Affettività in carcere: è sempre troppo tardi per una legge di civiltà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2022 La proposta del Consiglio regionale toscano è ferma in commissione Giustizia e parte dal riconoscimento e dalla garanzia del diritto del detenuto al mantenimento delle relazioni personali e con il mondo esterno. Non solo non è stata approvata la legge sull’affettività in carcere, ma non è ancora stata discussa in commissione Giustizia del Senato. Eppure alcuni giornali lanciano l’allarme: “Ci saranno stanze dell’amore in carcere!”, puntando sul fatto che verranno stanziati dei soldi funzionali all’applicazione dell’eventuale legge ancora rimasta nel limbo. Il populismo dilaga nei giornali, puntando al fatto che i soldi potrebbero servire per i bisogni dei cittadini. Omettendo il particolare che il fondo europeo per il piano di rinascita e resilienza viene erogato anche se i soldi servono per adeguare il nostro Paese agli standard europei: ovvero diventare più civili. E se si alza la qualità dei diritti, si abbatte il degrado e di conseguenze ne trae beneficio anche la nostra economia. La proposta di legge che porta la firma del Consiglio regionale della Toscana (e a questo si aggiunge anche quella della regione Lazio) parte dal presupposto che l’ordinamento penitenziario riconosce e garantisce il diritto fondamentale del detenuto al mantenimento delle relazioni personali e con il mondo esterno, apprestando tutele attraverso numerosi istituti giuridici, fra i quali i colloqui, la corrispondenza e l’accesso ai mezzi di informazione. Per la legge penitenziaria i rapporti familiari vanno rafforzati e recuperati - Sempre la legge penitenziaria, all’articolo 28, reca di fatto quello che si può considerare il canone interpretativo che deve ispirare la regolamentazione dei rapporti tra il recluso e la propria famiglia: i rapporti familiari non solo vanno conservati, ma, se del caso, addirittura rafforzati e recuperati. La famiglia rappresenta un valore affettivo di primaria rilevanza da proteggere anche nel contesto penitenziario. La legge del 1975 non reca una disposizione di portata generale in tema di rapporti con la famiglia, ma prevede invece una serie di norme destinate a garantire concretezza al favor familiae. Si pensi - oltre ai già ricordati istituti dei colloqui e della corrispondenza - alla previsione per la quale le assegnazioni alle carceri debbano essere effettuate favorendo il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie (articolo 14 O.P.), nonché ai vari istituti che consentono ai detenuti di uscire dalle strutture carcerarie (dai permessi alle varie misure alternative alla detenzione). I tentativi del legislatore sono stati vari, ma tutti senza esito - Il diritto alla affettività e alla sessualità costituisce uno degli aspetti delle relazioni familiari maggiormente dibattuti - sia sul piano politico che su quello legislativo. Nel corso dei lavori preparatori del Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà era stata prevista una particolare forma di permesso che avrebbe consentito ai detenuti e agli internati di trascorrere con i propri familiari un periodo di tempo, fino a ventiquattro ore continuative, in delle unità abitative appositamente predisposte all’interno dell’istituto, limitando il controllo del personale di polizia penitenziaria alla sola sorveglianza esterna dei locali, con la possibilità di effettuare controlli all’interno solo in presenza di situazioni di emergenza. La Sezione consultiva del Consiglio di Stato, nel parere espresso sullo schema di regolamento nel corso dell’adunanza del 17 aprile 2000, tuttavia ha ritenuto che le scelte proposte non potessero trovare legittima collocazione in un atto regolamentare, richiedendo necessariamente “l’intervento del legislatore, al quale solo spetta il potere di adeguare una normativa penitenziaria che sembra diversamente orientata”. Vari sono stati i tentativi del legislatore parlamentare di intervenire su tale tematica (si pensi all’AC 32 della XV legislatura richiamato nella relazione illustrativa del disegno di legge in esame) ma tutti senza esito. Anche la Consulta si è interessata affettività e sessualità intramuraria - Da ricordare che la questione della affettività e della sessualità intramuraria è stata posta anche all’attenzione della Corte Costituzionale. Il giudice delle leggi con la sentenza n. 301 del 2012, ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui prevede il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, impedendo loro, in tal modo, di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza. Secondo il giudice a quo, la preclusione posta di fatto all’esercizio del diritto sarebbe in contrasto anche con il principio di uguaglianza e ostacolerebbe il pieno sviluppo della persona. Si concretizzerebbe, inoltre, in un trattamento contrario al senso di umanità, tale da compromettere la funzione rieducativa della pena in quanto l’astinenza sessuale, incidendo su una delle funzioni fondamentali del corpo, determinerebbe pratiche innaturali e degradanti, quali la masturbazione e l’omosessualità “ricercata o imposta”. E l’astinenza sessuale comporterebbe l’intensificazione di rapporti a rischio e la contestuale riduzione delle difese sul piano della salute, e non aiuterebbe uno sviluppo normale della sessualità “con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico che psicologico”. La Consulta, in tale pronuncia, pur non accogliendo la prospettazione del giudice di merito, ha posto in rilievo come l’esigenza di permettere alle persone detenute o internate di continuare ad avere rapporti affettivi, anche a carattere sessuale, trovi nel nostro ordinamento una risposta soltanto parziale, rappresentata dall’istituto dei permessi premio, la cui fruizione risulta, però, preclusa a larga parte della popolazione carceraria in considerazione dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dall’articolo 30-ter della legge n. 354 del 1954. Nella medesima decisione la Corte pone anche in rilievo che un numero sempre crescente di Stati ha riconosciuto, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti a una vita affettiva e sessuale intramuraria, demandando conseguentemente al legislatore, il compito di definire i modi e le forme di esplicazione del diritto alla sessualità, forte della varietà delle soluzioni prospettabili, peraltro già racchiuse negli innumerevoli progetti di legge formulati al riguardo. Prevista anche nella proposta di riforma della commissione Giostra - Il tema è stato anche al centro dei lavori di uno dei Tavoli degli Stati Generali dell’esecuzione penale istituiti in vista di una riforma dell’ordinamento penitenziario dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando. In particolare, il Tavolo 6 ha posto una speciale attenzione alle relazioni che intercorrono fra i figli minori di età e i genitori detenuti; le limitazioni a cui sono sottoposti i detenuti in regime di 41-bis; la concessione di permessi anche nei casi di “particolare rilevanza” per la famiglia del detenuto; l’introduzione di una nuova fattispecie di permesso definito “permesso di attività”; l’aumento della durata delle telefonate e l’introduzione dell’istituto della “visita”, che si distingue dal colloquio proprio perché garantisce ai detenuti incontri privi di controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Il diritto all’affettività ha poi trovato espresso riconoscimento anche nella proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario elaborata dalla Commissione istituita con D.M. 19 luglio 2017 (presieduta dal professor Glauco Giostra). Le riforme della legislazione penitenziaria portate avanti nel biennio 2017-2018 non hanno però affrontato direttamente il problema della affettività intramuraria. Da ricordare che anche la Corte di Strasburgo ha più volte manifestato il proprio favore per gli interventi normativi rivolti in tal senso. Ma c’è anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004, n. 2003/2188, che tra i diritti da riconoscere ai detenuti, c’è “il diritto ad una vita affettiva e sessuale prevedendo misure e luoghi appositi”. Tutto è stato, finora, disatteso. Quanto sono ritenuti gravi i maltrattamenti sui detenuti? Il caso del Tribunale di Torino di Lorenzo Guadagnucci altreconomia.it, 24 maggio 2022 Respinta dal giudice la richiesta di anticipare l’udienza di fissazione del processo, prevista il 4 luglio 2023, riguardante un caso di presunti maltrattamenti avvenuti nel carcere “Lorusso e Cutugno” tra 2017 e 2019. Nel Paese della Diaz, del caso Cucchi o di Santa Maria Capua Vetere non è una buona notizia, spiega Lorenzo Guadagnucci. Si legge sui giornali - in realtà solo nelle cronache locali - che il presidente della terza sezione penale del Tribunale di Torino ha respinto la richiesta di anticipare l’udienza di fissazione del processo, prevista per il 4 luglio 2023, riguardante un caso di (presunti) maltrattamenti ai danni di detenuti avvenuti, nell’ipotesi dell’accusa, fra il 2017 e il 2019 nel carcere cittadino “Lorusso e Cutugno”. Secondo il giudice non ci sarebbero particolari ragioni di urgenza per sveltire le procedure. La giustizia, insomma, può aspettare: ossia seguire i tempi molto lenti della burocrazia giudiziaria. Dopotutto, potrebbe pensare una mente maliziosa, si tratta solo di tortura (una delle ipotesi di reato) e di nient’altro che di detenuti. Il ricorso era stato presentato da alcuni avvocati dei denuncianti e sostenuto dai garanti dei diritti dei detenuti, ma evidentemente questi ultimi non hanno trovato un terreno d’incontro con l’amministrazione della giustizia. Davvero un caso di -presunti, per carità- maltrattamenti in carcere non è questione urgente come reati quali stalking, maltrattamenti, violenza sessuale? Il giudice, naturalmente, ha dato spiegazioni tecniche della scelta: il rischio di prescrizione solo per alcuni reati non essenziali e così via. Ma colpisce che un caso di abusi di polizia fino forse alla tortura sia derubricato a fatto ordinario e rinviabile. E dire che due degli indagati, il direttore del carcere e il capo degli agenti di polizia penitenziaria, hanno patteggiato una pena e sono così usciti dal processo. Il processo meriterebbe a questo punto di tenersi al più presto per chiarire i fatti, attribuire eventuali responsabilità e scacciare la sensazione che gli abusi carcerari siano divenuti così ordinari e così poco riprovevoli da suscitare ben poca emozione e ancora meno indignazione. Il giudice di Torino avrà avuto le sue buone ragioni per decidere come ha fatto. Ma che cosa deve pensare un cittadino informato sulla storia recente delle nostre forze di polizia e delle nostre istituzioni carcerarie? Un cittadino che, per esempio, ricordi le vicende e i processi del G8 di Genova o il caso di Stefano Cucchi. O ancora, poco tempo fa, i fatti inquietanti di Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta) con il penitenziario locale teatro di un’incredibile e illegale spedizione punitiva ai danni dei detenuti ripresa dalle telecamere interne? Che cosa deve pensare un cittadino che abbia letto le sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo sulle vicende che si sono verificate a Genova nel 2001, un cittadino che cioè ricordi la pressante richiesta dei giudici europei, rivolta alle nostre istituzioni, affinché agiscano in modo tempestivo e determinato ogni volta che un abuso di polizia sia denunciato? Quel cittadino penserà che lo Stato si sta abituando all’idea che i maltrattamenti sui detenuti sono spiacevoli, ma non troppo gravi. E quindi possono essere indagati senza troppa fretta, come denunce di reato tra tante altre. Penserà che le preoccupazioni della Corte di Strasburgo riguardo al nostro Paese -la sua strutturale difficoltà a punire e prevenire gli abusi di polizia, come si legge nelle sentenze sul caso Diaz, per esempio- erano più che fondate ma che l’Italia preferisce fare orecchie da mercante, interessandosi ben poco ai contraccolpi che ne derivano in termini di fiducia da parte dei cittadini e di credibilità delle forze dell’ordine come garanti della legalità costituzionale. Che fine hanno fatto le precise prescrizioni della Corte di Strasburgo? Quanto i giudici italiani, a Torino come altrove, ne tengono conto? Diciamolo ancora una volta: gli abusi su cittadini inermi e detenuti -i più fragili di tutti, perché privi di libertà- sono una forma gravissima di lesione dei diritti democratici costituzionali; sono abusi purtroppo ricorrenti e non stanno suscitando nelle istituzioni uno stato d’allarme proporzionato. Con queste premesse, non si curano né la compromessa credibilità delle forze di polizia né il declino dello spirito democratico nelle forme di convivenza civile. Referendum, la Lega si muove. Tardi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 maggio 2022 Salvini lamenta che si voti il 12 giugno e che non ci sia abbastanza spazio in tv. Ma sono stati loro a chiedere l’abbinamento con le amministrative e a rinunciare a presentare le firme per figurare come promotori. “Mobilitazione generale”. Quando mancano solo tre settimane all’appuntamento, la Lega pare aver deciso che comincerà a credere veramente nei referendum sulla giustizia. Sono cinque e si voteranno il 12 giugno. È stata proprio la Lega a insistere perché i referendum si votassero assieme alle elezioni amministrative, e il governo l’ha accontentata prevedendo l’abbinamento con il primo turno. Anche se si è trattato di una decisione senza precedenti (una sola volta l’abbinamento fu con il turno di ballottaggio) con qualche profilo di delicatezza, visto che i referendum abrogativi prevedono un quorum di partecipazione per la validità (il 50% più uno degli elettori aventi diritto) che non andrebbe condizionato dal richiamo alle urne per altre votazioni. Ma adesso i leghisti protestano. “Metterlo la prima domenica dopo la chiusura delle scuole e con il venir meno delle limitazioni Covid dopo due anni - ha detto il senatore Roberto Calderoli - sembra quasi che qualcuno abbia pensato a come far fallire i referendum attraverso questa data. E poi credo che un giorno solo sia veramente troppo poco”. Salvini ieri durate il consiglio federale del partito ha chiesto ai dirigenti e ai militanti un impegno totale, lui stesso ha intenzione di fare sul serio programmando diversi appuntamenti pubblici (tre ieri, due oggi). “Oggi si ipotizzano tra i 15 e i 20 milioni di italiani che voteranno il 12 giugno - ha detto Salvini - sono tanti ma non bastano. Nei prossimi due fine settimana ci saranno centinaia di gazebo in tutta Italia per informare sui referendum giustizia visto il silenzio di quasi tutte le tv e di molta stampa”. La scarsa presa dei referendum sui media è innegabile, ma la Lega ha la sua parte di responsabilità. All’ultimo momento ha rinunciato a presentare le firme che - assieme al partito radicale - aveva raccolto durante la scorsa estate per proporre i referendum giustizia (all’inizio erano sei, uno non è stato ammesso dalla Corte costituzionale che ha fermato ance i quesiti sull’eutanasia e sulla cannabis). I promotori, infatti, pur sostenendo di aver raggiunto e superato la soglia delle 500mila firme necessarie a sostegno di ognuno dei quesiti, all’ultimo momento hanno lasciato che fossero i consigli regionali a maggioranza di centrodestra a chiedere i referendum, e solo loro. In questo modo, non avendole rese pubbliche, nessun controllo oggettivo sull’esistenza e regolarità delle firme è stato possibile e Lega e partito radicale non figurano tra i promotori ufficiali dei referendum, quindi non hanno diritto ai rimborsi elettorali e hanno accesso agli spazi delle tribune elettorali solo come uno degli undici soggetti che si sono volontariamente costituiti presso l’Agcom per sostenere le ragioni del sì. Promotori ufficiali sono i delegati regionali in rappresentanza di nove regioni a maggioranza di centrodestra, di cui solo sette per tutti i cinque referendum. Tra i delegati regionali però c’è anche Calderoli, l’ha indicato il consiglio regionale della Basilicata. Il 12 giugno voterò “Sì” a tutti e cinque i referendum sulla giustizia di Giorgio Gori* Il Foglio, 24 maggio 2022 Lo farò con convinzione, nonostante il mio partito - il Pd - si sia espresso diversamente. Ringrazio il segretario Enrico Letta per aver esplicitamente richiamato la libertà dei singoli su questa materia. Farò dunque uso di questa libertà per tradurre in espressione di voto i princìpi garantisti nei quali mi riconosco, a mio avviso fondamentali per ogni democratico e riformista. Lo farò in base all’idea che i referendum, nella loro imperfezione, possano rappresentare una spinta importante per affrontare alcuni nodi irrisolti della giustizia italiana. Le riforme andavano fatte in Parlamento, ma poche se ne sono fatte, e molti nodi sono rimasti lì. Un referendum non fa una riforma ma serve a dare un segnale - nel mio auspicio il segnale che il giustizialismo non è più maggioranza nel paese - affinché il Parlamento lo raccolga e faccia il suo lavoro. Mi conforta e mi incoraggia il fatto che diversi altri esponenti del Pd, indipendentemente dalla loro collocazione nel partito, condividano queste posizioni e si accingano - chi su tutti i referendum, chi solo su alcuni - ad esprimersi nello stesso modo. Voterò “Sì” rispetto ai due quesiti più tecnici, quello che ammette avvocati e professori universitari all’interno degli organismi di valutazione dei magistrati, così da limitarne l’autoreferenzialità, e quello che elimina la raccolta di firme quale requisito per la presentazione dei candidati al Csm, con l’obiettivo di mettere in discussione l’attuale sistema favorevole alle correnti. Entrambe le modifiche normative - con piccole differenze - si muovono nel solco della riforma della giustizia in discussione alla Camera: una ragione in più per votare a favore. Voterò Sì al referendum sulla separazione delle funzioni dei magistrati, perché tra le carriere di giudici e pubblici ministeri dell’accusa ci sia una distinzione più netta, a tutela dell’equità del processo e dei diritti della difesa. E’ vero che resterebbe in vita un solo concorso, e un solo Csm, ma il divieto assoluto di passaggio da una funzione all’altra mi pare decisamente preferibile alla riduzione - da quattro passaggi ad uno - prevista dalla riforma attualmente in discussione. Ancora, voterò SÌ all’abrogazione della legge Severino, pur consapevole che riguarderebbe anche l’incandidabilità e il divieto di ricoprire incarichi di governo per i condannati in via definitiva per delitti non colposi, cosa a mio avviso non auspicabile e che richiederebbe un successivo intervento correttivo del Parlamento. Tuttavia la legge prescrive una cosa assolutamente inaccettabile, ovvero l’incandidabilità o la sospensione di amministratori locali e regionali condannati in primo grado - quindi con giudizio non definitivo - anche per reati minori, come l’abuso d’ufficio. Si tratta di una grave violazione del fondamentale principio di non colpevolezza, ossia della presunzione di innocenza sancita dall’art. 27 della Costituzione fino a che non intervenga una condanna definitiva, aggravata dalla patologica sproporzione tra il numero dei procedimenti per abuso d’ufficio avviati e quelli conclusi con una condanna definitiva (54 su 6.500 per quelli avviati nel 2017). E’ evidente, visti gli effetti contraddittori del quesito, che un intervento del Parlamento sarebbe stato di gran preferibile allo strumento referendario, e a più riprese gli amministratori del PD hanno sollecitato i vertici del partito affinché si realizzasse una correzione della legge in sede parlamentare, ma non è accaduto nulla. Così, per tutelare i sindaci che la legge Severino ha trasformato in “presunti colpevoli”, sospendendoli ingiustamente dai loro incarichi - con ciò violando anche i diritti democratici di chi li aveva eletti - non ci resta oggi che il voto del 12 giugno. Infine, voterò Sì al referendum che si propone di limitare il ricorso alla custodia cautelare, di cui in Italia si abusa gravemente. Negli ultimi dieci anni i cittadini in carcere in attesa di giudizio sono stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, contro il 22 per cento della media europea. E 12mila 583 persone - ha ricordato Alessandro Barbano - tante quante gli abitanti di Isernia, sono state assolte o prosciolte negli ultimi tre anni dopo essere finite in carcere da innocenti. Il referendum punta ad abrogare una delle tre motivazioni che sostengono la possibilità che un cittadino venga incarcerato: il rischio di reiterazione del reato. E’ un pericolo, è stato detto: chi fermerà i criminali - o i mariti violenti - che rimessi in libertà potrebbero tornare a delinquere, a picchiare, o persino arrivare ad uccidere? Questo allarme a me pare infondato. Il referendum infatti non cancella quella parte della legge che prescrive l’adozione della custodia cautelare quando sussiste il “concreto e attuale pericolo che l’indagato commetta gravi delitti con l’uso di armi o altri mezzi di violenza personale, o delitti contro l’ordine costituzionale, ovvero di criminalità organizzata”. La “violenza personale” include tutte le manifestazioni di stalking e di violenza