“Colleghi magistrati, entrare in carcere vi fa bene. L’ergastolo ostativo ci lega le mani” di Viviana Lanza Il Riformista, 25 maggio 2022 Intervista a Marco Puglia, magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere. “Bisogna vedere, onorevoli colleghi. Viverci in quelle celle. In certe carceri italiane bisogna starci per rendersene conto”, diceva Piero Calamandrei. Oggi a vedere cosa accade in carcere ci vanno sempre meno politici, persino meno magistrati di sorveglianza. Eppure sarebbe così utile, così costituzionalmente giusto. “Sarebbe opportuno che la conoscenza del carcere non si arrestasse al magistrato di sorveglianza, che istituti di pena entrino anche altri operatori del diritto, pm, giudici avvocati, per avere una conoscenza immediata di cosa significhi lo spazio del carcere”, afferma Marco Puglia, magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere. Fu lui il primo ad entrare nel reparto dei pestaggi dopo quel pomeriggio del 6 aprile 2020. A sorpresa bussò alle porte della casa circondariale per verificare con i propri occhi quello che timidamente qualcuno gli aveva riferito. La storia delle violenze è ora al centro di un processo. Ed è solo la punta dell’iceberg in un sistema che è un mare di casi e norme che faticano a seguire una corrente realmente garantista. Perché è importante che un magistrato conosca il carcere nella sua cruda realtà, che lo visiti, che si renda conto con i propri occhi del luogo a cui destina indagati, presunti innocenti? “Il contatto diretto con questa realtà è molto importante. Il magistrato di sorveglianza entra nelle carceri come è normativamente previsto, dotato di un potere di ispezione da esercitare, entra per conoscere quello spazio e quell’ambiente e verificare che all’interno siano correttamente applicate le norme dell’ordinamento penitenziario e della Costituzione. Entrare in carcere significa entrare in contatto con la quotidianità di tanti soggetti: agenti penitenziari, direttori, operatori giuridico pedagogici e popolazione detentiva che vive l’ingresso del magistrato di sorveglianza con grande partecipazione. Diventa un momento di confronto e di colloquio. Il magistrato di Sorveglianza in quel momento è lo Stato che cammina all’interno dell’istituto penitenziario, è il potere giurisdizionale che entra in un luogo che ha una sua sacralità legata alla compressione di un bene fondamenta quale la libertà personale, ed è quindi giusto che tutti i magistrati di sorveglianza entrino all’interno degli istituti per segnare questo momento. Ma anche tutti gli altri operatori del diritto”. Mitterad in Francia abolì la pena di morte. Qui in Italia si fa fatica ad abolire l’ergastolo ostativo, un fine pena mai che equivale a una condanna fino alla morte... “L’ergastolo ostativo è la fotografia incancellabile, scolpita nel tempo e imperturbabile dei fatti che hanno generato la condanna, un istituto insensibile ai percorsi trattamentali di rinnovamento che la persona condannata può fare. Sono tanti i soggetti che pur condannati per reati feroci, grazie al percorso fatto in carcere, hanno dimostrato di essere persone nuove, ma si sono viste chiuse le vere porte di un rinnovamento proprio dall’ergastolo ostativo che è condanna di un peso tale che svilisce quello che è l’obiettivo costituzionale. Perché l’ergastolo ostativo è legato a una valutazione lontana nel tempo che non richiede una riattualizzazione della valutazione di pericolosità. Tutto ciò che è ostativo nell’ordinamento penitenziario mette a dura prova la magistratura di sorveglianza che ha le mani legate, salvo adire la Corte costituzionale, anche davanti a percorsi che anelano un passo avanti, un’apertura trattamentale”. Si parlava di persone nuove. Diventare persone nuove si può, meritare una seconda opportunità appartiene a uno Stato di diritto, a una giustizia giusta. Va riconosciuta, no? “Certo. E di persone nuove ne ho conosciute tante. Una mi ha colpito particolarmente. C’era un condannato per traffico internazionale di droga, aveva una condanna importante per fatti che lo vedevano coinvolto sin da quando era adolescente. Questa persona era detenuta a Carinola e quando si prospettò la possibilità di una misura alternativa, con la cooperativa “Al di là dei sogni” di Sessa Aurunca, decisi di sperimentare. La misura alternativa prevedeva che quel ragazzo lavorasse, regolarmente retribuito, coltivando la terra nei possedimenti di questa coop che fa parte del circuito di Libera. Questo detenuto iniziò così un percorso di totale rinnovamento per cui oggi con la famiglia si è trasferito a Cellole e lavora con la coop, lavora anche la moglie, e lui con Libera racconta la sua storia, dalla scelta iniziale di essere un ragazzino di Scampia che guadagnava con la droga alla decisione di ricalcolare la propria vita dedicandosi alla legalità e al lavoro. Questa storia mi ha colpito perché io e questo detenuto siamo coetanei: io sono di Secondigliano e lui di Scampia, siamo cresciuti a distanza di pochi chilometri, l’uno inconsapevole dell’altro, scegliendo percorsi diametralmente opposti. Mentre io studiavo giurisprudenza lui diventata elemento di spicco del clan, mentre io mi laureavo lui entrava in carcere, poi grazie ai percorsi magici della legalità ci siamo incontrati: io ho dato un’alternativa a lui e lui ha dato a me il coraggio di credere negli altri come magistrato di sorveglianza e di credere che non sempre tutto sia perduto”. Ci vuole il coraggio delle scelte, il coraggio del garantismo... “Concedere una possibilità a chi è in un momento del percorso adeguato significa dare a quella persona l’opportunità di uscire dal circuito criminale, ma significa anche far del bene alla società che riaccoglie una persona rinnovata. Solo la criminalità potrebbe giovarsi della volontà di chi è stato in carcere di tornare a commettere reati, far sì che chi è in esecuzione di pena torni a noi nel migliore dei modi è un bene per tutti”. Riforma del Csm, pioggia di emendamenti di Iv e Lega di Liana Milella La Repubblica, 25 maggio 2022 Bongiorno: “La legge raggiunga gli stessi obiettivi del referendum”. Oltre 260 le proposte di modifica. La responsabile giustizia della Lega: “Non vogliamo rappresentare un ostacolo, né far perdere tempo, ma vorremmo cercare di migliorare questo testo e ottenere che anche gli altri partiti ci stiano”. Pioggia di emendamenti, al Senato, sulla riforma del Csm. Nessuno del Pd, 4 di Forza Italia, 8 di M5S e altrettanti di Piero Grasso, ma ben 60 della Lega e 86 di Italia viva. Nonché 92 di FdI. In commissione Giustizia stanno preparando il fascicolo, e se ne discuterà la prossima settimana. In aula si andrà il 14 giugno. E mentre la ministra della Giustizia Marta Cartabia ripete: “Richiamo tutti al senso di responsabilità”, la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno a Repubblica dice: “Se la riforma del Csm riuscisse a fare quello che fanno i referendum sulla giustizia, allora sarebbe un ottimo risultato”. Sessanta emendamenti per fare la guerra? Replica Bongiorno: “Noi non vogliamo rappresentare un ostacolo, né far perdere tempo, ma vorremmo cercare di migliorare questo testo e ottenere che anche gli altri partiti ci stiano”. E partiamo dalla Lega allora per capire cosa può succedere a palazzo Madama nelle prossime due settimane, quando la partita della riforma del Csm incrocia i cinque referendum sulla giustizia per cui i cittadini italiani voteranno il 12 giugno in contemporanea con le elezioni amministrative. Ricordiamoli: separazione delle carriere dei giudici, responsabilità civile diretta, via la legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, piena presenza degli avvocati nei consigli giudiziari, no alla raccolta delle firme per candidarsi al Csm. Chiediamo a Bongiorno quale sia il peso e il valore dei 60 emendamenti. Lei replica: “Faccio una premessa. È da ottobre scorso che noi della Lega insistiamo per modificare questa riforma, perché si potevano fare cose importanti sulla giustizia, e c’era anche tempo per farle. Si poteva puntare a una legge costituzionale bellissima che sarebbe rimasta nella storia, e questo ministro avrebbe anche meritato di farla. Credo che non le abbiano consentito, e penso al Pd, di fare il percorso come lei avrebbe voluto”. Sì, ma adesso questi emendamenti puntano a spaccare la maggioranza e a bloccare la riforma? Bongiorno è netta nella risposta: “Ma no, noi siamo super collaborativi. Stiamo solo cercando di dare voce a una serie di problemi. Vorremmo cercare di migliorare questo testo e ottenere che anche gli altri partiti ci stiano. Ma non vogliamo rappresentare un ostacolo, né far perdere tempo. Però, in modo tranquillo, come del resto dimostrano le riunioni che si sono svolte, abbiamo riproposto emendamenti frutto anche delle ultime audizioni al Senato, come quella dell’Avvocatura dello Stato”. Che è contraria all’ingresso nei propri ranghi dei magistrati in uscita dalla politica. Bongiorno conclude: “Il nostro tentativo è quello di migliorare al massimo la riforma, andando anche ben oltre i referendum. Ma un fatto è certo, se la riforma riuscisse a fare quello che propongono i referendum sarebbe un ottimo risultato”. E, di seguito, ecco i temi degli emendamenti leghisti, che potrebbero ben raccogliere anche i voti di Italia viva, che conferma la sua astensione come alla Camera: ovviamente gli stessi temi oggetto dei referendum, dalla netta separazione delle funzioni, alla responsabilità civile diretta, all’abolizione della legge Severino. Ma ecco poi il sorteggio temperato per eleggere i togati del Csm, e anche il sorteggio dei collegi in cui si vota. Una stretta sui magistrati fuori ruolo e proposte per migliorare il concorso in magistratura. Poi un’idea su cui insiste molto la stessa Bongiorno: “Chi sta al Csm, nei 5 anni successivi non deve più rivestire incarichi direttivi”. Di certo insidiosi gli emendamenti della Lega perché possono conquistare il voto di Fratelli d’Italia - che ne propone 92 per conto suo - e anche quello di Iv. Che nei suoi 86 emendamenti ripropone tutti quelli già respinti alla Camera, soprattutto sul rientro in ruolo dei magistrati scesi in politica oppure cooptati dalla stessa politica nei ministeri. Nonché il sorteggio per il Csm. Ma in casa Dem - con il capogruppo in commissione Giustizia Franco Mirabelli - si coglie invece ottimismo. Nessuna proposta di modifica dal Pd, proprio per dimostrare che la riforma dev’essere approvata così com’è. Dice Mirabelli: “Sarebbe grave se gli emendamenti, in particolare quelli della Lega, fossero il segnale della volontà di non rispettare un impegno che la ministra Cartabia ha chiesto a tutti. Cioè garantire il voto favorevole alla riforma del Csm in tempi brevi e sufficienti per votare il nuovo Csm”. Un voto che, calendario alla mano, arriverà per fine settembre, visto che l’attuale Csm scade il 25, e quindi approvando la riforma a giugno, c’è il tempo per organizzare la macchina del voto. Per questo Mirabelli aggiunge: “Il provvedimento è stato votato alla Camera da tutta la maggioranza ad aprile, e non si capisce perché adesso debba essere cambiato. Non votare questa riforma, che è legata anche al Pnrr, sarebbe grave”. E comunque, conclude Mirabelli “registro la convergenza del Pd e del M5S di approvare il provvedimento così com’è”. In realtà il M5S i suoi 8 emendamenti li ha presentati, in linea con i tentativi fatti alla Camera di tornare allo spirito della riforma originaria, quella dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. In questa direzione - come spiega la responsabile Giustizia Giulia Sarti - ecco richieste di modifica che riguardano tre filoni, le valutazioni di professionalità e quindi la soppressione del fascicolo del magistrato; il ritorno ai quattro passaggi da pm a giudice e viceversa, o al massimo a due passaggi; cancellare illeciti disciplinari punitivi, a partire da quello sulla presunzione di innocenza. Come il M5S anche l’ex magistrato ed ex presidente del Senato Piero Grasso si è concentrato su pochissime modifiche. Di cui solo una si può considerare ostile alle toghe, quando Grasso chiede che non torni ad avere funzioni giurisdizionali il magistrato che si è anche solo avvicinato alla politica. Come il M5S, Grasso vuole piena libertà di passaggio da una funzione all’altra - “perché nella mia vita professionale ho sperimentato che questo arricchisce il giudice” - nonché chiede che dal fascicolo di ogni toga (la norma lanciata da Enrico Costa di Azione, per intenderci) sia cancellato il passaggio in cui si parla di “anomalie nelle fasi successive”, per cui se nel corso del processo una decisione viene cambiata questo potrà diventare un elemento negativo di valutazione per la carriera. Grasso dice no a inviare al ministro della Giustizia i piani di organizzazione delle procure: “Sarebbe un’ulteriore ingerenza del potere politico, dopo quella di un Parlamento che decide ogni anno come e dove debba muoversi l’azione penale”. Infine un netto no a membri laici del Csm che provengano dal Parlamento, visto che “la Costituzione parla solo di professori e avvocati”. Riforma del Csm, partita a scacchi sugli emendamenti: 60 dalla Lega, 86 da Iv di Valentina Stella Il Dubbio, 25 maggio 2022 Sono 264 gli emendamenti depositati dai gruppi parlamentari, nella commissione Giustizia del Senato, alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La Lega ne ha presentati 60, Forza Italia 4, Italia Viva 86, il Movimento 5 Stelle 8, Fratelli d’Italia 93, Leu 8, il Pd nessuno. Si preannuncia insomma un esame non semplice a Palazzo Madama: i senatori avranno due settimane per discutere e votare le proposte di modifica, in quanto l’approdo in Aula è previsto per martedì 14 giugno, due giorni dopo il voto sui cinque referendum sulla giustizia promossi da Lega e Partito radicale. Da quanto si apprende, proprio la Lega ha riproposto gli emendamenti già presentati alla Camera su sorteggio temperato per l’elezione dei togati al Csm, azzeramento dei passaggi tra funzione giudicante e funzione requirente, divieto per chi esce dal Csm di ricoprire incarichi direttivi per 5 anni, revisione del concorso in magistratura. Il partito di Salvini sta facendo il proprio gioco, come chiaramente traspare dalle parole del senatore Andrea Ostellari, presidente della commissione nonché relatore del testo, pronunciate nell’ultima seduta: “L’effetto di compressione della dialettica parlamentare, in relazione alla necessità di giungere a una approvazione del testo prima delle elezioni del prossimo Csm, non può però spingersi a sacrificare il sistema parlamentare perfetto, nel quale anche il Senato è chiamato ad esprimersi. Affinché questo ramo possa far valere le proprie prerogative”, ha quindi detto il parlamentare leghista, “invito i colleghi della commissione a non tirarsi indietro di fronte alla necessità di migliorare il testo”. Gli aveva replicato il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Pur comprendendo la necessità che ciascun ramo del Parlamento svolga il proprio ruolo, invito tuttavia i parlamentari a tener conto dell’esigenza inderogabile dell’approvazione di tale disegno di legge in