova scritta non perché, come si diceva una volta, non ha studiato abbastanza, ma per ragioni ben più gravi: e cioè perché non dispone di capacità argomentative e linguistiche, mostrando nella scrittura “schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, scarsa originalità, in alcuni casi errori marchiani di concetto, diritto e grammatica”. Dunque, non si tratta (solo né soprattutto) di carenze tecniche. Tuttavia, lo sfacelo non è tale da turbare né l’ala conservatrice delle toghe (Magistratura Indipendente) né l’ala progressista (Magistratura Democratica), che pur essendo in perenne battibecco si sono trovate per una volta concordi nel denunciare la severità del commissario d’esame Luca Poniz. Come quei genitori che non trovano di meglio che prendersela con il professore quando il figlio viene rimandato. Così, ieri s’è udito a destra lo squillo di trombetta minimizzante e a sinistra ha risposto un analogo squillo con il comune sospetto che si sia trattato di un giudizio “ingeneroso”, di un “rigore incomprensibilmente estremo” e con accenti anche ironici (“se il problema è la divisione in sillabe ci sono i correttori automatici...”). La prima regola a cui dovrebbero attenersi i magistrati sarebbe quella di rispettare le sentenze dei giudici. E questo non è proprio un bell’esempio (per i futuri colleghi) né quanto a etica professionale né quanto ad argomentazione. Tra le macerie dell’Anm avanza indisturbato l’uomo forte Gratteri di Errico Novi Il Dubbio, 26 maggio 2022 Se la magistratura associata resta così debole, sono i pm d’assalto i soli interlocutori della politica. È in difficoltà, l’Anm: inutile negarlo. Ed è inevitabile. Sono arrivati al pettine anni di nodi ingarbugliati fra Palazzo dei Marescialli e vita associativa delle toghe. Dal deflagrare dello “scandalo” hotel Champagne allo sciopero flop dell’altro lunedì, con tappa ai verbali di Amara e annessi veleni fra pm milanesi, si è creata una costellazione di guai, per la magistratura, difficile da immaginare. Adesso siamo lontani anni luce dalle battaglie politiche della Associazione magistrati contro la riforma Castelli o le leggi di Berlusconi. Il tentativo di contrastare il ddl Cartabia sul Csm ha avuto un esito desolante: è come se non ci fosse stato. E forse il ritardo con cui la riforma arriverà in Gazzetta ufficiale - ritardo legato solo all’esigenza leghista di non oscurare ancor di più i referendum - è una salutare boccata d’ossigeno per le correnti. Eleggere i togati del nuovo Csm a settembre anziché a luglio aiuterà a cicatrizzare un po’ le ferite delle ultime settimane. Ma dal punto di vista della politica, la debacle mista a stato catatonico in cui versa la magistratura associata non è una buona notizia. Non lo è soprattutto per la qualità del dibattito, che nel campo della giustizia, come in qualunque altro, ha bisogno di interlocutori autorevoli ma in grado di favorire il dialogo. Anche perché nella desolazione dell’Anm - peraltro guidata oggi da una delle figure più equilibrate tra le leadership degli ultimi anni, Giuseppe Santalucia emerge inevitabilmente l’uomo forte. Ebbene sì, nella magistratura si può assistere a un fenomeno del tutto analogo a quello che si verifica nei sistemi democratici quando la struttura implode: il vuoto può essere facilmente occupato da figure oggettivamente o, come in questo caso, anche solo simbolicamente autocratiche. Se ne è avuto un nuovo esempio da Nicola Gratteri. Intervenuto due giorni fa prima a Otto e mezzo su La 7 e poi al Maurizio Costanzo Show. Ha parlato di una magistratura in crisi sulla quale la politica ora sembra consumare le proprie vendette. E fin qui, nulla di sconvolgente, è un’analisi semplice e in parte plausibile. Ma poi Gratteri è partito lancia in resta contro la presunta debolezza delle politiche antimafia dell’attuale governo. Non ce l’aveva solo con Marta Cartabia e la sua riforma, stavolta: il procuratore di Catanzaro ha messo nel mirino soprattutto Mario Draghi: “Con lui la lotta al crimine diventa un ‘ liberi tutti’“, ha detto da Lilli Gruber. Ha concesso al premier che sì, di finanza ci capisce, ma sul resto “non tocca palla o, se la tocca, allora è anche più preoccupante”. Sul Fatto quotidiano, che ha dato ampio risalto all’avvelenata di Gratteri, si parla di “ovazione” del pubblico. Ora, il procuratore di Catanzaro è un magistrato che ama parlare di politica della giustizia, e ne ha tutto il diritto. Ma è chiaro che la sua voce rimbomba di più nel silenzio, o al più nella semi- afasia, dell’Anm. Gratteri uomo forte. Ci sta. Inquietante? Nei limiti dell’analogia. Il pm antimafia, che ha appena sfiorato la nomina alla Procura nazionale, è una persona onesta, delle cui idee non condividiamo nulla o quasi, ma certo non è un autocrate nel senso proprio del termine. Non è lui però la controparte di cui la politica ha bisogno per costruire una nuova politica della giustizia. Serve un interlocutore organizzato, dialogante, meno incline a giudizi sospesi fra sfida e provocazione intellettuale. Serve una magistratura forte del proprio ruolo che faccia politica giudiziaria con disponibilità al confronto, con lo spirito costruttivo necessario ad aprire una pagina nuova dopo che il riverbero di Mani pulite si è irradiato per trent’anni. Se invece avrà davanti solo i battitori liberi alla Gratteri, la politica scivolerà davvero nel conflitto inconcludente e specioso con la magistratura. Si darebbe vita a un paradigma simmetrico a quello che abbiamo sperimentato nell’ultimo trentennio. E non si arriverebbe a un Paese più attento e consapevole delle garanzie. Ebbene sì, i magistrati debbono ‘ fare politica’. Con uno stile e un approccio meno conflittuali di Gratteri. Ma senza dissolversi nell’irrilevanza burocratica della loro funzione. Serve un dibattito democratico anche sulla giustizia. Al quale, coi magistrati, partecipi da primattore anche l’avvocatura. Con il contrasto fra una politica incattivita da anni di populismo giudiziario e pochi ‘ uomini forti’ della magistratura, non si arriva da nessuna parte. L’arma segreta di Giorgia Meloni è il magistrato Nicola Gratteri di Giulia Merlo Il Domani, 26 maggio 2022 Per capire che cosa succederà nei prossimi mesi, sia in politica sia in magistratura, bisogna tenere gli occhi puntati su Catanzaro. O meglio, sull’edificio giallo che si affaccia su piazza Matteotti e sul suo inquilino: il procuratore capo Nicola Gratteri. È lui l’epicentro di una serie di movimenti sotterranei che riguardano due mondi sempre più divisi al loro interno. Da una parte quello delle toghe, spaccate tra quelle istituzionali in piena crisi di rappresentanza e quelle che nei loro vertici non si riconoscono più. Dall’altra quello della politica, fiaccata da mesi di governo Draghi e in lotta per ricomporre i nuovi poli che si sfideranno alle prossime elezioni. In mezzo a questa doppia crisi di sistema, Gratteri è diventato il volto più spendibile per tutti e il più ricercato: le sirene della politica bussano alla sua porta in una processione che in città è stata notata. Fratelli d’Italia - In gennaio è arrivato il leader della Lega, Matteo Salvini, che si sarebbe intrattenuto nel suo ufficio per più di due ore. Nel giorno dei trent’anni dalla strage di Capaci è stato il turno del segretario del Pd, Enrico Letta, che anche pubblicamente gli ha espresso “solidarietà e vicinanza”. Il giorno dopo è arrivata anche Giorgia Meloni, in città per sostenere la sua candidata sindaca al comune. Proprio questo passaggio potrebbe essere stato il più proficuo di una campagna acquisti in atto da parte di Fratelli d’Italia: accaparrarsi il miglior candidato in circolazione nel collegio, in vista delle future politiche. In città e nel palazzo di giustizia le voci di una discesa in politica di Gratteri con il partito di Meloni si rincorrono e anche da ambienti nazionali del partito la notizia non viene smentita. Lui - che già nel 2016 era stato lusingato (e poi tradito) dall’offerta di un ministero da parte di Matteo Renzi - a domanda diretta risponde secco: “Non ho nessun abboccamento specifico con Fratelli d’Italia. Io parlo con tutti e con tutti dico la mia. Sono anni che lo faccio e la mia versione non è mai cambiata, a differenza di quella di altri”. La sua prima vocazione è sempre stata quella della toga, ma chi lo conosce dice che la politica gli piace e le sue simpatie si sarebbero sempre collocate a destra. Tuttavia lui ricorda che “Fratelli d’Italia per esempio sostiene il sì ad alcuni quesiti referendari, a cui io sono contrario”. Eppure, non è passato inosservato il suo durissimo attacco nei confronti del governo Draghi - di cui Meloni è l’unica opposizione - e della ministra della Giustizia, Marta Cartabia al Maurizio Costanzo Show. “Se parliamo di riforma della giustizia e di sicurezza, non ci siamo proprio”, ha detto, aggiungendo che “c’è aria di liberi tutti: è un momento brutto per il contrasto alle mafie”. Le parole sono pesanti e i riferimenti chiari. Per il mondo dell’antimafia di cui Gratteri è rimasto l’ultimo nome veramente rappresentativo, il governo Draghi è stato di gran lunga il peggiore degli ultimi anni e le ragioni si possono elencare. Con il ddl penale ha introdotto prescrizione processuale che fissa a due anni la durata del grado d’appello, col rischio di calare la mannaia dell’improcedibilità su molti procedimenti in materia di criminalità organizzata. Inoltre è il governo che dovrà licenziare la riforma del carcere ostativo prevedendo - sulla scia della sentenza della Corte costituzionale - di eliminare il vincolo della collaborazione per i mafiosi. Poi c’è stata la nomina nel delicatissimo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - anello di congiunzione tra stato e carceri - del magistrato Carlo Renoldi, senza esperienza specifica di antimafia rispetto a un passato in cui si era privilegiata questa voce di curriculum. Infine, ultimo tradimento che ha toccato nel vivo lo stesso Gratteri: la preferenza del procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, come procuratore nazionale antimafia. La mancata nomina - Proprio questa mancata nomina è la ragione che lo induce a guardare con distacco alla politica che lo cerca: sa che il suo nome è elettoralmente forte ma sminuisce gli attestati di solidarietà arrivati in questi giorni, dopo la notizia di un possibile attentato ai suoi danni da parte della ‘ndrangheta. “Perché me la manifestano solo ora? Dopo che i loro rappresentanti laici al Csm (nessuno è in quota FdI, ndr) hanno votato contro di me come procuratore nazionale antimafia”. Accanto alle lusinghe di una politica affamata di legittimazione, anche nella magistratura la sua figura attrae e divide. Soprattutto ora che sta iniziando a prendere vita la campagna elettorale per l’elezione del prossimo Consiglio superiore della magistratura, prevista in estate oppure a fine anno (a seconda di quando la riforma dell’ordinamento giudiziario, che contiene le legge elettorale, verrà approvata). In suo favore si sta animando una parte di magistratura che guarda con sospetto alla storica dimensione associativa, percepita come la vera