domestica. Il referendum non mette quindi in pericolo la sicurezza dello Stato e neppure quella delle vittime dei delitti di violenza di genere. In compenso, al netto di questi casi, la custodia cautelare fondata sul pronostico della reiterazione del reato presuppone la colpevolezza, anziché l’innocenza; è (in)giustizia basata sul sospetto, contraria ad ogni forma di garantismo e in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Per questo voterò SÌ. Quando la Corte Costituzionale, il 16 febbraio scorso, diede il via libera ai primi quattro quesiti sulla giustizia, sperai potesse trattarsi di un “segnale forte” che il Parlamento sarebbe stato in grado di raccogliere, attivandosi per modificare le leggi con quel grado di puntualità che allo strumento referendario è per forza precluso. “Se non lo farà il Parlamento”, scrissi, “è però un bene che la parola passi ai cittadini”. Su alcuni temi, tra cui la separazione delle carriere, qualcosa si è mosso, e l’iter della riforma è in corso; ma su quelli forse più significativi, modifica della Legge Severino e limitazione del ricorso alla custodia cautelare, i due che investono il fondamentale principio della presunzione di innocenza, il Parlamento non ha mosso un dito. E dunque è un bene la parola passi ai cittadini. Sperando che siano in tanti a votare, che siano debitamente informati e che in maggioranza si esprimano per il SÌ. *Sindaco di Bergamo “La riforma Cartabia non basta a sanare i mali della giustizia. Per questo dico Sì ai referendum” di Piero Senaldi Libero, 24 maggio 2022 Di giustizia, la senatrice Giulia Bongiorno può ben parlare. Tra i principali penalisti italiani, in quanto avvocato l’esponente della Lega non va giù con il randello, ma sa far capire le cose al suo interlocutore. Quando si batteva per la fecondazione assistita portava avanti un tema caro alla sinistra, e tutti la inseguivano anche se il problema riguardava una minoranza. Quella legge era da farsi, come poi infatti è stato malgrado il flop referendario, e da qui arrivano i due giorni di votazione anziché la sola data di questa volta. E il fallimento dello sciopero dei magistrati, lunedì scorso, è la prova che la riforma Cartabia è un pannicello caldo, “che non giustificava un atto dirompente come lo sciopero”, precisa la penalista. Oltre a essere una principessa del foro, la Bongiorno è sicuramente tra gli avvocati che nutrono la più alta considerazione della magistratura. “Mio padre- ricorda- mi spingeva a tentare il concorso, ma io non ho mai voluto, non mi sento all’altezza di giudicare gli altri. E poi il magistrato dev’essere sopra le parti, non può assolutamente fare politica. Io invece voglio essere libera di essere di parte, sia in tribunale sia nella vita pubblica. Proprio per questo mi sono candidata in parlamento”. L’ex ministro della Pubblica Amministrazione (alla Giustizia, i grillini le preferirono l’ineffabile Alfonso Bonafede) è persuasa che il referendum faccia bene soprattutto ai giudici, “perché l’attuale sistema alimenta in tutti il fondato timore che, quando si apre un processo, ci si possa trovare inermi, intrappolati in una macchina infernale”. Anche allora era un referendum balneare, 12 giugno... “Dodici e tredici giugno, per la precisione. Erano stati concessi due giorni per votare, il che rende più facile il raggiungimento dell’adesione minima per considerare valida la votazione, il 50% degli aventi diritto più uno. Questa volta, invece, si voterà soltanto il 12. Perché?” Quei referendum fallirono, però l’80% dei votanti si espresse a favore della fecondazione assistita, infatti poi venne fatta la legge che l’ha resa legale in Italia. Potrebbe andare allo stesso modo? “No. Non ci si illuda che, se fallisce il referendum, possa ripetersi quanto successo nel 2005. Quanto meno, non in questa legislatura”. Però una riforma della Giustizia c’è già, quella predisposta dal Guardasigilli, Marta Cartabia. Perché non è abbastanza, se prevede un giro di vite nei passaggi tra Procura e Tribunali, evita le nomine a pacchetto nel Csm e fa valutare l’operato delle toghe anche dagli avvocati? “Lei cita esattamente i profili utili che, alla Camera, ci hanno portato a votare a favore della Riforma, precisando con fermezza però che non è sufficiente a raggiungere gli obiettivi prefissati. Tutti eravamo d’accordo sulla necessità di combattere la degenerazione delle correnti che pervade la magistratura, ma il ministro ha dovuto mediare tra sensibilità partitiche troppo diverse e alla fine sono stati apportati solo piccoli ritocchi. La riforma è un passo avanti, ma è anche troppo blanda: è come tinteggiare un edificio pericolante sperando che non crolli. $ inutile, bisogna abbatterlo e ricostruirlo. Come con il Consiglio Superiore della Magistratura”. Lei crede che la riforma Cartabia sia stata un problema per i referendum sulla giustizia? “Come ho detto, la riforma in sé presenta alcuni aspetti migliorativi dell’attuale sistema, ma senza dubbio è poco incisiva. Il fatto che se ne discuta contemporaneamente al referendum e che, al pari di alcuni quesiti referendari, abbia come oggetto il Csm, ha creato confusione. L’opinione pubblica e gli stessi media sono stati indotti a credere che la riforma basti a sanare i mali della giustizia, ma non è così”. Avvocato, è possibile che in realtà la gente sia poco interessata ai quesiti referendari, e che appunto per questo i giornali non ne parlino? “No, non penso. Dopo numerosi scandali, la magistratura ha perso credibilità: oggi c’è molto più interesse sul tema della degenerazione delle correnti e sull’inefficienza del sistema. Il punto è che non se ne parla abbastanza. Adesso il dibattito è concentrato sulla guerra, e questo è comprensibile, ma spero che almeno nei prossimi giorni, con l’avvicinarsi del 12 giugno, possa esserci un’informazione adeguata”. Il solito asse giornali-sinistra-magistrati degli ultimi trent’ anni? “No, perché questo voto non è contro i magistrati come categoria, ma a favore dei magistrati vittime della degenerazione delle correnti. Moltissimi non hanno alcun interesse a mantenere lo status quo e di certo andranno a votare. Semmai, nel contesto storico di una pandemia e di una guerra in atto, la notizia del referendum non ha avuto fino ad ora il giusto risalto. Mi auguro che nei prossimi giorni ci sia adeguata attenzione al tema”. La sinistra, però, continua a difendere i magistrati politicizzati... “Ormai anche la sinistra, se non tutta, almeno in parte, ha piena consapevolezza dei danni creati dal correntismo esasperato. Ma c’è sempre la tendenza a sostenere che la magistratura riuscirà a riformarsi da sola. Io invece non lo credo affatto. So anche che molti esponenti del Pd voteranno a favore dei referendum”. A che punto è il braccio di ferro tra toghe e politica? “Lo hanno vinto le toghe, e da tempo. Lo scandalo Palamara e le rivelazioni contenute in diverse pubblicazioni avrebbero dovuto spingere il parlamento a una radicale riforma del Csm, che invece non si vede neanche all’orizzonte. Solo piccoli ritocchi, come dicevo. Ora le diverse correnti della magistratura sono in conflitto tra loro per conquistare spazi sempre maggiori di potere individuale”. Però, tra i partiti, solo Lega e Radicali ci mettono la faccia... “Spero in una rapida crescita di interesse sul tema da parte di tutti i cittadini, la giustizia è materia che riguarda l’intera comunità. Credo fortemente in questa battaglia che stiamo affrontando nel silenzio mediatico. Molti parlamentari non hanno espresso pubblicamente la loro posizione, ma concordano in pieno con la necessità di un cambiamento profondo della giustizia. Ho apprezzato moltissimo, invece, che il sindaco di Bergamo, Gori, abbia preso posizione sposando le ragioni referendarie”. Oggi gli italiani come considerano la magistratura? “La prima domanda che mi fanno i clienti quando arrivano in studio non riguarda più la pena che rischiano bensì la corrente a cui appartiene il magistrato assegnatario del procedimento. Credo che questo la dica lunga”. Ma i magistrati sostengono che il correntismo non è eliminabile. Lei cosa ne pensa? “Credo che gli orientamenti politici vadano lasciati fuori dalle aule di giustizia e fuori dal Csm. Prendiamo per esempio coloro che, anche pubblicamente, si oppongono al sorteggio dei membri del Csm perché non garantirebbe l’equilibrio degli orientamenti politici. Questa obiezione mi fa venire i brividi. Ma quando un giudice o un pm indossa la toga o fa parte del Csm non dovrebbe accantonare le proprie opinioni politiche? Sarebbe come se un sacerdote assolvesse o condannasse il peccatore in base alla propria sensibilità e non secondo i dettami della dottrina religiosa”. Entriamo nel dettaglio: perché è giusto votare sì ai referendum? “Prendiamo la scheda gialla. In un processo, il giudice dovrebbe essere terzo rispetto alla difesa e al pubblico ministero. Tuttavia, poiché le correnti in magistratura sono potentissime e decidono sulle carriere dei singoli, potrebbe capitare che un giudice si faccia condizionare nel verdetto dall’appartenenza del pm a una corrente in grado di incidere sul suo futuro. Una netta separazione delle carriere sarebbe un’autentica svolta liberale per il nostro sistema. Solo la spinta popolare del referendum indurrebbe il legislatore, troppo timido nell’affrontare questo tema, a percorrere finalmente la strada del giusto processo”. Questo spiega perché in Italia le sentenze a volte vengono ribaltate in appello di 180 gradi? “No, non generalizziamo. Capita spesso che un giudice commetta un errore di giudizio, ma in certi casi dubitare del possibile condizionamento politico del magistrato è lecito. Stadi fatto che una giustizia non equa e inefficiente, dove giudici e pm possono passare liberamente da una funzione all’altra, costituisce una minaccia per tutti”. Passiamo alla scheda grigia, quella sulle valutazioni autoreferenziali dei giudici. Perché votare sì? “Non le sembra strano che, malgrado lo sconquasso della giustizia, praticamente tutti i magistrati ottengono valutazioni positive sul proprio operato? È ragionevole pensare che almeno qualcuno non sia eccellente? Dire sì vuol dire bocciare l’attuale sistema di valutazione”. Ma non è stata la Corte Costituzionale la prima grande sabotatrice dei referendum? “Il referendum sulla responsabilità dei giudici, quello non ammesso dalla Consulta, avrebbe senz’ altro fatto da volano per tutti perché era il tema più comprensibile: “Chi sbaglia paga”“. Tanto più che trent’ anni fa la Consulta lo aveva accolto, gli italiani votarono per la responsabilità delle toghe. Ma poi la volontà dei cittadini fu aggirata con un escamotage, trasferendo sullo Stato la responsabilità materiale e il dovere di risarcire l’errore della toga... “Onestamente, non riesco a trovare una spiegazione per la bocciatura del quesito sulla responsabilità civile. Ma aggiungo che anche gli altri due referendum bocciati, quello sull’omicidio del consenziente e quello sulla legalizzazione della cannabis, ai quali avrei votato no, sarebbero stati di grande richiamo per gli elettori”. Su quei temi, però, si potrebbe anche legiferare con maggiore facilità... “Sulla droga la Lega ha una posizione netta e rigorosa, ben diversa da quella di altri partiti. Certo, poi su alcuni temi come il fine vita da sempre i partiti tendono a non legiferare, perché ciascuno teme di urtare la sensibilità del proprio elettorato e di perdere consenso. Personalmente, credo che una grande forza politica debba sempre schierarsi orientando i propri elettori sui temi di ampio respiro e non debba agire con lo sguardo focalizzato unicamente sul presente”. Toghe, il concorso è un flop: nel 95% dei casi strafalcioni di diritto e italiano di Simona Musco Il Dubbio, 24 maggio 2022 Solo in 220 superano la prova scritta, ma i posti a bando erano 310. Poniz (ex Anm): “Un livello non adeguato”. Una vera e propria débâcle, un flop sconcertante. Il concorso per l’accesso in magistratura miete migliaia di vittime, su tutti italiano e diritto. Perché su 3.797 candidati che si sono presentati alla prova scritta soltanto in 220 sono stati ammessi all’orale, ovvero il 5,7 per cento del totale. Gli altri, secondo quanto riferito dalla commissione esaminatrice, avrebbe commesso strafalcioni di diritto e di italiano. Il risultato è che dei 310 posti banditi con il concorso per l’accesso in magistratura del 2019 almeno 90 posti rimarranno certamente scoperti. Ed è la migliore delle ipotesi, in un panorama che già soffre per la scopertura dei posti in pianta organica: su 10.433 magistrati sulla carta, infatti, sono 1.431 i posti vacanti. A questi vanno aggiunte le 225 toghe fuori ruolo e i numerosi incarichi extra giudiziari, 768 in un anno. Un vero e proprio dramma a fronte degli impegni presi dall’Italia con l’Europa: ridurre i tempi dei processi, del 40% nel civile e del 25% nel penale. Ma stando anche all’ultimo rapporto della Commissione europea, l’Italia è fanalino di coda per numero di magistrati, a fronte di un allungamento dei tempi di risoluzione dei processi che mette in crisi i piani del nostro Paese. La mancata copertura dei posti al concorso è dunque un problema che “deve essere affrontato”, come ha più volte sottolineato la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Per ora, quel che è certo, è che via Arenula esclude categoricamente una proroga dell’età pensionabile per evitare un aumento delle scoperture. Ma intanto il ministero ha bandito un nuovo maxi-concorso per 500 posti, le cui prove scritte sono previste dal 13 al 15 luglio. Il precedente concorso era finito nell’occhio del ciclone a seguito di una serie di ricorsi da parte di alcuni candidati, che avevano sollevato dubbi anche sulla serietà della commissione. I bocciati, infatti, lamentavano la presenza di segni di riconoscimento sui compiti di alcuni dei promossi, rivolgendosi al Tar per ottenerne l’annullamento. In quel contesto, la Terza Commissione del Csm aprì una pratica, dalla quale emerse la sostanziale regolarità del concorso, nonostante alcune stranezze. Successivamente, la stessa Commissione decise di modificare le regole di selezione degli esaminatori, scelta, generalmente, con il metodo del sorteggio, ma sulla base di alcuni parametri molto restrittivi, che di fatto limitavano la platea di sorteggiabili a pochi eletti. Lo scorso anno, invece, si decise di estendere il bacino di utenza di questo sorteggio, affidando la scelta del presidente della commissione d’esame ad un bando e non sulla base della proposta del presidente della Terza Commissione, come da prassi. Tale scelta creò però più di un malumore in plenum. Secondo il togato Carmelo Celentano, infatti, “la commissione di concorso non è un fine ma un mezzo rispetto alla quale il ragionamento secondo cui un qualunque magistrato in grado di irrogare una sanzione penale sia automaticamente in grado anche di fare bene il lavoro di selezionatore di nuovi magistrati non è un’equazione spendibile”. Cosa che, a dire dei membri della Terza Commissione, palesava una sorta di sfiducia nei confronti della stessa magistratura. Il laico della Lega Stefano Cavanna ricordò in quella sede “che il concorso per l’accesso in magistratura è da sempre oggetto di critiche e che in questo Consiglio vi è stata l’apertura di pratiche addirittura relative al concorso del 1992”. E pur non volendo sostenere che il concorso del 1992 o quelli successivi siano stati irregolari, “se l’idea della cittadinanza o di una sua parte è questa”, definì “doveroso eliminare i dubbi su questi profili e il sorteggio consente di farlo”. Tale metodo, aggiunse, presuppone inoltre “un grande credito della magistratura, che è ben in grado in maniera diffusa di effettuare valutazioni in sede concorsuale finalizzate a individuare i nuovi magistrati”. Il consigliere di Area Giuseppe Cascini sottolineò come “il tema dell’assegnazione dell’incarico di componente della commissione di concorso è storicamente un terreno sul quale le correnti hanno dato il peggio di sé ed è quindi da salutare con favore la scelta di un criterio basato sul sorteggio”. L’ultimo concorso, dunque, ha avuto come “giudici” i commissari sorteggiati con il nuovo metodo. E il risultato, si lascia scappare qualcuno a Palazzo dei Marescialli, è proprio questo: una Caporetto, complice anche una scuola non più capace di assolvere il proprio compito. Luca Poniz, ex presidente dell’Anm e tra i 30 membri della commissione d’esame dell’ultimo concorso, ha riferito all’Ansa di “un livello non adeguato” dei concorrenti, pur nella consapevolezza dell’”urgenza” di reclutare nuovi magistrati. La commissione si è dunque trovata davanti “una grande povertà argomentativa e povertà linguistica, molto spesso temi che ricalcano schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, una scarsa originalità, poca consequenzialità e in alcuni casi errori marchiani di concetto, di diritto, di grammatica. Trovare candidati del concorso in magistratura che non sanno andare a capo è un problema molto serio, io Io l’ho imparato in terza elementare”. Secondo Poniz a causare tale situazione sarebbero più fattori, a partire dal “collasso dell’attitudine formativa della scuola”. E inciderebbe anche “la proliferazione” di Atenei, che tendono a promuovere tutti “perché le Università si alimentano attraverso i risultati positivi. Credo che tutto questo non abbia portato un grande risultato alla qualità media dei laureati”. Occorre ragionare anche sui corsi di preparazione in magistratura “bisogna vedere se formano davvero, se preparano a un metodo”. Ma porsi questi problemi “è compito dei ministri dell’Istruzione e della Giustizia”. Concorso flop: due giudici bocciano il collega che ha fatto strage di candidati. “Troppo severo” di Liana Milella La Repubblica, 24 maggio 2022 Intervista a due voci. Per una volta sia Magistratura indipendente sia Magistratura democratica sono d’accordo. Loredana Micciché per Mi al Csm, e la presidente di Md Cinzia Barillà, sono contro il collega severissimo sugli errori, perfino d’italiano. Agli orali solo 220 aspiranti su 3.797. Grazie all’ultimo concorso in magistratura, finito con una strage di candidati agli scritti (è passato solo il 5,7%), per una volta, le opposte correnti della magistratura si ritrovano d’accordo. E sono due donne a esserlo. Unite nel condannare l’eccessiva durezza nella correzione dei compiti, per cui sono passati agli orali solo 220 aspiranti su 3.797, in grado di coprire solo quella quota dei 310 posti messi a concorso. Nel mirino delle critiche finisce il commissario d’esame Luca Poniz, pm a Milano ed esponente della sinistra di Area, noto per la sua severità. E che ha rilasciato dichiarazioni sui candidati, a suo avviso, palesemente impreparati anche nella gestione della lingua italiana, fondamentale per scrivere ordinanze e sentenze. E così, in questa intervista a due voci, la consigliera togata del Csm, nonché consigliera di Cassazione Loredana Micciché, di Magistratura indipendente, corrente conservatrice delle toghe, e Cinzia Barillà, la presidente di Magistratura democratica, il gruppo più progressista, magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria, esprimono un assai simile giudizio critico. Luca Poniz sostiene che nei compiti c’erano “errori di diritto e di grammatica”, ma tra i candidati c’erano anche quelli che “non sanno andare a capo”, mentre lui lo ha imparato già in terza elementare. È una ragione sufficiente per promuovere solo così pochi candidati? Risponde Micciché: “Ritengo improbabile, in base alla semplice legge dei numeri, che - come dichiarato da membri della commissione - oltre 3.500 giovani dichiarati non idonei all’ultimo concorso abbiano commesso errori ortografici o gravi errori di diritto. Certamente possono esserci stati molti casi di errori gravi, ma 3.500 sono davvero troppi. Troppo ingeneroso, di conseguenza, sarebbe il giudizio per la scuola e le università italiane e, in generale, per i nostri giovani che sono il futuro del Paese e che, mi risulta, all’estero ottengono parecchi successi”. Risponde Barillà: “Credo che sia un giudizio ingeneroso e poco attento ai sacrifici soprattutto personali ed economici che sono stati sostenuti da tanti candidati. Il nostro concorso già da tempo si sta sempre più modulando come una selezione di secondo livello, voglio dire che spesso ci si possono accostare solo i giovani che hanno partecipato al tirocinio negli uffici giudiziari o frequentato scuole di preparazione al concorso, talvolta già avvocati o dottori di ricerca o funzionari in altre pubbliche amministrazioni dello Stato, che sono così riusciti a mantenersi per anni allenati nello studio. Alcuni di loro si formano anche nei nostri uffici, quindi mi domando se oltre al diritto di essere selettivi, abbiamo anche il dovere di interrogarci in ordine a quello che siamo stati in grado di trasmettere loro”. Quindi il vostro collega Poniz è stato troppo severo nei suoi giudizi? Ma perché dovrebbero passare l’esame scritto candidati che magari, in futuro, non sarebbero neppure in grado di scrivere in buona forma un provvedimento giudiziario? Micciché: “Quelli che fanno errori di grammatica e sintassi non possono certamente essere promossi. Ma, come ho detto, non è possibile che li