“Mai più bambini in carcere”. La proposta di legge del Pd e il nuovo regolamento penitenziario di Ettore Maria Colombo luce.lanazione.it, 23 maggio 2022 Solo nel 2021 sono stati oltre 280mila i colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. La “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”, che punta a riconoscere il diritto dei minori alla continuità del legame affettivo con i genitori in carcere, contiene inoltre una serie di misure a tutela dei diritti dei bambini costretti a vivere in una struttura detentiva con le madri. Una proposta di legge, che ha ottenuto il via libera della commissione Giustizia della Camera, dove approderà in aula entro il mese di maggio, e un nuovo Regolamento penitenziario, scritto dal costituzionalista Marco Ruotolo, compito che gli ha affidato la Guardasigilli Marta Cartabia, per sostituire il precedente, vecchio ormai di 50 anni. L’obiettivo è semplice, quanto da troppo tempo atteso e invocato: mai più bambini innocenti ‘detenuti’ in carcere, al seguito delle loro madri. Sarebbe, per la giustizia italiana, una vera svolta. Ma andiamo con ordine. Ai primi di maggio la commissione Giustizia della Camera, presidente il pentastellato Mario Perantoni, ha dato via libera alla proposta di legge, relatore Valter Verini (Pd), alla proposta di legge che impedirà ai bambini figli di madri detenute di andare in carcere. Il testo è ora pronto per l’Aula, dove approderà entro fine mese. “Una legge fortemente voluta dal Pd, grazie all’impegno del primo firmatario, il deputato dem, Paolo Siani (medico, alla prima legislatura, fratello di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla camorra nel 1985, ndr.), che raccoglie gli appelli, le indicazioni, le richieste di tante associazioni, pediatri e pedagogisti. Mai più bambini dietro le sbarre, mai più minori costretti a scontare le colpe dei genitori” commenta in una nota il capogruppo dem in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli. Interviene, a commento della novità legislativa, anche lo stesso Verini per sottolineare come “Nella situazione troppo spesso drammatica delle carceri italiane, la proposta di legge a prima firma Siani potrà essere un passo avanti importante in termini di civiltà nella difesa dei diritti dei bambini che non devono scontare le colpe dei propri genitori. È un provvedimento che si basa sul principio ‘mai più bambini in carcere’ condiviso dagli organismi nazionali e internazionali che si occupano dei diritti dei minori e dalla ministra”, spiega Verini, chiedendo un iter rapido e unitario della pdl Siani. La ratio della proposta: Case famiglia e Icam - È sempre Verini a spiegare la ratio della proposta: “La relazione tra genitore e figlio deve essere sempre tutelata al massimo delle possibilità esistenti, interpretando e garantendo - con il dovuto e difficile equilibrio - l’interesse prevalente del bambino. La proposta di legge supera la normativa vigente e come alternativa prevede le case famiglia e gli Icam (istituti a custodia attenuata) in caso di impossibilità - per motivi cautelari - di ospitare la madre in una casa famiglia”. Ma cosa prevede, nel dettaglio, la modifica normativa? In sostanza, si immagina un riordino della disciplina che funzionerebbe così: sia per la custodia cautelare sia per l’esecuzione della pena, in caso di madre con figlio minore, si prevedrebbe o la detenzione domiciliare o l’esperienza delle case famiglie. Gli istituti di custodia attenuata per detenute madri (ICAM) che, per loro stessa natura, mantengono una connotazione tipicamente detentiva, con evidenti conseguenze lesive per i minori in essi ospitati, sarebbero utilizzati solo in caso di pericolo per la sicurezza. A queste due regole generali non sono previste eccezioni, salvo, ovviamente, per quanto riguarda il 41bis. Solo in quel caso, ci sarebbe una deroga a tutti i principi generali sottesi alla norma, dato che il carcere duro deroga a quelli dell’ordinamento penitenziari: sarebbe il giudice tutelare a stabilire la collocazione del minore. Sulla proposta del Pd c’è stata la convergenza di tutti i partiti con l’eccezione dei Cinque Stelle che hanno manifestato perplessità sull’idea che non ci sia nessuna eccezione alle regole previste: in particolare, per qualche tipologia di detenute, ree di particolari reati, avrebbero voluto il carcere e non l’Icam. Ma l’iniziativa legislativa si muove nella direzione segnata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia che qualche mese fa aveva auspicato un carcere senza bambini: “La nostra meta ideale è mai più bambini in carcere”, aveva detto durante un’audizione parlamentare. Obiettivo vanamente inseguito da più ministri - Un obiettivo che, peraltro, diversi Guardasigilli, nel tempo, hanno inutilmente ricercato. “Una vergogna che dobbiamo superare: entro il 2015 nessun bambino in carcere, è un imperativo morale” disse ancora sei anni fa l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando in una sua visita al penitenziario romano di Rebibbia. Poi arrivò il pentastellato Alfonso Bonafede che nel 2018, più timidamente, ma forse realisticamente, disse: “Garantire un maggiore accesso alla detenzione domiciliare e avere più attenzione rispetto alla condizione tragica quale è quella in cui un bambino si ritrova a nascere da una mamma che si trova in carcere”. Di recente, appunto, è stata la ministra Marta Cartabia a rilanciare: “La nostra meta è ‘mai più bambini in carcere’. Tutti i bambini, anche se con genitori detenuti, hanno diritto all’infanzia”. Insomma, i ministri si avvicendano, fanno proclami, ma i bambini restano sempre dietro le sbarre, ma ora l’attuale responsabile di Via Arenula ha più possibilità di raggiungere l’obiettivo ed ha rinnovato per altri quattro anni la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”. La “Carta”, prima nel suo genere in Italia e in Europa, riconosce il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori detenuti e mira a sostenerne il diritto alla genitorialità. Il protocollo prevede che le autorità giudiziarie siano sensibilizzate e invitate ad una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute. La Carta dei figli di genitori detenuti - Solo nel 2021 sono stati 280.675 i colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. La “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” contiene inoltre una serie di misure a tutela dei diritti dei bambini costretti a vivere in una struttura detentiva con le madri. A oggi sono 19 i bambini al seguito di 17 madri detenute, a fine 2019 questi numeri erano più del doppio (44 le madri e 48 i minori presenti negli istituti di pena). “Anche con questa Carta, lavoriamo perché i bambini, innocenti per definizione, non paghino le pene inflitte alle madri” ha spiegato la ministra. “Contemporaneamente, lavoriamo perché si riduca il più possibile quella “distanza dagli affetti” provocata dalla detenzione. Tutti i figli hanno il diritto di conservare un rapporto costante con i genitori, anche se reclusi”. Il nuovo Regolamento carcerario di Ruotolo - Una strategia in cui rientra a pieno titolo anche il nuovo regolamento penitenziario scritto dal costituzionalista Marco Ruotolo, a cui si era rivolta la Guardasigilli Marta Cartabia. Spiega lo stesso Rutolo: “Penso all’utilizzo dei colloqui a distanza. La tecnologia può migliorare sensibilmente il trattamento - penso all’istruzione e alla formazione professionale, al mantenimento dei rapporti affettivi, ma anche garantire maggiore sicurezza (metal detector fissi, body scanner, video sorveglianza). Una pena che funziona può davvero contribuire a ricostruire il legame sociale che si è spezzato con la commissione del reato. Con conseguenze positive, ovviamente, anche e forse soprattutto sul piano della sicurezza sociale”. La filosofia, dunque, resta la stessa. Mai più i bambini innocenti ‘detenuti’ in carcere, perché dentro ci stanno le loro mamme è la scelta del nuovo regolamento penitenziario del costituzionalista Marco Ruotolo. E ancora, utilizzando il primo decreto legge utile, far diventare abitudinarie tutte le norme utilizzate durante la pandemia - come star fuori dal carcere per chi deve scontare solo 18 mesi - per alleviare una situazione che, in carcere, è stata molto più penalizzante rispetto a chi viveva fuori. Sempre Verini definisce “importantissimo” il lavoro della commissione Ruotolo perché riscrive tutte le regole interne delle carceri, a prescindere dal colore politico e dalle apparenze. Cartabia, dice Verini, “È una ministra molto sensibile, ma è tempo di fare un decreto che entri subito in vigore. Non c’è nulla di più urgente delle carceri: norme che eliminino il sovraffollamento e rendano il trattamento umano”. L’impegno del Pd e l’Agorà sul tema carcere - L’impegno del Pd, mentre si approssima la fine di questa legislatura, da questo punto di vista è massimo: il partito di Letta non vuole perdere la scommessa sul carcere com’è accaduto in quella precedente, quando nell’ultimo consiglio dei ministri, il 4 marzo del 2018, la riforma dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando, si arenò di fronte alle paure elettorali. Ne approfittò poi il governo gialloverde che buttò la riforma alle ortiche. Ma adesso il Pd ci riprova. Anna Rossomando, la responsabile Giustizia del Pd, ha organizzato, ieri, a Roma, la seconda Agorà democratica dedicata proprio al carcere, dopo quella di Torino del 19 marzo, quando il segretario del Pd Enrico Letta disse: “Per noi la riforma del sistema carcerario è uno dei nostri grandi obiettivi”. Certo, non sarà facile convincere alleati come la Lega che pensa che in carcere devono rimanere tutti i ‘cattivi’. Ma i penitenziari non possono diventare una discarica sociale. Stefano Anastasia, garante detenuti del Lazio, riassume: “Io non penso che in carcere ci debbano stare 70mila persone, ne bastano 30mila, perché per il resto non è l’extrema ratio. A meno che non si voglia tenere in carcere la marginalità sociale”. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma vede nei numeri più attuali dell’universo penitenziario l’attuale anomalia del carcere, con 18 mila in attesa di giudizio su 54mila. Troppi. Politicamente, ecco la proposta del Pd come la spiega la Rossomando: “Servono interventi urgenti per decreto legge recuperando alcune esperienze fatte durante la pandemia, quando ci sono state restrizioni, ma anche la possibilità di sperimentare sul campo misure innovative, e che non hanno avuto smentite, dai permessi straordinari al lavoro all’esterno senza tornare in carcere la sera, le video chiamate, i collegamenti via internet, il braccialetto elettronico per chi sconta la pena ai domiciliari”. Un programma vasto, ma già riuscire a far approvare una norma che impedisca ai figli di genitori detenuti di dover subire, a loro volta, il carcere, sarebbe un passo avanti di gran civiltà Dalla concorrenza alla giustizia. Le riforme nella palude dei partiti di Aldo Fontanarosa, Serenella Mattera, Liana Milella La Repubblica, 23 maggio 2022 Oggi, nelle sue raccomandazioni, la Commissione europea rinnoverà il pressing sul nostro Paese perché approvi le riforme strutturali che l’Ue considera indispensabili. In ballo ci sono i quasi 46 miliardi di euro che Bruxelles ci spedirà tra giugno e dicembre - nel quadro del piano di rilancio Pnrr - a patto che le riforme abbiamo preso forma. Il governo Draghi ha fatto la sua parte presentando le sue proposte, ne sono seguiti mesi di trattative con i partiti della maggioranza parlamentare che non hanno sciolto tutti i nodi. La riforma del Codice degli appalti è in dirittura d’arrivo. Dopo il sì del Senato, oggi il testo arriverà alla Camera, quindi tornerà a Palazzo Madama per il definitivo via libera. Sui valori catastali delle case, Lega e Forza Italia danno finalmente semaforo verde perché sembra scongiurato un aumento delle tasse. Ma ora bisogna convincere Pd e Cinquestelle. Alte le barricate leghiste e forziste sulle concessioni balneari. Per votare il testo e permettere le gare, i due partiti chiedono indennizzi per i concessionari uscenti. Restano poche ore per trovare un accordo, altrimenti il governo porrà la fiducia sul ddl concorrenza. Sulla giustizia, opposizione di Lega e renziani. Liberalizzazioni. Carroccio in trincea sulle spiagge. Draghi ha l’arma della fiducia - Rinvio delle gare e indennizzi ai concessionari uscenti per il pieno valore dei beni: sono le richieste al rialzo di Lega e Forza Italia che hanno bloccato la trattativa sulle concessioni balneari. La messa a gara delle spiagge italiane è uno dei grandi capitoli della riforma della concorrenza, che in base alla road map del Pnrr deve essere attuata entro il 31 dicembre, con tutti i decreti attuativi. Servizi pubblici locali, idroelettrico, farmaci, sono solo alcuni dei settori su cui interviene la legge. Ma il muro del centrodestra sulle spiagge è la ragione che ha indotto Mario Draghi a lanciare l’ultimatum: via libera del Senato entro il 31 maggio o voto di fiducia. La commissione Finanze, ferma da