guisa tale da consentire lo svolgimento, con le nuove regole, delle elezioni del prossimo Consiglio superiore della magistratura”. Visto che il Carroccio ha riaperto la partita, il Movimento 5 Stelle ha risposto con i propri emendamenti su separazione delle funzioni, valutazioni di professionalità e illeciti disciplinari, i tre temi principali che hanno portato l’Anm a scioperare. Ce lo aveva preannunciato la responsabile Giustizia del M5S Giulia Sarti in una intervista: “Siamo pronti a rilanciare le nostre proposte in Senato se lo faranno Lega e Italia Viva”, a tutela delle istanze delle toghe. Mentre per il Partito democratico valgono gli accordi prima negli incontri bilaterali avuti a via Arenula e poi in Consiglio dei ministri, quindi con il testo approvato all’unanimità e infine alla Camera un mese fa, dopo decine di riunioni. In pratica, la riforma viene ritenuta soddisfacente dai dem, considerata l’ampiezza della maggioranza. Valuteranno, al più, se presentare qualche emendamento direttamente in Aula. Tra gli emendamenti, invece, di Forza Italia, uno presentato dal senatore Giacomo Caliendo riguarda le porte girevoli: chi non viene eletto non può tornare nel distretto dove si è candidato non per un tempo determinato ma per tutta la vita. Anche Iv ha concentrato le proposte sulle porte girevoli. Sempre in commissione Giustizia del Senato i gruppi parlamentari hanno depositato 32 emendamenti al testo di riforma sull’ergastolo ostativo. Altolà ai referendum: la rivincita delle toghe dopo lo sciopero flop di Valentina Stella Il Dubbio, 25 maggio 2022 La presidente di “Area”, Pilla: “Tifiamo per il no”. Piraino, segretario di “Mi”: “Quesiti sbagliati”. Le toghe vanno all’assalto dei referendum sulla “giustizia giusta” promossi da Lega e Partito radicale. Lo avevamo scritto qualche giorno fa: accantonato il flop dello sciopero Anm contro la riforma Cartabia su Csm e ordinamento giudiziario, ora la magistratura si concentrerà sulla propria campagna “antireferendaria” con un obiettivo: evitare il raggiungimento del quorum all’appuntamento del 12 giugno. Con una consapevolezza stavolta rassicurante: la battaglia, per i promotori, è persa in partenza, visto che la Corte costituzionale ha bocciato i quesiti cosiddetti “portagente” e che l’informazione è assai rarefatta sui temi referendari. Sembra dunque abbastanza agevole, ai magistrati, avvicinarsi al carro dei vincitori per poi salirvi, facendo dimenticare il periodo difficile che li sta scuotendo, da Palamara in poi. La presidente di Area democratica per la giustizia, Egle Pilla, è stata molto netta in una dichiarazione all’AdnKronos: “Il nostro auspicio è che prevalgano i no, anche se una forte astensione è una previsione molto concreta, in ragione non credo solo della scarsa visibilità mediatica ma di una certa disaffezione dimostrata negli ultimi anni allo strumento referendario, nonché della complessità dei quesiti e del loro carattere molto tecnico, che è poco compatibile con il concetto stesso di referendum”. Dal punto di vista della magistrata al vertice della corrente progressista, una consultazione popolare “dovrebbe riguardare grandi temi di immediata percezione e non specifiche disposizioni di difficile comprensione”. Secondo Pilla “la vittoria del sì comporterebbe la difficoltà di tradurre in norme siffatta volontà, con enormi difficoltà e rischi, ancora una volta, per l’assetto costituzionale del potere giudiziario, della indipendenza della magistratura e delle possibilità di esercitare serenamente ed efficacemente la nostra funzione”. Il quesito “più pericoloso per i cittadini”, ha concluso Pilla, “è a mio parere quello sulla separazione delle funzioni: oggi il pm è, per legge, il primo garante della libertà e dei diritti dei cittadini. Trasformarlo nell’avvocato della polizia vorrebbe dire perdere un importante presidio di libertà e di legalità”. Sul No si attesta ovviamente anche la posizione di Angelo Piraino, segretario generale di Magistratura indipendente: “La vittoria dei Sì, in alcuni casi creerebbe un grave vuoto di tutela, come per il referendum sui presupposti della custodia cautelare. Non si potrebbe più applicare la custodia cautelare a un ladro o a un corruttore seriale. In tutti gli altri casi, anche se vincesse il Sì, la durata dei processi non si abbrevierebbe nemmeno di un giorno. Questi referendum non danno risposta alle vere esigenze della giustizia italiana. Il referendum sulla legge Severino, poi, non riguarda nemmeno la giustizia, ma la politica, perché chiama i cittadini a scegliere quali devono essere i requisiti dei rappresentanti che vogliono poter eleggere”. Quanto all’ipotesi che il quorum non sia raggiunto, Piraino ha evidenziato: “I quesiti sono certamente di difficile comprensione per l’elettore medio, in alcuni casi lunghissimi, e in altri casi riguardano dettagli modesti di una normativa molto più articolata. Credo che i cittadini stiano percependo che ci troviamo di fronte a un uso non congruo dello strumento referendario”. Il mancato quorum, ha concluso, “forse significherebbe che i cittadini ritengono che su temi delicati e oggettivamente tecnici, come quello dell’efficienza della giustizia e dell’equilibrio tra i poteri, la politica si deve assumere le sue responsabilità, e che non ci deve essere spazio per il populismo. Su questi temi va condotta una riflessione pacata, che guardi agli interessi dei cittadini nel medio e lungo periodo, senza slogan ma con ragionamenti articolati e approfonditi”. Il fronte del Pd per il Sì al referendum. Parla il sindaco di Torino di Gianluca De Rosa Il Foglio, 25 maggio 2022 Che dentro al partito l’argomento fosse quantomeno dibattuto lo si era capito subito. Durante la direzione di alcuni giorni fa il segretario Enrico Letta ripeteva: “Noi siamo per il No, ma il Pd non è una caserma”. Affermazione distensiva, ma soprattutto realista. Il messaggio infatti è passato subito. E così tra i dem si allarga ogni giorno di più il fronte di coloro che almeno su alcuni dei cinque quesiti referendari sulla giustizia voteranno Sì. Dopo il primo cittadino di Pesaro Matteo Ricci e quello di Bergamo Giorgio Gori, anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo spiega al Foglio perché il prossimo 12 giugno andrà al seggio per mettere la sua croce su uno di quei cinque quesiti, quello più caro agli amministratori locali, quello che abroga la legge Severino. “Sugli altri seguirò la linea del partito e voterò No, ma sulla Severino francamente non me la sento. È una legge che colpisce ingiustamente tanti amministratori locali”, spiega. I sindaci sono i più penalizzati dalle stringenti regole della legge Severino che prevede non solo l’incandidabilità, ma anche la decadenza dalla carica automatica in caso di condanna anche solo di primo grado per tutti i reati non colposi, compresi quelli minori come l’abuso d’ufficio. Come ricordava ieri Giorgio Gori dalle colonne di questo giornale i procedimenti avviati per abuso d’ufficio che si concludono con la condanna in via definitiva in Italia sono meno di uno su 100: nel 2017, 54 condanne su 6.500 procedimenti avviati. Molto spesso gli indagati sono sindaci, consiglieri regionali e amministratori locali. Non è un caso che già a febbraio, quando la Corte Costituzionale ha avallato i cinque quesiti, i sindaci dem si siano ribellati al segretario Letta che annunciava il No del partito al voto. “Allora la Severino va cambiata in Parlamento”, gridavano i primi cittadini. Da allora però questo non è accaduto, quelle voci sono rimaste inascoltate. Solo negli ultimi tempi Letta ha aperto a questa opzione e per fermare il fronte dei malpancisti il senatore dem Dario Parrini ha presentato un disegno di legge proprio per abrogare l’incandidabilità e la decadenza per gli amministratori condannati non in via definitiva; ma giunti a questo punto per tanti è ormai troppo tardi. Dice il sindaco di Torino: “Purtroppo il Parlamento ha sbagliato a non modificare prima la legge. Per questo oggi il referendum diventa l’unico strumento per fare qualcosa, per dare almeno un segnale politico, augurandoci che sia, anche in caso di mancato raggiungimento del quorum, uno stimolo per le Camere a modificare le regole della legge Severino”. Come Gori, anche Lo Russo pensa che questo sia un passo necessario per armonizzare l’ordinamento giuridico al dettato garantista della “presunzione di non colpevolezza” sancito dall’articolo 27 della Costituzione. “Il principio che sta dietro alla legge Severino - insiste Lo Russo - non va bene, è totalmente anti garantista. È l’unica legge che prevede meccanismi automatici dopo il solo primo grado, mentre il nostro ordinamento stabilisce la presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva, solo allora dovrebbero essere applicate le sanzioni accessorie e invece oggi non è così”. Ma tra i ribelli non ci sono solo i sindaci. I primi a invitare Enrico Letta a ripensarci proprio sul Foglio furono i giuristi dem Stefano Ceccanti ed Enrico Morando, favorevoli a tre dei cinque referendum (separazione delle carriere, valutazione dei magistrati e riforma del Csm). Da allora il fronte del Sì è cresciuto trasversalmente alle correnti dem, non solo in quella riformista che fa capo al ministro Lorenzo Guerini, e in modo non omogeneo (c’è chi voterà Sì solo a un quesito e chi come Gori è pronto a votarli tutti e cinque). Ieri in Puglia è nato persino un comitato “Democratici per il Sì”. L’ha creato il consigliere regionale Fabiano Amati con l’auspicio di “incoraggiare attraverso l’esito favorevole del referendum le riforme più coraggiose sulla giustizia, il più incrostato problema del nostro Paese”. Il Pd non è decisamente una caserma. E per fortuna. Non toccate le leggi antimafia, ma piuttosto digitalizzate le indagini di Giuseppe Pignatone La Stampa, 25 maggio 2022 L’analisi dell’ex procuratore di Roma: “Le norme attuali sono efficaci e rispettose della Costituzione, il vero gap è informatico”. A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, sempre più spesso nel dibattito sui temi della giustizia si sente ripetere che sarebbe giunto il momento di abbandonare le norme e gli strumenti adottati per combattere le organizzazioni mafiose. Ormai - si argomenta - quella mafia non c’è più, è stata sconfitta dagli ergastoli e quindi, anziché “sprecare” risorse inseguendo la mafia di trent’anni fa, è ora di elaborare strumenti normativi e tecnologici adeguati per contrastare i traffici criminali sempre più sofisticati e le nuove forme di arricchimento. Questa analisi non è condivisibile perché il punto di partenza è solo apparentemente corretto. Se è vero, infatti, che lo Stato è riuscito a sconfiggere la mafia delle stragi al termine di un terribile periodo segnato da centinaia di omicidi e da altri gravissimi reati, conclusosi con la cattura di Bernardo Provenzano (11 aprile 2006: una data simbolo), ciò non significa affatto aver cancellato il problema mafia in Italia. Cosa nostra non è scomparsa in Sicilia, anche se la sua pericolosità è frenata dai cambiamenti sociali oltre che dalla continuità e dall’efficacia dell’azione repressiva, che ha tra l’altro impedito la ricostituzione di quell’organismo di vertice - la cosiddetta Cupola - tra gli elementi decisivi della sua forza e della sua pericolosità. Così come non sono scomparse la ‘ndrangheta calabrese e la camorra napoletana, mentre s’impone un’attenzione sempre maggiore per la mafia pugliese. Possiamo anzi affermare che le organizzazioni mafiose, quella calabrese in particolare, sono sempre più presenti fuori dalle regioni meridionali, in larghe zone del centro e del nord Italia. Un radicamento già oggi consolidato e subdolo perché, se anche i criminali hanno rinunziato da anni alle manifestazioni più efferate e clamorose proprio per evitare la reazione dello Stato, la disponibilità della violenza e la capacità di farvi ricorso rimane l’elemento che caratterizza il metodo mafioso. Centinaia di processi celebrati in ogni parte d’Italia, testimoniano non solo che quella violenza continua a essere esercitata, sia pure senza arrivare quasi mai all’omicidio, ma che di essa sono ben consapevoli i cittadini delle zone in cui le mafie operano e che ne sono pesantemente condizionati nelle loro scelte di vita economica e sociale. Per questo trovo assurda l’idea di rinunziare alla legislazione antimafia e agli strumenti che essa mette a disposizione. E non è affatto vero, come qualcuno sostiene, che si tratta di un sistema normativo e organizzativo ormai arretrato e basato su una sorta di inaccettabile violenza di Stato. Si tratta, al contrario, di un sistema estremamente sofisticato ed efficace, come da tempo riconosciuto in ogni sede internazionale, (da ultimo, dalla Conferenza dei procuratori europei riunita a Palermo, mentre la sua conformità ai principi costituzionali è assicurata dalle ripetute verifiche davanti alla Consulta. E poiché l’impianto normativo antimafia è frutto di continui aggiornamenti basati sull’esperienza, esso si è dimostrato efficace non solo contro la mafia stragista dei Corleonesi, ma anche contro quelle attuali, diffuse nel Paese e che fanno ampio ricorso alla corruzione. Fermo restando, come ho più volte ribadito anche su questo giornale, che mafia e corruzione sono fenomeni diversi e che non necessariamente dove c’è l’una c’è anche l’altra. Il nostro sistema di contrasto ha saputo far fronte alla evoluzione della mafia da quando, più di un secolo fa, era rappresentata dai campieri, a quella dell’edilizia, degli stupefacenti e degli appalti fino a quella attuale, pericolosamente tesa a inserirsi nei circuiti dell’economia legale fino ad alzare la mira sulle ingenti risorse del Pnrr. La stessa legislazione ha inoltre permesso di svelare almeno in parte la rete di relazioni esistente tra cosche ed esponenti della società civile, quei legami che sono la vera ragione della loro capacità di durare così a lungo nel tempo. Sono invece d’accordo sul fatto che il contrasto al crimine richiede passi avanti significativi per far fronte agli effetti della globalizzazione e delle nuove tecnologie, in primo luogo l’informatica. Siamo in ritardo nella capacità di seguire i movimenti del denaro e di aggredire le ricchezze illecite trasferite all’estero o che hanno, come è sempre più frequente, natura finanziaria. Un gap che però non riguarda solo le indagini sulle mafie, ma anche quelle su tutti i reati di una qualche complessità e che non può essere quindi usato come pretesto per scardinare un sistema che, a cominciare dal reato di associazione per delinquere di tipo mafioso introdotto nel 1982 dalla legge Rognoni-La Torre, conserva in pieno la sua validità. Con la consapevolezza, naturalmente, che le mafie rappresentano un fenomeno storico contro il quale la repressione anche più efficace non basta, se manca una profonda coscienza antimafia estesa a ogni azione della vita politica, economica e sociale. Se non c’è, come ha detto il Presidente Mattarella a Palermo, “l’impegno per l’affermazione dello Stato di diritto anzitutto nella società civile”. Stragi di mafia, qualcuno avvelena i pozzi all’insaputa di Report? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2022 Naufragato il teorema Trattativa, ora per gli attentati del 1992 rispunta la presunta pista nera. Ma la procura smentisce. “Questo Ufficio è costretto ad intervenire per smentire notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi, che si verrebbe a sommare al tremendo dolore sofferto”. È un passaggio del comunicato stampa della Procura di Caltanissetta in merito al servizio di lunedì sera andato su Report. Precisamente su rai tre, un canale pubblico che per l’ennesima volta compie una ricostruzione del tutto opinabile in merito alla strage di Capaci e di Via D’Amelio. Accantonato il teorema trattativa Stato Mafia, tesi decostruita dalla sentenza d’appello, ora si riesuma la pista nera che, pilotata da “entità” tipo la P2 di Gelli (e a sua volta dagli Stati Uniti tramite la Gladio), avrebbe portato avanti la strategia della tensione manovrando l’ignaro Totò Riina. Non solo. Lo scoop - smentito puntualmente dalla procura nissena - è che sul luogo dell’attentato di Capaci, insieme ai boss, sarebbe stato presente Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale deceduto nel 2019. Quindi ecco la pista: Falcone è stato ucciso per via della strategia della tensione (a quanto pare fuori tempo massimo visto che in quel periodo era decisamente anacronistico), e poi ucciso a sua volta Paolo Borsellino perché stava indagando informalmente su quel fronte. Una tesi che farebbe impallidire i QAnon americani, i cui membri sostengono una teoria secondo la quale esisterebbe un’ipotetica trama segreta organizzata da un presunto Deep State. Lo Stato profondo. Ed è ciò che ritroviamo in talune “inchieste” in prima serata: una sorta di terzo livello che coordina tutto, perfino la Storia italiana. Tutto ciò è un insulto alla memoria di Falcone che si è sempre differenziato per l’approccio scientifico sul fenomeno mafioso, stigmatizzando la teoria del terzo livello che vede un grumo di entità che eterodirigerebbe la cupola di Cosa Nostra. Fino al resto della sua vita, Falcone ha detto chiaro e tondo che la realtà è molto più grave e complessa. In una sua ultima intervista poco prima di morire disse: “Negare l’esistenza del terzo livello significa che comanda Cosa Nostra e non i politici”. Nel suo ultimo libro “Cose di cosa nostra” scritto assieme a Marcelle Padovani, non a caso dice quanto siano “abili, decisi, intelligenti i mafiosi”, aggiungendo “quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa”. Falcone, professionale lo era. Una mente che Totò Riina ha voluto sopprimere con un’azione eclatante e che ha rivendicato in segreto, parlandone a più riprese con il suo compagno d’ora d’aria al chiuso del 41 bis. Che ci siano stati interessi convergenti con personaggi esterni a cosa nostra, questo è accertato processualmente attraverso le indagini sulle stragi. Ma quali? Ci viene in aiuto la motivazione della sentenza Capaci Bis. Il “gioco troppo grande” è stato individuato dalla Corte di Caltanissetta in una sinergia che “si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone”. Ed ecco che si arriva al movente che singolarmente viene continuamente insabbiato da presunte “inchieste” televisive: “Alla base di questa campagna di delegittimazione - scrive la Corte - vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa nostra”, ma anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche”. Lo stesso Falcone, sempre tramite i suoi scritti, ha considerato che la ricchezza crescente di Cosa nostra le dava un potere accresciuto, che “l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini”. Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini. Non è un caso che, nelle sentenze, tra i mandanti della strage di Capaci (ma anche di Via D’Amelio) compare anche Salvatore Buscemi. Non è un personaggio secondario, visto che, assieme al fratello Antonino, erano fondamentali all’interno di Cosa nostra visto che ricoprivano un ruolo assolutamente dominante nella cosiddetta imprenditoria mafiosa avvalendosi della compiacente “collaborazione” fornitagli da taluni esponenti delle istituzioni di allora e da enormi settori del mondo dell’imprenditoria e della finanza. La pista è quella di mafia appalti, ed è quella che viene reclamata più volte dalla famiglia Borsellino, in particolar modo dall’avvocato Fabio Trizzino. Ci sono una quantità industriali di atti, testimonianze, verbali, che fanno chiaramente capire che Borsellino, anche informalmente, stava indagando sulla causale appalti e forse anche cose gravi che sarebbero avvenute all’interno della procura di Palermo guidata dall’allora capo Pietro Giammanco. Lo disse pubblicamente nel discorso a casa professa: “Falcone approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, di non poter più continuare ad operare al meglio”. Cosa ha scoperto Borsellino? Purtroppo non fece in tempo: ci fu l’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Secondo il Borsellino quater, la causale è da ritrovarsi sul suo interessamento riguardante il “dossier mafia appalti”. Il che inquadra un periodo ben preciso pieno zeppo di avvenimenti, incontri, sofferenze e inquietudini. Il problema è che si tratta di una pista ancora non approfondita fino in fondo, nonostante siano emersi nuovi materiali grazia anche al contributo de Il Dubbio. Ma ancora una volta, ci sono trasmissioni in prima serata che puntano su piste surreali. E forse c’è anche dell’altro. Qualcuno imbecca gli ignari giornalisti di Report per deviare l’opinione pubblica e magari anche gli inquirenti? Interessante il comunicato della procura di Caltanissetta in merito alle perquisizioni effettuate nei confronti della redazione di Report: non sono indagati e la perquisizione non è stata fatta perché hanno disorientato il pubblico. Ci sarebbe qualcosa di più. Come precisa il procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, la perquisizione non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista, “benché la stessa sia presumibilmente susseguente ad una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario”. Secondo quanto accertato dalla procura, il giornalista avrebbe incontrato il luogotenente dei carabinieri in congedo Walter Giustini, non per richiedergli informazioni, ma per fargli consultare la documentazione in possesso in modo che lo stesso Giustini fosse preparato per le imminenti sommarie informazioni da rendere alla Procura nissena. Secondo quest’ultima è quindi necessario verificare la natura di tale documentazione posta in lettura al Giustini, che “presumibilmente costituisce corpo del reato di rivelazione di segreto d’ufficio relativo alla menzionata attività di altra autorità requirente”. La procura smentisce categoricamente le dichiarazioni rese da Lo Cicero (autista del boss Mariano Tullio Troia) sul fatto che sarebbe stato possibile evitare la strage di Capaci e anticipare di alcuni mesi la cattura di Salvatore Riina. Così come, sia nel corso delle conversazioni intercettate, che nel corso degli interrogatori da lui resi, al Pubblico Ministero e ai Carabinieri, Lo Cicero non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie sul luogo dell’attentato di Capaci. Ora però c’è da chiedersi a chi giova tutta questa disinformazione, magari fatta all’insaputa degli autori dell’inchiesta televisiva. Qualcuno avvelena i pozzi da moltissimo tempo. Strage di Capaci, Report e la pista nera: troppi mandanti occulti per una sola strage di Attilio Bolzoni e Giovanni Tizian Il Domani, 25 maggio 2022 Ma quanti “mandanti esterni” ci sono per l’uccisione di Giovanni Falcone? Quanti lo volevano morto il giudice che ha fatto tremare per la prima volta la mafia siciliana? Le indagini sulla bomba Capaci s’inseguono, si sovrappongono, a volte s’incrociano e a volte si dividono. Sugli “altri”, quelli che non sono i boss della Cupola, i Totò Riina e i Leoluca Bagarella, ci stanno dietro tutti. In ordine sparso, ma tutti. La procura di Caltanissetta, che è la titolare ufficiale delle investigazioni. Quella di Reggio Calabria, che è concentrata sulla “‘ndrangheta stragista”. C’è la procura di Firenze che è partita dal massacro dei Georgofili del maggio 1993 e c’è quella di Palermo che smista pezzi di inchiesta “per competenza” di qua e di là. Ogni distrettuale ha la sua verità, i suoi pentiti preferiti, le sue piste. Con una procura nazionale che non riesce mai a tenerle a bada tutte perché, non sempre, prendono la stessa strada. Va avanti così da anni, da molti anni. Troppi. Metodi d’indagine lontani - C’è una grande confusione sulle indagini sulle stragi. Forse è eccessivo definirla “guerra fra procure”, certo è che metodi d’indagine molto lontani fra loro non si fondono in armonia ma, al contrario, producono frizioni, mettono distanze, generano disorientamento. A Caltanissetta procedono passo dopo passo con particolare attenzione ai depistaggi sempre in agguato. Prima il caso di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo che ha raccontato una valanga di fregnacce sui rapporti fra i Corleonesi e gli apparati dello stato. Poi il caso del pentito catanese Maurizio Avola con la sua grottesca ricostruzione dell’attentato di via Mariano D’Amelio: niente mandanti esterni, noi mafiosi abbiamo fatto tutto da soli. La procura di Firenze è in piena attività investigativa sui fratelli Giuseppe e Filippo Graviano in contatto con il senatore Marcello Dell’Utri (e di sponda con Silvio Berlusconi), così pure la procura di Reggio Calabria che in aggiunta ha i boss della ‘ndrangheta coinvolti nel progetto stragista del 1992. Il cuore nero dello stato, i fascisti legati a servizi segreti incontrollati, spuntano in ogni spezzone d’indagine. E in alcuni casi le tracce sono evidenti e riscontrate. In altre meno. Come nell’ultima inchiesta della procura generale di Palermo rivelata da “Report”. Sulla scena di Capaci ecco che viene immesso Stefano Delle Chiaie, un mistero italiano lui stesso. Ex del movimento sociale italiano, poi fondatore di Avanguardia Nazionale, formazione neofascista eversiva sciolta nel 1976. Delle Chiaie scomparso dai radar per moltissimo tempo è riapparso qualche anno fa, prima della sua morte, ricostituendo un movimento che si ispirava alla vecchia Avanguardia e andava a braccetto ultimamente con Forza Nuova romana, il partito di Roberto Fiore, coinvolto nell’assalto no Vax- no green pass alla Cgil del 9 ottobre 2021. Il fondatore di Avanguardia è morto il 9 settembre 2019, portando con sé nella tomba ogni segreto. Dai massacri di piazza Fontana alla stazione di Bologna, latitante prima in Spagna e poi nel Cile del dittatore Pinochet, mai condannato per nessuna di queste vicende. Nel suo curriculum c’è anche il tentativo del golpe ideato dal generale Julio Valerio Borghese nel 1970, sfumato prima che le operazioni cominciassero. Intrighi che si saldano alla storia della ‘ndrangheta nella sua versione eversiva, i cui ideologi sono stati alcuni padrini che governavano e governano Reggio Calabria ancora oggi. Un altro neofascista come Franco Freda, leader di Ordine Nuovo, ha trascorso la latitanza a Reggio protetto dagli uomini della famiglia De Stefano, l’espressione massima della ‘ndrangheta. Freda fu processato e assolto per mancanza di prove nel processo sulla bomba a piazza Fontana del 1969. Nel 2005 la Cassazione ha affermato che la strage fu architettata da “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo...capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”, dichiarandoli però non più processabili. Freda ha sempre dichiarato la sua innocenza. Sistemi Criminali - Il nome di Delle Chiaie non è nuovo nelle indagini dell’antimafia. Un’inchiesta conclusa con un’archiviazione conosciuta con il nome di “Sistemi Criminali” lo indicava come uno degli architetti del reticolo di leghe meridionali che avrebbe dovuto staccare il sud Italia dal resto del paese, in pratica era il progetto al contrario dalla Lega Nord degli anni ‘80-90. Con Delle Chiaie tra gli indagati c’erano boss stragisti del calibro dei fratelli Graviano (coinvolti nelle stragi di mafia ‘92-94) e persino Licio Gelli, il capo della loggia P2. Il pm che aveva avviato l’indagine scrive nella richiesta di archiviazione che non è “sufficientemente provato che l’organizzazione mafiosa deliberò di attuare la “strategia della tensione” per agevolare la realizzazione del progetto politico del gruppo Gelli - Delle Chiaie, né che l’organizzazione mafiosa abbia approvato l’attuazione di un piano eversivo-secessionista per effetto di contatti col gruppo Gelli - Delle Chiaie”. Pista mafiosa e pista nera che s’incontrano un’altra volta: Giovanni Falcone era convinto che ad uccidere il presidente della regione siciliana nel 1980 Piersanti Mattarella fosse stato il sicario dei Nucleo Armati Rivoluzionari Giusva Fioravanti, poi assolto dall’accusa di omicidio sino in Cassazione. Le ombre nere che tornano sempre. La puntata di Report le colloca addirittura su Capaci. Riprendendo vecchie piste, pentiti e confidenti di molti anni fa, tante cose note da tempo ma che finora non avevano mai portato a nulla di concreto. È quello che fa intendere la procura di Caltanissetta nella in cui illustra le motivazioni della perquisizione nella redazione di Report. Uno dei pentiti citati dalla trasmissione, tale Lo Cicero, “sia nel corso delle conversazioni intercettate, che nel corso degli interrogatori da lui resi, non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie”, scrive il procuratore Salvatore De Luca. Chi avrà ragione? “Sono trascorsi moltissimi anni e i muri sono spesso insormontabili”, dice amara un’autorevole fonte investigativa che lavora al dossier stragi. E le divisioni fra i pubblici ministeri certo non aiutano. La caccia dei magistrati alle fonti è un attentato alla libertà di stampa di Giulia Merlo Il Domani, 25 maggio 2022 Il diritto al segreto professionale per i giornalisti in Italia viene sempre più spesso messo a repentaglio, sia da parte della politica che dalle iniziative della magistratura. A mancare è una normativa compiuta in materia di tutela delle fonti e di garanzia del segreto professionale. Maggiore tutela esiste a livello europeo in cui giurisprudenza costante della Corte di Strasburgo. La più famosa è la sentenza Goodwin. In Italia, tuttavia, queste regole non vengono sempre rispettate e il rischio per le fonti è altissimo. Il reato ipotizzato, nel caso in cui una fonte venga individuata, è quello di rivelazione di segreto d’ufficio, che ha una pena che va dai 6 mesi ai 3 anni. Il lavoro giornalistico, soprattutto nel caso di inchieste su vicende ancora opache, si fonda sul vincolo di fiducia e segretezza che lega il giornalista alle sue fonti. Il diritto al segreto professionale per i giornalisti, tuttavia, in Italia viene sempre più spesso messo a repentaglio, sia da parte della politica sia dalle iniziative della magistratura. È il caso delle iniziative di Italia viva contro una puntata di Report in cui si contestava la provenienza della fonte dell’incontro tra Matteo Renzi e un dirigente dei servizi segreti. Nel caso delle procure, invece, questo avviene in tutti i casi in cui vengono messi sotto controllo i cellulari dei