“Le nostre storie di riscatto di reclusi nelle Rems” di Erika Antonelli L’Espresso, 22 maggio 2022 Una laurea, un tirocinio. E la speranza di un futuro. Andrea, 25 anni, nome di fantasia, soppesa ogni parola prima delle domande impegnative. Un silenzio lungo, poi risponde. “Come mi sento qua dentro? Sulle montagne russe. Appena esco vorrei costruire una mongolfiera”. Parla la sua “parte più sognatrice”, quella pratica invece gli suggerisce di trovarsi un lavoro e farsi una famiglia. Un passo alla volta, lentamente. Perché Andrea è uno dei 20 pazienti della Rems di Bra, in provincia di Cuneo, Piemonte. Le Rems sono strutture sanitarie in cui sono ricoverati gli autori di crimini gravi considerati pericolosi per la società. Nascono con l’obiettivo di curare la fase acuta della malattia e riabilitare il paziente attraverso un percorso di terapia e assistenza psicosociale. Che hanno portato Andrea, in attesa del processo per un fatto-reato commesso nel 2020, a riprendere gli studi. “Appena arrivato non ero molto convinto. Mi mancava solo la laurea, gli esami li avevo finiti. L’ho fatto per me stesso e per la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto. È stato il mio modo per restituirgli almeno in parte quel che mi ha dato”. Si è laureato in Scienze dell’informazione poche settimane fa, con una tesi sull’analisi del sentiment sui social media. Affiancato dall’educatrice e dalla psicologa, con la collaborazione della sua relatrice. La tesi scritta in struttura, ogni giorno dalle 13 alle 16, la fascia oraria in cui ai pazienti è consentito l’accesso a internet. “È stato impegnativo, qui dentro si vivono alti e bassi, il morale va giù anche per piccole cose. Ma nei momenti in cui ero più scoraggiato trovavo l’energia ricordandomi per chi lo stavo facendo. Non escludo di prendere anche la magistrale. Riguardando la mia storia, forse in psicologia”. L’inserimento nelle Rems, spiega Grazia Ala, psichiatra nella struttura dove Andrea è detenuto, “deve essere l’ultima ratio”. La scelta si prende qualora non ci siano misure alternative a gestire la situazione del paziente, ritenuto socialmente pericoloso e non imputabile perché parzialmente o totalmente incapace di intendere e di volere al compimento del fatto-reato. “I loro percorsi riabilitativi - prosegue Ala - devono favorirne il ritorno sul territorio. Nella stragrande maggioranza dei casi significa che l’uscita avviene in modo graduale e passa attraverso la permanenza in una comunità”. Non è un passaggio obbligato, una piccola parte dei pazienti fa rientro al domicilio, ma è un’opzione poco frequente perché sono spesso autori di reati contro i familiari. Medici e operatori lavorano per decostruire lo stigma che pesa sulla testa di ogni persona che hanno in cura. “Non dobbiamo mai stancarci di forzare i muri legati alla non conoscenza, al timore, al fatto che in queste situazioni si intersechino due topoi, quello del “cattivo” e del “folle”. I nostri pazienti sono gravemente malati e in una società civile hanno il diritto di essere assistiti”, dice la dottoressa Ala. Quei muri si forzano portando fuori le persone chiuse dentro, impegnandole in attività artistiche e teatrali. Andrea ha scoperto di amarle, “al teatro devo molto perché suscita emozioni e crea normalità”, racconta. Se non è impegnato con gli spettacoli, passa il pomeriggio a disegnare o leggere. Soprattutto poesie. Le ultime, quelle de “Il canto degli alberi” di Hermann Hesse. Anche Serghei, 26 anni, altro nome di fantasia, amante del calcetto e abile preparatore di tiramisù, ha scoperto di avere una vena artistica. L’ha unita a una sua vecchia passione, quella per i fiori, e così ha già pronta l’idea da realizzare per la mostra di luglio. “Porterò una pianta. Sarà al buio, coperta da un contenitore. In cima la scatola avrà dei piccoli fori da cui passa la luce, uno per ogni sensazione di libertà. Quella pianta sono io e metterò un foro per ogni cosa che mi piace fare. Uno per le attività, uno per le uscite, un altro per il lavoro”. Da pochi giorni Serghei, in struttura da sette anni, ha infatti iniziato un tirocinio retribuito in un’azienda che produce vini. Lavora tutte le mattine, impegnato in attività di magazzino e a etichettare bottiglie. “Per il futuro nessun programma preciso, solo il bisogno di dare sempre il meglio sul posto di lavoro. Mi piacerebbe rimanere nell’azienda in cui sono adesso e guadagnare per avere la mia indipendenza economica”. La Rems di Bra esiste dal 2015. “Le iniziative che organizziamo ci permettono di far capire ai cittadini che non siamo un problema per la loro sicurezza. I primi mesi avevano paura, il malato di mente autore di reato rappresenta la massima espressione di pericolo. Poi le cose sono migliorate”, dice Luca Patria, psichiatra e collega della dottoressa Ala. Che aggiunge: “Le persone che arrivano qui hanno un enorme carico di dolore e lo portano con sé fin da piccolissime, quando dovevano essere protette. La causa della malattia non è tutta lì. Ma in quella condizione, spesso unita alla miseria materiale e morale, si rischia di rimanere impigliati se non si è biologicamente preparati a lasciarsela alle spalle in cerca del riscatto”. Ed è da quelle catene che Andrea e Serghei stanno provando a liberarsi. Un passo alla volta, lentamente. Morte in carcere. Parole, silenzi e umanità di Francesco Clementi Corriere dell’Alto Adige, 22 maggio 2022 “Vi prego, evitate certi commenti: è un’altra giovane vita che se ne va”. Nonostante il cuore gonfio di dolore, Carlo Zanella è riuscito a trovare le parole giuste. Lui è il padre di Maxim, il giovane ucciso lo scorso anno, per motivi che resteranno inspiegabili, da Oskar Kozlowski. Quando quest’ultimo ha posto fine ai suoi tormenti in una cella del carcere di via Dante (dove era recluso in attesa che iniziasse il processo a suo carico) si è scatenata inesorabilmente la canea dei social. “Ammazzarsi era il minimo che potesse fare, spero abbia sofferto”: questo il tenore di diversi commenti online. Una spirale di rancore che lo stesso Zanella ha provato a fermare con parole semplici, ma piene di pietas e dignità. Una “storia sbagliata”, per tante ragioni, quella che si è portata via nel giro di un anno due giovani vite. L’errore di un’amicizia concessa forse con troppa generosità da Maxim a un ragazzo divorato dai suoi demoni interiori. Ma anche la vergogna di una struttura carceraria ormai cadente dove - nonostante l’impegno encomiabile di guardie e volontari perennemente sotto organico - non si riesce a garantire quella incolumità dei detenuti sacra come il principio del “nessuno tocchi Caino”. Fino al silenzio delle fonti istituzionali che non hanno ritenuto degna di diffusione la notizia (appresa solo da canali confidenziali) della morte in carcere di un 23enne reo confesso di omicidio. Relazioni affettive dei detenuti, stanziati 28 milioni di euro di Davide Giancristofaro Alberti ilsussidiario.net, 22 maggio 2022 Questa somma sarà destinata alla costruzione di prefabbricati, casette simili a quelle per i terremotati, all’interno di una Casa circondariale di ogni Regione, o in alternativa, per ristrutturare fabbricati già esistenti, trasformandoli in mini appartamenti. In totale saranno realizzate venti “casette dell’amore” entro la fine dell’anno, con l’obiettivo di ospitare i detenuti che non possono quindi godere di permessi premio. A loro sarà concesso una permanenza nelle casette fino a 24 ore consecutive, una volta al mese, di modo da poter aver rapporti sessuali con la propria moglie, la fidanzata, o l’amante. Nel modulo abitativo potranno esservi in contemporanea tre detenuti con la propria o il proprio partner, e per il 2022 sono stati stanziati 3.6 milioni di euro a cui si aggiungeranno altri 24.7 milioni in un biennio per pagare un totale di 100 casette nuove, e nel contempo ristrutturare 90 fabbricati esistenti in tutte le 190 carceri italiane. Attraverso la relazione tecnica il governo scrive che “nell’ambito del panorama italiano lo strumento attraverso il quale meglio si realizza la soddisfazione dei bisogni affettivi e sessuali del detenuto e attualmente ancora quello del permesso premio, di cui all’art. 30 ter O.P., che la legge prevede anche al fine di coltivare interessi affettivi. Tale beneficio, tuttavia, non costituisce una soluzione al problema, non essendo fruibile dalla generalità dei detenuti: esso infatti e riservato ai soli condannati che si trovino nelle condizioni descritte dalla legge”. Il testo ha quindi il fine di “garantire l’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità dei soggetti in stato di detenzione conformandosi agli indirizzi europei richiamati (…) indirizzi che trovano nel dettato costituzionale riconoscimento e forza nel riferimento al diritto alla salute e al suo mantenimento garantito dall’articolo 32 della Costituzione, considerando che la salute psico-fisica viene compromessa da forzati e prolungati periodi di astinenza sessuale”. Referendum: tutto quello che è utile sapere sul voto del 12 giugno di Simone Alliva L’Espresso, 22 maggio 2022 Una guida puntuale e due pareri: Caiazza (Ucpi): “Temi importanti. Da approvare”. Santalucia (Anm): “Non aiutano le riforme”. Calma piatta, tensione zero, interesse per la materia: pochissimo. Si avvicina il 12 giugno ma le urne sui cinque quesiti del referendum sulla giustizia non riescono a catturare l’attenzione degli italiani. Soltanto un elettore su quattro è informato, ci dice un sondaggio Swg. Proviamo dunque a tracciare una guida puntuale. Cosa sono i referendum per la Giustizia? Gli italiani dovranno rispondere a cinque quesiti promossi dal Partito radicale, che hanno trovato fin dall’inizio il consenso del leader della Lega Matteo Salvini. Si va dall’abolizione delle firme per le candidature dei togati al Csm alla valutazione sulla professionalità degli stessi, dalla separazione delle carriere tra giudici e pm alla limitazione della carcerazione preventiva, fino alla legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza degli eletti condannati. Quando si vota? È previsto un quorum? Si voterà domenica 12 giugno, stesso giorno delle elezioni amministrative che si terranno per rinnovare i sindaci e i consigli comunali di 970 comuni, tra cui 21 capoluoghi di provincia e quattro capoluoghi di regione: Catanzaro, Genova, L’Aquila e Palermo. Per la validità della consultazione referendaria è necessario però che si rechino alle urne metà degli aventi diritti al voto più uno. I quesiti: La separazione delle funzioni dei magistrati - Oggi, pm e giudici condividono la stessa carriera e si distinguono solo per funzioni. Il referendum, invece, punta a rendere definitiva la scelta, all’inizio della carriera, di una o dell’altra funzione. Divieto di candidarsi (“Legge Severino”) - Il quesito punta a cancellare la legge Severino, che ha introdotto decadenza e incandidabilità dei condannati in via definitiva per reati gravi contro la Pubblica Amministrazione, fissando inoltre un regime rigoroso per eletti e amministratori locali, non eleggibili o decaduti se condannati in primo grado. Con la vittoria dei sì, tornerebbe in vigore la legge precedente, che prevede l’interdizione dei pubblici uffici come pena accessoria decisa dal giudice. Limitazione delle misure cautelari - Il referendum sulla limitazione delle misure cautelari punta a limitare i casi in cui è possibile disporre la custodia cautelare, cioè la detenzione degli indagati o impuntati prima della sentenza definitiva. Con la vittoria dei sì, i presupposti che consentono di arrestare qualcuno (prima che sia riconosciuto colpevole) vengono ristretti ai casi di pericolo di fuga, inquinamento delle prove e rischio di commettere reati di particolare gravità, con armi o altri mezzi violenti. La custodia cautelare non sarà confermata per il reato di finanziamento pubblico dei partiti. Le liste dei candidati al Consiglio Superiore della Magistratura - Il quesito riguarda le norme che regolano l’elezione della componente togata nel Csm: se vincessero i sì, sparirebbe l’obbligo di 25 firme di magistrati per proporre una candidatura. Secondo i promotori questo limiterebbe il peso delle correnti nel Consiglio Superiore. Le pagelle degli avvocati ai magistrati - Con un intervento abrogativo di una legge del 2006, all’interno del Consiglio direttivo della Cassazione e dei Consigli giudiziari regionali, gli avvocati potrebbero valutare la professionalità di pm e giudici. Possono impattare questi referendum sulla riforma dell’ordinamento giudiziario? In parte. Se il testo licenziato alla Camera fosse approvato senza modifica dal Senato, su tre di questi cinque quesiti si voterebbe, l’incognita resta sul sistema elettorale del Csm e sulla separazione fra giudici