mesi, è convocata martedì. Sottotraccia si cerca un punto di caduta. Palazzo Chigi tiene il punto sull’avvio delle gare entro il 31 dicembre 2023, con poche eccezioni, e indennizzi ragionevoli, determinati con perizia asseverata. Ma la partita è soprattutto politica: Lega e Fi - divise al loro interno - insistono che il tema balneari non è citato dal Pnrr e quindi si può stralciare. E gli altri partiti? Il M5s tiene la guardia alta sugli indennizzi e chiede di non mettere la fiducia. Il Pd sostiene la mediazione di Palazzo Chigi. Le prossime ore saranno decisive. Ma il voto del Senato è solo una tappa per la legge sulla concorrenza: alla Camera si affronterà l’altro grande nodo, che riguarda taxi e Ncc. Fisco. Compromesso al ribasso sul catasto, ma serve l’ok di Pd e Cinquestelle - Sulla delega fiscale l’intesa c’è, ma solo in teoria. Perché l’esame della riforma è stato messo in stand by finché non si scioglie il nodo della concorrenza. E perché la mediazione sul catasto siglata a Palazzo Chigi con il centrodestra formalmente deve essere ancora avallata dagli altri partiti. Il dossier è delicato, ad alta tensione politica, ed è assai probabile che non venga portato in Aula alla Camera prima delle amministrative di giugno. Due su tutti i capitoli sotto i riflettori. L’Ue chiede al nostro Paese di “allineare i valori catastali ai valori di mercato”: il testo della delega da qui al 2026 avvierà una nuova mappatura degli immobili italiani ma senza modificare la tassazione e, su pressione di Lega e Fi, conterrà solo un richiamo indiretto ai valori di mercato indicando accanto alla rendita catastale una rendita “ulteriore”, non valida ai fini fiscali. Poi ci sono le tasse: la riforma punta a riordinare, come auspica Bruxelles, le aliquote marginali e ad abbassare l’Irpef “a partire - propone il Pd - dai redditi medio-bassi”. Ma per le imposte sui capitali il centrodestra ha ottenuto un intervento meno incisivo di quello all’inizio previsto. Il M5s ha condizionato il suo via libera alla lettura dei testi finali. Processi. Il Csm come ultimo scoglio con l’opposizione di Lega e Iv - L’ultimo miglio per la giustizia è la riforma del Csm. Non incide sui 2,8 miliardi che il Pnrr assegna all’Italia. Ma, dice il Piano, “produce conseguenze dirette sull’efficienza”. E mentre le riforme della macchina civile e penale sono già nella fase dei decreti delegati, la preoccupazione per la Guardasigilli Marta Cartabia è il via libera al piano per cambiare il Csm, ma soprattutto per eleggerne, tra un mese, uno nuovo. E qui al Senato, dove si va in aula il 14 giugno, incombe una duplice spada di Damocle. Renzi ha già detto che Iv si asterrà. Ma l’allarme arriva dalla Lega capitanata sulla giustizia dalla battagliera Giulia Bongiorno che dice: “Abbiamo presentato emendamenti migliorativi per rendere il testo, oggi blando, più incisivo. Confidiamo nella trattativa con Cartabia”. Il corridoio è stretto. Se la legge torna alla Camera, il Csm sarà eletto con le vecchie regole, una mano santa per le correnti. E sarebbe davvero uno sgarbo per la ministra che finora può contare su performance perfette. Sono in regola coi tempi le riforme dei processi civili e penali, dopo il via libera a settembre 2021, e a fine estate arriveranno a palazzo Chigi i decreti delegati su cui lavorano fior di giuristi (Gatta, Lattanzi, Lupo, Canzio, Ceretti, per citare quelli del penale). Garantito l’ok a fine 2022 come impone il Pnrr. Codice degli appalti. Mesi di litigi e riscritture. Ora in dirittura finale alla Camera - Il confronto tra il governo Draghi e la sua maggioranza parlamentare è durato 9 mesi e ha avuto toni aspri. Poi - dopo una schiarita a febbraio - il 9 marzo 2022 il Senato ha dato il primo via libera alla riforma del Codice degli appalti con un consenso finalmente ampio: 24 voti contrari, 197 a favore. Oggi il testo arriverà in aula alla Camera, quindi tornerà al Senato per l’ultimo sì. Motivo dello scontro è stato, tra gli altri, il comma 4 dell’articolo 1 sui poteri del Consiglio di Stato. Una premessa. Il governo ha spedito in Parlamento una legge delega, dove sono scritti i principi generali della riforma. Il Parlamento sta esaminando questi principi generali, poi restituirà la palla al governo. Sarà il governo a rendere operativa la riforma, anche con i decreti legislativi. Per attuare la riforma, il governo si riservava di affidare un ruolo decisivo al Consiglio di Stato (come permette un regio decreto del 1924). Il Consiglio di Stato avrebbe scritto in autonomia dei regolamenti - anch’essi attuativi - per modificare in profondità il Codice degli appalti. Svariati parlamentari hanno contestato la soluzione (i 5Stelle con grande vigore). Ma alla fine il ruolo del Consiglio di Stato è confermato, anche se non farà da solo. Dovrà avvalersi dell’aiuto di magistrati del Tar, avvocati dello Stato, tecnici esterni. Ermini: “La riforma del Csm entro giugno, troppa gerarchia fa male alle toghe” di Francesco Grignetti La Stampa, 23 maggio 2022 Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Il referendum non è la soluzione, ci sono questioni che è meglio affrontare in Parlamento. Lo sciopero dei giudici è legittimo”. A presiedere il Consiglio superiore della Magistratura, vicario del Capo dello Stato, ancora per qualche mese sarà il vicepresidente David Ermini, già deputato del Pd. Recentemente detto che il Parlamento “non può non approvare la riforma dopo l’applauso al presidente Mattarella”. E questo è il mantra che discende dal Colle: la riforma del Csm va fatta, e anche presto. Ma Ermini dice anche che sarebbe sbagliato, ora che lo sciopero dei magistrati è andato male, cercare di regolare alcuni conti nel perenne conflitto tra politica e giustizia. “Sono certo che la politica agirà sulla base delle questioni di merito, anche perché agire diversamente si risolverebbe in un danno per le istituzioni”. E comunque Ermini pensa che l’allarme dell’Anm non sia del tutto campato in aria. “L’autonomia e l’indipendenza sono valori da preservare non soltanto verso l’esterno, ma anche all’interno, per evitare conformismo e sudditanza dei magistrati ai capi degli uffici”. Ermini, tutto lascia indicare una impasse della riforma al Senato. Diversi partiti di maggioranza si sono messi di traverso... “Che su una riforma di una qualche portata e ambizione vi sia una discussione anche intensa, mi sembra non solo normale ma perfino indispensabile. Il punto è che alla fine una riforma va approvata, e va approvata proprio perché gli applausi tributati a Mattarella hanno il valore di un impegno preso dal Parlamento. Se si ritornasse a votare con le vecchie regole, quell’impegno sarebbe violato”. Da quanto si capisce, i tempi si stanno allungando molto più del previsto; è molto probabile che la riforma non sia approvata entro maggio e forse neanche entro giugno. Cosa può significare questo per il rinnovo del Csm? “La nostra consiliatura scade il 25 settembre, se la riforma fosse approvata a giugno ci sarebbe comunque il tempo per indire le nuove elezioni dei consiglieri togati entro quella data. E spero che entro quella data anche il Parlamento sia in grado di votare la componente dei consiglieri laici”. Il Consiglio aveva espresso una posizione critica nei confronti della proposta di riforma; poi è intervenuto il passaggio parlamentare che ha tanto turbato l’associazione Nazionale magistrati. Quel parere è ancora valido o va rivisto? “Il parere del Consiglio, che ovviamente non riguarda emendamenti successivi al testo che ci è stato sottoposto, è quello e quello rimane. Ognuno poi farà le sue valutazioni. Peraltro, in sede di audizione nelle commissioni parlamentari competenti, il Csm non è stato mai convocato”. Lo sciopero dei magistrati palesemente è stata una prova di forza andata male. Non teme che qualche parte politica voglia approfittare di questo momento di estrema debolezza dei magistrati? “Lo sciopero è stato il legittimo esercizio di un diritto di critica. Ho sempre detto che personalmente non l’avrei fatto, ma, perché non vi siano equivoci, dico anche che ho profondo rispetto per una decisione presa da un’assemblea di magistrati molto partecipata. Qualunque ne sia stato l’esito, uno sciopero legittimo non può mai costituire fonte di debolezza di una categoria che, nel pieno rispetto delle prerogative del legislatore, null’altro chiede se non l’apertura di un dialogo e di un confronto su alcuni profili riformatori. Sono certo che la politica agirà sulla base delle questioni di merito e non su episodiche circostanze, anche perché agire diversamente si risolverebbe in un danno per le istituzioni”. Lei voterà al referendum? Se sì, ha intenzione di dare una sua indicazione di voto? “Io continuo a pensare che il referendum, espressione nobile di democrazia, non sia in questo caso la soluzione ideale. Sul tavolo ci sono questioni così tecniche che sarebbero meglio affrontate e risolte in sede parlamentare”. Si è visto che il suo ex partito, lo definisco ex perché lei ha ora veste istituzionale, esprime posizioni molto diverse al suo interno. Stupito? “Quanto alla diversità di opinioni, nella mia veste non sono né stupito né interessato”. Un ex segretario del Pd che non cito, perché lei gli ha annunciato querela per quanto scritto nel suo ultimo libro, sostiene che la riforma è inutile ma almeno non dannosa. Sottoscriverebbe questa definizione? “Non è certo una riforma epocale, ma credo sia utile. Utile e indispensabile quale segno di cesura rispetto al passato. È tempo di aprire una pagina nuova”. Sempre quell’ex segretario del PD spera in un confronto all’americana con lei. Smessi i panni di vicepresidente del Csm, accetterà il confronto? “Sono questioni su cui preferisco non parlare. Quello che dovevo dire l’ho già detto”. Ora che ha toccato con mano le dinamiche più interne alla magistratura italiana, che giudizio dà del correntismo? Lo scandalo Palamara si è chiuso lì, o ritiene che ci siano ancora in circolo i veleni che lo hanno causato? “Che l’associazionismo giudiziario debba rigenerarsi nelle condotte, credo sia necessità avvertita dalle stesse correnti e da ciascun magistrato. Nella magistratura e nel suo sistema di governo autonomo un’opera di autocritica interna è in corso, ci vuole tempo. Quando un veleno ha circolato in profondità e per troppi anni, smaltirlo richiede pazienza e fiducia”. Ultima domanda: i dirigenti della Associazione nazionale magistrati ritengono gravissimo il percorso graduale verso una gerarchizzazione e verticalizzazione della magistratura. Sostengono che sia una elusione dei principi costituzionali, che viene da lontano e che secondo loro non è ancora finita. Condivide questo allarme? “Ogni riforma va sperimentata sul campo e, nel caso, successivamente corretta. Dico solo che una gerarchizzazione troppo spinta qualche problema lo potrebbe porre. L’autonomia e l’indipendenza sono valori da preservare non soltanto verso l’esterno, ma anche all’interno, per evitare conformismo e sudditanza dei magistrati ai capi degli uffici”. Referendum: dal sì di Lega e Fi al no di M5S e Pd (ma con libertà di voto) di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2022 Maggioranza spaccata sulla giustizia. Fratelli d’Italia: no a due quesiti, quello sui limiti alla custodia cautelare e quello sull’abolizione della legge. I referendum sulla giustizia si avvicinano. Il prossimo 12 giugno si volterà non solo per le amministrative ma anche su cinque quesiti: riforma del CSM, equa valutazione dei magistrati, separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, limiti agli abusi della custodia cautelare, abolizione del decreto Severino. I partiti hanno iniziato a mettere le loro truppe in campo, con schieramenti a volte trasversali che spaccano maggioranza e coalizioni. Chi è a favore - A favore dei quesiti ci sono i Radicali e la Lega (che hanno raccolto le firme), ma anche Forza Italia è con convinzione a favore del sì sui cinque quesiti, essendo le materie (soprattutto il no alla legge Severino e la separazione delle carriere) una vecchia battaglia di Silvio Berlusconi e dei moderati del centrodestra (come Coraggio Italia). Ma su questa posizione sono anche i partiti centristi provenienti dall’area di centrosinistra: Italia Viva di Matteo Renzi (che ha firmato i referendum, in nome della lotta al “corporativismo dei magistrati e delle correnti”) e Azione di Carlo Calenda (in base alla convinzione che la “presunzione d’innocenza va affermata ogni giorno e il carcere prima della condanna definitiva è una misura eccezionale, non la regola”, come ha spiegato il vicesegretario di Azione Enrico Costa). Chi è contrario - Per il no è il Movimento 5 stelle: “I quesiti referendari sulla giustizia offrono una visione parziale. Siamo orientati a respingerli”, ha detto il presidente del M5S Giuseppe Conte. Più articolata la posizione del Partito democratico, dove il segretario Enrico Letta è per il no, ma poiché una parte del partito è invece per il sì, resta la libertà di voto: “Io penso che una vittoria