In calo i casi di custodia cautelare in carcere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2022 Si è passati in quattro anni da 31.970 a 24.126 provvedimenti presi. Continua a diminuire il numero delle misure cautelari, e anche il ricorso alla detenzione preventiva. Inoltre, nove misure cautelari su dieci sono state emesse in un procedimento che ha avuto come esito la condanna, definitiva o non definitiva, senza sospensione condizionale della pena. Sono questi alcuni dei dati che si possono trarre dalla Relazione, riferita al 2021, del ministero della Giustizia sulle misure cautelari personali e sulla riparazione per ingiusta detenzione. Una Relazione che assume poi quest’anno un significato del tutto particolare, se solo si tiene conto del fatto che uno dei quesiti referendari punta a ridurre la possibilità di fare ricorso alle misure cautelari in una serie di casi. Intanto i numeri confermano la tendenza alla riduzione dell’utilizzo delle misure, assai più spiccata nel biennio 2020-2021 per effetto della pandemia, un po’ per tutte le ii tipologie di provvedimenti presi in considerazione. Detto che in totale si è passati da 95.798 provvedimenti nel 2018 a 81.102 nel 2021, per quello più pesante, la custodia cautelare in carcere, si è passati in 4 anni, da 31.970 a 24.126 decisioni emesse. Le misure cautelari custodiali più dure (carcere, arresti, trattenimento in luogo di cura) costituiscono il 58% circa di tutte le misure emesse. A utilizzare maggiormente le misure cautelari sono 5 distretti: nell’ordine, Roma, Milano, Bologna, Napoli e Torino. Limitando l’analisi alle sole 32.805 misure emesse nel 2021 nei procedimenti definiti nel medesimo anno e volendo ad esempio conoscerne la composizione percentuale per anno di iscrizione del procedimento definito, emerge che l’82,1% (26.941) delle misure appartiene a procedimenti definiti ed iscritti nel 2021 mentre il restante 17,9% (5.864) appartiene a procedimenti definiti nel 2021 ma iscritti in anni precedenti. Così, osserva il ministero, “l’elevata percentuale dell’82,1% sembra attestare che i procedimenti ove vengono emesse misure cautelari personali di tipo coercitivo hanno tempi di definizione molto ridotti, circostanza verosimilmente dovuta al fatto che già sussistono gravi indizi di colpevolezza a carico della persona e il giudice, nell’emettere una misura cautelare, già dispone di probabilmente fondati elementi di prova”. Quanto alle decisioni di accoglimento della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, queste aumentano in maniera considerevole, passando da 283 a 474. Ma a crollare, anche se il ministero sottolinea come il sistema sia in grado di intercettare condotte sanzionabili prima dell’emergere dell’ingiusta detenzione, è il dato degli illeciti disciplinare iniziati nei confronti dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con solo 5 azioni promosse nel 2021 a fronte delle 24 del 2019. “Troppe firme facili sull’ordinanza di custodia cautelare” di Viviana Lanza Il Riformista, 21 maggio 2022 Parla Benedetto Lattanzi, fondatore di Errorigiudiziari.com. Nascono da intercettazioni male interpretate, indagini definite con troppa fretta o superficialità, testimonianze fuorvianti, riscontri che mancano, sviste. Quel che è certo è che producono un effetto devastante. Condizionano il corso della storia, di quella personale, familiare o professionale di chi le subisce in prima persona ma anche di quella politica, economica o sociale di un determinato territorio. Le scuse non arrivano mai. Difficile anche vedersi riconosciuto un risarcimento. Parliamo degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, esempi di una giusta sempre meno giusta. Secondo le statistiche va in galera un innocente su tre. Numeri da brividi, considerate le condizioni delle nostre carceri e i danni della gogna mediatico-giudiziaria a cui, nel nostro Paese, si espone facilmente chi subisce un’indagine, figurarsi un arresto. “Un po’ di tempo fa il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ci disse in un’intervista che il carcere è un veleno e va usato con il contagocce. Parole da scolpire negli uffici giudiziari e nelle aule di Tribunale insieme alla scritta “La legge è uguale per tutti”. Sulle ordinanze di custodia cautelare si mette troppo facilmente la firma. In Italia c’è un abuso della custodia cautelare”, commenta Benedetto Lattanzi, giornalista e fondatore, con il collega Valentino Maimone, di Errorigiudiziari.com, un’associazione che da oltre anni raccoglie dati e storie di malagiustizia. Come nacque l’idea? “Da oltre 25 anni, con Valentino Maimone, lavoriamo su questo tema. Abbiamo cominciato agli inizi degli anni ‘90: da giovani cronisti avevamo appena assistito alla vicenda di Enzo Tortora, morto pochi anni prima per quella che lui stesso definì “la bomba al cobalto che mi è scoppiata dentro” con la sua vicenda giudiziaria. All’epoca avemmo la fortuna di incrociare sulla nostra strada professionale Roberto Martinelli, il numero uno dei cronisti giudiziari. Ci suggerì di approfondire le storie di errori giudiziari e noi seguimmo il suo consiglio: ci si aprì un mondo che fino ad allora in pochissimi avevano raccontato. In questi anni abbiamo raccolto centinaia di casi, che nel 1996 finirono in un (“Cento volte ingiustizia”), cento storie emblematiche di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Con l’avvento di Internet - racconta Lattanzi - decidemmo di fondare un database on line, aggiornato in tempo reale: nasceva così il primo archivio sul web di errori giudiziari e ingiuste detenzioni, www.errorigiudiziari.com, unico nel suo genere in Italia e in Europa”. Il 12 giugno si voterà per il referendum sulla giustizia, perché è importante? “La riforma Cartabia non è andata in profondità su diversi punti, per esempio la separazione delle carriere, che secondo noi servirebbe invece a dare una svolta al sistema giustizia. La questione è solo sfiorata, perché si parla di separazione delle funzioni. Il referendum è un’opportunità, andare a votare è importante anche per dare un segnale alla politica e al Parlamento che da troppo tempo su questi temi si dimostrano colpevolmente inerti”. Storie di “ordinaria” ingiusta detenzione di Riccardo Radi* Il Dubbio, 21 maggio 2022 L’ennesimo paradosso giudiziario si compie a Roma, dove un uomo si ritrova con una misura cautelare degli arresti domiciliari che non poteva e non doveva essere emessa. Si avete capito bene, non c’erano i presupposti per emettere la misura. Una sorta di sequestro di persona “legalizzato”. La vicenda vede protagonisti tre giudici della Corte di appello di Roma, tutti con una certa esperienza, che ricevono una segnalazione da parte dei carabinieri di Acilia per una presunta violazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento. I tre giudici si riuniscono in camera di consiglio e dispongono di aggravare la misura con gli arresti domiciliari lontano dal nucleo familiare. G. I., padre di quattro figli, si vede i carabinieri in casa che gli intimano di uscire immediatamente e fornire un possibile domicilio alternativo per scontare gli arresti domiciliari altrimenti lo condurranno a “Regina Coeli”. La realtà è ben diversa, in primo luogo la misura del divieto di avvicinamento era stata già revocata nel corso del giudizio di primo grado, inoltre il reato ipotizzato inizialmente di maltrattamenti era stato riqualificato, nel meno grave, di minacce che non prevede la possibilità di applicazione di alcuna misura cautelare, tutto questo sembra surreale, ma è avvenuto. Evidentemente i tre giudici non hanno letto gli atti del fascicolo che era a loro disposizione. Dopo 9 giorni di arresti domiciliari senza titolo a G. I. viene revocata la misura a seguito dell’istanza del difensore che scrive ai giudici “attenzione, il vostro provvedimento è “palesemente erroneo in fatto e in diritto, tale da determinare un arresto privo delle condizioni di applicabilità e tale da determinare una futura richiesta di ingiusta detenzione”“ . Ieri (giovedì, ndr) il provvedimento di revoca che, beffa nella beffa, è stato eseguito nella giornata di oggi ieri, ndr). I tre giudici si sono “giustificati” scrivendo, testuali parole: “L’aggravamento è stato disposto sulla base di erronei presupposti emersi unicamente dalla segnalazione fatta dai carabinieri”. Ma i giudici non dovrebbero leggere gli atti del fascicolo? Come è possibile disporre della vita delle persone senza verificare e sincerarsi della bontà delle proprie decisioni? Altro caso di ingiusta detenzione senza alcuna conseguenza per chi ha errato in maniera grossolana. La follia della Giustizia che non riesce ad ammettere neanche lo sbaglio. La magistratura continua a predicare per gli altri quello che non si applica per i suoi sodali: “Il maggior errore del giudice è di credersi immune dalla responsabilità del delitto per il quale un altro è condannato; è di credersi membro di una società migliore, di una società di eletti” (Gustavo Zagrebelsky). *Avvocato Referendum sulla giustizia: il quorum è lontano. Se si votasse adesso affluenza tra il 27 e il 31% di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 21 maggio 2022 Stenta a decollare nel dibattito pubblico la consultazione che si terrà il 12 giugno nell’election day insieme alle Amministrative: solo poco più di un italiano su due (56%) ne è a conoscenza. A tre settimane dall’appuntamento elettorale del 12 giugno il referendum sulla giustizia stenta a decollare nel dibattito pubblico, basti pensare che ad oggi solo poco più di un italiano su due (56%) è a conoscenza della consultazione. Dopo aver comunicato a tutti gli intervistati l’argomento, i quesiti e i promotori abbiamo rilevato l’importanza attribuita a questo voto. Ebbene, il 54% la giudica molto o abbastanza importante, il 27% poco o per nulla e il 19% non si esprime. Sono soprattutto gli elettori del centrodestra ad attribuire importanza a questo appuntamento, in particolare quello di FI e delle forze minori (75%), nonché quelli della Lega (72%) che fa parte del comitato promotore insieme ai Radicali italiani. A fronte di questi dati non stupisce che la propensione a recarsi alle urne sia attualmente piuttosto contenuta: la partecipazione è stimata tra il 27% e il 31%, quindi il raggiungimento dal quorum al momento appare distante. Le ragioni sono diverse: la risonanza mediatica su questo appuntamento è stata finora piuttosto limitata e ciò ha suscitato comprensibili lamentele da parte dei promotori; ed è altrettanto comprensibile che le preoccupazioni dei cittadini riguardino oggi più il conflitto in atto e le sue conseguenze economiche piuttosto che i temi della giustizia i quali, peraltro, a molti risultano ostici. E non va dimenticato che lo strumento referendario nel corso degli anni ha perso attrattiva, non a caso degli ultimi otto referendum istituiti dal 1997 al 2016 solo uno ha superato il quorum ed è risultato valido. E tra i “non validi” ce ne furono due (1997 e 2000) che comprendevano quesiti riguardanti la giustizia. Quanto ai singoli quesiti, gli orientamenti di voto sarebbero i seguenti: prevale il No (con il 56% tra coloro che intendono andare a votare e hanno già deciso cosa votare) all’abrogazione della parte della legge Severino che prevede l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per parlamentari, membri del governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali nel caso di condanna per reati gravi; il No (con il 54%) si affermerebbe anche riguardo alla possibilità di eliminare la “reiterazione del reato” dai motivi per cui i giudici possono disporre la custodia cautelare in carcere o ai domiciliari per una persona durante le indagini e quindi prima del processo. Gli orientamenti di voto variano significativamente in relazione all’appartenenza politica, infatti sul primo quesito (incandidabilità dopo la condanna) la volontà di abrogazione prevale nettamente tra i leghisti (69%), mentre sul secondo quesito (custodia cautelare durante le indagini) è maggioritario oltre che tra gli elettori di Salvini (70%) anche tra quelli di FI (69%) e, sia pure di poco, tra i sostenitori di FdI (51%). Viceversa, ad oggi prevale nettamente il Sì negli altri tre quesiti, a partire da quello riguardante la separazione delle carriere (84%) che, se approvato, determinerebbe l’impedimento per i magistrati di passare dal ruolo di giudice a quello di pubblico ministero ponendo fine alle cosiddette “porte girevoli”. Inoltre, prevale il Sì (con il 71%) all’abrogazione della norma che esclude gli avvocati, parte di Consigli giudiziari, dalle votazioni in merito alla valutazione dell’operato dei magistrati e della loro professionalità. Infine, il 70% propende per abrogare l’obbligo di un magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme per presentare la propria candidatura al Csm. Anche riguardo ai tre quesiti che vedono prevalere i Sì la percentuale di consenso all’abrogazione risulta nettamente più elevata tra gli elettori di centrodestra, in particolare tra i leghisti che fanno registrare valori tra l’82% e il 92%. Si tratta di stime da prendere con grande cautela, più come tendenza che non come previsione del risultato finale, a fronte del limitato livello di conoscenza dei quesiti, della loro complessità e, soprattutto, dell’incognita riguardante l’affluenza. Va ricordato che nella stessa data della consultazione referendaria sono indette le elezioni in 978 comuni che coinvolgeranno circa 9 milioni di elettori, e ciò potrebbe aumentare i votanti al referendum. Ma, al contrario, non depone a favore dell’affluenza il pronostico degli italiani, solo il 20% dei quali ritiene che il quorum verrà raggiunto, mentre il 48% è di parere opposto e il 32% non è in grado di fare previsioni. Insomma, la strada del quorum appare molto in salita. Al referendum servono cinque Sì per superare piccoli e grandi vizi del sistema giudiziario di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 21 maggio 2022 C’è già una svolta: sono finalmente i cittadini i protagonisti delle scelte su ordinamento, equilibrio tra poteri e garanzie. È importante l’appuntamento referendario del 12 giugno perché i problemi della giustizia vengono discussi e valutati dalla società civile nel suo complesso. Dopo oltre quarant’anni di nuovo l’elettore è chiamato a esprimersi su 5 domande e le risposte possono costituire una inversione di marcia, una discontinuità utile per correggere le deviazioni che la giustizia subisce da molti anni. Quel referendum verteva sulla responsabilità civile del magistrato invocata dai radicali ma confermata dal responso elettorale che per il 70% sì esponesse favorevolmente. Il Parlamento subito dopo avrebbe dovuto interpretare correttamente il messaggio degli elettori, ma votò una legge che attribuiva al magistrato una responsabilità molto tenue, indiretta, perché responsabile resta lo Stato che può rivalersi sullo stesso magistrato. Il cittadino chiedeva che il magistrato fosse indipendente ma al tempo stesso responsabile dei propri atti: la legge prevede una responsabilità indiretta del magistrato soltanto per colpe gravi e abbiamo constatato che in tutti questi anni non ha ricevuto sanzioni importanti neppure in casi eclatanti per errori ingiustificabili. A distanza di tanti anni constatiamo che la magistratura è diventata più autonoma a scapito della indipendenza e il magistrato si sente non responsabile, in qualche modo al di sopra e al di fuori di qualunque contestazione e a malincuore accetta il giudizio della Corte d’appello e della Cassazione. Di conseguenza la fiducia nei riguardi dalla funzione giudiziaria nel suo complesso è calata di molto anche per le vicende denunziate da Palamara per la mancanza di trasparenza del Csm, per la prevalenza delle correnti che regolano con faziosità