e pm. Il primo perché anche la riforma Cartabia non prevede la raccolta firme: si introducono candidature individuali e un sistema misto proporzionale maggioritario. Il secondo, cioè sulla separazione fra giudici e pm, invece riduce i passaggi: se oggi sono ammessi quattro passaggi tra funzione giudicante e requirente nel corso della carriera, con la riforma Cartabia si riducono a uno. Mentre se vincessero i sì al referendum ogni spostamento sarebbe del tutto escluso. Il parere a favore “Non si può vivere ogni volta qualunque tipo di riforma dell’ordinamento giudiziario come un attacco alla magistratura. È inaccettabile”, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, non ci sta a far passare questo referendum come un semplice voto pro-contro la magistratura italiana. “Dentro ci sono temi importanti e altri molto tenui. Anche se questa non è un’iniziativa sollecitata da Camere Penali, voteremo Sì ai quesiti. Tra quelli importanti il tema dell’abuso della custodia cautelare che va affrontato, sarebbe importante che l’opinione pubblica dia un segnale. Ed è incredibile la reazione della magistratura al fascicolo delle performance dei togati. C’è una circolare del CSM del 2007 che impone anche la valutazione degli esiti dei procedimenti penali, non c’è niente di nuovo. È una valutazione comunque in sede di autogoverno. Poi certo la Corte Costituzionale ha fatto fuori quelli più popolari: eutanasia, droga e poi per la giustizia la responsabilità del magistrato. Temi che avrebbe portato sicuramente più gente al voto” Il parere contrario “Questi sono referendum che non aiutano le riforme” con rigore il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, boccia tutti i quesiti che riguardano la magistratura. “Pensiamo alle pagelle per le toghe: noi non siamo contrari alle valutazioni, siamo uno dei corpi professionali più valutati. Ma la valutazione deve rispettare la professionalità, non sollecitare sentimenti di competizione”. Bocciato anche il referendum sulla separazione delle funzioni: “Non si può cancellare il passaggio nel corso dell’attività lavorativa dalla funzione di giudice a quella di pm perché questo arricchisce il bagaglio di esperienze”. E se bolla come “scarso” il referendum sulla raccolta firme, il presidente di Anm definisce “Irragionevole” l’abolizione della legge Severino: “è il primo grande intervento di prevenzione della corruzione”. Da difendere anche il reato di custodia cautelare “Va applicato anche quando c’è un pericolo di reiterazione di delitti anche se non commessi con violenza o minaccia o armi, pensiamo ai colletti bianchi”. Giustizia, la Ue promuove le Riforme. Italia 4° per numero avvocati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2022 Bruxelles promuove il percorso delle riforme della Giustizia portato avanti in questi mesi da Governo e Parlamento. “Abbiamo un giudizio molto positivo - ha affermato il commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders. Ora monitoreremo che, effettivamente, vengano realizzati gli obiettivi”. L’occasione è stata la presentazione dell’Eu Justice Scoreboard 2022 , il quadro di valutazione europeo della giustizia nei Paesi membri che presenta diverse note dolenti per l’Italia. Reynders che ha ricordato di aver avuto “molti scambi con la ministra Marta Cartabia nel corso dell’anno” ha apprezzato in particolare gli sforzi fatti per la “digitalizzazione, la lotta al pregresso e la riduzione dei tempi dei processi” ricordando il “ruolo essenziale” delle riforme per il Recovery Plan italiano. Mentre, ha proseguito, le evidenze statistiche delle riforme si avranno nel prossimo Scoreboard, visto che l’attuale rapporto prende in esame i dati relativi al 2020, influenzati dagli effetti del Coronavirus. “Il Rapporto - ha aggiunto Reynders - ci aiuta a identificare le opportunità di miglioramento e ad affrontare i rischi per i nostri sistemi giudiziari: dati oggettivi e di alta qualità sono una base fondamentale per gli sforzi volti a sostenere lo stato di diritto e l’indipendenza della magistratura”. Scorrendo dati e tabelle contenuti nelle 60 pagine del rapporto balza agli occhi l’effetto del Covid sui tempi della giustizia. Nel 2020, nel civile, ci volevano quasi 700 giorni per arrivare a sentenza, rispetto ai 540 del 2018-2019 e dei quasi 600 del 2012. Segnando dunque pesanti passi indietro nella lenta marcia verso un miglioramento che vede l’Italia “fanalino di coda” in questo segmento. Peggio di noi, escludendo il 2020, fa solo la Grecia. A conferma dell’impatto del Covid, anche la Francia, di norma più veloce dell’Italia, nel 2020 presenta ritardi analoghi. Per il secondo grado, rispetto al 2019, l’Italia fa registrare un aumento della durata stimata (“disposition time”) dei procedimenti di contenzioso civile e commerciale (“civil and commercial litigious cases”), che passa dai 791 gg del 2019 ai 1026 del 2020 (+30%). Anche il non contenzioso (“non litigious cases”) fa registrare un aumento del disposition time pari al 29%, la durata stimata passa infatti da 232 nel 2019 a 298 nel 2020. In totale si osserva un aumento pari al 29%. Secondo il rapporto però dai flussi emerge con evidenza che, sia in primo che in secondo grado gli aumenti del DT sono da attribuire alla riduzione delle definizioni, il denominatore dell’indicatore, e non all’aumento delle pendenze che anzi si sono ridotte rispetto al 2019 (-2% in primo grado e -4% in secondo grado). Gli aumenti osservati dunque dovrebbero avere natura temporanea ed essere riassorbiti una volta che l’attività giudiziaria si riporta sui livelli ordinari. Una conferma di ciò viene dai dati relativi al 2021 elaborati ai fini del monitoraggio continuo a fini PNRR. Bilancio positivo per il rapporto tra procedimenti definiti e procedimenti iscritti in un dato anno. L’Italia si conferma tra i Paesi con un elevato clearance rate che anche nel 2020 è stato superiore al 100%. Ciò significa che nell’anno sono stati definiti più procedimenti di quelli iscritti e pertanto si è avuta una erosione delle pendenze. Nella classifica EU l’Italia si colloca al terzo posto per valori del CR con riferimento ai procedimenti civili contenziosi in primo grado. Ma sono molti i grafici interessanti. Guardando per esempio agli avvocati per numero di abitanti, scopriamo che l’Italia ne ha 400 ogni 100mila abitanti, un soffio in meno della Grecia. Più di noi ne hanno anche Lussemburgo e Cipro che sfiorano i 500 legali sempre ogni 100mila abitanti. Ma guardando paesi più affini al nostro, vediamo che la Spagna si ferma a 300 per 100mila abitanti, la Germania a 200 mentre la Francia ne ha 100. Il tempo stimato per tutti e tre i gradi di giudizio nel 2020, segna la debacle dell’Italia con 1.500 giorni, un primato in negativo che stacca tutti. A lunga distanza si piazza la Spagna, che è seconda, con poco più di 800 giorni. Sotto gli 800 giorni troviamo la Francia mentre in Germania ne bastano 200. Siamo abbondantemente i primi anche per cause pendenti civili e commerciali, con 5,5 pendenze ogni 100 abitanti, mentre in Finlandia siamo intorno allo 0,2 e in Svezia 0,5. Il flop del concorso in magistratura, agli esami scritti passa solo il 5,7 per cento di Liana Milella La Repubblica, 22 maggio 2022 “Errori di diritto e di grammatica, ma anche candidati che non sanno andare a capo” dice il commissario d’esame Luca Poniz, pm a Milano. Il vice presidente del Csm David Ermini, “mancano 1.300 giudici, siamo nettamente sotto la media europea”. Con la riforma del Csm saltano le scuole di specializzazione, dall’università si può andare alle prove. “Errori marchiani di concetto, di diritto, di grammatica” dice Luca Poniz, il pm di Milano che fa parte della commissione che ha corretto i compiti scritti degli aspiranti magistrati. Erano 3.797 - un anno fa - gli aspiranti a diventare pubblici ministeri o giudici. Hanno affrontato il concorso per 310 posti. Partendo come sempre dalle prove scritte. Ma all’orale ne arriveranno soltanto 220. Un misero 5,7 per cento. Che, se dovesse superare l’orale, comunque lascerebbe scoperti solo una novantina dei 310 posti oggetto del bando che era stato lanciato dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, ma che era via via slittato a causa del Covid. Come documenta Gnews, il giornale online del ministero della Giustizia, si tratta di un risultato decisamente deludente. Severissimo il commento di Poniz, notissima toga della sinistra di Area, ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che ha fatto parte della commissione giudicatrice composta da una trentina di esperti, e che commenta così, con all’agenzia Ansa, il risultato: “Trovare candidati del concorso in magistratura che non sanno andare a capo è un problema molto serio, io l’ho imparato in terza elementare...”. Un giudizio drastico sui lavori presentati dai candidati. E dei quali Poniz appare realmente sorpreso: “Abbiamo riscontrato una grande povertà argomentativa e una povertà linguistica. Molto spesso i temi ricalcavano schemi pre-confezionati, senza una grande capacità di ragionamento, una scarsa originalità, poca consequenzialità, e in alcuni casi errori marchiani di concetto, di diritto, di grammatica”. Dunque una netta stroncatura che ha portato alla falcidie degli stessi candidati già nella fase orale. Una tendenza che però non deve sorprendere perché già nel 2008, quando era stato bandito un altro mega concorso da 500 posti, alla fine era stata coperta solo la metà dei posti. Una delusione per la ministra della Giustizia Marta Cartabia che, nel frattempo, a dicembre, ha bandito un nuovo concorso per 500 posti, quando già filtravano dalla commissione d’esame del concorso precedente, le prime cattive notizie sulle prove scritte decisamente sotto tono, se non addirittura pessime. Un numero, quello di 500 posti, giudicato subito “troppo ampio” da molti componenti del Csm, dove si sospettava già fortemente un flop del concorso precedente. Ecco cosa diceva il vice presidente del Csm David Ermini: “Attualmente il numero dei posti scoperti nella pianta organica dei magistrati ordinari raggiunge le 1.300 unità. I bandi vanno deserti. Per troppi anni si è investito poco e male sulla giustizia. Il personale a disposizione degli uffici giudiziari continua a essere decisamente inferiore rispetto alla media degli altri Paesi dell’Unione europea”. Ma proprio la penuria di magistrati ha spinto la Guardasigilli Cartabia ad abbreviare la dinamica del concorso. Nella riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che il 27 aprile è stata approvata alla Camera e che è in lista di attesa per il voto finale al Senato in programma per il 14 giugno, è prevista una novità. Si potrà accedere al concorso pubblico per entrare in magistratura direttamente dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, valorizzando i tirocini formativi. Scompare così l’obbligo di frequentare le scuole di specializzazione, finite peraltro nel mirino delle critiche dopo il caso Bellomo, l’ex consigliere di Stato che impone un dress code se I alle sue studentesse. Ma proprio dopo l’esito disastroso delle prove del concorso toccherà alle università discutere il tema della qualità effettiva del corso di laurea in legge e della capacità degli studenti di affrontare in concreto la professione. Dice in proposito Gian Luigi Gatta, direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università statale di Milano, direttore della rivista giuridica Sistema penale, e consigliere della ministra Cartabia in via Arenula: “L’università dovrebbe riflette sulle ragioni delle bocciature dei candidati alle prove scritte, e questo vuol dire che bisogna lavorare sulla capacità di scrittura. Il buon giurista non solo deve saper argomentare, ma deve anche saper scrivere, perché sia l’avvocato soprattutto civilista, sia il penalista devono saper scrivere atti e memorie, e anche il cuore del lavoro del magistrato è scrivere ordinanze e sentenze. Quindi, durante gli studi universitari, dovrebbe essere messo alla prova. Invece, soprattutto per i grandi numeri di chi frequenta, non ci sono occasioni per esercitarsi con la scrittura”. Si rischia di normalizzare il pericolo mafioso di Luigi Ciotti Il Manifesto, 22 maggio 2022 A 30 anni da Capaci, tragica fine delle vite di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, il rischio maggiore è quello di una normalizzazione del pericolo mafioso. Rischio di pensare che una mafia meno cruenta non rappresenti più un pericolo mentre è vero il contrario: le mafie attuali organizzate come imprese - a cominciare dalla ‘ndrangheta, la più potente di tutte - realtà insediate nel tessuto economico e capaci di arricchirsi nell’ombra, sono più forti di quando imponevano il loro potere con le armi e le cariche di tritolo. Mafie che - facendo leva sul disinteresse, la sottovalutazione o la miopia di tanti - continuano ad attingere enormi profitti da “mercati” tradizionali come quello del traffico di droghe o da relativamente nuovi come quello del gioco d’azzardo. Mafie infine che hanno ormai assunto una dimensione internazionale, come anche Papa Francesco ha recentemente denunciato con forza: ci troviamo ormai di fronte a una globalizzazione mafiosa, una convergenza tra il sistema economico del cosiddetto “libero mercato” e quello delle organizzazioni criminali. Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone e i martiri di Capaci significa ripensare la lotta alle mafie e ripensare anche il concetto di legalità. Non c’è legalità senza giustizia sociale. Se mancano i diritti sociali fondamentali - il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria - la legalità rischia di diventare un principio di esclusione e discriminazione, come abbiamo visto in questi anni nel malgoverno del fenomeno dell’immigrazione, dove certe norme non hanno differito per impronta e spirito da quelle razziali fasciste. Mai si è parlato tanto di legalità come in questi ultimi 30 anni e mai come oggi abbiamo una democrazia debole, pallida e diseguale, come la pandemia ha impietosamente evidenziato. Dimostrazione che della parola legalità è stato fatto un abuso retorico, per certi versi “sedativo”. Molti dicono “legalità” per mettersi la coscienza in pace, per sentirsi dalla parte giusta, si esibisce la legalità come una credenziale per poi usarla come lasciapassare, foglia di fico anche di misfatti e porcherie. Ecco allora che l’espressione “educazione alla legalità” - senza nulla togliere all’ammirevole impegno di tanti insegnanti - va sostituita con “educazione alla responsabilità”. È la responsabilità, infatti, l’architrave di ogni processo educativo e culturale, perché responsabilità vuol dire imparare ad essere liberi con gli altri e per gli altri, non contro di loro. Una società non responsabile, dove prevale l’interesse individuale, proprietario, esclusivo - all’occorrenza ladro o parassita del bene comune - sarà sempre una società mafiosa nell’anima, una società intrinsecamente violenta come lo sono oggi le mafie, che magari uccidono di meno ma rendono tante persone vive morte in speranza e dignità, persone prive di diritti e di futuro. Giovanni Falcone sapeva bene che la legalità è un mezzo e non un fine perché - come Paolo Borsellino, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Rosario Livatino e tutti i magistrati e uomini delle istituzioni (vedi Carlo Alberto dalla Chiesa) e anche dei partiti (vedi Pio La Torre e Piersanti Mattarella) che hanno servito la democrazia lottando contro poteri criminali ma anche corrotti o ingiusti - Giovanni Falcone aveva come orizzonte la giustizia, cioè la libertà e la dignità di ogni essere umano. Questa è l’eredità che ci ha lasciato. Un’eredità etica, onerosa, che solo in parte il nostro Paese si è assunto. A fronte dei tanti passi in avanti compiuti nel contrasto alle organizzazioni criminali - Palermo ad esempio è una città profondamente cambiata e in parte bonificata dalla presenza mafiosa - o nella dotazione di strumenti legislativi di cruciale importanza come la legge sulla confisca dei beni mafiosi e il loro riutilizzo sociale, certi nodi non sono stati risolti e oggi vengono dolorosamente al pettine. Penso alla corruzione, terreno fertile per la diffusione del male mafioso e oggi metodo che le mafie stesse hanno adottato per arricchirsi nell’ombra e in silenzio, senza destare allarme sociale, usando i soldi per fare i soldi, costruendo con la forza del denaro complicità e collusioni a vari livelli. Allora ha profondamente ragione Rosy Bindi quando dice che Tangentopoli è stata un’occasione mancata perché, al di là dello sforzo di chi già allora denunciava il pericolo, la questione morale non è diventata una questione politica, un’occasione per ridare alla politica la sua dimensione etica di servizio disinteressato per il bene comune. Ma una politica che non sappia sposare in toto l’intransigenza etica della Costituzione non è solo una politica di malgoverno, è anche una politica esposta alla corruzione e all’infiltrazione mafiosa. Ecco allora che non possiamo ricordare Falcone solo nella ricorrenza di Capaci: dobbiamo fare della sua memoria il nostro impegno a interrogarci, essere onesti, avere il coraggio di fare scelte scomode, di rifiutare i compromessi. E poi, come società non solo “civile” ma responsabile, partecipare e contribuire al bene comune, cioè essere cittadini fino in fondo, come ci chiede la Costituzione. Falcone ci ha insegnato che il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi guarda e lascia fare. Ci ha insegnato che la legalità è un fatto di civiltà e giustizia sociale. Ci ha insegnato che bisogna vivere, non lasciarsi vivere. C’è chi ha raccolto questa eredità: un’Italia che ha preso coscienza, che non pensa più che le mafie siano solo un problema del Sud e che combatterle sia solo un compito dei magistrati e delle forze di polizia. Un’Italia spiritualmente e anagraficamente giovane: un recente sondaggio sulla percezione di mafie e corruzione condotto dall’istituto Demos di Ilvo Diamanti ha evidenziato che la “domanda di partecipazione” riguarda soprattutto le fasce d’età 18/24 e 45/54, cioè i giovani attuali e quelli che lo erano al tempo delle stragi di mafia. Un’Italia poi trasversale, fatta di realtà laiche e di Chiesa, con riferimenti culturali e politici diversi, ma unite dal comune orizzonte dell’impegno per la giustizia sociale. A fronte di quest’Italia, però, ci sono ancora Italie che si nascondono complici o silenti. C’è ancora troppa indifferenza, troppo egoismo, troppa delega. C’è un’antimafia a volte di facciata: “antimafia” è una parola che avrebbe bisogno di una quarantena prolungata, di una pausa di ripensamento e bonifica. Troppi hanno trasformato l’antimafia, che è questione innanzitutto etica, in esercizio puramente retorico se non titolo da esibire e fasullo certificato di garanzia. Ecco allora che questo trentesimo anniversario deve segnare un punto di svolta, un impegno più grande e consapevole. Non occorrono “eroismi”: occorre umiltà, tenacia, passione per il bene comune e capacità di leggere la realtà con sguardo profondo e di ascoltare le sue spesso mute grida di sofferenza con “l’orecchio del cuore”, come c’invita a fare Papa Francesco. Occorre nondimeno un impegno composito, multiforme, che intrecci i mondi della scuola, dello sport, della cultura, arte e anche dell’economia, frutto di uno sguardo non più solo specialistico ma meticcio, transdisciplinare, consapevole del profondo legame tra “Bene” e Bello”, etica ed estetica, forma e contenuto. Occorre infine il coraggio più difficile ma più necessario: quello di rispondere ogni giorno alla propria coscienza. Quella notte Santino Di Matteo mi raccontò la strage di Capaci di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 22 maggio 2022 La prima rivelazione sulla morte di Giovanni Falcone nelle parole di uno degli autori materiali. La mafia gli ucciderà il figlio di 13 anni, sciogliendolo nell’acido. Trent’anni fa, il 23 settembre 1992, la mafia più feroce e organizzata di allora, Cosa nostra, realizzava a Capaci l’attentatuni (così nel gergo dei criminali), massacrando Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, insieme ai poliziotti di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. All’attentatuni si ricollega l’esperienza forse più forte e intensa dei quasi sette anni che ho trascorso a Palermo come procuratore capo, nominato dal CSM su domanda che avevo presentato subito dopo le stragi del 1992. Mi riferisco all’interrogatorio di Santino Di Matteo, un mafioso arrestato per gravi delitti (anche omicidi) commessi nel territorio di competenza delle Procura di Palermo. Un paio di volte Di Matteo mi fa sapere che vorrebbe essere sentito (mia la firma, come procuratore capo, in calce al suo ordine di cattura). Ci vado tutte e due le volte, ma in pratica non succede nulla. Anzi, dentro di me penso: se questo mi richiama una terza volta non ci vado proprio. Addirittura c’è chi mi raccomanda prudenza, ipotizzando che tutte quelle chiamate “a vuoto” siano solo espedienti per vedere se davvero mi muovevo e magari preparare qualcosa. Ma poi, un giorno che sono a Venezia, gli uomini della Dia mi fanno di nuovo sapere che Di Matteo mi vuole vedere. Viene organizzato un rocambolesco e precipitoso viaggio e nel cuore della notte mi trovo di fronte a lui per interrogarlo. Credevo che mi avrebbe parlato degli omicidi commessi con la sua cosca. In effetti comincia confessando di essere stato “combinato” in Cosa nostra circa quindici anni prima, assumendo in seguito ruoli di rilievo nell’organizzazione e commettendo i delitti contestatigli nell’ordine di cattura che teneva in mano. Ma subito aggiunge che di questi fatti parlerà poi, perché, dice, “Voglio parlare fin da subito di un fatto più grave... Capaci”. È in assoluto la prima volta che qualcuno lo fa. Fino alle ore 04,10 del giorno 24 ottobre 1993 mi racconta per filo e per segno la strage di Capaci. Può farlo perché, confessa, lui era presente ed è stato uno degli esecutori materiali... Provo un insieme di sensazioni che non avevo mai avvertito: da un lato l’orrore e l’emozione incontenibile per la rievocazione di un fatto tanto tragico e coinvolgente; dall’ altro la soddisfazione professionale per essere il primo a raccogliere la confessione di un episodio così influente sulla storia del nostro Paese. Avverto in sostanza che il sacrificio di Falcone (che era ed è presente nel cuore di tutti) cominciava a trovare risposte anche in atti concreti di giustizia. Assieme, lo ammetto, a qualche dubbio. C’è un particolare che quella notte non mi convince troppo. Di Matteo ha verbalizzato che, per far passare l’esplosivo sotto l’autostrada dove sarebbe transitato Falcone, i mafiosi avevano utilizzato, attraverso una canalina sotterranea, una specie di skateboard. Più per suggestione che per logica, la storia di un semplice strumento di gioco, destinato a portare divertimento, non morte, mi sembrava incompatibile con la feroce spietatezza di Cosa nostra. Anche questo particolare, invece, risulterà esatto e riscontrato dai colleghi di Caltanissetta (competenti per la strage) cui avevo subito trasmesso il verbale. Purtroppo questo momento così determinante sarebbe stato terribilmente avvelenato dall’assassinio del figlio di Santino Di Matteo, il piccolo Giuseppe, tredici anni: sequestrato da Cosa nostra, tenuto prigioniero per 779 giorni, picchiato, torturato e alla fine strangolato e sciolto nell’acido, di modo che la madre non potesse neanche portare un fiore o dire una preghiera sulla sua tomba. E tutto questo sol perché Giuseppe era figlio di suo padre, il pentito, il collaboratore di giustizia, che per primo aveva reso dichiarazioni spontanee, decisive per ricostruire il segreto dei segreti di Cosa nostra, la strage di Capaci. Una rappresaglia di stampo nazista, altro che “uomini d’onore”. Una tragedia che ancora oggi ricordo con grande tormento. L’omertà è nello Stato, questa è una certezza di Fiammetta Borsellino L’Espresso, 22 maggio 2022 È accettabile che i mafiosi si trincerino dietro i “non ricordo”. Ma è inaccettabile il silenzio di pezzi delle istituzioni. No che non mi sentirò appagata dall’esito dei processi sulla morte di mio padre e, soprattutto, su quel che è successo dopo: il più grande depistaggio della storia, come è stato definito. E so che tanta parte dell’opinione pubblica la pensa esattamente come me. Nonostante l’encomiabile sforzo di pochi, pochissimi, magistrati come Stefano Luciani e Gabriele Paci, la verità giudiziaria non potrà dare conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto. Più mi addentro in questa melma e più il marcio risulta evidente. So però che anche questa è una verità, patrimonio ormai di tutti. O quasi. È accettabile, fa parte della loro natura, che i mafiosi si trincerino dietro i “non ricordo”. Ho incontrato i Graviano, loro negano perfino la loro stessa esistenza, negano l’evidenza. I mafiosi preferiscono morire in galera anziché parlare. È inaccettabile però constatare il silenzio di pezzi dello Stato. I “non ricordo” di magistrati e poliziotti. L’ostinata negazione delle loro omissioni e delle loro manipolazioni. Per queste, non solo non hanno pagato ma, al contrario, sono stati premiati con riconoscimenti di carriera. Sono tutti giunti all’apice dei loro uffici. E anche questa è una verità che ci viene spiattellata davanti con violenta evidenza. Nessuno può veramente credere che solo un manipolo di poliziotti abbia depistato le indagini sulla strage senza avalli e coperture da parte di chi ha orchestrato tutto. Senza connivenze di poteri istituzionali e della magistratura. Perché in definitiva è per questa gente che mio padre è morto. Sono le stesse persone, gli stessi settori delle istituzioni che hanno ostacolato, isolato e mandato a morire un uomo che aveva una incrollabile fede nello Stato. Per questo, anche nell’amarezza, non resta che andare avanti, facendo tesoro di quanto abbiamo capito fin qui. La nostra consapevolezza è la spinta che mi porta a rifuggire dalle commemorazioni di facciata, anche da quelle con il crisma dell’ufficialità, e aderire con slancio, al contrario, a tutte le occasioni di confronto diretto e franco con i giovani delle scuole. Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a partecipare a un evento da parte del procuratore generale della Cassazione. Quando mi ha cercato, credevo volesse darmi conto delle doverose iniziative istituzionali adottate per sanzionare chi ha permesso che nelle istituzioni si lavorasse contro la verità. Mi ha spiegato che la prescrizione impedisce qualsiasi intervento. Ho ribattuto che dovrebbe sentire la responsabilità di spiegarlo al Paese che ha il diritto di sapere. Dovrebbe avvertire l’onere di informare tutti noi sulle ragioni che non permettono di punire gli errori commessi. Sarebbe quantomeno un atto di onestà intellettuale. In assenza di questo, ogni altra richiesta suona come offensiva. Se il cancro della menzogna e dell’omertà infesta i palazzi, c’è una speranza che viene dal senso di giustizia e dalla purezza che constato nei giovani che incontro. Raccolgo con loro il principale insegnamento di mio padre e li invito, malgrado tutto, a considerare lo Stato come amico e non come un nemico. Perché non possiamo correre il rischio di cedere alla sfiducia, di cadere nel disfattismo. Tradiremmo il senso dell’impegno di Paolo Borsellino. Noi stessi, noi figli siamo andati avanti e crediamo ancora nell’essenza di quello stesso Stato in cui credeva mio padre. Nell’impegno per fare della nostra terra, della nostra città un posto dove è bello vivere e per il quale vale la pena spendersi. Dobbiamo tutti quanti andare avanti, andare oltre. Senza mai dimenticare. E se il depistaggio rende impossibile il miracolo della completa verità giudiziaria, abbiamo già tutti gli elementi per giudicare e comprendere ciò che è realmente accaduto. San Gimignano (Si). Processo per presunto pestaggio nel carcere di Ranza di Claudio Coli Corriere di Siena, 22 maggio 2022 Tre dei cinque poliziotti penitenziari hanno ribattuto alle accuse: “Detenuto caduto da solo”. “Il detenuto tunisino era instabile e minaccioso: lo abbiamo trasferito coattivamente in via preventiva perché preso di mira da un altro recluso, durante giorni pieni di tensioni nel carcere. È stata un’operazione nella norma”. Così tre agenti della polizia penitenziaria a processo per il controverso caso del presunto pestaggio a danno di un carcerato nordafricano nell’ottobre 2018 si sono difesi in aula nel corso di un’altra udienza fiume dinanzi il collegio presieduto dal giudice Simone Spina. Una ricostruzione dei fatti diametralmente opposta rispetto a quella proposta dall’accusa sostenuta dalla pm Valentina Magnini, che insieme alle parti civili e alle difese ha esaminato tre dei cinque imputati per lesioni aggravate, falso ideologico e tortura. Tutti elementi da 25 anni in servizio nell’inferno delle carceri. Il primo a parlare è stato un ispettore: “Il detenuto dava problemi, era in isolamento per problemi disciplinari - ha spiegato - e non voleva cambiare cella. Perché in 15 ad eseguire il trasferimento? Non esiste un numero predefinito, non sapevamo cosa potesse succedere in quella circostanza. Molti si sono ritrovati in isolamento per dare manforte. La gestione del carcere era difficile in quel periodo, i detenuti erano agitati, avvenivano risse, aggressioni, danneggiamenti e atti di autolesionismo”. Un contesto confermato anche da un altro ispettore capo: “In particolare alcuni reclusi dell’alta sicurezza sobillavano una situazione di tensione per ottenere il trasferimento. Il tunisino era minacciato e offeso da un altro carcerato molto pericoloso, e non potendo trasferire lui e altri per i rischi di possibili conseguenze, abbiamo scelto il meno pericoloso, ma era comunque instabile - rimarca - in un frangente si era rifiutato di rientrare in cella perché sosteneva di vedere dei mostri al suo interno”. Secondo quanto ricostruito dagli agenti, la presunta vittima del pestaggio non voleva accettare di cambiare cella. E così gli agenti, sapendo che aspettava il suo turno per fare la doccia, hanno utilizzato un “effetto sorpresa” per farlo uscire dalla sua cella. Agendo in formazione ampia per prevenire qualsiasi situazione imprevista vista l’alta tensione che si respirava nel reparto. “Un’operazione nella norma per chi lavora in carcere, se fosse il contrario avremmo sbagliato lavoro per 25 anni” sottolinea l’assistente capo. “Appena fuori dalla cella lo abbiamo preso per le braccia - ha ricostruito invece l’ispettore - ma non volevamo farlo cadere. Il ragazzo è inciampato nei suoi pantaloni, e sono caduto anche io con lui. I guanti? Sono obbligatori se entriamo in contatto coi detenuti”. “Lo abbiamo accompagnato alla nuova cella in sicurezza, a tutela di lui stesso e degli agenti, visto che non collaborava - ha l’assistente capo che è accusato di avergli tirato un pugno e di aver messo il detenuto ventre a terra - non è assolutamente vero che l’ho colpito, è scientificamente impossibile, non gli ho procurato nessun danno, lo volevo solo adagiare a terra perché a un certo punto non si riusciva a passare. La presa a terra? È stata paragonata a quella su George Floyd, è una cosa che mi ha fatto molto male”. “Ad intervenire sono in 15, ma di fatto solo 3, per precauzione visto il periodo critico nella casa circondariale - afferma a margine dell’udienza l’avvocato Manfredi Biotti, difensore di 4 agenti su 5, un altro è rappresentato dai legali D’Amato e Anelli - un atteggiamento di prevenzione, non si si mai se un detenuto può reagire o avere armi da taglio o contundenti. Per comprendere i fatti bisognerebbe conoscere le dinamiche e quello che avviene tra quelle mura”. Brescia. Giustizia, la riforma e il rischio “di anteporre quantità a qualità” di Salvatore Montillo Giornale di Brescia, 22 maggio 2022 Una riforma della giustizia realizzata sull’onda del populismo e di un “dibattito drogato perché solo polemico” (parole di Claudio Castelli, presidente della Corte d’Appello di Brescia), rischia di ritorcersi contro coloro i quali quella riforma è rivolta: noi stessi, i cittadini. Siamo noi, infatti, a chiedere processi più celeri (o meglio lo chiede la politica per conto nostro), e siamo sempre noi a chiedere una giustizia più giusta. Ma può esistere una giustizia infallibile? Le soluzioni in discussione in Parlamento (riforma Cartabia) e i quattro quesiti referendari cui siamo chiamati il prossimo 12 giugno, risolveranno questi problemi? “Con questi presupposti - è convinto il procuratore della Repubblica di Brescia, Francesco Prete - siamo portati dal Legislatore ad esercitare l’azione penale solo quando è prevedibile la condanna e ad archiviare di più”. Il rischio, in sostanza, è che i cosiddetti reati “bagatellari” - parola utilizzata dal procuratore generale Guido Rispoli - quelli cioè di minore rilevanza sociale, non saranno perseguiti. È questo quello che chiediamo? Della “cultura del dato” si è discusso ieri nell’aula polifunzionale del palazzo di Giustizia di Brescia, per una riflessione sullo stato della giustizia penale alla luce dei dati statistici, moderata da Pierpaolo Prati, giornalista del Giornale di Brescia. I numeri, appunto, che rischiano, stando a quando emerso nel corso del dibattito, di sterilizzare parte dell’azione penale e quindi di privilegiare la quantità del dato giuridico, alla qualità della giustizia. “Per conto mio - ha precisato il procuratore Rispoli - non esistono reati minori, soprattutto per chi subisce un torto e chiede giustizia”. Sulla bilancia vanno quindi correttamente soppesati qualità e quantità, efficienza, calcolata solo col il mero dato numerico, ed efficacia dell’azione penale, la capacità cioè di soddisfare la domanda di giustizia che viene dal basso. “Se un processo finisce con l’assoluzione dell’imputato - ha chiarito il presidente Castelli - non vuol dire che quel processo era inutile o sbagliato. In un dibattimento contano molto l’abilità delle parti, dell’avvocato o del pm”. Sull’importanza dei numeri si è concentrato l’avvocato Andrea Cavaliere, responsabile dell’Osservatorio acquisizioni dati giudiziaria dell’Unione Camere penali, convinto che “qualsiasi riflessione seria sullo stato della giustizia non possa prescindere dai dati statistici. Solo con dati scientifici alla mano si possono adottare le giuste contromisure per risanare una giustizia malata”. Concetto ribadito dal presidente nazionale delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza. Giustizia bresciana. A proposito di dati, il presidente del Tribunale di Brescia, Vittorio Masia, si è soffermato sull’efficienza della giustizia bresciana “che riesce a definire - ha detto - circa il 90% delle pratiche. Il dato sull’accumulo è sotto la media nazionale. Ma si può sempre migliorare”. Come? Alla Procura di Brescia giungono ogni anno circa 50mila notizie di reato, metà da ignoti, 24mila da persone note. Ma i processi, in dodici mesi, sono meno di cinquemila. “Nel nostro distretto - ha concluso il procuratore generale Guido Rispoli - c’è grande sintonia tra magistratura e avvocatura e grandissimo impegno. Le disfunzioni della giustizia non dipendono dalle persone, ma dagli scarsi investimenti in uomini e mezzi. Serve quindi una visione diversa, un salto di mentalità in chi ci governa che ha pochissima sensibilità in questo”. Rimini. Dal carcere al forno a legna. Una pizza per rinascere di Ermanno Pasolini Il Resto del Carlino, 22 maggio 2022 Giovanni Mennella ha imparato il mestiere del pizzaiolo da detenuto. Uscito, ha aperto una pizzeria a Morciano ed è pronto a inaugurare la seconda. Da detenuto a pizzaiolo di successo, a Morciano. Giovanni Mennella, 46 anni, dopo 16 mesi di carcere per reati vari, è tornato sulla retta via grazie anche a Vincenzo Cimino, noto pizzaiolo di Savignano. Mennella, quando ha imparato il mestiere del pizzaiolo? “Nel 2016 Cimino, titolare della pizzeria ‘La Coccinella’, decise di insegnare a fare la pizza ai carcerati per consentire loro, all’uscita, di avere un mestiere. Propose al direttore del carcere di Rimini di fare gratis un corso di pizzaiolo per i detenuti. Per un mese Vincenzo tutte le mattine dal lunedì al venerdì venne a Rimini, portandosi anche tutto il materiale senza chiedere nulla in cambio. Fummo in 16 ad apprendere l’arte di fare la pizza”. Come andò? “Alla fine del corso abbiamo sostenuto un esame e ognuno ha fatto la pizza presentandola a Vincenzo Cimino e agli educatori. Per sei di noi, in base all’articolo 21 che permette di uscire dal carcere lavorando, si aprirono le porte del carcere per fare i pizzaioli nella sua pizzeria”. Quando ha aperto la sua prima pizzeria? “Nel 2020 in lockdown a Morciano, con pizza solo da asporto, ma con coraggio per i tempi duri della pandemia (è l’Officina del gusto in via Ronci, ndr)”. E sta per aprire la seconda? “Per venire incontro ai miei clienti che mi chiedevano di consumare la pizza nel locale, sto per aprire una pizzeria coi tavoli in pieno centro sempre a Morciano (Quei bravi ragazzi in via Fratti angolo piazza del Popolo, ndr)”. Come è cambiata la sua vita? “Ero un imprenditore di mobili d’epoca a Torre Del Greco. Poi per varie vicissitudini sono finito in carcere a Rimini e, nel periodo più negativo della mia vita, ho cercato di tirare fuori tutto quello che di positivo c’era ancora in me”. Deve perciò tutto a Cimino e a quel corso per pizzaioli? “Sì. È stato un buon mentore già in detenzione mi spronava a provare un nuovo mestiere. E da lui ho imparato l’arte del pizzaiolo”. Quando è arrivata l’idea di aprire una pizzeria tutta sua? “Lavoravo in una pizzeria della zona e sono stato licenziato a causa della pandemia. Spronato da Vincenzo che mi ha aiutato in tutti i modi, ho aperto una pizzeria da asporto a Morciano ed è andata talmente bene che domani aprirò la seconda”. Chiuso con il suo passato burrascoso? “Sì. Ho fatto tesoro del mio periodo di rieducazione sociale. Oggi il mio obiettivo è crescere a livello imprenditoriale. Nella vita si può anche sbandare, ma l’importante è tornare sulla strada maestra. Con la mia pizzeria abbiamo aiutato famiglie bisognose durante il Covid facendo pane e pizza