dei sì aprirebbe più problemi di quanti ne risolverebbe”, ha detto Letta, aggiungendo però: “Il Pd non è una caserma, c’è la libertà dei singoli che resta in una materia come questa”. Anche perché la pattuglia per i sì (su tutti o parte dei quesiti) comprende sia alcuni esponenti degli ex renziani di Base riformista (come Stefano Ceccanti, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e Andrea Marcucci) sia esponenti della sinistra del partito (come Massimiliano Smeriglio e Goffredo Bettini). Nel centrosinistra, Liberi e Uguali, invece, non ha ancora preso una posizione ufficiale. Fratelli d’Italia - E se (osservano i critici) ad avvicinare Matteo Salvini alle posizioni garantiste dei Radicali possono aver pesato le sue recenti vicende giudiziarie, Fratelli d’Italia è restata più fedele alle tematiche della destra nazionale e non ha dato il sostegno convinto a tutti e cinque i quesiti: il partito è per il sì su separazione delle carriere dei magistrati, equa valutazione dei magistrati e riforma del CSM. Voterà no, invece, su abolizione della legge Severino e sui maggiori limiti alla custodia cautelare. “La proposta referendaria sulla carcerazione preventiva - ha spiegato la leader Giorgia Meloni - impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini. La legge Severino deve essere profondamente modificata per le sue evidenti storture, ma la sua totale abolizione significherebbe un passo indietro nella lotta senza quartiere alla corruzione”. Così la Rai sta boicottando il referendum sulla giustizia: la denuncia di Anzaldi (Iv) di Pietro Senaldi Libero, 23 maggio 2022 A tre settimane dai referendum sulla giustizia il 44% degli italiani non sa neppure che sarà chiamato alle urne. La denuncia la fa l’onorevole Michele Anzaldi, di Italia Viva, già segretario della Commissione Parlamentare di Vigilanza sulla Rai, ruolo nel quale, quando era ancora del Pd, fece il diavolo a quattro per difendere temi e giornalisti progressisti e screditare sistematicamente qualsiasi voce dissonante. Oggi, che sul tema magistratura è contro i suoi ex compagni, il deputato renziano si accorge che la comunicazione pubblica è manipolata dalla sinistra, e denuncia “una disinformazione grave in aperta violazione delle norme su pluralismo e par condicio”. Benvenuto dall’altra parte della barricata, ex compagno. Per quanto Anzaldi non sia il più autorevole difensore della libertà di stampa e del diritto d’informazione, sul punto ha ragione. Per boicottare questi referendum, che si propongono di rimediare al degrado della giustizia, e soprattutto della magistratura, la trimurti giudici, Partito Democratico e grillini ha fatto di tutto. Complice la Corte Costituzionale, che di sei referendum sui magistrati ha bocciato proprio quello sulla responsabilità dei giudici, che prevedeva che chi sbaglia deve pagare, anche se ha la toga. Un quesito al quale gli italiani dissero sì già trent’ anni fa, ma che poi il Parlamento insabbiò, trasferendo la responsabilità economica dell’errore colpevole del giudice dal medesimo allo Stato. In quanto il più comprensibile anche da chi non è un tecnico del diritto, il referendum non ammesso sarebbe stato quello avrebbe trainato tutti. Come gli altri due, quelli sulla legalizzazione della cannabis e dell’omicidio del consenziente, bocciati dalla Corte di Amato sostanzialmente perché avrebbero chiamato più gente alle urne. Il voto del 12 giugno, oltre che fondamentale dal punto di vista tecnico, ha un valore politico unico. Testimonierebbe l’insofferenza degli italiani verso lo strapotere della casta in toga. Per questo, grillini e Pd, i partiti più tutelati dai giudici, lo stanno sabotando pervicacemente. A cominciare dalla data: si vota in un unico giorno, una domenica di quasi estate, circostanza più che insolita, sperando che la gente vada al mare. Pur di scongiurarlo, è stata approvata in fretta e furia una riforma, la Cartabia, che è un pannicello caldo sui mali della giustizia: ritocca i criteri di valutazione dei magistrati e quelli di nomina dei membri del Csm e abbozza un limite al saltabeccare delle toghe tra incarichi in Procura e in Tribunale, ma non incide sulla sostanza, non dà scacco matto al correntismo, che è alla base della politicizzazione della magistratura. Il fuoco di fila contro il voto ha determinato il mezzo silenzio sudi esso anche dei partiti che sostengono il referendum. Salvini, Renzi, Berlusconi, non si stanno giocando tutte le carte, perché da decenni ormai il voto popolare è un’arma spuntata, un gioco a perdere, non raggiunge mai il quorum necessario alla sua validità. Ieri è stata la giornata dei flebili appelli e della conversione di Anzaldi, che ha scoperto che cos’ è il disservizio pubblico, di cui ebbe in passato tanta responsabilità. Verrebbe da dire che, se dopo tutto quello che hanno saputo sugli scandali dei magistrati, gli italiani non si precipiteranno in massa a votare per scardinare il sistema, significa che si meritano una delle giustizie più scassate dell’Occidente, della quale presto o tardi la maggioranza di noi tutti finisce vittima. Invece no: gli italiani non se la meritano, perché neppure un criminale si merita una giustizia partigiana e inefficiente. La sola colpa dei cittadini è di essere tenuti all’oscuro da un’informazione che pende da una parte sola, quella che la storia sta dimostrando essere sbagliata: il giustizialismo grillino, le toghe politicizzate e i progressisti che, senza più argomenti né valori, riescono a prevalere solo facendo fuori i rivali per via giudiziaria. “Italiani esasperati dalla giustizia. Ora possono cambiare le cose” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 23 maggio 2022 Parla Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale: “I cinque quesiti sono il primo passo”. Perché votare sì ai referendum sulla giustizia il prossimo 12 giugno? “Perché i cittadini sono esasperati a causa di una giustizia che produce spesso ingiustizia. Il senso più ampio dei cinque quesiti è quello di porre il Paese davanti ad un quesito simbolico più generale che sta alla base di tutto. I cittadini sono soddisfatti di come funziona la giustizia nel nostro Paese o desiderano cambiarla? Questi referendum non hanno certo l’ambizione di rivoluzionare il sistema giustizia, ma di incardinare un primo tassello che vuole essere l’inizio di un lungo percorso che ancora è da fare”. Che cosa non va nella giustizia italiana, oggi? “Tutto. Dalla lunghezza dei processi, che produce un numero spropositato di cause pendenti che giacciono nei tribunali per anni e anni e per le quali spesso interviene la prescrizione. All’abuso della misura cautelare nei confronti di cittadini che a volte, spesso, troppo spesso, si rivela una misura sbagliata, dato che circa la metà di chi viene messo in carcere viene poi assolto. Nel frattempo, però, si distruggono vite umane e si buttano sul lastrico tante famiglie costrette a dover fare i conti con gli enormi costi, anche economici, della giustizia italiana. Occorrerebbe una riforma radicale della giustizia a partire, intanto, dai cinque quesiti referendari per proseguire con l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati e della separazione delle carriere, con l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e lo stop ai magistrati fuori ruolo”. Come valuta la riforma Cartabia che incrocia, diciamo così, i contenuti dei quesiti referendari? “Credo, e non per colpa della ministra, che sia stata svuotata di contenuti. Tuttavia abbiamo molta fiducia nel lavoro della ministra Cartabia, molto meno invece nella possibilità di un accordo tra le forze di maggioranza”. I referendum promossi da Partito radicale e Lega sono l’ultima occasione per riformare la giustizia? “La riforma della giustizia è la madre di tutte le battaglie. Abbiamo scelto con la Lega di Matteo Salvini i temi più urgenti e necessari che la politica, a nostra valutazione, farebbe molta fatica a realizzare per via parlamentare. Non credo sia l’ultima occasione, ma certo sarebbe una grande occasione persa”. Perché la giustizia italiana è così restia al rinnovamento? “Perché si tratta ormai di lobby di poteri che si incrociano tra loro e dove uno vorrebbe prevalere sull’altro. Il potere giudiziario è indebolito da tempo, e la degenerazione di questa magistratura è ben spiegata nel racconto documentato nel libro di Sallusti “Il Sistema”. La magistratura vorrebbe dettare le leggi al Parlamento, anziché applicarle e amministrare la giustizia. Il Parlamento, non da oggi ma da Tangentopoli in poi, si piega al potere giudiziario perché ne ha paura. C’è inoltre la spinta inerziale degli interessi consolidati che non riescono a vedere che ci sarà un vantaggio anche per loro a trattare le pratiche come persone”. “Il disastro al concorso per magistrati inizia con i guai dentro i licei” di Antonello Caporale Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2022 Ex ministro della Giustizia, oggi Oliviero Diliberto è preside di Giurisprudenza alla Sapienza: “All’università arrivano ragazzi con lacune formidabili. Elementari, medie e superiori da riformare”. Punto, punto e virgola e punto e a capo. Davvero cervelli o piuttosto sinceri asinelli? Il concorso in magistratura si è appena consumato ed è successo il patatrac: dei 3.797 candidati presentatisi all’esame scritto solo 220 hanno diritto a provare l’orale. Bocciati la quasi totalità degli aspiranti giudici. Non ci posso credere. Davvero è accaduto? Vero, purtroppo. Oliviero Diliberto è stato ministro della Giustizia, oggi è preside di Giurisprudenza della Sapienza, la facoltà più forte in Italia, la 44esima nel mondo su 12 mila selezionate... Li ricevo freschi di liceo, la materia che insegno (Istituzioni di diritto romano ndr) è studiata al primo anno di Giurisprudenza. Noto che non hanno cognizioni di base, che c’è un vuoto pneumatico e semantico, un deficit culturale profondo. Per dirle: quando accenno all’imperatore Costantino scruto volti incerti, di esuli in territorio nemico. Non è che abbiamo spinto un po’ troppo in là l’autostima verso noi stessi? Il talento italiano, e bla bla bla bla… I cervelli in fuga sono un fatto o pura fantasia? Un fatto, sì... Accogliamo nella mia università tanti ragazzi europei con il programma Erasmus. Sono più preparati i nostri. Ed è un secondo fatto. Professor Diliberto, l’abbiamo conosciuta in Parlamento come un comunista dogmatico. Le note a verbale dei commissari d’esame riferiscono però di candidati che avranno fatto pure una buona università ma una pessima scuola media e anche elementare. Non conoscono la punteggiatura, non solo la natura delle obbligazioni. Non sanno cos’è la consecutio temporum, prima ancora di approfondire i caratteri di un decreto legge... È certo che la qualità dell’istruzione pubblica fino ai diciotto anni è piena di vuoti. Se non ripariamo subito questa voragine… L’università è senza colpa? Nessuno può dirsi innocente, ma venga alla Sapienza. La preparazione media è alta. E ci sono delle controprove che statuiscono questa eccellenza didattica: i cinesi hanno scelto la nostra università e non quella di Berlino, per dire una tra le più prestigiose, per i loro corsi europei, le loro note di aggiornamento. Qualche motivo ci sarà. Intanto registriamo questa debacle... A occhio sembra anche a me. Troppi asini, e troppi asini che vogliono fare addirittura i giudici. Già c’è l’enorme polemica sulla giustizia giusta, l’esercizio approssimato della legge, la ridotta misura dell’agire pubblico... L’istruzione scolastica deve fare un salto di qualità. Elementari, medie e superiori da riformare. Bisogna qualificare la figura civile di quello che un tempo si chiamava maestro, di colui o colei che insegna. Il maestro aveva una reputazione pubblica formidabile. Ecco, oggi non più. Ed è dovuta a due concomitanti fattori: una preparazione alla didattica molto più modesta, figlia di un giudizio sul livello minimo della responsabilità sociale dell’insegnamento. E la retribuzione così bassa al punto che il reclutamento dei prof subisce sistematicamente l’allineamento verso il basso (in alcuni casi verso il molto basso). I ragazzi che riceve in facoltà, quelli del primo anno, un po’ la spaventano? Hanno lacune formidabili. La ministra Cartabia ha appena annunciato un nuovo reclutamento straordinario per cinquecento giovani magistrati in luglio... Bisognerebbe anche riparametrare le modalità della selezione. Riparametrare. Cioè renderle più semplici, di facile accesso? Non più semplici, magari un po’ più duttili. Immagino che i testi siano figli di una rigidità che esclude anche chi non è asino. Il giudice Poniz, commissario d’esame, s’è messo le mani nei capelli. Riferisce che neanche la punteggiatura è rispettata, andare a capo è divenuto un problema. La grammatica pare scoglio insormontabile... Ahia. La giustizia italiana già è messa male... Facciamo intanto uscire il meglio che c’è. Abbiamo bisogno delle energie vitali dei giovani. Speriamo che studino però... Speriamo che capiscano ciò che studiano. E speriamo