giornalisti oppure perquisite le redazioni e sequestrati gli strumenti di lavoro come i pc e i cellulari, dove sono contenuti documenti riservati utili a risalire proprio alle fonti. Proprio questa modalità d’indagine viene utilizzata con sempre maggiore frequenza: la più recente è di ieri, quando la procura di Caltanissetta ha disposto (e poi revocato il decreto alla fine della giornata) la perquisizione dell’abitazione privata dell’inviato di Report Paolo Mondani e poi anche della redazione, in seguito alla messa in onda di un servizio che apre nuove ipotesi investigative sulla strage di Capaci. Nei mesi scorsi c’era stata l’iniziativa della procura di Trapani di intercettare giornalisti nell’àmbito di una inchiesta sulle Ong. Se nel caso di Report la procura nissena nel comunicato stampa firmato dal procuratore capo Salvatore De Luca scrive che la perquisizione “non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta da tale giornalista (non indagato, ndr), benché la stessa sia presumibilmente susseguente a una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario”, aggiunge anche che l’atto è servito a “verificare la genuinità delle fonti”. Acquisire i computer personali e i cellulari di un giornalista significa indirettamente avere accesso a informazioni utili a risalire a chi abbia fornito documenti e informazioni. A maggior ragione in questo caso, in cui è la stessa procura di Caltanissetta a indicare come possibile fonte qualcuno all’interno di “altro ufficio giudiziario”, nel caso dell’inchiesta su Capaci la procura di Palermo. La tutela delle fonti - “Le perquisizioni suscitano perplessità e sconcerto”, ha scritto l’associazione stampa romana, sindacato dei giornalisti del Lazio, aggiungendo che “La tutela delle fonti, l’inviolabilità dei luoghi dove si svolge il lavoro di una intera redazione e degli strumenti di lavoro sono beni preziosi costituzionalmente garantiti sui quali si fonda non solo il giornalismo ma anche il diritto/dovere di informare l’opinione pubblica”. Il problema, tuttavia, rimane la mancanza di efficace tutela per le fonti in caso di iniziative invasive da parte di una procura. La Federazione nazionale della stampa italiana, infatti, ha ricordato il monito della Corte europea dei diritti dell’uomo sul fatto che “gli effetti di ingerenze di questo tipo nell’attività di chi fa informazione equivalgono ad un attacco al diritto dei cittadini ad essere informati” e ha sottolineato come sia necessaria una legge che rafforzi “la tutela delle fonti e il segreto professionale, come primo tassello di un sistema di regole che consenta di fermare la rovinosa caduta che l’informazione di questo Paese sta facendo registrare nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa”. Infatti, a stretta norma di codice di procedura penale, la segretezza della fonte fiduciaria non è assoluto, perché l’articolo 200 stabilisce che il giornalista può opporre il segreto professionale ma, se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. A livello europeo, invece, esiste giurisprudenza costante della Corte di Strasburgo e la più famosa è la sentenza Goodwin, che sancisce come la magistratura non solo non può chiedere a chi scrive il nome della fonte, ma non può neppure cercare di risalirvi autonomamente o indirettamente, sequestrando materiale, intercettando o raccogliendo notizie. Il principio, infatti, è quello della libertà di informazione, che non può essere esercitata se i giornalisti non hanno adeguata tutela e rischiano di mettere in pericolo chi ha rivelato loro le notizie di interesse pubblico. In Italia, tuttavia, queste regole non vengono sempre rispettate e il rischio per le fonti è altissimo. Il reato ipotizzato, nel caso in cui una fonte venga individuata, è quello di rivelazione di segreto d’ufficio, che ha una pena che va dai 6 mesi ai 3 anni e si configura a carico di un pubblico ufficiale che riveli notizie segrete, come per esempio quelle contenute in atti giudiziari d’indagine. Questo modo di procedere da parte delle autorità inquirenti solleva anche una questione di merito: se l’inchiesta - come è il caso di quella sulla strage di Capaci - rivela ipotesi inedite, l’obiettivo dovrebbe essere quello di verificarne la veridicità e non di scoprirne la fonte. Punite come un boss per un mini-peculato: è la Spazzacorrotti di Pasquale Cuomo* Il Dubbio, 25 maggio 2022 Un penalista racconta il caso di due donne condannate ad anni 2 e mesi e tenute al “carcere ostativo” per aver preso qualche rifiuto in una ricicleria cittadina. Mi permetto di scrivere la presente nella mia qualità di difensore di fiducia di due signore, dal 6 aprile 2022 detenute presso la Casa circondariale di Milano-San Vittore in esecuzione della sentenza emessa in data 16 ottobre 2020 dal Gip presso il Tribunale di Milano, che le ha condannate ad anni 2 e mesi due di reclusione per il reato di cui agli articoli 81 c.p.v. 110, 314 c.p e per il reato di cui agli artt. 81 c.p.v. 320 in relazione al 318 c.p..In particolare le due signore, all’epoca dei fatti dipendenti dell’azienda che gestisce il servizio rifiuti presso una ricicleria cittadina, hanno ricevuto qualche regalino in denaro, nell’ordine di 5-10 euro spontaneamente corrisposto da alcuni utenti che ivi si recavano per conferire materiale, e si sono impossessate di alcuni rifiuti che gli utenti avevano conferito in discarica, commettendo, pertanto, il reato di corruzione (in tutto qualche decina di euro) e peculato (appropriazione di rifiuti) essendo state qualificate come incaricate di pubblico servizio. A seguito dell’introduzione della legge n. 3/2019, che è intervenuta anche sull’articolo 4-bis Ord. Pen. le due signore, di anni 60 e 56, incensurate e ad oggi pensionate, si sono trovate a scontare la pena in regime di detenzione senza poter accedere ad alcuna misura alternativa. L’istanza presentata dal sottoscritto al Magistrato di Sorveglianza di Milano, dopo la carcerazione e volta ad ottenere l’affido in prova in ragione della collaborazione prestata fin dagli albori del procedimento penale, è stata dichiarata inammissibile gettando nello sconforto assoluto le due signore. Mi permetto di segnalare che una delle due signore è vedova da anni, e ha perso una figlia dell’età di 22 anni, invalida fin dalla nascita, di cui si era occupata da sola fino alla morte; per superare l’enorme dolore si prendeva cura, fino all’arresto, della mamma 90enne e di una sorella alcolista.Inutile dire lo strazio della mamma che dal 6 aprile non riceve più le quotidiane visite della figlia. L’altra signora è madre di una ragazza di 22 anni studentessa in Giurisprudenza e moglie di un impiegato; una famiglia modello che sta scontando pene amare dal punto di vista umano per una vicenda abnorme rispetto al fatto compiuto, ossia l’appropriazione di rifiuti e l’accettazione di qualche mancia per il caffè. Mi permetto di segnalare che l’azienda, parte offesa nel procedimento penale, in sede civile avanti il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, ha conciliato la causa di impugnazione del licenziamento corrispondendo addirittura una cospicua somma di denaro alle due signore, e ha rinunciato ad ogni richiesta di risarcimento nel procedimento penale che, tuttavia, è stato coltivato d’ufficio dal Pm. Le due signore hanno collaborato con il Procuratore chiedendo di patteggiare la pena fin dalla notifica del primo avviso di garanzia; credo sia un caso più unico che raro in Italia. Nondimeno la Procura ha ritenuto la condotta processuale delle signore corretta ma non idonea al fine di assicurare loro i benefici delle misure alternative. In buona sostanza per essersi impossessate di qualche rifiuto abbandonato in discarica e di qualche mancia per il caffè, le due signore, a tenore del novellato art. 4bis Ord. Pen. dovranno scontare in regime carcerario 2 anni e 2 mesi di reclusione con telefonate ridotte al lumicino come se fossero due appartenenti alla mafia o associazioni simili. Non serve essere giuristi del livello e della sensibilità dell’appena scomparso Professor Onida per comprendere l’indefettibile urgenza di apportare immediata correzione al sistema normativo in vigore. Lo sconforto che sta pervadendo il cuore e l’anima di queste due persone, consapevoli di aver commesso azioni illecite, può portare a conseguenze che ricadrebbero sulle nostre coscienze come macigni. Spero si possa trovare una soluzione ragionevole a simili storture rimuovendo l’ingiusta equiparazione tra reati di straordinaria gravità che giustamente vanno perseguiti e sanzionati con rigore e reati di più modesta entità che scontano il fatto di trovarsi entrambi nel novero dei reati cosiddetti ostativi. La punizione è giusta; la tortura non ha alcuna funzione rieducativa. Ringrazio fin da ora per l’attenzione a questo caso simile a tanti ancora anonimi sui quali è calato dal 2019 il più assordante silenzio. *Avvocato del Foro di Milano Bolzano. Morte in carcere, aperta un’indagine per omicidio colposo di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 25 maggio 2022 Oskar Kozlowski, reo confesso dell’omicidio di Maxim Zanella, è stato trovato morto in carcere lunedì scorso. Lo hanno trovato gli altri detenuti, riverso sul fornelletto da campeggio. Ancora non è chiaro se si sia trattato di un suicidio o di un incidente, legato al fatto che il 23enne vo- lesse inalare del gas per stordirsi. Per far luce sulla vicenda la Procura ha aperto un’indagine per omicidio colposo: con ogni probabilità l’intenzione è far luce su eventuali carenze nella rete di protezione dei detenuti. La situazione del carcere di Bolzano è drammatica, come denunciato dall’associazione Antigone: mancano spazi e gli agenti di polizia penitenziaria sono 55 su 75. Per la morte, in carcere, di Oskar Kozlowski la Procura indaga per omicidio colposo. Non rende noti i nomi di eventuali indagati, ma con ogni probabilità l’intenzione è quella di far luce su eventuali “falle” nella rete di protezione dei detenuti. Per una vicenda dai contorni ancora poco definiti: non è chiaro, infatti, se si sia trattato di un suicidio, tesi avvalorata dal fatto che, già a marzo, il giovane aveva tentato di togliersi la vita, o di un incidente, legato al fatto che volesse inalare del gas, dal fornelletto in dotazione ai detenuti, per stordirsi. L’unica certezza è che il corpo del 23enne, riverso sul fornelletto, è stato trovato lunedì scorso dagli altri detenuti del carcere di via Dante, che hanno dato l’allarme. Con la morte di Kozlowski, si chiude anche il processo a suo carico per la morte dell’amico Maxim Zanella, 30 anni. I due, il 28 luglio dello scorso anno, si erano dati appuntamento nell’appartamento di Zanella a Brunico, per praticare un rito satanico. Nemmeno il tempo di iniziare che Kozlowski aveva estratto dalla tasca un coltello e colpito Zanella con un’unica coltellata risultata mortale, tra la clavicola e il collo. Il 23enne, a quel punto, aveva lasciato l’appartamento, iniziando a vagare per le strade. E liberandosi del celil lulare e dell’arma del delitto mentre si dirigeva al Pronto soccorso. Lì, gli operatori sanitari avevano chiamato i carabinieri, notando i tagli sulle braccia. L’accaduto era stato ricostruito in breve tempo, e per Kozlowski s’erano aperte le porte del carcere. Kozlowski aveva confessato il delitto, ma mai il movente. Per lui, e su richiesta della difesa, il giudice delle indagini preliminari, aveva disposto la perizia psichiatrica, in incidente probatorio, per accertare la sua capacità di intendere e di volere. Nei mesi in carcere, aveva raccontato di essersi sentito “abbandonato da Dio” e di aver deciso di “abbracciare satanismo” proprio nel periodo al quale risale il delitto, privo di un vero movente. E sempre al periodo di detenzione risalirebbe il suo ritorno “a credere in Dio”. Parole che erano finite agli atti d’indagine sul delitto di Zanella. Indagine conclusa, però, con la morte dell’indagato. Con la Procura che, ora, ne ha aperta un’altra, coordinata dal pm Andrea Sacchetti, per omicidio colposo per la sua morte in cella, lunedì scorso. In un contesto, quello del carcere di Bolzano, di vera emergenza, come denuncia da anni l’associazione Antigone che monitora lo stato di salute delle carceri italiane. Al momento dell’ultima visita, a settembre, il problema di sovraffollamento era evidente, con 107 detenuti presenti (106 a fine aprile) a fronte di 88 posti regolamentari. Oltre all’inadeguatezza della struttura (che risale al 1800 ed è priva di spazi verdi), Antigone aveva evidenziato il problema del “sottodimensionamento del personale”: ad oggi, sono in servizio 55 agenti di polizia penitenziaria su una pianta organica che ne prevede 75, con grosse difficoltà a garantire la sorveglianza e a organizzare i turni di lavoro. In particolare, manca personale educativo “e la scarsità di progetti esterni rendono la vita in questo carcere ancor più difficile. Non ci sono attività lavorative se non quelle interne, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, né sono attivi corsi di formazione professionale”. E le bombolette da campeggio per cucinarsi qualcosa, sono uno dei pochi svaghi concessi. Torino. Nasce un centro per proteggere i genitori. “Noi, per dieci anni vittime di nostro figlio” di Simona De Ciero Corriere della Sera, 25 maggio 2022 Il progetto “Le Querce di Mamre” del gruppo Abele per aiutare chi, come Alberto e Anna, subiscono molestie dai propri ragazzi. Ha aperto il frigorifero e ci ha fatto pipì dentro. “Ricordo perfettamente quella frazione di secondo, quando capii che, non reagire a quell’ennesimo gesto di violenza, avrebbe significato distruggere definitivamente la mia famiglia. E non certo per il cibo da buttare. Ormai eravamo sul lastrico e il frigo era vuoto da giorni. Il cuore, invece tracimava, ma di dolore. E mio figlio, ci aveva già fatto troppo male per fingere, ancora che qualcosa potesse cambiare”. Era l’inverno del 2015 quando Alberto, Anna e il figlio minore Federico (nomi di fantasia), vanno alla stazione dei carabinieri più vicina, per denunciare, dopo anni di torture, le molestie subite per mano di Marco, il figlio più grande. “Aveva dodici anni quando ha iniziato a pretendere cose fuori dalla nostra portata e reagire in modo esagerato di fronte ai nostri, per la verità rari, rifiuti - continua Alberto - una moto, poi due, poi tre; tante auto, mille pezzi di ricambio per modificarle come fossero Lego, centinaia di scarpe e vestiti: voleva sempre di più e diventava ogni giorno più aggressivo”. Televisori distrutti, mobili spaccati con il coltello, vasi e piatti e bicchieri polverizzati in segno di minaccia. Marco ha tenuto in ostaggio il fratello e i genitori per quasi dieci anni, prima che forze dell’ordine e Gruppo Abele trovassero, insieme, il modo per salvarli. “Si va dai carabinieri a denunciare Marco e le sue violenze, dissi ad Anna e Federico, quel giorno. E così facemmo”. L’uomo rivela di aver tentato più volte, insieme alla moglie, di farsi aiutare. Arrivati di fronte alla caserma o alla questura, però, c’era sempre qualcosa che li bloccava. “La paura immobilizza il pensiero, e noi avevamo paura di