gratis. Ciò che mi rende fiero è che oggi sto dando lavoro a una decina di famiglie. La mia è stata una resurrezione sulla strada della vita”. Monza. “Il Giardino delle Ortiche”: il giornale Oltre i Confini diventa un libro di Annamaria Colombo Il Cittadino, 22 maggio 2022 Oltre il carcere, anzi “Oltre i confini”: il giornale della casa circondariale di Monza pubblicato dal Cittadino che ha dato vita a un libro. Pagine di grande umanità, di dolore, ma anche di voglia di riscatto e di rinascita. Racconti, poesie, articoli, ricordi e speranze. Sono gli scritti contenuti nel libro “Il Giardino delle Ortiche” curato da Antonetta Carrabs, testi e interviste pubblicati dal giornale Oltre i Confini - Beyond Borders (che viene pubblicato dal Cittadino) promosso dalla Zeroconfini Onlus, di cui Carrabs è presidente. I redattori sono sei detenuti della Casa Circondariale di Monza che ogni lunedì si ritrovano per la consueta riunione di redazione ma che, grazie alla disponibilità della direttrice di via Sanquirico Maria Pitaniello, possono recarsi in biblioteca anche negli altri giorni della settimana per confrontarsi sui nuovi scritti. Il volume è stato presentato venerdì pomeriggio allo Sporting Club di Monza in un incontro patrocinato dall’Ordine degli avvocati di Monza e dalla Fondazione Forense, alla presenza, tra gli altri del nostro direttore Cristiano Puglisi. Il Cittadino, infatti, accoglie periodicamente in uno speciale inserto il giornale Beyond Borders. All’appuntamento di venerdì hanno partecipato anche quattro detenuti che hanno raccontato la loro esperienza di scrittura. “Una terapia-hanno rimarcato-ma anche qualcosa di molto piacevole e formativo”. Raccontare vuol dire scoprire e far scoprire parte di sé, mettersi in gioco, ma le “parole- hanno sottolineato-servono ad abbattere i pregiudizi, a far capire che anche all’interno del carcere c’è del bene che deve emergere. Siamo persone che hanno sbagliato ma che stanno facendo di tutto per rimediare i propri errori e ricostruire la propria vita per tornare in un modo nuovo nella società”. In via Sanquirico diverse sono le attività. “Per chi ha buona volontà c’è sempre qualcosa da fare” ha spiegato uno dei detenuti presenti. E c’è anche la possibilità di scoprire i propri talenti nascosti. Come ha raccontato, non senza emozione, un altro detenuto che si sta rivelando un ottimo pasticcere e uno scopritore di nuove ricette. “Non è escluso che faremo un libricino” ha anticipato Carrabs. Arezzo. Film “Aria ferma” in carcere con l’attore Sasà Striano di Silvia Bardi La Nazione, 22 maggio 2022 Un attore come Salvarore Sasà Striano che racconta il suo passaggio dal carcere al cinema e porta in proiezione il film di Leonardo Di Costanzo “Aria ferma”, undici nomation e due premi al David di Donatello, con Silvio Orlando e Toni Servillo, fra gli altri. E lo porta dentro il carcere di Arezzo su invito della Fidapa domani, lunedì, dalle 15 alle 18 nella Giornata nazionale della legalità. Ci saranno anche Giuseppe Fanfani garante per i detenuti della Toscana, il direttore del carcere Giuseppe Renna e i detenuti con i quali sarà possibile commentare il film ambientato proprio in un carcere. “Legalità è un tema trasversale e tocca anche il rispetto dei diritti di coloro che hanno violato i diritti ed i beni della vita altrui. Riconoscere il diritto al rispetto della legge e delle norme è una prerogativa generale dello Stato. Il carcere come luogo di espiazione della pena di chi ha negato il diritto attraverso la sua condotta illecita è il luogo in cui deve essere riconosciuto il diritto di quella stessa persona a ricevere un trattamento legittimo, anche come forma di educazione civica e sociale volta al reinserimento del reo nella collettività. Attraverso il riconoscimento dei diritti di coloro che hanno realizzato un comportamento illegale, si mira a far recuperare a tali persone l’importanza della legalità sempre e comunque” spiega Lucia Cherici presidente Fidapa di Arezzo. La proiezione del film “Aria Ferma” intende portare alla luce un tema fondamentale: le regole di separazione tra detenuti e polizia penitenziaria si allentano di conseguenza, lasciando emergere nuove forme di relazione nell’ambito del riconoscimento dei loro diritti basilari. “Cenare alla luce significa riconoscere l’altro e fonda tale riconoscimento sul diritto alla dignità di ciascuno come dettato dalla nostra Costituzione all’art. 3 per cui tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge - continua la presidente - la tematica che si affronta riguarda dunque sia chi sta dentro ma anche chi sta fuori il carcere che diventa un microcosmo in cui la persona acquista centralità e si mette in relazione. Il diritto alla dignità passa attraverso il rispetto del diritto di ciascuno”. Il progetto si propone di avvicinare il mondo fuori dal carcere al mondo dentro il carcere, come se tutti cenassimo insieme al lume di candela come la bellissima scena del film,con la persona al centro e difendere i diritti alla legalità, all’inclusione, all’istruzione, alla formazione, alla coesione e alla cittadinanza attiva. In carcere, in ospedale, a scuola: letture ad alta voce nei contesti di disagio di Chiara Ludovisi redattoresociale.it, 22 maggio 2022 Intervista ad Antonio Ferrara, educatore, illustratore, scrittore, che al Salone di Torino presenta il suo ultimo libro: la storia di Falcone raccontata ai ragazzi. “Nelle carceri di massima sicurezza, con i libri e la scrittura aiutiamo a confrontarsi con l’errore e a far emergere le emozioni”. “Leggere è un modo per non sentirsi soli e per scoprirsi solidali”: ne è convinto Antonio Ferrara, illustratore e scrittore ma prima ancora educatore, autore di libri per ragazzi di successo, sempre più letti “ad alta voce” nelle scuole, nelle librerie e in altri contesti. Contesti di disagio, soprattutto, perché è proprio qui che la lettura ad alta voce riserva “le più grandi sorprese”. Mentre parla, Antonio Ferrara è su un treno che lo porta a Torino, dove presenta, al Salone, il suo ultimo libro, “Papere contro la mafia. Una storia di Giovanni Falcone” (editore Interlinea). Un libro per ragazzi, naturalmente, perché è a loro che Ferrara rivolge il proprio sguardo e la propria voce. “Ma i libri per ragazzi funzionano con tutti - assicura - quando si vogliono tirare fuori le emozioni. Riescono a far piangere, ridere e abbracciare perfino i detenuti di un carcere di massima sicurezza”. Proprio in questi giorni, tra un progetto e l’altro, Antonio Ferrara e sua moglie Marianna Cappelli, stanno riorganizzando un laboratorio di lettura e illustrazione per i detenuti del carcere di Novara: “Un laboratorio partito cinque anni fa, poi interrotto. Obiettivo: far gestire il proprio errore. Consegniamo ai detenuti un foglio, con una serie di consegne: devono fare un disegno, ma non possono usare gomma né matite. Se sbagliano, insomma, non possono correggere, né avere un secondo foglio. E se non sbagliano, passo io a rovinare il loro disegno con un segno tracciato con un pennarello indelebile. Perché gli sbagli si possono fare anche per colpa degli altri... Chiediamo ai partecipanti di lavorare con quell’errore, di integrarlo nel disegno, di trovare una soluzione. E poi di scrivere una riflessione su quell’esperienza. Un modo per farli riflettere su cosa fare con l’errore commesso, da loro o da altri, dal momento che il foglio è uno solo, ma anche su quello stesso foglio, si può in qualche modo rimediare”. E’ questo uno dei tanti laboratori che Ferrara e Cappelli portano dentro il carcere: “Laboratori sempre accompagnati dalla lettura ad alta voce di brani di libri per ragazzi, che consideriamo salvifici. Soprattutto chi è dentro per pedofilia ha spesso l’età emotiva e mentale di un bambino ed è facile che, ascoltando una storia per ragazzi, si commuova e si emozioni fino a piangere. Questo è il grande potere della lettura: tirare fuori le emozioni. Ma soprattutto, siamo convinti che scrittura e lettura creino solidarietà: come diceva Scott Fitzgerald, il bello della letteratura è che quando leggi scopri che non sei solo, che appartieni a qualcosa. Ecco, la lettura ad alta voce è una solidarietà esasperata, moltiplicata: tutti condividiamo la stessa emozione nello stesso momento e il gruppo diventa più coeso e solidale, ciascuno si scopre piacevolmente fragile, senza sentirsi giudicato. I libri e la scrittura aiutano il dolore a essere nominato e venir fuori: se non si impara a nominare anche le esperienze più dolorose, allora quel dolore implode, fa ammalare, in carcere spesso fa suicidare. Se invece riesci a dirlo o ancor meglio a scriverlo, quel dolore non è più una pietra sul petto, ma una pietra adagiata sul foglio”. Leggere ad alta voce in carcere - Con i loro laboratori di scrittura e lettura, Antonio e Marianna sono entrati in diversi carceri: da Lucera a Pescara, da Secondigliano a Novara, da Cuneo a Pesaro, tornando in alcuni anche due o tre volte. A chiamarli, sono soprattutto gli educatori, o le associazioni di volontariato del territorio. “A Pesaro per la prima volta abbiamo incontrato i detenuti accusati di pedofilia e per ben due volte una guardia carceraria si era tolta la vita proprio qualche notte prima. Questo ci dice quanto quel contesto sia complesso e fragile e quanto ci sia bisogno di sostegno e formazione anche per chi lavora al suo interno: proviamo a coinvolgere anche le guardie, nei nostri laboratori, sapendo quanto ne avrebbero bisogno, per tirar fuori il male che vivono ogni giorno, ma difficilmente si lasciano coinvolgere. Gli educatori invece sono collaborativi, però li trovo spesso rassegnati, io scherzano li chiamo ‘sfascisti’, perché di fronte alle nostre proposte replicano spesso che ‘non si può fare, qui mica siamo fuori’. Ma io che arrivo dall’esterno, devo portare un po’ di normalità, per abbattere quei maledetti mura. Non solo i muri del carcere, ma anche i muri dei detenuti: quelle difese che innalzano per diffidenza. Una volta un detenuto, all’inizio di un laboratorio, vedendo che lavoravamo sulle loro emozioni mi ha detto.: ‘Tu sei un poliziotto’, sospettando che fosse una trappola per scoprire dettagli sul suo reato. Poi, una volta che prendono fiducia, ci bombardano di richieste e noi dobbiamo capire e ricordarci che non siamo onnipotenti, anzi abbiamo un margine di manovra limitatissimo. Hanno una dote, però, i detenuti, che mi sorprende ogni volta: la grande pazienza, una pazienza forzata, fatte di ore e giorni senza nulla. Una pazienza che, con il nostro aiuto, possono impegnare. Molti non leggono, non scrivono, non suonano, fanno solo palestra tutti i giorni, lontani, separati, nascosti al resto del mondo: ci sono carceri in cui attraversiamo undici cancelli, prima di riuscire a entrare”. Proprio la lettura e la scrittura possono essere allora, all’interno di un contesto così oscuro e silenzioso, uno strumento di rinascita, di riconquista dei diritti e della dignità, di riappropriazione delle proprie emozioni. “I risultati sono sempre incredibili. Un detenuto, non giovanissimo, mi ha detto un giorno: ‘Tu vuoi lavorare con le nostre emozioni, ma io le emozioni le ho lasciate all’entrata, insieme ai miei oggetti personali, perché qui non si possono usare. Quando esco, mi riprendo portafogli, documenti ed emozioni’. Allora è intervenuto un altro detenuto, un giovane albanese, dicendo: ‘Eh no, non puoi lasciare all’ingresso le emozioni per anni: quando uscirai, non ci saranno più’. Io sono rimasto ad ascoltarli e poi ho fatto notare loro come stessero iniziando a scrivere un romanzo, proprio parlando delle proprie emozioni. E così, piano piano, iniziano a parlare di ciò che hanno fatto, di come vivono la detenzione, del senso d’ingiustizia che tanti provano, di fronte alla giustizia che li ha condannati. Recentemente un giovane detenuto, parlando dell’omicidio che ha commesso, ha detto: ‘Chi muore ha sempre ragione, chi resta ha torto. Ma io non potevo fare altrimenti’. E’ il suo sentire, che tramite la scrittura e la lettura ha trovato un modo per venir fuori “. Nella scuola e in ospedale - Ma se il carcere è un contesto estremo di disagio, c’è un altro contesto in cui la lettura e la scrittura sono particolarmente efficaci nella gestione di un disagio forse meno lampante, ma diffuso e complesso: la scuola. “Due giorni fa, per esempio, eravamo a Grosseto, in una scuola media. Le docenti che ci avevano invitato ci avevano parlato di due ragazzine terribili, provocatorie, aggressive. Abbiamo proposto in quella classe il nostro laboratorio dal titolo ‘Tutti pensano che... Soltanto io so che...”