zavorra irriformabile della categoria. Proprio questa parte, in cerca di simboli ma anche di rappresentanti, attende solo una sua discesa in campo e spera che alle lusinghe politiche preferisca l’attaccamento alla toga. È ancora presto per dire se Gratteri accetterà la sfida e lui stesso non nega ma non si sbilancia. Anzi, nella sua ultima intervista a Otto e mezzo ha detto che potrebbe fare anche “il contadino”, un mestiere che insegna che si semina oggi per raccogliere domani. Gratteri - sia in politica sia in magistratura - di semi ne ha sparsi molti e ora non gli resta che decidere quali raccogliere. È lui stesso a offrire la sintesi di questa fase di riflessione: “Penso a tante cose e non escludo nulla”. Ergastolo ostativo, inutile esigere un rifiuto morale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2022 La valutazione dei giudici deve riguardare la pericolosità sociale. No a una valutazione etica, come pure a una pretesa di abiura morale. Necessario invece un esame in concreto del percorso rieducativo e della persistenza della pericolosità sociale. Suona a monito e indice dei corretti criteri da utilizzare, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 2019 sull’ergastolo ostativo, da parte della magistratura di sorveglianza la dettagliata sentenza n. 19536 della Quinta sezione penale della Cassazione. Il cambio di giurisprudenza non modifica la condanna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2022 Una condanna già passata in giudicato non può essere oggetto di revisione a causa di una sopraggiunta inutilizzabilità delle prove. Neppure in caso di cambiamento della giurisprudenza in materia di intercettazioni. Lo afferma la Cassazione con la sentenza n. 19429 della Sesta sezione penale. È così respinta l’istanza di revisione presentata dalla difesa di un condannato per corruzione, con la quale si sosteneva l’inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate durante le indagini a causa del deposito della sentenza delle Sezioni unite che nel 2020 ha rivisto le condizioni dell’utilizzo per individuare reati diversi da quelli oggetto dell’originaria autorizzazione. Per la Cassazione, in questo caso, si esula da quel concetto di nuove prove che può dare origine a un giudizio di revisione, si tratta piuttosto di un’impossibile richiesta di riprendere in considerazione materiale probatorio già oggetto di valutazione. La Corte sottolinea che le ragioni della difesa vanno disattese perché indirizzate a far valere una processuale, l’inutilizzabilità patologica della prova, che andava eccepita nel giudizio di cognizione e che risulta sanata dal passaggio in giudicato della condanna “e ciò senza che rilevi la circostanza che la inutilizzabilità della prova sia stata dedotta sulla base di un orientamento giurisprudenziale innovativo, formatosi in epoca successiva al momento della irrevocabilità della sentenza”. È vero, ricorda la Cassazione, che l’ordinamento processuale prevede una serie di ipotesi nelle quali si ammette un’incrinatura del giudicato nel caso in cui a essere compromessi sono fondamentali parametri costituzionali, ma questo è avvenuto, per esempio, nei casi di illegalità della pena per una sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità di disposizioni sul trattamento sanzionatorio, casi radicalmente diversi da semplici violazioni di norme processuali. Respinta anche la richiesta avanzata dalla difesa di immaginare un percorso di espansione delle cause di revisione, sino a comprendere l’inutilizzabilità delle prove, analogo a quello che vide la Corte costituzionale nel 2011 inserire la nuova ipotesi di revisione “europea”, per contrasto con una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un intervento eccezionale, afferma ora la Cassazione, dettato dalla necessità di dare effettività all’articolo 46 della Convenzione dei diritti dell’uomo che impone agli Stati membri di adeguarsi al giudizio della Corte europea quando questa comporta la necessità di riapertura del processo penale. Infine, non ha convinto la Corte neppure il riferimento a un precedente della stessa Cassazione (Sezioni unite civili, n. 22302 del 2021) con la quale si apriva al rimedio della revisione in caso di intercettazioni effettuate presso impianti diversi da quelli della Procura. Caso diverso, chiude le porte ora la Cassazione, perché non vincolante, in quanto espresso sul piano civile, e perché riguarda una situazione differente dal cambiamento di giurisprudenza. È furto anche la sottrazione per dispetto, ritorsione o vendetta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2022 La Cassazione, sentenza n. 20442 depositata ieri, chiarisce che il fine del profitto, che integra il dolo specifico del reato, non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale. La Cassazione, sentenza n. 20442 depositata ieri e segnalata per il “Massimario”, allarga lo spettro del fine del “profitto” richiesto come dolo specifico ai fini della configurabilità del furto. Non solo il vantaggio patrimoniale, spiega, rientra nella fattispecie ma anche il “soddisfacimento di un bisogno psichico”. Dunque anche la sottrazione di un bene per dispetto o vendetta integra la fattispecie penale. La Prima Sezione penale ha così accolto il ricorso del Procuratore generale militare contro la sentenza della Corte militare d’appello che, riformando la condanna del Tribunale militare di Roma del 19 febbraio 2020, nell’aprile 2021 aveva assolto un appuntato scelto della Guardia di Finanza dal reato di furto militare per essersi riappropriato della propria tessera di riconoscimento ritirata dopo il collocamento in aspettativa per motivi di salute, e sottratta “con modalità imprecisate dal plico sigillato in cui era stata riposta in occasione del ritiro, plico custodito in un armadio metallico degli uffici della Scuola nautica presso cui prestava servizio”. La Corte militare di appello ha ritenuto che non sussisteva il dolo di profitto del reato di furto, dal momento che la tessera “non aveva alcun valore economico e non era esattamente identificabile il vantaggio che la sottrazione aveva determinato in capo all’autore del reato”. Per il Procuratore invece il “dolo di profitto non deve avere necessariamente un contenuto patrimoniale”. Una lettura condivisa dalla Suprema corte secondo cui il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, “non consiste necessariamente nella volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma si può anche risolvere nel soddisfacimento di un bisogno psichico” (in senso contrario, sentenza n. 30073/2018: secondo cui il fine di profitto va interpretato in senso restrittivo. La Corte in quel caso non ha ritenuto integrato l’elemento soggettivo del reato nella sottrazione di una borsa solo per finalità “di dispetto, di reazione o come modalità per mantenere il contatto con lei”). Nel caso affrontato, prosegue la decisione, nonostante non sia stato individuato il fine, la Corte militare di appello ha comunque pronunciato sentenza liberatoria in considerazione della impossibilità per l’agente di trarre dalla condotta un vantaggio di tipo patrimoniale. “Poiché, però - prosegue la decisione - la mancanza di vantaggio patrimoniale di per sé non esclude la sussistenza del reato, perché il dolo del furto si può anche risolvere nel soddisfacimento di un bisogno psichico, la pronuncia di appello si rivela non sufficientemente motivata”. Da qui l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte militare di appello che dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “in tema di furto, il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta”. Cannabis, la coltivazione di poche piante non è reato se non c’è rischio per la salute pubblica di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2022 I mezzi rudimentali che depongono per un uso limitato a quello personale rilevano ai fini dell’inoffensività della condotta. In caso di coltivazioni domestiche di poche piante di cannabis la rilevanza penale della condotta va ancorata all’accertato rischio per la salute pubblica e alla contribuzione al mercato illegale degli stupefacenti. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 20238/2022, ribadisce così l’operatività dell’orientamento nomofilattico espresso dalle sezioni Unite penali all’inizio del 2020. Di conseguenza viene riaffermato come superato il precedente orientamento che individuava la rilevanza penale delle coltivazioni domestiche nell’assenza di autorizzazione del coltivatore. E a prescindere dal grado di maturazione e del relativo principio attivo estraibile dalle piante rinvenute. Tale orientamento è stato ripreso una sola volta dopo l’intervento delle sezioni Unite e la Corte ne conferma l’avvenuto superamento. La Cassazione riafferma, quindi, che anche se le piante domestiche hanno raggiunto il grado di maturazione che supera la soglia minima di capacità drogante va accertato che vi sia un concreto rischio di immissione sul mercato illegale della droga con conseguente rischio per la salute pubblica. Ma una volta esclusa la finalità di cessione a terzi del poco principio attivo ricavabile da una modesta e rudimentale coltivazione domestica realizzata da chi non vi è autorizzato, non resta che riconoscere l’irrilevanza penale della condotta destinata all’uso personale. Uso personale che, per inciso, la Cassazione ritiene favorevole al decremento delle contrattazioni sul mercato illegale della droga. Escludendo quindi che sia ravvisabile l’offensività della coltivazione domestica per uso personale per assenza di rischi per la salute pubblica. Lombardia. La Corte costituzionale boccia la Regione: via lo “stun gun” agli agenti di Stefania Chiale Corriere della Sera, 26 maggio 2022 Lo Stato ha competenza esclusiva in materia di armi: dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale, limitatamente alle parole “dissuasori di stordimento a contatto”. De Corato: avanti sul taser. Addio allo stun gun, il dissuasore di stordimento a contatto, per la polizia locale in Lombardia. Secondo l’articolo 117 della Costituzione, la competenza in materia di armi è dello Stato, non delle Regioni: per questo l’articolo 5 della legge lombarda del 25 maggio 2021, che prevedeva la dotazione di stun gun per le polizie locali dei comuni, è incostituzionale. Tradotto: bisogna passare dallo Stato, non si può stabilire l’adozione di armi con una legge regionale senza averlo fatto. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza 126 del 6 aprile, visionata dal Corriere, e depositata mercoledì. Su cosa si basa la sentenza della Corte Costituzionale? Sulla definizione di dissuasore di stordimento a contatto in quanto “arma”. Facciamo ordine: l’art. 5 della legge regionale del 25 maggio 2021 recita: “I corpi e i servizi di polizia locale possono dotarsi di manette, giubbotti anti-taglio, (...), dissuasori di stordimento a contatto”. Il passaggio sui dissuasori, si legge nella sentenza, “si porrebbe in contrasto con l’art. 117 della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di armi. Il legislatore statale”, infatti, ha “operato una distinzione tra “armamento” vero e proprio ed altri “mezzi e strumenti operativi” di cui la polizia locale può essere provvista”, rimettendo “alle Regioni la disciplina riguardante gli “altri strumenti operativi”“. Mentre i “dissuasori di stordimento a contatto rientrano nella categoria delle “armi comuni ad impulso elettrico”. Anche secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, lo storditore elettrico andrebbe considerato a tutti gli effetti come arma trattandosi di strumento naturalmente destinato ad offendere l’eventuale aggressore”. Queste le motivazioni per cui la giudice della Corte Costituzione Maria Rosanna San Giorgio dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale 25 maggio 2021, n. 8, limitatamente alle parole “dissuasori di stordimento a contatto”. Sentenza a cui risponde l’assessore regionale alla Sicurezza Riccardo De Corato, che puntualizza come invece la pistola elettrica tipo “taser” in mano alla polizia locale sia salva: “Anche la Consulta ha definito arma offensivo lo stun gun, statuendo di fatto l’esclusiva del suo utilizzo alle sole polizie dello Stato. Ma sul taser si va avanti, perché la sperimentazione nelle polizie locali dei Comuni lombardi (in corso ad esempio a Monza) è cominciata dopo il preventivo via libera del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Il taser è stato autorizzato su mia richiesta dalla Conferenza Stato Regioni. Noi per dotare di taser la Polizia locale dobbiamo avere il via libera dal ministero degli Interni e poi, dopo sei mesi di sperimentazione, ogni Comune ha facoltà di regolamentarne l’uso”. Due giorni fa, il 23 maggio, il governatore Attilio Fontana aveva auspicato che la sperimentazione del taser fosse estesa a tutti gli agenti della polizia locale in Lombardia: “Le cronache di questi giorni confermano quanto utile sia la dotazione del taser alle forze dell’ordine - scriveva su Facebook. In Lombardia siamo al lavoro per far sì che anche tutti gli agenti della polizia locale che operano nella nostra regione siano dotati di taser”. Intanto la consigliera Pd a Palazzo Marino Natascia Tosoni chiede invece che “il Comune fermi l’ipotesi di sperimentazione”. Friuli Venezia Giulia. Telemedicina in carcere, attenzione a salute mentale e dipendenze Il Gazzettino, 26 maggio 2022 È sempre alta l’attenzione della Regione per garantire un corretto e dignitoso trattamento, in ambito penitenziario, a detenuti e internati fragili e a minorenni sottoposti a procedimento penale, assicurando al contempo la migliore efficacia delle misure di sicurezza, senza gravare sul personale carcerario. Previsto, tra gli altri interventi, un ulteriore sviluppo della telemedicina in detenzione per le persone ristrette con bisogni complessi e con problematiche di salute mentale e dipendenza. Lo ha comunicato questa mattina il vicegovernatore con delega alla Salute, rispondendo a un’interrogazione a risposta immediata in sede di Consiglio regionale. Entrando nel dettaglio, l’esponente dell’Esecutivo ha sottolineato come questo monitoraggio abbia il suo cuore nell’Osservatorio permanente della sanità penitenziaria. L’organo, composto da rappresentanti di Regione, giustizia minorile e amministrazione penitenziaria, si riunisce più volte all’anno per discutere ordini del giorno che spesso riguardano proprio la salute psichica dei detenuti e le misure da adottare per migliorare le loro condizioni. Una recente riunione, del 22 marzo scorso, si è occupata nello specifico di criticità relative all’assistenza di persone con problemi di salute mentale e dipendenze negli istituti penitenziari del Friuli Venezia Giulia; vi hanno preso parte i referenti dei Dipartimenti delle dipendenze di salute mentale delle aziende sanitarie regionali. Lo stesso Osservatorio ha previsto ulteriori riunioni per affrontare in maniera costante e monitorare in modo concreto i problemi di salute mentale e di dipendenza che possono insorgere all’interno delle diverse case circondariali, anche attuando progetti specifici basati sulla persona, con metodologie di lavoro caratterizzate da interdisciplinarietà e multiprofessionalità. Il vicepresidente con delega la Salute ha infine ricordato che le aziende regionali attuano un costante monitoraggio degli eventi suicidari negli istituti penitenziari; in questo delicato ambito è continua la formazione degli operatori. I temi di salute mentale e dipendenze in ambito carcerario sono affrontati pure all’interno delle linee annuali per la gestione del servizio sanitario regionale che prevede una particolare attenzione da porre alla gestione della salute dei detenuti con bisogni complessi. Benevento. Rischia il suicidio se continuano a lasciarlo in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2022 Il caso di Francesco Domenico Sposato, ristretto a Benevento nella sezione psichiatrica con sintomi psicopatologici, è stato segnalato alla ministra della Giustizia e al Dap dall’associazione Yairaiha Onlus. Ha un complesso di sintomi psicopatologici del quale fanno parte alterazioni dell’umore, attivazione ansiosa del sistema dell’allerta, fenomeni dispercettivi, fenomeni neurovegetativi, disordini delle condotte. Attualmente è ristretto, in custodia cautelare, nella sezione psichiatrica del carcere di Benevento. Dai referti medici emerge che è a rischio suicidio e se non gli viene concessa una misura cautelare meno afflittiva potrebbe aggiungersi alla macabra lista delle morti in carcere. A segnalare il caso alla ministra della Giustizia a al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), è l’associazione Yairaiha Onlus. Si tratta di Francesco Domenico Sposato, il quale prima era assegnato alla Casa circondariale di Vibo Valentia e da poco trasferito presso la Casa circondariale di Benevento, nella sezione di Osservazione psichiatrica. Il detenuto Sposato, come si evince dalla copiosa documentazione medica, è affetto da crisi di ansia e disturbi di natura depressiva di livello moderato/grave, oltre a essere soggetto a un progressivo scadimento delle funzioni cognitive e da deperimento fisico. Il complessivo stato di salute di Sposato, in particolare i problemi di natura psicologica, costituiscono segnali importanti da non sottovalutare, in relazione a condotte suicidarie dello stesso. Il detenuto ha un’ossessiva tendenza a pensieri di morte - L’associazione Yairaiha segnala infatti, all’interno della documentazione, l’ossessiva tendenza a pensieri di morte da parte del detenuto. Nella missiva rivolta alle autorità si sottolinea l’allarmante numero di detenuti che si sono tolti la vita dentro le mura, preoccupa la possibilità che anche il recluso Sposato si abbandoni a questa tragica fine. Considerata la molteplicità di decreti ministeriali e circolari amministrative sul tema della prevenzione dei suicidi in carcere e, in particolare, l’adozione del “Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti” (G.U. del 14/08/2017), che prescrive di monitorare il succedersi di situazioni potenzialmente stressanti al fine di valutare il rischio suicidario, l’associazione Yairaiha si unisce alla richiesta di sostituzione della misura cautelare in carcere con una meno afflittiva, avanzata dai difensori di Sposato. Per le perizie è inadeguato il mantenimento dell’ordinario regime detentivo - A sostegno di tale richiesta, contribuiscono anche le conclusioni della stessa relazione peritale, in cui viene considerato inadeguato, alla luce delle condizioni di salute psicofisica del recluso, il mantenimento dell’ordinario regime detentivo, soprattutto ai fini diagnostico terapeutici. Per tale ragione, dubbi vengono avanzati in merito allo spostamento in una delle sezioni di Osservazione psichiatrica disponibili in locali attrezzati dell’Amministrazione penitenziaria per controlli più approfonditi, soprattutto in considerazione delle carenze strutturali e dell’inidoneità ad ospitare detenuti delle attuali sezioni presenti nelle province calabresi (ne è esemplificativa la condizione di quella della Casa circondariale “G. Panzera” di Reggio Calabria). “A tal proposito - conclude Yairaiha Onlus - abbiamo ritenuto doverosa la predisposizione della presente segnalazione, nella speranza che le condizioni di salute del signor Sposato ricevano le adeguate attenzioni dalle competenti Autorità, con preghiera di immediato intervento”. La vicenda di Sposato, conferma ancora una volta quanto sia disastroso il carcere per chi ha patologie psichiatriche che portano, quasi inevitabilmente se non si agisce subito, al suicidio. All’interno di un carcere, la salute mentale è più vulnerabile di quanto non accada nella società libera. Sono diversi gli studi che mostrano come nel sistema penitenziario la percentuale di soggetti affetti da patologie psichiatriche sia più elevata che all’esterno. I disturbi d’ansia generalizzata della fase iniziale, se il disadattamento persiste, possono diventare attacchi di panico e claustrofobia, quest’ultima data dallo spazio chiuso e invariato che può provocare sensazioni di compressione spaziale simili al panico claustrofobico. A lungo andare il contesto detentivo può causare al soggetto grave psicosi e senso di irrealtà. Molti detenuti manifestano poi un’irritabilità permanente, data da sentimenti di rabbia che possono essere somatizzati ed evolvere in patologie psicosomatiche: perdita di appetito, di peso, malessere generalizzato e aspecifico, esasperazione dei problemi medici preesistenti, disturbi visivi, tachicardia. La rabbia, laddove non si prosegua un obiettivo tangibile nella vita quotidiana, come spesso accade durante la detenzione, può essere percepita come stato depressivo e, se mal gestita, può condurre a episodi di autolesionismo e suicidio. Bolzano. “Figlio morto in cella, la madre vuole la verità” di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 26 maggio 2022 Aperta un’indagine per omicidio colposo. L’avvocata di Kozlowski: la famiglia non crede all’ipotesi del suicidio. “Voglio sapere come e perché è morto mio figlio”. Non si dà pace la madre di Oskar Kozlowski, il 23enne finito in carcere a luglio per l’omicidio di Maxim Zanella, e che lunedì scorso è stato trovato morto dagli altri detenuti. Riverso, accanto al fornelletto dal campeggio del quale parre abbia inalato il gas. La famiglia non crede all’ipotesi del suicidio, e la Procura ora indaga per omicidio colposo, al momento contro ignoti. È attesa per l’esito dell’autopsia (entro 60 giorni), eseguita venerdì scorso dal medico legale Dario Raniero, appena mezz’ora dopo il conferimento dell’incarico. “Aspettiamo fiduciosi l’esito dell’esame - fa sapere l’avvocato di Kozlowski, Alessandra D’Ignazio -. Il solo dal quale potranno arrivare delle risposte”. Sabato, a Brunico, si svolgeranno i funerali del ragazzo che era ben voluto da tutti. E che in carcere non è mai rimasto solo: amici e colleghi di lavoro hanno continuato a inviargli delle lettere di supporto, e anche la madre, per le vie della città, veniva spesso fermata dai conoscenti, per un gesto di conforto. Conforto che ora difficilmente potrà trovare, se non con l’ultimo saluto a quel figlio perseguitato dalle ombre. Kozlowski, infatti, si