che li si aiuti a comprendere. Punto, punto e virgola e quando è necessario punto e a capo... Ecco. Duemila orfani di femminicidio: ecco chi li aiuta di Francesca Visentin Corriere della Sera, 23 maggio 2022 Madre uccisa, padre suicida o in carcere: il dramma di “chi resta”. Ecco il progetto “A braccia aperte” per figli e famiglie affidatarie che coinvolge regioni, Università, centri antiviolenza, enti del Terzo settore, e ha un finanziamento di un milione e 750mila euro in 4 anni. L’ultimo ricordo che Matteo ha della sua mamma sono le grida di aiuto. Lui e la sorellina nascosti sotto il letto. Il papà li aveva chiusi a chiave in camera. Molte ore dopo un poliziotto li ha tirati fuori da lì, trascinati lontano da casa. “Dov’è la mamma?”, continuava a chiedere Matteo. Aveva 6 anni, da allora la sorellina non l’ha più vista. Prima è stato portato a casa degli zii, due anni di solitudine. Nessuno si accorgeva veramente di lui. Poi la comunità. Sperava in una famiglia, che alla fine è arrivata, con una nuova mamma e anche un fratello, sembrava la felicità. Ma il terrore di perdere tutto, di nuovo, l’ha angosciato ogni giorno. Sono passati 20 anni. Oggi Matteo lavora con i cavalli, attraverso la pet therapy aiuta altre persone a superare traumi, stress e difficoltà grazie all’empatia della relazione che si crea con gli animali. Matteo è un orfano di femminicidio. In quella cameretta, chiuso a chiave, ha sentito il padre uccidere la sua mamma. “Crescerlo è stata molto dura - racconta la mamma affidataria - e tante volte ho pensato di non farcela ad accogliere e gestire il suo dolore. Restava giorni interi chiuso in camera al buio, diventava autolesionista, alternava rabbia e richieste di amore. Aveva cicatrici profonde, che sono esplose nell’adolescenza”. Il progetto Orphan of femicide invisible - Gli orfani di femminicidio dal 2009 al 2021 sono duemila in Italia. Vittime invisibili. Hanno perso la mamma, ammazzata dal padre, a volte davanti a loro. E hanno perso il padre, o per suicidio o perché è in carcere. Sballottati tra famiglie affidatarie e comunità, senza percorsi di sostegno psicologico adeguati, con un trauma profondo. Dolore, paura, rabbia, sensi di colpa e una domanda ricorrente: “Che ne sarà di me?”. Per sostenere in maniera concreta gli orfani di femminicidio è partito il primo progetto che mette in rete pubblico e privato: “Orphan of femicide invisible victim”. Cinque regioni, Università, centri antiviolenza del circuito Dire, enti del Terzo settore, Comuni, un finanziamento del governo di un milione e 750mila euro in quattro anni. I soldi arrivano dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, attraverso il bando “A braccia aperte” dell’impresa sociale Con i bambini. Il progetto garantirà in Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia assistenza psicologica a orfani, orfane e famiglie affidatarie, sostegno economico per gli studi, i tirocini, gli stage e i master, fino all’inserimento nel lavoro, tutela legale e assistenza per i risarcimenti di cui hanno diritto o per cambiare il cognome. Ma anche formazione specialistica per operatori di pubblico e privato, terapeuti, tribunali e servizi sociali, in modo da creare professionisti più competenti e un coordinamento che intervenga in maniera tempestiva e condivisa. I numeri - Gli orfani che verranno seguiti e sostenuti dal progetto tra Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna sono circa 200, vittime invisibili di 97 femminicidi tra il 2009 e il 2021, oltre a tutti i nuovi orfani dei futuri casi. “Questo è il primo progetto concreto e strutturato - fa notare Simona Rotondi di Con i Bambini, l’impresa sociale che distribuisce i finanziamenti e che ha coprogettato le azioni - attraverso il quale si coinvolgono tutte le parti: gli orfani, le famiglie affidatarie, gli operatori. E mette in rete pubblico e privato con azioni reali. Oggi esiste la legge 4 del 2018, che nella realtà è poco applicata, stenta a essere operativa e anche per i risarcimenti agli orfani richiede lunghi percorsi burocratici. Da una parte ci sono la sofferenza, il trauma e lo spaesamento degli orfani, dall’altra le famiglie affidatarie spesso non hanno gli strumenti per gestire queste situazioni senza un aiuto specializzato”. La rete - Giorgia Fontanella, presidente della Cooperativa sociale e Centro antiviolenza Iside di Venezia, evidenzia: “Ci siamo rese conto che con gli orfani di femminicidio è fondamentale attivare la stessa rete di sostegno che scatta con le donne nei percorsi di uscita dalla violenza. Va restituita normalità di vita a ragazzi e ragazze, è indispensabile un sostegno psicologico specialistico e aiuto alle famiglie affidatarie”. Eleonora Lozzi, presidente di RelAzioni Positive, cooperativa del Centro Veneto Progetti Donna, sottolinea: “Il nostro obiettivo è non lasciare solo chi resta”. Il caso emblematico di Marianna Manduca - E le domande di chi resta sono ricorrenti: perché mio padre l’ha fatto? Cosa accadrà quando lui uscirà dal carcere? A sintetizzarle è la psicologa Sara Pretalli del Centro Iside di Venezia: “Il percorso di chi resta è tra dolore e sensi di colpa. Non si perdonano di essere vivi, di non avere salvato la mamma”. Il progetto garantisce sostegno, ma anche interventi snelli. Perché non si ripeta un caso come quello dei tre figli di Marianna Manduca. I ragazzi, adottati da Carmelo Calì e Paola Giulianelli, sono passati attraverso un calvario giudiziario di 10 anni per ottenere il risarcimento che spettava loro. Marianna Manduca era stata uccisa dal marito nonostante lo avesse denunciato 12 volte per violenza e maltrattamenti. Lo Stato, condannato a risarcire con 259mila euro i figli per non averla protetta nonostante le denunce, ha pagato solo dopo 10 anni di battaglia legale. Una storia diventata anche un film, I nostri figli, con Giorgio Pasotti e Vanessa Incontrada. La vittoria dello Stato sulle mafie è ancora lontana di Carlo Bonini La Repubblica, 23 maggio 2022 Il “metodo Falcone” sta prevalendo sulla cultura della convivenza con i clan. Ma la strada è lunga. Gli anniversari sono materia friabile e delicata. Essenziali nella costruzione e disciplina della memoria, eppure, e insieme, permeabili al rischio di trasformare la ritualità del ricordo in un simulacro. A maggior ragione nel giorno in cui, a distanza di trent’anni, e come accade ogni anno, torniamo a inchinarci sul ciglio del cratere di Capaci e sulla devastazione di via D’Amelio, acme della stagione stragista di Cosa nostra e punto di svolta della nostra storia repubblicana. Politica e civile. Per questo, nello speciale che Repubblica dedica oggi a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Francesca Morvillo e agli agenti delle loro scorte, a quella spaventosa estate siciliana del 1992, lo sforzo è stato ed è quello di sottrarli alla fissità dell’istante in cui le loro vite vennero strappate. Ha senso, infatti, chiedersi cosa ne sia oggi della loro eredità. Di un “metodo” che rivoluzionava le routine del contrasto a Cosa nostra, ne moltiplicava e integrava i fronti di aggressione e che costrinse un intero Paese - la sua classe politica, i suoi apparati di sicurezza, la magistratura, l’avvocatura, la cosiddetta “società civile” - a uscire dalla zona grigia dei silenzi complici, della paura, della rassegnazione, della convenienza e convivenza con Cosa nostra, per misurarsi con un interrogativo radicale. Quello declinato, il 25 maggio del 1992 a Palermo, nella chiesa di san Domenico, dalla semplicità delle parole, rotte dal pianto e dal dolore, di Rosaria Schifani, di fronte alle bare del marito e agente di scorta Vito, di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, degli altri poliziotti Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: “Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio... di cambiare... loro non cambiano... Se avete il coraggio di cambiare, di cambiare... loro non vogliono cambiare...”. E riassunto, in tempi recenti, dalle parole del capo dello Stato, il palermitano Sergio Mattarella: “O si sta contro la mafia o si è complici, non ci sono alternative”. Come oggi sappiamo, fu proprio l’animalesca percezione dei Corleonesi del pericolo “vitale” portato a Cosa nostra e al metodo mafioso dalla radicalità del metodo Falcone-Borsellino, il rischio rappresentato dalla sua forza di contagio politico e civile, ad armare la mano stragista. E furono, soprattutto, la celebrazione del maxiprocesso alla catena di omicidi e traffici della mafia degli anni Ottanta (giudizio cominciato a Palermo il 10 febbraio del 1986 e concluso il 30 gennaio del 1992) e i suoi esiti (474 gli imputati, tra capi mandamento e semplici uomini d’onore, 221 dei quali detenuti, per un totale di 19 ergastoli e 2.665 anni di reclusione) a segnalare a Cosa nostra il salto di qualità nella risposta che lo Stato sembrava improvvisamente e inopinatamente capace di offrire. Quella di rendere giustizia e di colpire a fondo la struttura gerarchica e il sistema di interessi mafiosi, svelandone la fragilità, sfidandone con successo l’impunità, senza tradire i principi dello stato di diritto. Dunque, senza snaturare il dna democratico e costituzionale della risposta repressiva e punitiva. Senza cadere nella tentazione di assumere le sembianze del nemico per poterlo sopraffare. Naturalmente, faremmo oggi un torto a noi stessi e alla storia di questi trent’anni, se dicessimo che quel metodo (e con lui il punto di svolta e non ritorno che rappresentò nella lotta alla mafia) sia stato custodito e rispettato da tutti coloro che, da quell’estate del 1992 in avanti, raccolsero il testimone di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Perché così non è stato. Ma faremmo un torto persino peggiore alla loro memoria e sacrificio e alla nostra storia recente se concludessimo che lì dove l’antimafia (termine generalmente e spesso utilizzato per confondere i singoli con il tutto e dunque annullare singole responsabilità in uno stigma collettivo e liquidatorio) ha scritto pagine dimenticabili della sua parabola, o lì dove quella parola, “antimafia”, è stata utilizzata come un’impostura, questo abbia finito o debba finire per mettere in discussione la coerenza di un percorso che, da trent’anni, spesso in silenzio e lontano dalla luce della cronaca, dei talk-show e dei social, ha portato questo Paese a emanciparsi progressivamente dalla cultura della convivenza mafiosa. Un giorno, forse, sarà possibile celebrare l’anniversario di Capaci e via D’Amelio come quello della sconfitta delle mafie e non solo del sacrificio degli uomini che ne hanno messo in crisi il modello di espansione. Forse. Diciamo che il cammino sarà ancora molto lungo, anche perché la geografia delle mafie e dei suoi rapporti di forza, come spieghiamo in queste pagine, è cambiata e continua a essere in continua evoluzione e sempre di più su un piano transnazionale. Dalla nostra, abbiamo un’arma formidabile a disposizione. Che è la capacità di costruire memoria, di guardare con coraggio agli errori e alle sconfitte, così come alle vittorie, e di assumere ciascuno per la parte che gli compete una porzione di responsabilità civile e civica lungo quel percorso che l’estate del 1992 non solo non riuscì a soffocare nel sangue, ma rese irreversibile. Ripetendo a noi stessi come un mantra la lezione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: le mafie non sono invincibili. Nel cratere dell’autostrada trent’anni di misteri di Salvo Palazzolo La Repubblica, 23 maggio 2022 Trent’anni dopo, quel cratere sull’autostrada di Capaci è ancora una voragine piena di misteri. Ecco l’ultimo. La sera del 23 maggio 1992, un camionista telefonò al numero verde dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia: “Ieri, c’erano tre operai che stavano lavorando proprio lì dove hanno ammazzato il giudice Falcone - disse - e mi è sembrato strano, perché erano le 19.30, e poi avevano una tuta giallina troppo pulita per essere un fine settimana”. Una testimonianza importante, la telefonata fu inviata subito alla procura di Caltanissetta, che la fece trascrivere, ma non venne fatto nessun altro approfondimento: il verbale è rimasto per trent’anni in un archivio, dove Repubblica l’ha ritrovato. E, adesso, le parole di quel testimone dimenticato (o rimosso?) rilanciano il mistero. Chi c’era davvero sull’autostrada Punta Raisi-Palermo per preparare e realizzare l’attentato che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i poliziotti Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Trent’anni dopo, sono ancora tanti i punti oscuri di una strage che ha segnato la storia d’Italia. Nonostante tre degli esecutori materiali, diventati collaboratori di giustizia - Giovanni Brusca, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo - abbiano assicurato che non c’erano presenze esterne nel commando messo in campo dalla Cupola mafiosa diretta da Salvatore Riina. Ma i dubbi restano, sono fissati nelle stesse sentenze che hanno condannato mandanti ed esecutori di Cosa