l’organizzazione giudiziaria e per tante altre ragioni sistematiche o meramente organizzative. La fiducia era valutata intorno al 68%, e ora è al 39% perché complessivamente c’è un grande disagio per i tempi lunghi dei processi, perché si ritiene che il magistrato è politicizzato perché tante sentenze non convincono soprattutto quelle che sono diametralmente in contrasto con il pubblico ministero. Negli ultimi trent’anni la magistratura si è posta come baluardo per proteggere i cittadini dalla cattiva politica e dalla corruzione per castigare i cattivi costumi dei cittadini, e quindi si pone come colui che fa il vincere il bene sul male. Il giudice etico, moralistico è negativo e pericoloso in uno Stato democratico e naturalmente alla fine delude il cittadino che chiede una giustizia al di sopra delle passioni e delle faziosità. Le domande referendarie a cui dovremo dare risposte sono cinque e la domanda, richiesta con firme regolari, sulla responsabilità civile non è stata ammessa dalla Corte Costituzionale. Abbiamo già espresso la nostra opinione sulla decisione dell’alta corte e non è il caso di ripeterci. Darò una indicazione succinta sulle cinque domande, riservandomi nel periodo non lungo della campagna elettorale di entrare nel merito, sulle quali è opportuno votare affermativamente premettendo una considerazione generale che credo fondamentale perché orientativa per gli elettori. La giustizia attraversa una crisi profonda per ragioni generali per una in particolare. La società civile è profondamente mutata, vi è stata un’esplosione di diritti, nuove libertà si intravedono diverse e proprie di una società complessa, vi è stato un progresso della tecnologia che fa cambiare i rapporti tra i cittadini. Le istituzioni, l’organizzazione dello Stato non possono essere uguale a un secolo fa o anche a trent’anni fa. Tutti avvertono questa esigenza, magari senza risultati concreti, esclusa la magistratura che si adagia e si compiace dello stato attuale perché nella crisi degli altri poteri dello Stato pensa di rafforzare il proprio. Eppure è la domanda di giustizia che è cambiata profondamente e che dà un’identità diversa alla società e di questo dovrebbe essere consapevole il magistrato. Da sempre l’Associazione Nazionale che rappresenta questo potere anomalo rifiuta qualunque riforma perché la ritiene “contro la sua autonomia e la sua indipendenza” e quindi ritiene di essere “intoccabile”. È per tanti un mistero come mai una classe di giuristi che esercitano funzioni delicate non si rendano conto che la chiusura e la difesa della casta finirà per aumentare un discredito che certamente è dannoso per la democrazia. La riforma che la ministra Cartabia ha presentato in Parlamento che è stata votata finora dalla Camera è un primo tentativo per curare i mali della giurisdizione ma i magistrati per fortuna non tutti hanno indetto lo sciopero generale per creare ulteriore disagio cittadini. Eppure il loro compito è quello di applicare le leggi, non contestarle in maniera plateale avendo il potere di impugnarle alla Corte Costituzionale. Di fronte a questo atteggiamento è importante una presa di posizione corale da parte dei cittadini elettori che con il loro voto possono far fare un ulteriore passo alla riforma. Ha ragione chi dice che la lamentela diffusa e costante del cittadino per la denegata giustizia o per una giustizia non imparziale, non potrà continuare se non approfitta del referendum per dare un contributo a modificare la situazione attuale. Naturalmente il pronunciamento del cittadino non è e non deve essere “contro” la categoria; al contrario deve essere a favore come alcuni illuminati, pochi in verità, riconoscono. È il caso di dire che il voto può aiutare la categoria a rinnovarsi e a dare spazio e protagonismo a chi è estraneo o vuole essere estraneo alle correnti. Dunque per riferirci rapidamente ai quesiti non possiamo non riconoscere che la distinzione tra la funzione della pubblica accusa e quella del giudice è percepita da chiunque anche non giurista come cosa positiva per la regolarità del processo, perché ognuno capisce che si tratta di un separare anche sul piano organizzativo due mestieri diversi; una regolamentazione più precisa sulla custodia cautelare in carcere che ora è diventata anticipazione della pena della quale il magistrato fa un uso smodato e non è più tollerabile non può non interessare qualunque cittadino; la presenza del fascicolo personale del magistrato che attesti il lavoro svolto da cui deriva e può essere valutata è cosa sacrosanta come lo è qualunque cittadino la sua professionalità; la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari per contribuire a dare un voto sulla professionalità del magistrato arricchisce la giurisdizione; la possibilità del magistrato di poter presentare la sua candidatura per le elezioni al Csm senza la necessità di firme dei suoi colleghi preventivi, lo rendono più distante e più indipendente dalle correnti; l’abrogazione della cosiddetta legge Severino che regola i casi di decadenza dei politici e degli amministrativi è la fine di un incubo per chi lavora con estremo pericolo negli enti locali. Insieme alla riforma approvata dal Parlamento queste domande se avranno una risposta positiva dagli elettori correggeranno piccoli o grandi disfunzioni che mettono l’Italia tra i paesi dove c’è carenza di giustizia o denegata giustizia e determineranno un rapporto più stretto tra la società e “l’ordine” giudiziario, visto che le sentenze sì fanno “in nome del popolo italiano”. L’urgenza di votare “Sì” ai referendum sulla giustizia. Parla il giudice Virga di Annalisa Chirico Il Foglio, 21 maggio 2022 Dalla separazione delle carriere passa la fiducia dei cittadini nella magistratura. “Il voto è l’occasione per rimediare agli scandali che hanno travolto i giudici”, ci dice l’ex consigliere del Csm. “Finalmente mi sento un uomo libero”. Il giudice di Palermo Tommaso Virga assapora il gusto del secondo giorno da pensionato dopo quarantotto anni trascorsi nelle aule dei tribunali. “Sono stato sempre e soltanto giudice, non ho mai voluto cambiare funzione perché, a mio giudizio, requirente e giudicante sono mondi distinti e separati”, dice al Foglio il magistrato che il 12 giugno voterà “Sì” ai cinque referendum, promossi da Lega e Radicali. “È l’occasione, forse l’ultima che avremo, per imprimere un cambiamento serio all’amministrazione della giustizia. I quesiti sono troppo tecnici? In ogni caso, il cittadino ha la straordinaria opportunità di far sentire la propria voce. Dobbiamo andare a votare per non lamentarci il giorno successivo”. Virga, ex consigliere del Csm in quota Magistratura indipendente, assolto in primo e secondo grado dall’accusa di abuso d’ufficio nella vicenda Saguto, ha vissuto personalmente i veleni di una corporazione togata dove, talvolta, accuse e illazioni fungono da regolamento di conti interno. “Sono stato scagionato in entrambe le istanze perché il fatto non sussiste. Certi procedimenti nascono per favorire qualcuno o per mettere fuori gioco qualcun altro”, scandisce sibillino. Tuttavia, anche dopo l’impasse giudiziaria, Virga è tornato a indossare la toga fino al raggiungimento della pensione. “Nei tribunali c’è bisogno di aria fresca, dobbiamo dare spazio alle nuove generazioni. Anche per questo voterò ‘Sì’ ai referendum. Dopo gli scandali che ci hanno travolto, dobbiamo ammettere che non abbiamo più la fiducia dei cittadini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito la riforma del Csm non più rinviabile, evidenziando la necessità dei requisiti di efficienza e prevedibilità delle decisioni giudiziarie”. Uno dei quesiti referendari riguarda proprio l’elezione dei componenti togati del Csm: si abolisce l’obbligo di raccolta firme per presentare la propria candidatura. “È un buon rimedio per ridurre il potere delle correnti che decidono la buona e la cattiva sorte. Il quesito che mi sembra più urgente riguarda la separazione delle carriere: è vero che solo una esigua minoranza di magistrati cambia funzione, e si può fare soltanto una volta in tutta la carriera, tuttavia tale facoltà, a mio giudizio, contrasta con il dettato costituzionale che incardina la figura del pm in modo radicalmente differenziato rispetto al giudice. Se i giudici sono soggetti soltanto alla legge, il pm, sulla base dell’articolo 107 della Costituzione, gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Al giudice è richiesto di essere terzo e imparziale mentre pm e avvocato sono per definizione ‘parti’ nel procedimento”. Si dice che, separando le carriere, il pm diventerebbe un super poliziotto, scevro dalla cultura giurisdizionale… “Già oggi il pm conduce le indagini e guida la polizia giudiziaria in ogni caso. Mi sembra che si voglia nascondere la realtà. Non sta in piedi neanche la ventilata minaccia per l’indipendenza della pubblica accusa: contro il rischio di ingerenze da parte della politica o di altri organi istituzionali, è sufficiente stabilire per legge, per esempio, che il pm sarà soggetto a una sezione ad hoc in seno al Csm”. Il suo giudizio sulla carcerazione preventiva? “Voto ‘Sì’. Nel nostro paese il ricorso alla custodia cautelare in carcere non è coerente con quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione che sancisce il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. In troppi casi assistiamo a vicende abominevoli, con persone tenute per mesi dietro alle sbarre salvo poi uscire assolte, a distanza di anni, perché il fatto non sussiste. Ho sentito dire, in più occasioni, che la custodia cautelare aiuterebbe l’imputato dal momento che la detenzione conferisce una priorità accelerando la definizione del procedimento. Le sembra un ragionamento da paese civile?”. Il referendum interviene anche sul sistema di valutazione dei magistrati. “Ben venga il coinvolgimento degli avvocati nei consigli giudiziari: li ho sempre considerati una categoria fondamentale per la giurisdizione. A me hanno insegnato che non esiste un buon giudice senza un buon avvocato”. E sulla incandidabilità dei condannati in primo grado? “Spetta ai cittadini, e soltanto a loro, stabilire chi è meritevole di essere candidato e votato”. Referendum. Cangini (Forza Italia): “Votare Sì, perché difesa e accusa devono essere pari” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 21 maggio 2022 A sostegno del sì ai quesiti referendari sulla giustizia promossi da Lega e Partito radicale c’è anche il senatore di Forza Italia, Andrea Cangini, che del garantismo ha fatto uno dei tratti distintivi della sua azione politica. Senatore Cangini, perché andare a votare sì? “Perché una giustizia che funziona, e dove i diritti della difesa sono pari a quelli dell’accusa, è un elemento cardine dello Stato di diritto e, quindi, della democrazia. La nostra giustizia non funziona e questo vuol dire che la nostra democrazia è malata. Ogni anno mille persone innocenti vengono messe in prigione, il 35% dei detenuti è in custodia cautelare e non è condannata. Può capitare a chiunque di essere vittima di un errore giudiziario. Se non si vuole andare a votare per principio, lo si faccia per un istinto di sopravvivenza”. Tra i cinque quesiti referendari ce n’è uno che le sta a cuore? “Sono tutti molto importanti. Per me, di interesse rilevante è quello sulla legge Severino, perché è dall’inizio della seconda Repubblica che la politica abdica al proprio ruolo. Stiamo indebolendo la politica, quindi lo Stato, a danno di tutti i cittadini. La legge Severino introduce il principio di colpevolezza dopo il primo grado di giudizio, il che è in evidente contrasto con la Costituzione. Le voglio raccontare un episodio di cui sono stato testimone”. Prego... “Ero a casa di Francesco Cossiga quando si andava formando nel 2006 il secondo governo Prodi. Già girava la voce che Clemente Mastella sarebbe stato il guardasigilli. Cossiga chiamò davanti a me Mastella e gli disse più o meno testualmente: “Clemente, non prendere il dicastero della Giustizia. Accetta qualsiasi altro ministero, ma non quello. Se proprio non puoi farne a meno, prendi il ministero della Giustizia, ma non devi neanche lontanamente ipotizzare una cosa: fare una riforma profonda e seria della giustizia, perché se la farai ti arresteranno”. Mastella ci provò a farla, la riforma della giustizia, ma fu incriminato e l’esecutivo Prodi cadde. Dopo otto anni si è saputo che si trattava di accuse infondate, e Mastella ne è uscito prosciolto. Mastella si è, però, rovinato la vita per quell’indagine che ha avuto effetti devastanti per la democrazia”. La morale è presto detta... “La politica ha paura di procedere con una vera riforma della giustizia perché i politici hanno paura dei magistrati, perché si può essere incriminati per qualsiasi cosa dietro il paravento dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Sui referendum è calato il silenzio della sinistra... “Non mi stupisce. Storicamente, il Partito comunista ed i suoi eredi hanno utilizzato la questione morale e giudiziaria per fini politici perché hanno avuto la fortuna di essere graziati, per volontà esplicita, dai tempi di Mani pulite. C’è uno spirito giustizialista che attraversa i ranghi del Partito democratico, e che ha un sentire comune con quel che resta del Movimento 5 stelle. Sono degli ipocriti, degli irresponsabili, che non hanno il coraggio di difendere la funzione per cui sono stati eletti”. La riforma dell’ordinamento giudiziario produrrà conformismo nelle sentenze di Luigi Viola e Massimo Marasca Il Domani, 21 maggio 2022 La riforma prevede che il consiglio giudiziario, per valutare la professionalità dei magistrati, introduce il criterio delle “gravi anomalie” nelle decisioni. Con il risultato che il giudice si conformerà al precedente e non approfondirà i distinguo, le peculiarità o le sottigliezze della concreta fattispecie al suo vaglio che potrebbero portarlo a distaccarsi dal precedente. La riforma incoraggia una motivazione apparente purché conforme al precedente. La Camera dei deputati ha approvato, lo scorso 27 aprile, il disegno di legge A.C. 2681-A (ora A.S. 2595) che contiene una delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario. Uno dei punti più controversi è dato dall’inciso del nuovo art. 3, laddove è scritto “il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento, nonché, in ogni caso, che acquisisca, a campione, i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio”. Cosa si intenderà per gravi anomalie? La domanda è legittima; preoccupa, in particolare, che si possa intendere un orientamento diverso del giudice di secondo grado rispetto a quello di primo grado. D’altronde è la stessa disposizione a porre in relazione la grave anomalia con l’esito degli affari nelle successive fasi o gradi del procedimento. Le conseguenze - Le conseguenze sono almeno due. La prima è che il nostro sistema da civil law, dove è solo la legge ad essere vincolante per il giudice ex art. 101 comma 2 Cost., diverrebbe apparentemente di common law, dove è vincolante anche il precedente giudiziario; ciò in quanto il giudice, per evitare di avere conseguenze spiacevoli sulla propria carriera, sarebbe indotto (rectius costretto) ad allinearsi al pensiero del giudice del grado superiore. La seconda è che entrerebbe nel perimetro decisionale del giudice anche la c.d. giustizia predittiva di tipo induttivo, cioè quella branca del diritto che cerca di prevedere (anche con calcoli matematici) l’esito del processo tramite l’analisi dei precedenti giurisprudenziali. Gli effetti sarebbero nefasti: il giudice di primo grado finirebbe per far prevalere, pressocchè sempre, l’orientamento del giudice di secondo grado rispetto alle istanze delle parti processuali, pur laddove ampiamente corrette. Per chiarire meglio, si pone il seguente