abbiano fatti oltre 3.500 candidati”. Barillà: “Il correttore automatico nella divisione in sillabe può fare miracoli anche tra le nostre fila, mentre stava a noi, come magistrati, coltivare il dubbio e denunciare le criticità sul tappeto di questa tornata concorsuale, che prendevano le mosse anche dalla brevità del tempo di esame. Quattro ore per argomentare in diritto, in modo coerente in ordine a una traccia mediamente complessa, è un tempo del tutto insufficiente ed è, viceversa, una modalità che favorisce il nozionismo acritico. Da altro canto, anche la commissione esaminatrice non viene selezionata, né dal Csm né dal Consiglio nazionale forense, sulla base di criteri di merito, ma nel primo caso viene sorteggiata sui disponibili. Allora se merito chiama merito, sarebbe stato anche corretto dare conto di questo dato di partenza”. Il Csm ha segnalato per tempo che mancano almeno mille magistrati per coprire gli organici. Un numero certo molto alto. Ma è una “buona medicina” sanarlo con candidati che non sanno scrivere? Micciché: “Selezionare solo una bassissima percentuale di idonei, lasciando scoperti 90 posti di magistrati in una situazione drammatica per gli uffici giudiziari, è frutto di una scelta ispirata a criteri tecnici improntati a un rigore che ritengo incomprensibilmente estremo, posto che la prova orale ben consente, nei casi dubbi, di fugare eventuali incertezze sulle capacità dei candidati. E mi riferisco soprattutto a quei casi in cui uno dei compiti risulta svolto in modo brillante e valutato con un voto alto, il che dimostra come non si tratti di candidati incapaci di scrivere in italiano o totalmente inconsapevoli del diritto”. Barillà: “È una buona medicina investire in metodi selettivi che diano spazio anche alla creatività del candidato, alla duttilità del ragionamento e alla capacità di discernimento. Lei vorrebbe un magistrato che divide bene in sillabe, ma che mostra di non comprendere la portata giuridica e umana delle sue ragioni? Che non ha capacità di ascolto e di elaborazione di quanto le parti sostengono? Sulla prima lacuna ci si può lavorare senza creare danni, sull’assenza della seconda caratteristica i danni sono incalcolabili”. Anche ai candidati che hanno dimostrato poca dimestichezza con la lingua italiana e la punteggiatura andava data una chance in più? Micciché: “No di certo, in questi casi non potevano essere date chances. Ma, ripeto, è la legge dei numeri: è impossibile che li abbiano commessi in 3.500. Aggiungo che dopo l’entrata in vigore di leggi che sono una vera mannaia per i processi penali - e mi riferisco in particolare al regime delle improcedibilità - il Csm ha dovuto lasciare scoperti molti posti delle Corti d’Appello, dove i processi si bloccheranno: questo perché non avremo abbastanza magistrati da immettere nei posti di primo grado, che a loro volta non possiamo lasciare troppo scoperti, altrimenti i processi non si celebreranno. Insomma, bisognava dare ad almeno altri 90 di questi 3.500 ragazzi una chance in più. Non è molto, ma per la giustizia italiana sarebbe stato moltissimo”. Barillà: “Ma se proprio noi ci sottraessimo dalla logica di una chance in più, nello scrutare oltre la forma e guardare alla sostanza dei ragionamenti espressi, i nostri verdetti sarebbero tutti monolitici e senza appello con buona pace della dialettica giudiziaria. La scuola può fare autocritica sulla lingua italiana, ma anche per noi non guasterebbe un ritorno sui banchi dell’umiltà”. La memoria tradita di Giovanni Falcone di Giuseppe Sottile Il Foglio, 24 maggio 2022 Una commemorazione ecumenica. Eppure trent’anni fa a Capaci non è morto solo il magistrato siciliano, ma anche il suo modo di fare giustizia. Poi è arrivata l’antimafia chiodata, con i teoremi, i finti pentiti e i processi di piazza. Fateci caso: ieri, giorno delle celebrazioni, erano tutti lì, sul grande palcoscenico della memoria allestito a Palermo per rendere onore al sacrificio di Giovanni Falcone, saltato in aria trent’anni fa sull’autostrada di Capaci con la moglie e gli uomini della scorta. C’erano i giudici che non hanno mai smesso di piangerlo e i giudici che non hanno saputo raccogliere la sua eredità. C’erano i giudici che hanno sempre diffidato dei pentiti e quelli che invece li hanno coccolati, adulati, incoraggiati e persino imbeccati per vincere facile nei processi e godere dei privilegi che il successo avrebbe inevitabilmente comportato. C’erano i magistrati che credono nello stato di diritto e che svolgono le indagini cercando le prove e i riscontri necessari per arrivare a sentenza; e c’erano i magistrati che invece cedono ancora al fascino dei teoremi e del sospetto come anticamera della verità: quelli - per dirla tutta - che hanno usato e usano le inchieste per alimentare il circo mediatico-giudiziario, per guadagnarsi un posto nel piazzale degli eroi, per devastare con i trojan la vita degli altri, per traccheggiare con la politica, per mascariare e sputtanare i mille e mille disperati finiti nel gorgo di una giustizia malsana, furbastra, inaffidabile e spudoratamente ingiusta. Falcone era un magistrato serio. Ed era soprattutto alle prese con una mafia spaventosa e onnipotente, disposta a qualsiasi violenza pur di imporre la sua legge e le sue sopraffazioni. Era avvivato a Palermo poco prima di quella maledetta Epifania del 1980 in cui un killer armato di pistola assassinò, in via Libertà, Piersanti Mattarella, giovane e promettente presidente della Regione. Un uomo onesto. Un politico “con le carte in regola”: così amava definirsi. Chi aveva dato l’ordine di ucciderlo? C’era, su quel primo delitto eccellente, un mistero fitto, fittissimo. Ma c’era soprattutto una grande domanda di giustizia. Mai la mafia aveva osato tanto. Quale cosca o quale boss aveva lanciato una sfida così alta e temeraria? A Palazzo di Giustizia i cronisti vagavano da una stanza all’altra a caccia di un indizio, di un’ipotesi, di un nome. Inutilmente. Fuori dal palazzo si addensavano chiacchiere e sospetti. Leoluca Orlando e padre Ennio Pintacuda, punte avanzate di un’antimafia chiodata, chiedevano a gran voce di impiccare all’albero della gogna l’eurodeputato Salvo Lima, padre padrone di quella Dc siciliana che faceva capo alla corrente di Giulio Andreotti. E fu allora che mani espertissime lanciarono una trappola estremamente insidiosa. Fecero sapere a Falcone, che nel carcere di Alessandria c’era un pentito di media caratura, un malacarne che, pur di accreditarsi con i magistrati e ricavare i benefici concessi ai collaboratori di giustizia, aveva già spedito in carcere una settantina di picciotti e di neofascisti catanesi. Si chiamava Giuseppe Pellegriti e - secondo fonti, ovviamente confidenziali - era pronto a mettere nero su bianco e a indicare come killer dell’omicidio Mattarella tale Carlo Campanella, noto solo alla mamma e ai casellari giudiziari, e come mandante, manco a dirlo, proprio lui, quel reliquiario di tutte le nefandezze che rispondeva al nome altisonante di Salvo Lima: torvo, muto, legnoso, ammanicato con i terribili cugini Salvo, esattori di Salemi, e in odore di solidarietà con Stefano Bontade, Michele Greco e Tano Badalamenti, i tre mammasantissima che avevano retto la cupola mafiosa fino all’arrivo dei sanguinari corleonesi guidati all’assalto di Palermo e della Sicilia da Totò Riina, detto ‘u curtu. Diciamolo: Giovanni Falcone poteva cogliere l’occasione per saldare la sua antimafia giudiziaria all’antimafia della piazza. Per diventare “magistrato del popolo”. Per conquistare il circo mediatico-giudiziario. Per sbaragliare, forte della popolarità, i tanti nemici che si annidavano nelle istituzioni e nella stessa magistratura. Invece no. Lui fece puntualmente gli accertamenti del caso e quando si trovò di fronte a Pellegriti cominciò con una domanda secca: lei conferma che a uccidere Mattarella è stato Carlo Campanella? Lo sventurato rispose di sì. E si incastrò. Falcone gli dimostrò che il giorno del delitto Campanella si trovava regolarmente in carcere e quindi non poteva dalla sua cella sparare al presidente della Regione siciliana. Pellegriti cominciò a balbettare e, per non sprofondare, ammise di avere orecchiato il nome del killer e soprattutto quello di Lima da un suggeritore particolare che le solite menti raffinatissime avevano opportunamente sistemato con lui, nella stessa cella: Angelo Izzo, meglio conosciuto nella malavita come “il massacratore del Circeo”, un rudere dell’eversione nera, un delatore rotto a tutte le esperienze, anche le più torbide. La sceneggiata di Pellegriti non poteva che finire com’è finita. Con l’incriminazione per calunnia. Una colossale batosta per il pentito ma soprattutto per i puri e duri dell’antimafia. Leoluca Orlando, che sperava ardentemente nell’incriminazione di Lima e nella sua eliminazione per via giudiziaria, non ingoiò il rospo e accusò Falcone di tenere “le prove nei cassetti”. La polemica tracimò sui giornali e poi su “Samarcanda”, il programma tv di Michele Santoro, e poi sul “Maurizio Costanzo Show”. Arrivò persino al Consiglio superiore della Magistratura, davanti al quale il giudice fu costretto a difendere il proprio coraggio e la propria intransigenza. Disse che le garanzie, quelle previste dalla Costituzione, valevano anche per Lima. Lui sapeva come trattare i pentiti. Aveva puntato su Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, e lo aveva estradato dal Brasile perché deponesse al maxi processo contro i quattrocento uomini di Cosa nostra, boss e picciotti, rinchiusi dentro le gabbie dell’aula bunker costruita appositamente per loro dietro al carcere dell’Ucciardone. Delle sue rivelazioni aveva controllato ogni dettaglio, ogni episodio, ogni circostanza. Al punto che Buscetta non fu mai smentito in aula. Quando, in un rovente faccia a faccia, gli si avventò contro Pippo Calò, boss del mandamento palermitano di Porta Nuova, il primo grande pentito di Cosa Nostra tirò fuori i retroscena di un delitto, al quale Calò aveva partecipato, e lo fulminò seduta stante. Per un diabolico capriccio del destino - o forse no - con l’attentato di Capaci non muore solo Falcone, ma anche il suo modo di fare e assicurare giustizia. Arrestato Riina, gennaio 1993, e murati vivi nel carcere duro i boss che avevano fatto da corona alla sua follia, ha preso piede lentamente una magistratura che, non avendo più davanti una mafia militare da sconfiggere, ha pensato bene di “riscrivere la storia d’Italia” e di scandagliare i palazzi del potere: per scoprire le complicità e i mandanti esterni delle stragi; per disvelare le trame oscure e scovare i registi occulti di quella violenta stagione di sangue. E di teorema in teorema è nata la “boiata pazzesca” della Trattativa: un altro maxiprocesso nel quale non c’erano né prove né un movente in grado di reggere il patto scellerato tra lo Stato e Cosa Nostra. C’era solo un aggrovigliato e inverosimile gioco di specchi tra due pataccari: da un lato Massimo Ciancimino, diventato all’improvviso il ventriloquo del padre, quel Don Vito che fu uomo dei corleonesi e anche sindaco di Palermo; dall’altro lato Giovanni Brusca, il feroce boss che schiacciò il telecomando di Capaci e che dopo avere confessato la strage e altri cento omicidi, grazie alla Trattativa l’ha fatta franca: ha avuto anche oltre ottanta permessi per alleggerire la sua pena e ora si gode felicemente la sua libertà. E chi se ne frega se i due pataccari - coccolati dai magistrati di riferimento - hanno scaricato macigni di infamia e di disonore su gente che non aveva mai trattato con i boss, come l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, o su quegli alti ufficiali dei carabinieri, come i generali Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni immediatamente successivi alle stragi avevano arrestato Riina e fatto di tutto per arginare il terrore mafioso. Chi se ne frega se hanno dovuto aspettare più di dieci anni perché una Corte d’appello accertasse la loro innocenza. Ieri, durante le celebrazioni, le luci abbaglianti della retorica non ci hanno consentito di vedere gli effetti collaterali che la morte di Falcone ha provocato dentro e fuori dai Palazzi di Giustizia. Nessuno ha evocato il caso Pellegriti. Uno spartiacque tra giustizia e malagiustizia. Tra lo stato di diritto e i processi di piazza: quelli che si celebrano sui giornali e nei talk-show, quelli che ci divertono tanto. Trent’anni fa combattevano contro Falcone, ora combattono contro i referendum di Piero Sansonetti Il Riformista, 24 maggio 2022 Giovanni Falcone è stato ucciso 30 anni fa dalla mafia. Era stato ostacolato in tutti i modi e combattuto dai suoi colleghi. Il Csm prima gli negò la nomina a capo dell’ufficio istruzione, cioè di succedere a Antonino Caponnetto, poi addirittura, su denuncia di magistrati e politici di sinistra, aprì contro di lui un gravissimo procedimento disciplinare che si concluse solo con la sua morte. Fu ostacolato e messo alla gogna, sui giornali, in Tv, di fronte all’opinione pubblica. La sua colpa era quella di essere stato un magistrato rigorosissimo. E con doti professionali che nessun suo collega ebbe mai. Falcone era un gigante delle indagini e del diritto. E colpì al cuore Cosa nostra, in modo devastante, come nessuno mai era riuscito a fare. La colpì in processo e ne svelò tutti i meccanismi interni, il funzionamento, le fazioni, i capi. Non gli perdonarono il suo rigore, quando disse, perché ne era certo, che non esisteva un terzo livello della mafia. Che la mafia era mafia ed era così potente perché indipendente e autonoma. E non dipendeva dalla politica. Poi alla fine la mafia lo uccise. Per vendicarsi del maxiprocesso. Per bloccare le indagini che aveva avviato col colonnello Mori su mafia e appalti. Perché riteneva che ormai fosse abbastanza isolato. Dopo la morte Falcone è diventato un’icona. Lo hanno portato in processione i suoi nemici. Quelli che Gesù chiamava i sepolcri imbiancati. Ora sono tutti lì in prima fila, a combattere i referendum e la riforma della giustizia come all’epoca combatterono Falcone. Che spettacolo poco decoroso! Preferite che vi parli del Falcone circondato dai nemici in magistratura, che gli diedero assedio, del Falcone che non si fidava di Giammanco e del giovane Pignatone, che considerava uomo di Giammanco, oppure del Falcone che andò a Roma, da Martelli, e gli diedero del traditore? Quale Falcone volete ricordare? Quello del maxiprocesso, nel corso del quale inflisse a Cosa Nostra la sconfitta più devastante in due secoli di storia? O preferite ricordare il Falcone che escludeva l’esistenza del terzo livello, cioè di una cupola della mafia guidata dai politici, e che incriminò per calunnia il pentito Pellegriti, e si prese le contumelie di tutti gli antimafiosi doc dell’epoca? Ditemi quale preferite: il Falcone che interrogava Buscetta, e soppesava ogni sua dichiarazione, e cercava i riscontri, oppure il Falcone che quando la mafia gli mise una bomba sotto casa, all’Addaura, si beccò gli attacchi, le ingiurie e i sorrisi sfottenti di tutti, e dei giornali che fecero capire che quell’attentato era una messa in scena per dare un po’ di slancio alla sua credibilità? Preferite che vi parli del Falcone circondato dai nemici in magistratura, dai suoi colleghi, che gli diedero assedio, del Falcone che non si fidava di Giammanco, il Procuratore, e del giovane Pignatone, che considerava un uomo di Giammanco, oppure del Falcone che andò a Roma, da Martelli, cioè dal ministro, e fu accusato di tradimento perché era passato coi socialisti, cioè con i craxiani, con gli andreottiani, quindi, più o meno con la mafia? O ancora volete parlare del Falcone al quale un Csm molto impegnato nella lotta alla mafia impedì di diventare capo dell’ufficio istruzione di Palermo, preferendogli Antonino Meli, perché anche se di mafia ne sapeva poco poco però era più anziano? O magari preferite che vi parli del Falcone messo sotto accusa dal Csm per i suoi atteggiamenti spavaldi, e che fu costretto a difendersi coi fucili puntati contro, compresi i fucili dei più brillanti magistrati e politici antimafia, escluso - onore a lui - Caselli? Sapete come finì quel procedimento disciplinare? Fu dichiarato estinto per morte del reo. Sapete a che serviva? A troncare sul nascere la sua candidatura alla procura nazionale antimafia. Si faceva così allora. Si fa così anche oggi. Son le correnti, bellezza. No, no, non è come potete pensare: che ci siano due Giovanni Falcone. Uno passionario e l’altro prudente. Uno gradasso e l’altro pauroso. Uno contro la mafia e l’altro con il potere. È quello che la rispettabile associazione “l’antimafia siamo noi…” ha sempre voluto farci credere. Fino a che Falcone non è stato ucciso da Cosa Nostra, tra qualche riga cercheremo di capire perché. Poi la rispettabile associazione ha cambiato linea (dopo averlo processato e messo alla gogna anche in Tv…) e ha deciso di sequestrarne la memoria. Falcone e Borsellino - ha stabilito - sono una cosa nostra e nessuno ha il diritto di toccarli. Santi che stanno lì a dimostrare che noi abbiamo ragione, che le persone che indichiamo al sospetto sono colpevoli e vanno maciullate. Che i magistrati sono eroi in trincea e rischiano tutti i giorni la vita. Non è così. Falcone era uno solo. Era un gigante. Di Falcone si possono dire tante cose, ma due sono evidenti e incontestabili. La prima è che era un magistrato con doti professionali clamorose, che forse nessun altro magistrato ha mai avuto; la seconda è che aveva una idea alta del diritto, e aveva questa idea alta non perché fosse un garantista dalla parte degli imputati, ma perché era convinto che quello che contava, nella giurisdizione, fosse la sentenza di terzo grado, e che il magistrato doveva calibrare le accuse e i processi a seconda delle prove che aveva o che poteva avere in mano, e doveva rispettare tutte le regole, altrimenti rischiava il fallimento del suo lavoro. Oggi sono pochi i magistrati di prima fila che ragionano così. Oggi quel che conta è l’effetto che fa. Cioè il rumore che si può realizzare con un arresto, una conferenza stampa, un giro in Tv. Che poi un procedimento giudiziario si concluda con la condanna e l’assoluzione conta poco, conta sbattere un po’ di gente in carcere e tenercela per più tempo possibile. La campagna contro Giovanni Falcone condotta con incredibile disponibilità di mezzi all’inizio degli anni 90 è un fatto quasi unico nella storia della magistratura. Falcone fu delegittimato prima dai suoi colleghi (destra e sinistra insieme) in modo sistematico, e poi dai politici e poi dai giornali. Ho dei ricordi di quell’epoca. Ero caporedattore all’Unità e mi occupavo anche di Sicilia e di mafia. Noi avevamo sostenuto Falcone convinti, all’epoca del maxiprocesso, poi avevamo iniziato a sospettare di lui. Ci aspettavamo che azzannasse al collo il pentapartito, Andreotti, i socialisti, perché anche allora, un po’ come oggi, la sinistra era così. Residui di stalinismo. Cioè speranza che qualche Potenza superiore riuscisse a ottenere i risultati che non arrivavano sul campo. Il Pci e poi il Pds stavano perdendo voti e l’illusione era che il colpo di magia ai propri avversari arrivasse da fuori. Ma Falcone dopo aver abbattuto il vertice di Cosa Nostra si rifiutava di servire su un piatto d’argento la tesi che il vertice dei vertici fosse la politica. E in particolare la Dc. E in particolare Andreotti. E questo apparve come un tradimento. Era solo la dichiarazione onesta di un magistrato onesto che aveva capito davvero la mafia e la sua struttura. A noi non piaceva. E nel 1991 ci fece indignare una sua intervista nella quale esplicitamente diceva che non era la politica a guidare la mafia, casomai il contrario. Il terzo livello era fantascienza. Pubblicammo su l’Unità un articolo di un intellettuale prestigiosissimo come il giurista Alessandro Pizzorusso, che stroncava Falcone. Seppellendo la sua candidatura alla Superprocura. Vi dico la verità: anch’io ero abbastanza convinto. Sebbene stimassi Falcone. Lo avevo seguito per molti anni, lo avevo conosciuto anche personalmente, non lo consideravo certo un farabutto. Però… Quel pomeriggio del 23 maggio, quando arrivò la notizia dell’attentato, restai senza parole. Dovevo fare il giornale, l’Unità, perché il direttore che era Walter Veltroni (ma era arrivato appena da due giorni e non aveva ancora gran dimestichezza) non era in redazione per non so quale impegno politico. Facevo il giornale e mi sentivo morire. Capiì all’improvviso di non avere capito niente. Capii anche che l’abbandono da parte della sinistra poteva aver favorito i mafiosi nel loro disegno. Stavo malissimo. Il giorno dopo chiesi a Veltroni di poter scrivere un articolo di scuse a Falcone. Mi disse di sì, e lo pubblicò come editoriale di pagina 2. Non lo trovo più quell’articolo perché l’archivio dell’Unità è bloccato. Ho trovato queste poche righe in rete, e le trascrivo: “Questo giornale, negli ultimi mesi, e più di una volta, ha criticato Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo. E ha osteggiato la sua candidatura alla direzione della superprocura. In queste ore terribili una cosa l’abbiamo capita tutti, credo: Giovanni Falcone era un uomo libero. Abbiamo invece fatto prevalere il dubbio