. Invitiamo i ragazzi a scrivere delle riflessioni su questo spunto, in 10 minuti durante i quali io li disturbo fastidiosamente, per distrarli: in questo modo, si rendono conto di quello che scrivono solo mentre lo leggono ad alta voce. E’ quello che chiamo lo stile di conduzione ludico-persecutorio e che ritengo fondamentale per la riuscita del laboratorio. Ogni volta, escono riflessioni inedite, i ragazzi fanno grandi scoperte su di sé e sugli altri e, condividendole, diventano più coesi e solidali. Anche questa volta, con le due ‘ragazze terribili’, ha funzionato. Noi siamo usciti dalla classe, ma ora le insegnanti hanno in mano un patrimonio che sapranno valorizzare”. E poi, c’è il disagio che fa male, quello che a volte uccide: la malattia. Negli ospedali, la lettura ad alta voce assume un valore quasi terapeutico: “Tramite un maestro di Cagliari, siamo entrati nell’ospedale microcitemico, dove incontriamo piccoli e giovani pazienti, a volte in fase terminale. Un giorno, siamo andati nella stanza di un ragazzone di 15 anni: era sul letto, col viso rivolto verso il muro, la mamma seduta accanto. Credo gli rimanessero pochi giorni, forse poche ore. Abbiamo chiesto il permesso di leggere qualcosa ad altra voce, la mamma ha annuito, lui non ha fatto un cenno, come se non ci avesse sentito. Allora ho iniziato a sfogliare il libro e a ridere a crepapelle. Dopo qualche istante, incuriosito, si è voltato verso di me e mi ha chiesto di leggere ad alta voce: a quel punto ha sorriso e ha iniziato ad ascoltare. Non lo abbiamo più visto, ma sono sicuro che quei minuti di lettura abbiano alleggerito almeno un poco il peso che sentiva”. La libertà autentica è fatta di relazioni tra le persone, non di algoritmi di Ferruccio De Bortoli Corriere della Sera, 22 maggio 2022 Esce giovedì 19 maggio il saggio di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, edito dal Mulino, che propone una scelta di civiltà. L’implosione dei desideri genera disagio, occorre ricostruire il legame sociale. La Finlandia, secondo il World Happiness Report, è il Paese più felice al mondo. Non sappiamo se questo invidiabile primato resista ai venti di guerra e alle nuove tensioni geopolitiche. L’Italia non è nemmeno tra i primi venti. Ma ha un tasso di suicidi che è un terzo di quello di Helsinki. Insomma, la presunta felicità nordica ha il suo lato oscuro. La pandemia ha moltiplicato i “disagi della sfera emozionale”. Così li identificano, nel loro ultimo libro (Supersocietà, il Mulino), i sociologi Chiara Giaccardi e Mauro Magatti. Soprattutto negli adolescenti. Si parla, sempre più spesso, di depressione infantile. E mi ha colpito il dato del reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico San Matteo di Pavia. Trenta posti di degenza. Una lista di 160 ragazzi. Non era mai accaduto prima. Che cosa sta succedendo nelle spire più profonde della nostra società? Siamo di fronte all’implosione dei desideri è la prima risposta degli autori. Li abbiamo stimolati troppo (a detrimento dei doveri). E oggi constatiamo l’emergere di una “pulsione securitaria”. La “sindrome del muro”, come la chiama Massimo Recalcati. Piacere e pulsione di morte sono due facce di una stessa medaglia, ci avvertiva Sigmund Freud. La spinta ad aprirsi agli altri - accelerata dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione - si è trasformata nel suo esatto contrario: la chiusura in sé. Troppa ansia competitiva. Allora ci si rifugia in universi paralleli. Apparentemente riparati. In non troppo rari casi l’anticamera delle dimissioni dalla vita. Se la società è costituita sempre di più, e alla fine soltanto, da un insieme atomizzato di individui, il potere tende a subire un processo di totalizzazione: diventa esclusivo, freddo, distante. Le élite si disancorano dalle comunità locali; le istituzioni democratiche si impoveriscono. E la conseguenza, sul piano politico, è l’ingrossarsi del populismo e del nazionalismo nostalgico. Giaccardi e Magatti ce l’hanno (anche loro!) con il neoliberismo - e soprattutto con Margaret Thatcher e Ronald Reagan - forse scambiandolo per un edonismo privo di etica della responsabilità individuale, come invece dovrebbe essere. Molti gli errori commessi, ma non è stata un’orgia di egoismi incontrollati. Ogni stagione ha i suoi bersagli preferiti. La “società del rischio” trascolora nell’”età degli shock”. Sappiamo a quali pericoli siamo esposti, disponiamo di un’infinità di dati, ma non “riusciamo ad afferrare la catena delle interrelazioni”. Né a capire fino in fondo l’ampiezza del danno che il nostro sviluppo determina sull’ambiente (antropia, ovvero l’insieme degli effetti entropici, nella definizione di Bernard Stiegler). “Il legame tra crescita (delle possibilità di vita) e antropia - scrivono gli autori - sembra ancora sfuggire alla nostra riflessività sociale”. Noi così fragili saremo in grado di curare le fragilità del pianeta? La sfida della sostenibilità - ed è questo un passaggio estremamente importante del saggio - è soprattutto culturale. Una rottura di paradigma. “Il mondo sostenibile non è fondato sull’aumento delle possibilità individuali”. È necessario un freno ai desideri. Ma anche ai diritti e alla democrazia compiuta, magari sulla base di nuove teorie scientifiche? Questo è il pericolo, da scongiurare, insito nel concetto di Supersocietà. Un nodo che non si affronta e si rimuove colpevolmente. La digitalizzazione ha poi cambiato in profondità la natura del potere (e il suo controllo sulle nostre vite) oltre ad avere indebolito la nostra capacità di discernimento. L’illusione faustiana di un uomo neuronale che, grazie alla tecnologia, supera i propri limiti fisici e mentali non apre spazi sconosciuti di libertà. Tutt’altro. Ci espone al rischio “di essere assorbiti completamente nella logica sistemica al punto di non concepire più una definizione di sé”. Avvolti in un “mantello di ferro” nella definizione di Max Weber, una prigione autoprodotta. Rischiamo di diventare soltanto dei codici. Una sequenza di password. Il mercato non è in grado di governare gli scambi di una Supersocietà. E persino lo Stato rischia di soccombere davanti ai feudatari globali dei nostri dati. E dunque ci troviamo al cospetto di un bivio, di una biforcazione. Sostenibilità e digitalizzazione spingono a “una più rigida regolazione dei comportamenti individuali e a un nuovo temibile sbilanciamento a favore del polo Supersocietario”. E la domanda di fondo è su come si possano difendere gli spazi intimi di libertà, coscienza, intelligenza, ragione. La libertà è relazione. Si nutre di saperi. Nei percorsi di educazione e formazione. Si coltiva nelle comunità. “Essere liberi non significa non avere legami”. Nella società digitalizzata il cervello è costantemente stimolato. Ma ciò favorisce anche una perdita nella capacità di “saper pensare”. Giaccardi e Magatti propongono una nuova forma di educazione. La chiamano “epimeletica”, dal greco melete (cura). Siamo, sostengono, in una condizione simile a quella dei nostri antenati che si trovarono, a metà dell’Ottocento, con meno del 5 per cento della popolazione che sapeva leggere e scrivere. Peccato che non si abbia, oggi, la stessa percezione di drammaticità e urgenza. Anzi la cura del capitale umano non è una priorità. Non lo è, per esempio, nell’anticipare, come accade in altri Paesi, il servizio scolastico (ai 3/4 anni), né nel promuovere la formazione permanente. “Ed è il momento di liberarsi della pesante eredità industrialista”. Cioè che la “massima libertà abbia a che fare con la fabbricazione e il possesso di cose e quindi di persone”. Gli autori ridisegnano anche gli spazi sociali, il ruolo delle associazioni e dei corpi intermedi, configurano nuove organizzazioni “noetiche”, in grado cioè di fondere il rispetto e la promozione della persona con gli obiettivi non solo economici di un territorio, di un Paese. Affinché i cittadini restino un nome, un insieme di relazioni umane che compongono il loro orizzonte di libertà personale. E non un numero e tantomeno un codice. “La vita è fecondità - scriveva Romano Guardini - e tanto più è viva la vita, quanto più è grande la sua forza di dare ciò che ancora non esiste”. Il progresso è fatto di idee che sembrano impossibili e di valori condivisi che necessitano di cure costanti. L’appannamento della democrazia di Luigi Manconi La Stampa, 22 maggio 2022 E se un certo appannamento della lucidità democratica dipendesse dal perdurare di quella fase dell’età evolutiva in cui è ancora debole la capacità di “prendere le misure”? Nel corso di un dibattito televisivo, una giornalista di adamantine convinzioni sinistriche e di infrangibile buona fede, mentre qualcuno denuncia il totalitario regime di censura vigente in Russia, avverte il bisogno di precisare: ma in Italia abbiamo avuto il caso Biagi (vittima, come si ricorderà, di quel “editto bulgaro” che portò alla sua estromissione dalla Rai, unitamente a Daniele Luttazzi e Michele Santoro). Certo, quel “caso” veniva dopo molti altri e prima di altri ancora che hanno accompagnato e accompagneranno la storia della televisione e dell’intera informazione di massa. E gli atti di censura e di autocensura sono propri della fisiologia di qualsiasi sistema democratico. Ma come non considerare lo scarto che corre tra essi (compreso l’odioso provvedimento contro Biagi) e l’attività degli apparati di controllo e di repressione della libertà di parola nei regimi autocratici? Dall’altra parte, gli atti di censura e di autocensura nei sistemi democratici non sono una forma minore, appena più mite, dello stesso meccanismo dispotico, ma qualcosa di diverso. Più in generale, un sistema democratico, anche gravemente imperfetto e deficitario non è l’articolazione meno estrema e non ancora dispiegata del medesimo apparato liberticida che connota i regimi autocratici. È tutt’altra cosa. Ma come è potuto accadere che questa elementare e cruciale differenza oggi sembra essere, se non proprio dimenticata, trascurata e sottovalutata? Lo si deve, ipotizzo, a un singolare fenomeno, che riproduce, come dicevo, quella fase dell’età evolutiva quando ancora si manifesta l’incapacità di “prendere le misure”: ovvero quando il bambino fatica a valutare la distanza tra sé e gli oggetti che intende afferrare, tra la posizione in cui si trova e quella che vorrebbe raggiungere, tra la dimensione e il peso di quanto vorrebbe trascinare o sollevare e le proprie forze. È come se non riuscisse a misurare, appunto, le cose che manovra, le proporzioni entro cui si muove, gli spazi in cui agisce. Ecco, questa imperizia che, se protratta, diventa un disturbo, può manifestarsi come incapacità di valutare la propria realtà in rapporto ad altre realtà senza cogliere le distanze anche enormi che le separano. Come è la frattura irreparabile tra una democrazia pur gravemente immatura e un regime autocratico. Che cosa può avere determinato un simile obnubilamento? Ha contribuito, certamente, la combinazione di due eventi, come la pandemia e la guerra, che hanno prodotto l’effetto di una ineludibile prova di verità. Ciascuno di noi, logorato dal cumularsi di crash test che ne sfidano la saldezza dell’identità personale tende a rispecchiarsi in una sua più profonda e autentica verità. Dunque, quella micidiale sequenza pandemia-guerra permette di indagare sull’idea di sé e del mondo e di sottoporre a verifica alcuni assunti fondamentali della nostra rappresentazione del reale. Uno di questi assunti è costituito dal concetto di democrazia e di sua superiorità rispetto a tutti gli altri regimi. Il dibattito pubblico originato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia evoca quel concetto, in un confuso confronto tra i diversi sistemi politici che operano nello scenario bellico: oltre che la Russia e l’Ucraina, i Paesi europei e gli Stati Uniti. Per un verso, sembra emergere una concezione “tiepida” della libertà, ridotta a variabile dipendente e non necessariamente meritevole di una battaglia - se necessario, fino allo stremo - per la sua affermazione. Per altro verso la categoria di democrazia come massimo bene delle comunità organizzate sembra perdere valore. Ne è una prova la svalutazione di quello stesso concetto quando si mettono spensieratamente a confronto i sistemi istituzionali dell’Europa occidentale e quello della Russia. E quest’ultimo sembra risultare ne più ne meno che “una versione in peggio” dell’assetto politico dell’Italia o della Francia. Ma è totalmente falso. La democrazia più imperfetta (come è, forse, il caso dell’Ucraina) è cosa assai diversa da un sistema autoritario o autocratico o totalitario o dittatoriale (secondo le classiche definizione e graduazioni della scienza politica). Tra la prima formazione e le altre c’è un salto - una vera e propria rottura - costituito dalla presenza o meno dei requisiti che qualificano un regime come