“Mai più bimbi innocenti in carcere con le loro madri” di Liana Milella La Repubblica, 20 maggio 2022 Dopo Torino, nuova Agorà dei dem. Rossomando: “È urgente riformarlo per decreto legge”. Mai più i bambini innocenti “detenuti” in carcere, perché dentro ci stanno le loro mamme. Subito il nuovo regolamento penitenziario del costituzionalista Marco Ruotolo, che gli ha affidato la Guardasigilli Marta Cartabia, per sostituire quello vecchio ormai di 50 anni, “per il quale ci sarà il pieno sostegno del Pd”. E ancora, utilizzando il primo decreto legge utile, far diventare abitudinarie tutte le norme utilizzate durante la pandemia - come star fuori dal carcere per chi deve scontare solo 18 mesi - per alleviare una situazione che, nelle patrie galere, è stata molto più penalizzante rispetto a chi viveva fuori. Il Pd, mentre si approssima la fine di questa legislatura, non vuole perdere la scommessa sul carcere proprio com’è accaduto in quella precedente, quando nell’ultimo consiglio dei ministri, era il 4 marzo del 2018, la riforma dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando, studiata e messa a punto negli Stati generali sull’esecuzione penale, si arenò di fronte alle paure elettorali. Ne approfittò il governo gialloverde che buttò la riforma alle ortiche. Ma adesso il Pd ci riprova. E Anna Rossomando, la responsabile Giustizia del partito, non esita a fare una battuta, “non mi preoccupo, ma me ne occupo”, mentre a Roma dirige la seconda Agorà democratica dedicata proprio al carcere, dopo quella di Torino del 19 marzo, quando il segretario del Pd Enrico Letta disse: “È una grande questione di civiltà del nostro Paese. Per noi la riforma del sistema carcerario, la soluzione di criticità drammatiche che esistono da troppo tempo, è uno dei nostri grandi obiettivi”. Non sarà facile convincere alleati come la Lega che in carcere dovrebbero rimanere solo i “cattivi cattivi”. E che i penitenziari non possono diventare una discarica sociale. Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, lo riassume in una battuta: “Io non penso che in carcere ci debbano stare 70mila persone, ne bastano 30mila, perché per il resto non è l’extrema ratio. A meno che non si voglia tenere in carcere la marginalità sociale. Tutte le scelte conseguenti vengono da qui, altrimenti si resta in mezzo al guado”. In un carcere disegnato così che ci fanno 16 bambini che, come spiega Alfredo Bazoli, il capogruppo Dem in commissione Giustizia alla Camera, ovviamente non hanno commesso alcun crimine, ma sono costretti a vivere dietro le sbarre per via delle loro madri? Su questo s’impegna il vice segretario del Pd Beppe Provenzano che parla di un “provvedimento importantissimo su bambini senza colpa che si trovano in carcere: si tratta della Legge Siani, che deve sancire con forza il principio che nessun bambino può varcare la soglia del carcere”. E Provenzano cita Victor Hugo quando sul carcere scrive: “Entrai che ero un ceppo, uscii che ero un tizzone”. Politicamente, ecco la proposta del Pd come la spiega la Rossomando: “Servono Interventi urgenti per decreto legge recuperando alcune esperienze fatte durante la pandemia, quando ci sono state restrizioni, ma anche la possibilità di sperimentare sul campo misure innovative, e che non hanno avuto smentite, dai permessi straordinari, al lavoro all’esterno senza tornare in carcere la sera, le video chiamate, i collegamenti via internet, il braccialetto elettronico per chi sconta la pena ai domiciliari”. E sono i protagonisti politici di quell’esperienza - dal vice capogruppo del Pd al Senato Franco Mirabelli, all’ex sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, alla stessa Rossomando - a vantarne i meriti. E a ipotizzare, come fa Mirabelli, che “nel primo decreto in cui sarà possibile, dovremo riprovare a introdurre la questione della scarcerazione anticipata per chi, in questi due anni di pandemia, ha comunque subito l’isolamento e una detenzione difficile”. “Braccialetto elettronico a chi deve ancora scontare pene entro i 18 mesi, i permessi e la possibilità di dormire fuori a chi ha permessi di lavoro” dice ancora Mirabelli. Una strategia in cui rientra il nuovo regolamento scritto dal costituzionalista Marco Ruotolo, a cui si era rivolta la Guardasigilli Marta Cartabia. Spiega lo stesso Rutolo nel suo intervento all’Agorà: “Penso all’utilizzo dei colloqui a distanza. La tecnologia può migliorare sensibilmente il trattamento - penso all’istruzione e alla formazione professionale, al mantenimento dei rapporti affettivi, ma anche garantire maggiore sicurezza (metal detector fissi, body scanner, video sorveglianza). Una pena che funziona può davvero contribuire a ricostruire il legame sociale che si è spezzato con la commissione del reato. Con conseguenze positive, ovviamente, anche e forse soprattutto sul piano della sicurezza sociale”. Walter Verini - oggi tesoriere del Pd, ma ex responsabile Giustizia e relatore sul Csm - definisce “importantissimo” il lavoro della commissione Ruotolo perché riscrive tutte le regole interne delle carceri, a prescindere dal colore politico e dalle apparenze. Cartabia, dice Verini, “è una ministra sensibilissima, ma è tempo di fare un decreto che entri subito in vigore - perché non c’è nulla di più urgente che le carceri - in cui ci sono norme che al più presto eliminino il sovraffollamento e rendano il trattamento più umano”. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma vede nei numeri più attuali dell’universo penitenziario l’attuale anomalia del carcere, 18 mila in attesa di giudizio su 54mila. Chiaramente troppi. E quanto alle “guardie” propone al loro posto “figure professionali che lavorino dentro il carcere, per il recupero del sé corporeo, del sé culturale, del sé dell’istruzione formalizzata, visto che 5mila persone detenute, tutte italiane, hanno fatto solo la scuola elementare”. Mirabelli (Pd): “Carceri, rendere permanenti le misure prese in pandemia” imgpress.it, 20 maggio 2022 “Ci sono alcune cose che possiamo fare sul tema delle carceri nell’ultimo spazio di Legislatura che abbiamo davanti, anche perché la Ministra della Giustizia, nelle diverse interrogazioni che abbiamo fatto, ha già dato disponibilità rispetto a questi temi. Penso, dunque, che nel primo decreto in cui sarà possibile, dovremo riprovare a introdurre la questione della scarcerazione anticipata per chi, in questi due anni di pandemia, ha comunque subito l’isolamento e una detenzione difficile. A queste persone va riconosciuto uno sconto di pena maggiore (ovviamente, si parla di chi può avere uno sconto di pena e, quindi, di chi ha tenuto una buona condotta). Inoltre, appena è possibile intervenire, occorre anche rendere permanenti tutte le misure prese durante la pandemia. Credo, infatti, che siano da tenere aperti il tema degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico a chi mancano da scontare pene entro i 18 mesi, i permessi e la possibilità di dormire fuori a chi ha permessi di lavoro (anche perché sarebbe assurdo che venissero riportati dentro, dopo che hanno dormito fuori fino adesso per due anni, senza fughe o manifestazioni di recidività). Ovviamente, va mantenuto ciò che si è fatto sulla comunicazione con l’esterno, dove si è sperimentato anche l’utilizzo della rete, di Skype per le videochiamate. Tutto questo, oltre che per comunicare con i familiari, può essere molto utile anche per affrontare un’altra questione decisiva che è quella della formazione. La digitalizzazione può aiutare la formazione. Abbiamo visto con grande evidenza che il carcere è molto difficile da vivere per tutti se prevale la noia, se non c’è formazione e se non c’è lavoro. Penso, quindi, che occorra creare più opportunità di formazione e, quindi, avere degli spazi e degli strumenti. Penso, però, che servano anche altre forme di incentivo per le aziende che danno lavoro ai detenuti dentro e fuori dal carcere. Penso, poi, che legare la formazione al lavoro sia un tema fondamentale. Ci sono esperienze che si sono fatte e si stanno facendo in giro per l’Italia molto interessanti e credo che vadano diffuse e incentivate. Un rapporto con le organizzazioni imprenditoriali e il mondo dell’impresa deve essere finalizzato a valorizzare questa opportunità”. Lo ha detto il senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato e Capogruppo del PD in Commissione Giustizia del Senato, intervenendo all’Agorà Democratica “Carcere, sistema penitenziario ed esecuzione della pena. Quale riforma?” in corso a Roma nella sede del PD. “Un’ultima questione che dovremmo affrontare è quella della salute e della salute mentale in carcere - ha proposto Mirabelli. Il tema della malattia psichiatrica all’interno del carcere, infatti, è sempre più di difficile soluzione. L’insufficienza degli strumenti per affrontare i problemi psichiatrici in carcere è evidente e l’impegno non tanto dell’amministrazione ma soprattutto delle ASL che se ne dovrebbero occupare, su questo fronte è assolutamente insufficiente. Credo che serva un impulso nazionale, perché altrimenti le carceri rischiano davvero di diventare luoghi esplosivi e in cui è difficile mantenere un regime che garantisca formazione, lavoro, tempo libero e vigilanza dinamica”. Lavoro in carcere, la vera svolta solo con imprese e coop esterne di Oscar La Rosa* Il Dubbio, 20 maggio 2022 Il vero punto di svolta del lavoro in carcere arriva nel 1993. Lo Stato prende consapevolezza delle difficoltà delle amministrazioni penitenziarie nel gestire le lavorazioni interne soprattutto considerando la previsione normativa per la quale i metodi e l’organizzazione del lavoro debbano riflettere quelle del mondo esterno. Il problema di fondo si rivela essere questa doppia funzione della direzione carceraria, da un lato datore di lavoro e dall’altro l’ente che ha un potere detentivo e punitivo verso la persona detenuta e lavorante. La legge 196 del 1993 risolve questo conflitto di funzioni dando la possibilità ad imprese e cooperative di gestire direttamente le lavorazioni interne al carcere occupandosi anche della formazione e dell’assunzione delle persone detenute. Una vera rivoluzione destinata a cambiare radicalmente l’approccio del mondo imprenditoriale e cooperavistico al lavoro in carcere. In questo modo anche i detenuti che non possono usufruire della semilibertà o del cosiddetto “articolo 21” hanno la possibilità di lavorare ed essere contrattualizzati da un datore di lavoro terzo che sia estraneo alla direzione del carcere. Mentre le imprese private hanno libertà di scelta nell’assunzione delle persone detenute si è ritenuto importante fissare i parametri che l’amministrazione penitenziaria deve adottare nel collocamento dei detenuti verso quei lavori la cui gestione rimaneva in capo all’amministrazione penitenziaria. Innanzitutto si fa un passo indietro alle novità introdotte dalla legge Gozzini. Torna ad essere rilevante il progetto di vita e di lavoro della persona detenuta, considerando nuovamente eventuali lavori precedenti e possibilità lavorative future. Alle generiche “condizioni economiche famigliari” previste da Gozzini si fa cenno a requisiti più specifici come anzianità di disoccupazione durante gli anni di detenzione e carichi famigliari. Per una maggiore equità e trasparenza, il collocamento al lavoro interno segue due graduatorie distinte, una generica e l’altra per competenze e professionalità. Infine, e non è di poco conto, si prevede l’obbligo per il Ministro della Giustizia di relazionare il Parlamento circa lo stato del lavoro in carcere entro il 31 marzo di ogni anno. Finalmente si riconosce al lavoro in carcere una funzione essenziale del trattamento della persona detenuta, il bisogno di informare il Parlamento e quindi il Paese circa il suo funzionamento e la necessaria collaborazione attiva, anche e soprattutto interna al carcere, di imprese e cooperative. *Founder Economia Carceraria Ingiuste detenzioni. Nel 2021 565 risarcimenti, ma gli innocenti potrebbero essere molti di più di Federica Olivo huffingtonpost.it, 20 maggio 2022 Accolto solo il 33% dei ricorsi per ingiusta detenzione. Parlano con Huffpost Enrico Costa (Azione), Samuele Ciambriello (Garante detenuti Campania), Gianpaolo Catanzariti (Osservatorio Camere Penali), Alessio Scandurra (Antigone). Cinquecento sessantacinque persone, 565 vite interrotte, cambiate, forse distrutte, da un periodo più o meno lungo trascorso ingiustamente in carcere. Sono solo una frazione del totale, ma almeno loro hanno ricevuto il risarcimento del danno per ingiusta detenzione. Perché alla fine del processo sono risultate