politico: forse non è uno dei nostri. Forse è politicamente ambiguo…. Siamo stati faziosi”. Perché hanno ucciso Falcone? Credo per due ragioni. La prima è la vendetta, per avere decapitato Cosa Nostra e per averne svelato, per la prima volta, lo scheletro interno, il funzionamento e il Dna. La seconda è che Falcone aveva avviato un dossier su mafia e appalti che considerava importantissimo e che aveva affidato al colonnello Mori. Quel dossier fu archiviato due mesi dopo la sua morte, sebbene Borsellino avesse chiesto di lavorarci. Non avvertirono Borsellino di aver chiesto l’archiviazione. La mafia considerava quel dossier molto pericoloso. Coinvolgeva moltissime aziende del nord. Andò a finire che invece di produrre un processo agli autori dei rapporti tra mafia e appalti quel dossier produsse un processo al colonnello Mori, cioè all’autore del dossier, l’uomo forte di Falcone. È così: era il suo destino. Essere perseguitato perché troppo Grande. Anche dopo la morte è stato perseguitato. In cambio, per ricompensarlo, ne hanno fatto un’icona che viene portata a spalla dai suoi nemici. Fatemi usare le parole del Vangelo: “sepolcri imbiancati”. “Finte commemorazioni, si vogliono smantellare 41 bis e ergastolo ostativo” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 maggio 2022 Il pm Di Matteo su Falcone e le altre stragi: “Non mi piacciono le parate istituzionali e come tanti cittadini non sopporto lo sterile esercizio di una stucchevole retorica di Stato”. Nino Di Matteo ha disertato le manifestazioni ufficiali “in cui mi pare si sia data una lettura minimalista e rassicurante della strage di Capaci, come se la vendetta dei macellai corleonesi fosse il movente prevalente se non esclusivo, tralasciando due aspetti. Il primo è il ruolo di leadership in termini di politica giudiziaria che Falcone aveva assunto al ministero: aveva portato in politica la lotta alla mafia - altro che porte girevoli! - e nella sua rozzezza Riina l’aveva capito. Secondo: la contestualizzazione dell’eccidio tra l’assassinio eccellente di Salvo Lima e la stagione delle altre sei stragi successive” anche nel continente. A due isolati da casa Falcone, Di Matteo confida il suo disagio nel retropalco del teatro Golden, dove la rivista Antimafia Duemila ha radunato anche l’ex procuratore palermitano Roberto Scarpinato, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, il procuratore calabrese Giuseppe Lombardo (autore del processo sulle connessioni stragiste tra cosa nostra e ‘ndrangheta) e quello fiorentino Luca Tescaroli (che indaga sulle stragi del ‘93). Lo slogan “Fuori la mafia dallo Stato” scandito dalla platea e il titolo Traditi, uccisi, dimenticati configura a tutti gli effetti il convegno come una contromanifestazione che denuncia (Scarpinato dixit, commosso) “una falconeide sedativa da corriere dei piccoli”. Di Matteo legge in parallelo l’Italia di oggi con quella del 1992. “Falcone è stato tradito e ucciso da quelle istituzioni che in queste ore hanno partecipato al gran gioco delle finte commemorazioni e domani, tornate a Roma, riprenderanno a lavorare per smantellare pezzo dopo pezzo le leggi antimafia da lui ispirate, 41 bis ed ergastolo ostativo; voteranno una riforma che crea un modello di magistrato-burocrate antitetico al suo; introdurranno una legge elettorale del Csm che aumenterà il correntismo, perché la politica non ha alcun interesse a debellare un sistema di cui si nutre e da cui trae vantaggio”. Quando cita tra gli applausi, Andreotti, Berlusconi e Dell’Utri si riferisce anche alle imminenti elezioni palermitane: “Il problema non è che un condannato, espiata la pena, dica la sua. Mi preoccupa che qualcuno chieda la sua intermediazione per ottenere la candidatura o per aumentare i consensi”, come accaduto nel centrodestra sia al Comune che alla Regione. Ma anche nella magistratura “vedo troppi segnali negativi. I magistrati che continuano coraggiosamente a occuparsi delle stragi sono sempre meno e sempre più ostracizzati. Trattati come i giapponesi che combattono una battaglia finita. Anche gli investigatori sono sempre meno, al punto che mi domando se non ci siano direttive gerarchiche che spingono a fare indagini più semplici e con risultati spendibili nelle statistiche”. L’esatto contrario di quelle sulle stragi, dove non ci sono droga o villette da sequestrare. No, al teatro Golden non si celebra un trentennale a lieto fine. “Date i permessi al mafioso, senza fare moralismi”: Parola di Cassazione di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2022 Da un lato non si contano le commemorazioni, troppe di rito, per i 30 anni della strage di Capaci; dall’altro avviene che la Cassazione ha depositato le motivazioni dell’annullamento con rinvio dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Milano che, per la seconda volta, aveva negato un permesso premio a Giuseppe Barranca, uomo dei Graviano, pluriergastolano proprio per la strage di Capaci del 1992 e per le autobombe del 1993 a Milano, Firenze e Roma. Prima di entrare nei dettagli, è importante una premessa: se la Corte costituzionale nell’ottobre del 2019 non avesse dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui vietava il permesso premio ai detenuti per mafia e terrorismo, non collaboratori, boss come Barranca, muti come pesci, non potrebbero aspirare al beneficio. Invece, non appena il Parlamento voterà definitivamente la riforma, approvata a marzo dalla Camera e ora al Senato, potranno aspirare pure alla libertà condizionata. La riforma è un passo obbligato da un’altra decisione della Consulta che ad aprile 2021 ha bocciato pure l’ostativo alla condizionale. Con una differenza, però, rispetto al 2019: la Corte ha ordinato la modifica al legislatore. Tornando al caso Barranca, per la Suprema Corte, quinta sezione penale, i giudici di Milano hanno negato il permesso premio ignorando quanto stabilito dalla Consulta, che ha disposto pure per un detenuto mafioso e magari stragista, che non ha mai voluto collaborare con la giustizia, la possibilità di avere un permesso premio, purché non abbia collegamenti attuali con la criminalità organizzata o non possa ripristinarli uscendo dal carcere, sia pure temporaneamente. Per la Cassazione, i giudici milanesi avrebbero espresso “osservazioni ispirate a moralismi”, ma “non si può basare il rigetto solo sulla mancata decisione di collaborare”. Nelle motivazioni i giudici di legittimità accusano i colleghi della Sorveglianza di usare una nota dell’Anticrimine come “mero pretesto per l’attualizzazione della pericolosità” di Barranca “senza esame di elementi concreti”, in modo da poter motivare il rifiuto del permesso. In quella nota, del 15 gennaio 2021, il detenuto viene definito “un uomo d’onore inserito ad altissimo livello” in Cosa Nostra. Ma per la Cassazione il tribunale di Sorveglianza “si dilunga nello stigmatizzare la scelta di non collaborare” dell’ergastolano e lo accusa di essere “elusivo” della sentenza della Consulta. Dopo il bastone, una piccola carota per i giudici milanesi, visto che Barranca è uno stragista e non un ladruncolo: “Pur nella consapevolezza della delicata e sottile linea di confine che, in relazione a posizioni detentive così peculiari, separa le valutazioni giuridiche sulla pericolosità sociale dal giudizio di condanna morale per i gravi delitti commessi”, i giudici di merito, comunque, devono “verificare la meritevolezza dei permessi premio secondo le direttrici tracciate dalla Corte costituzionale”, cioè se ci siano o meno legami attuali o ripristinabili, facendo un esame “a tutto campo, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto”, altrimenti “non vi sarebbe alcuna possibilità di garantire la rieducazione attraverso percorsi di benefici carcerari” dato che la “gravità dei reati” impedirebbe di per sé “un bilanciamento favorevole rispetto a percorsi carcerari positivi e alla presa di distanza dalle associazioni mafiose di appartenenza”. Come nel caso di Barranca, la cui difesa ha puntato anche sulla sua mancata citazione nelle ultime sentenze sulla cosca di Brancaccio. I giudici della Suprema Corte, dunque, sembrano ignorare che i mafiosi sono detenuti modello e che la “dissociazione” è insufficiente anche per la Corte costituzionale. Amaro Luigi Dainelli, presidente dei familiari delle vittime di via dei Georgofili a Firenze: “Difficile accettare una decisione del genere. Viene da dire che tutti difendono Caino, nessuno Abele che fu ucciso da Caino. Non si vuole il fine pena mai, ma noi dobbiamo convivere con un dolore che non avrà mai fine per la perdita dei nostri cari”. “Mio figlio è in carcere per aver manifestato contro l’alternanza scuola-lavoro” di Selvaggia Lucarelli Il Domani, 24 maggio 2022 Emiliano è stato arrestato all’alba del 12 maggio, a Torino, insieme ad altri due ragazzi che come lui avevano manifestato tre mesi fa contro l’alternanza scuola-lavoro. Oltre a lui, quattro ragazzi hanno l’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria e altri quattro ragazzi ancora si trovano agli arresti domiciliari. Tra questi ultimi c’è anche Sara, una diciottenne che aveva effettuato solo attività di speakeraggio al megafono. Riesco a parlare con Irene, la mamma di Emiliano, uno dei tre ragazzi attualmente detenuti al carcere delle Vallette. Con che accusa è stato arrestato suo figlio Emiliano? Resistenza al pubblico ufficiale, da quel poco che ho capito. Ci tengo a dire che mio figlio è incensurato. Mi racconta chi è Emiliano? Ha 22 anni, ha studiato agraria e fatto dei corsi di specializzazione per giardinaggio artistico presto la reggia di Venaria, ha vinto l’eccellenza per l’industria, guadagnandosi uno stage in Danimarca. Fa l’università e il giardiniere per pagarsi gli studi. Un amante della natura... La prima volta che è andato a vedere un allevamento da latte, lui che era onnivoro, ha deciso di diventare vegano. Aveva 16 anni. Insomma, non proprio l’identikit del violento... Emiliano è un altruista, pratica un’arte marziale che insegna la difesa del più debole, aiuta perfino il suo maestro con i bambini. È un donatore di sangue da quando ha compiuto 18 anni ed è stato tra i primi vaccinati perché faceva il volontario in un hub. Frequenta centri sociali? Sì, anche. Lì fanno attività con i bambini, con le famiglie, si preoccupano della difesa dei diritti di tutti, della terra in cui viviamo, della questione Tav, degli sfratti che colpiscono famiglie povere, dei migranti. E poi si lotta contro la realizzazione di un deposito di scorie che vogliono far nascere qui in Piemonte. Emiliano aveva già partecipato ad altre manifestazioni? Noi andiamo a manifestazioni da quando i miei figli sono nati, convinti che qualcosa, se ci si muove in tanti, si possa cambiare. Emiliano è sensibile al tema dell’ingiustizia sociale, è giovane e sente molto questa questione, quella del mondo che gli stiamo lasciando. Non ti ha mai spaventato il fatto che partecipasse a manifestazioni che a Torino finiscono spesso con repressioni violente? A me ha sempre spaventato molto, ma sono contenta della sua partecipazione, della sua sensibilità per certi temi. A Torino sono anni che si attuano misure cautelari tremende per questi ragazzi, misure che vengono quasi sempre confermate dai giudici. Poi, quando si fa il processo, le accuse diventano atti bagatellari e spesso sono prosciolti. E però intanto quei ragazzi sono stati trattati come delinquenti con arresti prima ancora che ci sia un processo. Mi sembra assurdo che venga disposto il carcere preventivo per dei ragazzi così giovani e incensurati, non mi pare ci siano elementi di pericolosità sociale, pericolo di fuga o di inquinamento delle prove... C’è perfino una ragazza ai domiciliari per aver parlato al megafono. Ricordo che tempo fa, qui a Torino, per un indagato uno degli elementi di pericolosità sociale fu considerato il fatto di aver distribuito volantini davanti a un ristorante perché il cuoco che lavorava lì era un anno che non percepiva lo stipendio. È una cosa che si ripete da anni, e se la prendono con ragazzi sempre più giovani. Come si sente in questo momento? Sono molto arrabbiata e spaventata. Siamo in una macchina infernale per cui Emiliano è in carcere da dieci giorni senza aver neppure visto ancora il gip. È in isolamento? Sì, in una cella da solo, perché quando sono entrati i tre ragazzi hanno fatto il tampone e lui, risultato positivo, è stato messo in isolamento. Gli altri due, siccome erano in auto con lui, sono in isolamento cautelativo insieme. Come si è svolto l’arresto? Emiliano vive con degli amici, io non sapevo nulla, alle sette e un quarto del mattino mi chiama la polizia e mi chiede se sono la madre di Emiliano. Mi dicono: “Suo figlio è stato arrestato, lo porteremo al carcere delle Vallette”. Ho chiesto se potevo parlargli, mi hanno detto di no. Allora mi sono piantata davanti al carcere per vedere se lo vedevo almeno arrivare, sono stata tutte le mattina lì e invece nulla. Verso le 12 ho chiesto alla guardia se fosse entrato. Mi ha detto che Emiliano era già dentro. Il 14 ho provato a scrivere una mail al direttore del carcere chiedendo aiuto e qualche informazione, perché io non sapevo che fare, a chi chiedere di aiutarmi. Mi ha risposto che non poteva organizzare un colloquio telefonico, poi giovedì finalmente mi suona il telefono e sento “Ciao mamma, sono Emi”. Come sta? Era tranquillo, sta bene, ma era preoccupato per me, per la mia preoccupazione. Il carcere delle Vallette è un carcere duro, ci sono stati casi di tortura, cambi di direttori, non è un posto in cui mi sento sicura che stia. So che dovrei essere tranquilla perché anche se avesse fatto uno sbaglio è in mano allo stato, ma non mi sento così. A Torino si usa il pugno duro sui manifestati da anni, è una situazione forse più grave che nel resto d’Italia... La narrazione comune di chi non conosce la realtà di Torino è “se ti hanno arrestato è perché hai fatto qualcosa”, e potrebbe sembrare anche un pensiero corretto. Ma ripeto, può pensarlo chi non vive qui. Questi ragazzi sono puniti duramente e in anticipo, senza che si sappia se hanno sbagliato, perché la questura ritiene che siano pericolosi. Ho visto e rivisto le immagini di quella manifestazione, i più violenti hanno usato l’asta della bandiera contro i poliziotti che li avevano manganellati a sangue, senza alcuna ragione, una settimana prima... A quanto pare 25 agenti hanno avuto lesioni, uno di loro dieci giorni di prognosi. Vorrei sapere di che lesioni stiamo parlando. Ci sono stati scontri anche il primo maggio a Torino... Ho visto un signore di una certa età, pacifista, che si è inginocchiato per terra dopo le prime cariche della polizia con la bandiera della pace in mano. Hanno caricato anche lui. Emiliano non ha ancora incontrato il gip? Doveva vederlo il 20 ma lui non ha potuto partecipare per impedimenti sanitari. Ieri doveva rifare il tampone, ma non so cosa sia successo. Il 24 ci sarà l’udienza di riesame per tutti i ragazzi agli arresti. Spero che lo facciano tornare a casa. Come stanno le altre due mamme dei ragazzi in carcere? Siamo sempre in contatto, cerchiamo di andare insieme a chiedere i colloqui. Una delle due ha il figlio che è stato operato un mese fa al cuore, speriamo che almeno lui possa tornare a casa e sottoporsi all’esame di controllo che deve fare. Pensa che Emiliano sia più spaventato o umiliato? Non credo che si sia sentito umiliato, io da madre non mi sento umiliata per nulla. É ora di finirla con questa repressione prima di un regolare processo, noi non ci spaventiamo, siamo qua, ci troveranno sempre a fianco dei nostri figli. Pensa che ora suo figlio potrebbe smettere di manifestare? Non so se continuerà o smetterà, sono ragazzi molto giovani e possono aver paura dell’accaduto, questi fatti possono anche scoraggiare altri ragazzi a scendere in piazza. O al contrario ad andare avanti, sempre più arrabbiati. Di una cosa però sono certa: Emiliano continuerà a vivere secondo i suoi principi, perché quelli sono dentro, nessuno te li può togliere. Giulia Ligresti: “Ho patteggiato da innocente perché in carcere temevo di morire” di Fabio Savelli Corriere della Sera, 24 maggio 2022 Giulia Ligresti e l’assoluzione: un’ingiustizia che non mi risarciscano quei 21 giorni in cella. È stata assolta dalle accuse di aggiotaggio e falso in bilancio perché il fatto non sussiste. Ingiustamente detenuta, ma solo per i primi 16 giorni dei 43 passati nel carcere di Vercelli tra luglio ed agosto di nove anni fa, per i quali Giulia Ligresti ha diritto ad un risarcimento di 16mila euro. La sentenza della Corte d’Appello le ha riconosciuto la particolare “afflittività” della condizione carceraria, ma non le ha concesso lo stesso metro di giudizio per la detenzione successiva, per quei 21 giorni San Vittore nel 2018 come espiazione della pena per reati da cui pochi mesi dopo fu invece scagionata. La richiesta di indennizzo era molto più alta, 1,3 milioni. Ma ha pesato la scelta di patteggiare: non le è stato riconosciuto l’errore giudiziario. Contenta a metà? “Ho preso atto che i giudici abbiano almeno riconosciuto che io sia stata messa in carcere ingiustamente e utilizzerò il risarcimento per sostenere i progetti umanitari a favore di donne e bambini in difficolta di cui da sempre mi occupo. Ma sono molto delusa del fatto che il mio patteggiamento sia stato considerato un’ammissione di colpa. Mi trovavo in un luogo infernale dove non sarei sopravvissuta un solo giorno in più. Leonardo, il più piccolo dei miei figli, aveva solo 11 anni, ero angosciata e disperata e mi era stato fatto chiaramente capire che quella era l’unica strada, l’unico strumento per uscire da lì. La mia volontà non era patteggiare, la mia volontà era far finire quell’incubo”. All’epoca ricopriva la carica di vicepresidente, pur senza deleghe esecutive, di Fondiaria Sai, la compagnia assicurativa di famiglia finita sotto la lente degli investigatori per un presunto buco di 600 milioni nella riserva sinistri… “Accuse totalmente infondate che si sono sciolte come neve al sole, nessuna falsificazione del bilancio né informazioni false al mercato. Tutto completamente folle. Ancor piu folle la mia carcerazione preventiva. Io sono comunque una persona che guarda al futuro piu che al passato e ho accettato di considerare quei momenti terribili come un’esperienza che ha contribuito a farmi diventare la persona che sono. Ma non accetto che la verità venga distorta in questo modo assurdo: arrestata, assolta con formula piena, risarcita ma solo in parte perché ho patteggiato. Quindi secondo la Corte mi sono implicitamente dichiarata colpevole di un fatto che non sussiste. La mia vita va avanti ma mi sento di voler stimolare il dibattito pubblico perché l’Italia su temi così importanti, che riguardano la libertà delle persone e i diritti fondamentali di ciascuno di noi rischia di rimanere indietro”. Perché saremmo indietro? In fondo se ha ottenuto il riconoscimento di un indennizzo, seppur contenuto rispetto alle sue richieste, la giustizia italiana si è ravveduta. Tardivamente? “Il passaggio della sentenza che più mi ha amareggiato è quello in cui si definisce il patteggiamento “una scelta personalissima dell’imputato che costituisce una precisa ed inequivocabile manifestazione di volontà”. Non era consenziente? “Non c’era alcun consenso, sono finita in una situazione kafkiana in cui, pur non avendo commesso nulla sono stata costretta a cedere per tornare a casa dai miei figli. Ricordo ancora oggi il primo interrogatorio da detenuta: sono stata prelevata dal carcere all’alba, costretta dentro il recinto del furgone blindato fino al tribunale di Torino: un caldo atroce e il mio panico perché soffro di claustrofobia. Lì mi hanno fatto attendere per un tempo interminabile nelle celle dei sotterranei. Sono arrivata all’interrogatorio priva di qualsiasi forza di combattere e totalmente disperata. È stato in quel momento che mi è stato chiaramente detto che la mia detenzione sarebbe potuta durare mesi e mesi e che l’unica strada per uscire era patteggiare. Ho provato durante l’interrogatorio a difendermi e a sostenere la mia posizione, ma la violenza verbale è stata tale che non ho avuto altra scelta che accettare passivamente la strada di un accordo con la procura. Avrei sottoscritto qualunque dichiarazione pur di far finire quel martirio”. Accuse pesanti, però la sua è stata strategia difensiva che le ha accorciato il calvario.. “Gli avvocati Massimo Rossi e Pamela Picasso, nuovi difensori che mi stanno seguendo in questa fase, giustamente sostengono che il patteggiamento rappresenta anche e comunque una strategia difensiva che non può essere assolutamente ricondotta ai concetti di colpa grave o dolo quali ostacoli all’indennizzo per la detenzione subita. Io sapevo di essere innocente, senza se e senza ma, ed ero annientata dalla condizione della privazione della libertà, e in quella situazione ho deciso di scegliere la “vita”, scriva proprio così, facendo prevalere l’istinto materno di stare accanto ai miei figli Ginevra, Federico e Leonardo, che hanno dimostrato una forza straordinaria in quei giorni che non dimenticheremo mai”. Alla sua situazione s’interessò l’allora ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri che sollecitò degli approfondimenti sulla sua condizioni di salute... “Sono in molti a doverle chiedere scusa e mi auguro che l’attuale ministro della giustizia Cartabia, che stimo molto, abbia la consapevolezza e la volontà di approfondire questi temi” Una vicenda giudiziaria che si protrae fino ad adesso dopo diversi gradi di giudizio... “Il mio infatti è solo uno dei moltissimi casi in cui si annienta la vita di persone innocenti. Però molti, a differenza mia, non hanno la possibilità di difendersi che ho avuto io. Dunque anche e soprattutto per loro sento di dover combattere. L’Italia resta un Paese bellissimo ma ognuno di noi deve sentirsi protetto. Credo che la mia storia debba convertirsi in un punto di partenza per una discussione seria e pacata sullo strumento della carcerazione preventiva”. Pensa che a qualcuno convenisse mettere sotto attacco la famiglia Ligresti? “Credo che questo abbia fatto parte di una operazione chirurgica che ha cambiato gli assetti nella finanza milanese e italiana”. Paolo Persichetti, da terrorista a storico. Ma il passato continua a chiedere il conto di Paolo Morando Il Domani, 24 maggio 2022 Oltre trent’anni fa, nel 1991, è stato condannato in via definitiva a 22 anni e mezzo di carcere per partecipazione a banda armata (le Brigate rosse - Unione dei comunisti combattenti) e concorso morale in omicidio (il generale dell’aeronautica Licio Giorgieri, ucciso in un agguato a Roma il 20 marzo 1987). Nel frattempo, dopo che in primo grado era stato assolto, era riparato in Francia, come tanti altri ex terroristi. E a Parigi si era ricostruito una vita come studioso, laureandosi e conseguendo un dottorato in Scienze politiche, fino a insegnare come docente a contratto all’università. A Paolo Persichetti il passato è tornato però a chiedere il conto la sera del 24 agosto 2002, quando la polizia francese lo ha fermato per poi consegnarlo a notte fonda ai colleghi italiani, in un rendez-vous degno dei migliori film di spionaggio: sotto il traforo del Monte Bianco. Era stato arrestato una prima volta nel 1993, opponendosi però all’estradizione con successo, grazie a un pronunciamento dell’allora presidente francese François Mitterrand, che ha confermato la validità della propria “dottrina”. Persichetti ha terminato di pagare il conto alla giustizia italiana nel 2014, quando è stato scarcerato definitivamente. Ma già dal 2008 era in semilibertà e aveva iniziato a collaborare prima con Liberazione, l’allora quotidiano di Rifondazione comunista, poi con il Manifesto, Il Garantista, Il Rifomista e il Dubbio. Il lavoro da storico - Si può dire che oggi Persichetti è uno storico di riconosciuto valore? Si dovrebbe poterlo fare, non fosse altro per la sua curatela di una importante Storia delle Brigate rosse in tre volumi (finora è apparso solo il primo). Si può dubitare della sua impostazione di studioso, per forza di cose caratterizzata dalla precedente militanza? Anche questo è possibile, ma senza dimenticare che la ricerca storiografica vive di contrapposizioni, di revisionismi e contro revisionismi (nel senso nobile del termine, sia chiaro), di confronto tra idee. Ma sempre sulla base di documenti. E Persichetti, da questo punto di vista, è un formidabile cane da tartufo: il suo lavoro di studioso lo dimostra. Il suo ultimo libro “La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro”, pubblicato in questi giorni da Derive Approdi entra tra l’altro a piedi uniti in un dibattito, quello su via Fani e i 55 giorni dello statista nella “prigione del popolo”, che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste che da sempre covano sotto la cenere. E d’altra parte la pubblicistica in materia è sterminata. Il libro di Persichetti è un ottimo strumento per orientarsi con un minimo di cognizione di causa in un quello che è diventato un autentico ginepraio, sulla base di una vulgata sfornita di prove che ormai sembra essersi fatta inespugnabile. Al punto che in una sentenza importante come quella che, tre anni fa, ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage di Bologna, si parla scorrettamente del covo di via Gradoli come della prigione di Aldo Moro. Un mero lapsus dell’estensore, certo, in una sentenza di oltre 2mila pagine altrimenti formidabile, ma è un lapsus che la dice lunga su quanto in questi anni è avvenuto e continua ad avvenire. Il passato che ritorna - Lo stile di Persichetti, autore di una memorabile inchiesta giornalistica sempre su Bologna (l’incredibile tentativo da destra di addossare la colpa dell’attentato a un giovane di sinistra vittima della bomba, Mauro Di Vittorio, tesi che l’ex brigatista ha contribuito a confutare), è spesso arrembante. E infatti qualche grana gliel’ha procurata. Ad esempio una querela da parte di Roberto Saviano, a cui però il giudice ha dato torto. Ma il peggio doveva ancora venire. Ed è venuto dal passato, se così si può dire. Come il postino del celebre film, infatti, la giustizia per Persichetti ha suonato due volte: ormai un anno fa, la procura di Roma gli ha sequestrato l’intero archivio, il telefonino, il pc e ogni altro apparecchio elettronico (e pure il “cloud”), nell’ambito di un’inchiesta che lo vedrebbe come “favoreggiatore” di latitanti coinvolti nel sequestro Moro. Ma inizialmente lo si accusava anche di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (e il capo di imputazione è stato modificato addirittura cinque volte). Appunto: il passato che non passa. La vicenda è ampiamente ripercorsa nel suo libro appena uscito, che sfida il mainstream fin dalla prefazione, firmata dalla filosofa Donatella Di Cesare (incorreggibile Persichetti!). E il sequestro citato, guarda caso, ha a che fare con il sequestro Moro. O meglio: con l’ultima (e contestatissima) commissione parlamentare d’inchiesta, ai cui materiali riservati - così la procura - Persichetti avrebbe attinto. La partita giudiziaria è ancora in corso, con lo studioso che da tempo chiede senza successo di poter tornare in possesso di quel materiale: anche perché, al di là della contestazione delle accuse specifiche, la procura si è portata via anche l’intera documentazione sanitaria relativa a suo figlio disabile. E davvero non si capisce che cosa questo possa avere a che fare con un’inchiesta per terrorismo. L’ultima beffa - Nei giorni scorsi c’è stata una novità, ed è significativo che sia arrivata proprio nei giorni in cui il nuovo lavoro di Persichetti è approdato in libreria: giustizia a orologeria, verrebbe a dire, ma una volta tanto a favore dell’accusato. Sul blog Insorgenze, animato dallo stesso Persichetti, si dava infatti conto (capirete presto il perché del tempo imperfetto) della relazione tecnica richiesta dal gip sul materiale sequestrato. E si apprendeva che non c’era nulla di riservato, ovvero di materiale dolosamente trafugato e poi diffuso: l’elenco di pdf, immagini, video e quant’altro è certosino e tutto ciò che proveniva in origine dalla commissione Moro Persichetti se lo è procurato utilizzando fonti aperte, soprattutto il sito dell’ex membro della stessa commissione Gero Grassi, per giunta dopo la chiusura dei lavori dell’organismo. E visto che Persichetti sa come va svolto il lavoro di storico, ecco che la relazione glielo riconosceva, attestando come altra grande parte del materiale arrivi dal Fondo Moro depositato all’Archivio centrale dello stato nell’ambito della direttiva Prodi. Che Persichetti ha dunque diligentemente consultato. Visto però che non c’è due senza tre, ecco l’ultima beffa: cioè il gip che in sostanza decide di non dare seguito all’esito della perizia e, invece di disporre la restituzione almeno parziale del materiale sequestrato, rimanda l’intero fascicolo alla procura, azzerando di fatto mesi di battaglia giudiziaria mossa da Persichetti. Il quale sabato scorso, via Facebook, ha risposto così: “A seguito degli ultimi sviluppi giudiziari legati al sequestro del mio archivio sono venuti meno anche i residuali spazi di agibilità che mi erano rimasti. Allo stato attuale non esiste più lo spazio minimo per svolgere anche il più ridotto lavoro di tipo storiografico e di ricerca. Non esistono più le condizioni obiettive e la serenità che un ricercatore deve sempre avere per condurre con serietà e misura il proprio lavoro. Pertanto sono sospese tutte le presentazioni del libro La polizia della storia che nonostante la situazione e con grande sforzo ero riuscito a portare a termine. Sono sospesi tutti i miei account social e non risulterà più accessibile al pubblico il blog insorgenze.net”. Uno stratagemma del potere - Tornando al libro, non aspettatevi benzina sul fuoco delle complotterie. Al contrario. Sul caso Moro, ad esempio, Persichetti smonta una diceria di lunga data: la presenza di una moto Honda di grossa cilindrata in via Fani, da sempre smentita da tutti i brigatisti che presero parte al rapimento, presenza invece dimostrata - così si è sempre detto - dal fatto che dai due motociclisti in sella alla Honda partirono raffiche di spari contro il parabrezza di un motorino. Ebbene, in un verbale del 1994 il possessore di quel motorino raccontò diversamente la dinamica della rottura del proprio parabrezza, che già era tenuto assieme con del nastro adesivo: avvenne per la caduta del mezzo dal cavalletto (che era parcheggiato all’incrocio tra via Fani e via Stresa: lo attesta una foto scovata in rete dallo stesso autore nel 2014) dopo l’agguato brigatista. “Questa foto - scrive Persichetti - metteva definitivamente a tacere la versione dei colpi sparati dalla Honda contro Marini e che avrebbero distrutto il parabrezza, facendo anche crollare la versione della moto con i brigatisti a bordo che avrebbe partecipato al rapimento e di cui il parabrezza infranto sarebbe stata la prova inconfutabile”. La vis polemica è evidentemente connaturata a Persichetti, visto che si toglie anche lo sfizio di documentare diverse “violazioni” del segreto compiute proprio da componenti della Commissione Moro. Ma il cuore del suo lavoro sta tutto in queste parole: “L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”. Siracusa. Grazie al progetto “Fuori” una vita dopo il carcere è possibile di Carmen Baffi conmagazine.it, 24 maggio 2022 Il progetto “Fuori - La vita oltre il carcere”, sostenuto dalla Fondazione Con il Sud, ha l’obiettivo di favorire l’inclusione socio-lavorativa delle persone detenute nella Casa circondariale di Siracusa. Il progetto promuove, infatti, specifici percorsi professionalizzanti dentro e fuori le mura dell’istituto di detenzione. Un elemento cardine del progetto è il potenziamento dell’attività del laboratorio che L’Arcolaio, cooperativa sociale responsabile del progetto, gestisce all’interno della Casa Circondariale, attraverso l’inserimento di un impianto di pelatura della mandorla, avvenuto a fine 2020. Questa innovazione del processo produttivo ha come fine quello di formare nuove commesse e, dunque, consente nuova occupazione all’interno del laboratorio. Qui, da quasi vent’anni, la cooperativa sociale produce prodotti tipici di Sicilia, biologici e senza glutine, in particolare a base di mandorla, commercializzati in Italia e all’estero con il marchio “Dolci Evasioni”. Un’altra importante azione del progetto, un’attività formativa avviata lo scorso marzo all’interno della Casa Circondariale dall’impresa sociale Passwork, ha consentito a 12 persone di partecipare a un corso finalizzato alla qualifica di Addetto pasticcere-panificatore, i cui esami finali sono stati sostenuti il 14 maggio scorso. Nel frattempo, 3 detenuti sono stati assunti all’interno del laboratorio Dolci Evasioni dove hanno approfondito la loro competenza nei processi di produzione semi-artigianale di alimenti biologici e senza glutine, e altri 6 sono stati selezionati, insieme al personale della Casa Circondariale e dell’Ulepe di Siracusa, per un tirocinio formativo di 6 mesi da svolgere in aziende del territorio. Ad aprile 2 di queste persone, autorizzate a beneficiare di misure alternative alla detenzione, hanno iniziato un’esperienza lavorativa presso un’azienda alimentare siracusana, raggiungendo un ulteriore e importante traguardo verso l’inserimento socio-lavorativo, mentre altri 4 sono stati avviati nel corso di questo mese. Parallelamente, per promuovere e incrementare il mercato delle Dolci Evasioni e sostenere l’occupazione dei lavoranti detenuti, il Consorzio Legallinefelici, partner del progetto, ha già avviato una serie di iniziative commerciali in Italia e all’estero. Contestualmente, altri partner stanno lavorando a una serie di iniziative di community engagement mirate alla sensibilizzazione e al coinvolgimento della comunità locale per disseminare gli obiettivi di inserimento socio-lavorativo fuori dal carcere, creando un “tessuto” accogliente, incentivante e non giudicante nei confronti di detenuti ed ex-detenuti. Tra questi, l’avvio di un percorso verso la formalizzazione di una rete territoriale multidisciplinare formata da soggetti pubblici e privati per lo sviluppo di azioni integrate di inserimento lavorativo fuori dal carcere e a fine pena. Monza. Nasce un fondo per borse-lavoro rivolte a detenuti a fine pena primamonza.it, 24 maggio 2022 A promuoverlo l’associazione Carcere Aperto con la Fondazione della Comunità di Monza e Brianza: coinvolti la Caritas di Monza, agenzie del lavoro e datori di lavoro. In Brianza nasce un nuovo fondo dedicato al finanziamento di borse lavoro rivolte a detenuti a fine pena. Si chiama fondo “Carcere Aperto” e sostanzialmente si propone di sostenere le attività promosse dall’omonima associazione monzese, dal 1994 impegnata ad assistere moralmente e materialmente i carcerati, i dimessi dal carcere e le loro famiglie, promuovendo il rispetto della dignità della persona e un effettivo reinserimento sociale. In particolare, il fondo si propone di supportare progetti sociali da realizzarsi nel territorio di Monza e Brianza, con particolare attenzione alla promozione di attività all’interno del carcere di Monza e nel territorio circostante, che possano agevolare l’inclusione socio-lavorativa. È promosso dall’associazione Carcere Aperto con la Fondazione della Comunità di Monza e Brianza, coinvolti poi la Caritas di Monza, le agenzie del lavoro e i datori di lavoro. Si prevede l’avvio della prima borsa lavoro nel corso del 2022. Un progetto sociale e lavorativo - “Le persone che escono da un periodo di detenzione e devono affrontare un percorso di reinserimento nel tessuto familiare e sociale esterno, hanno, tra le prime e più urgenti questioni da affrontare, quella lavorativa - spiegano da Carcere Aperto - Importante e fondamentale è pensare a una proposta progettuale di inclusione sociale che possa permettere alla persona di non sentirsi sola e potersi sentire partecipe di un progetto sociale e lavorativo. Il percorso di inserimento lavorativo permette all’ex detenuto di poter riprogettare il suo reinserimento insieme ad altre persone attraverso percorsi di riqualificazione professionale e ripresa dei ritmi socio-lavorativi all’interno di un progetto di rete tra servizi territoriali pubblici e privati e realtà lavorative”. Borse lavoro “Carcere Aperto”: i destinatari - I destinatari di questo progetto sono le persone in uscita per fine pena o con possibilità di accedere a misure alternative e con una posizione giuridica definita. Le persone coinvolte dovranno avere una situazione abitativa e familiare il più possibile stabile, in modo da concentrare l’impegno progettuale sull’aspetto lavorativo. Eventuali percorsi di trattamento delle dipendenze dovranno essere in una fase vicina alla conclusione. È inoltre richiesto il domicilio presso la provincia di Monza e Brianza. Borse lavoro “Carcere Aperto”: selezione e attività - La prima selezione dei candidati sarà realizzata di concerto con il servizio educativo della Casa Circondariale di Monza. Individuata una possibile rosa di candidati, si procederà poi a un’ulteriore preselezione in collaborazione con i datori di lavoro per l’inserimento lavorativo. Solo a questo punto sarà possibile presentare alle persone individuate il progetto e verificare il loro interesse. Quanti si dichiarino interessati saranno invitate a uno o più colloqui con i datori di lavoro. Una volta espletate le formalità richieste, la persona selezionata potrà iniziare l’attività. Il tempo impiegato sarà suddiviso tra attività formative e attività lavorative propriamente dette. La borsa lavoro si articolerà in periodi trimestrali rinnovabili per un totale massimo teorico di dodici mesi. Come sostenere il fondo - È possibile sostenere il fondo “Carcere Aperto” con una donazione online al sito www.fondazionemonzabrianza.org oppure con un bonifico intestato a Fondazione della Comunità di Monza e Brianza, all’Iban: IT03 Q05034 20408 000000029299 con causale “Fondo Carcere Aperto”. San Gimignano (Si). Il giudice costituzionale Viganò incontra i detenuti La Nazione, 24 maggio 2022 Il giudice della Corte Costituzionale Francesco Viganò incontrerà venerdì i detenuti della Casa di reclusione di San Gimignano, in un evento organizzato Gruppo di ricerca e formazione sul diritto pubblico europeo e comparato (Dipec) dell’Università di Siena. Durante l’incontro, che si aprirà alle 10, il giudice Viganò terrà una lezione su ‘La Corte costituzionale e i diritti’, cui farà seguito un dibattito con i detenuti. L’evento si pone sui lati di un triangolo virtuoso che idealmente unisce l’Università, la casa circondariale di Ranza e il giudice delle leggi. Il rapporto tra il carcere di San Gimignano e l’Università di Siena si è stretto e consolidato negli anni, nella convinzione condivisa e suffragata da numerosi studi che l’istruzione sia, con il lavoro, uno degli assi preferenziali attraverso cui passa la rieducazione del recluso. In questo senso, l’esperienza della Casa di reclusione di San Gimignano è significativa: il rapporto con l’Ateneo senese infatti è nato nel 2006, attualmente, sono circa quaranta gli ospiti della Casa di reclusione iscritti ai corsi di laurea dell’Università di Siena, cui vanno ad aggiungersi altri che hanno già conseguito la laurea e, in alcuni casi, anche la laurea magistrale. Non meno importante è il legame che da qualche anno si è creato tra la Corte costituzionale e il carcere. I giudici della Corte hanno infatti avvertito un’esigenza di apertura nei confronti della società civile concretizzatasi, non a caso, anche attraverso l’incontro con altre istituzioni quali la scuola e il carcere. L’esperienza ha dato vita al docufilm ‘Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri’, per la regia di Fabio Cavalli, che è stato proiettato nella Casa di reclusione di San Gimignano in preparazione all’incontro di venerdì con il giudice Viganò. Rossano. Start-up nella Casa di reclusione, esperimento per il reinserimento dei detenuti ildispaccio.it, 24 maggio 2022 Garanzia Giovani, da parte della Regione Calabria. Acquisizione delle competenze per l’avvio di nuove imprese valorizzando le esperienze acquisite anche con progetti di formazione regionali e nazionali. Costruire e consolidare utili connessioni in termini di filiere di forniture tra i laboratori di produzione artigianale e non, presenti nelle case di reclusione o circondariali regionali, in particolare come quella di Corigliano-Rossano, con la rete delle quasi 700 imprese nate e degli oltre 1000 giovani calabresi che hanno partecipato gratuitamente ai corsi di accompagnamento all’auto-impiego e all’auto-imprenditorialità. Sono stati, questi, i principali punti di intesa discussi e raggiunti oggi (lunedì 23 maggio) nell’incontro operativo con la direttrice della Casa Circondariale di Corigliano-Rossano Maria Luisa Mendicino, Annarita Lazzarini responsabile Garanzia Giovani della Regione Calabria, Antonello Rispoli dell’Ente nazionale per il microcredito e Francesca Felice responsabile formazione della Lenin Montesanto Comunicazione & Lobbying, società di comunicazione e formazione, soggetto attuatore territoriale dei corsi Yes I Start Up Calabria. All’incontro, dimostratosi proficuo e foriero di impegni assunti rispetto alle diverse esigenze emerse, hanno partecipato e portato il loro contributo, sia in termini di analisi che di proposte, anche il senatore Fausto De Angelis e l’assessore alle politiche sociali della Regione Calabria Tilde Minasi. “Parte da qui, dalla Casa di Reclusione di contrada Ciminata Greco, nell’area urbana di Rossano - sottolinea Rispoli - l’ipotesi di un progetto, frutto di una partnership originale e proficua a beneficio del diritto costituzionale alla formazione ed al futuro inserimento socio-economico dei detenuti. Si tratta di un percorso sperimentale, probabilmente unico nel suo genere in Italia che - continua - ha come obiettivo quello di sostenere nella fase finale di detenzione, per le categorie di detenuti che saranno indicate dalla direzione, le concrete condizioni di reinserimento e di avvio di attività d’impresa. “L’obiettivo - conclude Rispoli ringraziando insieme alla Lazzarini la Direttrice Mendicino per la disponibilità e sensibilità - è quello di garantire un contributo prezioso alla umanizzazione della pena, nel solco delle attività, dei servizi ed in generale delle opportunità che caratterizzano