esempio: il giudice della Corte di appello è consolidato a ritenere che al fatto F vada applicata la legge D; al giudice di primo grado, viene proposta una causa in cui Tizio, agendo contro Caio, afferma che al fatto F dovrà essere applicata la legge D1. Ebbene, in questo caso, il giudice di primo grado tenderà ad applicare D, pretermettendo, cioè non ascoltando, le indicazioni scritte nell’atto di Tizio dove era sostenuta l’applicazione di D1. Per questa via è a rischio non solo l’indipendenza della magistratura ed il diritto di difesa, ma la stessa evoluzione del diritto, quindi l’evoluzione della società. Il magistrato, infatti, si conformerà al precedente e non approfondirà i distinguo, le peculiarità o le sottigliezze della concreta fattispecie al suo vaglio che potrebbero portarlo a distaccarsi dal precedente. La riforma incoraggia una motivazione apparente purché conforme al precedente. Cosa significa per gli avvocati - Per gli avvocati il lavoro sarà decisamente più complesso, rischiando di non riuscire a ottenere giustizia per le nuove istanze o trovare una copertura giuridica a nuove argomentazioni su istituti applicati da tempo in modo univoco. La riforma è, dunque, un chiaro disincentivo all’intellettualità della professione, favorendo, invece, il conformismo professionale. Per la società e i cittadini si rischia di rendere un servizio distante dalle esigenze di giustizia, in cui probabilmente si manifesteranno problematiche già sorte alle amministrazioni pubbliche non giudiziarie: si fa riferimento ai provvedimenti satandardizzati e scarnamente motivati. Altre pecche di dubbia costituzionalità attengono alla genericità dei criteri di delega, laddove non chiarisce il significato di grave anomalia e se essa vada apprezzata in termini quantitativi o qualitativi; non prevede se la grave anomalia sia valutabile in termini oggettivi o soggettivi; non stabilisce se la grave anomalia sia da riferire solo all’esito del procedimento, creando in capo al magistrato una sorta di obbligo di risultato, oppure si rivolga anche alle modalità con le quali debba essere svolta la procedura; prevede una gerarchizzazione tra i magistrati che è sconosciuta ed osteggiata dalla Costituzione. Inoltre non detta criteri per stabilire se il magistrato di primo grado debba tenere conto dell’orientamento prevalente della Corte di Appello o di quello della Corte di Cassazione o come debba stabilire questo orientamento, non assegna risorse per compiere ricerche di giurisprudenza ed elaborare statistiche per individuare l’orientamento prevalente perché il personale dell’ufficio del processo ha già colmato le preesistenti carenze di organico. Con il risultato che si indurrà il magistrato a scegliere l’orientamento prevalente e non quello più convincente secondo l’interpretazione dei fatti o del diritto. La riforma della giustizia e le eventualità da evitare di Paolo Corvini Il Domani, 21 maggio 2022 La riforma della giustizia andrebbe osservata al di fuori dalla portata dei riflettori che, mettendo in luce questioni singolarmente prive di significato, ne affievoliscono la sistematica comprensione. C’è chi mette in risalto la maggiore o minore portata dei provvedimenti, chi addirittura la vive come una vittoria del potere legislativo su quello giudiziario (sic!). Dati alla mano, sarebbe più utile mettere a sistema la percentuale di adesione dei magistrati allo sciopero (dato di per sé privo di capacità esplicativa) con i sondaggi operati con il contributo di chi, di fronte all’esperienza diretta con il sistema giudiziario, si dichiara per l’85 per cento insoddisfatto. Trilussa, che della statistica comprendeva le varie contraddizioni, desumerebbe (e questo è il ruolo della statistica inferenziale) che la giustizia tenderebbe a scontentare molti a favore di pochi. Lungi dal voler credere che questo ultimo risultato possa dipendere dal lavoro della magistratura ordinaria - la cui produttività si attesta su livelli sopra la media europea, e all’interno della quale, anche dal punto di vista qualitativo, si raggiungono punte di eccellenza qualitativa forse mai raggiunte prima - probabilmente, anche all’interno della magistratura, si consuma una grande sofferenza da parte di chi vede che le riforme sembrerebbero mirare a est per sparare a ovest. Infatti, il clima di muro contro muro dovrebbe porre sospetto e non soddisfazione e ciò prescindendo dalla portata delle modifiche operate sul campo. Mentre assistiamo, in nome del “garantismo”, a processi penali che durano in primo grado anche otto anni, attraverso l’introduzione della improcedibilità, per reati di natura “prevalentemente” economica, sembrerebbe prevalere la volontà di sterilizzare dai precetti penali la gestione dell’economia nel suo complesso. Sterilizzando le vicende economiche dalla legge penale si rischia di aprire un secolo dove qualsiasi illegittimo comportamento economico possa essere ricondotto esclusivamente alla configurazione del danno patrimoniale. In questo modo, senza porre peraltro rimedio ai problemi di efficacia (e non di efficienza) del sistema giudiziario nel suo complesso, mentre con una mano leveremmo al sistema giudiziario gli strumenti di contrasto, con l’altra potremmo spalancare la porta alla cultura della prepotenza. L’idea di giustizia mal si concilierebbe con l’ossimoro della diseguaglianza. Questa è una eventualità certamente da scongiurare. Calano i processi ma la giustizia è sempre più lenta di Simona Musco Il Dubbio, 21 maggio 2022 Tanti avvocati, pochi giudici. E tempi troppo lunghi per i processi civili, che necessitano di quasi 1.600 giorni per arrivare in Cassazione. Un record, in Europa, dove l’Italia, secondo il rapporto annuale sui sistemi giudiziari della Commissione europea, si piazza al primo posto, praticamente doppiando la seconda in classifica, ovvero la Spagna. La colpa, ebbero a dire l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo e l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, sarebbe proprio degli avvocati: troppi, avevano sottolineato, con conseguente “domanda patologica di giustizia”. Una teoria che, però, si scontra con i dati: nel nostro Paese, stando ancora al rapporto, il numero di procedimenti civili, commerciali e amministrativi, negli ultimi dieci anni, è pari a 10 ogni 100 abitanti. L’Italia è dunque agli ultimi posti in Europa per numero di nuove cause. Ciò nonostante, i tempi sono ancora lunghissimi: per arrivare a una sentenza di primo grado, nel 2020, sono serviti quasi 700 giorni, mentre ne servono meno di 200 ai primi dieci Paesi classificati. Un dato che, nel 2020, è peggiorato, a causa del temporaneo rallentamento dell’attività giudiziaria dovuto alle rigorose misure restrittive introdotte per far fronte alla pandemia: nel 2018 e nel 2019 servivano poco più di 500 giorni, mentre nel 2012 erano necessari 600 giorni. Lenta anche la Francia, dove servono più di 600 giorni per chiudere il primo grado di giudizio. Per una sentenza di secondo grado in Italia sono invece necessari oltre mille giorni, mentre in Germania ne servono meno di 300. Ma il nostro Paese è in fondo alla classifica anche per numero di giudici: l’Italia è infatti al ventunesimo posto con undici toghe ogni 100mila abitanti, contro le 25 della Germania e le 40 dell’Ungheria. Su una pianta organica di 10.433 magistrati, infatti, sono 1.431 i posti vacanti. Mentre sono circa 400 ogni 100mila abitanti gli avvocati nello Stivale, quarto nell’Ue per numero di legali in proporzione alla popolazione, dopo Lussemburgo, Cipro e Grecia. La Germania, invece, si piazza al decimo posto, con 200 legali ogni 100mila abitanti, numero che scende a 100 in Francia. A fronte di tali numeri, è scarsa la stima della gente nei confronti di giudici e tribunali: ad avere una percezione positiva del loro grado di indipendenza è poco meno del 40%, dato che ci fa piazzare al 23esimo posto in Europa. I numeri restituiscono dunque un quadro a tinte fosche per la giustizia italiana. Ma quel che è certo, secondo il presidente dell’Unione delle Camere civili, Antonio de Notaristefani, è che la colpa non può essere addebitata agli avvocati. “Diminuiscono le nuove cause, diminuiscono gli avvocati, ma i tempi dei processi si allungano ancora di più - commenta al Dubbio il leader dei civilisti -. Questo rapporto certifica quello che noi avvocati sappiamo da tempo: il sospetto che i tempi lunghi della giustizia italiana siano determinati dal fatto che troppi avvocati fanno cause inutili per sbarcare il lunario non è vero. I tempi di durata dei processi sono dati dal numero dei processi arretrati e dalla produttività dei giudici, che sono certamente troppo pochi”. Ma la scarsa produttività, spiega de Notaristefani, non è legata solo al numero di magistrati o al numero di fuori ruolo - 225 toghe in totale, alle quali si aggiungono i numeri degli incarichi extra giudiziari, 768 in un anno: “Quello che forse incide maggiormente sui tempi della giustizia civile è un formalismo esasperato che esiste solo in Italia - sottolinea -. Faccio un esempio: a marzo 2022, la Cassazione ha nuovamente rimesso alle Sezioni Unite la questione della validità della procura spillata su foglio separato. Sono iscritto all’albo, dei praticanti prima e degli avvocati poi, dal 1982. E di questa questione ho sentito parlare sin da allora e sistematicamente ogni tre-quattro anni. Nel 1997 il legislatore ha fatto una legge per dire che la procura spillata su foglio separato è valida. Ma la Cassazione, oggi, continua a fare sentenze e a rimettere alle Sezioni Unite la stessa questione”. Il che vuol dire disperdere una parte molto significativa dell’attività giurisdizionale in questioni di carattere formalistico. “Discutiamo delle regole del processo - continua de Notaristefani -, non di chi ha ragione e di chi ha torto. Mettendo insieme tutti questi elementi mi sembra chiaro che i tempi della giustizia si allungano”. Altro problema è l’incertezza delle decisioni: “Se la Cassazione cambia idea in continuazione su tutto, chiunque sarà indotto a portare le cause fino alla Suprema Corte, perché si può sempre sperare in un cambio di indirizzo - aggiunge -. L’idea che un avvocato possa far cause inutili è poi anacronistica. Può darsi che 50 anni fosse così, e che la durata dei processi consentisse agli avvocati di chiedere compensi più alti, ma oggi il cliente paga a risultato ottenuto e non fa altro che lamentarsi della durata dei processi, quasi come se la imputasse a noi. E quanto più dura il processo tanto più diventa difficile farsi pagare”. I veri danneggiati dalla durata dei processi, insieme ai cittadini, sono dunque proprio gli avvocati. “Chiudere un processo dopo anni per il cittadino è un’ingiustizia ed è chiaro che a fare da parafulmine è l’avvocato, perché media il contatto con il mondo della giustizia - conclude de Notaristefani. Sono cose facilmente intuibili, ma quando lo diciamo noi avvocati veniamo accusati di difesa corporativa. Ora che lo dice il rapporto Cepej speriamo che qualcuno si convinca”. Nonostante i numeri impietosi con il nostro Paese, la Commissione europea ha espresso commenti entusiastici sulle iniziative politiche in fatto di giustizia. “Diamo un giudizio molto positivo delle riforme della Giustizia in Italia e ora monitoreremmo che effettivamente verranno realizzati gli obiettivi - ha dichiarato il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders. Ho avuto molti scambi con la ministra Marta Cartabia nel corso dell’anno per vedere come fare progressi”. Festival della giustizia penale, Gatta: “Dati e statistica per un sistema giudiziario più efficiente” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 21 maggio 2022 Il consigliere della Guardasigilli alla kermesse di Modena: “Il nostro paese è molto arretrato in tema di statistica giudiziaria, che è uno strumento fondamentale proprio per fare valutazioni”. I dati e la statistica al servizio della giustizia, ancor di più dopo la riforma messa in piedi dalla guardasigilli Marta Cartabia. È stato questo il punto focale del dialogo-intervista andato in scena a Modena tra Gianluigi Gatta, ordinario di diritto penale all’Università di Milano e consigliere della ministra, e Luigi Ferrarella, firma del Corriere della Sera, nel corso del Festival della giustizia penale. La conversazione è stata anticipata da un’introduzione del sottosegretario alla Giustizia e deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, che in fase di apertura ha spiegato di non essere innamorato “della iperefficienza, ma della necessità che i principi siano rispettati”, sottolineando di preferire “un processo più lento ma più giusto”. Ma il punto centrale del dibattito è arrivato quando si è parlato delle novità della riforma, tra cui la gestione del fascicolo di valutazione dei magistrati grazie a nuovi strumenti per la raccolta dei dati. “Il processo di riforma che stiamo immaginando si realizzerà nel corso degli anni, questo è un dato di realtà - ha spiegato il consigliere Gatta -. Il nostro paese è molto arretrato in tema di statistica giudiziaria, che è uno strumento fondamentale proprio per fare valutazioni”. Per poi affermare che “questo è importante sia per la politica che per il Csm”, che poi è nient’altro che l’organo cui spetterà la valutazione degli stessi magistrati. “Per avere questi dati bisogna avere una base informatica che li raccolga, li analizzi e li renda trasparenti - ha aggiunto Gatta - Per farlo, sono stati fatti degli investimenti da parte del ministero nell’ambito del Pnrr, è stato istituto un nuovo dipartimento che si occupa della transizione digitale e della statistica ed è stato costituto un comitato tecnico scientifico per il monitoraggio della giustizia penale”. Il comitato, di cui lo stesso Gatta fa parte, “monitorerà gli effetti della riforma (e quindi anche tutto ciò che riguarda la valutazione dei magistrati, ndr) dal punto di vista dei dati statistici”. Che ci sono già, ma che al momento sono divisi tra Istat e ministero della Giustizia, e all’interno di quest’ultimo tra dipartimenti diversi. I dati saranno poi fondamentali anche per verificare i risultati ottenuti dalla riforma riguardo ad altri fattori, come i tempi dei processi e le problematiche connessi agli istituti penitenziari. “Dati al servizio della giustizia - ha concluso Gatta - Solo così avremo un sistema giudiziario più moderno ed efficiente”. “Ci fu una prova generale della strage di Capaci, ma nessuno denunciò” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2022 La rivelazione di Pippo Giordano, ex ispettore Dia vicino a Falcone: “La storia poteva cambiare...”