nostra. E la magistratura continua a indagare. Le piste aperte - La procura di Caltanissetta, oggi diretta da Salvatore De Luca, e la procura nazionale antimafia, adesso guidata da Giovanni Melillo, scavano dentro vecchie piste e nuovi spunti. Si prova a dare un’identità al Dna femminile estratto dal guanto ritrovato accanto al cratere, subito dopo la strage. Si indaga sull’utenza del Minnesota chiamata due ore prima dell’attentato da Antonino Gioè, il mafioso che poi si impiccò il 28 luglio 1993 nel carcere di Rebibbia (altro episodio avvolto da troppi misteri): l’Fbi ha comunicato che l’utenza fissa era installata in un residence di Maplewood. Chi c’era in quell’appartamento? Gioè, uno dei componenti più autorevoli del commando di Capaci, utilizzava un telefonino con un’utenza fantasma, ovvero un numero che all’epoca non era stato ancora assegnato in modo ufficiale: già durante le prime indagini, era emerso che il trucchetto era stato reso possibile da qualcuno all’interno dell’agenzia Sip di Roma Nord, da sempre al centro di molti sospetti per collegamenti con ambienti deviati dei servizi segreti. I magistrati provano anche a dare un volto a una figura misteriosa a cui ha fatto cenno Gioacchino La Barbera. Ha detto: “Mentre stavamo mettendo da parte l’esplosivo per l’attentato a Falcone, in una villetta di Capaci, notai una persona che non avevo mai visto. Arrivò con Antonino Troia, il capomafia di Capaci, parlò pure con Raffaele Ganci, il capomafia della Noce. Non l’ho più vista quella persona”. La talpa - Un altro filone di indagini è legato alle parole pronunciate in carcere da Salvatore Riina. Intercettato dai pm dell’inchiesta Stato-mafia, diceva al compagno dell’ora d’aria: “Abbiamo incominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, aeroporto, cose... abbiamo provato a tinghitè (in abbondanza, ndr), siamo andati a Roma, non ci andava nessuno.... Non è a Palermo... fammi sapere quando arriva... in questi giorni qua”. L’intercettazione è disturbata, alcune parole non si riescono a comprendere. “Andammo a tentoni - prosegue il padrino - fammi sapere quando prende l’aereo”. Chi fece sapere al commando di Riina quando Falcone avrebbe preso l’aereo di Stato allo scalo romano di Ciampino per arrivare a Palermo? Nessun pentito ha saputo dirlo. Doveva tornare in Sicilia il venerdì, la scorta era stata già allertata. Poi, all’improvviso, un impegno della moglie fece slittare al giorno dopo il ritorno a casa. Gli uomini in tuta - Chi c’era davvero a Capaci? I mafiosi condannati nascondono qualcosa? Forse, era operativo un altro commando riservato? Dopo la strage arrivarono diverse segnalazioni di operai lungo quel tratto di autostrada: nel processo Capaci bis, la procura di Caltanissetta è tornata a sentire l’ex funzionario della squadra mobile Roberto Di Legami, che si era occupato di verificare le testimonianze, una in particolare, arrivata dal cognato del generale dalla Chiesa. L’ingegnere Francesco Naselli Flores aveva riferito di aver visto due persone sul ciglio della strada, dietro a un Ducato bianco, intorno a mezzogiorno del 22 maggio. I magistrati hanno detto che erano gli operai della “Iter Cooperativa Ravennate”, che stavano realizzando la nuova aerostazione: l’allora direttore tecnico della cooperativa ha detto in aula che gli operai facevano la spola con Palermo attraverso furgoni bianchi. Fra le 7,30 e le 17. Il caso è stato chiuso. Ma, adesso, quella testimonianza ritrovata da Repubblica parla di una presenza in autostrada alle 19,30. E quegli operai segnalati dal camionista non vengono descritti come di passaggio, ma al lavoro. “Uno di loro aveva fra le mani un oggetto cilindrico grande una quarantina di centimetri - disse il testimone - l’ho visto che scendeva verso la scarpatina”. Chi erano quegli uomini? E perché non fu rintracciato il testimone? “Questa telefonata non ci fu mai passata - dice a Repubblica il dottor Di Legami - è la prima volta che ne sento parlare. Avremmo fatto tutte le verifiche, come negli altri casi segnalati”. Eccolo, l’ultimo mistero di Capaci. Per trent’anni, una testimonianza così importante è rimasta dentro i faldoni che raccolgono la consulenza dell’esperto informatico Gioacchino Genchi, a lui i sostituti procuratori di Caltanissetta Carmelo Petralia e Pietro Vaccara diedero l’incarico di trascrivere la telefonata. “La mia attività riguardava i computer di Falcone - ricostruisce Genchi - ci vennero date anche alcune audiocassette da trascrivere”. Ma, poi, il racconto del testimone rimase chiuso in un cassetto di quella procura che da lì a qualche mese avrebbe finito per costruire un altro mostro, il falso pentito Scarantino. Il sacrificio di Falcone e la sua lezione: la mafia è finanziaria più che sanguinaria di Roberto Saviano Corriere della Sera, 23 maggio 2022 Fu lui a mostrare una criminalità finanziaria prima che sanguinaria. Perché gran parte della politica europea ignora il problema? Nelle comunicazioni via radio lo chiamano “il magistrato con la foxtrot iniziale”, dando soltanto la prima lettera del cognome per non rivelare a eventuali orecchie indiscrete che è lui, Giovanni Falcone, l’uomo che giace in fin di vita all’interno della Croma bianca sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci. Di fianco, sul sedile del passeggero, c’è Francesca Morvillo. Anche lei è in fin di vita. E anche lei, per prudenza, viene descritta alla radio come “la moglie della nota personalità”. Il suo orologio è fermo alle 17 e 58 minuti, il momento esatto in cui il tritolo nascosto sotto l’autostrada è esploso e tutto si è trasformato in un inferno di lamiera, terra e corpi martoriati. I tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro sono morti sul colpo. Gli altri sono malconci, ma vivi e in piedi. Oggi, 23 maggio 1992, tutti le edizioni speciali dei tg parlano dell’assassinio di Falcone e della sua lotta contro la mafia. Anche oggi, 23 maggio 2022, trent’anni dopo, parliamo di questo. Parliamo di Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti Dicillo, Schifani e Montinaro. E parliamo di mafia. È questa la drammatica sponda che ci viene offerta: questo sciagurato ricordo di sangue. Lo facciamo noi e lo fanno molti altri. Ed è un bene, perché altrimenti, se non si trattasse di commemorare una fra le più alte personalità che questo Paese abbia mai espresso in fatto d’impegno contro la criminalità organizzata - se non si trattasse di affogare ancora una volta il nostro ricordo nel sangue, di rievocare la sciagura perché serva da monito e da sprone - allora non lo farebbe nessuno. Certamente non lo farebbe la politica. Il tema scomparso - Il tema della mafia sembra scomparso dall’agenda di governo, dai dibattiti dell’opposizione. Sembra che la mafia, le mafie, siano scomparse. Ma è esattamente il contrario. E tristemente ironico che il primo a mostrarci una mafia finanziaria, prima ancora che sanguinaria, fu proprio Falcone. Fu lui il primo a parlare di una mafia che ancora più delle pistole fa parlare i consulenti finanziari. In larga parte dematerializzata, ma non per questo meno forte. Tutt’altro. Oggi mafia non vuol dire soltanto estorsioni, minacce, omicidi, droga. Oggi mafia vuol dire aziende svuotate e ripopolate per riciclare denaro, imprenditori sconfitti da una concorrenza invincibile perché basata sui profitti illeciti, grandi opere realizzate al risparmio sulla pelle dei cittadini. Se ieri, parlando di mafia, potevamo pensare a un coltello affondato dentro la carne della società, oggi dobbiamo pensare a un virus, a una pestilenza silenziosa che sfugge all’occhio ma ammorba la società, abbassando drasticamente la qualità della vita di ognuno. Questo mi ha insegnato Falcone, questo ha insegnato a tutti noi. Anche ai nostri politici. E allora perché gran parte della politica europea - non tutta, per fortuna - ignora il problema? Forse l’ha dimenticato? Forse crede davvero, ingenuamente, che la mafia sia stata debellata o che sia stata messa all’angolo? Ho il timore che l’intervista rilasciata nel luglio dell’88 da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni e Saverio Lodato in cui parlava di smobilitazione dell’antimafia sia ancora attualissima. La delegittimazione - Altro argomento ancora oggi attualissimo è quello della delegittimazione. E anche questo, per sua disgrazia, ce lo mostrò Falcone. Se i mafiosi affrontano i giudici con le pistole, i politici, i giornalisti a loro vicini, talvolta perfino i colleghi magistrati, li affrontano con lo strumento della delegittimazione creando le condizioni di cui parlava il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da neo-prefetto di Palermo, poco prima di essere ammazzato: il personaggio pubblico viene eliminato “quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma lo si può uccidere perché è isolato”. Si attacca un magistrato nel personale, si scava nella sua vita familiare, gli si nega un incarico che potrebbe ufficializzarne il prestigio, lo si rende un emarginato. Tutto questo spalanca cancelli alle mafie, disegna un bersaglio sulla schiena di un uomo. Che poi a sparare siano altri, è quasi superfluo. Quando il 21 giugno del 1989, sulla scogliera dell’Addaura davanti alla casa di villeggiatura di Falcone, venne ritrovato un borsone pieno di esplosivo, alcuni insinuarono che ce l’avesse messo lui. Che fosse un tentativo per attirare l’attenzione su di sé con l’obiettivo di essere nominato procuratore aggiunto. Falcone si era già candidato, dopo la partenza di Antonino Caponnetto, come capo dell’ufficio istruzione di Palermo, cioè come guida del pool antimafia costruito da Rocco Chinnici e istituzionalizzato da Caponnetto di cui era stato indiscusso protagonista fino a quel momento e di cui, secondo lo stesso Caponnetto, avrebbe dovuto custodire l’eredità. Ma fu bocciato. Il Csm gli preferì il collega Antonino Meli, più anziano di lui ma con un’esperienza nei processi alla mafia imparagonabile a quella di Falcone. Quando la Cassazione ha emesso la propria sentenza sul fallito attentato dell’Addaura, ha detto che “Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio (…) diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro personale del valoroso magistrato”. Scrivono i giudici: “Non vi è, invero, alcun dubbio che Giovanni Falcone - certamente il più capace magistrato italiano - fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazione ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti ad impedirgli che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo e il più preparato e che offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale”. Anche la sentenza di primo grado diceva chiaramente: “Sono emersi con drammatica evidenza i perversi giochi di potere realizzati contro le legittime aspettative di Giovanni Falcone”. Infame linciaggio, spregevoli accuse, torbidi giochi di potere. Potevano, coloro che firmavano articoli contro Falcone, non sapere che lo stavano esponendo? Il “Corvo” - Le drammaticamente celebri lettere firmate “il Corvo”, che provenivano dall’interno del tribunale e che, fingendo di svelare da dietro le quinte i piani di Falcone lo infangavano, avevano la volontà di agevolare l’attentato di Cosa Nostra? Probabilmente no, volevano solo annullarne la reputazione per sabotarne la carriera, assassinarlo civilmente - quello che spesso fa il giornalismo-fango - ma lasciarlo in vita fisicamente. Però, proprio come rileva la Cassazione, è indubbio che le “vili e spregevoli accuse” o l’”infame linciaggio” - o, semplicemente, la negazione di un riconoscimento ufficiale - abbiano mandato alla cosca un messaggio molto chiaro: “Quest’uomo per noi è poco importante”. È possibile che all’epoca i responsabili di questi attacchi non ne fossero consapevoli? Be’… Teoricamente è possibile anche se difficile da credere. È possibile che ancora oggi, chi veste quegli stessi panni - fra politici, giornalisti, colleghi di opposte correnti - ignori le conseguenze delle proprie azioni? No. Oggi non è più possibile. Come non è scusabile che le mafie sembrino una questione ormai risolta. Che sembrino svanite. A svanire invece è stato solo l’argomento mafie dal dibattito politico, dal dibattito pubblico. Sconfitta la mafia stragista, è finita un’epoca di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 23 maggio 2022 Lo Stato ha reagito nel rispetto delle regole. E si è rivelato decisivo anche l’apporto della società civile. Trent’anni fa 500 chili di esplosivo facevano saltare in aria un tratto dell’autostrada Palermo-Punta Raisi, provocando la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli uomini della scorta. Meno di due mesi dopo, l’esplosione in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e altri cinque appartenenti alla Polizia di Stato. Le stragi di Capaci e di via D’Amelio hanno segnato il punto più alto della sfida lanciata allo Stato dalla Cosa nostra corleonese, un assalto che sarebbe continuato a maggio-luglio 1993 con le bombe di Roma, Firenze e Milano. Una sfida per passare dall’obiettivo storico