e distinguono da anni la proposta socio-culturale ed educativa della Casa di Reclusione di Rossano, che ha al suo interno un Polo Universitario Penitenziario con Biblioteca, un laboratorio per la lavorazione della ceramica e un laboratorio di falegnameria con strumentazioni all’avanguardia”. Gestito dalla Falegnameria Santoro, esperienza imprenditoriale territoriale alla seconda generazione, nel 2018 ha sottoscritto con il Ministero della Giustizia una convenzione e si avvale dell’ausilio dei detenuti ospitati dell’Istituto Penitenziario, per sviluppare piani personalizzati di riabilitazione nell’ottica del reinserimento socio-lavorativo. Promosso dalla Regione Calabria, coordinato dall’Ente nazionale per il microcredito, il progetto potrebbe diventare un valore aggiunto per i detenuti che potrebbero fruire di percorsi di formazione specifici per l’autoimpiego e la start up di impresa. Autoimpiego e autoimprenditorialità, il programma Yes I Start up Calabria, rivolto a giovani e professionisti fino a 35 anni, per l’avvio di impresa e supporto allo start up con finanziamento fino a 200 mila euro. I numeri continuano a dimostrarlo: più di 1100 i calabresi che hanno già intrapreso il percorso; 680 le attività hanno già avviato la loro impresa; 100 i soggetti attuatori accreditati che aiutano i ragazzi a sviluppare la loro idea imprenditoriale. Roma. Dietro le sbarre per portare l’abbraccio di una famiglia di Giulia Rocchi chiesacattolica.it, 24 maggio 2022 Il cappellano del carcere porta soprattutto conforto, vicinanza, capacità di ascolto. Egli è sempre “una presenza significativa, perché i detenuti lo cercano, lo incontrano, lo frequentano”. Siamo entrati nella Casa di reclusione di Rebibbia, a Roma, accompagnando il cappellano, don Antonio Pesciarelli. Con mons. Marco Fibbi, anch’egli cappellano della casa circondariale Raffaele Cinotti - Nuovo Complesso Rebibbia, scopriamo quale servizio svolgono in carcere. Qualche volta porta notizie dei familiari, qualche altra gli spiccioli per telefonare. Ma soprattutto porta conforto, vicinanza, capacità di ascolto. Il cappellano del carcere è sempre “una presenza significativa, perché i detenuti lo cercano, lo incontrano, lo frequentano. Forse molto di più di quello che succede all’esterno, tra le persone libere”. Lo sa bene monsignor Marco Fibbi, cappellano della casa circondariale Raffaele Cinotti - Nuovo Complesso Rebibbia. Con lui, ogni giorno, si prendono cura di circa 1.400 detenuti anche padre Lucio Boldrin e don Stefano Occelli. C’è poi la Casa di reclusione di Rebibbia, il cui cappellano è don Antonio Pesciarelli (il protagonista del nostro video, “Ti ascolto”); ancora la Terza Casa Circondariale di Rebibbia, con padre Moreno Versolato e per finire il ramo femminile, dove le detenute possono contare su don Andrea Carosella. “Il cappellano richiama il mondo libero - riflette monsignor Fibbi -. Può entrare e uscire, e lo fa non per un obbligo lavorativo, ma perché è la sua missione. Tutte le persone che frequentano un carcere sono inquadrate in un servizio e hanno un ruolo molto ben definito, servono per determinate cose, diciamo. Mentre il cappellano è una figura che è presente e disponibile proprio per i detenuti”. E questo conta molto, agli occhi di chi sta scontando una pena. Accanto alle funzioni più prettamente religiose, come le celebrazioni liturgiche, infatti, “noi è come se facessimo sempre centro d’ascolto”, sottolinea ancora il sacerdote. “Ad esempio, facciamo da tramite nei rapporti con le famiglie - spiega - e cerchiamo di mantenere i legami, perché il carcere limita molto la possibilità di comunicare; il cappellano è un mediatore spesso unico tra il detenuto e i familiari”. Una situazione che si è complicata ancora di più a causa della pandemia, quando le visite sono state interrotte, e in diverse carceri italiane - anche a Rebibbia - ci sono state rivolte da parte dei detenuti. “Anche le quarantene hanno influito moltissimo sugli ingressi in carcere - ricorda il cappellano - perché ad esempio dei detenuti venivano spostati per fare le quarantene e le famiglie erano completamente tagliate fuori. In quella fase eravamo noi cappellani a fornire informazioni ai parenti”. Aiutati, ci tiene a sottolineare don Marco, dai tanti volontari laici, da suore e seminaristi, presenze indispensabili in tanti penitenziari italiani. “Soprattutto in alcuni periodi particolari, come Natale o Pasqua, i volontari della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio fanno un gran lavoro - evidenzia -, portano doni e dolci come colombe o panettoni”. Molto graditi in un contesto in cui manca tutto. Ma quello di cui davvero i detenuti sentono la mancanza, rimarca il sacerdote, “è il rapporto con la famiglia, sia vicina che lontana. Ci sono familiari che sono formalizzati, come le mogli, i figli, i genitori che hanno accesso al carcere - spiega -. Poi ci sono altri casi tipo la fidanzata, la compagna o convivente che non è autorizzata al colloquio, quindi in questo caso mantenere il rapporto diventa più difficile”. A tenere uniti i fili ci pensano sempre loro: sacerdoti, religiose, volontari. “Proprio stamattina - racconta - ho dovuto portare la notizia di un lutto. Ho dovuto dire a un detenuto sulla cinquantina che era morta sua sorella, di 38 anni. Quasi non ci poteva credere, pensava che fosse morta la madre anziana. A noi tocca dare conforto sia religioso che umano”. Anche perché in una casa circondariale i detenuti non credenti o che professano altre religioni sono parecchi. I cappellani non fanno distinzioni, si mettono al fianco e al servizio di ciascuno. Grazie alle catechesi che si tengono periodicamente, c’è anche chi si riaccosta alla fede. A Rebibbia Nuovo Complesso i detenuti hanno commesso i reati più vari, ma don Marco e gli altri cappellani guardano a loro soltanto come a delle persone. Nessuno è solamente un ladro o un assassino. “Celebriamo tante cresime, anche se durante la pandemia abbiamo dovuto interrompere - riprende il sacerdote -. E c’è stato perfino qualche battesimo”. Roma. Carcerato di Rebibbia si laurea in ateneo Tor Vergata di Valentina Lupia La Repubblica, 24 maggio 2022 La tesi: “Gli abissi della pena” discussa in presenza. È la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea presso l’università romana. Il relatore dello studente: “Giuseppe Perrone, anche attraverso poesie, ricostruisce la sua esperienza detentiva con profondità” Appuntamento speciale, il 24 maggio, a Tor Vergata. Alle 15 un detenuto a Rebibbia, Giuseppe Perrone, si laurea in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria, ma non in carcere, bensì nell’ateneo. Ha infatti avuto il permesso di discutere la sua tesi di laurea magistrale - dal titolo “Gli abissi della pena. A partire da Primo Levi” - direttamente all’interno della facoltà di Lettere e filosofia. È la prima volta che nel secondo ateneo romano a un detenuto viene concessa questa possibilità. Il percorso che ha portato Perrone a laurearsi è è il prodotto della lunga attività del progetto di Tor Vergata “Università in carcere”: l’iniziativa relativa alla casa circondariale di Rebibbia, precisano dall’ateneo, “da oltre un decennio va oltre la sola presenza all’interno del carcere e rende accessibile alle persone recluse un’offerta formativa universitaria”. E poi “apre necessariamente un dibattito su questioni di ordine sociale, che vanno oltre la didattica. Interrogativi sul diritto allo studio, e di conseguenza sul diritto al lavoro”. Per il relatore dello studente speciale, il professor Fabio Pierangeli, associato di Letteratura italiana e letteratura di viaggio contemporanea, la notizia rappresenta “il momento della riconciliazione attraverso lo studio e la cultura”. Per quanto riguarda la tesi, “attraverso grandi pagine della letteratura, con un focus importante su Primo Levi, il lavoro ricostruisce la metafora della detenzione. Ma non sono solo parole: Giuseppe Perrone, anche attraverso alcune poesie, ricostruisce la sua esperienza detentiva con profondità e ironia”. Cagliari. Detenuti-attori in scena con “Carpe Diem”, curata dal Cada Die Teatro di Giampaolo Cirronis cagliaripost.com, 24 maggio 2022 Venerdì prossimo, 27 maggio, alle 15.30, nella Sala Biblioteca del Casa Circondariale E. Scalas di Uta, si chiude la quarta edizione del progetto nazionale “Per Aspera ad Astra_Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, con la messa in scena di “Carpe Diem” curata dal Cada Die Teatro. Sette detenuti/attori della sezione Allievi di Alta Sicurezza (A.S.), guidati da Pierpaolo Piludu ed Alessandro Mascia della compagnia cagliaritana, si metteranno a nudo, raccontando del proprio passato più lontano, quello in cui ancora bambini, forse non immaginavano neanche lontanamente quanto gli avrebbe riservato il futuro. “Si tratta di un viaggio catartico alla riscoperta del proprio io più puro - spiega Alessandro Mascia -. Abbiamo chiesto loro di tornare con la mente agli anni dell’infanzia, quelli dell’innocenza, tempi di giornate trascorse tra famiglia e amici”. Un doppio impegno per questi attori speciali, che oltre a superare l’imbarazzo di un’esibizione pubblica, ancor prima hanno dovuto mettersi a nudo, spogliarsi per un momento del presente e tirare fuori dal cassetto della memoria ricordi felici, di amore e accoglienza. Superando vergogne, timidezze, imbarazzi e pudori. Sono nati così 7 brevi monologhi che compongono un viaggio alla riscoperta del proprio io. Sette racconti scritti dai protagonisti e coordinati nella realizzazione scenica dai due registi Mascia e Piludu che racconta: “Ogni volta che lavoriamo in carcere si crea qualcosa di magico. Mesi e mesi di incontri e prove, passando anche per mille difficoltà. Ma poi, in collaborazione con la dirigenza e col sostegno degli operatori del CPIA 1 Karalis, come per magia appunto, arriva il momento di salire sul palco e ti rendi conto che tutta la fatica, tutto l’impegno nostro certamente, ma soprattutto quello degli attori, è ripagato”. “Questo progetto è molto importante per il nostro istituto perché, dando seguito a quanto previsto dalla nostra Costituzione, contribuisce all’obiettivo di una detenzione che mira alla rieducazione - spiega Marco Porcu, direttore della Casa Circondariale di Uta -. I progetti culturali portati avanti dal Cada Die, hanno un’alta valenza sotto questo profilo e siamo loro molto grati perché non è stato semplice in questi anni di pandemia, realizzarli con tale impegno e ostinazione-” Lo spettacolo conclude la quarta edizione del progetto nazionale “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza”, promosso da ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio), sostenuto da 11 Fondazioni bancarie, tra cui la Fondazione di Sardegna e che da 3 anni coinvolge circa 250 ospiti degli istituti penitenziari di 14 carceri italiane in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. Roma. Il traguardo della libertà visto da Rebibbia di Alessia Rampazzi* L’Osservatore Romano, 24 maggio 2022 Una rappresentanza delle donne detenute nella Casa circondariale femminile di Rebibbia “Germana Stefanini” sarà presente, il 24 maggio, al Meeting “We Run Together” nel Centro sportivo della Guardia di Finanza, partecipando alle staffette con altre formazioni di diverse associazioni e organizzazioni della società civile. Per l’Istituto non si tratta della prima volta, avendo già vissuto la stessa, incredibile, esperienza il 21 settembre dello scorso anno. Il ricordo è ancora vivo nella memoria non solo della squadra, ma di tutto il personale che ha provveduto alla scorta e all’accompagnamento. È stato, infatti, chiaro sin dal primo momento che lo scopo della manifestazione, nelle intenzioni degli organizzatori, non era tanto quello di promuovere un evento sportivo come sovente ne sono realizzati nel nostro tempo, quanto di condividere gli alti valori dello sport con coloro che, per varie vicissitudini, non ne hanno sperimentato la bellezza nell’arco delle loro vite segnate da condizioni di disagio personale e di svantaggio sociale ed economico. La corsa, come tutti gli sport in generale, ha bisogno di ampi spazi aperti, quasi mai disponibili all’interno di un carcere e, pertanto, ci si abitua a utilizzare quanto si ha a disposizione, sebbene l’Istituto femminile di Rebibbia con le sue aree verdi costituisca in parte un’eccezione che ha consentito di costituire la prima squadra di calcio a 5, l’Atletico Diritti, promossa dall’Associazione Antigone. Nessuna rilevanza allora poteva essere data allo scatto o alla velocità, alla prestanza fisica o alla preparazione atletica. Grande importanza ha, invece, assunto agli occhi dei promotori ognuna delle singole donne partecipanti: con la propria storia e le proprie difficoltà e, per questo, rese tutte partecipi dello spirito di solidarietà, fratellanza e inclusione del Meeting “We Run Together”. Di quella giornata sono rimasti nei racconti delle atlete, forse per la prima volta dopo tanto tempo, gli ampi respiri degli spazi, la sensazione di fare ancora parte integrante di una collettività, unitamente alla volontà di riallacciare quei legami spezzati dalla violazione delle regole. Correre insieme a futuri campioni del mondo, persone con disabilità, ambasciatori, sacerdoti e volontari delle molte associazioni del sociale che hanno aderito all’iniziativa, l’essere state accolte e accettate, condividere la celebrazione eucaristica e finanche il pasto, ha significato per le donne del carcere di Rebibbia non soltanto sperimentare sprazzi di una vita diversa, e sino a ora preclusa, ma anche acquistare una maggiore consapevolezza della finalità rieducativa della pena, fulcro dell’articolo 27 della Carta costituzionale italiana e principio ispiratore del quotidiano lavoro di tutti gli operatori penitenziari. *Direttrice della Casa circondariale femminile di Rebibbia Velletri (Rm). La scintilla della corsa per il riscatto dal carcere di Maria Donata Iannantuono* L’Osservatore Romano, 24 maggio 2022 Anche quest’anno la Casa circondariale di Velletri parteciperà al Meeting “We Run Togheter”, il 24 maggio presso il Centro sportivo della Guardia di Finanza, con una rappresentanza di detenuti che darà vita alla staffetta, replicando appunto l’esperienza dello scorso settembre. Esperienza che ha contribuito fattivamente a confermare l’importanza dello sport quale formidabile elemento per l’inclusione e strumento di cambiamento e crescita personale, anche in ambito penitenziario. La molla rieducativa dello sport è recuperare la voglia di vivere e cercare nuove strade, nuove chance. Lo sport è autodisciplina, uscire dall’isolamento, recupero della salute psicofisica, della realtà oltre che della lealtà. Voglio raccontare la storia di I.C. per definire, concretamente, il valore che lo sport ha in ambito penitenziario. I.C. racconta di aver iniziato a far uso di sostanze stupefacenti e alcool dopo i vent’anni, con il desiderio di divertimento, senza valutare le conseguenze. Questo gli ha impedito di continuare gli studi e anche l’attività di atletica agonistica. Entrato in carcere all’età di 28 anni, ha iniziato a riflettere sul “disvalore” di taluni atteggiamenti e sugli effetti negativi degli stessi per sé e per i propri congiunti. Egli voleva a tutti i costi riacquistare la loro fiducia dimostrando concretamente a loro e a se stesso che aveva la capacità di riscattarsi. È in questo frangente che si è inserita l’opportunità di partecipazione al Meeting “We Run Togheter” nel settembre scorso. Responsabilizzato per le sue capacità tecniche, che gli altri non possedevano, sostenuto e rinforzato nelle sue risorse positive, I.C. ha cominciato a credere di nuovo in se stesso. E gli altri partecipanti alla staffetta hanno creduto in lui. Probabilmente questa è stata per lui la chiave di volta. È stato di sprone ai compagni che, negli allenamenti e nella corsa, hanno individuato in lui un leader positivo, elemento che in ambito penitenziario difficilmente si riscontra. E, insieme, sono arrivati a un riconoscimento che è valso il secondo posto nella gara. Oggi I.C. è in detenzione domiciliare, misura che terminerà a luglio. Appena uscito si è messo in contatto con un’azienda con cui aveva svolto un colloquio di lavoro già in Istituto. Al termine della misura alternativa sarà assunto. Anche grazie allo sport si è impegnato attivamente per conseguire risultati concreti e dimostrare il suo cambiamento. Lo sport può, quindi, essere realmente strumento di educazione, maturazione e autoregolazione del detenuto. Lo spiega bene Alessia Assante, dirigente aggiunto di Polizia penitenziaria e comandante del reparto della Casa circondariale di Velletri: “La partecipazione a “We Run Togheter” lo scorso settembre ha coinvolto anche il personale di Polizia penitenziaria che, dopo un approccio di diffidenza per la partecipazione di detenuti che fino a quel momento non avevano fruito di benefici, ha percepito il valore dell’adesione. La fiducia riposta negli atleti-detenuti è stata ripagata con l’assoluto rispetto delle regole in un contesto nuovo per tutti”. Inoltre “eravamo tutti parte del Meeting. Con la partecipazione emotiva del personale di Polizia di fronte alla “vittoria” in pista di quegli atleti che, fino a qualche ora, prima si trovavano “ristretti” in carcere: abbiamo gioito insieme”. *Direttrice della Casa circondariale di Velletri “Il diritto all’affettività delle persone recluse”, di Sarah Grieco garantedetenutilazio.it, 24 maggio 2022 Pubblicata la ricerca di Sarah Grieco sul progetto di riforma in materia di incontri negli istituti penitenziari. È fresco di stampa “Il diritto all’affettività delle persone recluse”, una monografia di Sarah Grieco, avvocata e docente di diritto dell’esecuzione penale all’università di Cassino e del Lazio meridionale, frutto di un lungo lavoro di ricerca condotto dall’autrice, in collaborazione con Maurizio Esposito e Simone Di Gennaro. La ricerca, edita da Editoriale Scientifica, è stata condotta nel mezzo della pandemia ed è costellata di studi, interviste, riflessioni interdisciplinari con giuristi, sociologi, garanti, direttori di carceri, educatori e diversi operatori penitenziari. Nel ripercorrere la legislazione nazionale e internazionale in materia di affettività e carcere, l’autrice pone in risalto come la mancata coltivazione delle relazioni socio-affettive, da un lato, incida negativamente sul benessere psico-fisico del reo e della sua famiglia, durante il periodo di detenzione; dall’altro, rappresenti un fattore potenzialmente in grado di aumentare il rischio di recidiva. Evidenziando l’insostenibilità della scelta ‘negazionista’, (soprattutto in termini di affettività intesa come sessualità), adottata finora dal nostro Paese, avanza una prospettiva de iure condendo, che è stata trasfusa in un disegno di legge adottato dal Consiglio regionale del Lazio e presentato alle Camere lo scorso 24 febbraio (C.3488 e S.2543). Indubbiamente, si tratta di una riforma non facile ma che potrebbe incidere concretamente sulla condizione detentiva di moltissime persone recluse e dei loro affetti. Secondo l’autrice, si tratta di una riforma necessaria, indispensabile per sviluppare concretamente il concetto di dignità della pena, oltre ogni fuorviante logica premiale. Nel processo mediatico l’indagato diventa un “colpevole in attesa di giudizio” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 maggio 2022 Nel prezioso saggio del professor Vittorio Manes le degenerazioni della nostra giustizia penale. Dal 5 maggio è in libreria il nuovo saggio di Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, dal titolo Giustizia mediatica - Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo (Il Mulino, pagine 168, euro 15). La premessa dell’autore non lascia dubbi: “La giustizia penale è diventata spettacolo”. Non siamo dinanzi a pura e semplice informazione o cronaca giudiziaria, “ma anche autentico intrattenimento, sempre più incline al voyeurismo giudiziario”. È il cosiddetto processo mediatico parallelo, senza tempo, senza spazio, senza regole rispetto a quello che si celebra nelle aule di tribunale, che condanna prima di una sentenza definitiva. Infatti, scrive l’autore, l’indagato si trasforma in “un colpevole in attesa di giudizio” assoggettato “a un’immediata degradazione pubblica” e avviato “a un’irrefrenabile catabasi personale e professionale”. A venire profondamente lesa è dunque prima di tutto la garanzia della presunzione di innocenza. A causa della “curvatura inquisitoria” del trial by media, l’onere della prova si inverte: non sarà più il pm a dover provare la colpevolezza dell’imputato ma la difesa la sua innocenza. Il dubio pro reo si rovescia nel dubio pro republica. In questa mise en scene delle indagini e del dibattimento su stampa e in tv, ad essere coinvolti sono tutti i soggetti del processo. La vittima, prendendo in prestito una definizione di Filippo Sgubbi, è per Manes “l’eroe moderno, ormai santificato”, istituita come tale “ante iudicium, ma anche fortemente protagonizzata a scapito del presunto reo”. Come co- protagonista troviamo il magistrato dell’accusa: “sedotto dall’ammaliante convinzione che vincere nei cuori della gente può essere - e molto spesso è più importante che