. Pochissimi lo sanno: alcuni giorni prima di compiere la strage di Capaci, la mafia corleonese fece una prova generale. A scoprirlo fu la Direzione Investigativa Antimafia, e a raccontare al Dubbio l’incredibile vicenda è Pippo Giordano, che della Dia è stato ispettore e che, dopo il 23 maggio, localizzò personalmente il luogo esatto dell’esperimento. “Gli uomini di Cosa nostra scelsero una pubblica strada in contrada Rebuttone, nel territorio di Altofonte: imbottirono una cunetta di esplosivo, fecero saltare in aria quel tratto e poi lo riasfaltarono. La zona”, racconta, “non era disabitata, ma nessuno allertò le forze di polizia. Una segnalazione, anche anonima, avrebbe scritto una storia diversa”. Sono passati trent’anni dalla strage di Capaci avvenuta il 23 maggio del 1992. Morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La detonazione provocò un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. Pochi lo sanno, ma prima di compiere la strage, la mafia corleonese fece una prova generale con tanto di esplosione riempiendo una cunetta di esplosivo: la strage di Capaci in miniatura. A scoprirlo è stata la Direzione Investigativa Antimafia. A raccontare a Il Dubbio quell’episodio è Pippo Giordano, già ispettore della Dia, colui che localizzò il luogo esatto. L’ex ispettore ha lavorato con i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e i poliziotti Ninni Cassarà e Beppe Montana, tutti vittime della mafia. Oggi in pensione, mette a disposizione le sue memorie per contribuire a ricostruire uno Stato fondato sulla legalità. La sua iniziativa è rivolta principalmente agli studenti. Lei che attraversò la stagione più sanguinosa di Cosa Nostra, ci racconta come e quando riuscì a scoprire il luogo dove ci fu la prova generale compiuta qualche giorno prima dell’attentato? Conobbi il dottor Giovanni Falcone, quand’ero alla Squadra mobile di Palermo, negli orribili anni della mattanza voluta da Totò Riina. A Palermo era più facile morire che vivere, tant’è che gli organi di stampa consideravano Palermo come Beirut. Ancora oggi si compie un errore storico definendo quegli anni, guerra di mafia. La realtà è un’altra. Ci fu solo una mattanza voluta da Totò Riina. Quest’ultimo con inaudita violenza, conquistò manu militare l’intera Isola. Era padrone del territorio a tal punto, che si permise prima di compiere la strage di Capaci, di fare le prove dell’attentatuni. Infatti, giorni prima del 23 maggio 1992, alcuni uomini di Cosa nostra per testare la potenza distruttiva dell’esplosione, scelsero una pubblica strada in contrada Rebuttone, nel territorio di Altofonte e imbottirono una cunetta di esplosivo. Quindi, fecero saltare in aria quel pezzo di strada e con i macchinari del mafioso Gino La Barbera (presente sul luogo) ripristinarono il manufatto, asfaltando la strada. Io ero in forza alla Dia di Roma e fui mandato a Palermo per localizzare l’esatto luogo ove era avvenuto “l’esperimento”. Fui coadiuvato da un collega della Dia di Palermo, Giovanni Lercara. Il sopralluogo, effettuato anche con l’ausilio di un elicottero della polizia, ci consentì di identificare il tratto di strada. Conclusa l’indagine presentai un dettagliato rapporto, allegando anche un fascicolo fotografico. La zona non era affatto disabitata, ma nessuno sentì la necessità di allertare le forze di polizia. Una segnalazione, anche anonima, avrebbe scritto una storia diversa. Lei ha conosciuto molto da vicino Falcone: cosa l’ha colpito di lui? E con la sua esperienza, esistono degli “eredi”? Incontrai la prima volta il dottor Giovanni Falcone a Palermo all’inizio degli anni ‘ 80, durante gli interrogatori di Salvatore “Totuccio” Contorno, che avvenivano presso il Commissariato Ps di Mondello. Successivamente, in tempi diversi sino all’autunno del 1989, lo assistetti in alcuni interrogatori di pentiti. A proposito di Contorno va ricordato che fummo costretti a spostarlo repentinamente, nascondendolo in un appartamento nello stabile della Mobile palermitana. Fu trasferito perché dentro una cabina telefonica, vicino al Commissariato, era stata rinvenuta una sagoma di un uomo con alcuni fori di proiettili imbrattati di vernice rossa. Una decina di anni dopo Gaspare Mutolo ci raccontò che l’intento di quelle minacce era di spostare Contorno in una località più consona a un attacco in forze. Lo stesso Mutolo ci riferì - citando i componenti del commando della famiglia di San Lorenzo - che Cosa nostra aveva pianificato un attentato al dottor Falcone all’uscita della Favorita in direzione Mondello, esattamente dove ancora oggi esiste la strettoia. Ci rinunciarono perché nel frattempo a Falcone era stata intensificata la scorta. Di Falcone, mi colpì la sua grande umiltà e umanità nel trattare i mafiosi. Era una persona estremamente garbata, oserei dire un produttore a livello industriale di empatia. Non si poteva rimanere insensibile al suo carisma e al suo modo di rapportarsi. E poi con quel bel sorrisetto sornione sotto i baffetti ti ammaliava. Non vidi mai Falcone alterarsi. Era di poche parole, ma era capace di fare battute sarcastiche. Mi ricordo quella rivolta a me, durante l’interrogatorio di Stefano Calzetta, al quale era presente anche Ninni Cassarà. Lei mi chiede se esistono eredi di Falcone. No, lo escludo. Guardi che a causa del mio specifico compito alla Dia, assistetti decine di magistrati non solo palermitani. Ebbene, secondo la mia valutazione pensare che possano esistere eredi di Falcone la reputo una colossale castroneria. Falcone brillava di luce propria, mentre altri di luce riflessa. Dunque, finiamola con questa pantomima, Falcone era e rimane unico. Anche Tommaso Buscetta non può avere eredi come spesso si sente dire. Lo affermo con cognizione di causa per averlo frequentato e per l’esperienza che ebbi con 8 pentiti di Cosa nostra. U Zu Masino era un uomo speciale. In merito all’attentato di Capaci ci sono delle sentenze definitive dove è cristallizzata la modalità dell’esecuzione e anche il movente. Eppure, ancora oggi, attraverso programmi tv in prima serata, si sentono proporre svariate ipotesi. Si è fatta qualche idea al riguardo? Non una ma diverse idee. Veda, mi sto stancando di tutti questi produttori di teoremi assurdi e soprattutto di pseudo pentiti e di tanti produttori di serial tv riconducibili a “fantamafia”. Qualcuno ha detto che ci sono “inquinatori di pozzi”. Assolutamente no, ci sono invece inquinatori di laghi, viste le minchiate che ogni giorno ci propinano e che sono immense. Noi della Dia lavorammo a tempo pieno sulla strage di Capaci. Mentre per via D’Amelio non fummo coinvolti, tranne in un episodio riguardante il pedinamento e arresto di Profeta, tirato in ballo pur sapendolo innocente da suo cognato Scarantino. La mia idea è che nonostante sentenze passate in giudicato, taluni cercano di ammorbare la verità processuale. Il continuo riferimento a servizi deviati o a trame ordite dal Ros, pur nell’ormai acclarata verità processuale, sta assumendo contorni stomachevoli. E basta fatevene una ragione, siano in uno Stato di diritto. A me sembra di assistere a pupiate ad uso e consumo dei talk show. Purtroppo, gli ingenui e facili creduloni, ahimè, abboccano e poi diventano cassa di risonanza nei social. Di solito non do consigli, ma ritengo doveroso trasgredire, dicendo che sarebbe equo e necessario che taluni personaggi occupanti posti di rilievo nelle Istituzioni, s’attaccassero u parra picca (parlassero poco) e stessero lontano dai riflettori. Intelligenti pauca. Un’ultima domanda. Cosa nostra, in quei tragici anni, aveva perso oppure vinto contro lo Stato? Sicuramente in quel periodo Cosa nostra aveva vinto. La risposta dello Stato, seppure lentamente, iniziò dopo la costituzione del Pool creato dal dottor Rocco Chinnici. E infatti, l’opera di contrasto alla mafia operato dal Pool, di cui facevano parte Di Lello, Borsellino, Falcone e Guarnotta, iniziava a sgretolare lo strapotere dei corleonesi. All’epoca si creò una sinergia di grande valore tra magistratura, polizia e carabinieri. Una collaborazione mai vista in precedenza. Io penso che occorre riconoscere al dottor Rocco Chinnici, l’intelligenza di aver compreso che i mafiosi non erano affatto “ scassapagghiari”, ovvero delinquenti di piccolo cabotaggio com’erano considerati prima, ma un coacervo di poteri ramificati non solo nel territorio siciliano ma anche oltre Oceano. Fu senza ombra di dubbio un’intuizione vincente. Del resto basta pensare che il “papa” (Michele Greco) prima dell’emissione dei 161 mandati di cattura, era titolare di porto d’armi. Concludo affermando che noi abbiamo vinto, ma abbiamo pagato un esoso tributo di sangue. E mentre a Palermo scorreva copioso sangue innocente, lo Stato latitava o era affetto da ipoacusia. Eravamo soli, soli e soli. L’imputato non latitante condannato in contumacia ha diritto alla riapertura del processo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2022 Il diritto a presenziare al procedimento va garantito ad eccezione del caso di chi informato si dà volontariamente alla fuga. L’imputato che venga processato e condannato in contumacia ha diritto a ottenere la riapertura del processo affrontando il merito della causa. Ma la sua assenza deve essere in colpevole. Infatti, in caso di latitanza tale diritto non è imposto dalla direttiva 2016/343. Così la Corte Ue - con la sentenza sulla causa C-569/20 - offre l’interpretazione degli articoli 8 e 9 della direttiva. La decisione afferma che qualora sia impossibile rintracciare un imputato, quest’ultimo può essere giudicato o condannato in contumacia, ma ha il diritto, successivamente, di chiedere e ottenere la riapertura del processo, che deve riaffrontare il merito della causa alla sua presenza. Ma detta anche un perimetro di tale facoltà riconosciuta in caso di condanna in assenza dell’imputato: il diritto alla celebrazione ex novo del processo penale non scatta se la persona si è volontariamente sottratta alla giustizia impedendo alle autorità di informarlo sullo svolgimento del processo. Nessuna riapertura del processo è perciò garantita all’imputato in fuga. L’assenza - Quando risulti impossibile rintracciare un imputato, quest’ultimo può essere giudicato e condannato in contumacia. Nel caso concreto l’imputato era accusato di partecipare a un’associazione a delinquere diretta a commettere reati tributari punibili con pene detentive. Un primo atto di imputazione gli era stato notificato personalmente e questi aveva indicato un indirizzo dove poter essere contattato. Ma al momento dell’avvio della fase giurisdizionale non era stato possibile reperire l’imputato all’indirizzo indicato impedendo di fatto la sua convocazione in udienza. E anche l’avvocato nominato d’ufficio dal giudice non era riuscito a mettersi in contatto con l’imputato. Inoltre, il processo risultava concluso in quanto nullo per un vizio di legittimità dell’atto di imputazione notificato. Riformulato l’atto di imputazione si apriva un nuovo processo e l’imputato però veniva ricercato ma senza esito positivo. Il giudice del rinvio ha chiesto quindi alla Cgue in quale delle ipotesi previste dalla direttiva 2016/343 rientrasse un simile caso dove l’imputato - dopo aver ricevuto comunicazione del primo atto di imputazione e prima dell’inizio della fase giurisdizionale del processo penale - si era dato alla fuga. La Corte precisa che, in linea di principio la persona giudicata in contumacia ha diritto a ottenere un nuovo processo ma tale diritto può essere negato se sussistono indizi precisi e oggettivi del fatto che l’imputato abbia avuto sufficienti informazioni per essere a conoscenza dell’imputazione e della celebrazione di un processo nei suoi confronti, ma che con atti deliberati e mirati a sottrarsi all’azione penale abbia di fatto impedito alle autorità di notificargli l’atto di avvio del procedimento giurisdizionale. La materia è regolata dagli articoli 8 e 9 della direttiva che hanno efficacia diretta negli ordinamenti nazionali in quanto affermano diritti soggettivi espressamente delineati. Non necessitano quindi di recepimento statale per essere riconosciuti ai singoli. Corte ricorda anzitutto che, per quanto riguarda l’ambito di applicazione e la portata del diritto a un nuovo processo, occorre considerare l’articolo 8, paragrafo 4, e l’articolo 9 della direttiva 2016/343 come aventi efficacia diretta. Tale diritto è riservato alle persone il cui processo è svolto in contumacia anche laddove le condizioni previste all’articolo 8, paragrafo 2, di tale direttiva non siano soddisfatte. Il diritto a presenziare al processo previsto dall’articolo 8 consente lo svolgimento del processo in contumacia se l’imputato informato del procedimento volontariamente non vi partecipa. In tal caso soddisfatte le condizioni di una debita informazione dell’imputato - che consente il giudizio in contumacia - l’inequivocabile volontarietà dell’assenza nel procedimento non impone di riconoscere il diritto a un nuovo processo. Questa l’interpretazione dei giudici europei mirata a definire il giusto equilibrio tra le esigenze di garantire il rispetto dei diritti della difesa e di evitare però che la persona assente al processo di cui era informata possa, se condannata in contumacia, pretendere un nuovo procedimento ab initio di fatto ostacolando abusivamente l’efficacia dell’azione penale e la buona amministrazione della giustizia. L’informazione all’imputato - L’ostacolo alla celebrazione di un nuovo processo è costituito dal fatto che l’imputato sia stato volontariamente assente dopo essere stato informato dello svolgimento del processo da cui è scaturita la condanna. Ma spetta al giudice nazionale verificare che realmente un documento ufficiale (da cui risultino in modo non equivoco data e luogo del processo e le conseguenze dell’assenza dallo stesso) sia stato portato all’attenzione dell’interessato e che la sua notifica sia avvenuta in tempo utile per predisporre un’efficace difesa. Latitanza - Per quanto riguarda gli imputati latitanti la Corte Ue precisa che la direttiva 2016/343 non consente agli Stati membri di escludere il diritto a un nuovo processo per il solo motivo che l’interessato si è dato alla fuga e che le autorità non sono riuscite a rintracciarlo. Al fine di negare il diritto deve appunto risultare che l’indagato in fuga abbia avuto conoscenza dell’accusa di aver commesso un reato potendo prevedere di conseguenza che si sarebbe celebrato un processo a suo carico. Padova. Firmato il primo protocollo operativo sulla giustizia riparativa padovaoggi.it, 21 maggio 2022 Servirà per rafforzare la collaborazione tra gli enti e rendere le attività ancora più capillari ed efficaci. Mercoledì 18 maggio il Centro per la mediazione sociale e dei conflitti di Padova, una delle attività dell’associazione “Granello di Senape Padova ODV”, ha sottoscritto un Protocollo operativo in materia di giustizia riparativa con il Comune e l’Uepe di Padova. Alla firma il coordinatore del Centro, il mediatore penale Lorenzo Sciacca, la presidente dell’associazione Ornella Favero, la dirigente Fiorita Luciano, caposettore del Gabinetto del sindaco, la dirigente dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Padova Maria Concetta De Masi. In vista dell’entrata in vigore della tanto attesa riforma Cartabia sul tema della giustizia, questo Protocollo non fa che rinforzare e valorizzare l’operatività del Centro, attivo formalmente sul territorio provinciale dalla fine del 2019 negli ambiti penale, sociale e scolastico e sostenuto dal Comune di Padova tramite un finanziamento dedicato. Questo percorso permetterà a tutti gli enti coinvolti di sentirsi parte sempre più attiva del processo di riparazione e rigenerazione della comunità patavina. Ad oggi il Centro si avvale della preziosa collaborazione di nove mediatori penali (oltre a Sciacca, Giuseppe Ceravolo, Michele Cafiero, Elisa Nicoletti, Serena Volpato, Alessandra Fantozzi, Giulia Baldissera, Andrea Andriotto e Thalita Bezzera) e di tre mediatrici sociali (Maria Antonietta Ciano, e Annalisa Almansi). La loro attività è sostenuta dall’apporto costante e irrinunciabile di diversi volontari, anche in servizio civile, e tirocinanti. Un altro attore fondamentale di questo processo di radicamento nel tessuto sociale, penale e scolastico padovano è la Polizia locale, rappresentata in sede di sottoscrizione dal responsabile Commissario capo Andrea Boscarollo e dal Commissario Agostino Maccato. Si tratta peraltro del primo ente - la Polizia locale - con cui il Centro di mediazione ha instaurato una collaborazione ufficiale per mediare i primi casi su segnalazione diretta. Senza il contributo di tutte queste forze concentriche, come anche dell’imprinting di Silvia Giralucci prima e di Donatella Natale oggi tramite il progetto “Padova Città Sane”, il Centro non sarebbe probabilmente nato e non si sarebbe spinto fino a dove è arrivato oggi. La giustizia riparativa - Si tratta di un paradigma nato per mettere al centro di