innocenti. Oppure perché, anche se colpevoli, non era necessario mandarle in galera a sentenza non ancora emessa. O addirittura, come accade - secondo i calcoli di chi conosce bene la materia - a un detenuto su sei, durante le indagini preliminari. Il Ministero della Giustizia ha depositato ieri la relazione annuale al Parlamento sulle misure cautelari e sull’ingiusta detenzione. Sono dati che di anno in anno cambiano relativamente poco, ma in questo caso la notizia è questa. Perché nonostante gli interventi legislativi, nonostante le raccomandazioni a usare lo strumento della custodia cautelare in carcere il meno possibile, sono sempre tante, troppe, le persone che finiscono in cella senza un motivo valido. E ci stanno qualche giorno, un po’ di mesi, o addirittura anni. Poi alla fine succede che vengono assolti, o che il reato commesso viene riqualificato, o che si scopre che per quanto colpevole non c’era ragione per cui il soggetto dovesse stare in carcere prima della sentenza (ricordiamo che la custodia cautelare può essere disposta in caso di pericolo di fuga, di rischio di reiterazione del reato o di pericolo di inquinamento delle prove. Non ci sono altre opzioni). E così, quando si appura l’ingiusta detenzione, lo Stato deve risarcire: l’anno scorso, secondo i dati del ministero dell’Economia, sono stati spesi 24.506.190 di euro per risarcire i danni di chi era stato imprigionato ingiustamente. Sono poco meno di 50mila euro a persona, in media. Reggio Calabria in testa, segue Napoli: l’analisi dei dati - Il risarcimento varia da caso a caso, a volte sono cifre irrisorie: “Un candidato sindaco di Caserta è stato in carcere 15 giorni e gli hanno dato 6 mila euro, le pare una cosa seria?”, osserva con HuffPost Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, che conosce bene la questione visto l’elevato numero di ingiuste detenzioni che si registrano nella sua regione. Altre volte le somme liquidate sono molto alte, perché la detenzione è stata lunga. La corte d’Appello sul primo gradino del podio per risarcimenti concessi è quella di Reggio Calabria, con 76 ordinanze e 6.702.097 spesi. Circa il doppio a testa rispetto alle altre corti d’Appello. “Ho notato che alcuni hanno enfatizzato questo elemento - osserva con HuffPost Gianpaolo Catanzariti, avvocato tra la Calabria e Roma e responsabile dell’Osservatorio carceri delle camere penali - come a voler attaccare la corte d’Appello. Vorrei ricordare che in Calabria è facile che vengano contestati reati di mafia o aggravanti che vanno in questo senso. Il che significa che è possibile scontare anche sei anni di custodia cautelare. Se poi si appura che ciò è avvenuto da innocenti, o a chi in carcere comunque non doveva andare, è chiaro che la cifra versata dallo Stato sia maggiore rispetto ad altre zone del Paese”. In questa triste classifica, al secondo posto c’è Napoli, con 72 ordinanze. Segue, a ruota, Catanzaro, con 58. Quarta Roma, con 52: “Un elemento che non bisogna sottovalutare - prosegue l’avvocato - è quello del bacino d’utenza. Reggio Calabria ne ha uno molto più piccolo di quello di Roma o Milano”. Ed ecco che allora le due città calabresi tra i primi posti si notano ancor di più. “C’è una oggettiva tendenza - spiega Catanzariti, guardando alla sua regione di provenienza ma forse non solo - da parte dei giudici delle indagini preliminari a recepire la tesi dell’accusa. Tesi che, poi, in dibattimento si dimostra lacunosa. Questo vuol dire, evidentemente, che tali lacune non sono state rilevate dal gip”. Così succede che un indagato si trova in carcere anche se non dovrebbe stare lì. Con tutto ciò che ne consegue: “La fase della custodia cautelare è quella più complessa, più delicata della detenzione - spiega ad HuffPost Alessio Scandurra dell’osservatorio di Antigone - perché, anche se può sembrare un paradosso, dopo la condanna in qualche modo l’accettazione del carcere è maggiore. Quando, invece, la condanna ancora non c’è la situazione diventa più difficile. Anche perché i reparti dove sono ristrette le persone in custodia cautelare sono quelli più turbolenti. Vi approdano, ad esempio, persone con una tossicodipendenza che si trovano all’improvviso private della sostanza da cui dipendono o, comunque, soggetti in condizioni complesse”. E, quindi, la sofferenza aumenta. Se si sa di essere innocenti il malessere cresce ancora di più. Ma le ingiuste detenzioni potrebbero essere molte di più - Anche se il giudice poi riconosce che non c’era colpevolezza, o che non c’era rischio di fuga, inquinamento prove o reiterazione del reato, non è detto che il risarcimento si riesca a ottenere davvero. “Stando ai dati di quest’anno - spiega ad HuffPost Enrico Costa, parlamentare di Azione che per il garantismo e la presunzione di innocenza fa a Montecitorio una battaglia quotidiana - solo il 33% dei ricorsi proposti sono stati accolti”. Anche Catanzariti insiste su questo punto: “Le somme liquidate per ingiusta detenzione non sono mai lo specchio delle ingiuste detenzioni. Molte sono le istanze non proposte, ma soprattutto, tante sono le istanze dichiarate inammissibili”. Qualcuno potrà pensare che è fisiologico, che non c’è nulla di strano, ma a ben vedere non è così. La legge esclude il diritto al risarcimento se il soggetto ha “concorso” alla sua condizione “per dolo o colpa grave”. Volendo tradurre il giuridichese, significa che, ad esempio, un soggetto che si è avvalso della facoltà di non rispondere, o che ha avuto un comportamento incerto durante l’interrogatorio, può vedersi negato il risarcimento. E casi di questo genere sono tanti: HuffPost aveva raccontato la storia di Giulio Petrilli, ristretto per sei anni al 41 bis con l’accusa di reati relativi al terrorismo e poi assolto. Il Dubbio racconta quella di Giancarlo Benedetti, in carcere per 500 giorni e dichiarato innocente. Ma potremmo andare avanti ore. In questi casi, per un motivo o per un altro, il giudice ha detto ‘no’ al risarcimento. Secondo Costa il problema non è solo legislativo: “È un problema giurisprudenziale e corporativo, che porta le corti, di fatto, a non ammettere gli errori dei colleghi. Giudice non mangia giudice, verrebbe da dire. I dati presentati dalla ministra sono deprimenti e la politica dovrebbe fare battaglia, invece di disinteressarsene”. Il