era avvicinato al satanismo, ed è proprio per praticare un rito che, la sera del 28 luglio dello scorso anno, avrebbe incontrato Zanella, 30 anni, nell’appartamento di lui, a Brunico. Ma ancora prima di iniziare a praticare il rito, che sarebbe consistito nel versare alcune gocce di sangue su un teschio animale, in una stanza buia illuminata da candele, il 23enne aveva estratto un coltello e colpito l’amico con un unico fendente, tra la clavicola e il collo. Zanella era morto dissanguato, mentre Kozloswki aveva iniziato a vagare per le strade di Brunico. Liberandosi dell’arma del delitto e del cellulare, prima di arrivare in Pronto soccorso. Da dove aveva chiesto agli operatori di chiamare i carabinieri che avevano poi trovato il corpo di Zanella ormai senza vita. Kozlowski aveva confessato l’omicidio, ma mai il movente, che ad oggi pare non esserci stato. Al termine di una delle due udienze alle quali aveva partecipato, aveva chiesto scusa alla famiglia dell’amico. E in carcere, aveva raccontato di essere tornato “a credere in Dio dopo il delitto”. Ma, a questo punto, il vero motivo di quel gesto efferato non si saprà mai. Lasciando senza risposte due famiglie: quella di Kozlowski, ma anche quella di Zanella. L’indagine per l’omicidio, infatti, nell’ambito della quale il giudice delle indagini preliminari aveva incaricato tre esperti per condurre una perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere di Kozlowski, si è conclusa con la morte dell’unico indagato. E una seconda indagine è stata aperta ora, dopo la sua morte, nel carcere di via Dante. Lunedì scorso, attorno alle 18.30, Kozlowski si era chiuso nel bagno-cucina della cella che condivideva con gli altri detenuti. I quali non si erano insospettiti, almeno fino a quando non avevano sentito un tonfo da dietro la porta, chiusa a chiave. L’avevano chiamato, ma lui non rispondeva, e a quel punto avevano forzato la porta, trovandolo a terra accanto al fornelletto del gas. Invano, il medico del carcere aveva provato a rianimarlo per un’ora e mezza. Finché non era andato in arresto cardiaco. Adesso la Procura, nell’indagine coordinata dal pm Andrea Sacchetti, ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di omicidio colposo. Una prassi, nei casi di morte in carcere, per capire se nella rete di protezione dei detenuti ci siano state eventuali “falle”. E un atto dovuto, secondo D’Ignazio, perché sulla morte di Kozlowski non calasse immediatamente il silenzio: “La famiglia ha il diritto di sapere perché e come è morto Oskar”. Anche perché, quello di Kozlowski, non è un caso isolato, di detenuti che perdono la vita inalando il gas dai fornelletti da campeggio in dotazione nelle carceri. Difficile, per i famigliari, credere all’ipotesi del suicidio. Per quanto già a marzo, il 23enne avesse cercato di farla finita, tagliandosi le vene con una lametta da barba. Salvato dai compagni di cella, aveva poi chiesto di essere piantonato, dicendo di aver paura per se stesso. Forse, per la difficoltà a sopportare la vita in carcere. D’Ignazio stessa, in sede di riesame, aveva chiesto, per lui, il ricovero in una struttura specializzata. Ma invano. L’altra ipotesi al vaglio degli inquirenti è quella dell’incidente: forse, Kozlowski voleva solo inalare il gas dal fornelletto per stordirsi. Avellino. Presentato il report 2021 sugli istituti carcerari irpini avellinotoday.it, 26 maggio 2022 Il Garante dei detenuti Ciambriello: “La sanità penitenziaria, da tredici anni, appartiene alle Regioni e non più al Ministero. Allora faccio una richiesta pubblica: stabilizziamo gli operatori della sanità”. Continuano gli appuntamenti organizzati dal Garante dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale della Campania, che dopo Benevento e Salerno, ha presentato ad Avellino, presso Palazzo Caracciolo, la sua Relazione annuale 2021. Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti, traccia una panoramica della situazione in cui versano le case circondariali della nostra provincia: “Abbiamo avuto, l’anno scorso, durante il periodo pandemico un centinaio di infrazioni da parte dei detenuti, perlopiù con sofferenza psichica. Vi sono stati dodici tentativi di suicidio al carcere di Bellizzi Irpino, prontamente sventati dagli agenti della Polizia Penitenziaria. Quest’anno si è verificato un suicidio, il terzo in Campania, sempre qui a Bellizzi. Abbiamo un vero problema, che è quello del disagio psichico: detenuti con sofferenza che non possono essere né aiutati, né curati. Qualche anno fa, l’Asl ha bandito un concorso per uno psichiatra, ma è andato deserto. In provincia di Avellino, a San Nicola Baronia, abbiamo una REMS con 20 posti. Lo scandalo è a Sant’Angelo dei Lombardi, lo sottolineo da anni: nel miglior carcere del mondo, c’è un’articolazione psichiatrica per 10 posti, riservati a detenuti malati, ma da anni c’è sempre un solo detenuto, sempre lo stesso. Io credo che sia omissione in atti di ufficio. Bisogna fare presto, non ci sono alibi. Ad Avellino manca un po’ di società civile, mancano un po’ di comuni che avviano lavori di pubblica utilità, manca un’attenzione dall’esterno. Buone prassi ci sono, il maggior numero di diplomati è a Bellizzi Irpino, ma gli spazi sono pochi. Ad Ariano Irpino costruiscono sul campo sportivo un padiglione nuovo: non sanno che fare i detenuti ad Ariano. Non c’è una politica che si occupa del tema delle carceri”. Aspetto positivo: “Il Consiglio Regionale della Campania, in una sessione monotematica dello scorso 3 maggio, ha discusso della mia relazione annuale. Lì hanno deciso subito di mettere su una REMS in provincia di Napoli, avviare un maggior numero di corsi professionali, aprire poli universitari. La sanità penitenziaria, da tredici anni, appartiene alle Regioni e non più al Ministero. Allora faccio una richiesta pubblica: stabilizziamo gli operatori della sanità”. Il Procuratore aggiunto della Repubblica di Avellino, Vincenzo D’Onofrio, è intervenuto nel corso della discussione: “L’errore è a monte. Spesso vado all’estero e, quando dico che in Italia esiste la figura del Garante dei detenuti, i miei colleghi si meravigliano del fatto che la garanzia dei detenuti debba provenire da una figura ufficiale, pubblica, che però è esterna all’amministrazione della giustizia. La garanzia dei detenuti dovrebbe essere offerta dallo Stato in generale, non da una singola persona che non è mai in condizione di garantire i diritti di tutti. In Italia siamo campioni con gli interventi campione e non abbiamo ancora risolto il problema degli istituti penitenziari. La capacità di rieducazione e lo scopo finale della pena non sono mai stati realizzati a causa dell’assenza di interventi strutturali. Sono strumenti che non possono essere generalizzati, perché vi può essere tanto un magistrato celere, quanto uno più lento perché, come vuoto di organico, deve gestire anche le istanze dei colleghi assenti”. “Il problema delle carceri non è dato dalla presenza di troppi detenuti sottoposti a misure cautelari, bensì dalla presenza di troppi detenuti in strutture che non sono in condizioni di riceverli” conclude D’Onofrio. “La misura cautelare carceraria è, per rarissimi casi, concessa e soltanto per determinati reati, come quelli per associazione mafiosa. Ma, il più delle volte, i detenuti, anche per reati gravi, non sono detenuti in carcere con misura cautelare”. Milano. I detenuti di Opera e Bollate ospiti “speciali” in Senato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2022 Il Senato della Repubblica ha accolto gli ospiti “speciali”, il cui ingresso non era mai stato ipotizzato prima. A Palazzo Giustiniani a Roma, si è tenuto il Convegno “Una mappa per la pena - ridurre la libertà per ampliarla”. Oltre a tantissimi esponenti della politica, tra cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il senatore Franco Mirabelli, promotore dell’incontro, per la prima volta in assoluto, sono state aperte le porte della Sala Zuccari, sede di tantissimi eventi, ai detenuti ed ex detenuti della casa di reclusione di Milano Opera e Bollate. Alcuni di loro, in carcere per reati gravissimi, tra cui di mafia, fanno parte del “Gruppo della Trasgressione”, che, guidati dallo psicoterapeuta Angelo Aparo, da anni seguono un percorso di crescita, grazie al quale hanno preso coscienza delle loro azioni. Aparo, a tal proposito, ha dichiarato: “Portare la nostra esperienza al Senato è per noi un onore e una gratificazione. Il convegno è un’occasione di confronto sulla tematica della punizione e su come questa possa sposarsi con la rieducazione”. “Per la prima volta i detenuti del carcere di Opera sono entrati in Senato grazie al Gruppo della Trasgressione, un esempio di buona pratica perché il penitenziario svolga la funzione costituzionale di rieducazione del condannato nell’espiazione della pena. Con questo incontro abbiamo voluto testimoniare che il carcere può e deve essere uno strumento di rinascita per chi delinque, attraverso il lavoro su se stessi”. Lo dice il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo del Pd al Senato e capogruppo in Commissione Giustizia. “Quando facciamo iniziative come queste ha continuato Mirabelli - rischiamo sempre che arrivi qualcuno a dirci “con tutti i problemi che ci sono vi occupate di carcere, di diritti delle persone detenute”, ma io penso che bisogna smettere di contrapporre la soluzione dei tanti problemi del Paese ai diritti civili. Dobbiamo occuparci di tutte queste questioni e dobbiamo farlo nel rispetto della Costituzione”. Infine il senatore ha aggiunto: “Noi stiamo lavorando come maggioranza e come governo, anche con la riforma del processo penale - ha detto ancora Mirabelli- perché il carcere sia l’estrema ratio, non una soluzione a tutta la devianza e non uno strumento di afflizione. Credo che esperienze come quella del “Gruppo della Trasgressione” non debbano andare perdute, ma proseguire ed essere estese ad altri penitenziari”. Roma. Da Verbania in Vaticano: il dono di due detenuti al Papa di Marco Belli gnewsonline.it, 26 maggio 2022 Michele ama ricamare, Lorenzo è abile nel disegno. Si conoscono in una stanza del carcere di Verbania e dal loro incontro nasce una storia di impegno, creatività e sostegno reciproco nel ritrovare la strada giusta. Una strada che oggi ha segnato una tappa decisiva con l’incontro con Papa Francesco durante l’udienza generale del mercoledì. A Bergoglio hanno portato in dono uno stendardo con i simboli vaticani, delle notevoli dimensioni di due metri per uno, disegnato e ricamato insieme, e composto di un milione e 300 mila punti. “Per lo sfondo giallo e bianco sono serviti tantissimi fili di colori gialli diversi”, hanno spiegato. “Ogni punto giallo è un detenuto”. L’invito all’udienza è arrivato dopo un’intervista che la locale Garante dei detenuti, Silvia Magistrini, aveva rilasciato lo scorso aprile a Radio Vaticana, nella quale raccontava le iniziative nel carcere di Verbania. È seguito l’invio al Pontefice di una scatola di dolci della “Banda Biscotti”, realizzati da detenuti dell’istituto. In quell’occasione Michele e Lorenzo avevano chiesto