vincere in aula” il pubblico ministero diviene “il tribuno dei diritti della vittima o comunque paladino delle aspettative pubbliche”. E l’avvocato? Molto interessante la doppia rappresentazione che ci restituisce Manes: “Anche l’avvocato può occupare un ruolo di rilievo, anche se questo è molto diverso a seconda della posizione processuale rivestita e dalla parte che assiste, che può condurlo ad agire o patire il processo mediatico. Se tutela l’interesse della vittima - o se opera come patrono di parte civile - può fruire di riflesso del protagonismo di questa, e non di rado può lasciarsi irretire dalla forza seduttiva dei media sino a prendere parte a programmi di informazione, di infotainment o a talk show contribuendo bon gré mal gré alla spettacolare ricostruzione collaterale dei fatti. Al netto di ogni valutazione deontologica, quando l’avvocato si presta a questo gioco lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve”. Se viceversa tutela l’indagato l’avvocato “versa in una posizione decisamente scomoda: il rovesciamento della presunzione di innocenza lo colloca in posizione di ‘ minorata difesa’, se non sostanzialmente ‘ fuori gioco’“. Non è immune al bombardamento mediatico persino il giudice che, nonostante il suo corredo professionale, si sentirà inevitabilmente chiamato a dire da che parte sta, se dalla parte della pubblica opinione o dalla parte degli indagati che la vox populi considera già presunti colpevoli. Ormai nel nostro sistema assolvere o derubricare un reato è divenuto un atto di coraggio. Tutto questo ha pertanto delle ricadute sul piano processuale: oltre all’eclissi della presunzione di innocenza si assiste anche alla lesione del diritto di difendersi nel contraddittorio tra le parti. L’autore allude, ad esempio, “al rischio che la parodia televisiva eserciti una silenziosa manipolazione del ricordo nei soggetti chiamati a dare il loro contributo testimoniale, e che tale alterazione conduca a quella che è stata finemente descritta come una sorte di subornazione mediatica”. Di fronte a tale scenario perde ogni efficacia maieutica lo strumento di verifica dell’attendibilità del teste, il cosiddetto contro esame. Per non parlare poi del rischio di condizionamento irreversibile della stessa persona offesa. Come invertire la rotta? Manes suggerisce “un approccio rights-based” da parte della magistratura e della stampa che permetta di bilanciare, anche in linea con le disposizioni europee, l’interesse pubblico ad essere informati con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in una indagine e/o processo. Torna il sopravvento della psichiatria violenta di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 24 maggio 2022 Abdel Latif e non solo. Ritorna forte l’ossessione del controllo in nome di una sicurezza che non ha mai evitato gli “incidenti”, come si diceva nei manicomi; dilaga, in parte complice il Covid, la miseria dell’affollamento, dei turni massacranti, dell’incuria verso la legalità e il rispetto delle persone. In meno di sei mesi, due giovani uomini sono morti a Roma durante il ricovero nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc). La magistratura indaga, gli operatori e gli amministratori tacciono, come se queste morti siano solo un problema giudiziario e non un segno ulteriore delle gravi carenze di persone e mezzi che da anni vengono denunciate, delle scelte sbagliate di politica sanitaria che si riproducono per inerzia e del rigenerarsi incontrastato, in forme nuove, di culture e pratiche che hanno radici nel manicomio. Questi i fatti. All’alba dello scorso sabato 7 maggio LD, 36 anni, viene trovato morto in un letto del Spdc dell’ospedale di Monterotondo, piccolo comune nella Asl Roma5. L’uomo, un italiano residente nel Lazio, era ricoverato da alcuni giorni, proveniva da una comunità terapeutica privata e accreditata, la Reverie di Capena, era in libertà vigilata e sembra non fosse in trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Le circostanze della sua morte non sono chiare. I familiari non vogliono parlare, gli operatori sono chiusi in un silenzio intimorito ma da giorni circolano domande e sospetti. È certo che LD era stato legato al letto oltre che sedato, ma era legato anche al momento della morte? Il particolare non è irrilevante dato che la sommatoria di contenzione meccanica e farmacologica può indurre, com’è noto, effetti deleteri nel corpo di una persona, oltre che nel suo sentire. E come mai i “sistemi di sicurezza attiva e passiva”, che il servizio vanta insieme alle “finestre antisfondamento”, non hanno rilevato che qualcosa non andava? O forse i monitor nessuno li guardava perché era una notte tranquilla e non ci si doveva difendere dai ricoverati? La magistratura, che ha disposto l’autopsia di LD, potrà rispondere a queste domande ma una riflessione pubblica sui servizi psichiatrici a Roma non dovrebbe aspettare il lavoro di giudici e periti: come è stato denunciato più volte, ci sono elementi sufficienti per definire drammatico il malfunzionamento di molti Dipartimenti di salute mentale, e del resto un campanello di allarme era già suonato meno di sei mesi fa, per chi voleva sentirlo. Il 28 novembre 2021, infatti, nel Spdc dell’ospedale San Camillo della Asl Roma1 era stato trovato morto Wissem Abdel Latif, 26 anni, tunisino, pesantemente sedato e legato per oltre 60 ore in un letto “soprannumerario” nel corridoio del reparto. Abdel Latif era approdato a Lampedusa il 2 ottobre 2021, il 13 era stato trasferito al Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria e il 23 novembre, con una pesante quanto affrettata diagnosi psichiatrica, era stato inviato all’ospedale Grassi di Ostia dove aveva subito una contenzione meccanica di 40 ore e poi il 25 era stato trasferito al San Camillo, dove era stata confermata diagnosi e contenzione senza che lui potesse parlare con qualcuno che conosceva la sua lingua. Abdel Latif resta così, legato, sedato e isolato per 60 ore. Il 24 novembre il giudice sospende il provvedimento di respingimento e trattenimento presso il Cpr, dunque Abdel Latif deve essere rimesso in libertà ma nessuno glielo dice, e quando finalmente il mediatore culturale arriva al San Camillo, il giovane è così sedato che non si riesce a parlare con lui. La redazione consiglia: “Wissem Abdel Latif poteva essere salvato” - Il 28 novembre Abdel Latif muore. L’autopsia viene eseguita senza informare i familiari, che sapranno della morte del giovane solo il 3 dicembre dall’ambasciata tunisina. L’indagine in corso dovrebbe concludersi a breve, il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”, di cui i familiari fanno parte, cerca di non far cadere il silenzio su questa vicenda di una crudeltà che lascia senza parole. La psichiatria violenta, che mai è andata fuori gioco, sta prendendo il sopravvento di nuovo. Ritorna forte l’ossessione del controllo in nome di una sicurezza che non ha mai evitato gli “incidenti”, come si diceva nei manicomi; dilaga, in parte complice il Covid, la miseria dell’affollamento, dei turni massacranti, dell’incuria verso la legalità e il rispetto delle persone. Ma quando gli Spdc funzionano come manicomi in sedicesimo è perché gli ambulatori territoriali usurpano il nome di centri di salute mentale, sono luoghi frettolosi di controllo che ignorano la vita delle persone e alimentano il circuito delle strutture dove metterle. È necessario investire sulla trasformazione di questo sistema di servizi per contrastare la psichiatria violenta. Un anno fa, il ministro della Salute ha proposto alle Regioni un documento che indica come superare in tre anni l’uso della contenzione nei luoghi di cura attraverso una serie di cambiamenti nei servizi e nel loro funzionamento, anche vincolando risorse a questo scopo. Ma il documento giace indiscusso e ci stiamo abituando a pensare che sia pura fantasia passare dai documenti, e anche dalle leggi, alle decisioni e alla politica, almeno quando si tratta di prendere certi diritti sul serio. La strage degli “invisibili” che lavoravano per pochi euro di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 24 maggio 2022 Nel Veneto il lavoro irregolare frutta 5,6 miliardi di euro all’anno. Erano sei clandestini, originari del Nordafrica e della Nigeria gli occupanti dell’auto che, venerdì scorso, si è schiantata contro un camion a San Pietro in Gu. Quattro di loro sono morti. Lavoravano tutti nelle campagne per pochi euro e stavano rientrando nei miseri alloggi di fortuna dove vivevano, nel Veronese. Sei fantasmi a bordo di una Fiat Multipla, sei clandestini che stavano rientrando a casa, o meglio nei miseri alloggi di fortuna del Veronese dove riuscivano a chiudere gli occhi e a mangiare qualcosa tra un massacrante turno di lavoro e quello successivo. Stremati dopo 9-10 ore trascorse a scaricare polli e a raccogliere frutta nelle campagne del Padovano per racimolare la miseria di qualche euro l’ora, soldi comunque preziosi da spedire alle loro famiglie in Africa, non sono mai giunti a destinazione. Si sono schiantati venerdì pomeriggio a San Pietro in Gu (Padova), nel tentativo di evitare una colonna d’auto, nel tratto di discesa di un cavalcavia. Uno scontro frontale tra un camion e la Fiat Multipla dei braccianti, ridotta a un groviglio di lamiere. Sono sopravvissuti solo in due, i quarantenni Mounim Zohair e Abdelwahid, mentre i quattro colleghi hanno perso la vita. Sono l’autista Assaoui Soufiane, 22 anni, Sonny, nigeriano di 26 anni, e i marocchini Youness, di 25, e Ismail, di 20. Vivevano a Cologna Veneta, dove ha sede la cooperativa “Emma Group”, a cui è intestata l’auto su cui viaggiavano. Erano partiti per Padova alle 4 del mattino e al momento del pauroso incidente, 12 ore più tardi, stavano rincasando. Nel 2019 “Emma Group” finì al centro di un’indagine della Guardia di Finanza per caporalato e adesso risulta in liquidazione, mentre il suo legale rappresentante marocchino, dopo aver scontato 7 mesi in carcere, è libero e sotto processo per caporalato e sfruttamento della manodopera clandestina. La prossima udienza davanti al Tribunale collegiale di Verona è in programma l’11 ottobre, le accuse contestate sono gravi e si basano sui racconti di lavoratori che - stando alle indagini dei Baschi Verdi - venivano “usati nei campi nei come schiavi”. C’è chi ha raccontato di “aver lavorato nei campi di tabacco senza aver mai ricevuto alcuna paga né contratto”. Come le vittime della strage di San Pietro in Gu, quei fantasmi che nel 2019 trovarono il coraggio di denunciare provenivano dal Nord Africa: del Marocco sono originari anche Said Benhjila e Abdelmajid Habibi, attualmente sul banco degli imputati. Benhjila dopo il blitz delle Fiamme Gialle di Legnago nel 2019 alla “Emma group” fu arrestato: sette marocchini durante le indagini hanno spiegato di essere abituati a “prestare attività lavorativa per dieci ore, con una pausa di un’ora”. Uno degli autisti ha riferito agli inquirenti di aver “guidato l’auto che Said gli aveva fornito con il compito di prelevare otto lavoratori a Noventa Vicentina e di portarli in un terreno a San Pietro di Morubio. “Lo stesso - si leggeva nell’ordinanza d’arresto di Benhjila - aggiungeva di eseguire anche lui materialmente lavori nei campi e di aver lavorato per nove ore con una paga di 5 euro e mezzo l’ora, senza alcun contratto”. A far scattare l’inchiesta e i controlli era stata proprio l’individuazione da parte dei finanzieri di una “serie di veicoli intenti a trasportare soggetti di origine extracomunitaria”, mezzi che risultavano essere intestati alla “Emma group società cooperativa”, di cui Benhjila risultava rappresentante di fatto. Da lì avevano preso il via i pedinamenti e si era così scoperto che i veicoli “prelevavano un considerevole numero di soggetti, tutti di origini marocchine o comunque nordafricane, trasportandoli in diverse aziende agricole locali, fornendo loro lavoro in condizioni di sfruttamento e approfittando delle condizioni di irregolarità degli stessi”. Le similitudini, i richiami tra quell’indagine di tre anni fa e la strage degli “schiavi nei campi” avvenuta venerdì a San Pietro in Gu sono inquietanti. “I lavoratori gravemente sfruttati in condizioni indecenti e servili nel Veneto sono oltre 5.500 - attesta infatti il “V Rapporto Agromafie e Caporalato” dell’osservatorio Placido Rizzotto - vengono pagati 3 o 4 euro l’ora per turni che d’estate arrivano anche a 13-14 ore al giorno. Spesso viene detratto dalla paga il costo del trasporto per giungere dal luogo di partenza al campo”. L’incidenza del lavoro irregolare in Italia vale 79 miliardi di euro e il Veneto contribuisce con 5,6 miliardi, che equivarrebbero al 3,8% del Pil regionale. È il risvolto disumano del fenomeno immigratorio, che pende come una spada di Damocle sui 48 mila clandestini presenti sul territorio, a fronte di 509 mila stranieri residenti e regolari (dati 2021 Fondazione Moressa e Caritas). “Una piaga favorita dal fatto che su 10 mila permessi di soggiorno rilasciati in un anno solo 900 sono stati concessi per motivi di lavoro - rivela Silvana Fanelli, Cgil Veneto -. Eppure adesso non solo l’agricoltura ma anche l’industria e il turismo hanno nuovamente bisogno di manodopera”. “Ormai lo sfruttamento e il caporalato in Veneto hanno varcato i confini dell’agricoltura, per trovare terreno fertile negli appalti delle aziende industriali, nell’agroalimentare, nel manifatturiero, nella logistica, nell’edilizia, nel volantinaggio - aggiunge Giosuè Mattei, segretario generale Flai Cgil. La nostra regione insieme alla Lombardia è la più colpita al Nord, nel quale sono in corso 143 procedimenti giudiziari, per aumento del 28%. Solo Belluno non ne conta nessuno, ma nelle altre sei province riscontriamo un radicamento del fenomeno”. Nazismo: termine usa e getta? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 24 maggio 2022 Vorrei ricordare che le parole hanno un peso e un significato, che non si possono usare a casaccio svuotandole delle idee che hanno espresso e delle conseguenze che hanno provocato. C’è una parola che appare a momenti come un vocabolo magico che sancisce la divisione fra male e bene. La parola chiave è “nazismo”. Ma viene da chiedersi: ha ancora un significato storico o è diventata un termine usa e getta per indicare chi non ci piace e chi vogliamo screditare? La storia sembra si sia persa per strada trasformando il sostantivo in un aggettivo spregiativo. Vorrei ricordare che le parole hanno un peso e un significato, che non si possono usare a casaccio svuotandole delle idee che hanno espresso e delle conseguenze che hanno provocato. Vorrei ricordare alcuni concetti base del nazismo che hanno portato un criminale carismatico al potere, finendo per sfociare in una guerra mondiale che ha prodotto milioni di morti. La prima e fondante idea del nazismo è la divisione degli esseri umani in razze. Le razze, non solo sarebbero presenti nel mondo, ma costituirebbero una gerarchia di tipo biologico: una sola fra tutte però è privilegiata e superiore alle altre, quella ariana, che risalirebbe al terzo millennio a.C. La sua superiorità biologica le darebbe il diritto, anzi il dovere di dominare e governare le razze inferiori. In nome di questa teoria Hitler ha infierito e depredato quei popoli definiti inferiori e quindi pericolosi, cominciando dagli ebrei. Altre genti, che non costituivano razza, ma dovevano essere condannate e perseguitate, erano i comunisti, gli omosessuali, i democratici, gli internazionalisti, i cattolici che pretendevano di applicare le idee di Cristo. In nome della superiorità di razza e di lingua (pangermanesimo), i nazisti si consideravano in diritto di occupare e annettersi sia quei Paesi in cui esistevano minoranze di lingua tedesca, sia quei popoli che si opponevano. Da qui l’invasione di Polonia, Austria, Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia, e altre nazioni, come l’Italia dopo l’8 settembre 43, considerata nemica e degna di stermini (Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema). Ecco cosa significa la parola nazismo e sinceramente non ci sembra di scorgere nel popolo ucraino, invaso nessuna rivendicazione di teorie del genere. Un piccolo gruppo di nostalgici del nazismo c’è, in Russia, e in tutti i Paesi del mondo. Usare la parola nazismo per giustificare la pretesa di occupare nazioni sovrane è una frode. Semmai, possiamo dire che i comportamenti dell’invasore guerresco ricordano molto proprio le azioni dei veri nazisti. Una Giornata per difendere chi muore per l’ambiente. Il sacrificio di 75 leader sociali di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 24 maggio 2022 Celebrata la ricorrenza della biodiversità voluta dall’Onu. In Colombia, Paese bellissimo ma tormentato, uccise 75 persone che tutelavano il territorio. Dal Messico alle Filippine. Si è festeggiata domenica 22 maggio la Giornata mondiale della biodiversità, ricorrenza ideata dall’Onu nel 1993, in occasione dell’entrata in vigore della Convenzione sulla diversità biologica. E il 5 giugno si celebrerà la Giornata mondiale dell’Ambiente, anch’essa istituita dalle Nazioni Unite, addirittura nel 1974, per sensibilizzare i cittadini e stimolare azioni politiche per la sostenibilità. Viene da chiedersi: a cosa servono tutte queste celebrazioni, in un anno in cui dominano i venti di guerra? Servono a sollecitare la consapevolezza e non far cadere l’attenzione su un tema chiave per il nostro presente e per il futuro di chi seguirà. Scrivo queste righe da un Paese tormentato e bellissimo: la Colombia. Vanta il primato della nazione con la maggiore biodiversità al mondo per chilometro quadrato, ha la più grande varietà di uccelli del pianeta, con oltre 1.900 specie, e il maggior numero di farfalle, oltre 3.600 specie, il che significa che il 20% di tutte le specie di farfalle sulla Terra vive qui. La Colombia, però, è anche il luogo più pericoloso al mondo per i difensori dell’ambiente: in questi primi cinque mesi del 2022, secondo Indepaz, sono stati assassinati 75 leader sociali, gran parte di loro difendevano il territorio in cui vivevano. Dalla firma dell’accordo di pace tra Stato e guerriglia, nel 2016, ne sono stati ammazzati 611. In maggioranza erano indigeni o semplici contadini, alcuni erano appena adolescenti. Non è una situazione limitata alla Colombia. Dal Messico alle Filippine, la gente muore per difendere la natura. Anche per loro è giusto e doveroso, qui in Italia e ovunque si possa lottare per proteggere gli eco-sistemi senza finire assassinati, schierarsi e agire subito. A tutti i livelli. Un milione di specie animali e vegetali sono a rischio estinzione. E il Wwf avverte che la bozza di accordo raggiunta dai Paesi coinvolti nella Conferenza delle parti sulla biodiversità, o Cop15, è “poco ambiziosa”. Non va meglio per l’implementazione degli accordi che dovrebbero limitare i rischi del cambiamento climatico. Ecco perché servono ancora, e forse più di prima, queste Giornate. Ucraina. Rocchelli e Mironov, i reporter da otto anni senza giustizia di Luigi De Biase Il Manifesto, 24 maggio 2022 Uccisi il 24 maggio 2014 dall’esercito ucraino nel Donbass, sono stati testimoni di una “guerra nuova”. Ora che la guerra è di nuovo a Kramatorsk, a Slovyansk, a Kostantinovka, sembra quasi di tornare al 2014, che per alcuni versi rappresenta l’origine o quantomeno una delle ragioni di quel che accade adesso. Anche allora era maggio. Nella vicina Donetsk avevano votato un referendum per l’indipendenza dall’Ucraina dopo la rivolta che era costata la fuga da Kiev all’ex presidente Viktor Yanukovich e dopo una serie di fatti inquietanti come il massacro al Palazzo delle professioni di Odessa. Su quelle tensioni abbondantemente oltre la norma la Russia da mesi stava proiettando le sue fobie e le sue mire. A Donetsk l’aeroporto aveva chiuso per ragioni di sicurezza. La sede del governo era occupata. Attorno alla città cominciavano gli scontri fra le truppe regolari, impegnate in una operazione antiterrorismo, e squadre di volontari messe insieme dai separatisti. Kramatorsk, Slovyansk e Kostantinovka rappresentavano il fronte di una nuova guerra, un fronte anomalo e quindi ancora più pericoloso. Gruppi paramilitari. Colpi di artiglieria sui villaggi e sulle case. Sparatorie intermittenti, qualche agguato, qualche regolamento di conti. Lungo quelle strade, quella primavera, hanno passato i loro ultimi giorni il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e l’attivista russo Andrei Mironov, uccisi il 24 maggio dall’esercito ucraino a pochi passi da uno scambio ferroviario nei pressi di una collina chiamata Karachun, sulla quale erano appostati reparti della guardia nazionale e della 95esima brigata. In cima alla collina aspettavano, forse, un’incursione nemica. Hanno sparato su giornalisti inermi. Raffiche di mortaio per quaranta minuti, tiri precisi, sinché li hanno centrati, nascosti a ripararsi in un canale. Nel Donbass Rocchelli e Mironov erano arrivati per testimoniare quel che accadeva ai civili a ridosso del fronte, senza pregiudizi, senza retorica. Ancora oggi le loro morti restano impunite. Eppure le autorità del nostro paese hanno avuto a disposizione otto anni e tutti gli elementi possibili per domandare la verità