parlamentare è riuscito a far introdurre nella riforma dell’ordinamento giudiziario una nuova sanzione, da applicare nel caso di ingiusta detenzione che deriva da un arresto compiuto senza valutare elementi a favore dell’imputato. Ne è contento, ma si fa poche illusioni: “Ci sarà una nuova sanzione, ma se sono sempre i magistrati a gestire la materia, tuteleranno sempre i colleghi. Ci vorrebbe un soggetto terzo”, osserva, ricordando il dato di quest’anno. Solo cinque azioni disciplinari iniziate nei confronti del magistrato che ha inflitto l’ingiusta detenzione. Risultato? Nei tre casi decisi, neanche una sanzione. Eccessivo uso del carcere preventivo e lunghezza dei processi - Ma, tenendo sempre a mente che si tratta di dati probabilmente parziali, come si spiega l’elevato numero di ingiuste detenzioni? “Sono dovute a un uso sproporzionato della misura cautelare e alla lunghezza dei processi”, osserva Ciambriello. Che poi attacca: “Per un processo ingiusto chi paga, oltre alla persona e ai familiari?”. Punta il dito contro i magistrati, ma anche contro la parte della stampa che sbatte il mostro in prima pagina, dimenticandosi poi di dar conto della successiva assoluzione: “Abbiamo bisogno che qualcuno intervenga, perché oltre alla diagnosi ci vuole la cura”. Anche per Scandurra le ragioni della proliferazione dei casi di ingiusta detenzione sono da cercare nell’utilizzo disinvolto della custodia cautelare e nella lunghezza dei processi. Del primo aspetto, ci dice, “si è reso conto anche il legislatore, che ha introdotto misure per restringere il ricorso a questa misura. Ma, come abbiamo visto, i numeri non sono cambiati di molto. E ciò dipende da fattori extralegali”. E, cioè, dal fatto che “anche se così non dovrebbe essere, il carcere preventivo viene usato per fare pressione sull’imputato, o come anticipazione della pena. Perché c’è questa idea generale di punire al di là, anzi prima, della sentenza. Ciò è dovuto anche al dialogo, un po’ perverso, tra procura e forze dell’ordine, in virtù del quale ci si affretta a dare una risposta repressiva subito. Salvo poi il capovolgimento di quella tesi nel corso del processo”. Per Scandurra c’è una certa diffidenza nell’usare misure cautelari diverse dal carcere: “Mentre, per quanto riguarda l’esecuzione della pena, sono più i condannati fuori dal carcere che quelli ristretti in cella, per le misure preventive assistiamo a un fenomeno inverso. E la custodia cautelare è la più usata delle misure”. Il panorama, insomma, non è affatto confortante. E diventerebbe “devastante”, osserva invece Catanzariti, se fosse disponibile un quadro più completo delle misure cautelari inflitte e confermate o meno: “Bisognerebbe accendere i riflettori sul momento in cui si concepisce la misura cautelare in carcere, perché - conclude - qui non parliamo di freddi numeri, ma di carne e sofferenza umana”. Ingiuste detenzioni. Disciplinari farsa: le toghe vengono sempre assolte di Simona Musco Il Dubbio, 20 maggio 2022 Su 50 procedimenti in tre anni nessuna condanna, ma nessuno paga per le ingiuste detenzioni. Costa (Azione): “Con il fascicolo delle performance cambierà tutto”. La riforma in Aula il 14 giugno. Cinquanta azioni disciplinari a carico di magistrati in tre anni e nessuna condanna. Il dato emerge dalla Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione - 2021”, che il ministero della Giustizia ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento. Un dato riferito alle sole scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge, senza dunque valutare tutti gli altri casi previsti dalla legge, ovvero quelli più gravi, che vanno dalla violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile ai provvedimenti privi di motivazione. “Un’indecenza”, commenta il vicesegretario di Azione Enrico Costa, tra i principali protagonisti della riforma del Csm, che il 14 giugno dovrebbe arrivare in Aula al Senato, lasciando così spazio per una valutazione dell’esito dei referendum, come voluto dalla Lega. Una riforma che, con il fascicolo delle performance, mira anche ad un monitoraggio più efficace delle distorsioni, secondo Costa ignorate allo stato attuale, se è vero com’è vero che i dati ripropongono - pur con le dovute variazioni dettate anche dalla pandemia - sempre lo stesso quadro. Ma andiamo con ordine: su 50 procedimenti avviati tra il 2019 e il 2021, nove si sono conclusi con una assoluzione e 14 con un non doversi procedere. Sono 27 quelli tuttora pendenti, il cui esito, stando alle statistiche, appare quasi scontato. Ad avviare i procedimenti con la contestazione di ritardi nella scarcerazione è stata quasi sempre via Arenula, che ha promosso 45 iniziative. Le altre cinque, invece, sono opera del procuratore generale della Cassazione, che con il ministero condivide la titolarità dell’azione disciplinare. Lo scorso anno sono stati cinque i procedimenti, due dei quali conclusi con assoluzione e uno con un non doversi procedere. Mentre sul fronte delle riparazioni per ingiusta detenzione, lo Stato ha sborsato 24.506.190 euro, poco più di 12mila euro in meno rispetto l’anno precedente, in riferimento a 565 ordinanze, con una media di 43.374 euro per ogni indennizzato. Casi, questi, per i quali invece non c’è stato alcun procedimento disciplinare: il ministero ha infatti evidenziato come il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione “non è di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. E ciò perché “la riparazione può riconnettersi ad ipotesi del tutto legittime di custodia cautelare accertata ex post come inutiliter data: di frequente, la richiesta e la conseguente adozione di misure cautelari si basa su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale”. Parole che fanno indignare Costa: “Il punto è che i magistrati della Corte d’Appello tutelano i loro colleghi, dicendo nel quasi 70% dei casi che c’è concorso di colpa nelle ingiuste detenzioni - sottolinea - esentando così da ogni responsabilità il magistrato, che è una follia pura. Ma ciò vuol dire anche che nel restante 30% ci dovrebbe essere la responsabilità esclusiva. Allora com’è che nessuno viene punito? Il ministero e la procura generale non muovono un dito. E quando questi casi arrivano al Csm è ancora peggio. È deprimente leggere questi