di aggiungere un loro piccolo lavoro di ricamo. “Ogni punto è un pensiero”, avevano scritto nella lettera che accompagnava il dono. Dopo soli dieci giorni è arrivato l’invito in Vaticano. A donare oggi lo stendardo a Papa Francesco non c’erano solo Michele, Lorenzo e i tre uomini della scorta. Erano presenti la direttrice della Casa circondariale, Stefania Mussio, il comandante, l’educatrice, la psicologa, le due magistrate di sorveglianza, la sindaca di Verbania, la garante comunale e il garante regionale dei diritti dei detenuti. Un’intera comunità, insomma, dove il contributo di un componente s’intreccia con quello di tutti gli altri. Una dimensione collettiva sottolineata anche dalla scelta di Michele e Lorenzo di non firmare l’opera con i loro nomi, ma di scrivere semplicemente “le persone detenute della casa circondariale di Verbania”. Roma. Quel ricamo che unisce le celle del carcere e del monastero di Giampaolo Mattei L’Osservatore Romano, 26 maggio 2022 Sinodalità. Okay, ma come si fa in concreto, nella quotidianità e, soprattutto, nei contesti più complicati? Tre “risposte” sono state presentate stamani a Papa Francesco durante l’udienza generale in piazza San Pietro. Tre storie di sinodalità applicata alla realtà del carcere, della guerra in Ucraina e dell’inclusione del popolo Rom. La comunità del carcere di Verbania - sì, proprio comunità - ha incontrato il Papa per donargli il segno della collaborazione tra due detenuti - L.O. e N.S. - con le benedettine del monastero di clausura Mater Ecclesiae sull’isola di San Giulio nel lago d’Orta: uno stendardo con i colori vaticani ricamato a mano dai detenuti intrecciando i fili offerti dalle monache. “È nata questa amicizia umana e spirituale tra persone che abitano in due diversi tipi di “celle”: quella della prigione dove ci si sta per un errore e quella del monastero dove si vive per una scelta d’amore” racconta la direttrice del carcere, Stefania Mussio. Questo collegamento così particolare, come anche la possibilità di incontrare stamani il Papa, si deve all’esperienza del carcere come comunità, rilancia la direttrice. E così sono coinvolti, tra gli altri, “gli agenti di polizia penitenziaria con il comandante Domenico La Gala, la garante comunale per i detenuti Silvia Magistrini, e due magistrate che hanno saputo interpretare in modo lungimirante le norme per consentire che questa esperienza andasse a buon fine: Monica Cali e Marta Criscuolo”. Proprio accanto ai detenuti, alcuni gruppi di ucraine - donne e bambini, di età compresa tra gli 88 anni e 6 mesi - accolte nelle parrocchie italiane. “Un’esperienza di accoglienza e di sinodalità” affermano i parroci. E così le comunità di Santa Lucia a Roma e di Santa Maria del Giglio e San Michele arcangelo a Veroli stanno dando vita a “un progetto comune di accoglienza per dodici famiglie ucraine”. In collegamento spirituale - ma anche attraverso la piattaforma “Zoom” - con padre Pavlo, parroco di San Nicola a Kiev. Spiega don Alessandro Zenobbi, parroco di Santa Lucia: “In questo mese di maggio stiamo vivendo il rosario quotidiano per chiedere il dono della pace e 5 comunità si trovano su “zoom” per pregare insieme, ognuna nella propria chiesa”. Alle parrocchie di Roma, Veroli e Kiev, si aggiungono infatti la cappellania di Lourdes e il Pontificio collegio Ucraino di San Giosafat al Gianicolo. “Più sinodalità di così” dicono. È lo stesso servizio di accoglienza che sta offrendo a 25 ucraini la parrocchia San Giovanni Paolo II di Merine, nell’arcidiocesi di Lecce. Dice il parroco, don Luca Nestola: “Con il sostegno della Caritas diocesana, la nostra comunità sta vivendo un’esperienza molto bella di accoglienza e di crescita. La guerra la vediamo in tv. Ma con le persone che abbiamo accolto, arrivate dall’Ucraina, si sta creando un rapporto di fraternità che accresce il senso di responsabilità e di accompagnamento”. Dall’Irlanda sono venuti per incontrare il Papa cinque rappresentanti del popolo Rom a nome di “The Travelling Community”. Guidati da Dennis Ward, 53 anni, collaborano in particolare con il religioso cappuccino padre Bryan Shortall. Particolarmente significativo, inoltre, l’incontro del Pontefice con Theresa Ardler, che ha portato in piazza San Pietro la voce degli aborigeni australiani. Ufficiale di collegamento della Ricerca indigena all’Università Cattolica australiana, direttrice di “Gweagal Cultural Connections”, era accompagnata da Chiara Porro, ambasciatore del Paese oceanico presso la Santa Sede. E con suor M. Joseph Michael, indiana, 68 anni, eletta lo scorso 14 marzo superiora generale della congregazione delle Missionarie della carità, fondata da santa Teresa di Calcutta. Erano presenti le 16 religiose che lunedì hanno emesso la professione religiosa. Don Roberto Donadoni ha accompagnato all’incontro con il Papa il gruppo composto dai “genitori con un figlio in cielo”. Da vent’anni questa realtà, spiega il sacerdote veneziano, è un’esperienza di amicizia e di sostegno per “famiglie che hanno perso figli in circostanze tragiche, come malattie e incidenti stradali”. E, infine, non è mancato l’affettuoso augurio di Francesco per Rina Meucci, originaria di Montecatini Terme, per i suoi 100 anni, compiuti a ottobre scorso. “A mia sorella Edj e a me aveva chiesto un regalo: incontrare il Papa” racconta il figlio Giovanni. Detto fatto. Padova. Dal male al bene. Il teatro fa vibrare l’umanità in carcere di Angela Calvini Avvenire, 26 maggio 2022 Babele e Gerusalemme Celeste evocano la contrapposizione tra male e bene. Due aspetti che coesistono anche in ognuno di noi. Questo il concetto della serata spettacolo Da Babele alla città celeste con Teatrocarcere Due Palazzi, Lidia Maggi (biblista), don Roberto Ravazzolo (direttore Opsa), in programma domenica 29 maggio alle 16 al teatro dell’Opsa a Sarmeola, frazione di Rubano (Padova), Via della Provvidenza, 68. Lo spettacolo si svolge all’interno del Festival Biblico ed è curato da Maria Cinzia Zanellato, che dagli anni 90 si occupa di teatro sociale e inclusivo, e dal 2005 è capofila del progetto Teatrocarcere con i detenuti dell’alta sicurezza della casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova, sostenuto da Associazione Universale Sant’Antonio e Regione Veneto. E saranno proprio i detenuti-attori i protagonisti del lavoro che nasce in collaborazione con Opsa - Opera Provvidenza Sant’Antonio, struttura socio sanitaria della diocesi di Padova. Nel lavoro teatrale, appunto, sono al centro il male e il bene, l’idea che possiamo assecondare la costruzione di una città come Babele, oppure tentare di edificare la città con un volto Altro. Con la disponibilità ad accogliere e a trasformare i nostri aspetti autoreferenziali ed egoistici in fiducia e apertura verso l’altro. È quello che spiega ad Avvenire la Zanellato: “Emerge dai percorsi dei detenuti attori questo guardare a se stessi in autenticità, e rimettersi profondamente in discussione. C’è il desiderio di cambiamento in bene di una vita che nel passato, per alcuni di loro, non ha offerto molte opportunità. Nello spettacolo i brani autobiografici testimoniano questo vibrare”. Il Teatrocarcere patavino, che vanta anche una collaborazione importante con il regista Gabriele Vacis, partecipa al Festival Biblico dal 2017, il che dona un valore aggiunto al lavoro teatrale. “Partecipare al Festival biblico vuol dire avere l’opportunità di lavorare su dei contenuti e dei temi che sottolineano le narrazioni esistenziali all’interno della Bibbia - aggiunge la regista. Le esperienze umane bibliche presentano dei nodi cruciali che risuonano anche nelle esperienze contemporanee. Molto importante è il concetto cristiano di rinascita in carcere”. L’orizzonte culturale più ampio è il teatro come spazio di mediazione sociale, secondo il concetto di giustizia riparativa, sottolinea la Zanellato: “Se si fa attività con persone all’interno del carcere, occorre avere questo orizzonte, che la giustizia non è solo quella della condanna, ma la priorità è la giustizia retributiva, affiancata al risanamento delle ferite sociali, occupandosi prima della vittima e poi, se c’è un percorso di cambiamento, donare a chi ha commesso il reato la possibilità di una nuova vita”. Ad accompagnare il lavoro teatrale è il testo di Erri De Luca sulla Torre di Babele “che, con il suo moltiplicarsi di lingue, non è una punizione ma una liberazione - prosegue la Zanellato. All’interno sono stati aggiunti brani autobiografici scritti dagli attori detenuti, che si trovano anch’essi tra Babele e la Gerusalemme celeste, in una contrapposizione interiore fra bene e male. In questa storia biblica possono rivedersi e decidere di andare nella direzione del cambiamento”. Un legame forte con la spiritualità in questo Da Babele alla Gerusalemme celeste che si svolgerà nella struttura sanitaria diocesana, con una rappresentanza della compagnia (che conta 20 attori) formata da 8 detenuti attori in permesso più cinque giovani volontari. “Il riferimento al cardinale Martini è imprescindibile - aggiunge la Zanellato - una serie di intuizioni sono state fondate dalla sua esperienza dentro il carcere di San Vittore e come studioso delle sacre scritture: riuscire a leggere una realtà come quella del carcere attraverso i testi della Bibbia”. Il teatro, quindi, inteso come spazio di mediazione sociale nel quale si dà possibilità ai detenuti di ragionare in termini esistenziali, “perché il teatro permette di venire a contatto con se stessi, di lavorare in gruppo e di recuperare la relazione con l’esterno”. Padova. Da Babele alla città celeste di Nicola Benvenuti La Difesa del Popolo, 26 maggio 2022 All’Opsa, domenica 29 maggio alle 16, appuntamento con Teatrocarcere Due Palazzi, Lidia Maggi (biblista) e don Roberto Ravazzolo (direttore dell’Opsa). “Da Babele alla Città celeste” è il titolo dell’appuntamento in programma domenica 29 maggio alle 16 nel teatro dell’Opsa a Sarmeola. Teatrocarcere Due Palazzi, progetto attivo dal 2005 nella casa di reclusione dì Padova, porta in scena la contrapposizione tra bene e male - Babele e Gerusalemme celeste, appunto - e “dialoga” con Lidia Maggi, biblista, e don Roberto Ravazzolo, direttore dell’Opsa. L’esperienza del teatro inclusivo e di comunità, che sta al centro del progetto Teatrocarcere, vive del concetto di recupero della relazione e delle capacità comunicative come presupposto all’inclusione sociale. Per questo la regista Maria Cinzia Zanellato si è ispirata al pensiero del card. Carlo Maria Martini, che in tutta la sua attività a Milano tu spesso presente a San Vittore, elaborando così l’idea di “giustizia riparativa”, che partendo dalla dignità della persona ha anche lo scopo di tarla guardare avanti, senza dimenticare il passato, ma dando spunti di rinascita. “È un concetto fondamentale per chiarire i presupposti che sostengono e centrano tutta la progettualità che stiamo portando avanti da molti anni e che ci ha visti tornare pochi giorni fa da un incontro con i monaci di Bose, che è stato davvero molto profondo” continua la regista, che qualche mese fa ha vissuto un’altra bella esperienza