ai governi che in questo tempo si sono succeduti a Kiev. Nel 2017 i carabinieri del Ros di Milano hanno arrestato un uomo della guardia nazionale di nome Vitaly Markiv con doppio passaporto, italiano e ucraino. Due anni più tardi il Tribunale di Pavia lo ha condannato a ventiquattro anni di carcere in primo grado per il ruolo nel duplice omicidio. Il procedimento è stato segnato da una pesante campagna in Ucraina contro il sistema giudiziario italiano e da significative interferenze che hanno avuto come regista un ex ministro dell’Interno, Arseny Avakov, legato agli ambienti ultranazionalisti. La Corte di Appello di Milano ha confermato nel 2020 la ricostruzione che aveva condotto alla condanna di Markiv. Eccependo, tuttavia, sulle deposizioni di otto commilitoni dell’uomo, deposizioni che i giudici di Appello hanno ritenuto “non utilizzabili”. Gli otto dovevano essere sentiti “alla presenza di un difensore” dato che potevano esistere “fin dall’inizio della loro deposizione, indizi di correità”. La Corte non ha ordinato nuovi esami. Di conseguenza Markiv è stato scarcerato “per non avere commesso il fatto”. La sera stessa ha fatto ritorno a Kiev su un volo di stato con l’ex ministro Avakov. In patria lo hanno accolto come un eroe. Prima dell’invasione russa, al ministero dell’Interno, si occupava dei rapporti fra l’Ucraina e le strutture della Nato. La Cassazione lo ha assolto in via definitiva da ogni accusa lo scorso dicembre. Ulteriori elementi circa le responsabilità ucraine li ha portati, poi, un’inchiesta realizzata mesi fa per il settimanale L’Espresso e per RaiNews da tre giornalisti italiani, Andrea Sceresini, Giuseppe Cataldi e Giuseppe Borello, che sono riusciti a raccogliere la testimonianza di un ex militare della 95esima brigata appostato sulla collina Karachun al momento dei fatti. L’ordine di sparare su Rocchelli e Mironov, secondo il testimone, sarebbe partito dal generale ucraino Mikhailo Zabrodksyi, che dopo il 2014 è diventato parlamentare e ha fatto a lungo parte del gruppo di amicizia Italia-Ucraina. Una nuova guerra rischia adesso di cancellare per sempre le ultime speranze di ottenere giustizia. Ucraina. Il sergente russo Shishimarin condannato all’ergastolo di Francesco Battistini Corriere della Sera, 24 maggio 2022 È la prima simbolica sentenza di questa guerra. Il 28 febbraio scorso aveva ucciso il civile disarmato a bordo di una bicicletta. Il legale: “Chiederemo l’annullamento in appello”. Si ipotizza uno scambio di prigionieri con Mosca. Non ha tempo per guardare la tv: “L’hanno condannato all’ergastolo? Bene!”, alza le spalle nella hall del municipio di Bucha un pensionato, Oleksandr Kotsyubinsy, che qualche settimana fa ha dissepolto i nipoti da una fossa comune e li ha risepolti al cimitero: i criminali di guerra li ha già visti da vicino, lui, a Bucha sanno bene chi siano, e all’una non c’è bisogno d’ascoltare in diretta il giudice Serhiy Agafonov che in un’aula del tribunale di Kiev fissa un attimo la cabina vetrata e antiproiettile degli imputati, dov’è in piedi il sergente Shishimarin, 21 anni, ed emette la prima, storica, simbolica sentenza contro un militare russo: “La corte ha deciso - legge solenne il giudice -, Shishimarin Vadim Evgenyevich è riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Considerato che il reato commesso è un crimine contro la pace, la sicurezza, l’umanità e la giustizia internazionale, la corte non ravvisa la possibilità d’infliggere una pena per un periodo più breve”. Shishimarin ascolta muto, nel solito grigioblu della sua felpa troppo grande. Lo stesso fa Kateryna, la vedova di Oleksandr Shelipov, il sessantaduenne in bici che il sergente uccise a sangue freddo il 28 febbraio, a Chupakhikva, quattro giorni dopo l’invasione: guarda il soldato-ragazzino e non le riesce di gioire. I tre giudici non si son fatti intenerire dalle parole di Shishimarin, che aveva chiesto perdono, né han creduto alla storia che il soldato avesse solo eseguito un ordine superiore: “Sono sinceramente pentito - era stata la dichiarazione in aula del sergente russo - in quel momento ero nervoso, non volevo uccidere, però è successo”. Shishimarin in realtà assassinò con un colpo alla testa un civile disarmato per paura d’essere denunciato, ha sostenuto l’accusa, dopo che la sua squadra aveva appena sparato su civili e saccheggiato nelle case. “Si merita l’ergastolo”, era stato l’unico commento di Kateryna: accontentata. La condanna era scontata. “Questa è la sentenza più severa che potesse arrivare - commenta il difensore d’ufficio, Viktor Ovsyannikov, che aveva chiesto l’assoluzione e sperava in una pena fra i 10 e i 15 anni -, qualsiasi persona equilibrata la contesterebbe. Andremo in appello e chiederemo l’annullamento”. Non è sorpreso: “C’era molta pressione dell’opinione pubblica…”. E anche su di lui: “Io difendo una persona e non un crimine - dice -, faccio solo il mio lavoro, ma c’è gente che mi dice d’andarmene a Mosca o nel Donbass. Mi chiamano l’avvocato del diavolo”. Non è detto che Shishimarin resti dentro, per davvero, tutta la vita. Lo scambio di prigionieri è l’unico canale negoziale che al momento sembra potersi aprire, fra Mosca e Kiev, e la stessa vedova del pensionato ucciso ha fatto capire che il sergente-killer potrebbe rientrare in questa trattativa. Tornando in Russia se i russi, a loro volta, rilasciassero i soldati dell’Azovstal: alla stessa stregua, dall’altra parte s’avviano a processarli nelle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, con l’accusa di terrorismo e crimini di guerra. Il Cremlino usa toni dimessi e fa capire che qualcosa si muoverà: siamo “preoccupati per la sorte del nostro cittadino - si limita a commentare il portavoce Dmitrij Peskov -, valuteremo la possibilità di fare tentativi attraverso altri canali”. Gli ucraini hanno già preparato almeno diecimila dossier e altri processi-show stanno per iniziare. I russi allestiranno probabilmente udienze altrettanto spettacolari, come già fecero per molti catturati nel Donbass. È un puzzle, dove tante tessere devono incastrarsi. Ucraina. “Ma la pena inflitta a quel sergente è dimostrativa” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 maggio 2022 La condanna all’ergastolo del sergente Vadim Shishimarin, accusato di aver ucciso un cittadino ucraino il 28 febbraio scorso, è il primo provvedimento che punisce “un crimine contro la pace, la sicurezza, l’umanità e la giustizia internazionale”. Il giudice Serhiy Agafonov, che ieri ha letto nel Tribunale di Kiev la sentenza, ha evidenziato che “la corte non ravvisa la possibilità d’infliggere una pena per un periodo più breve”. La velocità con cui si è giunti alla condanna lascia però perplessi. È stato colpito un “un pesce piccolo”, come dice Paolo Caroli, docente di diritto penale nell’Università di Torino ed esperto di diritto penale internazionale. Avvocato Caroli, la condanna di Shishimarin all’ergastolo è arrivata al termine di un processo svoltosi in poche settimane. La sentenza potrebbe avere anche un altro significato? La velocità del processo si spiega, da un lato, con il fatto che l’imputazione aveva ad oggetto un singolo omicidio, di un civile di 62 anni, e dall’altro con l’ammissione di responsabilità dell’imputato. Certo, non possiamo ignorare che questo processo, pur se contro un pesce decisamente piccolo, ha un alto significato comunicativo per l’Ucraina. Tutto il conflitto fra Russia e Ucraina, anche negli anni passati, ha visto usare le categorie dogmatiche del diritto penale a cominciare dalla etichetta di genocidio, come arma politica autolegittimante e delegittimante nei confronti dell’avversario, ma questa non è certo un’anomalia di questo conflitto e non deve neanche portarci a rinunciare a priori a un ruolo del diritto. Sarebbe infatti ipocrita negare il valore simbolico- stigmatizzante che la giustizia penale ha in generale, ma, soprattutto, in contesti di transizione o di conflitto in corso. Il problema sorge quando questa funzione di messaggio alla collettività non è più un effetto collaterale, ma si trasforma nel fine principale del processo, distorcendone i principi e le garanzie fondamentali. Il difensore del soldato russo ha detto che la sentenza è più severa di quanto si potesse prevedere. È pronto a fare appello e a chiedere l’annullamento. C’è il rischio che il processo sia stato condizionato dall’esigenza di trovare subito il primo, grande colpevole di questa guerra? Sicuramente la commisurazione della pena appare a prima vista sproporzionata, ma bisognerà aspettare una sentenza definitiva per giudicare. Il diritto penale e penale internazionale giudica le condotte dei singoli in base alle regole probatorie del processo penale e non dà né un giudizio storico sul conflitto né sulle responsabilità di diritto internazionale degli Stati. Tuttavia, è chiaro che ci sarà chi interpreterà la sentenza diversamente, come spesso accade. Quando, nel 2008, Ramush Haradinaj, comandante dell’Uck in Kosovo, venne assolto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Yugolsavia, poiché non venne raggiunta la prova necessaria in un processo penale, anche a causa dell’intimidazione dei testimoni, molti kosovari festeggiarono la sentenza come un riconoscimento della legittimità della causa kosovara alla luce del diritto internazionale. C’è il rischio di strumentalizzazioni? Molti leggeranno questa sentenza riguardante il sergente russo come un riconoscimento dello status di vittima all’Ucraina. Del resto, viviamo in un’epoca in cui l’auto- rappresentazione di un gruppo come vittima di un crimine internazionale è uno degli elementi di coesione politica più forti e più pericolosi al tempo stesso, perché divide fra vittime e carnefici e paralizza ogni discussione. Ciò, ovviamente, non significa che politicamente e storicamente non ci siano aggressori e vittime, ma occorre ricordare qual è la funzione della giustizia penale ed evitare che questa venga piegata ad altri scopi. I rischi degenerativi, però, non devono sottrarci alla necessità di ricordare che i crimini internazionali sono le condotte più orribili che alcuni esseri umani possano commettere nei confronti di altri esseri umani e per questo va tracciato un confine. La Russia potrebbe a sua volta rincorrere il clamore con pene esemplari nei confronti, per esempio, dei militari del battaglione Azov? Certo, è possibile. C’è un dato che mi pare interessante. Oltre alle corti ucraine e potenzialmente altre corti nazionali competenti, è stata avviata un’indagine della Corte penale internazionale, che tuttavia verosimilmente avrà un problema pratico di consegna di eventuali imputati russi, visto che la Russia non è uno Stato parte e che la Corte non consente processi contumaciali. Tuttavia, c’è un’altra questione di fondo, data dal fatto che si tratta di crimini di massa e con livelli di responsabilità differenti. A cosa si riferisce? La cosiddetta giustizia di transizione, che è già stata sperimentata anche con riferimento a conflitti in corso come nel caso colombiano, ha come presupposto la ricerca di soluzioni che siano più complesse e differenziate e che guardino al tempo stesso al passato, come la giustizia penale, e al futuro e alla pacificazione. Certo, queste soluzioni chiamano in campo un attore che sembra essere assente in questo conflitto: la politica. Non porsi il problema di una soluzione più ampia nel lungo termine, che combini pacificazione e giustizia, sembra tradire forse una mancanza di volontà o di capacità di gestire il conflitto politicamente o quantomeno un atteggiamento per cui si lascia spazio alle Procure, che altra arma non hanno se non, correttamente, il diritto penale e nei confronti degli imputati che hanno a disposizione. Insomma, la giustizia penale, da sola, in questo scenario rischia di tramutarsi in un gigante dai piedi di argilla. Vorrei aggiungere però un’altra considerazione. Dica pure… La persecuzione dei crimini internazionali è sempre complessa, proprio in ragione del particolare contesto politico in cui essi avvengono, della sovrapposizione di livelli giuridici e del delicato equilibrio fra le esigenze della giustizia e quelle della pacificazione. Ma la giustizia è paziente. Fra la pena per tutti e subito e l’impunità ci sono molte soluzioni differenziate, che richiedono tempo e un ruolo innegabile della politica. Politica e giustizia non sono incompatibili. Al contrario, si presuppongono e necessitano a vicenda. I rischi si creano quando vi è un’abdicazione e si chiede all’una di svolgere le funzioni dell’altra. Ucraina. Ergastolo per Vadim: e questa la chiamate giustizia? di Sergio D’Elia Il Riformista, 24 maggio 2022 È una forma di giustizia che fa letteralmente pena quella dell’ergastolo inflitto al sergente Vadim Shishimarin, il primo soldato russo processato per crimini di guerra in Ucraina. Vadim ha commesso un fatto orribile: nei suoi primi giorni di guerra ha tolto la vita a un uomo inerme e sconosciuto. Lo stato ucraino, in un aberrante rendiconto, ha condannato alla pena di morte viva un uomo nei suoi primi vent’anni di vita. È apparso in tribunale chiuso, inerme e spaurito come un passerotto in una gabbia. Alla violenza, al dolore, alla disperazione del crimine di guerra, si è corrisposto in proporzione uguale e contraria con il castigo esemplare, pacificatore. Con il fine pena mai, la pena terribile, senza fine, senza speranza, fino alla morte. Non c’è pace senza giustizia, è vero, è giusto dirlo. Ma se la giustizia è questa, la pace può essere terrificante quanto una guerra. Non si annuncia nulla di buono per il dopo-guerra che non sia stato pensato, previsto, fatto per bene e per il bene prima, molto tempo prima, quando ancora impera il male, la violenza, il terrore. Occorre pensare oggi, sentire oggi, agire oggi, vivere nel modo e nel senso in cui vogliamo domani accadano le cose. Se la risposta al male è questo bene, se il corrispettivo del torto è questo diritto, se il contrappeso di un reato militare è questo giudizio civile, la pace che si annuncia sarà quella del deserto, della solitudine, dell’abbandono. La “geopolitica” - la politica della terra - che si invoca sarà quella della terra bruciata, della terra di nessuno, di un mondo senza vita, senza amore, senza speranza. Questo ergastolo è una pena, letteralmente, “diabolica”: essa pone in mezzo ostacoli, divide, separa, e sarà causa di ulteriori conflitti e divisioni. Questo ergastolo è davvero la “catena perpetua” - come lo traducono in Spagna - di un ciclo di odi, violenze e vendette senza fine. L’altra parte farà a suo modo giustizia, reagirà con altrettanto violenza, con pene di morte e pene fino alla morte. Cosa occorreva fare nei confronti di Vadim? Condannarlo a vivere, non condannarlo a vita. Occorreva uscire dalla logica rettiliana della giustizia penale, del delitto e del castigo. Occorreva scongiurare la maledizione dei mezzi sbagliati che distruggono i fini giusti. Occorreva mettere in circolazione e usare parole e strumenti di segno diverso, coerenti coi fini che si vogliono affermare. A partire dal caso del povero Vadim, l’Ucraina avrebbe potuto mostrare, prefigurare e, forse, già costruire qualcosa di diverso dalla violenza omicida e suicida di chi l’ha aggredita. Invece di essere il cambiamento, il futuro, il diritto e la pace che vuole vedere affermati sulla sua terra e nel mondo, l’Ucraina ha pensato a un tribunale di guerra, a un processo popolare, a un giudizio esemplare e alla pena senza speranza, al fine pena mai. Eppure, non occorreva andare a cercare nella notte dei tempi per scoprire qualcosa di meglio del diritto penale. Il motto visionario “nessuno tocchi Caino” della Genesi e l’imperativo messianico “non giudicare!” del Vangelo, si sono inverati in tempi molto più recenti, alla fine del genocidio in Ruanda nel 1994 e in Sudafrica nel 1995 alla fine dell’apartheid, quando per sanare le ferite del passato e ristorare le vittime di immani violenze, crimini di guerra e contro l’umanità, non sono stati edificati tribunali ma “commissioni verità e riconciliazione”. È in questa visione, letteralmente “religiosa”, dei fatti della vita e del mondo, che tende cioè a tenere insieme, legare vite e mondi diversi, che è possibile riconoscere lo spirito, lo stato di grazia che, forse, ci salveranno. L’Iran sta per impiccare Ahmadreza Djalali. L’Italia non può stare a guardare di Guido Salvini* Il Dubbio, 24 maggio 2022 Entro fine mese il ricercatore, accusato di spionaggio, sarà giustiziato. Il governo italiano convochi l’ambasciatore. Con l’epidemia Covid e la guerra in Ucraina l’estremismo islamico sembra passato di moda almeno nei mass- media. Ma non è affatto scomparso. Non è più in grado di colpire in Europa, come avvenuto con le sanguinose stragi dell’Isis in Francia, Spagna, Inghilterra e Germania ma la sua ideologia e le sue milizie si allargano in molti paesi più fragili, in particolare in Africa. È di pochi giorni fa la notizia, passata troppo velocemente sulla stampa, di Shehu Shagari, una studentessa cristiana nigeriana massacrata nella sua scuola perché accusata di un commento ritenuto offensivo nei confronti di Maometto. Decine di studenti l’hanno prelevata dalla sua stanza, lapidata e bruciata con copertoni in fiamme. Dopo l’arresto di due di loro, altre centinaia di estremisti hanno sfilato al grido di Allah Akbar chiedendone l’immediato rilascio. Ed è ancor più recente la notizia del rapimento di tre cittadini italiani in Mali, opera con ogni probabilità del gruppo islamico Jnim che agisce in quella regione. Intanto il regime di Teheran annunciato che entro la fine di maggio sarà impiccato Ahmadreza Djalali, un ricercatore universitario che si occupa dei rapporti tra medicina e disastri ambientali. Il rischio per il prigioniero, nonostante la mobilitazione di associazioni come Amnesty International, Nessuno tocchi Caino e tante altre e del mondo della cultura internazionale, è altissimo. Djalali è accusato di spionaggio e collaborazione con governi nemici. Tra le sue “colpe” quella di aver partecipato ai lavori di un master cui erano presenti anche colleghi israeliani. Ma non c’è da stupirsi. Quella di spionaggio è l’accusa più frequente che il dispotico regime iraniano utilizza come pretesto per mostrare all’interno e all’esterno la sua arroganza e spaventare ogni genere di opposizione. Si trova detenuto da quattro anni nel famigerato carcere di Evin dove sono stati torturati e uccisi migliaia di oppositori al regime degli Ayatollah. Le fotografie di Djalali prima dell’arresto ci restituiscono l’immagine di un giovane professore entusiasta e sorridente. Oggi, nell’unica fotografia uscita dal carcere, ha il volto incavato e gli occhi senza più espressione, sono quasi quelli di uno spettro. Non possiamo disinteressarci della sorte di Djalali anche perché egli ha solidi legami con l’Italia ed è stato per quattro anni ricercatore presso l’Università Orientale del Piemonte nel campo della medicina dei disastri e delle emergenze ed è molto stimato dai suoi colleghi che sono stati i primi a mobilitarsi per salvarlo. È stato arrestato proprio quando era tornato a Teheran proprio per partecipare ad un convegno medico. La Svezia, con una scelta coraggiosa di diritto internazionale, sta processando Hamid Noury, un capo della feroce polizia politica degli Ayatollah che nel 1988 ebbe un ruolo importante nei tribunali rivoluzionari che portarono in pochi mesi all’esecuzione di almeno 10.000 oppositori laici alla dittatura religiosa khomeinista in modo da eliminare qualsiasi forma di resistenza al nuovo regime. I corpi non furono mai nemmeno restituiti ai familiari. Noury viaggiava tranquillamente per l’Europa ma, grazie ad alcuni oppositori che erano riusciti a fuggire in Svezia, è stato identificato come un di torturatore e arrestato in un aeroporto svedese da dove stava partendo alla volta di Milano. E la Svezia ha deciso di processarlo, per circa 100 omicidi, sulla base del principio della “giurisdizione universale”, il principio a fondamento dei Tribunali internazionali, per il quale in caso di delitti contro l’umanità il processo può essere instaurato anche in un paese diverso da quello in cui è stato commesso soprattutto quando il responsabile è un esponente del potere di quel paese. Nel contempo la Svezia ha conferito la cittadinanza svedese a Djalali e alla sua famiglia che è già rifugiata in quel paese. Serve qualche iniziativa seria anche da parte dell’Italia: convocare l’ambasciatore iraniano in Italia ad esempio per chiedere spiegazioni prospettandogli che può diventare persona non gradita e dover lasciare l’Italia. Sempre che, e il timore è giustificato, non si ritenga che qualche contratto internazionale sia più importante della salvaguardia della vita di un uomo. E questo sarebbe davvero una vergogna. E se Djalali fosse è impiccato, il governo potrebbe far salire subito, con una scelta politica una volta tanto nobile e coraggiosa, gli addetti all’Ambasciata iraniana sul primo aereo in partenza per Teheran. P. s. Per firmare le petizioni in favore della salvezza di Ahmadreza Djalali e dare un contributo alle campagne in suo favore si può collegarsi al sito di Amnesty International e al sito www.change.org. *Gip presso il Tribunale di Milano