dati”. Insomma, le responsabilità non vengono affatto esplorate, secondo il deputato di Azione, sulla base di una “logica conservativa”. Ma anche perché, fino ad oggi, “mancava la fattispecie disciplinare, che noi abbiamo inserito nella legge: un conto è parlare di applicazione della custodia cautelare fuori dai casi previsti per legge, un altro parlare di custodia fuori dai presupposti di legge”. I dati forniscono alcune costanti: il distretto di Reggio Calabria, ad esempio, conta ben 84 ricorsi accolti sui 135 definiti nel 2021, ovvero il 62% del totale, per un totale di quasi 7 milioni di euro di indennizzo. E subito dopo, con 45 ricorsi accolti, troviamo Catania, seguita da Roma (47), Napoli (40) e Catanzaro (35). “Perché non viene disposta un’ispezione a Reggio Calabria, che detiene questo record da anni? - si chiede Costa - Perché non analizzare i fascicoli? Com’è possibile che l’ufficio gip non si ponga il problema di far pagare queste somme allo Stato, ogni anno? La risposta è semplice: perché non ha mai pagato nessuno per tutto questo”. Proprio per tale motivo, sostiene il deputato, era necessario il fascicolo delle performance, che andrà ad analizzare proprio le gravi distorsioni, introducendo anche una sanzione disciplinare per il magistrato che ha indotto l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave ed inescusabile, elementi rilevanti. “Con il fascicolo cambierà molto - conclude Costa. A Reggio Calabria non c’è una grave anomalia? Parliamo di questo”. Ingiuste detenzioni. “Nessuna conseguenza per chi sbaglia: le carriere sono salve” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 maggio 2022 “Il tema su cui riflettere, credo molto sinceramente, è la pressoché totale assenza di ricadute, di qualsiasi genere, sul percorso professionale del magistrato”. A dirlo è l’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, commentando con il Dubbio i dati dell’ultima relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione. Avvocato Caiazza, il Dubbio ha pubblicato ieri alcune tabelline estrapolate dalla relazione per l’anno 2021 sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione, presentata dal ministero della Giustizia al Parlamento l’altro giorno. Il dato che balza subito all’occhio è la completa mancanza di provvedimenti sanzionatori nei confronti dei magistrati che hanno arrestato persone poi rivelatesi innocenti. E questo anche in caso di macroscopici errori giudiziari. Si pensi, tanto per fare un esempio, che non risultano sanzioni disciplinari comminate neppure per i magistrati che si sono dimenticati agli arresti persone che invece dovevano essere scarcerate... Guardi, è inutile insistere sugli aspetti che toccano anche la responsabilità civile dei magistrati. Abbiamo tutti visto in questi anni che il meccanismo, nel modo in cui è strutturato, non funziona affatto. E allora che cosa si può fare? Almeno che ci sia una valutazione di questi errori ai fini della carriera professionale del magistrato. Adesso al magistrato che sbaglia non succede assolutamente nulla. In altre parole, prosegue la sua carriera tranquillamente senza intoppi: non ci sono penalizzazioni economiche o impedimenti per il conseguimento di un incarico direttivo. La riforma recentemente approvata alla Camera, pur fra molti mal di pancia, prevede sul punto un cambio importante di rotta. Mi riferisco al fascicolo delle performance dove dovrebbero essere inseriti gli esisti dei procedimenti che il magistrato ha aperto... Si tratta di strumenti valutativi che di fatto sono presenti nell’ordinamento giudiziario del 2007. Ci sono le schede di autovalutazione. Bisognerà vedere a regime come funzioneranno le nuove regole. L’Associazione nazionale magistrati, comunque, ha fatto le barricate contro il fascicolo della performance, considerato come un pericolo per l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, e ha proclamato uno sciopero che poi si è però rivelato un flop... A parte lo sciopero, che è segno di un certo atteggiamento da parte della magistratura, io vorrei porre l’attenzione sui una circostanza particolarmente emblematica del contesto in cui ci troviamo ad operare. Prego... Tramite l’Osservatorio delle Camere Penali stiamo cercando in tutti i modi da anni di conoscere quante volte vengo accolte le misure cautelari, i sequestri, richiesti dal pm. Non si trova questo dato? No, non si trova da nessuna parte, né al ministero della Giustizia, né al Consiglio superiore della magistratura. Pare che sia un dato che non viene censito ed invece sarebbe di fondamentale importanza conoscerlo. Perché una delle “scuse” da parte dei pm in caso di arresti poi finiti in una bolla di sapone è che i provvedimenti sono stati emessi dal gip? Sì. È così. Vedere in dettaglio il numero di richieste respinte aiuterebbe a comprendere il livello di “appiattimento” del gip sul pm. Molti suoi colleghi parlano anche di un doppio appiattimento: il “copia e incolla” effettuato dal gip nei confronti del pm, verrebbe effettuato da quest’ultimo riguardo all’informative della polizia giudiziaria. La conseguenza di questo modus operandi sempre più diffuso è, per estremizzare, che l’ordinanza di misura cautelare viene di fatto scritta dal maresciallo... Il problema di fondo è che in Italia ormai manca la cultura della giurisdizione. Si è persa completamente. Ed invece dovrebbe essere riscoperta se vogliamo veramente realizzare il tanto auspicato cambio di passo in tema di garanzie e rispetto dei diritti. Dal 41bis al 110 e lode: il traguardo di Alessio dopo il percorso a ostacoli di Veronica Manca* Il Riformista, 20 maggio 2022 Nessuno tocchi Caino, con il suo viaggio della speranza senza fine, ha appena fatto il giro delle carceri sarde. Per la prima volta dopo tanti anni è stato consentito di visitare anche le sezioni del 41-bis a Bancali e Badu e Carros. Un segno tangibile del corso che il Presidente Carlo Renoldi intende seguire nella amministrazione penitenziaria e del “carcere duro” dove nonostante tutto il cambiamento è possibile. “L’inferno dei regimi differenziati” è il titolo del libro di Alessio, un detenuto al 41bis, da oltre vent’anni, che lo scorso 10 maggio si è laureato in giurisprudenza, in diritto penitenziario, con una tesi dal titolo “I regimi differenziati nel sistema