con Teatrocarcere nell’unità pastorale di Codevigo. Tra gli intenti del progetto vi è “l’esperienza corporeo-vocale-relazionale delle attività teatrali e di canto corale, che favorisce la maturazione di uno stile comunicativo assertivo e di capacità di autoregolazione emotiva che influiscono positivamente sulla qualità delle relazioni delle persone detenute coinvolte, mentre le occasioni di dialogo e riflessione, a partire da elementi artistici, stimolano la rielaborazione drammaturgica dei vissuti delle persone detenute”. Proprio per questo è importante che la relazione si svolga in un’ottica di sistema sia tra le persone detenute stesse all’interno della realtà carceraria, sia come relazione aperta con il territorio e la cittadinanza mediante la realizzazione di attività culturali (come il Festival biblico, ad esempio, dove Teatrocarcere è una presenza consolidata), sociali, pedagogiche che possano favorire una più ampia partecipazione creando le premesse per il vero reinserimento delle persone detenute, in collaborazione con le varie agenzie educative. “Facciamo nostro l’invito di Martini a pensare a nuove e più coraggiose forme di giustizia penale - conclude Maria Cinzia Zanellato - con il desiderio di combattere il male in maniera efficace, dì provvedere alla sicurezza e all’ordine della società, e nel sostenere i condannati perché possano ritrovare quella capacità di bene che pure hanno nel profondo del cuore”. Milano. “Il filo di Arianna”, donne in carcere aiutano pazienti oncologiche tgcom24.mediaset.it, 26 maggio 2022 Le detenute di San Vittore hanno realizzato dei turbanti per le donne in cura: l’iniziativa è un’idea della onlus “Go5”. Giovedì 26 maggio, alle ore 18, allo spazio Alda Merini a Milano, si terrà un incontro in cui verranno illustrati i risultati della prima edizione de “Il filo di Arianna”, progetto dedicato alle pazienti con il tumore metastatico al seno per aiutarle a trovare l’equilibrio necessario per condurre una vita normale. Saranno coinvolti anche l’equipe di psicologi e oncologi dell’Istituto Nazionale dei Tumori. Nell’ambito del progetto, è stata svolta un’iniziativa, ideata dalla Onlus “Go5 - Per mano con le donne”, che ha coinvolto le detenute. Il primo passo è stato avviare una collaborazione con il carcere San Vittore a Milano, dove sono stati creati e offerti turbanti per le malate oncologiche, il copricapo ormai più usato dalle donne che perdono i capelli. L’aiuto delle detenute - Successivamente, sono state coinvolte le detenute del reparto di alta sicurezza di Vigevano, le quali, in collaborazione con Caritas, confezionano borse ed altri accessori, tra cui gli immancabili turbanti, disegnati da Helen Field. I tessuti provengono da campionari o fine collezione donati da aziende tessili come Ratti e Clerici o da imprenditori del settore come Max Pavesi, all’insegna dell’economia circolare. Proprio il ricavato della vendita di questi accessori è stato utilizzato per finanziare “Il Filo di Arianna”. L’evento allo spazio Alda Merini a Milano - Durante l’incontro di giovedì 26 maggio, saranno illustrati i risultati della prima edizione del progetto “Il filo di Arianna”, che si concretizza attraverso cicli di incontri di gruppo a cadenza settimanale, sia in presenza sia via web, in cui psicologi, oncologi, terapisti del dolore, radioterapisti, nutrizionisti e anche dermatologi ed esperti di make up affiancano le donne nel loro percorso di cure. All’evento interverranno Claudia Borreani, responsabile della struttura di Psicologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, Luciana Murru e Sara Alfieri, psicologhe e coordinatrici del progetto e il prof. Alberto Scanni, presidente emerito del Collegio Primari Oncologi Ospedalieri. Inoltre, è in programma un breve reading di alcune attrici del Cetec-Centro Europeo Teatro e Carcere che daranno voce alla testimonianza di una paziente. Infine, per chi lo desidera, si terrà la visita in versi alla stanza di Alda Merini. Verbania. Gattabuia, serata per lo sport in carcere di Roberto Bioglio Eco Risveglio, 26 maggio 2022 Una novantina di persone hanno partecipato alla cena benefica organizzata giovedì 19 maggio alla Gattabuia di Verbania dalla Cooperativa il Sogno in collaborazione con Camminare insieme e Alternativa A... per raccogliere fondi per potenziare le strutture sportive all’interno del carcere di Verbania. Alla serata erano presenti oltre alla direttrice del carcere Stefania Massio, Erika Bardi e Lorenzo Rolando della Coop Il sogno, Mariangela Ragazzoni di Camminare insieme, Maurizio De Paoli della Fondazione comunitaria (che ha garantito il proprio sostegno all’iniziativa) oltre al garante verbanese dei detenuti Silvia Magistrali e quello piemontese Bruno Mellano. Per l’amministrazione comunale c’erano la sindaca Silvia Marchionini, la vice Marinella Franzelli, gli assessori allo Sport Patrick Rahaini e alla Cultura Riccardo Brezza. Ospite d’onore il campione di boxe Ivan Zecco che ha ricordato l’importanza delle attività sportive “che servono a insegnare il rispetto delle regole e dell’avversario”. Ancora troppi i suicidi in custodia cautelare in carcere in Europa di María Álvarez Del Vayo* voxeurop.eu, 26 maggio 2022 In Europa il tasso di suicidio dei detenuti in attesa di giudizio è il doppio di quello dei detenuti condannati, rivela un’inchiesta collaborativa fra otto giornali europei coordinata dalla Ong Civio. “C’è una grande tristezza in prigione, mascherata da ostilità. Il dolore è visibile, chiaramente, anche nei volti di chi è più arrabbiato”. Questo messaggio è stato pubblicato sull’account Twitter di John McAfee il 10 giugno 2021. Tredici giorni dopo, il creatore dell’antivirus McAfee è morto nella sua cella, nel carcere Brians 2 di Barcellona, dove aveva trascorso otto mesi in detenzione cautelare, in attesa di estradizione negli Stati Uniti per diversi (e presunti reati) di evasione fiscale e mancato pagamento delle tasse. Poco prima del gesto, McAfee ha lasciato un biglietto nella sua tasca: “Visto che non posso viverlo pienamente, almeno voglio controllare il mio futuro, che non esiste”. Un’autopsia ha confermato il suicidio. Nel 2021, secondo i dati dello studio Space del Consiglio d’Europa, 480 persone si sono suicidate nelle prigioni dei paesi dell’Ue: di queste, 172 si trovavano in detenzione preventiva. Si tratta di persone in attesa di giudizio: questo significa che la loro presenza in carcere non era dovuta ad una condanna definitiva. La prigione, specialmente quando si tratta di custodia cautelare, aumenta il rischio di suicidio: nel 2021, ci sono stati 17,5 suicidi ogni 10.000 detenuti in custodia cautelare, il doppio del resto della popolazione carceraria (8,54). Per paese, i tassi più alti si sono registrati in Repubblica Ceca (51 suicidi per 10.000 detenuti in custodia cautelare), Lettonia (50,3), Austria (47,3) e Francia (43,1). In numeri assoluti, le cifre peggiori sono state registrate nel 2021 in Francia, dove 175 persone si sono tolte la vita (77 di loro erano ancora in attesa di giudizio). Queste cifre non sono un problema isolato: uno studio, condotto in 24 paesi e pubblicato nel 2017 sulla rivista The Lancet Psychiatry, aveva già messo in guardia rispetto all’alta prevalenza di suicidi nelle prigioni francesi. Il suicidio: un problema complesso - “Non sapevo se sarei uscito, quindi ho messo le dita [nella presa] per provare, ma non è successo niente perché le prese erano protette, altrimenti sarebbe finita lì”, racconta al telefono José Luis, che ricorda con particolare durezza il periodo di detenzione preventiva nel carcere spagnolo di Picassent. José Luis ha trascorso in quel carcere un anno e diversi mesi in attesa di giudizio, fino a quando è stato trasferito nell’ospedale psichiatrico del carcere di Fontcalent, perché le accuse penali sono cadute a causa della diagnosi di schizofrenia, malattia di cui soffre. Prima che la misura venisse decretata, la situazione di José Luis era molto complicata: “Avevo commesso un crimine, mi trovavo in uno stato d’animo pessimo, nella fase peggiore del mio disturbo. Non avevo una percezione chiara della realtà, ne conservo un ricordo orribile”. L’esperienza di José Luis non è unica, la maggior parte dei detenuti in detenzione cautelare affronta, stando alle parole dell’esperta Vanessa Michel, “il cataclisma dello sradicamento”. Michel, specialista al Secular Service of Aid to the Litigants and Victims (SLAJ-V) in Belgio, continua: “Penso che tutta questa incertezza crei molta ansia, un’ansia che è molto diversa dall’ansia che segue la condanna”. Essere in detenzione cautelare genera un’attesa incerta, nella quale i detenuti non sanno quando potranno comparire davanti al giudice o quando (e se) il mandato d’arresto potrà essere revocato. Inoltre, da un giorno all’altro, devono abituarsi a un ambiente molto diverso da quello al quale sono abituati e che viene loro imposto, insieme a degli sconosciuti. José Luis, a questo proposito, ricorda di aver passato un periodo difficile a causa di problemi con altri prigionieri. A questo si aggiunge la mancanza di controllo sulla situazione, di cui soffrono molte persone in attesa di giudizio. “Si passa dal pensare di avere il controllo sulla propria vita, all’essere improvvisamente controllati 24 ore al giorno e non avere assolutamente il potere di cambiare le cose. Quella sensazione di impotenza è molto dura da sopportare. Per me è la cosa peggiore del carcere”, spiega la psicologa carceraria María Yela, che ha lavorato in diverse prigioni spagnole e dove, dopo il pensionamento, lavora come volontaria. “Inoltre bisogna confrontarsi con il fatto di essere sospettato di qualcosa, l’insicurezza, l’imprevedibilità del futuro, è un’esperienza esistenziale”, aggiunge Eric Maes, ricercatore presso il dipartimento di criminologia operativa al National Institute of Criminalistics and Criminology (INCC) in Belgio. La probabilità di suicidio, avverte l’Organizzazione Mondiale della Sanità, aumenta durante le prime ore o giorni di detenzione. “Si tratta di un periodo molto, molto fragile, molto critico”, continua Maes. Quando fattori come l’isolamento improvviso, la mancanza di informazioni o un alto livello di stress si uniscono, è possibile entrare nel rischio di un comportamento suicida. Altre volte puo’ entrare in gioco la sindrome di astinenza, nel caso di detenuti che fanno uso di droghe, o l’impatto dei media, che possono anche influenzare le persone. “Abbiamo meccanismi di adattamento, che funzionano più o meno bene e, con il passare del tempo, raggiungiamo un equilibrio, per quanto precario possa essere”, spiega Enrique Pérez, capo della sezione di psichiatria dell’Ospedale Generale di Alicante (Spagna) e consulente dei centri penitenziari di Villena (Alicante II) e Alicante I. La prevenzione del suicidio in prigione - Essere in detenzione preventiva è uno dei principali fattori di rischio per i casi di suicidio. Lo dimostrano studi condotti nelle carceri in Francia, Norvegia, Catalogna (Spagna) e Germania. Di fronte a questo problema di salute pubblica, diversi paesi europei hanno messo in atto dei protocolli