potenziali percorsi di incontro e riparazione vittime, autori di reato e la cittadinanza, per risolvere questioni scatenate dal reato stesso con l’aiuto di figure terze imparziali (i mediatori), previa adesione libera e volontaria di tutte le parti in causa. Gli scopi sono promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo attraverso un riconoscimento reciproco, che può portare a ricostruire quel patto di cittadinanza che è stato infranto con la commissione del reato. Lo strumento principe della giustizia riparativa è la “mediazione penale”: un percorso di incontro, confronto e dialogo tra il reo e la vittima del reato, sempre guidato dalla presenza dei mediatori, per permettere il passaggio dalla violenza e l’accusa - o la difesa - al riconoscimento della sofferenza e del disordine. Torino. Presunte torture nel carcere: il processo “non è urgente” lospiffero.com, 21 maggio 2022 Il Tribunale respinge la richiesta di anticipare il dibattimento che resta fissato a luglio del 2023. Indagati 22 agenti di polizia penitenziaria, il loro comandante e l’ex direttore delle Vallette: a vario titolo responsabili delle presunte violenze sui detenuti. Il maxi processo per le presunte torture sui detenuti nel carcere torinese delle Vallette non è classificato come “urgente” e non presenta quei “documentati fattori di eccezionale gravità” che permettono al tribunale di anticiparne lo svolgimento: l’udienza di apertura resta fissata al luglio del 2023. Questo si afferma nell’ordinanza con cui è stata respinta un’istanza presentata dagli avvocati di parte civile. Il processo riguarda 22 imputati, quasi tutti appartenenti al corpo di polizia penitenziaria. Il tribunale non è entrato nel merito della vicenda, ma ha osservato che l’organico non è completo e che il processo non rientra fra le categorie classificate a Torino come “urgenti”. L’inchiesta, coordinata dal pubblico ministero Francesco Pelosi, era nata da alcune segnalazioni da parte del garante comunale dei detenuti, Monica Gallo. Tra gli indagati, oltre a 22 agenti di polizia penitenziaria, anche l’ex direttore della casa circondariale Domenico Minervini, rimosso dall’incarico dopo l’apertura dell’indagine, e l’ex comandante delle guardie carcerarie Giovanni Battista Alberotanza. I due, accusati di favoreggiamento e omessa denuncia, hanno scelto il rito abbreviato insieme ad un’agente. Gli episodi contestati risalgono al periodo tra aprile 2017 fino ottobre 2019 e si sarebbero verificati nel settore C dell’istituto “Lorusso e Cutugno”. Dodici i detenuti parti lese. La prima udienza si terrà il 4 luglio 2023. Cagliari. Il progetto Lav(or)ando lancia il marchio “Lav(or)ando. 100% Inclusione Sociale” esperienzeconilsud.it, 21 maggio 2022 Dopo essersi presentato alle imprese e associazioni del territorio sardo, il progetto Lav(or)ando fa un ulteriore passo avanti, nella realizzazione concreta di una rete di attività accogliente e solidale, proiettata nel dare a chi ha sbagliato una nuova occasione di formazione e reinserimento professionale e sociale. La Elan Società Cooperativa Sociale, ideatrice del progetto sostenuto dalla Fondazione con il sud, ha infatti lanciato il marchio “Lav(or)ando - 100% Inclusione Sociale”, aperto a soggetti, economici e non, impegnati in iniziative con obiettivi di inclusione sociale, che approvano i princìpi dell’Economia Civile e si riconoscono nei valori espressi nella Carta di Firenze dell’Economia Civile, approvata nel settembre 2021 e incentrata sulla valorizzazione del lavoro e delle persone e sul sistema economico che associ l’impatto sociale alla ricerca del profitto. In particolare, il marchio nasce sulla scorta dell’esperienza in corso alla casa circondariale di Uta “Ettore Scalas”, dove i detenuti apprendono un mestiere e delle competenze spendibili nel mercato del lavoro, una volta esaurita la pena. Un percorso che facilita il loro reinserimento e accresce la loro autostima. Più nel dettaglio, il marchio appena lanciato punta a favorire il superamento dei processi di esclusione sociale dei detenuti; aumentare il livello di sicurezza sociale collettiva collegata al calo del tasso di criminalità e di recidiva; aumentare la sensibilità verso il tema dell’inclusione e accrescere la responsabilità sociale d’impresa; favorire la costituzione di una rete stabile tra attori chiave istituzionali, privati e terzo settore; infine ridurre la spesa pubblica e i costi sociali ed economici di un detenuto. Hanno già aderito al marchio i partner del progetto Lav(or)ando. Roma. Shakespeare in carcere è donna di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 maggio 2022 Va in scena a Roma, per la prima grande serale esterna, “Ramona e Giulietta”, riscrittura tragicomica della celebre opera, allestita all’interno della sezione femminile di Rebibbia. La regista Francesca Tricarico: “La prima unione civile tra detenute aveva diviso la comunità carceraria tra pro e contro. Al fondo c’era l’invidia di chi non poteva godere dell’affettività”. La scena è scarna, come lo è l’interno di un qualsiasi carcere. Sgabelli di legno come muretti, giusto il minimo indispensabile per sedersi a parlare, leggere, scrivere o pensare. O come scalinate, per arrampicarsi quel poco che basta a proiettare lo sguardo oltre il muro dell’incomprensione. Due donne si amano, ma non possono: non è consentito, in quel contesto. C’è chi le odia, chi invece le comprende, chi le invidia, chi non tollera. “Questo non è teatro, non è intrattenimento: è trattamento”, fa notare Elena Zizioli, docente di Scienze della formazione all’Università Roma Tre coinvolta nel progetto. E lo si capisce subito che quelle quattro attrici - Bruna Arceri, Alessandra Collacciani, Sara Panci, Daniela Savu, Raquel Robaina Tort, regolarmente retribuite per il lavoro che svolgono sul palcoscenico - più che recitare stanno portando in scena ciascuna la propria rabbia, il proprio amore, la propria gelosia, il proprio ritrovato o riperso equilibrio dentro le mura di una cella. In un percorso che è iniziato dietro le sbarre, più per noia che per passione, nel braccio femminile di Rebibbia (dove sono recluse 350 donne), ed è arrivato mercoledì scorso alla “grande prima serale romana” nello Spazio Rossellini, quartiere Ostiense, con il sostegno delle Officine di Teatro Sociale della Regione Lazio, della Fondazione Severino e della Fondazione Cinema per Roma, e alla presenza dei Garanti nazionale, regionale e comunale dei detenuti. Loro, le quattro attrici, ora sono più o meno vicine alla libertà, ma con “Ramona e Giulietta (quando l’amore è un pretesto)”, tragicommedia ispirata alla celebre opera shakespeariana, scritta e diretta da Francesca Tricarico (prodotta dall’associazione Per Ananke), hanno condotto un po’ dentro le mura di Rebibbia tutti i 400 spettatori, emozionati ed entusiasti. La regista Francesca Tricarico ha fatto un grande lavoro con ciascuna di quelle donne, le ha prese per mano fin dal 2013, quando ha scelto di dedicarsi alla sezione femminile dopo l’esperienza nel braccio maschile con lo spettacolo “Cesare deve morire” (portato al cinema dai fratelli Taviani). “Lavorare nel femminile è molto più complicato perché le relazioni sono più complesse. Non è stato facile guadagnarmi la loro fiducia. E per una donna ex detenuta il reinserimento è molto più difficile che per un uomo, lo stigma sociale è più radicato”, ricorda Tricarico che nell’Alta sicurezza ha fondato la compagnia “Le Donne del Muro Alto”. “Complice la pandemia, nel 2020, non potendo noi più entrare in carcere, grazie ad un magistrato di sorveglianza illuminato come Marco Patarnello, siamo riuscite a portare fuori da Rebibbia le attrici per l’attività teatrale”. Patarnello, presente alla prima serale romana, ha concesso loro addirittura il permesso per una piccola tournée. Perché, come sintetizza bene Francesca Tricarico, “la legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali davanti alla legge. La giustizia, ricordiamolo, è un’istituzione fatta da persone”. Nell’anno in cui si celebra il 40° anniversario del primo spettacolo teatrale allestito in un carcere - “Sorveglianza speciale, di Jean Genet, regia di Marco Gagliardo, con il quale i detenuti di Rebibbia salirono sul palcoscenico del Festival dei Due mondi di Spoleto”, come ricorda Daniela De Robert, numero due dell’ufficio del Garante nazionale dei detenuti - a teatro si mettono in scena sentimenti e pregiudizi. “Ramona e Giulietta” racconta di un’affettività che in carcere è negata perfino se si condivide la stessa reclusione. “L’anno prima dell’inizio di questo progetto, a Rebibbia c’era stata la prima unione civile tra donne detenute e la comunità carceraria si era divisa tra favorevoli e contrari - racconta la regista - Abbiamo lavorato su questo, abbiamo preso il testo di Shakespeare e lo abbiamo riscritto, sapendo che il problema era tra chi poteva permettersi di avere un’affettività in carcere e chi non poteva e ne provava invidia”. L’”amore saffico” tra Ramona e Giulietta viene sbeffeggiato finché è platonico, “offende” le altre detenute quando diventa fisico. “Qui la gioia e il dolore so’ malattie infettive”, è l’avvertimento che rivolge in perfetto romanesco, tra una canzone e l’altra, una compagna di cella a una Giulietta troppo addolorata per essere stata allontanata dalla sua amata dopo una rissa scatenata per un bacio. Ma se Ramona in questo caso non riuscirà, come Romeo, a scavalcare “le mura sulle ali dell’amore”, “l’incontro emotivo tra attori e spettatori, consente invece - come dice Francesca Tricarico - di dimostrare che non esiste un noi e un loro, che il carcere è parte della società”. Le madri con una seconda occasione fanno figli che han già perso la prima di Viola Ardone La Stampa, 21 maggio 2022 “Le madri non dormono mai”, di Lorenzo Marone. Editore Einaudi. La detenuta Miriam vive con il piccolo Diego in un Istituto a custodia attenuata. Per loro il mondo ha un perimetro strano che si apre con la scuola e di notte torna prigione Le madri non dormono mai. Nemmeno quando conviene sognare una vita diversa. Nemmeno quando la notte sembra non finire mai. Nemmeno se il giorno è durato una vita. Le madri si chiamano Miriam, Anna, Dragana, Amina. I figli si chiamano Diego, Melina, Giambo, Aramu… non fa differenza. I figli restano figli anche se le finestre hanno sbarre alle pareti, e le madri non smettono di essere madri anche se il carcere si chiama “misura detentiva attenuata”. Lorenzo Marone ci è stato negli Icam, “Istituti a custodia attenuata” creati per permettere alle detenute madri di tenere con sé i figli fino all’età massima di dieci anni. Ci è stato e ha portato con sé gli occhi di quelle madri, i sorrisi di quei figli, le voci, i dolori, gli sbagli, perfino le infinitesime felicità di tutti coloro che dentro le mura di quegli Istituti continuano la partita a scacchi contro l’emarginazione, la povertà, il bisogno, che alcuni chiamano vita. Negli Icam ci sono madri che hanno una seconda occasione e figli che senza volerlo si sono già persi la prima. Sono luoghi di reclusione ma non di prigionia, insomma, come se le due cose potessero non coincidere. Hanno certamente un aspetto meno inquietante del carcere, ma di fatto lo sono: non permettono libere uscite e hanno sbarre alle finestre. Per i bambini che ci abitano, la casa è un luogo che non appartiene, la vita è la routine carceraria, il mondo è un perimetro chiuso che comunica con l’esterno solo per approssimazione. Un fuori che è lì a portata di mano, ma che è praticamente inattingibile, a parte la scuola. Ma è proprio in quella intercapedine che si gioca l’avventura umana di queste donne che sono seguite da un supporto psicologico, hanno la possibilità di imparare un lavoro, di essere aiutate a prendersi cura dei loro figli in un momento delicatissimo in cui evidentemente non sono riuscite a prendersi cura nemmeno di se stesse. Eppure la notte, quando cala il buio e le porte vengono chiuse a chiave, quella ritorna prigione. E anche per questo le madri di notte non dormono mai. Miriam, che è appena arrivata, non guarda in faccia a nessuno, si chiude in un ostinato mutismo che nemmeno la caparbia vitalità di suo figlio riesce a intaccare. Non vuole imparare, Miriam, non vuole capire che quello per lei può essere un nuovo inizio. Forse perché sa che a soffrire per lei sarà, presto o tardi, suo figlio. Diego ha quasi dieci anni, è un po’ cicciottello ma attraversa la vita con il passo leggero di un’infanzia non ancora finita. Il gioco è dovunque, bisogna soltanto cercarlo. Si fa voler bene da tutti ed è quasi felice di essere venuto a nascondersi in questo rifugio dal mondo, lontano da quelli che nel suo rione lo trattavano male, lo prendevano in giro, avrebbero potuto ferirlo con le parole o con il coltello. È ancora un bambino ma nemmeno più tanto, e Miriam lo sa. Sa che quell’intervallo di finta libertà per loro dura poco, perché al compimento dei dieci anni lei finirà di scontare la pena nel carcere femminile e lui tornerà nel mondo reale - quello che ha mandato sua madre in galera - affidato a un parente, senza nessuno che possa vegliare su di lui. Ma fino ad allora c’è tempo: tempo per cambiare, per imparare a essere qualcosa di diverso, per darsi una possibilità. Perfino Miriam dal chiuso della sua corazza si lascia afferrare da qualche lampo di luce e sulla sua bocca, così bella, fiorisce di tanto in tanto un sorriso. Si può scoprire l’amicizia, lì dentro, si può imparare a fidarsi, si può immaginare l’amore, si può capire che non ti ama davvero chi ti espone al pericolo, chi ti chiede di finire in galera per coprire le sue malefatte. Ci sono vite che cambiano e vite che restano scolpite nel dolore, quando questo diventa un macigno. Ci sono, tra i liberi e i reclusi, più similitudini che differenze. Michele, la guardia, è forse più solo dei suoi detenuti. La notte, quando ritorna a casa è come se andasse in prigione. Greta, la psicologa, aveva in affido un bambino e lo ha perso. Ed è pure lei una madre che sfida la notte, anche a lei gli occhi rifiutano di chiudersi al pensiero di un bimbo che non rivedrà. Lorenzo Marone accarezza le storie dei liberi e dei prigionieri senza far differenza tra loro, ascoltando ogni voce e andando a scoprire ogni taglio lasciato sull’anima, facendosi a ogni pagina la stessa silenziosa domanda: è giusto che un bambino innocente finisca in prigione? E allora dove è meglio che stia quel bambino: accanto a sua madre o lontano da lei? Esiste nel nostro Paese una terza misura, sono le Case-famiglia protette: veri e propri appartamenti, inseriti nel tessuto urbano, senza sbarre né cancelli ma comunque controllati, da cui le madri possono uscire per accompagnare a scuola i figli e assisterli nel quotidiano. Un esperimento che, se esteso su tutto il territorio nazionale, potrebbe sollevare le madri dal dover scegliere per i loro figli tra due mali: la lontananza e la prigionia. E restituire loro il sonno perduto. De Rita: “Noi italiani capiremo questa guerra solo quando ci farà soffrire” di Franco Insardà Il Dubbio, 21 maggio 2022 Per il fondatore del Censis “non abbiamo capacità di prevenire le crisi. Anche stavolta ne sottovalutiamo gli effetti, tifiamo per gli opinionisti senza maturare idee nostre”. “Gli italiani in questo momento sono spettatori di una guerra. È una guerra che ci interessa, sicuramente non la sottovalutiamo, ma non la capiamo. Perché è fatta da persone che non hanno la nostra impostazione culturale, utilizzano tecniche, tecnologie e spietatezze che non sono nostre. Non ci sono i parametri per sentirla nostra questa guerra”. Per il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, gli italiani vedono dunque il conflitto come qualcosa al di là da venire. Eppure Draghi ha parlato di problemi economici seri... Sì, ma gli effetti