tutto: di aver fallito come genitori e del giudizio della gente - si confida ancora Alberto -. Così, tra umiliazioni e soprusi, sono passati dieci anni e il muro di omertà che avevamo alzato di fronte al mondo sembrava troppo alto da abbattere. Da soli è dura, troppo dura. In queste situazioni è indispensabile l’appoggio di qualcuno che ti dica che stai percorrendo la strada giusta e ti sorregga”. I genitori di Marco hanno chiesto e ricevuto aiuto da Adriana Casagrande, psicoterapeuta responsabile del servizio di accoglienza del Gruppo Abele, che offre supporto a persone con dipendenza da sostanze e da comportamento, autori di violenza intra familiare, affidi alternativi alla detenzione. E, con lei, sono stati in terapia ogni settimana per quasi dieci anni, prima di trovare la forza di essere abbastanza “spudorati” da denunciare il proprio ragazzo. In questi giorni il Gruppo Abele ha avviato il progetto “Le Querce di Mamre”, un servizio di accoglienza destinato ai genitori vittime dei figli che, in caso di pericolo, offre loro un rifugio provvisorio in una struttura protetta del Gruppo, e vicino a un educatore pronto a sostenerli durante tutto il periodo di allontanamento da casa. “Quando siamo entrati in caserma, la prima cosa che ci ha chiesto il comandante raccogliendo le deposizioni, era se avessimo un posto sicuro dove nasconderci - ricorda Alberto -. Pensai alla dottoressa Casagrande che da mesi, dopo aver saputo che Marco era arrivato a puntare una pistola scacciacani alle tempie di Anna, cercava di convincerci a sporgere formale denuncia”. L’uomo la chiama e la dottoressa risponde che “qualcosa avrebbe trovato”. Sette anni fa, però, non esisteva una casa accoglienza per genitori vittime di violenza. Così, il Gruppo li nasconde nella Cascina Abele di Murisengo, Alessandria, allora destinata a giovani ragazzi con storie problematiche alle spalle. “Ci riempirono di coccole e, finalmente, nostro figlio più piccolo, Federico (oggi trentatreenne), provò la gioia di rilassarsi con altri coetanei senza il timore che suo fratello potesse arrivare, e spezzare la sua tranquillità”. Nei giorni successivi alla fuga, Marco, che non aveva notizie della famiglia, decise di andare a segnalarne la scomparsa. Arrivato in caserma, invece, l’uomo scoprì di essere stato denunciato e venne arrestato con l’accusa di violenza domestica e percosse reiterate nel tempo. Dopo il processo, Marco (oggi trentottenne) è stato condannato a 3 anni di carcere che ha scontato parzialmente, per poi passare a pene alternative. “Mio figlio soffre di narcisismo patologico ma, grazie al percorso di recupero iniziato a seguito dell’arresto, oggi sta meglio; lavora, ha una casa e, anche se lo vedo poco e con la supervisione di terzi, so che si sta riabilitando, che è autonomo, e che non è pericoloso né per sé, né per gli altri - conclude Alberto - ecco perché, sento forte il bisogno di lanciare un appello, a tutti i genitori vittime dei propri figli: non vergognatevi per la vostra tragedia familiare e abbiate la sfrontatezza di chiedere aiuto”. E denunciare, subito, “senza aspettare di perdere tutto com’è accaduto a noi che, pur di accontentarlo, abbiamo contratto debiti con chiunque conoscessimo, fino a chiedere la carità, per strada”. Se un figlio “vuole sempre più soldi e aspira a un tenore di vita smisurato e fuori controllo, c’è qualcosa che non va, e voi dovete reagire: per lui, e per voi stessi”. Parola di padre. Vicenza. Conclusa la seconda parte del corso “Cittadinanza attiva & responsabile” di Maurizio Ruzzenenti Ristretti Orizzonti, 25 maggio 2022 Si è chiusa oggi la seconda parte del corso di “Cittadinanza attiva & responsabile” finanziato dall’otto per mille della Chiesa valdese che le esperte collaboratrici di progetto Carcere 663 - Acta non Verba hanno tenuto, questa volta, nella sezione Alta Sorveglianza della casa Circondariale di Vicenza Filippo del Papa - S. Pio X. Il corso è stato ben seguito dagli otto partecipanti (numero ridotto per poter osservare le disposizioni anti covid), scelti dai funzionari dell’Area giuridico - pedagogica, che hanno partecipato compatti a quasi tutti gli incontri. Va dato atto (e un sincero ringraziamento) alla Direzione e alla Sorveglianza che, credendo nell’utilità dell’iniziativa, non solo l’hanno seguita ma l’hanno fatta continuare con poche doverose fermate a causa della diffusione dell’epidemia. Hanno usato cautela ma anche dimostrato la propensione di non affrettarsi o continuare nella chiusura pur sempre nel rispetto delle rigide norme anti epidemiche e riaprendo la frequentazione non appena le condizioni di legge lo consentivano. Un successo collettivo quindi che è stato reso possibile dalla collaborazione fra tutti i soggetti interessati. Roma. Per la prima volta dei detenuti entrano in Senato, storia di una “visione” di Manuela D’Alessandro agi.it, 25 maggio 2022 Il “Gruppo della trasgressione”, di cui fanno parte anche reclusi per reati di criminalità organizzata da cui hanno preso le distanze, oggi sarà a Palazzo Giustiniani dopo un percorso iniziato 25 anni fa da uno psicologo milanese. Per la prima volta dei detenuti entrano in Senato. Saranno almeno sette, forse di più: dipende da quanti giudici stanno firmando in queste ore il permesso per farli uscire dalle carceri di Opera, Pavia e Bollate e spostarsi in un’altra regione. La domanda dello psicologo 25 anni fa - Sono reclusi speciali, fanno parte del ‘Gruppo della trasgressione’, e di giornate speciali prima di entrare a Palazzo Giustiniani dove si svolge un convegno sulla loro esperienza alla presenza della Ministra Marta Cartabia e del capo del dipartimento penitenziario Carlo Renoldi, ne hanno vissute molte, sempre accompagnati da Angelo Aparo, Juri per tutti, che 25 anni fa da psicologo di San Vittore ha iniziato a porsi una domanda. Come far incontrare gli autori di reati, anche quelli socialmente più riprovevoli, coi cittadini, con le vittime e i loro familiari, con le istituzioni? Perché, da quell’incontro, questa è stata ed è la spinta alla sua scommessa, può fiorire quella che la Costituzione chiama ‘rieducazione’, che poi è il riprendersi in mano la libertà e non sciuparla, anche nel tempo trascorso dietro le sbarre. Nella sua iniziativa all’inizio visionaria, poi diventata quasi subito ‘pratica’ come il carcere impone, Aparo è stato incoraggiato e accompagnato da molte delle persone che domani lo affiancheranno nell’incontro promosso dal senatore Franco Mirabelli intitolato “Una mappa per la pena - ridurre la libertà per ampliarla’. “Un viaggio nel futuro” - La sua filosofia, spiegata senza retorica anzi con parole crude, durante uno dei tanti incontri in cui reclusi di lungo corso spiegano ai giovani finiti ‘dentro’ come non fare la loro fine: “L’obbiettivo è far provare ai ragazzi detenuti un viaggio nel futuro. Attraverso chi ci è passato entrano in contatto frontale con quello che potranno diventare se non cambieranno rotta, persone che a 50 anni ne hanno passati 30 in carcere. Tante volte, quando porto i detenuti fuori dal carcere, chi li sente parlare si emoziona e pensa che siano dei santi, che non debbano stare dentro. Ma io dico: se sono in carcere è perché sono stati dei coglioni. Le persone però cambiano e io sono convinto che non basti reinserire i detenuti nel lavoro e fargli guadagnare 1200 euro al mese. Bisogna metterli al centro di una progettualità, attraverso le relazioni umane e la maturazione di un senso di responsabilità”. La lettura dei nomi delle vittime della mafia - In Senato ci sarà anche Adriano Sannino, un’era fa killer della camorra, più di 30 anni di carcere e ora uno che porta in giro la sua esperienza. “All’inizio mi guardano un po’ così ma poi quando gli spiego che sono stato uno stronzo e poi come sono cambiato, qual è il punto preciso in cui sono cambiato, mi fanno un sacco di domande. Cerco di essere all’altezza di una grande responsabilità”. È di questo gruppo il documentario ‘Lo Strappo’ in cui Aparo, il magistrato Francesco Cajani, il giornalista Carlo Casoli e il criminologo Walter Vannino hanno fatto emergere, intervistando ‘colpevoli’ e vittime, la lacerazione nella vita di chi compie un reato e di chi lo subisce ma anche la possibilità di ricucire e i mille aghi sottili per farlo. È del gruppo di Aparo anche la prima volta che dei detenuti, saliti sul palco del teatro di Opera, hanno letto i nomi di 940 vittime della mafia e discusso poi coi loro cari, in un confronto denso di emozioni. “Sono stato combattuto fino all’ultimo - aveva detto uno di loro - mi sembrava di sporcare la loro memoria con la mia voce”. Ogni settimana, chi vuole ‘trasgredire’ può incontrare artisti, studiosi, insegnanti, vittime e familiari, partecipare a tirocini con studenti e alle iniziative che negli anni crescono e si rinnovano. “Portare la nostra esperienza in Senato è un onore e una gratificazione”, l’emozione di Aparo che ha una richiesta: “Alle istituzioni chiediamo un centro di studi sulla devianza e di prevedere, già subito dopo la prima condanna definitiva, un progetto e un percorso di evoluzione per far sì che le persone detenute diventino cittadini pienamente partecipi della società che hanno offeso”. Napoli. “Fuori dalle gabbie”, così i detenuti si prendono cura dei cani abbandonati di Chiara Ludovisi redattoresociale.it, 25 maggio 2022 Il progetto di reinserimento lavorativo, ideato e promosso dalla fondazione Cave Canem, ha portato alla nascita del primo canile comunale di Napoli. Realizzato anche in Lazio, in Campania e a Spoleto, sbarca sulla piattaforma di Intesa Sanpaolo per il finanziamento dal basso. Fino ad oggi, coinvolti 150 autori di reato (anche minorenni) e 200 cani. Prendersi cura dei cani può essere un modo per prendersi cura di sé e ritrovare un posto e un lavoro nella società, mentre si sconta la pena per un reato. È la scommessa della fondazione Cave Canem, che con il progetto “Fuori dalle Gabbie” si pone proprio l’obiettivo di creare una sinergia tra cani senza padrone e detenuti, a beneficio degli uni e degli altri. Dal 2019 a oggi, il progetto ha coinvolto tre istituti penitenziari, oltre 150 autori di reato, tra cui alcuni minori, e più di 200 cani tra Umbria, Lazio e Campania. In particolare, la collaborazione delle persone detenute nell’Istituto Penitenziario di Secondigliano, ha favorito l’apertura del primo canile comunale di Napoli, la “Collina di Argo”, nel 2021. A Roma, invece, il progetto si è svolto all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni Casal del Marmo, coinvolgendo finora diciotto giovani in attività ed esperienze che potrebbero risultare utili e spendibili una volta fuori dal carcere. Il progetto è partito dalla Casa di Reclusione di Spoleto, dove sono stati attivati corsi di formazione professionale in materia di gestione, accudimento e recupero comportamentale dei cani. Le persone detenute sono state parte attiva in opere di manutenzione e migliorie al canile comunale, nella realizzazione di un piccolo rifugio per cani abbandonati nei pressi del penitenziario, nell’allestimento della prima area cani della città nella zona di Spoletosfera. Coloro che si sono distinti maggiormente per il loro impegno sono stati premiati con borse-lavoro. Ora il progetto ambisce a crescere ancora e chiede un “aiuto dal basso”, sbarcando su For Funding, piattaforma di raccolta fondi di Intesa Sanpaolo. Ci sono sei mesi di tempo per raccogliere 30 mila euro e continuare ad aiutare al tempo stesso persone detenute e cani senza famiglia. Per contribuire al crowdfunding è sufficiente visitare la pagina dedicata sulla piattaforma online e individuare la propria capacità di spesa, a partire da un importo di 20 euro (sufficienti per acquistare un trattamento antiparassitario per i cuccioli), fino a un massimo di 300 (per sostenere la realizzazione di una nuova cucciolaia nel canile comunale di Spoleto). “Siamo fieri e onorati di aver ricevuto una tale fiducia da Intesa San Paolo - afferma Federica Faiella, vicepresidente della fondazione Cave Canem - speriamo di raggiungere quanto prima l’obiettivo di 30 mila euro per poter dare nuova linfa al progetto in essere a Spoleto e lasciare al territorio come già fatto in altre realtà, un modello di coprogettazione che veda il canile comunale, il Comune e il carcere operare in sinergia per cambiare il destino di cani abbandonati e offrire un’occasione di riscatto e riavvicinamento al mondo del lavoro a persone detenute, accuratamente selezionate e formate. Trasformeremo in aiuti concreti la generosità di coloro i quali decideranno di sostenerci”. Genova. “E il mondo si chiuse fuori”, un incontro per parlare alla rieducazione dei detenuti lavocedigenova.it, 25 maggio 2022 Venerdì 27 maggio un incontro dedicato al romanzo corale che tratta di carcere, voglia di emergere e di ricominciare insieme. Venerdì 27 maggio alle 18 presso il Foyer del Teatro della Tosse (Piazza Renato Negri, 6, Genova) si terra? un incontro dedicato al volume E il mondo si chiuse fuori e alle esperienze di rieducazione che coinvolgono i detenuti delle carceri. Intervengono: Grazia Paletta, curatrice del volume, Tullia Ardito, Direttore della Casa Circondariale di Genova Marassi, Maria Milano d’Aragona, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, Mirella Cannata, Associazione Teatro Necessario, Maurizio Aletti, Comunità di Sant’Egidio. Modera Erica Manna, giornalista La Repubblica. “E il mondo si chiuse fuori” e? un romanzo corale, una storia di vita immaginata ma possibile, credibile e nello stesso tempo fantasiosa, intenzionalmente oltre le righe quel tanto da consentire il superamento di una realtà purtroppo scomoda -quella della vita in carcere - che almeno sulla carta può essere ridefinita nero su bianco lasciando che le parole scorrano ed esprimano intensità d’animo sovente negate. Il desiderio di dar vita a una “creatura comune” si e? manifestato fin dall’inizio del corso di scrittura creativa avviato nel 2016 nell’Istituto Circondariale di Marassi (e proseguito presso quello di Saluzzo), ideato con metodi innovativi anche dagli stessi partecipanti, e l’entusiasmo scaturito da questi primi tentativi, la voglia di stare insieme, di mettersi in gioco, di confrontarsi e impegnarsi sono sfociati in quello che solitamente nessun formatore osa neppure sognare: l’invenzione e la realizzazione di una narrazione collettiva. E? nata cosi? una “storia criminale” - con personaggi che si ispirano al vissuto reale dei vari autori - che parla di carcere, di azioni illegali, di voglia di emergere, di vizi, di denaro, di prepotenze e di violenze, ma anche di ricerca di se?, di significati altri, di affetti perduti, di prese di coscienza e, dalla prima all’ultima pagina, di amicizia, di rispetto, di desiderio di aiutarsi e di voglia di ricominciare insieme. Per prenotarsi all’evento e? necessario scrivere a info@cannetoeditore.it. La Spezia. Attori-detenuti agli Impavidi. Il teatro come varco per un tragico sorriso di Marco Magi La Nazione, 25 maggio 2022 In scena domani e venerdì sera con lo spettacolo “Tutto quel che sono”. Progetto artistico e regia di Casale, Bandoli e Benelli. Una toccante