nelle prigioni, a scopo preventivo. Si tratta di programmi che possono includere misure come la rimozione di possibili mezzi o materiali con cui il detenuto potrebbe recarsi danno, un maggiore monitoraggio da parte di psicologi del carcere e l’assegnazione di personedi supporto, che diventano l’ombra della persona ritenuta a rischio di suicidio. Nonostante il generale buon funzionamento di questi sistemi, paesi come la Francia non hanno ancora un protocollo efficace, come denunciato nel 2019 da uno studio che ha spinto per l’adozione del piano VigilanS nelle prigioni, piano rivolto, di base, alla popolazione generale. Per Laure Baudrihaye-Gérard, direttore legale in Europa di Fair Trials, “va detto che nelle prigioni europee (in Francia e Belgio, in particolare) vigono condizioni orribili, profondamente degradanti: il suicidio dà un vero significato a ciò che questa condizione rappresenta, perdita di umanità”. Baudrihaye-Gérard continua, aggiungendo: “Non sai dove ti trovi e le pressioni sono enormi. E poi c’è la mancanza di accessibilità dei detenuti. Voglio dire, pensate che in giro ci siano degli psichiatri? O psicologi che ti sostengono?” Questa mancanza di risorse a cui fa riferimento Baudrihaye-Gérard riguarda anche le prigioni dove esistono protocolli contro il suicidio. “La percentuale di detenuti che sono assegnati a uno psicologo, o a qualsiasi altro professionista, è enorme. Non si può lavorare così”, racconta María Yela, psicologa penitenziaria. L’esperienza di José Luis non è stata migliore: “A Picassent vedevo lo psichiatra per cinque minuti ogni tre mesi e in quel momento ti valutava e ti diceva ‘continua con i tuoi farmaci’“. Anche per le persone che non hanno una precedente diagnosi di salute mentale, andare in prigione ha un enorme impatto psicologico che può finire per pesare sulla situazione. Uno studio in Germania ha scoperto che i detenuti in attesa di giudizio sviluppano spesso disturbi di adattamento con sintomi depressivi, e occasionalmente, pensieri paranoici. Il verificarsi di questi problemi, secondo lo studio, mostra “la maggiore vulnerabilità psicosociale” dei detenuti. La prevenzione del suicidio, tuttavia, rimane una questione molto complessa. “Gli esseri umani sono imprevedibili. Dobbiamo aiutare, cercare di fare prevenzione, ma è un comportamento che, se la persona vuole agire, non saremo in grado di impedire”, spiega María Yela. Secondo lo psichiatra Enrique Pérez, anche il sostegno che i detenuti ricevono dall’esterno del carcere, e la vita che hanno condotto precedentemente, possono giocare un ruolo essenziale nella prevenzione di queste morti. Per José Luis, i mezzi per evitarlo erano fondamentali: “Se avessi potuto suicidarmi, l’avrei fatto” *Traduzione di Francesca Barca La legge sulla pena di morte in Bielorussia è un affronto ai diritti umani di Andrea Walton linkiesta.it, 26 maggio 2022 La settimana scorsa il presidente Lukashenko ha introdotto la punizione capitale per il reato di pianificazione di atti terroristici: una mossa che colpisce i molti esponenti dell’opposizione detenuti nelle carceri dopo gli arresti di massa degli ultimi anni. Minsk è l’unica in Europa a usare con regolarità le esecuzioni. La settimana scorsa Bielorussia ha introdotto la pena di morte per il reato di pianificazione di atti terroristici. Svetlana Tikhanovskaya, che guida l’opposizione al presidente Alexander Lukashenko e in questo momento si trova in esilio in Lituania, è sotto processo in contumacia proprio per questo reato. E lo stesso vale per molti altri oppositori dell’uomo forte di Minsk. Migliaia di attivisti sono stati arrestati o sono fuggiti in esilio dopo la repressione delle manifestazioni di massa contro la rielezione, fraudolenta, di Lukashenko nell’estate del 2020 e il loro destino ora è a rischio. Il Capo di Stato, anche grazie all’aiuto di Mosca, ha resistito al cambiamento e ha consolidato il proprio potere ultra ventennale. Minsk, infatti, è cambiata molto poco dai tempi dell’Unione Sovietica e ha conservato un sistema politico autoritario e centralizzato. La Bielorussia è anche l’unico Paese europeo che adotta la pena di morte, presente nel codice penale sin dal 1991, e la impiega con regolarità. Anche se non esistono statistiche ufficiali in merito alle esecuzioni e le informazioni che si riescono ad ottenere sono scarse e incomplete. Secondo quanto riferito dall’International Federation for Human Rights, i condannati alla pena capitale sono soggetti a una serie di abusi e maltrattamenti psicologici all’interno delle carceri che li ospitano. Non possono comunicare con la propria famiglia, spesso non possono ricevere il proprio avvocato e non possono mai abbandonare la propria cella. La data dell’esecuzione è coperta da segreto e il condannato viene avvisato solamente il giorno stesso mentre la famiglia, a cui non viene restituito il corpo ne viene reso noto il luogo di sepoltura, viene informata con un mese di ritardo. Le esecuzioni vengono eseguite mediante un colpo di arma da fuoco alla testa. La pena capitale è prevista per 14 reati, ma non è applicabile a chi ha meno di 18 anni al momento del reato, alle donne incinte e a chi ha più di 65 anni al momento della sentenza. Le organizzazioni per i diritti umani fanno sapere che più di 400 persone sono state condannate a morte in Bielorussia dal 1991 anche se, per anni, l’Unione europea ha chiesto a Minsk di introdurre almeno una moratoria sull’applicazione della pena capitale. La cancellazione di condanne inflitte da tribunali di gradi inferiore da parte della Corte Suprema è un evento molto raro. Nel 2020 la Corte ha cancellato tre sentenze di colpevolezza (tra cui una, secondo quanto riferito dall’imputato, estorta con la forza) ma si tratta, appunto, di eccezioni che confermano la regola generale. Il diritto a un processo equo non è garantito in un sistema giudiziario prono nei confronti del potere esecutivo, e in cui i giudici perseguono con forza la strada della condanna a tutti i costi. Il tasso di assoluzione è, infatti, pari ad un misero 0,02% di tutti i processi in essere. Il Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha reso noto che, in più occasioni, le persone giustiziate sono state vittime di violazioni procedurali e maltrattamenti ma il governo bielorusso ha ignorato tutti gli avvisi emessi dal Comitato e anche le misure di riparazione suggerite per porre rimedio a quanto accaduto. Questi fallimenti sistematici sono stati oggetto di richiamo anche da parte del Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura che ha definito “molto spiacevoli”, come ricordato da Open Democracy, la mancanza di passi in avanti compiuti sul tema della pena di morte. La formulazione e l’introduzione, nel 2016, del primo piano nazionale per i diritti umani da parte della Bielorussia aveva acceso una luce di speranza sul tema della pena di morte. Il punto 36 del piano, come osservato dalla Konrad Adenauer Foundation, impegnava il Ministro degli Esteri a esaminare tanto le esperienze internazionali riguardanti la pena di morte quanto l’opinione pubblica su questa materia. Gli sviluppi degli anni successivi, invece, hanno evidenziato come gli impegni derivanti dal piano siano rimasti perlopiù lettera morta. La Bielorussia è l’unico Paese in Europa a imporre la pena capitale ma non bisogna dimenticare che anche la Federazione Russa prevede la pena di morte. La differenza consiste nel fatto che il Presidente Boris Yeltsin introdusse una moratoria nel 1996, poi confermata dalla Corte Costituzionale nel 1999 e che da allora nessuno è stato più giustiziato. La Russia faceva inoltre parte, sino ad alcune settimane fa, del Consiglio d’Europa, che impedisce ai suoi membri di imporre la pena capitale. La sospensione di Mosca da parte del Consiglio, in seguito all’invasione dell’Ucraina, ha aperto nuovi scenari e potrebbe portare ad un ripensamento. L’ex Primo Ministro Dmitry Medvedev ha ricordato, come riportato dal Barents Observer, che la sospensione “è una buona opportunità per reintrodurre la pena di morte per i criminali più incalliti e sanguinari”. Stati Uniti. Infinite lacrime di coccodrillo nel Texas santuario delle armi di Luca Celada Il Manifesto, 26 maggio 2022 Incubo americano. Dollari e integralismo dietro un’industria inarrestabile. È probabile che la Corte suprema si esprima a breve contro le restrizioni imposte nello stato di New York. Non erano ancora state rimosse le piccole salme a Uvalde, che già giungevano le dichiarazioni preventive contro restrizioni al porto d’armi. Come accade sempre in questi casi è durato un paio d’ore il pudore prima di far nuovamente quadrato attorno al “sacrosanto” diritto ad impugnare armi da fuoco iscritto nella costituzione, pietra angolare della patria dei massacri per sparatoria. Lo slogan preferito della destra è “non sono le armi ad uccidere - sono le persone”. Viene alla mente ancora una volta semmai la conclusione di Michael Moore nel suo Bowling for Columbine: “Non sono le armi ad uccidere - sono gli Americani”. Difficile non concluderlo quando si guardano le statistiche. Solo quest’anno sono già state 27 le sparatorie in scuole americane. I massacri improvvisi in luoghi pubblici - concerti, metropolitana, supermercati, luoghi di culto - sono costante della vita americana, “inevitabili” come calamità naturali, studiati come uragani e terremoti. A monte una miriade di cause scatenanti, alienazione, assenza di reti assistenziali per le patologie mentali, frammentazione sociale. Ed un ineludibile diffusa cultura della violenza insita nell’indole nazionale. E poi ovviamente l’accesso illimitato alle armi da fuoco che saturano la società. Ad oggi però nulla è bastato ad indurre modifiche alle leggi vigenti che quasi ovunque le vietano - e se non sono sufficienti le ripetute stragi di bambini, difficile immaginare cosa potrebbe esserlo. La lobby più potente del paese, la National Rifle Association (Nra), è riuscita a bloccare ogni “ragionevole” norma atta quantomeno ad arginare la marea di armi da fuoco che satura il paese - quelle che Biden chiama le leggi “common sense”. In un paese con 124 armi da fuoco ogni 100 persone (sono oltre 400 milioni le armi in circolazione) non si è riusciti a limitare fucili automatici da guerra, caricatori modificati, arsenali di mortifera efficienza solitamente riservati per eserciti e forze speciali ma che in questo paese un diciottenne qualunque (l’età degli sparatori di Uvalde e di Buffalo) può facilmente acquistare. Nemmeno questa volta presumibilmente cambierà qualcosa. Perché il buonsenso in questa questione non c’entra nulla. Come per un numero sempre maggiore di contenziosi politici esasperati ad arte - aborto, razzismo, immigrazione e le altre culture wars - si combatte su terreno “religioso”, del fanatismo e dell’oltranzismo. Le armi non sono solo favorite ma venerate, simbolo di “libertà” distorto oltre ogni ragione. È “sacrosanto” dunque il diritto predicato sul famigerato secondo emendamento della Costituzione che assicura letteralmente il diritto dei cittadini di armarsi e costituire “milizie ben regolate”. Il testo