delle mafie, cioè la “convivenza” più o meno pacifica, più o meno contrastata, con lo Stato, a una situazione di supremazia da ottenere anche utilizzando la violenza più efferata. Per ottenere questo risultato, Cosa nostra ha tentato di rovesciare a proprio favore i rapporti con la politica, la magistratura e le forze di polizia, forte delle immense ricchezze accumulate grazie al ruolo che rivestiva nel traffico internazionale di stupefacenti e approfittando del fatto che l’azione repressiva era rivolta a fronteggiare il pericolo mortale del terrorismo politico. E per questo ha eliminato con feroce determinazione chi poteva costituire un ostacolo o un pericolo, in un disegno di lucida ferocia, che sarebbe un errore definire “folle”, visto che è durato quasi quarant’anni e ha segnato la vita di tanta parte del nostro Paese e delle nostre istituzioni. Una strategia che le sentenze hanno definito di “terrorismo politico-mafioso”: per i metodi usati e perché alla base c’erano un disegno politico e connivenze con il mondo della politica. A quella sfida lo Stato ha reagito e quella mafia stragista è stata sconfitta, a partire dal maxiprocesso, nelle aule di giustizia, con gli strumenti previsti dalla legge, fra cui le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia adeguatamente riscontrate, e nel rispetto delle regole, come dimostrano anche le assoluzioni decise dai giudici nella loro libera valutazione. In quel contesto, il rispetto delle regole non era scontato ed è bene ribadirlo ancora oggi, nel momento in cui c’è chi propone di smantellare la legislazione antimafia. L’organizzazione è stata scompaginata da condanne e confische nonché dall’arresto di tutti i capi (tranne, finora, Matteo Messina Denaro), fino ad arrivare alla cattura di Bernardo Provenzano, l’11 aprile 2006: una data emblematica, perché quel giorno si è chiusa “una lunga parentesi nella storia delle mafie” come l’ha definita lo storico Salvatore Lupo, proprio con riferimento all’anomala scelta strategica poi sfociata nella stagione degli attentati. Altrettanto decisiva è stata la reazione di larghi settori della società civile simboleggiata, nel nostro ricordo, dai lenzuoli bianchi stesi alle finestre di Palermo proprio dopo le stragi. Pur con i loro mille problemi, Palermo e la Sicilia non sono più quelle di trent’anni fa quando, non dimentichiamolo, si registravano centinaia di omicidi ogni anno e tutti tentavano di vivere quella che è stata definita “una impossibile normalità”, ma nessuno era sicuro di tornare a casa la sera. I processi per quei fatti e per i tanti altri delitti eccellenti si sono conclusi con la condanna di quasi tutti i responsabili mafiosi, al contrario di quanto avvenuto in passato per le troppe assoluzioni per insufficienza di prove. Sono state oggetto di indagine le relazioni con il mondo esterno all’associazione e sono stati condannati per reati di mafia esponenti di tutte le categorie sociali. Risultati molto importanti, da non sottovalutare, anche se indagini e processi devono continuare per chiarire aspetti ancora oscuri e per verificare eventuali mandanti esterni a Cosa nostra. Dobbiamo anche riconoscere che nell’azione antimafia ci sono stati errori e colpe, talora gravissime, in primo luogo sulla strage di via D’Amelio in cui le vicende della falsa “collaborazione” di Vincenzo Scarantino, valorizzata persino in sentenze della Cassazione, rappresentano a mio parere il maggior fallimento della giustizia italiana. Tutto questo non deve far dimenticare l’abisso in cui eravamo e dal quale ci siamo sollevati: Cosa nostra è ancora una presenza criminale importante, ma non ha più la forza e la pericolosità di quell’epoca. Sono però diventate più ricche e pericolose ‘ndrangheta e camorra e organizzazioni mafiose sono ormai presenti in modo significativo anche nelle regioni del Centro e Nord Italia. Le cosche sono tornate alla loro strategia usuale: accumulare ricchezze e potere evitando, se possibile, il ricorso alla violenza manifesta. Molto resta da fare sul piano della repressione come nella vita sociale, politica ed economica del Paese, a cominciare dal rifiuto - a ogni livello - di scendere a patti con i mafiosi, sulla base di una reciproca convenienza. Sarebbe un passo fondamentale per troncare quelle relazioni esterne che costituiscono il fattore distintivo e la chiave di volta del potere criminale. Le stragi furono la vendetta per aver creato l’antimafia moderna di Gian Carlo Caselli La Stampa, 23 maggio 2022 L’anniversario della morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e di Paolo Borsellino (19 luglio) ci interpella sull’eredità delle vittime di mafia. Lo storico Salvatore Lupo sostiene che dal loro martirio nasce la sorpresa che in un’Italia senza senso della patria e dello stato, ci siano soggetti disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo stato. Prende così forma l’idea (di per sé paradossale) delle vittime di mafia come rivoluzionari, in quanto operatori di legalità. Viviamo in un Paese nel quale agli occhi dei cittadini lo stato si manifesta anche con i volti impresentabili di personaggi che con il malaffare hanno scelto di convivere. Le vittime di violenza mafiosa, a fronte di ciò, sono state soprattutto straordinari costruttori di credibilità e rispettabilità. Vale a dire che operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo stato alla gente, che così riesce a dare un senso alle parole, altrimenti vuote, “lo stato siamo noi”. Alla riflessione di Lupo faccio seguire una domanda: perché sono morti Falcone, Borsellino e tanti altri, vittime innocenti della criminalità mafiosa? Prima di tutto, va da sé, perché la mafia li ha uccisi. Ma anche perché noi non siamo stati abbastanza “vivi”. Loro hanno visto la violenza, l’illegalità, l’ingiustizia, lo scempio della democrazia, la compravendita di voti... E non si sono tirati indietro. Hanno continuato a fare il loro dovere ben conoscendone i rischi. E noi? Noi stato, noi chiesa, noi cittadini troppe volte non siamo stati abbastanza “vivi”. Nel senso che non ci siamo indignati abbastanza pur vedendo le stesse lordure contro cui Falcone, Borsellino e gli altri si battevano. Abbiamo preferito subire il giogo del facile compromesso, ci siamo accontentati del quieto vivere. E non essendo abbastanza “vivi”, Falcone, Borsellino e gli altri li abbiamo sovraesposti. Lasciati soli. I “professionisti dell’antimafia” - La storia di Falcone e Borsellino, per altro, è anche storia di aggressioni e calunnie. Come parte del pool antimafia creato da Rocco Chinnici, e perfezionato da Nino Caponnetto, essi furono decisivi nell’organizzare e condurre in porto il capolavoro investigativo-giudiziario chiamato “maxiprocesso”. Nel rispetto delle regole, vengono condannati a pene pesanti mafiosi di ogni ordine e grado, dai capi ai soldati. Mai successo, in pratica, prima di allora. La fine del mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra, della sua eterna sostanziale impunità. A questo punto però succede una cosa scandalosa. La mafia è una minaccia per la liberà e la democrazia. Falcone e Borsellino riescono a sconfiggerla rendendo un servizio all’intero Paese (era già chiaro che il problema si estendesse oltre la Sicilia). Ma invece di aiutarli ad andare avanti, professionalmente parlando li hanno spazzati via con una tempesta di polemiche diffamatorie ma efficacissime, che purtroppo vanno a bersaglio. Si comincia con “professionisti dell’antimafia”, sinonimo di carrieristi a spese di coloro che non avevano avuto la “fortuna” di fare processi di mafia. Si prosegue con “uso spregiudicato dei pentiti” (Falcone che portava i cannoli a Buscetta, per creare un rapporto intimo e fargli dire quel che voleva). E poi “uso distorto della giustizia per fini politici di parte” (un refrain sempre verde). Alla fine il pool viene cancellato e con lui il suo metodo di lavoro vincente. Il contrasto alla mafia - commenta Borsellino - arretra di una ventina d’anni. In questa storia non si può non ricordare il ruolo avuto anche dal Consiglio superiore della magistratura. Dovendo nominare il successore di Caponnetto, la maggioranza del Csm non sceglie il campione dell’antimafia, cioè Falcone. Nomina un magistrato, Antonino Meli, poco esperto di mafia, che rispetto a Falcone aveva il vantaggio di essere molto più anziano di carriera. Dirà Borsellino, dopo la strage di Capaci, che Falcone comincia a morire proprio in questo momento, quando viene umiliato preferendogli un magistrato senza titoli antimafia in una situazione che invece ne esigeva al massimo livello (io ho fatto parte di quel Csm e rivendico con orgoglio di aver sempre votato per Falcone). La Procura nazionale - Ma la storia non finisce qui. Di mortificazioni ne arrivano altre. Corvi e veleni con accuse inaudite si moltiplicano, e alla fine tutte le porte, anche quelle degli uffici giudiziari, vengono chiuse in faccia a Falcone. Che deve cercare una sorta di asilo politico-giudiziario a Roma, presso il ministero. Dove (coraggioso e tenace) continua nel suo impegno antimafia e crea l’antimafia moderna, quella che funziona bene ancora oggi, con la Procura nazionale e le Procure distrettuali antimafia e con la Dia (una specie di Fbi italiana). Intanto la Cassazione conferma in via definitiva (gennaio 1992) le condanne del maxiprocesso, avallando tutta la ricostruzione fatta dal pool in ordine alla struttura di Cosa nostra e alle responsabilità sia associative sia individuali. Facciamo il punto. Da un lato c’è Falcone che sta creando l’antimafia moderna; dall’altro c’è la Cassazione che frustra le aspettative di Cosa nostra, che pure aveva cercato in tutti i modi di “appattare” (aggiustare) il processo: un uno-due micidiale che per Cosa nostra è assolutamente intollerabile. Un uno-due che nella logica criminale di Cosa nostra significa strage. Ecco allora le stragi di Capaci e via d’Amelio, che sono una vendetta postuma di Cosa nostra nei confronti dei suoi peggiori nemici, Falcone e Borsellino; e nel tempo stesso un tentativo di seppellire definitivamente nel sangue il loro metodo di lavoro. Dopo le stragi Falcone e Borsellino diventano eroi, giustamente celebrati come tali. Da tutti. Pure da chi in vita li aveva ostacolati e denigrati. Anche dai “giuda” che in vita avevano tradito Falcone. Per battere le mafie fermiamo i loro giochi sporchi senza frontiere di Federico Cafiero de Raho La Repubblica, 23 maggio 2022 La lotta al crimine deve essere transnazionale. E la verità sulle stragi è un obbligo del Paese. Trent’anni sono trascorsi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Scene di guerra che il nostro Paese, in tempo di pace, non aveva mai vissuto. Non le dimenticheremo mai. Due magistrati e le loro scorte furono uccisi. Quei magistrati avevano rappresentato il rigore della lotta a Cosa nostra e avevano espresso una strategia di contrasto, come non era mai stata attuata. Cosa nostra aveva deciso “di fare la guerra allo Stato, colpendolo nel cuore delle istituzioni”. Il disegno sovversivo proseguì con le stragi continentali di Roma, Firenze, Milano. I processi celebrati a Caltanissetta e a Firenze hanno evidenziato che di quelle stragi fu mandante ed esecutore Cosa nostra. Quelle stragi hanno segnato la ferita più profonda del nostro Paese, inferta per piegare lo Stato con modalità e finalità terroristiche. Lo Stato non si è piegato. Ha processato i responsabili, nel pieno rispetto delle garanzie, li ha condannati con sentenze definitive, li ha assegnati al regime detentivo speciale, ha confiscato i loro beni. Vi sono ancora “zone d’ombra” ed è ancora latitante Matteo Messina Denaro, l’unico mafioso stragista tuttora libero. È necessario, pertanto, un ulteriore sforzo investigativo. Ricostruire le stragi è un obbligo del Paese, della nostra democrazia, che fonda il proprio pilastro più robusto su verità e giustizia. Dalle stragi le mafie hanno imparato che sfidare lo Stato con azioni “militari” è strategia perdente: per questo, da allora, hanno adottato prevalentemente la strategia della sommersione: non vogliono apparire all’esterno come un fenomeno emergenziale, da combattere con urgenza, ma continuano nei traffici illeciti e a inquinare e condizionare l’economia. Il traffico internazionale di stupefacenti genera ricchezze enormi; galassie di società vengono costituite per investire gli illeciti profitti nei diversi settori dell’economia, con l’effetto di ridurre gli spazi del mercato libero e l’occupazione. Le indagini sviluppate dalla magistratura e dalla polizia giudiziaria, sempre più specializzata, individuano meccanismi complessi di riciclaggio dei proventi delle illecite attività. Le “emergenze sanitarie” hanno offerto alle mafie nuove opportunità di infiltrazione nell’economia legale attraverso imprese di costruzione, movimento terra, intermediazione della manodopera, trattamento di rifiuti, con l’acquisizione di bar, ristoranti, alberghi. Investimenti sono stati realizzati nel settore sanitario, come nel commercio di dispositivi di