riflessione sulle parole che Petrolini ha dedicato a libertà, vite dimenticate e rinascita. Senza indulgere in pietismi. Petrolini e la libertà, vite dimenticate e rinascita. Il Teatro Impavidi di Sarzana ospita domani e venerdì sera, alle 21, lo spettacolo teatrale ‘Tutto quel che sono... con un tragico sorriso’, che vedrà in scena gli attori-detenuti della casa circondariale della Spezia. La regia e il progetto artistico sono di Enrico Casale, Renato Bandoli e Simone Benelli. Casale, all’ennesima esperienza che nasce tra le mura del carcere, cosa riesce ancora a stupirla? “Lo stupore e la meraviglia fanno parte del processo creativo. A volte tutto ciò che emerge nel corso di prove, improvvisazioni, ricerca di temi e suggestioni, riescono ad arrivare alla loro forma scenica. E allora lo spettatore lo percepisce e a sua volta ne viene coinvolto. In fondo è questa la corrente emotiva che si dovrebbe stabilire nell’incontro tra attori e pubblico. Nel percorso intrapreso con i detenuti, ci stupisce la loro capacità di sganciarsi dal quotidiano della sofferenza e della detenzione”. Bandoli, qual è la difficoltà maggiore a lavorare con persone detenute? “Ovviamente, nonostante gli sforzi e la disponibilità della direzione dell’istituto e del personale, esistono tante difficoltà, dovute alla mancanza di spazi adeguati, e ai tempi del teatro, che non sono sempre compatibili tempi e regolamenti penitenziari. Da un punto di vista che potremmo dire di ‘antropologia teatrale’, le difficoltà nell’avvicinarsi al teatro da parte di persone sprovviste di strumenti specifici, sono quelle di compiere un enorme sforzo per liberarsi dai tranelli biografici, affrancarsi dagli stereotipi, dalle costrizioni abitudinarie alle quali il carcere costringe e ritrovare la gioia del gioco liberatorio”. Casale, se riabilitare è meglio di punire, perché il teatro può essere uno dei passaggi per arrivare a togliere l’etichetta ad un carcerato? “Questo è un tema, che ha più a che fare col sistema culturale dominante, che non con il teatro più minoritario che si pratica nelle carceri, ma anche in quelle istituzioni che un tempo si sarebbero chiamate ‘totali’ (ospedali, scuole, istituti per disabili, centri per immigrati). Certo, il teatro, come insieme di linguaggi e discipline artistiche, può aiutare oltre che a divertire in senso autentico, anche a scavare in se stessi, prendere coscienza della realtà e delle proprie potenzialità, un ‘varco’ che può aprire altre vie e creare nuove possibilità di stare nel mondo. Nel nostro lavoro, però, abbiamo sempre cercato di non indulgere in pietismi inutili. La ‘riabilitazione’ delle persone non può competere al teatro”. Bandoli, più libertà o liberazione da parte degli attori che partecipano? “Non c’è arte che si presti, come quella teatrale, alla riattivazione dell’individuo nelle comunità isolate. La pratica scenica, con la sua organizzazione plurilinguistica, può valorizzare ogni inclinazione dei detenuti: la fabbricazione di luci, scene, oggetti, musiche, la narrazione e l’esibizione. Il teatro è fattore di compensazione delle angosciose incertezze di vita, il che vale sia per l’attore che per lo spettatore. Il teatro in luoghi reclusi è metafora vivente di una casa collettiva fondata sul bisogno d’espressione personale e corale. Ecco è qui, in questa ‘casa’ che si colloca il processo liberatorio della pratica teatrale”. Casale, far ridere è una cosa seria per Petrolini. E per voi? “Non resta che affidarci alle parole di filosofia petroliniana: ‘Ridere molto dinanzi al pubblico, spesse volte, è un comodissimo modo per piangere. Per essere amati dal pubblico, si deve ridere. Per amarlo davvero, bisogna piangere’”. Bandoli, sul palco Petrolini, su cui si basa lo spettacolo, restituiva dal palcoscenico ciò che rubava nella vita. Oggi come allora? “Sono mutate solo le forme della ‘restituzione’ di ciò che dalla vita rubiamo anche noi. Quel che rimane invariato è il meccanismo esclusivamente umano che innesca il comico, la comicità e tutto il corollario conseguente. La risata ne è l’effetto”. Bari. All’Ipm uno speciale “Viaggio nella musica” con gli archi del Collegium Musicum baritoday.it, 25 maggio 2022 È stato presentato questa mattina a Palazzo di Città, dal direttore artistico Rino Marrone, dall’assessora alle Politiche educative e giovanili Paola Romano e dal direttore dell’Istituto Penale per Minorenni “Nicola Fornelli” Nicola Petruzzelli, “Viaggio nella musica”, l’appuntamento gratuito promosso dal Collegium Musicum all’interno nel Fornelli di Bari con l’obiettivo di restituire bellezza e stimolare la speranza per una vita migliore. Un concerto, ma anche un incontro e un dialogo con i detenuti, per superare le barriere che rinchiudono corpo e anima di tutti loro. Il concerto, organizzato in collaborazione con l’assessorato alle Politiche educative e giovanili del Comune di Bari, si terrà venerdì 27 maggio, alle ore 9.30: ad esibirsi saranno gli archi del Collegium Musicum, di fronte al pubblico dei detenuti del carcere minorile barese. Gli archi del Collegium Musicum eseguiranno per l’occasione musiche note, nonché grandi capolavori: tutti brani legati a una semantica sonora che crea immediata empatia in qualunque ascoltatore. A partire dalla celebre Serenata n. 13 “Eine Kleine Nachtmusik” K.525 e dal Divertimento in re maggiore K.136 di Wolfgang Amadeus Mozart, per poi passare a brani tratti dalla “Simple Symphony” di Benjamin Britten, al Libertango di Astor Piazzolla, e infine a due Suite di musiche per il cinema di Federico Fellini e Sergio Leone, composte rispettivamente da Nino Rota ed Ennio Morricone. Nell’idea del Collegium Musicum non si tratterà solo di una esibizione concertistica, intesa nella sua più classica accezione: “Viaggio nella Musica” vuole essere innanzitutto un incontro con i minori detenuti all’Istituto Fornelli, per stimolare con loro un dialogo che parta dalla musica, per arrivare a toccare la sensibilità più intima. Se la musica offre da sempre la possibilità di esprimere e comunicare sentimenti ed emozioni, elaborando nuove modalità di relazioni, lo scopo è cercare di superare, tramite il linguaggio musicale, le difficoltà psicologiche dovute alla scarsa autostima e ad una mancanza di progettualità per il futuro, specialmente se si tratta di giovani uomini e giovani donne. Per ridare nuova linfa alla ripresa della fiducia in sé stessi, oltre al fondamentale recupero del senso della propria esistenza. Pavia. “Cattività”, il carcere che rieduca. L’esperienza costruita a Vigevano di giacomo aricò La Provincia Pavese, 25 maggio 2022 Gherardo Colombo ospite alla rassegna “Cinema e giustizia” al Movieplanet di San Martino. In sala (ore 21) anche il giudice di Pavia Valentina Nevoso. Il film si proietta dalle ore 22. “Il carcere è la detestabile soluzione di cui non si saprebbe fare a meno”. È su questa profonda riflessione di Michel Foucault (1926-1984) che si struttura “Sorvegliare e punire”, il terzo ed ultimo appuntamento - che cita esplicitamente il saggio dello storico e filosofo francese (titolo originale “Sorvegliare e punire: nascita della prigione”, scritto nel 1975) - della rassegna cinematografica “Cinema e Giustizia” che domani sera si terrà al Movieplanet di San Martino Siccomario. L’iniziativa, organizzata dalla Camera Penale e dall’Ordine degli Avvocati di Pavia, prevede prima l’incontro formativo (aperto a tutti, con inizio alle 21) e poi (ore 22) la proiezione di “Cattività” (2019), il documentario diretto dal regista Bruno Oliviero, fresco vincitore del David di Donatello per la Miglior Sceneggiatura di “Ariaferma” (2021), la pellicola civile di Leonardo Di Costanzo che lo scorso 11 maggio ha dato il via alla rassegna. All’incontro “Sorvegliare e punire” prenderà parte l’ex magistrato Gherardo Colombo (vent’anni fa fondamentale componente del pool “Mani pulite”) che sarà affiancato da Valentina Nevoso, giudice del Tribunale di Pavia. A moderare i due ospiti sarà l’avvocato penalista Marcello Caruso che ci spiega: “Secondo l’articolo 27 della Costituzione le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato: sotto questo profilo il nostro sistema punitivo è in larga parte un sistema illegale”. Una riflessione forte, che, continua Caruso, “Si affianca a quanto sostenuto dallo stesso Colombo che ritiene che il carcere non è affatto una soluzione e, anzi, se ne potrebbe e dovrebbe fare a meno. E anche il più importante dei penalisti italiani, il Professor Giovanni Fiandaca, ha avuto modo già di dire che il carcere non è la medicina ma è il veleno”. Ne consegue che quello di domani sera, sempre secondo le provocatorie parole di Caruso, “Sarà un convegno ‘eretico’, dove però cercheremo di comprendere anche il punto di vista di chi è chiamato a punire”. La Costituzione italiana, però, non è del tutto tradita: esistono delle carceri dove gli operatori e i volontari, nonostante le condizioni difficili dovute al sovraffollamento e alla carenza del personale, si adoperano con fatica e passione per recuperare, anche attraverso l’arte, l’uomo in carne e ossa che vive dietro le sbarre. È il caso del carcere di Vigevano e del suo direttore Davide Pisapia, dove nel 2019 venti detenute per reati associativi, soggette a regime di alta sicurezza, sono state coinvolte nel progetto teatrale “Educarsi alla libertà” diretto dal pluripremiato regista Mimmo Sorrentino, da oltre vent’anni impegnato con il suo teatro sociale al fianco delle categorie fragili (come detenuti, anziani, malati terminali, ecc.). Un percorso umano ed artistico che - oltre ad essere stato rappresentato anche al Teatro Paolo Grassi di Milano (grazie a permessi speciali concessi dalla magistratura di sorveglianza) - è stato raccolto e raccontato nel film documentario “Cattività” di Bruno Oliviero che sarà proiettato alle 22 alla presenza di Mimmo Sorrentino. Al fianco di Luigi Riganti e Marco Mariani, a curare questa quarta edizione di “Cinema e Giustizia” è stata Cristina Francese che dal 2013 si occupa delle rassegne del gruppo cinematografico Movie Planet: “Ritengo che il cinema sia una immensa e magnifica metafora della vita e, quando è fatto bene, rappresenta anche impegno sociale: restituire dignità e dare visibilità alle urgenze della nostra società diventa un imperativo”. La curatrice è infatti convinta che “Differenziare la programmazione delle sale cinematografiche possa creare un dibattito e uno stimolo ai molti spettatori ‘attivi’ che ci seguono. Se con Ariaferma e Sulla mia pelle, i primi due film presentati, è stata analizzata la situazione carceraria, domani sera con Cattività vedremo un alto momento di allenamento alla libertà”. Crescono del 30% le patologie psichiche, ma i fondi non ci sono e i medici si dimettono di Adriana Pollice Il Manifesto, 25 maggio 2022 Dieci Società scientifiche chiedono al governo la creazione di un’Agenzia nazionale per la Salute mentale. L’Europa fissa al 10% la soglia minima di spesa nel settore, l’Italia si era posta il traguardo più modesto del 5% ma nel 2018 eravamo al 3,5% e siamo scesi nel 2020 al 2,7%. Le diagnosi di patologie psichiche, come la depressione, dopo due anni di Covid sono aumentate del 30%, soprattutto tra giovani e studenti. Fondi, strutture e personale, invece, hanno subito una flessione, i dipartimenti sono calati da 183 a 141. I servizi di salute mentale da almeno dieci anni subiscono un progressivo depauperamento di pari passo al definanziamento dell’intera sanità pubblica. Venti anni fa è stato fissato il parametro del 5% dell’intera spesa per il Ssn da destinare alla salute mentale, nel 2018 eravamo al di sotto del 3,5%, nel 2020 a 2,75%. In Ue l’obiettivo fissato è il 10%. Con la scarsità di investimenti va di pari passo la fuga del personale. Il sindacato Anaao Assomed stima che nel 2025 mancheranno altri mille psichiatri tra pensionamenti e dimissioni. “Non si vede, tra le risorse del Pnrr appostate sulla Misura 6, un solo euro destinato alla Salute mentale” è la denuncia della Società italiana di Neuropsicofarmacologia. Dieci società scientifiche chiedono la creazione di un’Agenzia nazionale per la Salute mentale: “Questo può consentire di ripartire da zero - spiegano Matteo Balestrieri e Claudio Mencacci, presidenti Sinpf - cioè dal censimento del settore (oggi fermo al 2015) per capire i numeri reali dei fenomeni e riorganizzare i servizi, calcolare le reali necessità di finanziamento, studiare l’allocazione delle risorse in modo omogeneo sul territorio per fare della salute mentale un diritto esigibile in tutto il paese, senza diseguaglianze. Servono il rafforzamento dei servizi, il reclutamento di professionisti e la loro appropriata formazione”. La riforma della Sanità territoriale, il dm 71, include anche questo tipo di funzioni. Ad esempio nelle case di comunità sono previsti “servizi per la salute mentale, le dipendenze patologiche e la neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza” ma la loro presenza è solo “raccomandata”. Lo stesso Consiglio di Stato, nel suo parere sulla riforma, ha sottolineato: “La Sezione non può però non osservare che l’allegato contiene una serie di indicazioni aventi carattere eterogeneo, avendo alcune natura squisitamente prescrittiva, altre funzione evidentemente descrittiva, altre ancora risolvendosi in auspici per l’assetto futuro”. Fabrizio Starace, presidente della Società italiana epidemiologia psichiatrica: “Purtroppo le misure sinora adottate non sono in grado di recuperare l’impoverimento di mezzi e personale che i servizi hanno subìto per anni. Occorre uno ‘straordinario’ investimento ordinario, che riporti allo standard minimo del 5% la spesa per la salute mentale. Nel Pnrr non ci sembra di individuare capitoli specifici destinati alla salute mentale. Va, inoltre, immediatamente colmata l’assenza nel dm 71 di chiare indicazioni su standard organizzativi e di personale che consentano l’accesso a cure di qualità indipendentemente dalla regione di residenza”. Massimo di Giannantonio, presidente della Società italiana di psichiatria: “Questo impoverimento dei servizi pubblici fa sì che si riducano le capacità di intervento, mettendo in difficoltà le attività di prevenzione. In particolare il riconoscimento precoce del problema negli studenti”. “Dalla scuola al web, il rispetto per l’altro comincia dalle parole” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 maggio 2022 Bruno Mastroianni fa parte della giuria che oggi proclamerà il vincitore del torneo “Dire e contraddire”. Secondo l’esperto di linguaggio social, la violenza verbale è una forma di debolezza e di incapacità ad esporre il proprio pensiero. La rete, poi, espone a grandi rischi. Il linguaggio d’odio si combatte con un lavoro costante coinvolgendo direttamente i giovani. Quanto sono importanti le scuole? Isac Asimov faceva dire a un personaggio dei suoi romanzi: “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”. Se lo applichiamo al linguaggio, potremmo dire che “la violenza verbale è l’ultimo rifugio degli incapaci a discutere e dialogare”. La scuola è fondamentale per un motivo su tutti: imparare a convivere con gli altri, e quindi a discutere con