penitenziario”, ottenendo il massimo dei voti e la lode. Il merito è sicuramente dovuto alla straordinaria competenza e professionalità con cui il Polo Universitario Penitenziario dell’Università degli Studi di Sassari affianca gli studenti detenuti, anche quelli sottoposti al regime del 41-bis, con infinite e rigidissime preclusioni e, appunto, differenziazioni, come dice Alessio, all’esercizio del diritto allo studio. Una tra tutte, la gestione della seduta di laurea, il coronamento del percorso di studi. La relatrice, la Prof.ssa Paola Sechi e tutta la commissione, istituita regolarmente, per la seduta di laurea, hanno dovuto assistere alla discussione in video-collegamento dal carcere di Bancali-Sassari, con il laureando invece presente nel diverso carcere di Milano-Opera. L’impegno del PUP e di tutti gli operatori penitenziari ha consentito il regolare svolgimento degli esami finali e della seduta di laurea: una impresa non facile dato che il detenuto, durante la sua espiazione pena al 41bis e specie negli ultimi mesi, aveva subito diversi trasferimenti: dalla Sardegna a Parma, a Rebibbia, a Spoleto, a Novara, fino a Milano-Opera. Come racconta Maria Teresa Pintus, suo difensore e anche consigliera di Nessuno tocchi Caino, la storia di Alessio mette in luce tutte le difficoltà di gestione dei più elementari diritti delle persone ristrette al regime del 41-bis. Al detenuto non è consentito infatti avere diretto accesso con terze persone, siano esse anche tutor o docenti universitari. L’unico contatto consentito, che peraltro si svolge con le stesse modalità di incontro con i familiari (vetro divisorio a tutta altezza e citofono), è previsto in concomitanza degli esami finali e nelle discussioni, tutti momenti sempre vissuti rigorosamente in videocollegamento. Durante tutto il percorso di studi, quindi, il detenuto è lasciato a sé, privato di qualsiasi possibilità di un confronto con i propri docenti. Allo stesso modo, per i libri e il materiale didattico: l’Avvocata Pintus evidenzia tutte le difficoltà di accesso di libri di testo e la preclusione di ingresso di materiale digitale, oltre all’assenza di supporti economici per l’acquisto - sempre e comunque per il tramite dell’Amministrazione penitenziaria - di libri e materiali. Nel caso di Alessio, anche grazie all’impegno dei docenti e del legale, si sono forniti gratuitamente, in comodato d’uso, tutti i materiali per gli esami, previa autorizzazione e controllo da parte della Direzione del carcere. Un vero e proprio percorso a ostacoli che, tuttavia, non ha impedito con determinatezza, professionalità e negli stretti limiti consentiti dalla legge, di perseguire, in cooperazione con l’Amministrazione penitenziaria, l’obiettivo dell’effettività del diritto allo studio. *Componente Osservatorio Carcere UCPI La giustizia e la grazia di Vittorio Monti Corriere della Sera, 20 maggio 2022 Una volta, cose dell’altro secolo, c’era il ministero di “Grazia e Giustizia”. Come se la prima missione fosse perdonare. Quella del giudizio veniva dopo: infatti con le sentenze non si è mai provveduto alla svelta. Per giustificare i ritardi, vale sempre il famoso proverbio, chi va piano arriva sano e lontano, nel presupposto che, senza fretta, la meta sarà quella sana, sinonimo di giusta. Quindi garanzia del bene sociale fondamentale: il vero colpevole condannato e il vero innocente assolto. Fosse sempre così, l’andatura lenta andrebbe non solo tollerata ma addirittura prescritta: meglio una giustizia lumaca con garanzia incorporata di una versione rock ma fallace. Purtroppo, spesso anche la lumachina va in testa coda. Almeno sembra a chi ha l’impagabile fortuna di guardare il mondo dei tribunali standone fuori. La valutazione pessimista è indotta dalle ricorrenti giravolte delle decisioni. Una sequenza frequente prevede condanna in primis e assoluzione successiva, ma con comodo. Esistono le varianti: condanna, condanna bis, poi tutto da rifare, a volte con ritardataria chiusura a favore del processato e contorno di pianti liberatori dopo l’infinito calvario. Nei politici, spesso un’esultanza che sa molto di scampato pericolo, poco d’impegno serio a sveltire le procedure. Il copione non prevede scuse pubbliche al riabilitato: si accontenti di tornare a rivedere le stelle. Gli ottimisti ad oltranza considerano positiva all’alternanza dei verdetti, percorso tortuoso proprio perché garantito. Per gli scettici, più cresce il numero dei i giudici in azione e più aumentano le possibilità dell’errore, perciò non tollerano che, sempre in nome dell’unico popolo italiano, si salti dal pollice verso al suo contrario. Poco alla volta dilaga la sfiducia: irritata da lungaggini (a Modena dieci anni per riconoscere danni da terremoto), effetto lotteria sulle sentenze, polemiche fra togati, la gente finisce per timbrare la prima mossa come bersaglio sicuro. L’indagato è subito colpevole, ecco l’ingiustizia sommaria: esemplare il caso Tortora. La comunicazione giudiziaria diventa mina antiuomo, che uccide la reputazione. Difficile farla rivivere, quando il sospetto fa flop come le bolle di sapone: purtroppo il senza colpa paga dazio al destino. Causa girandola di verdetti (ora, la storia del pescatore di Cattolica, un anno in galera e poi assolto), non c’è da stupirsi del consenso diffuso su un’amara conclusione: solo l’innocente deve avere paura di finire sotto processo. Il colpevole no, soprattutto se può difendersi senza badare a spese. Questi sono giorni cruciali per il futuro della giustizia, tra riforme e referendum. Eppure, nemmeno nella città dove Irnerio fondò la scuola del diritto, l’argomento è trend topic. Soprattutto la gente rispettosa delle regole, attenta ai doveri e ai divieti più che a diritti e permessi, resta in silenzio. Autoprotezione indicativa sullo stato del rapporto fra la Giustizia con l’iniziale maiuscola e il cittadino con quella minuscola. Quando un cosiddetto “mostro” viene resuscitato per “non avere commesso il fatto”, anche il giornalista deve sentire un pugno nello stomaco, se ha ceduto ad etichette facili, invece di esercitare un severo filtro sulle notizie giudiziarie. Nei giorni scorsi un magistrato della Procura ha indicato, tra i rischi della riforma Cartabia, che i pubblici ministeri siano “sempre più timorosi nell’affrontare inchieste