ancora non si vedono e gli italiani non si sono mai preoccupati delle cose che potrebbero accadere domani. È sempre stato così: prima ci devono essere i problemi e poi si vede come affrontarli. È la caratteristica tipica della nostra cultura: non siamo previdenti e non ci preoccupiamo prima di quello che potrà succedere in un futuro prossimo. L’italiano medio storicamente è fatto cosi: accetta il dato di fatto, non prevede e non contrasta in anticipo. Nell’ultimo rapporto Censis parlate di “società irrazionale”: è il momento di prendere contatto con la realtà? Quando arriverà il momento l’Italia farà, come sempre, un bagno di realtà. Basta pensare a quante crisi abbiamo attraversato e affrontato. Non si può certo dire che neghiamo la crisi, quando c’è siamo i più bravi di tutti a reagire e a governarla nel miglior modo possibile. La globalizzazione, ad esempio, sarebbe dovuta essere la crisi fatale del nostro sistema, invece l’abbiamo vissuta bene e ne abbiamo tratto notevoli vantaggi. Adesso che c’è un ritorno ai mercati interni europei ci siamo adattati e viviamo bene anche il corto raggio, dopo aver gestito il lungo raggio della globalizzazione, basta guardare i dati delle esportazioni. L’italiano medio non fa delle valutazioni a medio termine, tant’è vero che diventa prigioniero dell’opinionismo. In che senso, professor De Rita? Intendo dire che all’italiano medio non interessa neppure sapere quali sono le forze in guerra, che cosa succede, quali sono le previsioni. L’unico interesse è quello di stare dentro una discussione per farsi una opinione. Non pensa alla difficoltà nell’utilizzo dei climatizzatori, ad esempio, perché dovrebbe avere un’opinione, ma la cosa diventa interessante solo se l’argomento si affronta in qualche talk show. A proposito di opinionismo: oggi ci si divide tra putiniani e antiputiniani, così come fino a ieri ci si schierava a favore o contro i vaccini per il covid... Perché c’è un’esigenza profonda di capire da parte di una società che non si orienta se non in virtù di una realtà cruda che gli arriva addosso. Purtroppo si trova ad avere a che fare con fiumi di parole, ma non riesce ad avere un aiuto per capire come stanno davvero le cose. Lei ha sempre evidenziato il ruolo e il prestigio internazionale di Draghi. Giudizio confermato anche dagli ultimi avvenimenti... Non è una sorpresa, Mario Draghi è un grande personaggio della scena internazionale. Lo era nel mondo economico-finanziario, per banche mondiali, Fondo monetario, Bce: sta diventando protagonista anche per la politica internazionale, che non gli apparteneva. Parliamo di una personalità con una lunga esperienza di rapporti internazionali, anche se non diplomatico-politici. Solo qualcuno al quale non piace Draghi ne è sorpreso. La cosa che lascia perplessi è l’atteggiamento di alcuni politici italiani, i quali non perdono occasione per provare a ostacolare Draghi e la sua azione di governo... Oggi le forze politiche italiane hanno un problema di identità, accentuata dal fatto che si va verso le elezioni. Devono dichiarare una loro identità, cosa ancora più difficile in un momento in cui la politica è tutto e il contrario di tutto, con anime indistinte che convivono all’interno anche dello stesso schieramento. I partiti, quindi, se non riusciranno a risolvere il loro problema identitario rischiano un vero e proprio suicidio elettorale. Non essendoci più le ideologie, i partiti, le forze sociali e neppure la faccia dei capi-partito, c’è quindi un bisogno assoluto di acquisire una identità, e per ottenerla si è disposti a qualsiasi cosa: dalla protesta per l’inceneritore a Roma alla polemica sull’invio delle armi in Ucraina. Attenzione: non parliamo di identità profonda, ma di far comprendere agli ipotetici elettori che una forza politica esiste. Si tratta, però, della sopravvivenza della minima identità. L’Unione europea in questo frangente sta svolgendo un ruolo o sta subendo il braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia? I padri fondatori dell’Europa puntavano all’identità collettiva, prima ancora che a quella politica e decisionale. Pensavano, infatti, che saremmo stati tutti insieme, uniti da una cultura comune e dal cristianesimo. Alla fine, invece, ci siamo divisi perché i meccanismi veri erano quelli decisionali. Anche alcune decisioni, come l’allargamento a 27, erano legate al tentativo di darsi una identità più vasta, creando meno possibilità decisionali. In queste condizioni l’Unione europea si è limitata a essere quella che discuteva di patto di stabilità e di politica monetaria. La pandemia e la guerra, invece, hanno accentuato il destino decisionale dell’Europa relegando in un cantuccio i problemi dell’identità unitaria. Gli europei insomma si sono ritrovati uniti grazie alla pandemia e alla guerra. Anche se da settimane non si riesce a trovare una linea comune sull’embargo al petrolio russo... Siamo di fronte a un classico atteggiamento italiano: si è pensato di dichiarare l’embargo, aspettare le reazioni e comportarsi di conseguenza. Si è trattato di una tipica incapacità di previsione che definirei quasi italica. Sarebbe bastato per noi italiani fare una chiacchierata con Alberto Clò (ordinario in Economia applicata all’università di Bologna, direttore della rivista “Energia”, fondata nel 1980 con Prodi, ndr), il quale avrebbe spiegato come tutte le alternative, africane, mediorientali e così via, non sono sufficienti e che saremo stati prigionieri del gas. Allora avremmo adottato una politica e delle forzature diverse nei confronti della Russia. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas qualche settimana fa ha elogiato la prudenza del cancelliere Scholz sull’invio di armi... Gli intellettuali, me compreso, sono degli opinionisti. Quella che va evidenziata, però, è la posizione non filosofica ma empirica del cancelliere tedesco: stiamo a guardare, facciamo piccoli e medi passi, ma non una scelta di campo. Come diceva Aldo Moro, un signore che queste cose le sapeva fare, “la storia si controlla gestendo il tempo e la misura”. È stato detto che Moro era un “artigiano della misura del potere”, e anche se i tedeschi non hanno mai sentito parlare di lui e sono lontanissimi dalla cultura morotea, hanno avuto questo approccio. Marco Follini, nel suo ultimo libro, “Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro”, sottolinea come tutta la vita dello statista sia stata incentrata su questi due concetti: misura e tempo. I tedeschi, intuitivamente o per empirismo politico spietato, stanno seguendo questa strada. Tempo e misura che non hanno contraddistinto l’azione di Putin... Quando la Russia ha invaso l’Ucraina siamo rimasti tutti sorpresi. Ha sbagliato i tempi e la misura: non c’era l’urgenza, non aveva preparato il terreno in Ucraina e non aveva valutato la situazione. Rivitalizzando il ruolo della Nato che era in declino... Anche la nostra adesione alla Nato, fu dettata dalla paura che dall’altra parte ci fosse una potenza staliniana, con un istinto alla conquista. Poi il ruolo della Nato è diventato quasi inesistente, è rivitalizzato perché c’è stata un’aggressione. Abbiamo rimesso indietro le lancette della storia... Sì, è ritornato il ‘48. Dopo la caduta del Muro di Berlino e della Cortina di ferro sembrava che non dovessimo più difenderci. Invece… Che giudizio ha del presidente ucraino Zelensky? Partirei da un giudizio scanzonato. È un attore, un uomo di spettacolo, e gioca sugli elementi spettacolari di questa vicenda. C’è poi un altro aspetto: Zelensky incarna un sentimento antirusso, forse passeggero ma profondo, sia in Ucraina sia nelle realtà limitrofe. Vorrei soffermarmi, infine, sulla sua origine ebraica. Ho il dubbio che incarni una minoranza della minoranza ebrea, laico-radicale che fa riferimento al chassidismo, nato proprio tra Leopoli e Kiev, diversa dal rabbinato tradizionale. Professore, se la sente di fare una previsione sugli sviluppi di questa guerra? Sarei un opinionista della peggior specie… Il brodo di coltura delle fake news di Gianni Canova Corriere della Sera, 21 maggio 2022 Cultura e formazione dell’opinione pubblica: la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta. Fare appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto; usare formule stereotipate ripetute all’infinito; scatenare attacchi continui agli oppositori, etichettati con epiteti riconoscibili e slogan che suscitino le reazioni viscerali delle masse. Sembrerebbero le regole di ingaggio di uno dei tanti talk show che ogni sera diffondono il virus dell’infodemia in un qualsiasi canale delle nostre tv generaliste. Ma non è così. Queste regole sono contenute e teorizzate nel Mein Kampf di Hitler, e ad esse si ispirava Goebbels nelle sue devastanti strategie di propaganda. Io non so quanti tra i conduttori che negli ultimi anni hanno inondato l’etere e la rete di programmi che fanno “appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto” e “suscitano le reazioni viscerali delle masse” siano consapevoli di essere epigoni delle tecniche di propaganda del Terzo Reich. Che non erano poi molto dissimili da quelle teorizzate e praticate da Lenin. Certo è che nel nostro sistema comunicativo, in quello televisivo soprattutto, c’è un problema: forse non ancora una vocazione al totalitarismo ma certo una pratica - poco importa quanto consapevole - che punta al controllo e alla manipolazione dell’opinione pubblica e favorisce la diffusione delle fake news. Certo: quelle che oggi chiamiamo fake news sono un fenomeno vecchio come il mondo. E da che mondo è mondo sono state armi potentissime nei conflitti bellici. Sono servite a combattere e a vincere guerre più che a manipolare l’opinione pubblica. La più grande battaglia dell’antichità, quella che ha generato poemi, miti e leggende, la guerra di Troia, è stava vinta grazie a una fake news. L’ha vinta Ulisse, non l’ha vinta Achille. L’ha vinta con quella raffinatissima fake news, con quell’inganno comunicativo che è stato il cavallo di Troia, spacciando un’arma di distruzione di massa per un dono agli dei. Cos’è cambiato da allora a oggi? Due cose. La prima: le fake news non sono più rivolte a ingannare il “nemico” ma a influenzare e a orientare l’opinione pubblica. La seconda: si inseriscono in un contesto sempre più marcatamente segnato dalla misinformazione, cioè da quel contesto comunicativo per cui l’utente finale è messo nella condizione di non poter mai verificare l’attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni che gli vengono trasmesse. Le fake news attecchiscono perché la misinformazione fornisce loro il brodo di coltura. Perché siamo tutti responsabili nell’aver consentito di proliferare a un sistema informativo che troppo spesso pone ogni informazione sullo stesso piano, che non verifica le fonti, che sforna informazioni che vengono puntualmente smentite per poi essere ribadite e quindi nuovo smentite e poi riaffermate e di nuovo smentite finché il tutto precipita nell’oblio, lasciando il cittadino nel disorientamento, nel disagio, nella diffidenza. Totalitarismo? Forse non quello teorizzato da George Orwell in 1984, ma qualcosa di simile a quello immaginato da Huxley in Il mondo nuovo, questo forse sì. Come ha scritto Neil Postman in un saggio lucidamente profetico come Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985), “Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato dell’informazione, Huxley temeva coloro che ce ne avrebbero data tanta da ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la verità ci sarebbe stata nascosta, Huxley temeva che la verità venisse affogata in un mare di irrilevanza”. La profezia distopica di Huxley mi sembra non sia lontana dall’avverarsi: viviamo nell’età della distrazione e dell’indifferenza, affogati nel banale chiacchiericcio e nella hybris dell’insulto, immersi in una mediasfera dominata dall’indecidibilità. Uno vale uno. Chiunque può dire qualsiasi cosa senza timore di essere smentito, anzi, più le spara grosse, più le dice inattendibili, più è probabile che i talk show gli facciano eco e gli diano spazio. Generando la misinformazione in cui attecchiscono le fake news. Per troppo tempo abbiamo assistito silenti se non complici alla porta-a-portizzazione della comunicazione. Abbiamo lasciato credere che comunicare sia urlare, insultare, banalizzare. Abbiamo lasciato la comunicazione televisiva in mano ai professionisti da talk show, agli acrobati degli anacoluti, ai prestigiatori dell’insulto, ai campioni della rissa verbale. Ora è davvero tempo di porsi il problema dell’ecologia della comunicazione. Di battersi per riaffermare alcuni principi basilari. Impegnandosi ad esempio a scrivere in rete solo cose che si ha il coraggio di dire anche di persona. Valorizzando il valore dell’ascolto e del silenzio. Ricordando che gli insulti non sono argomenti, anche se sono insulti che sostengono le nostre tesi. Ma si tratta soprattutto di rilanciare la lotta per la democrazia della conoscenza. Per la parità di accesso alle informazioni. Per la formazione di un’opinione pubblica dotata degli strumenti culturali necessari per distinguere una notizia falsa da una proveniente da fonte attendibile e accertata. In un Paese che ha ormai il 30% della popolazione adulta analfabeta o semianalfabeta, la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta. In assenza di questa, in assenza di una vera democrazia culturale, anche la democrazia politica rischia di diventare una pia illusione. O, se preferite, una fake new. Migranti. “Non è favoreggiamento”, eritrei assolti in Cassazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 maggio 2022 Il processo. Condannati in primo e secondo grado nel processo “Agaish”, ma “il fatto non sussiste”. Le avvocate della difesa: “Abbiamo sempre detto che erano esclusivamente condotte di solidarietà”. La Cassazione ha annullato senza rinvio le condanne a G. Afewerki, G. Abraha, M. Hintsa e G. E. Kidane perché il fatto non sussiste. I quattro cittadini eritrei erano stati giudicati colpevoli in primo e secondo grado per favoreggiamento dell’emigrazione clandestina nel processo “Agaish”, che in tigrino vuol dire “ospite”, con pene comprese tra i due anni e i tre anni e mezzo di reclusione. Si tratta dell’ultima propaggine di una maxi-inchiesta avviata nel 2014 e segnata dallo scandalo internazionale di uno scambio di persona. L’ipotesi da cui otto anni fa muovono gli inquirenti è l’esistenza di un’organizzazione transnazionale dedita al traffico di esseri umani che organizzerebbe i viaggi dal Sudan fino ai paesi scandinavi, attraverso Libia, Mediterraneo e Italia. A capo del sodalizio criminale Medhanie Yedhego Mered, “il generale”. La procura di Palermo pensa di averlo tra le mani dopo il trasferimento in Italia di un uomo arrestato in Sudan il 24 maggio 2016 con un’operazione di polizia internazionale coordinata dai pm siciliani. In realtà c’è stato uno scambio di persona su cui si apre uno scontro tra le procure di Roma e Palermo. La Corte d’assise del capoluogo siciliano dà ragione al difensore dell’uomo, l’avvocato Michele Calantropo, e riconosce che dietro le sbarre è finito in realtà Medhanie Tesfamariam Behre. Scagionato dall’accusa di essere uno dei trafficanti più ricercati al mondo, Behre riceverà una condanna in primo grado per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Avrebbe aiutato alcuni parenti a raggiungere l’Italia. All’interno dell’inchiesta principale si ipotizza che nella capitale esista una cellula dell’organizzazione che cura il transito dei migranti dal luogo di sbarco ai paesi di destinazione, in genere quelli scandinavi. Il capo sarebbe Hagos Awet, che viene arrestato insieme a una decina di presunti complici. Nell’appello del suo processo, con il rito abbreviato, Awet viene dichiarato innocente e