protezione individuale. Le imprese mafiose, mimetizzate in società di capitali con sede nei Paesi ancora privi di adeguate normative o di polizia specializzata, tendono ad avvicinare e aggregare le imprese sane, poi utilizzate per promuovere altre illecite attività, come la formazione di “cartelli” con i quali partecipare alle gare di appalto e aggirare le normative vigenti. Nell’economia legale raramente e solo quando è necessario torna l’uso della violenza: strumenti ordinari sono la corruzione e la “convenienza”. Da tempo le mafie operano senza confini sull’intero globo. È necessario, oggi, occuparsi dei paradisi normativi, e non solo dei paradisi fiscali. C’è sempre più l’esigenza di una legislazione transnazionale comune. Nessun Paese può restare indifferente alla progressiva espansione delle mafie. A oggi quasi tutti gli Stati del mondo hanno firmato le Convenzioni di Palermo (voluta da Giovanni Falcone) e di Merida, che pongono le basi per contrastare più efficacemente il crimine organizzato transnazionale e la corruzione. Convenzioni che sono un punto di partenza: la dimensione economica delle mafie può essere contrastata solo ampliando le forme di collaborazione, con la “condivisione” del lavoro e il superamento delle frontiere. Il trentennale dalle stragi è occasione di bilanci: cosa è cambiato nella strategia di contrasto alle mafie e, soprattutto, in ciascuno di noi. C’è sempre maggiore efficienza nelle indagini, in cui trovano applicazione le migliori specializzazioni e le più avanzate tecnologie, con banche dati interoperative, che consentono risultati una volta non immaginabili. Non è sufficiente reprimere. Occorre costruire una società nuova, agendo su un livello politico, “attraverso una maggiore giustizia sociale”, e uno economico, attraverso la correzione di quei meccanismi che generano disuguaglianze e povertà. Occorre un mutamento nella vita quotidiana di ciascuno, un nuovo atteggiamento culturale collettivo, un comportamento fermo e risoluto, di distanza dalle mafie. Le mafie vogliono il silenzio. Bisogna parlare di mafie e la memoria delle vittime deve generare in ciascuno l’impegno attivo di responsabilità. L’esempio degli uomini e donne dello Stato che hanno perso la vita per aver svolto con onore il loro lavoro è un monito per tutti noi. La commemorazione del trentennale deve essere lo spartiacque per l’inizio di una tolleranza zero verso le mafie, che possa leggersi nei comportamenti di tutti noi in modo chiaro e trasparente, finalmente senza ambiguità, per tutelare i nostri giovani e garantire loro un futuro migliore di libertà. Locri (Rc). Presentati i progetti di giustizia riparativa per detenuti di Ilario Balì ilreggino.it, 23 maggio 2022 L’iniziativa nata in collaborazione con gli ambiti territoriali di Locri e Caulonia e altri enti del terzo settore. Un’occasione per rendere pubblici i risultati del progetto realizzato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna di Reggio Calabria a cui hanno partecipato 7 detenuti del carcere di Locri in stato di semi libertà e finalizzati a far loro conoscere i percorsi di riparazione degli effetti dei reati e la costruzione di relazioni sociali. Fondamentale, in tal senso, la collaborazione prestata dalla comunità locale rappresentata dagli assistenti sociali degli ambiti di Locri e di Caulonia ed altri enti del territorio calabrese appartenenti al terzo settore. “L’idea è proprio il fulcro della giustizia riparativa - ha espresso Alessandra Mercantini, pedagogista e mediatore penale - che vede oltre l’errore l’essere umano che deve essere riaccolto. Abbiamo lavorato insieme per fare in modo che quella rieducazione che il carcere aveva dato si traduca successivamente in risocializzazione”. All’incontro, che si è svolto a Locri hanno preso parte anche il presidente del tribunale Fulvio Accurso, insieme ai dirigenti e rappresentanti degli uffici giudiziari coinvolti nell’iniziativa. “La giustizia riparativa è quella giustizia che mira alla riparazione della frattura sociale - ha spiegato Federica Ferlito, funzionario dei servizi sociali - e si colloca a pieno titolo nell’alveo della giustizia di comunità dove i territori hanno un ruolo preminente e fondamentale”. Per il direttore del centro regionale per la giustizia minorile Isabella Mastropasqua “Si tratta di un’esperienza importantissima che apre uno sguardo al senso di fare giustizia che non è solo la giustizia dei tribunali, ma la giustizia delle persone che possono riconoscersi in un legame di rinnovata fiducia”. Lucca. Ragazzi e detenuti a confronto con il progetto “Legalità, si riparte!” luccaindiretta.it, 23 maggio 2022 Questo martedì (24 maggio) alcune classi degli istituti superiori della provincia visiteranno il carcere di Lucca. Educare i ragazzi alla legalità coinvolgendo gli istituti secondari del territorio provinciale, per parlare di giustizia e costituzione. E’ in dirittura d’arrivo il progetto Legalità, si riparte! realizzato in stretta collaborazione tra la sede della camera penale di Lucca e l’ufficio scolastico territoriale di Lucca e Massa Carrara, che si concluderà questo martedì (24 maggio) alle 12 alla casa circondariale di Lucca in via San Giorgio. Grazie agli avvocati penalisti lucchesi, capitanati dal responsabile territoriale del progetto Miur, l’avvocato Micaela Bosi Picchiotti, lo scorso gennaio si sono aperte le porte di 8 istituti, che sono stati poi chiamati a rispondere ad una serie di domande sul processo penale, sulla finalità rieducativa della pena e sull’informazione giudiziaria in Italia. In virtù degli elaborati presentati, che sono stati debitamente selezionati, alcune classi hanno potuto assistere ad un processo simulato ed altre, proprio questo martedì (24 maggio) si recheranno in carcere per la visita di alcuni padiglioni e per incontrare alcuni detenuti. Gli istituti coinvolti nel progetto - Liceo Barsanti e Matteucci (Viareggio), Isi Niccolò Macchiavelli (Lucca), Isi Garfagnana (Castelnuovo di Garfagnana), Isi Barga (Barga), Isiss piana di Lucca (Porcari), liceo Chini Michelangelo (Lido di Camaiore), Iis Galilei-Artiglio (Viareggio), Isi Piaggia (Viareggio). Disputa sulla cannabis. La Camera depenalizza, il Senato vuole proibirla di Lorenzo De Cicco La Repubblica, 23 maggio 2022 A Montecitorio c’è una proposta di legge sulla possibilità di coltivare “quattro piantine” per uso personale, mentre a Palazzo Madama il ddl gradito a Salvini punta all’opposto: “tolleranza zero” anche per lievi entità. Un regolamento stabilisce che “vince” la proposta fatta prima. Alla Camera la chiamano la disputa della Cannabis. Perché sul tema i due rami del Parlamento sono piuttosto agitati. Da un lato, quello di Montecitorio, c’è una proposta di legge che punta a depenalizzare la coltivazione domestica, col tetto di “4 piantine” per uso personale, non terapeutico. Dall’altro, a Palazzo Madama, a fine aprile è stato incardinato un ddl, graditissimo a Matteo Salvini che l’ha ribattezzato “Droga Zero”, che pretende l’opposto: pene più severe e via la “lieve entità” anche per la semplice detenzione di stupefacenti. Le due Camere insomma marciano in direzione ostinata e contraria, sullo stesso argomento. E in teoria non si potrebbe fare, dato che i regolamenti parlamentari lo dicono chiaro: non si può procedere all’esame di un progetto di legge che ha “un oggetto identico o strettamente connesso rispetto a quello di un progetto già presentato” nell’altro ramo del Palazzo (articolo 78 del regolamento di Montecitorio e numero 51 di quello di Palazzo Madama). L’unica via d’uscita, così dicono le norme interne di deputati e senatori, è che i vertici delle due Camere si scrivano e si mettano d’accordo. Ecco perché il presidente della Camera, Roberto Fico, ha spedito una lettera riservata alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati, per raggiungere le “possibili intese”. Nella missiva, che risale a due settimane fa, il grillino chiede in sostanza che sia data priorità alla proposta in discussione a Montecitorio per la depenalizzazione. Non perché Fico ne sposi il contenuto (anche se il suo partito sostiene la legge), ma perché, per prassi parlamentare, ha la precedenza il testo presentato prima. E la proposta al vaglio dei deputati è stata adottata come testo base in Commissione Giustizia a settembre 2021, su richiesta di Riccardo Magi di Più Europa e dalla 5 Stelle Caterina Licatini, che avevano presentato il progetto di legge addirittura nel 2019. La contro-proposta del Carroccio, primo firmatario il capogruppo Massimiliano Romeo, che estenderebbe le pene per la detenzione di lieve entità da un minimo di 3 anni a un massimo di 6 (contro i 6 mesi e 4 anni previsti oggi), è stata invece adottata dal Senato solo a fine aprile. L’intesa sull’asse Montecitorio-Palazzo Madama però non c’è, almeno per ora. Casellati, affaccendata su altri temi, vedi il ddl Concorrenza, non ha risposto al messaggio di Fico. E tra i deputati serpeggia qualche malumore. Il più crucciato, naturalmente, è il radicale Magi: “La nostra proposta dovrebbe arrivare in Aula a giugno, è già in calendario. Ma qualcuno vuole evitare qualsiasi intervento sul tema per via parlamentare, dopo che è stato impedito per via referendaria”. Pensare che a novembre, aggiunge Magi, la Conferenza nazionale sulle droghe, cioè il principale appuntamento istituzionale governativo che dovrebbe fornire indicazioni al Parlamento, “ha giudicato necessarie sul piano penale proprio le misure contenute nella nostra proposta”. A Montecitorio i lavori sono entrati nel vivo. Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia in quota M5S, fa di conto e spiega che sono stati già votati “23 dei 26 emendamenti all’articolo 1, che al comma C stabilisce il cuore del provvedimento”. Cioè che sono “consentite a persone maggiorenni la coltivazione e la detenzione esclusivamente per uso personale di non oltre quattro piante femmine di cannabis, idonee e finalizzate alla produzione di sostanza stupefacente, e del prodotto da esse ottenuto”. In settimana, aggiunge Perantoni, “proseguiremo i lavori”. Aspettando Casellati. Migranti. Solidarietà a processo: a Trapani la prima udienza preliminare contro la “Iuventa” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 maggio 2022 Si è tenuta presso il Tribunale di Trapani la prima udienza preliminare per decidere se Kathrin Schmidt, Dariush Beigui, Sascha Girke, Uli Tröder e altri 17 indagati dovranno essere processati per aver salvato vite umane. Se giudicati colpevoli i quattro, che erano a bordo della nave “Iuventa” tra il 2016 e il 2017, rischieranno fino a 20 anni di carcere per “favoreggiamento dell’ingresso illegale” in Italia. Fino all’agosto 2017, quando venne posta sotto sequestro, la “Iuventa” salvò la vita di oltre 14.000 persone che cercavano riparo in Europa proprio mentre l’Europa veniva meno al dovere di soccorrere. La tesi della pubblica accusa, secondo la quale le persone soccorse non erano in effettivo pericolo, è semplicemente assurda: si trovavano su imbarcazioni sovraffollate e insicure, in una zona di mare dove sono annegati in migliaia. Inoltre, l’inchiesta pare ignorare del tutto il principio del diritto marittimo internazionale per cui un natante è obbligato ad aiutare persone che si trovano in pericolo in mare. Infine, contrariamente a quanto sostiene la pubblica accusa, i soccorsi portati a termine dall’equipaggio della “Iuventa” non possono costituire traffico di esseri umani poiché questo, secondo la definizione condivisa del Protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, deve procurare un vantaggio economico o di altra natura al trafficante. Né la legge italiana né quella europea sul favoreggiamento dell’ingresso irregolare sono pienamente in linea con quella definizione. Persone che, per ragioni umanitarie, aiutano migranti e rifugiati lungo le frontiere possono andare incontro a procedimenti iniqui. Amnesty International chiede da anni una riforma delle norme europee e dei singoli stati membri, sul favoreggiamento dell’ingresso irregolare. Ce n’è, dunque per chiedere che tutto si concluda rapidamente con l’archiviazione: è semplicemente scandaloso che persone che soccorrono vite umane finiscano sul banco degli imputati in un’aula di tribunale ma ciò è esattamente quello che in Europa, Italia inclusa, negli ultimi anni è accaduto centinaia di volte. L’avverbio “rapidamente”, ieri, è apparso subito fuori luogo. Si andrà avanti probabilmente almeno fino al 5 luglio. Di rilevante, nella prima udienza, c’è stata la richiesta del pubblico ministero che le osservatrici di Amnesty International non fossero presenti in aula, poiché “non avrebbero portato un valore aggiunto”, quando è proprio un’osservazione del genere che porta il doppio “valore aggiunto” della solidarietà nei confronti degli accusati e della verifica della trasparenza di quanto accade in aula. Proprio a proposito di trasparenza, gli avvocati difensori hanno fatto notare che il materiale notificato agli imputati è incompleto e parziale, dato