e processi dall’esito non scontato”. Sperabile che, proprio quando è molto difficile trovare la verità, gli accusatori non siano timorosi. Semmai più scrupolosi. La magistratura che non ama Montesquieu di Valentina Angeli Left, 20 maggio 2022 Partiamo dall’abc. La separazione dei poteri (o divisione dei poteri), nella giurisprudenza, è uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale. Montesquieu, il filosofo a cui viene tradizionalmente attribuita la moderna teoria della separazione dei poteri, ne “Lo spirito delle leggi”, pubblicato nel 1748, sosteneva che “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti .... Perché non si possa abusare del potere occorre che ... il potere arresti il potere”. Dunque i tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - non solo devono essere separati tra di loro, non potendosi accentrare nella medesima persona o organo, più funzioni (o poteri) tra quelli descritti, ma ognuno di loro deve fungere da limite all’altro. Posto ciò, qualcuno potrebbe accettare che un membro del governo possa prendere parte (o, addirittura, contribuire materialmente) ad una sentenza emessa da un magistrato? Ovviamente no. Però, finora, si è accettato tranquillamente che circa 200 magistrati siano distaccati presso l’esecutivo (i cosiddetti “fuori ruolo”), unico Paese al mondo dove membri del potere giudiziario contribuiscono all’esercizio del potere esecutivo. Il sostenere che siano dei meri “tecnici” è semplicemente risibile e ritengo che le recenti vicende, rivelatrici della naturale vocazione politica anche in chi esercita il potere giudiziario, possano aver fugato, definitivamente, una simile argomentazione. Ma la separazione dei poteri, con l’omologo corollario del limite all’esercizio del potere stesso, è un principio funzionante ovunque si svolga un potere ed anche la magistratura ha due diversi poteri in pancia: quello requirente (gli uffici del Pubblico ministero che svolgono le indagini) e quello giudicante (i giudici che emettono le sentenze), ed ognuno ha diritto ad essere giudicato da un giudice terzo (che cioè sia indipendente da ogni altro potere, anche quello del Pubblico ministero) ed imparziale (articolo 111 Costituzione). La riforma Cartabia, contro cui l’Associazione nazionale dei magistrati (Anm) ha proclamato lo sciopero, va in questa direzione, prevedendo una maggiore separazione delle funzioni tra Pubblici ministeri e giudici (intervento blando rispetto alla separazione delle carriere richiesta dall’Ucpi (Unione delle camere penali italiane), che attuerebbe in pieno il principio della terzietà), ed una più stringente disciplina dei cosiddetti “fuori ruolo”, attraverso valutazioni rigorose che possano eccezionalmente ammettere che un magistrato sia collocato presso l’esecutivo e poi possa tornare ad esercitare la sua funzione ed il suo potere. Infine, la vexata quaestio della “valutazione di professionalità” del magistrato contro cui la magistratura fa scudo, paventando addirittura una “schedatura” del magistrato. È bene partire dalla realtà: la valutazione della professionalità del magistrato è già prevista dall’ordinamento giudiziario ed è parametrata sulla “valutazione degli esiti” cioè su cosa accade nei gradi di giudizio successivi al primo, solo che, attualmente, i provvedimenti su cui effettuare tale valutazione sono presi “a campione” oppure sono forniti dal magistrato stesso, con l’effetto bulgaro di essere tutti degli ottimi magistrati. La riforma prevede che invece sia valutata, con lo stesso metodo, l’intera attività del magistrato e non solo decisioni a campione o appositamente scelte, con un metodo statistico che pone nel nulla l’eventuale rilevanza della singola sentenza “creativa” che il giudice si senta in coscienza di emettere e che, invece, si teme che non si senta libero di adottare, poiché foriera di un giudizio negativo. A parte l’agghiacciante considerazione della pochezza etica di un soggetto che, chiamato ad un alto compito come quello della giurisdizione, si fermi nell’equità del proprio giudizio di fronte ad un avanzamento di carriera, rimane la dirimente considerazione evidenziata da Gian Domenico Caiazza, presidente Ucpi, proprio durante il suo intervento all’assemblea dell’Anm: se si acquisisce l’intera attività del magistrato nel quadriennio, le eventuali 5, 10 o anche 20 sentenze “creative” non pesano sulla valutazione (non possono per evidenza statistica), ma se un magistrato emette l’80% di sentenze “creative” è legittimo che ci sia un problema che è doveroso rilevare? Lo possiamo ammettere che, in tal caso ci sia, quantomeno, un problema di lettura delle leggi a cui, solamente, il giudice dovrebbe essere sottoposto? Ecco, a fronte di ciò, il sapore di una levata di scudi corporativa, da parte dell’Anm, è forte e rimane l’impressione che la magistratura non ami Montesquieu, abituata ad esercitare un potere senza limiti, se non la propria coscienza che, però, non è né unitaria né pubblica. La riforma del Csm in Aula al Senato il 14 giugno, intesa nella maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 20 maggio 2022 Riunione a palazzo Madama con la Guardasigilli Cartabia e i capigruppo. Il testo all’esame dopo il voto sui referendum sulla giustizia e amministrative. La riforma del Csm - per quella che ci si augura potrà essere l’ultima lettura - andrà in Aula al Senato il 14 giugno. Quindi dopo il voto sui referendum sulla giustizia di domenica 12 giugno, in accoppiata con il voto amministrativo. Una “piccola” vittoria della Lega che certo non gradiva, e non lo ha neppure nascosto, un voto finale che precedesse i referendum tra cui un paio - presenza degli avvocati nei consigli giudiziari e le 25 firme eliminate per presentare una candidatura come togato al Csm - avrebbero ulteriormente svuotato i cinque quesiti. E cioè la cancellazione della legge Severino sull’incadidabilità a un incarico politico per chi viene condannato penalmente, la stretta sulla custodia cautelare, una definitiva separazione delle carriere tra giudice e pm. A deciderlo a mezzogiorno è stata una riunione a palazzo Madama con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, e i capigruppo delle singole forze politiche. Presente anche il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto che, in commissione