dunque l’ipotesi dell’associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina cade anche per gli altri imputati. Intanto i quattro cittadini eritrei assolti ieri e un quinto che era stato prosciolto in primo grado hanno trascorso 18 mesi di carcere preventivo giustificato proprio dall’accusa di associazione. Sono difesi da quattro avvocate - Raffaella Flore, Giuseppina Massaiu, Tatiana Montella e Ludovica Formoso - che hanno scelto di procedere con il rito ordinario. Smentito il teorema associativo restano le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per l’acquisto di biglietti di autobus diretti a Roma o il prestito di modiche quantità di denaro a connazionali arrivati da poco in Italia. O ancora per l’ospitalità offerta in case, baracche o palazzi occupati come quello di piazza Indipendenza, nella capitale, poi sgomberato il 19 agosto 2017. È appurato che gli imputati non hanno tratto alcun vantaggio economico da queste condotte, ma secondo l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione non è sufficiente. Introdotto dalla Turco-Napolitano (1998) ed esteso agli spostamenti verso altri Stati dalla Bossi-Fini (2002), il favoreggiamento di immigrazione o emigrazione illegale è punibile anche in assenza di profitto. È su questa base, che nessun governo ha mai voluto modificare, che negli anni sono fioccate decine di procedimenti contro attivisti solidali e cittadini migranti. Nel processo Agaish le difese sostengono che le azioni degli imputati non sono mai state dirette a favorire il transito dei connazionali verso altri paesi europei, ma solo spostamenti all’interno del territorio italiano. E poi contestano che normali pratiche di solidarietà, peraltro tra persone in fuga da un regime sanguinario e spesso provenienti dagli stessi villaggi o legate da vincoli di parentela e amicizia, possano costituire reato. “La decisione della Corte di Cassazione dimostra ciò che le difese, anche grazie al lavoro di consulenti e mediatori, hanno sempre sostenuto: si trattava esclusivamente di condotte solidali”, dice l’avvocata Massaiu. “La prima volta che ho incontrato il mio assistito nel carcere di Rebibbia faticava a capire perché l’aiuto ad alcuni suoi connazionali fosse considerato un crimine dal diritto italiano. Era incredulo, non riusciva a spiegarsi di cosa fosse accusato”, afferma l’avvocata Montella. La vicenda assomiglia a quella che il 3 maggio scorso ha portato all’assoluzione di Andrea Costa e altre due attiviste di Baobab Experience. Anche in quel caso l’inchiesta era stata aperta per associazione a delinquere senza portare a nulla. E anche in quel caso le accuse sono state successivamente ricalibrate sul favoreggiamento senza lucro. Profughi ostaggio della burocrazia di Emma Bonino Il Riformista, 21 maggio 2022 Il quadro tracciato giovedì scorso dal sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto, nel corso dell’audizione in Commissione diritti umani del Senato sulle condizioni delle oltre 117.000 persone di nazionalità ucraine arrivate in Italia dalla fine di febbraio, restituisce la complessità della macchina amministrativa impegnata nell’assistenza e accoglienza sul nostro territorio. Lo stesso Presidente del consiglio Draghi intervenendo in Parlamento nelle stesse ore ha ringraziato tutti i cittadini italiani che si stanno impegnando in tal senso. Dai dati disponibili sappiamo che si tratta per la maggior parte di donne (61.200) e bambini (circa 40.000, di cui 4.000 sono minori non accompagnati), che hanno bisogno di tutta l’attenzione possibile e della professionalità di forze dell’ordine, amministrazione, protezione civile, terzo settore ed è evidente lo sforzo che il governo sta facendo in questo senso, aumentando posti e risorse dedicate. Restano tuttavia alcune criticità. Solo 11.500 cittadini ucraini sui 117.000 arrivati finora sono ospitati nel circuito di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (nei centri cosiddetti CAS e, in piccola parte, SAI), mentre la maggior parte ha scelto di stare presso parenti e conoscenti già presenti in Italia dove la comunità ucraina conta oltre 250.000 residenti. Ebbene, chi ha scelto questa sistemazione autonoma avrebbe diritto a ricevere quel contributo di 300 euro (più150 per i minori) deciso dal governo a fine marzo per soddisfare le necessità più urgenti, ma che ancora non è stato concesso a nessuno. Quanto dovranno aspettare queste persone? Da cosa dipende tale ritardo? Purtroppo l’attesa è una condizione propria di tanti cittadini stranieri alle prese con la burocrazia dei nostri uffici. Ne è un esempio quanto sta succedendo rispetto alle domande per la sanatoria del 2020, i cui tempi lunghissimi sono stati oggetto del monitoraggio svolto nei mesi scorsi dalla campagna Ero straniero, con risultati disarmanti. I dati del Viminale riportati dal sottosegretario Scalfarotto su mia richiesta ci dicono che a due anni dalla misura, sono state finalizzate il 66,8% circa delle pratiche sulle oltre 200.000 domande ricevute. Il ritardo nelle risposte da parte degli uffici è quindi ancora grave e decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici sono ancora in attesa di avere i documenti e cominciare finalmente a vivere e lavorare nella legalità e con una prospettiva. Tra l’altro, delle quasi 20.000 domande di regolarizzazione presentate da cittadini ucraini presenti in Italia nel 2020, ne sono state concluse solo 11.000, nonostante l’invito ad accelerare l’esame a causa del conflitto. Ovviamente la procedura riguarda i profughi ucraini, ma avendo la memoria corta, abbiamo già dimenticato gli afgani. Certamente è evidente il carico di lavoro che grava su prefetture e questure che, oltre alla sanatoria, gestiscono le domande di protezione dei cittadini ucraini e non, le richieste di rinnovo dei documenti, di ricongiungimento familiare e molte altre pratiche. E, con la ripresa inevitabile degli arrivi dal Mediterraneo nei mesi estivi, l’impegno non potrà che aumentare. Io credo che su questo aspetto il governo debba intervenire in tempi brevi: serve uno sforzo ancora maggiore nei confronti di tutte le persone straniere che aspettano una risposta dalla pubblica amministrazione, a prescindere dalla loro nazionalità. È un aspetto che non si può più sottovalutare perché le conseguenze sulla vita di queste persone sono pesanti e finiscono per ostacolare i percorsi di inclusione e stabilizzazione nel nostro paese, a scapito di tutti. Cos’è la teoria della “Grande sostituzione”, e perché è pericolosa di Elena Tebano Corriere della Sera, 21 maggio 2022 Il premier ungherese Viktor Orbán ha fatto riferimento a un supposto piano per “sostituire” i bianchi cristiani con gli immigrati. È un’idea professata anche da molti terroristi di estrema destra americani, ma arriva originariamente della Francia. Nel discorso ai deputati dopo le elezioni parlamentari che hanno riconfermato l’ampia maggioranza del suo partito, Fidesz, il premier ungherese Viktor Orbán (ormai al quarto mandato) ha attaccato l’Occidente, che a suo dire sta “tentando il suicidio” per una serie di supposte colpe: “Il vasto piano di scambio della popolazione occidentale, che cerca di sostituire i bambini cristiani non ancora nati con migranti; la follia del genere, che vede nell’uomo il creatore della propria identità sessuale; un programma di un’Europa liberale che trascende gli Stati-nazione e il cristianesimo”. Parole che sono suonate particolarmente stridenti in un momento in cui l’Unione europea e le democrazie occidentali, lungi dal “tentare il suicidio”, sono impegnate a difendere i propri valori e principi costitutivi contrastando l’invasione illegale dell’Ucraina da parte dell’amico di Orbán Vladimir Putin. A qualcuno quelle parole saranno suonate anche familiari: riprendono un concetto, “la grande sostituzione”, che in questi giorni è riecheggiato molte volte al di là dell’Oceano, negli Stati Uniti. Lo ha usato l’attentatore di Buffalo, il terrorista di estrema destra che sabato ha ucciso dieci persone e ne ha ferite altre tre in supermercato di un quartiere nero nella città dello Stato di New York. Payton S. Gendron, questo il nome del suprematista bianco, ha lasciato un manifesto di 180 pagine in cui dichiara di essere un sostenitore della “grande sostituzione”, ovvero la teoria complottista che esista un piano per “sostituire” i bianchi con altre “razze”, cioè neri, latinos o immigrati musulmani (a seconda delle versioni). Non è un’idea nuova: compariva anche nei manifesti di altri stragisti di massa di estrema destra, come quello che nel marzo 2019 ha ucciso 51 persone durante la preghiera del venerdì in due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, e quello che nell’agosto del 2019 ha preso di mira i latinos in un supermercato Walmart di El Paso, in Texas, uccidendo 22 persone e ferendone 24. Nel frattempo però è cambiato tutto: tre anni fa negli Stati Uniti la teoria complottista della “grande sostituzione” era ancora un’”idea marginale” che circolava sui siti cospirazionisti di QAnon (il movimento di estrema destra che ha promosso l’attacco al congresso statunitense del 6 gennaio, nel tentativo di annullare il risultato di elezioni legittime). Ora è diventata “mainstream”, si è cioè diffusa nel discorso pubblico dominante. A renderla popolare, come spiega Vanity Fair Us, è stato il giornalista filorepubblicano di Fox News Tucker Carlson (che secondo il New York Times, come ha scritto Massimo Gaggi, potrebbe candidarsi e proporsi come erede di Donald Trump). “Il Partito Democratico sta cercando di sostituire l’attuale elettorato, gli elettori che ora votano, con nuove persone, elettori più obbedienti provenienti dal Terzo Mondo” diceva Carlson nell’aprile dell’anno scorso nel suo programma, che denunciava una supposta “mania anti-bianca” e invitava a “salvare questo Paese... prima che diventiamo il Ruanda” (quel presunto salvatore della Patria, secondo Carlson, era ed è Trump). Argomenti simili sulla sostituzione dell’elettorato sono stati usati anche da Elise Stefanik, la terza deputata repubblicana per importanza alla Camera dei rappresentanti americana. La teoria della “grande sostituzione” però non è originaria degli Stati Uniti: è nata in Europa, dove è da tempo uno dei luoghi comuni del sovranismo. Orbán non è l’unico ad averla fatta sua: la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni la evocava già nel 2016 (in questo tweet per esempio, in cui parla di “prove generali di sostituzione etnica in Italia” confrontando emigranti e immigrati). Il termine viene dalla Francia: Le grand remplacement è il titolo di un libro del 2012 dello scrittore Renaud Camus (che non è né un parente né un buon sostituto di Albert Camus), un intellettuale gay che in gioventù ha frequentato Roland Barthes e Andy Warhol e ora vive in un castello in Occitania. Camus, dapprima sostenitore di Marine Le Pen e poi convertitosi a Éric Zemmour alle ultime elezioni, è convinto che ci sia un piano per islamizzare la Francia e che tutti i Paesi occidentali corrano un pericolo simile (per esempio gli Stati Uniti con gli immigrati latinos). “La Grande Sostituzione è molto semplice. Ora c’è un popolo, e nello spazio di una generazione ce ne sarà un altro” ha affermato. Alla base di questa teoria c’è la concezione antimoderna ed essenzialista della “purezza” non ibridabile dei popoli (“L’essenza stessa della modernità è il fatto che tutto, e davvero tutto, può essere sostituito da qualcos’altro, il che è assolutamente mostruoso” ha dichiarato Camus, che è anche uno strenuo difensore della Francia rurale). Anche questa idea di purezza è familiare: la pericolosa genialità di Camus è che ha rivitalizzato con un linguaggio nuovo idee tristemente note. “In realtà è la stessa ideologia della cospirazione del Nuovo Ordine Mondiale, l’idea del governo di occupazione sionista, che è il modo in cui se ne parlava negli anni Ottanta e Novanta. Ne vediamo versioni che risalgono al movimento eugenetico dei primi del Novecento, agli scritti di Madison Grant e a cose come “I Protocolli degli Anziani di Sion”. Si tratta dello stesso insieme di credenze” spiega sul New Yorker la professoressa dell’Università di Chicago e studiosa del suprematismo bianco Kathleen Belew. “L’idea è semplicemente che molti tipi diversi di cambiamento sociale siano collegati a un complotto di una setta elitaria per sradicare la razza bianca, che i membri di questo movimento ritengono essere la loro nazione. Collega cose come l’aborto, l’immigrazione, i diritti degli omosessuali, il femminismo, l’integrazione residenziale: tutto ciò è visto come parte di una serie di minacce al tasso di natalità bianca”. Adottare la nozione di “grande sostituzione”, che lo si espliciti o no, significa di fatto sottoscrivere questa tradizione. E ripulirla dagli elementi omofobi e antisemiti, come ha fatto Camus, non significa renderla meno sbagliata e pericolosa. Ucraina. Amnesty: “I prigionieri di Azov vanno processati all’Aja” di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 maggio 2022 Parla Riccardo Noury: “Sono protetti dal diritto internazionale. Non possono essere portati in Russia e vanno restituiti a Kiev finita la guerra”. Con la resa del reggimento Azov, l’ultima unità delle forze armate ucraine che ancora resisteva all’interno dell’acciaieria assediata di Mariupol, Azovstal, riconosciuta ieri dal comandante in capo Denys Prokopenko su ordine del governo di Kiev, si pone la questione delle sorti dei prigionieri e di quale trattamento verrà riservato da parte dei russi ai membri del famigerato battaglione. Secondo quanto dichiarato dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, i soldati ucraini non feriti e che non hanno bisogno di cure saranno condotti (come chi li ha preceduti) in un’ex colonia carceraria della città di Olenivka, nella regione di Donetsk. Fonti ucraine precisano che si tratterebbe della Colonia penale numero 52, una delle più temute prigioni russe nei territori occupati. L’altra, più famosa nel mondo - meno in Italia - è la prigione di Izolyatsia, aperta nel giugno 2014 dall’autoproclamatosi governo di Donetsk (Dpr) all’interno di un museo d’arte cittadino. La Izolyatsia Arts Foundation venne convertita in una colonia penale assolutamente impenetrabile alle organizzazioni internazionali (segnalata anche dall’ong russa Memorial, un’associazione indipendente nata dopo il 1989 come archivio storico delle violazioni dei diritti umani commesse nei Paesi dell’Urss e chiusa da Putin nel febbraio 2022. Il leader Oleg Orlov di “Memorial diritti umani” è stato arrestato e poi rilasciato per aver manifestato contro la guerra in ucraina, insieme a Svetlana Gannuskina, che ha fondato un’associazione per migranti e oggi lavora per far emigrare russi dissidenti). Ma ciò che accadeva dentro il lager di Izolyatsia divenne di pubblico dominio quando il giornalista ucraino Stanislav Aseyev, che vi fu detenuto per due anni e mezzo, venne liberato per uno scambio di prigionieri e raccontò le torture subite in quel lager nel libro “The Bright Path. History of One Concentration Camp”. Pochi giorni dopo l’inizio dell’attuale guerra mossa da Putin, sul suo profilo Facebook Aseyev scriveva con scoramento: “Mi stavo appena riprendendo dopo due anni di cure psicologiche e fisiche, e adesso mi ritrovo di nuovo nell’orrore di una guerra”. Ora, i soldati del battaglione Azov, di storica fede nazista, potrebbero essere giudicati in un tribunale di Donetsk? Rischiano la pena di morte? Di quali capi di imputazione potrebbero essere accusati? Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia che nel 2016 raccolse in un report tutti i crimini commessi da quel battaglione durante la guerra del Donbass, spiega: “Come prigionieri di guerra, sono soggetti alla Convenzione di Ginevra che impone il divieto assoluto di maltrattamenti e tortura. Non possono essere portati in territorio russo né possono subire un processo da un tribunale di un soggetto non riconosciuto come le “repubbliche” filorusse. E finita la guerra vanno restituiti all’Ucraina. Non possono subire un processo da un tribunale di un soggetto nazionale non riconosciuto. Hanno commesso crimini durante la guerra del 2014 sì, ma per quei crimini possono essere processati solo da un tribunale ucraino. Sarebbe un arbitrio farlo altrove, in Russia o nei territori ora occupati. Il diritto umanitario vige a prescindere dal nome che si dà alla guerra. Come d’altronde era un arbitrio da parte degli Usa considerare Guantanamo fuori dalla protezione offerta dalla Convenzione di Ginevra. Specularmente, anche il processo che sta terminando in Ucraina contro il soldato russo - anche se in questo caso egli viene accusato di un singolo omicidio - non trova grande legittimità perché è un processo istituito in tempo di guerra con poche garanzie per il diritto di difesa. Bisognerebbe affidare tutto al Tribunale penale internazionale”. In Russia la pena di morte è soggetta ad una moratoria, precisa Noury. “Il pericolo perciò - conclude - è che, dati i tempi, potrebbero essere emanate disposizioni per ripristinarla”. Appositamente per i prigionieri di Azovstal. Iran. La legge del taglione di Teheran: “Condanni un iraniano? Uccidiamo uno svedese” di Valerio Fioravanti Il Riformista, 21 maggio 2022 Nel 2019 un ex prigioniero politico fuggito dall’Iran, Iraj Mesdaghi, ritenne di aver incontrato per strada, a Stoccolma, uno dei suoi torturatori, Hamid Noury, e avvertì le autorità svedesi. In realtà Mesdaghi è un importante attivista per i diritti umani e tutti noi immaginiamo che non sia stato davvero lui a imbattersi in Noury e che abbia fatto da “scudo” a qualche suo connazionale che non se la sentiva di uscire allo scoperto. Ma, a parte questo, il 9 novembre 2019 la polizia svedese arrestò l’uomo all’aeroporto di Stoccolma, da dove stava partendo alla volta di Milano. Noury, che oggi ha 61 anni, è da poco andato in pensione dopo una carriera da dirigente del carcere di Gohardasht a Karaj, noto come Raja’i Shahr. Mesdaghi e altri 34 testimoni lo identificano con certezza come uno dei membri delle cosiddette “commissioni della morte”, tribunali sommari istituiti nell’estate del 1988 su ordine diretto di Khomeini. Le stime variano, ma tra il luglio e l’agosto di quell’anno tra i 5.000 e i 30.000 prigionieri politici vennero giustiziati e i corpi mai restituiti ai familiari. Il 10 agosto 2021, a Stoccolma, è iniziato il processo dove Noury è accusato per circa 100 omicidi. Il processo si sta avviando alle fasi finali: il 28 aprile il pubblico ministero ha chiesto di condannare Noury all’ergastolo. Poche ore dopo l’Iran ha fatto sapere di aver “convocato l’ambasciatore svedese”. Il 2 maggio un funzionario iraniano ha dettato alla stampa un comunicato minaccioso - “le condanne di individui legati alla Svezia saranno presto eseguite” - e due giorni dopo, perché non rimanessero dubbi, gli iraniani hanno precisato che visto l’atteggiamento aggressivo della Svezia sul caso dell’arresto illegale del cittadino Noury, innocente di tutto e illegalmente detenuto e processato, l’Iran avrebbe giustiziato “entro la fine del mese” Ahmadreza Djalali. In Iran si segue il calendario lunare e l’equivalente della “fine del mese” è il 21 maggio. Djalali è un caso piuttosto noto, un medico e ricercatore universitario, iraniano di origine, che ha lavorato in diverse parti del mondo, anche in Italia, e che le autorità iraniane hanno arrestato nel 2016 accusandolo di essere una spia di Israele. Immaginando che la cosa potesse essere d’aiuto, nel febbraio 2018 la Svezia, paese dove il medico ormai viveva con tutta la famiglia, gli conferì la cittadinanza. Tutte le ONG che da anni seguono il caso e i 134 premi Nobel scientifici che hanno firmato una petizione in suo favore ritengono che Djalali sia totalmente innocente. Lo pensa anche Nessuno tocchi Caino. Ma a parte la credibilità delle accuse, rimane il fatto che l’Iran sta tenendo un atteggiamento a cui l’Europa non è più abituata: se condannate un nostro cittadino, noi ne uccidiamo uno dei vostri. Esplicito, plateale, una ritorsione senza giri di parole. Il processo di Stoccolma rende le autorità iraniane particolarmente nervose, considerato che un altro membro delle “commissioni della morte”, Ebrahim Raisi, attualmente ricopre l’incarico di Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran. I tribunali svedesi stanno processando Noury in base al principio della “giurisdizione universale”. È lo stesso principio giuridico che regola l’esistenza dei tribunali internazionali e che, in caso di reati particolarmente gravi, consente di incardinare processi anche in paesi diversi da dove i crimini sono stati commessi. Quello contro Noury è il primo processo nel mondo che cerca di ricostruire le responsabilità del massacro del 1988 ed è chiaro, e comprensibile, che l’Iran questa cosa voglia evitarla. Cosa farà la Svezia? Solo due mesi fa aveva ceduto al clima ricattatorio iraniano e aveva rinunciato a processare due agenti di una “cellula dormiente” iraniana con la motivazione “superarciextra” garantista che dall’Iran non giungevano i chiarimenti richiesti. Li aveva rimessi su un aereo verso l’Iran, facendo anche finta che una richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti fosse stata presentata in ritardo. E la Svezia fino ad oggi ha preso (perso) tempo anche sul caso di altre due spie iraniane, i fratelli Kia. Ora, però, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Svezia ha riesaminato la sua antica posizione di neutralità (non ha partecipato a nessuna delle due guerre mondiali) e ha chiesto di aderire alla Nato. Difficile capire se il governo svedese riuscirà a salvare Djalali. Certo è che nel paese nordico hanno compreso che troppa accondiscendenza con i regimi totalitari, alla lunga, non funziona. Turchia. I curdi rischiano di essere traditi ancora una volta dall’occidente di Futura d’Aprile Il Domani, 21 maggio 2022 Il presidente Erdogan ha chiesto a Finlandia e Svezia di mettere fine ai legami con il Partito dei lavoratori e con l’Amministrazione autonoma del Rojava in cambio dell’adesione alla Nato. Per il capo di stato turco Pkk, Amministrazione autonoma del Rojava e semplici cittadini scandinavi appartenenti all’etnia curda e presenti anche nel Parlamento svedese rappresentano indiscriminatamente una minaccia alla sicurezza. Erdogan usa ancora una volta le debolezze dell’Occidente a suo vantaggio, con l’obiettivo di colpire anche in Europa una minoranza che perseguita da anni tanto in patria quanto all’estero nell’indifferenza generale Il veto turco all’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato ripresenta l’irrisolta questione curda, riaccendendo i riflettori sul destino di un popolo più volte usato come moneta di scambio tra grandi potenze. Per avere un’idea del trattamento generalmente riservato ai curdi basta osservare quanto accaduto in Siria. I combattenti delle Unità di protezione del popolo, le Ypg e le Ypj, sono stati fondamentali per la sconfitta dello Stato islamico, tanto da essere stati descritti per anni come degli eroi. Il mito dei combattenti curdi però è tramontato non appena l’Isis è stato sconfitto. Il tradimento in Siria - Con la caduta del Califfato, l’attenzione mediatica è rapidamente calata fin quasi a scomparire, mentre i governi occidentali che grazie ai curdi hanno potuto contribuire alla guerra contro l’Isis con il solo supporto aereo si sono presto disinteressati dei loro alleati. Pochi mesi dopo la conquista dell’ultima roccaforte dello Stato islamico, l’allora presidente americano Donald Trump ha persino permesso alla Turchia di attaccare il nordest della Siria, spostando le truppe a presidio dei soli giacimenti petroliferi presenti più a est. Grazie a questa manovra americana, ad ottobre del 2019 Ankara ha potuto lanciato una nuova operazione, Sorgente di pace, conclusasi con la creazione di una zona cuscinetto tra il Kurdistan siriano e la Turchia. A discapito dei curdi, che hanno dovuto abbandonare quei territori faticosamente liberati dalla presenza dello Stato islamico. Una volta terminata la guerra contro l’Isis, l’Amministrazione autonoma del Rojava è stata lasciata sola anche nella gestione dei prigionieri e delle loro famiglie, foreign fighters compresi. Molti paesi occidentali infatti si sono rifiutati di riprendersi i loro cittadini detenuti nelle carceri curde perché non possiedono gli strumenti normativi adatti per processarli né programmi per il loro reinserimento in società. Questo compito è stato così affidato ai curdi, privi per ovvie ragioni dei mezzi adeguati per gestire una situazione così esplosiva. A causa delle precarie condizioni di vita, i campi profughi e le carceri allestite dall’Amministrazione autonoma sono diventati terreno fertile per la radicalizzazione, il che rappresenta un rischio per la sicurezza tanto dei curdi quanto della comunità internazionale, che avrebbe ben poco da guadagnare dalla rinascita dell’Isis o di altre forme di estremismo. Il disinteresse occidentale verso il Rojava ha anche permesso e permette tutt’oggi alla Turchia di attaccare i curdi siriani, ampliando la fascia di territorio sotto il proprio controllo anche grazie all’impiego di combattenti provenienti dalle fila di al Qaida e di altre organizzazione islamiste. L’Iraq e il gas - Ma le mire di Erdogan non si limitano al solo Kurdistan siriano. Ad aprile il presidente turco ha lanciato una nuova operazione contro il Pkk, il Partito dei lavoratori considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica, attaccando il nord dell’Iraq. Le vittime di questa nuova azione militare, però, sono anche civili curdi e yazidi, appartenenti questi ultimi a quella minoranza brutalmente perseguitata dall’Isis e ugualmente dimenticata dall’occidente una volta caduto il Califfato. In passato, le campagne militari lanciate dalla Turchia in Iraq del nord erano state fortemente condannate da Usa e Unione europea a causa del numero di vittime civili, ma questa volta le critiche sono state molto più contenute. Per Washington e Bruxelles, il ruolo di mediatore ricoperto da Erdogan nella guerra in Ucraina è troppo importante per entrare in rotta di collisione con il presidente turco. Finlandia e Svezia - Con il veto imposto da Ankara alla richiesta di ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia, i curdi rischiano di essere nuovamente traditi dall’occidente. Erdogan vuole che Helsinki e Stoccolma mettano fine al loro rapporto con l’Amministrazione del Rojava e che accettino le richieste di estradizione dei membri del Pkk, trattati dai paesi scandinavi come rifugiati politici a causa della persecuzione a cui curdi sono sottoposti in Turchia. Tra le richieste del presidente turco rientra anche la fine dell’embargo alla vendita di armi imposto da Svezia e Finlandia nel 2019 proprio in risposta agli attacchi contro i curdi in Siria del nord. In un’ottica più generale, stando alle parole di Erdogan, i paesi scandinavi dovrebbero tenere finalmente conto delle preoccupazioni turche relative al terrorismo, legate anche alla presenza di un’importante diaspora curda in Finlandia e Svezia e all’elezione di alcuni politici di origine curda nel parlamento di Stoccolma. Nella narrazione imposta dal presidente turco, dunque, Pkk, Amministrazione autonoma del Rojava e semplici cittadini scandinavi appartenenti all’etnia curda rappresentano una minaccia alla sicurezza, in un’ottica di generale discredito di una minoranza che Erdogan continua a perseguire tanto in patria quanto all’estero. Adesso sta a Finlandia e Svezia scegliere se abbracciare le politiche repressive del presidente turco o se continuare a seguire la strada della democrazia e dell’integrazione. Nagorno-Karabakh. Decenni di miseria: l’eredità lasciata dalla guerra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 maggio 2022 Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il territorio del Nagorno-Karabakh, dal 1988 al 1994 e poi ripreso alla fine del 2020, ha causato uccisioni illegali, torture e sfollamenti forzati e arrecato miseria alle popolazioni anziane. Lo si legge in due rapporti pubblicati questa settimana da Amnesty International, che illustrano in modo drammatico l’impatto sproporzionato che i conflitti hanno sulle persone anziane. Il primo, intitolato “Gli ultimi a fuggire: l’esperienza delle persone anziane nel Nagorno-Karabakh tra crimini di guerra e sfollamenti”, denuncia i crimini di guerra commessi ai danni delle persone di etnia armena nel recente conflitto, tra cui esecuzioni extragiudiziali e torture nei centri di detenzione gestiti dalle forze dell’Azerbaigian. Il secondo, “Una vita in trappola: l’impatto dello sfollamento sulle persone anziane e le prospettive di ritorno in Azerbaigian”, descrive la sofferenza delle persone anziane di etnia azera costrette, nel primo conflitto, ad abbandonare il Nagorno-Karabakh e sette distretti confinanti con questo territorio”. Gli ultimi a fuggire - Quando, nel settembre 2020, sono ripresi i combattimenti, le persone anziane di etnia armena del Nagorno Karabakh sono state quasi sempre le ultime a lasciare le loro case e, di conseguenza, le più colpite dalle violazioni dei diritti umani. Nelle prime fasi del nuovo conflitto, gli uomini tra i 18 e i 55 anni sono stati mandati al fronte. Avanzando verso le città e i villaggi armeni, le forze dell’Azerbaigian hanno trovato solo persone anziane, per lo più uomini. A causa della disabilità o delle condizioni di salute fisica o mentale, molte di loro non sono riuscite a fuggire o non hanno compreso quanto fosse urgente farlo. Altre hanno preferito non lasciare i luoghi dove vivevano o le terre e i mezzi di sostentamento di cui vivevano. Coloro che sono riusciti a fuggire, si trovano da allora in condizioni di indigenza, senza alloggi adeguati, abbandonati e isolati. I servizi di salute mentale sono assai insufficienti. Oltre la metà delle persone di etnia armena uccise nel Nagorno-Karabakh erano anziani, vittime di efferate esecuzioni extragiudiziali, veri e propri crimini di guerra come gli sgozzamenti: in alcuni casi, torturate prima di morire e mutilate dopo la morte. Questo particolare accanimento era dovuto al sospetto, da parte delle forze dell’Azerbaigian, che le vittime avessero preso parte al primo conflitto degli anni Novanta. Amnesty International è stata in grado di verificare molti di questi casi attraverso testimonianze dirette e racconti di familiari, l’analisi di certificati di morte e autopsie e la validazione di video pubblicati sui social media. “Una vita in trappola” - Durante il primo conflitto del Nagorno-Karabakh (1988-1994), oltre 500.000 persone di etnia azera furono costrette a lasciare la regione e sette distretti confinanti. Molte furono vittime di uccisioni illegali o vennero sottoposte ad altre violazioni dei diritti umani. Da decenni, queste persone vivono in altre regioni dell’Azerbaigian, in tendopoli sovraffollate, dormitori, istituti scolastici, vagoni ferroviari, rifugi di altro genere e alloggi di fortuna. Condividono gabinetti e docce con decine di persone in ripari spesso privi di elettricità, riscaldamento e acqua corrente. Dopo che, nel 2020, l’Azerbaigian ha riconquistato buona parte dei territori persi nel conflitto precedente, sono stati approntati piani per reinsediare centinaia di migliaia di sfollati. Tuttavia, vi sono molti ostacoli: le mine antipersona disseminate dalle forze armene - evidente violazione del diritto internazionale umanitario - e la massiccia distruzione di proprietà private, così come il sequestro di abitazioni e la riassegnazione ad altri.