democratico. In sintesi, il suffragio universale, la divisione dei poteri, il primato della Costituizione, il riconoscimento dei diritti politici, sociali e civili, la libertà di espressione, la tutela delle minoranze. Ovvio, no? Eppure si riesce a dimenticarlo perché - dopotutto - “anche Vladimir Putin è stato eletto dal voto popolare”. Prima pestati e poi arrestati: lo Stato si accanisce sui ragazzi di Selvaggia Lucarelli Il Domani, 22 maggio 2022 A febbraio gli studenti che protestavano contro le morti nell’alternanza scuola-lavoro hanno preso manganellate tra ferite e traumi. Ora l’accanimento con perquisizioni e indagini sulle vittime, non sui picchiatori. Giovedì mattina, ore 8,00. Sono sveglia da poco, sto rifacendo il letto. Mio figlio Leon è in gita da due giorni in Val Seriana, la prima gita dopo due anni, un ritaglio di leggerezza. Suona il citofono, non succede mai a quell’ora. Il mio fidanzato esce dal bagno e va a rispondere. Lo sento dire “Leon” e “sono i carabinieri”. Ho pensato a una disgrazia in gita, credo di aver detto “Leon è morto”. Salgono, sono sei persone gentili, una in divisa. Deve essere qualcosa di gravissimo. No, Leon non è morto, anzi, lo stanno cercando. Hanno un mandato di perquisizione. É quel momento in cui si pensa di non conoscere i propri figli, di aver sottovalutato qualcosa. Chiedo di spiegarmi cosa ha combinato, ma questa cosa che lui non sia in casa è un problema, dovranno andare a prenderlo in gita per perquisirlo. Dico che mi sembra una misura molto invasiva, che sarà un evento traumatico, chiedo di nuovo che mi spieghino per quali fatti sono lì. Il capitano esce dalla porta per riferire la situazione al magistrato del Tribunale dei minori (Leon ha 17 anni). Rientra e comunica che il magistrato ha compreso la delicatezza della situazione, per cui procederanno alla perquisizione della casa e poi il resto si vedrà al suo ritorno. Finalmente mi spiegano per quale grave crimine è indagato. La manifestazione degli studenti - Il 18 febbraio, durante la seconda manifestazione degli studenti contro l’alternanza scuola/ lavoro (la prima, venti giorni prima, era stata repressa a colpi di manganello), Leon avrebbe tirato un palloncino di vernice (lavabile, pare) sulla vetrina di una banca assieme ad altri studenti che come lui indossavano una tuta bianca. Cercavano dunque le prove per inchiodarlo: un paio di Nike, dei pantaloni grigi, una felpa nera. Ho spiegato che essendo in gita aveva alcune scarpe e vestiti con sé ma che comunque a quella manifestazione era andato e possedeva i vestiti che cercavano. Hanno frugato un po’ in giro, mi hanno domandato se ci fossero volantini sulle sue idee politiche (quali?) e alla fine gli hanno sequestrato un tablet con cui disegna. Il reato che gli viene contestato è quello di deturpamento e imbruttimento di cose altrui, punito dall’articolo 639 del codice penale che prevede una multa e, nei casi più gravi, da uno a sei mesi di reclusione. La perquisizione - Dunque, una perquisizione, sei esponenti delle forze dell’ordine, la procura dei minori e, udite udite, il dipartimento Antiterrorismo che ha coordinato il tutto, per un uovo di vernice lanciato, forse, da un minorenne. Anzi, da più minorenni e maggiorenni, suppongo, che quel giorno hanno imbrattato la vetrina di una banca con la motivazione “Investe nelle armi e nei combustibili fossili” e che non hanno spaccato macchine, vetrine, non hanno fatto male a nessuno. Pochi giorni prima erano stati manganellati ferocemente nelle piazze di Milano, Torino, Napoli, Roma per aver gridato che nessun ragazzo deve più morire per colpa dell’alternanza scuola-lavoro. Mio figlio era stato colpito da una manganellata in testa senza che avesse toccato nessuno o lanciato oggetti. Vista la violenza del colpo, l’ematoma dopo quattro mesi non è ancora riassorbito. Ora, non sta a me ma a un giudice stabilire quale sia la giusta punizione (le cose altrui non si imbrattano, siamo d’accordo) ma la sproporzione tra un’azione così invasiva e traumatica e i fatti contestati è abnorme e preoccupante. Preoccupante perché quello che è accaduto a mio figlio - l’ho scoperto dopo - è solo una piccola ma significativa parte di quello che sta accadendo in questi giorni agli studenti che hanno manifestato negli ultimi mesi e che hanno portato nelle piazze il dissenso per questioni politiche, sociali, ambientali. E i manganellatori? Senza che nessuno ci stia facendo troppo caso, infatti, a quattro mesi da quelle manganellate che hanno mandato ragazzi neo maggiorenni e minorenni all’ospedale con arti rotti e traumi cranici, non c’è stato alcun accertamento di responsabilità nei confronti dei manganellatori, nessun provvedimento disciplinare, nessuna sospensione del servizio. In compenso, si sta provvedendo a punire tantissimi ragazzi tra i manganellati di Roma, Torino, Napoli e Milano. “L’intera documentazione visiva è stata messa immediatamente a disposizione dell’autorità giudiziaria come accade in tutti i casi per individuare ogni responsabilità, comprese quelle eventualmente riconducibili agli operatori di polizia”, aveva dichiarato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Evidentemente i filmati hanno mostrato ragazzini che, in modalità Tafazzi, si picchiavano da soli e poi compivano atti così criminosi - lancio di uova di vernice e fumogeni - da meritare l’intervento dell’antiterrorismo. Negli ultimi dieci giorni, decine di ragazzi in tutta Italia hanno subito perquisizioni e perfino arresti. I fatti contestati sono diversi, apparentemente neppure tutti in correlazione tra loro, se la correlazione non si chiamasse dissenso. A Roma, dove la manifestazione contro l’alternanza scuola-lavoro era stata tra le più pacifiche, diversi ragazzi sono stati perquisiti e denunciati per reati bizzarri che vanno dal travisamento all’istigazione su minore. A Milano sono stati denunciati e perquisiti ragazzi per i fatti già descritti (compreso mio figlio) ma anche tre attivisti di Fridays for future, rei di aver scritto con una bomboletta “Il gas fossile uccide” e “Basta affari con i dittatori” il 19 marzo fuori dalla sede di Centrex, una controllata dell’azienda russa Gazprom. Insomma, da una parte inviamo armi all’Ucraina, dall’altra trattiamo come delinquenti ragazzi che chiedono di smettere di fare affari con la Russia e di inquinare il pianeta. Ragazzi a cui, durante le perquisizioni, è stato chiesto di spogliarsi e fare flessioni, per umiliarli. E poi c’è Torino, dove la situazione è più complicata, perché sono state perquisite le case di numerosi studenti (anche di una ragazza che, per le manganellate, era stata ricoverata in ospedale), è ai domiciliari una neo-diciottenne che aveva parlato al megafono, ci sono tre neo-maggiorenni incensurati in carcere da una settimana accusati di aver colpito degli agenti davanti alla sede di Confindustria con le aste delle bandiere. “Mio figlio è stato arrestato il 12 maggio, ha il Covid, per una settimana non ho potuto neppure parlargli al telefono”, mi spiega Irene, la madre. Uno dei tre era stato operato al cuore un mese fa. Non hanno avuto neppure l’udienza di conferma dell’arresto con il gip. Nel frattempo, proprio due giorni fa, un altro ragazzo a Merano ha avuto un gravissimo incidente sul lavoro (sempre per via dell’alternanza). Ora rischia la vita. Ah, dimenticavo. Il “bottino” delle perquisizioni a Milano: telefonini, tablet, bandiere della pace, libri, magliette con su scritto no war. La ministra Lamorgese può dirsi soddisfatta. L’odio contro le persone Lgbt dilaga nel silenzio: ecco perché abbiamo bisogno del ddl Zan di Simone Alliva L’Espresso, 22 maggio 2022 Aggrediti, cacciati di casa, sottoposti a terapie riparative. Per il loro orientamento sessuale. L’omotransfobia non si ferma. Ma per il nostro Paese il reato non esiste. Il 17 maggio 1990 è stata una giornata di svolta nella storia della civiltà. Da allora chi dice ad una persona omosessuale che è malata di mente non pronuncia solo una falsità, ma un’offesa. L’Organizzazione mondiale della Sanità, cioè l’organismo a cui la comunità internazionale affida il compito di stabilire le conoscenze cardine sulla salute della popolazione planetaria, ha depennato l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Vietato da allora, lo dice la scienza, accreditare patenti di salute mentale o di follia alle persone Lgbt per il loro orientamento sessuale. Eppure, ad oggi, il fenomeno dell’omotransfobia in Italia dilaga anche se non lo vediamo. Nel Paese c’è un mondo sommerso, ostinato, innominabile e ancora vivo che ha dichiarato guerra alle persone Lgbt: le aggredisce, le mette ai margini, le vuole “riparare”. Vedere tutto questo sotto la luce del sole sembra impossibile, l’Italia non raccoglie i dati del fenomeno: i soggetti della giustizia non registrano le finalità di odio omotransfobico perché non le riconoscono o perché il dato non rientra tra quelli da registrare sulla base della legislazione vigente. Non c’è il reato, non c’è un tracciamento. Il ddl Zan affossato dal Senato nel mese di ottobre, oltre a istituire il reato di omotransfobia, prevedeva all’articolo 9 una “rilevazione statistica sugli atteggiamenti della popolazione in relazione alla discriminazione e alla violenza omotransfobica”. Niente da fare. Cresce la disillusione tra le vittime, si denuncia poco nella consapevolezza della mancanza di una legge che tuteli. Possiamo avere una panoramica dell’odio verso la comunità arcobaleno sommando i dati che arrivano dalle associazioni, dai servizi che supportano le vittime, dai media e dal Rapporto annuale sui crimini d’odio dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). Il numero che racconta l’anno trascorso segna 148 aggressioni, dal primo maggio 2021 al 30 aprile 2022. A queste vanno aggiunti gli ospiti delle “Case Rifugio” per persone Lgbtq+ di Torino, Milano, Roma, Napoli. Un centinaio di giovani buttati fuori casa per il proprio orientamento sessuale o identità di genere e di adulti che dopo aver tanto subito cercano di ricostruirsi una vita. “Non denuncerò”, racconta S. 40 anni, un filo di voce e la testa bassa. Tre aggressioni in due giorni. L’ultima poteva essere fatale, spiegano le forze dell’ordine. L’aggressore era armato di scure. “È stato mio fratello. Si è gettato su di me e poi contro il mio compagno. Stiamo insieme da 20 anni. Dopo la morte di mia madre siamo andati a vivere insieme. Una scelta inaccettabile per la mia famiglia. Così mio fratello si è presentato con l’ascia per colpire. Ma ero già in casa con i carabinieri quel giorno. Adesso lui sarà denunciato per resistenza a pubblico ufficiale. Io non farò nulla. Come fai a denunciare tuo fratello?”. S. ha gli occhi pieni di lacrime e cerca di trattenere la piena di un dolore che non si placa. “Ricostruiremo lontano da qui. Siamo adulti, ce la faremo”. Sono i più giovani a dover affrontare un inferno di violenze, mancanze, vuoti. Nessuno vuole parlarne apertamente, pochi scelgono di raccontare un altro abisso del fenomeno dell’omotransfobia: le terapie riparative. L’Italia vive infatti un gran rispolvero di tecniche “psicologiche” che sostengono con argomenti pseudoscientifici che si può “tornare eterosessuali”. Sul lettino dello psichiatra si traducono pregiudizi popolari e nel vano tentativo di modificare l’orientamento sessuale alimentano il disprezzo del paziente verso sé stesso, colpendo al cuore la democrazia degli affetti. Sono la versione agguerrita del ritornello che una persona si sente dire subito dopo il coming out: ““Forse la tua è una fase”. In una discesa vertiginosa al centro delle proprie paure e dei legami fra genitori e figli, emergono i racconti di chi ha superato questo inferno. Giacomo ha lo sguardo dolce e un ciondolo raffigurante la sua Sicilia con i suoi colori giallo e rosso: “Ho fatto coming out a 16 anni con i miei, subito dopo essermi trasferito a Roma da Palermo. Non vivevo la scoperta del mio orientamento con disagio ma con curiosità. Però mia madre ha deciso di portarmi da una psicologa qui, a Roma, e lì è iniziato tutto”. Siamo nel 2018. “Non ci vedevo nulla di male nell’andare da una psicologa per parlare con qualcuno. Ma lei era strana. La prima cosa che disse era che l’omosessualità non esisteva. Era una difficoltà superabile. Non ero d’accordo ma seduta dopo seduta ha scavato dentro di me questa scissione fra l’essere e il voler essere. Io volevo essere amato dalla mia famiglia. Ricordo una frase: “Tu non sei omosessuale, puoi cambiare. Da adesso in poi devi sforzarti”. Mi dava dei compiti: i capelli dovevano essere sempre cortissimi, dovevo stare sempre in compagnia dei ragazzi e poi dovevo guardare le ragazze. Avrei dovuto contrastare i miei pensieri omosessuali guardando le