che è composto solo da una parte della traduzione degli atti rilevanti. Guerra in Ucraina. La via del grano è interrotta: chi nel mondo è a rischio fame di Michele Farina Corriere della Sera, 23 maggio 2022 La guerra ha acuito la crisi: raccolti in pericolo, il commercio usando le rotte via terra è impossibile. La guerra è una questione (anche) di calorie: le esportazioni agricole dall’Ucraina ne fornivano a sufficienza per tenere in vita 400 milioni di persone nel mondo, dall’Africa all’Asia passando per il Medio Oriente. Il ministro dell’Agricoltura Mykola Solskiy dice all’ Economist che, prima dell’invasione, Kiev esportava 5 milioni di tonnellate di grano al mese. E invece “ad aprile siamo riusciti a spedirne all’estero circa un milione”. La via del grano è interrotta. Il 98% dei cereali ucraini (106 milioni di tonnellate nel 2021, record storico), che in tempo di pace vengono raccolti nei 1.200 super silos d’acciaio alti 30 metri che punteggiano il Paese, devono passare per il grande terminal di Odessa, che normalmente impiega 100 mila persone. Con il blocco del porto (dove restano immagazzinate 20 milioni di tonnellate di prodotto), una sorgente essenziale per contrastare la crisi globale si è prosciugata. Ci mancava solo la guerra di Putin: già a inizio 2022 David Beasley, che guida il Programma Alimentare Mondiale (Pam), ricordava che le persone sul baratro della fame erano quasi raddoppiate negli ultimi 5 anni (da 108 a 193 milioni) per una catena di fattori pre-bellici: la pandemia, i costi dell’energia, i disastri legati al cambiamento climatico. Quest’anno, la previsione è comunque di raccolti ridotti un po’ dappertutto: negli Usa (meno 21% nelle Grandi Pianure rispetto al 2022), in Cina (per le inondazioni), in Europa (per la poca pioggia), in India (secondo produttore mondiale di grano dopo la Russia) per il gran caldo e la siccità che hanno indotto il governo di New Delhi nei giorni scorsi a fermare le esportazioni di quello che, per milioni e milioni di persone, resta la base dell’alimentazione quotidiana: il pane. Il furto dei silos - Sono 26 i Paesi che hanno adottato severe restrizioni all’export di prodotti agricoli (tagliando del 15% le calorie del commercio globale). Ci mancava l’invasione dell’Ucraina: il Pam, che sfama 115 milioni di esseri umani, l’anno scorso aveva comprato il 50% del suo grano dall’Ucraina. E adesso? Il suo capo, Beasley, dice che con la guerra in Europa e il blocco del Mar Nero ci sono 47 milioni di persone in più a rischio di acuta insicurezza alimentare. Con uno squilibrio che colpisce maggiormente i più poveri: nei Paesi avanzati si spende in media il 20% delle entrate per il cibo, in quelli in via di sviluppo il 25%; nell’Africa Sub-sahariana si arriva al 40%. L’arma dei girasoli - Secondo Mosca è colpa delle sanzioni occidentali. All’agricoltura russa non va malissimo. Se ai contadini ucraini, nella zona occupata di Kherson, gli invasori possono proibire di seminare girasoli sostenendo che colture così alte darebbero rifugio alla resistenza, almeno questa estate i raccolti per i coltivatori russi sono assicurati. E il mercato c’è: i Paesi che riceveranno più grano da Mosca saranno Egitto, Iran, Turchia, Siria. Il governo ucraino accusa gli avversari di aver requisito (rubato) 500 mila tonnellate di grano dai silos dei territori conquistati per alimentare dalla Crimea un traffico di derrate verso regimi amici (come quello di Damasco). Nel medio periodo, anche per l’agricoltura russa non saranno rose e fiori: l’anno scorso il Paese di Putin ha speso 870 milioni di euro in pesticidi e 410 milioni in sementi (per la maggior dall’Unione Europea). In ogni caso, il grano russo a livello mondiale non servirà a compensare il mancato arrivo di quello ucraino. La guerra delle calorie è anche una questione di millimetri. Non il calibro degli obici, ma la distanza fra i binari. Le ferrovie ucraine (eredi del sistema sovietico) sono a scartamento ridotto come quelle dei nemici: 1.524 millimetri contro i 1.435 della maggioranza dei Paesi europei. Per questo sarebbe ancora più difficile spostare tonnellate di grano via terra (da scaricare e ricaricare alla frontiera), aggirando il blocco dei porti. Senza contare che i russi bombardano i ponti dove passano (in senso opposto) armi e cereali. Negli ultimi dieci anni l’Ucraina, con la sua terra incredibilmente fertile, l’alta tecnologia (droni al posto degli spaventapasseri) e la manodopera a basso costo (300 euro al mese uno stipendio nelle campagne) aveva triplicato la produzione agricola, diventando un granaio per tanti Paesi del mondo, come il Sudafrica e persino l’Arabia Saudita, che con il suo fondo sovrano controlla 200 mila ettari di coltivazioni nel Paese dei girasoli. O per la Cina, che ha investito molto con i suoi giganti cerealicoli di Stato (come Cofco, 800 mila tonnellate di esportazioni dall’Ucraina). Neanche il blocco della “corrente del grano” suscita obiezioni alla guerra di Putin. Guerra in Ucraina. Emma Bonino: “Tregua alimentare subito, porti aperti o sarà carestia” di Luca Cifoni Il Messaggero, 23 maggio 2022 La senatrice: “La Tunisia è in difficoltà, attenzione alle ripercussioni per l’Italia”. Serve una tregua alimentare per scongiurare carestie e instabilità nei Paesi più vulnerabili. Emma Bonino si è occupata per buona parte della sua vita di emergenze planetarie. Oggi ha un quadro ben preciso della situazione in Ucraina e delle conseguenze che potrebbe avere in particolare sulle aree più povere del mondo. Dalla Fao all’Onu, l’allarme per una crisi alimentare globale è alto. Che possibilità ci sono che dalla consapevolezza si passi ad azioni concrete? “La consapevolezza ora c’è anche rispetto a questi gravi effetti collaterali della guerra di Putin. Siamo in una fase difficile per le grandi organizzazioni transnazionali, a partire dalle Nazioni Unite, che non riescono ad essere autorevoli e perciò non esercitano la autorità che servirebbe. È essenziale che si attivino anche i grandi Paesi e l’Ue e che vi siano strategie convergenti, evitando la logica dell’accaparramento. La priorità deve essere per i Paesi più vulnerabili ad una crisi alimentare”. L’Europa sta provando a sbloccare 20 milioni di tonnellate di grano e mais bloccate nei porti ucraini, ipotizzando rotte alternative che usino altri porti sul Mar Nero. È una buona idea? “La richiesta principale deve essere quella di una tregua umanitaria/alimentare. Sono certa che da parte ucraina ci sia la disponibilità, la risposta principale deve venire dalla Russia che attacca. Bisogna riaprire i porti dove sono stoccate riserve di cereali pronte a partire: per questo bisogna poi sminare un corridoio marino per le navi e garantirne una navigazione sicura. Se la Russia non accetterà, dobbiamo creare vie alternative, ferroviarie; non sarà semplice dal punto di vista logistico ma bisogna provarci”. L’emergenza sta già seminando instabilità in diversi Paesi. Si può ripetere uno scenario come quello che nel 2011 culminò nella primavera araba? “Io ho pensato subito alla stagione delle rivolte poi sfociate nelle primavere arabe, che suscitarono aspettative di democrazia poi tradite, originate proprio da un rincaro generalizzato del pane. Ue e Usa devono cercare una strategia comune per assicurare forniture di cereali prima di tutto dove più servono. Penso alla Tunisia, che vive una fase di crisi politica e la cui destabilizzazione avrebbe effetti diretti sull’Italia e l’Europa. La Tunisia è a poche miglia dalla Sicilia, oggi i flussi sono limitati ma se dovessero cominciare a partire i cittadini tunisini la situazione potrebbe diventare drammatica”. L’Europa paga a caro prezzo le scelte fatte negli anni scorsi in campo energetico. E i consumatori iniziano ad accorgersi degli aumenti agli scaffali del supermercato. Anche per la sicurezza alimentare c’è un problema di dipendenza dall’esterno? “Stiamo pagando tutti l’enormità della decisione di Putin di invadere l’Ucraina. Negli ultimi vent’anni si è scelto di aumentare le forniture energetiche dalla Russia fino a sviluppare una vera e propria dipendenza, sottovalutando colpevolmente i rischi di affidabilità politica di un regime che nel frattempo diventava dittatoriale. Il risveglio è stato brusco, ma stiamo reagendo e ce la faremo: dobbiamo evitare di far ricadere i costi sui più deboli. Sul piano alimentare siamo sempre stati fisiologicamente interconnessi con l’estero e penso torneremo ad esserlo. Dobbiamo elaborare strategie che consentano di affrontare altre crisi di approvvigionamento ampliando le produzioni europee quando necessario. Ho sempre criticato la politica agricola comune come distribuzione di sussidi che finivano in rendite o distorcevano i mercati, potrebbe trovare un ruolo in termini strategici e precauzionali”. La pandemia ha spinto l’Unione europea a unirsi, con il Next Generation Eu e gli acquisti comuni dei vaccini. L’invasione dell’Ucraina e la connessa emergenza energetica sembrano invece aprire nuove crepe. Cosa succederà ora? “L’Ue ha reagito brillantemente alla pandemia. Il Next Generation Eu ha rappresentato un salto di qualità straordinario per il bilancio europeo con il ricorso ad un debito comune su cui pochi avrebbero scommesso, anche se per ora una tantum. Anche sulle sanzioni alla Russia, sull’accoglienza dei rifugiati e sull’invio di armi alla resistenza ucraina la Ue ha reagito in modo forte, rapido e unitario. Ora con l’atteggiamento di Orban, il più amico di Putin tra i leader europei e buon amico dei sovranisti italiani, tornano purtroppo al pettine alcuni nodi istituzionali, a partire dal voto all’unanimità, cioè al diritto di veto, sulle decisioni di politica estera. Come +Europa chiedevamo la fine del diritto di veto e una politica estera e di sicurezza comune già nel nostro programma di cinque anni fa riprendendo decenni di lotte federaliste. Oggi sempre più leader europei sostengono che per avere il suo ruolo nel mondo per difendere e promuovere i valori e gli interessi dei cittadini europei servono alcune riforme sulla governance: è il momento di farle, raccogliendo le raccomandazioni della Conferenza sul futuro dell’Europa”. In questo contesto, quali sono (se ci sono) gli spazi di manovra per il governo italiano? “Partiamo dai fondamentali: Draghi si era impegnato per un governo europeista ed atlantista ed è stato coerente. Abbiamo riconquistato credibilità e affidabilità internazionali dopo tre anni di sbandamenti verso Putin e la Cina. Draghi è stato chiaro sul conflitto, continueremo a sostenere la resistenza di Zelensky contro l’aggressione della Russia di Putin, perché la pace non può arrivare dalla resa ucraina, e mi spiace per Salvini, Conte e Berlusconi che un giorno sì e l’altro pure vorrebbero smettere di sostenere Kiev per tornare ad essere accondiscendenti con Mosca. Solo questa posizione netta di Draghi che come +Europa ed Azione sosteniamo con grande convinzione, ci consente di essere credibili quando ipotizziamo e proponiamo a Ue e Usa la definizione di un percorso negoziale complessivo tra le due parti. Senza dimenticare, però, che questa guerra letteralmente criminale l’ha avviata Putin ed è lui che la può fare terminare anche domani”. Afghanistan. I talebani costringono le conduttrici TV ad andare in onda col burqa di Giulia Merlo Il Domani, 23 maggio 2022 L’ordine del burqa per le conduttrici aveva una data: adeguarsi entro il 21 maggio. Loro nei giorni scorsi hanno sfidato l’ordine dei talebani di nascondere il viso, oggi le giornaliste sono state costrette a indossare il burqa dopo le pressioni sulle loro emittenti. Se ne va un altro pezzo di libertà per le donne in Afghanistan. Per la prima volta, le conduttrici dei principali canali televisivi hanno dovuto andare in onda con il viso coperto dal burqa. Da quando sono tornati al potere, i talebani hanno ridotto fino quasi a cancellare i diritti delle donne e all’inizio del mese hanno emesso un ordine per il quale le donne devono coprirsi con il burqa tradizionale quando sono in pubblico, mentre prima bastava il foulard per i capelli. L’ordine del burqa per le conduttrici aveva una data: adeguarsi entro il 21 maggio. Loro nei giorni scorsi hanno sfidato l’ordine dei Talebani di nascondere il viso, oggi le giornaliste sono state costrette a indossare il burqa, lasciando visibili solo gli occhi, per presentare le notizie sulle emittenti TOLOnews, Ariana Television, Shamshad TV e 1TV. La presentatrice di TOLOnews, Sonia Niazi, ha detto che lei e le sue colelghe si sono opposte all’uso del velo integrale, ma “l’emittente ha subito pressioni, hanno detto che a qualsiasi presentatrice apparsa sullo schermo senza coprirsi il volto sarebbe stato dato un altro lavoro”. Mohammad Sadeq Akif Mohajir, portavoce del Ministero per la Promozione della Virtu’ e la Prevenzione del Vizio, ha negato che le autorità talebane vogliano costringere le presentatrici a lasciare il lavoro ma ha detto che “Siamo felici che i canali abbiano esercitato correttamente la loro responsabilità”.