loro per capirsi. È qualcosa che si matura con il costante esercizio e la pratica. Non è qualcosa di totalmente innato. Solo un’educazione costante alla buona comunicazione può mettere le persone nelle condizioni di essere consapevoli del potere, distruttivo o costruttivo, delle parole. Gli avvocati, con il torneo “Dire e Contraddire”, sono impegnati in prima linea… Le attività di allenamento al dibattito sono fondamentali. Sono come un laboratorio dove si simula ciò che poi servirà per la vita di tutti i giorni: imparare a spiegarsi, a sostenere le proprie idee in mezzo alle differenze. È solo quando si rispetta il dissenso e le divergenze di opinione che si fa davvero lo sforzo di parlare con gli altri e non sugli altri. Le scuole di dibattito devono essere palestre inclusive non luoghi dove si allenano grandi oratori e si tengono fuori coloro che sono più introversi, ma il contrario. Io seguo le attività della “Palestra di Botta e Risposta” di Adelino Cattani che ha proprio questa impostazione: aiutare ciascuno, secondo le sue capacità, a maturare virtù argomentative. Il torneo di Dire e Contraddire ha la stessa aspirazione, vale a dire suscitare il gusto di una disputa che non sia solo seria e ben fatta, ma che soprattutto sia felice, che dia piena soddisfazione a tutti i partecipanti. Argomentare e saper argomentare sono i primi strumenti utili per contrastare l’hate speech? Argomentare vuol dire due cose. La prima è farsi carico dell’onere di rendere convincenti le proprie idee. Chi argomenta non si limita a dire cosa pensa, ma fa lo sforzo di mettere alla prova per primo le sue idee in modo che risultino convincenti di fronte agli altri. Da qui la seconda. Per argomentare occorre conoscere e ascoltare coloro a cui ci si rivolge. Argomentare alla fine è capire prima ancora di farsi capire. Se ci pensiamo bene, è una rivoluzione copernicana rispetto a ciò che ci verrebbe d’istinto. Il buon argomentatore è tale solo se sa maturare il rispetto per le idee degli altri e da quelle sa partire per proporre le sue. La rete richiede comunque capacità di argomentazione? Nella società iperconnessa in cui siamo immersi la capacità di confrontarsi con gli altri non è più solo per alcune professioni o per addetti ai lavori. Il cittadino digitale deve saper usare bene le parole perché tra chat, social e web in generale è messo nelle stesse condizioni di un comunicatore. Se un tempo le conoscenze di base erano saper leggere, scrivere, far di conto e avere una cultura generale, oggi, con la rete, si aggiunge il saper comunicare attraverso le piattaforme digitali. L’allenamento all’argomentazione è una delle vie maestre per crescere nella consapevolezza di ciò che possiamo fare con le parole nel distruggere o costruire le nostre relazioni sociali. Fosse per me inserirei nei programmi scolastici di base la retorica, la dialettica e la pratica del dibattito fin dalla scuola materna. Migranti. Navi quarantena, una costosa discriminazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 maggio 2022 La misura “sanitaria” riservata ai migranti che sbarcano. Tra aprile e maggio: 16 milioni per l’isolamento in mare, mezzo per quello a terra. L’Italia si è tolta la mascherina, ha eliminato il greenpass e riaperto tutto, ma le navi quarantena restano in mare. Due: la Azzurra e l’Aurelia. Fanno la spola tra Lampedusa, Porto Empedocle, Augusta, Messina. Caricano e scaricano migranti sbarcati in autonomia o soccorsi dalle Ong. Gli unici costretti all’isolamento sanitario galleggiante. L’ultima proroga scadrebbe tra una settimana, ma secondo alcuni addetti ai lavori dovrebbero continuare a navigare a giugno e forse per tutta l’estate. L’ambigua base giuridica è appesa all’ordinanza del ministero della Salute del 22 febbraio 2022, prorogata l’ultima volta il 28 aprile scorso fino al 31 maggio. Disciplina l’ingresso nel territorio nazionale disponendo che, a meno di sintomi da Covid-19, è escluso dai cinque giorni di quarantena chi ha il greenpass, un certificato di guarigione o il risultato negativo di un tampone (molecolare o antigenico). Il paradosso - o, in base alle interpretazioni, la forzatura giuridica - è che tutti i migranti sbarcati sono sottoposti a test prima di salire sulle navi quarantena, anche per isolare gli eventuali positivi. Diversa la normativa per i profughi ucraini: tampone entro 48 ore dall’arrivo e, se negativo, semplice auto-sorveglianza. Al momento, fanno sapere dal ministero di Roberto Speranza, non si sa se l’ordinanza sarà prorogata oltre il 31 maggio. In ogni caso è difficile credere che un trattamento riservato a un’unica categoria di persone, cioè chi sbarca, abbia una ratio sanitaria. L’altro tipo di norme sulle navi quarantena sono della protezione civile e regolano copertura economica e contratti. Il soggetto attuatore è il capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale che demanda alla Croce rossa la gestione a bordo. L’ordinanza 887 del 15 aprile proroga i contratti fino al 30 del mese e regolarizza retroattivamente le due settimane trascorse dalla fine dello stato di emergenza (e dunque dal termine dei precedenti accordi con la compagnia Gnv, precedentemente oggetto di avviso pubblico). La 893 del 16 maggio fa lo stesso per il mese in corso. La prima, che estende la possibilità di usare le navi anche a chi arriva via terra, dispone una riduzione dei posti di almeno il 30%. La seconda, invece, permette di “attivare nuovi assetti”. Entrambe riportano gli oneri mensili: fino a 8 milioni per le quarantene galleggianti, intorno ai 230mila euro per l’isolamento sanitari. Pena di morte come “strumento di repressione”. Enorme aumento in Iran e Arabia Saudita di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 maggio 2022 Rapporto Amnesty International sulla pena capitale 2021. Smesse le restrizioni adottate per la pandemia e riattivati i procedimenti giudiziari che erano stati sospesi, invece di cogliere l’occasione per una moratoria delle esecuzioni capitali, in molti Paesi del mondo il boia si è rimesso al lavoro. E più alacremente di prima: “Nel 2021vi sono state almeno 579 esecuzioni in 18 Stati, con un aumento del 20% rispetto al 2020”. Mentre sono almeno 2052 le condanne a morte emesse in 56 Stati, con un aumento di quasi il 40% rispetto al 2020. Dati registrati da Amnesty International che nel suo report annuale fa notare che, malgrado ciò, “il totale delle esecuzioni registrate nel 2021 è il secondo più basso, dopo quello del 2020, almeno a partire dal 2010”. In alcuni Paesi infatti il ricorso alla pena capitale è diminuito, mentre in altri è uno strumento di repressione sistematica. In nessun caso si tratta di questione di giustizia. E infatti i maggiori numeri di condanne alla pena capitale sono stati registrati “in Bangladesh (almeno 181 rispetto ad almeno 113), India (144 rispetto a 77) e Pakistan (almeno 129 rispetto ad almeno 49)”. Mentre tra i Paesi che hanno ripreso ad eseguire le condanne a morte, al primo posto c’è l’Iran, che “da solo ne ha fatte registrare almeno 314 rispetto alle almeno 246 dell’anno precedente e si è trattato del più alto numero di esecuzioni dal 2017”. La maggior parte di esse sono inflitte per reati di droga, ma a subire le condanne sono anche “le minoranze religiose, con accuse vaghe quali “inimicizia contro Dio”, e minoranze etniche, come i baluci che costituiscono il 5% della popolazione e il 19% (“almeno 61 esecuzioni”) delle persone uccise dal regime di Teheran. Segue l’Arabia Saudita che “ha più che raddoppiato il dato del 2020 e la tendenza è destinata a proseguire nel 2022, considerato che in un solo giorno di marzo sono state messe a morte 81 persone”. Esecuzioni in aumento anche in Somalia, Sud Sudan, Yemen, Bielorussia (dove nel 2020 non se ne erano registrate), Giappone ed Emirati Arabi Uniti. Ancora più “significativi” i numeri del 2021 nella Repubblica Democratica del Congo (almeno 81 rispetto ad almeno 20 dell’anno prima), Egitto (almeno 356 rispetto ad almeno 264), Iraq (almeno 91 rispetto ad almeno 27), Myanmar (almeno 86, a causa della legge marziale imposta, rispetto ad almeno una), Vietnam (almeno 119 rispetto ad almeno 54) e Yemen (almeno 298 rispetto ad almeno 269). Ma anche quest’anno, precisa Amnesty, è “impossibile verificare accuratamente i dati in Cina, Corea del Nord e Vietnam”. Anche se, afferma la segretaria generale Agnès Callamard, “come sempre, quel poco che abbiamo visto ha suscitato grande allarme”. Ucraina. Ergastolo al russo Vadim, quell’azzardo di fare i giudici in guerra di Domenico Quirico La Stampa, 25 maggio 2022 La condanna a vita per il sergente dell’esercito di Putin sembra una vendetta nel mezzo del conflitto, anche i nazisti a Norimberga ebbero diritto ad avvocati e testimoni. Non parto dal diritto, dai codici, dalle leggi nazionali e internazionali. Parto da un uomo, anzi dall’assassino. Il sergente dell’esercito della federazione russa Vadim Shishimarin condannato come criminale di guerra per aver ucciso un civile ucraino il 28 febbraio scorso. Condannato all’ergastolo da una corte civile di Kiev, tre giorni di udienze, lui reo confesso. È il primo, annunciano gli ucraini, di una lunga serie di processi esemplari a militari russi, che hanno già pronti e contro cui sostengono di avere prove inconfutabili dei delitti degli invasori. Quindi parlo di un assassino, lo ha ammesso lui stesso. Per qualcosa che è più di un omicidio, “un crimine contro la pace, la sicurezza, l’umanità, e la giustizia internazionale” come recita la sentenza. Ho visto molti altri sguardi come quello del sergente Shishimarin ripreso nella gabbia degli imputati durante le udienze. Non so come definirlo. In esso vi era il tormento e la stanchezza di un animale braccato. Occhi pieni di intensa disperazione, occhi di un quadro sulla resurrezione di Lazzaro: questi mentre tutti intorno a lui in aula esultano e si congratulano per la giustizia fatta, li guarda con gli occhi di chi ha già visto il volto della Morte. In questo caso quella dell’uomo che ha ucciso. In fondo le riflessioni che ne traggo non riguardano il fatto, che sono obbligato ad accettare nella sua feroce semplicità: una strada di una città sconvolta dalla invasione, un uomo anziano con una bicicletta e un telefono in mano, un altro uomo, in divisa, che spara e quell’uomo muore. È un quadro di Goya, il bubbone gonfio degli orrori della guerra. Ci sono i giusdicenti in toga, un difensore, delle prove, una confessione, una sentenza. Che si chiede di più per “ius dire”, perché almanaccare? Tutto a posto, dunque. Tutto regolato. Ma questo processo si svolge all’interno di una guerra feroce e crudele. Ci dobbiamo accontentare? Ci possiamo accontentare per poter esclamare: bene, la giustizia ha trionfato? La riflessione affonda nella definizione del carattere assoluto, direi sacro, della Giustizia, il suo dover essere senza pieghe e sfumature, perché altrimenti scivola in qualcosa che non le assomiglia e che la nega, la vendetta. O la dimostrazione strumentale della fondatezza della propria causa. È proprio il fatto che il male con la M maiuscola, quasi mistico nella sua inesplicabilità, e che conosco bene, non mi mostri nel sergente assassino il suo grugno ributtante, ma soltanto la solitudine assoluta di un uomo che non ha nemmeno il conforto di aver peccato per una buona causa, che mi spinge alla domanda: è legittimo processare i nemici colpevoli di crimini di guerra mentre la guerra è in corso? Non ci sono, automaticamente, tecnicamente, nel farlo elementi che indeboliscono quelle sentenze sacrosante? E non sul piano della opportunità politica che è parola che non mi interessa, ma proprio sul piano assoluto della giustizia. Questo assoluto è possibile mentre giudici e imputati stanno combattendo? Si può dire che gli ucraini nella giusta foga di dimostrare la ferocia dei russi, forse hanno commesso un errore, esponendo i loro eroi, i soldati che hanno difeso l’acciaieria di Mariupol, a un ancor più pericoloso destino, essere cioè processati a loro volta per ritorsione e contro propaganda. Ma questo è secondario, calcolo politico, soppesare vantaggi e svantaggi. L’Ucraina ha certo il diritto giurisdizionale di processare gli aggressori colpevoli di crimini di guerra commessi nel suo territorio. La possibilità di affidare i processi a una corte imparziale appare tecnicamente impervia poiché i due Paesi in guerra non hanno mai firmato lo statuto di Roma che ha istituito la corte penale internazionale. Ma un processo che si svolge in un tribunale ucraino mentre la guerra infuria può essere un processo regolare? Ad esempio. Chi è accusato di un reato così grave come l’omicidio di un civile ha la possibilità di citare liberamente testimoni a sua difesa? Un soldato russo potrebbe sostenere che ha sparato perché era sotto la minaccia diretta, in caso di disobbedienza, di essere giustiziato o punito dei suoi commilitoni. Per provarlo, anche se questo non cancella la colpa di aver ucciso, dovrebbe poter citare come testi quelli che erano con lui e che lo avrebbero spinto a sparare. Ma questo in un tribunale che giudica mentre la guerra è in corso non è evidentemente possibile. I testimoni stanno dall’altra parte del fronte e anche se per assurdo si presentassero in aula verrebbero immediatamente arrestati come complici e potenziali assassini. C’è poi il diritto intoccabile alla difesa. Perfino ai criminali nazisti a Norimberga venne riconosciuto la facoltà di nominare avvocati scelti da loro. Fu possibile perché la guerra era finita. Anche Adolf Eichmann, il lugubre impiegato dell’Olocausto, nel processo in Israele poté scegliere un avvocato tedesco. Un legale ucraino, assegnato d’ufficio, è compatibile con un concetto di Giustizia? Avvocato non troppo garrulo, la cui strategia di difesa, tra l’altro, si è limitata alla constatazione del carattere orrendo del delitto commesso dal suo assistito. Esiste poi il principio generale della impossibilità di celebrare un processo davvero equo in un clima ostile. Il fatto che il processo, e quelli futuri, si svolgano in un regime di legge marziale non è certo un rimedio alla fretta. La legge marziale vale nei confronti dei soldati ucraini per punire eventuali reati di diserzione o di favoreggiamento del nemico. Non per i soldati dell’esercito nemico che sono tutelati dalla convenzione di Ginevra. A costo di sembrare ingenui verrebbe da aggiungere che lo scopo dell’ordigno penale non è essere festa catartica o costruzione di una memoria collettiva: è la obbligatoria punizione della colpa e il porre le basi di una possibile ricomposizione della convivenza che il delitto ha lacerato. Processare il nemico in tempo di guerra raggiunge questo scopo? Stati Uniti. Biden ordina la stretta sugli abusi della polizia di Massimo Basile La Repubblica, 25 maggio 2022 A due anni esatti dall’uccisione di George Floyd, il presidente istituisce un registro nazionale dei poliziotti licenziati per impedire che vengano riassunti altrove. In arrivo anche limiti all’ “uso estremo della forza”. Joe Biden ha deciso di bypassare il Congresso e imporre nuove restrizioni alla polizia, per contrastare la brutalità diffusa