ragazze nella vita di tutti i giorni e fare pensieri su di loro. Andai avanti così per un anno. Ho pensato più volte al suicidio. Mia madre era contenta però. Poi in estate tornai a Palermo e mi innamorai follemente di quello che è ancora oggi il mio compagno. Studia medicina e si vuole specializzare in psichiatria. Mi ha salvato”. Fabrizia ha 24 anni, nel 2018 si rivolge a una psicologa del centro di salute mentale dell’Asl di Salerno per problemi “che non riguardavano il mio orientamento sessuale”, specifica: “Durante la prima seduta, le parlai della mia vita ed ovviamente anche di quella sentimentale. Quando le dissi che sono lesbica, rispose che era un po’ estremo definirsi così. Mi chiese cosa mi piacesse nelle donne, risposi che in genere mi piacciono le ragazze determinate ed espansive. L’analisi fu rapida: secondo lei mi piacevano questo tipo di ragazze perché in realtà ambivo a stare con un uomo, essendo queste tipiche caratteristiche maschili. Inoltre disse che avevo un aspetto troppo femminile e che in genere le lesbiche vere sono uomini mancati, con i capelli corti e un atteggiamento più rozzo e mascolino. Stavo male all’epoca, avevo bisogno di una psicologa così continuai per qualche seduta. Un giorno mi disse che pensavo di essere lesbica per via del mio difficile rapporto con mio padre e che io mi sono quindi autoconvinta di questo fin dall’infanzia. Mio padre è semplicemente omofobo. Smisi di andarci e questo mi mise così tanto a disagio che per un po’ provai sfiducia nei confronti degli psicologi ed evitai quindi di farmi curare”. Profughi, così l’Ue discrimina i non ucraini che fuggono dalla guerra di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2022 E in Italia (ancora senza decreto) finiscono in strutture per senza dimora. L’Ue ha riconosciuto ai profughi la protezione temporanea, ma per i non ucraini decidono gli Stati membri. E se la Spagna è più inclusiva, la Francia li respinge alla frontiera e addirittura li mette sotto chiave, come al confine di Ventimiglia. Mentre in Italia, dove palazzo Chigi non ha ancora recepito la direttiva Ue, c’è chi viene abbandonato a se stesso, come la studentessa marocchina fuggita dalle bombe per finire tra i senza dimora di Bolzano. È scappata dalle bombe esattamente come hanno fatto altri milioni di sfollati. Dopo giorni di viaggio ha attraversato la frontiera del Brennero ed è arrivata in Italia. Lei è una studentessa universitaria, ha poco più di vent’anni. Ma l’accoglienza ai profughi di cui tanto si parla non la riguarda, perché non è nata in Ucraina ma in Marocco. E così, l’orrore che si è appena lasciata alle spalle non conta e la prima sera nessuna porta si apre, nemmeno quella del dormitorio per i senza fissa dimora, perché ci vuole il tampone molecolare. È accaduto in questi giorni a Bolzano, dove capita di scoprire che il trauma di fuggire alla guerra non basta per essere accolti. Sono i primi effetti di un accordo tra i Paesi europei, che in Consiglio Ue hanno deciso di riconoscere ai profughi in fuga dal conflitto una speciale protezione temporanea, lasciando però ai singoli Stati la facoltà di scegliere se e come proteggere chi non è cittadino ucraino. Così l’Europa torna a muoversi in ordine sparso. E se dopo venti giorni il governo di Mario Draghi ancora deve recepire l’accordo, la Francia già lo applica nel modo più restrittivo, tanto che sulla frontiera di Ventimiglia respinge tutti i non ucraini scappati al conflitto, e se capita li mette anche sotto chiave. Anche se regolarmente residenti in Ucraina, anche se diretti altrove, e nonostante il timbro dell’area Schengen che Paesi di primo ingresso come l’Ungheria appongono sul passaporto. “Il voto del Consiglio Ue creerà ulteriori flussi, movimenti secondari tra un Paese e l’altro perché le persone andranno dove le condizioni normative sono migliori, per evitare le discriminazioni e le disparità di trattamento alle quali già assistiamo”, avverte l’avvocata Anna Brambilla dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). Diciamolo ancora: l’adozione della direttiva 55/2001 da parte del Consiglio dell’Unione europea, lo scorso 4 marzo, è una decisione storica, perché in oltre vent’anni non aveva mai trovato applicazione nonostante le tante emergenze, dalle primavere arabe all’Afghanistan. Ed è sicuramente una decisione positiva, perché dà ai profughi in fuga dalla guerra in Ucraina una protezione immediata, evitando di ingolfare le singole amministrazioni Ue con milioni di richieste d’asilo. A fronte di flussi massicci di persone in fuga da guerre o aree di crisi, la direttiva consente infatti di riconoscere una protezione temporanea, della durata di un anno e rinnovabile fino a due, con accesso diretto al servizio sanitario, all’istruzione pubblica e al mercato del lavoro dei paesi ospitanti. Ma all’iniziale proposta della Commissione europea, che invitava ad applicare questa protezione a tutte le persone in fuga dal conflitto scoppiato lo scorso 24 febbraio, si sono opposti i paesi di Visegrad, Polonia in testa, che per i cittadini di Paesi terzi in fuga dall’Ucraina hanno preteso di poter decidere autonomamente se applicare la direttiva 55 o la legislazione nazionale, che allunga i tempi lasciando i profughi nell’attesa di un esito sempre incerto. Non sono dettagli: in Ucraina gli stranieri sono cinque milioni e parte di questi è già sfollato dal paese. Eppure, nonostante il Consiglio avesse già la maggioranza per attuare la direttiva, ha accettato il compromesso in nome di un’unanimità che sta già costando cara a molte persone. L’accordo così raggiunto garantisce infatti un’immediata protezione a chi è ucraino, a chi già godeva di protezione internazionale o equivalente e ai rari soggiornanti di lungo periodo presenti in Ucraina. Per tutti gli altri il diritto d’asilo è a discrezione dei singoli Stati membri. “Così si apre la strada a differenti trattamenti di persone che scappano dalla stessa guerra, e questo in base alla presenza o meno di un titolo di soggiorno, tra l’altro riconosciuto da un Paese terzo come l’Ucraina”, fa notare un altro avvocato dell’ASGI, Dario Belluccio. Che ricorda come tutto questo sia in contrasto con i principi della Carta europea dei diritti fondamentali. E’ vero, nell’accordo siglato il 4 marzo il Consiglio Ue dice chiaramente che “gli Stati membri possono applicare la presente decisione anche ad altre persone”. E le successive linee guida del 17 marzo che la Commissione europea ha inviato agli Stati membri sull’applicazione della direttiva protezione temporanea, aggiungono: “Per i cittadini di paesi terzi che rientrano nella disposizione sull’assistenza al rimpatrio, si raccomanda il rilascio di permessi nazionali di durata limitata per permettere a queste persone di accedere ai servizi di base”. Ma nella pratica, poi, ogni Stato continua a fare di testa sua. L’European Council on Refugees and Exiles (ECRE) riporta comportamenti discriminatori verso profughi non ucraini in Belgio, Finlandia e Olanda, oltre a problemi di ingresso registrati al confine tra Ucraina e Polonia, ma anche in Romania e Ungheria. E man mano che gli ordinamenti dei Paesi Ue recepiscono la decisione del Consiglio, l’Europa solidale si scopre piena di distinguo. Da un lato ci sono Paesi come la Spagna, che applicherà la direttiva anche “ai cittadini di Paesi terzi o apolidi che risiedevano in Ucraina sulla base di un permesso di soggiorno legale valido (permanente o altro, come gli studenti) e non sono in grado di tornare nel loro paese o regione”. Dall’altro invece Stati come la Francia, dove la protezione temporanea riguarderà solo i casi esplicitamente previsti dal Consiglio Ue, ma i soggiornanti di lungo periodo dovranno comunque sottoporsi a colloqui individuali nei quali provare di non poter tornare stabilmente e in modo sicuro al paese di origine. Gli altri profughi in fuga dalla guerra? Farebbero bene a dirigersi altrove. Perché i leader dell’estrema destra francese hanno chiesto esplicitamente di accogliere gli ucraini e “di tenere fuori il resto”. E Macron, in clima da campagna elettorale, ha mantenuto la linea dura sull’immigrazione. A Ventimiglia sono almeno 50 le persone già respinte dalla polizia di frontiera e riammesse in Italia. “Ordini dall’alto”, rispondono i poliziotti francesi a quelli italiani, che chiedono spiegazioni e fanno notare che molte delle persone respinte hanno sul passaporto il timbro Schengen ricevuto al loro ingresso in Ue, e che a rigor di logica consente loro di muoversi liberamente per 90 giorni nell’Area. Niente da fare, come hanno scoperto dieci ragazzi bengalesi regolarmente soggiornanti in Ucraina per motivi di studio. Diretti a Barcellona, hanno dovuto abbandonare il pullman sul quale viaggiavano per poi essere respinti e riammessi in Italia. “Non prima di aver passato almeno dieci ore negli stanzoni della polizia francese”, ricorda Jacopo Colomba, project manager dell’associazione WeWorld, che da anni segue i migranti in transito a Ventimiglia. “Si tratta di locali vuoti, dove al posto del tetto c’è una rete metallica e si sta per terra, anche per dormine. Luoghi più volte denunciati dalle Ong e da parlamentari francesi, che però non possono accedervi perché questi ambienti non rispondono nemmeno alla normativa sul carcere, anche se gli somigliano molto”. Altro che accoglienza, viene da dire. “Ora proveranno a tornare a Milano, mi hanno detto, a vedere se si può aggirare il problema con un volo diretto, chi per il Portogallo, chi per la Spagna”. Paese dove molti di loro hanno parenti, ma anche destinazione che i più preferiranno proprio per l’applicazione maggiormente inclusiva della direttiva Ue. “C’è il rischio che si inneschi quello che una volta chiamavano “shopping dell’asilo”, riflette Colomba. “Potenzialmente in fuga dall’Ucraina ci sono 80mila studenti con regolare permesso, e tutti i titolari di permesso ordinario, e infine chi non era regolarizzato, persone che il Consiglio Ue nemmeno considera”, spiega l’avvocato Belluccio. Che a questo punto pone un interrogativo essenziale: “Perché, oltre ai profughi, dobbiamo consentire alla guerra di produrre anche degli irregolari?”. E qui veniamo all’Italia, che dopo 20 giorni dalla decisione Ue è ancora senza decreto della presidenza del Consiglio necessario a recepirla. Un ritardo che gli avvocati Brambilla e Belluccio definiscono “scandaloso e inspiegabile”. La firma del Dpcm arriverà forse lunedì prossimo, è la notizia che trapela da Palazzo Chigi, e finalmente sapremo chi può fare richiesta di protezione temporanea e chi no. Insomma, se Franza o Spagna. Nell’attesa, ai profughi non ucraini che arrivano a Trieste passando dalla Slovenia, “facciamo fare la classica richiesta d’asilo per poter accedere al sistema di accoglienza, proprio perché non sappiamo ancora cosa deciderà l’Italia”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Centro Italiano di Solidarietà - Ufficio Rifugiati (ICS). Ma non c’è solo Trieste. “A Bolzano i non ucraini che entrano in Italia semplicemente non accedono al sistema di accoglienza”, spiega l’avvocato Brambilla, che nei giorni scorsi è stata alla frontiera del Brennero. E ha i contatti delle associazioni presenti al confine e dei loro operatori. “Agli ucraini che dicono di non avere parenti o amici, e necessitano quindi di accoglienza, viene chiesto ripetutamente se non conoscono qualcuno, e gli si dice esplicitamente che “sarebbe meglio, perché non ci sono posti”, spiega una volontaria a Bolzano. Poi, chi non ha dove andare viene accolto. In uno degli alberghi convenzionati con la Provincia autonoma, in uno degli ostelli messi a disposizione o in uno dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Ma tutto cambia per i non ucraini. “Loro li indirizzano al dormitorio notturno, quello per le emergenze freddo, per i senzatetto, per intenderci”. Dove è finita anche la studentessa universitaria marocchina. “Per fortuna nel dormitorio femminile c’è posto, perché in quello maschile capita di doversi mettere in lista d’attesa”, spiegano. Ma anche la fortuna ha le sue condizioni: ci vuole il tampone molecolare, come richiesto in tutti i dormitori per senza dimora. Peccato che l’esito non arriverà prima del giorno seguente. Se non le fosse stato offerto un giaciglio in un locale della vicina parrocchia, una ragazza appena scappata alla guerra, completamente sola, sarebbe rimasta in mezzo alla strada. Poi, all’indomani, la studentessa è andata al dormitorio dei senzatetto, che però va lasciato la mattina, alle otto in punto. “Di giorno dove posso andare?”, chiedeva. In paziente attesa del decreto di Mario Draghi e in un’Europa dove ogni Paese decide chi è un profugo e chi non lo è, nessuno è stato in grado di darle una risposta.