settecentesco mirato a contrastare eventuali contrattacchi inglesi di era rivoluzionaria è stato mutuato in interessata ed illimitata garanzia del porto d’armi per ogni privato cittadino in una moderna società di massa - anacronistico ma indiscutibile articolo di fede. L’integralismo è storicamente finanziato dai fiumi di dollari dei produttori di armi ed è stato ulteriormente radicalizzato in era populista. Il governatore del Texas, Greg Abbott trumpista di ferro che ieri ha versato le prammatiche lacrime di coccodrillo, lo scorso giugno ha varato leggi che assicurano il diritto di ogni texano a portare armi senza licenza, nella fondina di preferenza, introdurle in stanze d’albergo, liberalizzato i silenziatori e vietato ogni futura riforma in senso contrario. “Il Texas - ha dichiarato - sarà santuario per le armi”. Sono politiche che esistono in ambito performativo come atti simbolici nella narrazione dello scontro interno di civiltà fra adepti “originalisti” della costituzione e traditori del concetto fondante di America. Simbolismi atti a rafforzare la narrazione esistenziale ed apocalittica ed un altare su cui sono sacrificabili le vittime della strage infinita - anche quelli delle elementari. Anche se esiste, certificata dai sondaggi, una maggioranza numerica a favore di maggiori restrizioni, il partito delle armi è radicato negli stati rurali che detengono un vantaggio di rappresentanza nel Congresso. E l’organo di ultimo arbitraggio, la Corte suprema, è stata preventivamente blindata da una maggioranza ultra conservatrice. È probabile che gli stessi togati che si apprestano ad abrogare il diritto all’aborto si pronuncino ancora una volta nei prossimi giorni contro le restrizioni al porto d’armi in un caso intentato a Siracuse, NY, a pochi chilometri dalla strage di Buffalo. Intanto il Congresso, per tutte le esortazioni di Biden è paralizzato dal filibuster la procedura aggravata che richiede una super maggioranza per leggi costituzionali. Nell’accavallarsi di paradossi, venerdì la Nra terrà un congresso in cui interverrà anche Donald Trump per la consueta liturgia pro-armi. Ma i paladini delle pistole quando vogliono qualche limite dopotutto lo sanno imporre. Sacrosanto o meno, hanno annunciato che sarà vietato entrare armati al comizio dell’ex presidente. “Normalizzare i rapporti con l’Egitto legittima il regime di al-Sisi” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 26 maggio 2022 Intervista alla presidente della Commissione diritti umani della Camera Laura Boldrini, dopo l’audizione di Leila Seif, attivista e madre del prigioniero politico Alaa Abdel Fattah: “Ho cercato i sottosegretari agli Esteri per verificare come si può intervenire, se si può sostenere la richiesta di Seif di pressione da parte dei paesi europei sul Cairo”. Sono trascorsi 54 giorni da quando Alaa Abdel Fattah, il più noto attivista per i diritti umani in Egitto, blogger e volto di piazza Tahrir, ha iniziato lo sciopero della fame in carcere. Quasi due mesi a digiuno perché le autorità egiziane rispondano alle sue richieste: appuntare un giudice che indaghi sulle sue denunce in merito alle violazioni commesse nelle prigioni e autorizzare la visita in carcere del console della Gran Bretagna, di cui Alaa è cittadino da pochi mesi. A raccontare ieri la vita dietro le sbarre di Alaa è stata la madre, Leila Seif. Accademica, storica attivista egiziana, Seif è stata audita dalla Commissione diritti umani della Camera: “Ho fatto visita ad Alaa lo scorso martedì nel carcere di Wadi al Natrun dove era stato trasferito il giorno precedente dal carcere di Tora 2 del Cairo. Lì, per 32 mesi gli è stato vietato tutto, ora d’aria, libri, una radio. Il trasferimento sembra essere uno sviluppo positivo, spero che le limitazioni finiscano. Le autorità egiziane operano nell’impunità e l’Italia lo sa bene: esprimo vicinanza alla famiglia di Giulio Regeni, in particolare alla madre la cui perdita è molto peggiore della mia, spero che il dolore possa placarsi se i suoi assassini verranno portati a giudizio”. A margine dell’audizione, ne abbiamo parlato con Laura Boldrini, deputata Pd e presidente della Commissione. Dopo l’audizione dell’attivista egiziano-palestinese Ramy Shaath, è stata la volta di Leila Seif. Quali sono gli obiettivi che vi siete posti in merito alla questione dei prigionieri politici in Egitto? Nella nostra indagine conoscitiva sull’impegno dell’Italia a tutela dei diritti umani nel mondo non possiamo non occuparci delle persone arbitrariamente detenute e condannate solo per aver svolto attività pacifiche e legittime, a sostegno dei diritti umani o di attività politiche. In Egitto c’è il continuo ricorso alla legislazione anti-terrorismo e l’inserimento dei difensori dei diritti umani nell’elenco dei terroristi. La custodia cautelare è usata per criminalizzare gli attivisti per i diritti umani. Per questo abbiamo introdotto il tema nella nostra indagine conoscitiva. Ho già cercato questa mattina (ieri per chi legge, ndr), i sottosegretari agli Esteri Sereni e Della Vedova, per verificare come si può intervenire, se si può sostenere la richiesta di Leila Seif di pressione da parte dei paesi europei sull’Egitto perché rispetti i diritti delle persone e in questo caso specifico dei detenuti. È bene che il nostro rappresentante diplomatico sostenga la richiesta dì Alaa Abdel Fattah di incontrare il console britannico - avendo Alaa le due nazionalità- e chiedere alle autorità competenti che venga dato seguito alle sue denunce. La testimonianza di Seif ha ridato indietro non solo il calvario di suo figlio ma quello di 60mila prigionieri politici in un paese che è stato considerato dal nostro governo un partner ineludibile... Leila Seif ci ha messo al corrente della situazione del figlio e di come si vive in un carcere in Egitto. Lo sapevamo già ma sentirlo direttamente è molto forte dal punto di vista emotivo. Mi ha colpito la volontà di Alaa di non recedere rispetto al suo impegno. Porta avanti una battaglia di principio, continua dopo 54 giorni lo sciopero della fame nonostante il trasferimento a Wadi al-Natrun dove almeno gli hanno dato un materasso per dormire. Alaa è il simbolo di un’intera generazione di giovani egiziani che hanno messo la propria intelligenza al servizio del paese. A Tora, Alaa era costretto a dormire a terra. Non concedere un materasso, non consentire di vedere la luce e di fare movimento, di leggere libri o di avere una radio dimostra come il regime egiziano si sia accanito su di lui. Lei è da tempo una delle voci più attive in parlamento nella critica all’Egitto di al-Sisi. È una consapevolezza che ritrova nel suo partito, il Pd? Da tempo dico che non si devono normalizzare i rapporti con il regime egiziano. Penso sia un errore fare accordi commerciali e ancora più grave dargli armi perché questo legittima un regime che si rifiuta anche di collaborare sull’omicidio dì Giulio Regeni. La procura di Roma ha fatto nomi e cognomi di membri degli apparati dello stato ma non si riesce ad andare avanti perché non vengono resi noti i domicili a cui recapitare la notifica del processo. È un comportamento del tutto privo di rispetto verso il nostro paese. Come può questo andare di pari passo con le buone relazioni commerciali? Come si può non vedere una contraddizione tra questo atteggiamento di chiusura e noncuranza da parte delle autorità egiziane e la sponsorizzazione dell’Expo delle armi in Egitto? Per me è una contraddizione inconciliabile che non facilita la verità sul caso Regeni e che non mette pressione sul regime egiziano perché migliori la situazione dei diritti umani. È come se l’abuso dei diritti umani non incidesse sulle relazioni internazionali, come de fosse secondario. Come ha detto la professoressa Seif, a mio avviso, il governo italiano non dovrebbe continuare negli scambi commerciali e la vendita di armi. Eppure né dall’Italia né dall’Europa giungono azioni concrete. Nessuna sanzione né interruzione dei rapporti commerciali, come sottolineava Seif, spesso gli unici strumenti per fare pressione, come mostra l’invasione dell’Ucraina... Ci deve essere una mobilitazione europea nel caso dell’Egitto e invece si agisce come se i diritti umani siano irrilevanti, come non fossero una parte importante delle politiche estere. È un errore sul medio e lungo periodo avere a che fare con i dittatori, come abbiamo visto in Russia, ed è una scelta che svilisce l’autorevolezza dei paesi che lo fanno. Le sanzioni andrebbero applicate anche ai regimi che calpestano i diritti umani. Questo deve essere un motivo sufficiente per rivedere i rapporti commerciali, le politiche dei visti e altri ambiti. Il governo è pronto a farlo? Mi auguro che il governo su questo caso cerchi di spendersi. Dopo questa audizione, spero ci sia l’interesse a fare pressioni sull’Egitto in merito alle legittime richieste di Alaa. Così come sarebbe auspicabile anche che la Ue recepisca il principio che sui diritti umani non si può soprassedere, abbiamo già visto che è un esercizio azzardato e controproducente. Lo Zambia “omaggia” l’Africa abolendo la pena di morte Avvenire, 26 maggio 2022 Il capo di Stato ha anche adottato provvedimenti di grazia a beneficio di 2.045 detenuti e commutato sentenze per 970 prigionieri. Abolita la pena di morte come omaggio all’Africa. Questo è il regalo che il presidente dello Zambia, Hakainde Hichilema, comunica al parlamento e alla nazione attraverso un messaggio diffuso sui social network per la giornata internazionale dedicata al continente, la festa dell’Africa. Alla vigilia delle celebrazioni di oggi, che ricorrono come ogni anno il 25 maggio, il capo di Stato ha anche adottato provvedimenti di grazia a beneficio di 2.045 detenuti. Secondo il ministro degli Interni Ambrose Lifuna, Hichilema ha anche commutato sentenze a carico di 807 prigionieri. Le scelte del presidente sono state motivate come frutto della sua volontà di contrastare il sovraffollamento delle carceri nello Zambia. Secondo l’ong Amnesty International, nel 2021, il numero delle esecuzioni capitali nell’Africa subsahariana ha raggiunto quota 33, raddoppiando innanzitutto a causa di incrementi in Somalia e in Sud Sudan. Ancora di più le condanne a morte lo scorso anno, 373 in 19 Paesi. A far crescere il dato hanno contribuito la Repubblica democratica del Congo e la Mauritania, nonostante una tendenza inversa registrata proprio nello Zambia. La svolta del Paese africano è arrivata con le elezioni del 12 agosto 2021, quando Hilchilema diventa presidente superando di ben 1 milione di voti l’avversario uscente Lungu. Quest’ultimo era stato accusato da Amnesty International di censura dei media, uso eccessivo della forza, arresti e detenzioni che hanno creato terrore nella popolazione civile. Lo Zambia è un Paese con un reddito pro capite superiore alla media dei Paesi africani limitrofi e attrae immigrati anche dalle nazioni vicine: si stima che siano circa 200mila quelli provenienti dallo Zimbabwe. Secondo gli esperti una torsione autenticamente democratica e rispettosa dei diritti civili potrebbe avere effetti benefici sull’intera zona.