tra gli agenti. A due anni dalla morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso a Minneapolis, Minnesota, durante l’arresto, il presidente degli Stati Uniti ha annunciato la firma per domani di un ordine esecutivo che istituisce un registro nazionale dei poliziotti licenziati. Questo provvedimento serve a evitare che un agente, cacciato da uno Stato per cattiva condotta, trovi lavoro da un’altra parte. La notizia, riportata dal New York Times, non è stata smentita. Casa Bianca e dipartimento della Giustizia lavoravano a questo progetto da un anno, ma hanno trovato l’ostruzionismo del Congresso, soprattutto a causa dell’opposizione dei Repubblicani, contrari a qualsiasi misura potesse ridurre il campo d’azione della polizia. Nel mirino ci sono anche una serie di pratiche d’arresto, dalla presa a laccio al collo a quella - ginocchio premuto sul collo della persona, sdraiata a terra - diventata tragicamente famosa per essere stata la manovra che, due anni fa, aveva portato alla morte di Floyd. A conferma di come questa iniziativa sia legata al caso che portò milioni di persone a manifestare per strada, Biden firmerà l’ordine esecutivo domani, nel giorno del secondo anniversario della morte di Floyd, alla presenza dei familiari della vittima e di alcuni rappresentanti della polizia. Nelle ultime settimane l’amministrazione americana - che si è sempre schierata contro l’idea di togliere fondi alla polizia - aveva rivelato che avrebbe permesso agli agenti di ricorrere all’”uso estremo della forza” solo come “ultima possibilità quando non c’è una ragionevole alternativa, in altre parole solo quando necessario per prevenire un rischio imminente o serio di ferita o morte”. Ma è soprattutto l’istituzione di un registro a rappresentare una novità: di fatto ogni poliziotto avrà un “curriculum” e una fedina penale pubblica. In molti casi agenti che erano stati protagonisti della morte di sospetti o di persone fermate ai posti di blocco e uccise, non hanno mai subito un vero processo, finendo per essere al più sospesi o licenziati. Con il registro di Biden, un agente licenziato non potrà tornare più a svolgere lo stesso lavoro. Questo provvedimento segue quello deciso di recente dal dipartimento della Giustizia, che prevede l’obbligo per gli agenti di intervenire in caso di abusi commessi dai colleghi. Anche questa misura riporta alla morte di Floyd, quando l’agente Derek Chauvin - poi condannato a più di vent’anni di carcere - aveva continuato a tenere premuto il ginocchio sul collo dell’afroamericano, e i suoi tre colleghi, a poca distanza, non erano intervenuti. Stati Uniti. Lady Day, una storia di proibizione e razzismo di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 25 maggio 2022 “È una drogata”. “Esattamente!” È un dialogo del film “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday”, in questi giorni nelle sale. Si sta parlando proprio di lei, Lady Day, ma in effetti il problema per Harry J. Anslinger e il Federal Bureau of Narcotics non è la “tossicomania” in sé. Il problema è una canzone, che Billie Holiday ha cominciato a cantare nel 1939: Strange Fruit. La canzone è la messa in musica di una poesia cruda e agghiacciante di Abel Meeropol, lo “strano frutto” sono i corpi neri che penzolano e marciscono appesi ai rami dei pioppi del profondo sud. Una denuncia pubblica della segregazione razziale e dei linciaggi degli afro americani nel “prode sud”, che da lì in poi vietò quasi tutti i suoi spettacoli. Il film ha il pregio di raccontare un lato misconosciuto di una delle più grandi cantanti che abbia calcato il palcoscenico jazz e blues. Quello del suo impegno politico, che anche se non si è mai tradotto in attivismo o militanza, è oggi ritenuto una delle denunce più forti del razzismo negli Stati Uniti a cavallo della Seconda guerra mondiale. “Quella Holiday sta inducendo molti a pensare cose sbagliate”. La ricostruzione cinematografica - tratta dal libro di Johann Hari Chasing: The Scream. The First and Last Days of the War on Drugs - contribuisce a svelare come il proibizionismo sulle droghe sia un eccezionale strumento a disposizione del potere per colpire e marginalizzare il dissenso e le minoranze. Per chi ha conosciuto la splendida voce di Billie Holiday nella interpretazione di The man I love riscoprirla per Strange Fruit e per la criminalizzazione che ha subito a causa dell’uso di droghe è forse spiazzante, ma è anche un modo di rendere giustizia alla sua esperienza di vita. Una donna che, come ha raccontato Angela Davis, trovò proprio nella poesia di Abel Meeropol la sua “ragion d’essere”. Le permetteva di “distinguere la gente veramente in gamba da quella col cervello bacato”, scrisse ne “La signora canta il blues”, la sua autobiografia pubblicata in Italia da Feltrinelli. Ma soprattutto raccontava di lei, nipote di schiava, figlia di un musicista morto perché l’ospedale non l’aveva curato in quanto afroamericano. Raccontava della sua comunità, non più schiava ma vittima di quell’ipocrita “separati, ma uguali” che solo Rosa Parks ed il movimento dei diritti civili riuscì a scardinare quasi 20 anni dopo. Sono gli anni della campagna di Anslinger contro la marijuana, quello per cui “la maggior parte dei fumatori di marijuana sono negri, ispanici, filippini, musicisti jazz e artisti. La loro musica satanica è guidata dalla marijuana e il fumare marijuana da parte delle donne bianche le fa desiderare di cercare rapporti sessuali con negri, artisti e altri”. Billie comincia a fumarla, la cannabis, appena adolescente mentre insegna alla madre, di solo 13 anni più vecchia, a leggere e scrivere. Una madre che “dava retta alle storie cretine messe in giro riguardo ai disastrosi effetti della marijuana e credeva più a queste panzane che a quello che poteva vedere con i propri occhi”, si legge nella sua biografia. Non ha certo un’infanzia facile: il padre abbandona presto la famiglia, lei viene violentata a 11 anni, poco dopo comincia a prostituirsi finendo, senza colpe, anche in riformatorio. Poi l’incontro con la musica che diventerà il suo rifugio e che la consacrerà nel mito. Billie Holiday morirà il 17 luglio 1959, a 44 anni, ammanettata ad un letto di ospedale, con le cure sospese ed in stato di arresto perché tossicomane. Una vita troppo breve, fatta di grandi successi musicali, amori sbagliati, di alcol, droghe e razzismo. Fatale però fu lo stigma e la persecuzione politica, proprio da parte di quell’Anslinger che mai le perdonò di aver cantato Strange Fruit. Cina. “Sparare a vista a chi fugge dai campi di rieducazione in Xinjang” di Gianluca Modolo La Repubblica, 25 maggio 2022 La Bbc pubblica file della polizia hackerati. L’inchiesta di 14 testate internazionali, tra cui L’Espresso, svelano nuovi dettagli sull’internamento di oltre 20mila uiguri e fotografie di luoghi sensibili. L’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Michelle Bachelet arriva nello Xinjiang. Quattordici testate internazionali - per l’Italia, L’Espresso - in contemporanea svelano nuovi scioccanti dettagli sulla persecuzione della minoranza musulmana degli uiguri. Si chiamano “Xinjiang Police Files”: migliaia di foto e documenti hackerati dai server della polizia cinese, discorsi classificati di alti funzionari, manuali interni di polizia, dettagli sull’internamento di oltre 20mila uiguri e fotografie di luoghi altamente sensibili. “I file rivelano, con dettagli senza precedenti, l’uso da parte della Cina dei campi di rieducazione e delle prigioni. Le prove più solide finora emerse di una politica che prende di mira quasi tutte le espressioni dell’identità, della cultura o della fede islamica, e di una catena di comando che arriva fino al leader cinese Xi Jinping”. Per chi cerca di fuggire, l’ordine è quello di “sparare per uccidere”. I file contengono più di 5mila foto di uiguri scattate dalla polizia tra gennaio e luglio 2018: 2.884 detenuti in “campi di rieducazione” nei centri di Konasheher e Tekes. I documenti coprono più di un decennio, fino alla fine del 2018. “Si vedono prigionieri ammanettati, incatenati, sbattuti a terra. Uomini con segni evidenti di percosse e tumefazioni su tutto il corpo”. Molti sono accusati soltanto di aver “studiato segretamente il Corano”, essersi fatti “crescere la barba” o aver “viaggiato in Paesi musulmani”. La fonte dei file sostiene di averli violati dai server della polizia passandoli poi all’accademico tedesco Adrian Zenz, già denunciato dal governo cinese come un “fondamentalista cristiano che vuole distruggere il comunismo”, ora sotto sanzioni da parte di Pechino. Proprio ieri sono iniziate le due tappe nello Xinjiang di Bachelet: un viaggio atteso almeno dal 2018, tra molte polemiche. Nessun giornalista straniero al seguito, una visita a “circuito chiuso”, ufficialmente per il Covid. “Spero che serva a chiarire la disinformazione”, dice il ministro degli Esteri Wang Yi. Attivisti e Ong si chiedono invece che cosa le sarà permesso vedere. Qui, dove secondo varie inchieste, un milione di persone sono state imprigionate in campi di internamento per combattere l’estremismo religioso. Per gli Usa - che ieri hanno reagito dicendosi “sconvolti” dalle informazioni - “un genocidio”, per la Cina “la più grande menzogna del secolo”. L’Iran conferma, il ricercatore Djalali sarà impiccato ansa.it, 25 maggio 2022 Il ricercatore iraniano-svedese Ahmad Reza Djalali sarà certamente giustiziato, per impiccagione, poiché la magistratura ha terminato la procedura di revisione del suo caso, su richiesta dei suoi avvocati. Lo ha affermato oggi il portavoce della magistratura Massoud Setayeshi. L’esecuzione della condanna era inizialmente prevista per il 21 maggio, poi sospesa su richiesta dell’avvocato. Molti gli appelli internazionale a favore di Djalali. Setayeshi ha escluso inoltre l’ipotesi secondo cui per via della sua doppia nazionalità iraniana e svedese Djalali potrebbe essere scambiato con un detenuto iraniano, Hamid Nouri, un ex funzionario della magistratura, recentemente processato in Svezia per il suo coinvolgimento nell’esecuzione di massa di dissidenti negli anni 80 nelle carceri iraniane. “Non c’è alcun piano per scambiare Nouri con Djalali e quest’ultimo verrà giustiziato a tempo debito”, ha affermato. Djalali è specializzato nella medicina di emergenza e ha svolto ricerca universitaria non solo in Svezia, dove è stato residente con la famiglia, ma anche in molti altri istituti europei, tra cui l’Università degli Studi del Piemonte orientale e il centro Crimedim di Novara, comune che nel 2019 gli ha conferito la cittadinanza onoraria mentre già era detenuto nelle carceri iraniane da circa tre anni. È stato arrestato nel 2016, mentre si trovava in Iran su invito dell’Università di Teheran e Shiraz, con l’accusa di spionaggio a favore dei servizi segreti israeliani. Sudan. Marco Zennaro: “Quell’inferno delle prigioni di Khartum mi ha cambiato dentro” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 25 maggio 2022 L’imprenditore veneziano, a due mesi dalla liberazione in Sudan: “Ora do un peso diverso alle cose, non le vivo più in modo ansiogeno. Ma non mancano i momenti di sconforto, di vuoto, di paura. E mia figlia non vuole più che parta”. “Quando mi hanno trasferito da un carcere all’altro sono finito in una stanza con 50 persone, senz’acqua, senza luce, senza bagni. Ho detto questo è l’inferno”. Settanta giorni nelle celle di Khartum, poi nove mesi in un Sudan sconvolto dal colpo di stato che seminava morte e terrore. L’anno orribile di Marco Zennaro si è concluso felicemente due mesi fa con il ritorno a casa, dove ad attenderlo c’erano la moglie Carlotta, i loro tre bambini e l’abbraccio di una Venezia che l’ha sostenuto come un figlio lungo tutta la prigionia. Quarantasette anni, a capo di una storica azienda lagunare di trasformatori elettrici, Zennaro dice che “nulla è più come prima”. In che senso? “Sono cambiate molte cose: l’approccio alla vita, la percezione delle priorità. Ho smesso di vivere in modo ansiogeno, il lavoro, lo sport e qualsiasi attività. Ci sono, ci vogliono ma ora appartengono a un luogo della mente dove c’è spazio anche per la quiete e il sorriso. Voglio dire che da questa brutta esperienza sono uscito con una nuova sensibilità. Cerco di vedere il lato positivo delle cose. Cerco, perché non mancano i momenti di sconforto, di vuoto e di paura che però tengo per me”. Incubi? “Non ricordo mai i sogni ma qualche volta mi sveglio di soprassalto. Mi vengono in mente certe scene che ho visto e lo stato d’animo in cui mi trovavo. Sono come dei flash fotografici che mi turbano. Poi però arrivano mia moglie e i miei figli e tutto passa”. Com’erano le giornate nel carcere di Khartoum? “Infinite, tutti insieme in uno stanzone, senza letti, un caldo spaventoso, zanzare. Il bagno era un buco sul muro dove andavano tutti. E poi non davano da mangiare. Cioè, solo chi pagava riusciva ad avere qualcosa e allora facevamo delle collette. Io ho avuto la fortuna di essere entrato in amicizia con un professore iracheno che aveva la famiglia a Khartoum. Gli portavano da mangiare e da bere e lui lo divideva con me e con altri. Ho visto ragazzi lasciarci la pelle”. Violenze? “No, devo dire che le guardie non picchiavano, non mi hanno torto nemmeno un capello. Però minacciavano: mi dicevano che se non stavo attento facevo la fine dell’egiziano. E non so se intendessero Regeni o Zaki”. Perché è stato arrestato? “Per truffa, secondo loro avevamo fornito dei trasformatori difettati. Erano così difettati che alla fine se li sono tenuti. Non avevano alcuna prova e rinviavano sempre le udienze. Siamo arrivati a un accordo extragiudiziale, ho pagato 200mila euro e chiuso la vicenda”. Quando ha iniziato a vedere la luce? “Quando ho visto le manifestazioni di solidarietà dei veneziani nei miei confronti. Lì la mia mente ha cambiato registro. Ho spostato l’obiettivo dal “se mai tornerò” al “quando”. E poi dicono che a Venezia non esiste una vera comunità”. Poi lei è uscito con divieto di espatrio. Com’è cambiata la situazione? “C’era stato un colpo di stato, sparavano ad ogni angolo e c’erano morti per le strade. Io sono stato prima in un hotel e poi in una foresteria dell’ambasciata. Nei periodi più tranquilli potevo anche uscire. Per recuperare un po’ di forma ho fatto anche boxe e palestra”. Ha mai pensato di fuggire? “Era una delle opzioni ma non mi faccia dire altro. Alla fine ho rinunciato. Un po’ perché se mi beccavano rischiavo sei anni di galera. Ma anche per rispettare gli impegni presi con l’ambasciata”. Un anno senza vedere i figli: 13, 12 e 5 anni. Com’è stato il ritorno? “In Sudan ho sofferto molto l’idea che potessero crescere senza di me. Poi ho capovolto tutto e da loro ho avuto la forza della speranza di tornare. Mia moglie è stata superlativa, lei fa l’avvocato e si è occupata di tutto, anche degli aspetti legali. Con i figli ho recuperato in pieno. La piccola è commovente quando mi vede partire per lavoro: dice non devo più andare da nessuna parte”. Cosa fa lei ora? “Ho ripreso il lavoro in azienda, vivo molto la famiglia, lo sport. Alleno i ragazzi del rugby e vado a vogare. Senza accanimento”.