Giustizia, sta seguendo i lavori sul disegno di legge. In commissione Giustizia, dopo una breve serie di audizioni, per le 19 del 23 maggio è prevista la scadenza per presentare emendamenti al testo. Ma ovviamente Cartabia preme perché nulla venga cambiato. L’elezione del nuovo Csm è alle porte - nel 2018 si votò per i togati nella prima settimana di luglio - ed è quindi urgentissimo approvare la nuova legge elettorale. Un maggioritario binominale, con uno spazio proporzionale. Durante la riunione con Cartabia e D’Incà, comunque, non sono emersi toni belligeranti da parte della Lega e di Italia viva, i due partiti della maggioranza più critici verso la riforma. I renziani, dopo la battaglia contro la legge del deputato e tuttora magistrato Cosimo Maria Ferri, alla Camera si sono astenuti. Mentre la Lega, con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, ha criticato il testo e detto espressamente che al Senato l’intenzione del partito di Salvini era quello di cambiare gli aspetti più insoddisfacenti. Da qui anche il testo affidato al presidente della commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, che ha proceduto con le audizioni e il via libera agli emendamenti. Ma stamattina invece il clima è apparso più disteso. Tutti sanno bene del resto che il presidente della Repubblica, nonché dello stesso Csm, Sergio Mattarella non accetterebbe alcuna proroga dell’attuale Consiglio. Quindi una terza lettura del testo alla Camera sarebbe del tutto improponibile. Se la riforma passa a metà giugno ci dovrebbe essere il tempo sufficiente per eleggere i 20 togati del futuro Csm con le nuove regole entro luglio. Mentre le Camere riunite devono scegliere i 10 componenti laici. Cresce lo “squadrone” dei dem per il sì ai referendum sulla giustizia di Giovanna Casadio La Repubblica, 20 maggio 2022 Dopo le ultime tensioni nel partito, si allarga la fronda che comprende alcuni dirigenti di Base riformista ma anche esponenti della sinistra. Enrico Letta è stato ai patti e non ha mortificato lo “squadrone” di Dem che voterà Sì a tutti, o a parte, dei referendum sulla giustizia. Ma sono stati giorni di tensione nel Pd prima di arrivare alla tregua. A provocarli anche l’intervista di Walter Verini, ex responsabile giustizia del partito, che spiegava la posizione del tutto contraria al referendum sulla giustizia che i Radicali e la Lega di Salvini hanno voluto e che Matteo Renzi sostiene. Nel Pd le acque hanno cominciato ad agitarsi, tanto che due giuristi Stefano Ceccanti e Enrico Morando hanno scritto un appello (“Caro Letta, ripensaci”), pubblicato sul Foglio, per spiegare come mai il No secco del Pd ai 5 quesiti sulla giustizia potrebbe rivelarsi in realtà un guaio. Un pre-allerta, prima dello scontro. Il segretario dem lo ha sminato nella Direzione di martedì scorso, scandendo: “Proporrò un orientamento per il No al referendum, però il Pd non è una caserma”. La posizione del segretario resta quella più volte ripetuta, cioè che “i 5 quesiti finiscono per creare più problemi di quanti non ne risolvano”. Però i dem sostenitori del Sì si sentano pienamente a casa loro. E quindi anche nei circoli del partito si discuterà con la presenza dei referendari, mentre gli spazi delle tribune politiche saranno occupati dal Pd a sostegno del No e qui si stanno alternando Anna Rossomando, Alfredo Bazoli e Verini. Ecco che lo “squadrone” di dem referendari si allarga, tra molti distinguo e differenze. Comprende alcuni dirigenti di Base riformista, la corrente che fa capo a Lorenzo Guerini e Luca Lotti, da Ceccanti appunto al sindaco di Bergamo Giorgio Gori e a Andrea Marcucci, Salvatore Margiotta, poi ci sono Dario Stefano, Gianni Pittella, Luciano Pizzetti, Luciano D’Alfonso, Enza Bruno Bossio, ma anche esponenti della sinistra come Massimiliano Smeriglio, Goffredo Bettini, oltre alla corrente di Matteo Orfini e Fausto Raciti. In Direzione è intervenuto Francesco Verducci per ribadire che alcuni Sì vanno detti. Le posizioni sono appunto variegate. Ceccanti ad esempio, dirà Sì a quei quesiti che ritiene anticipino di fatto la riforma Cartabia: quindi Sì alla separazione delle funzioni, Sì a quello sulla valutazione dei magistrati e Sì al quesito sul sistema elettore del Csm. Su questo - spiega sempre Ceccanti - va ricordato che cadrebbe in caso di approvazione parlamentare della riforma Cartabia e quindi “chi approva la riforma in Parlamento non può con tutta evidenza fare campagna per il No”. Smeriglio invece voterà Sì oltre che per la separazione delle carriere, anche sui limiti alla custodia cautelare preventiva e sull’abolizione della legge Severino. Sulla legge Severino il dibattito è aperto, con il fronte dei sindaci sul piede di guerra. E infatti il Pd ha presentato un disegno di legge a prima firma Dario Parrini per cambiare quelle parti in cui gli amministratori locali vengono messi fuori gioco dopo il primo grado di giudizio. Marcucci ritiene da “garantista” che sulla carcerazione preventiva e la legge Severino “sia necessario intervenire e lo status quo sia deleterio”. Alessandro Alfieri, coordinatore di Base riformista, è convinto che la riforma della Severino andrà in porto senza massimalismi. Sul referendum? È convinto che tante saranno soprattutto le astensioni. Benché accorpato al voto per le amministrative il 12 giugno, è difficile infatti che raggiunga il quorum. L’Anpi, l’associazione dei partigiani, ha diffuso una nota per dire che “sono quesiti molto tecnici e settoriali, scarsamente comprensibili da chiunque non sia specificamente competente in materia giuridica, irrilevanti ai fini di una seria e complessiva riforma della giustizia”. Il 12 giugno cinque Sì per una giustizia giusta di Guido Camera* Il Riformista, 20 maggio 2022 Che giustizia vuoi? È la domanda da farsi il prossimo 12 giugno entrando nell’urna per votare al referendum sulla giustizia. Le risposte sono lineari: se pensi che il custode dei tuoi diritti debba essere un giudice realmente terzo, indipendente e imparziale, e che la presunzione di innocenza non sia un simulacro da esaltare solo nei convegni, allora devi votare sì. Se invece credi che sia giusto sbilanciare il processo in favore dell’accusa, che il corporativismo, la politicizzazione e il carrierismo non siano gravi patologie per la magistratura, e che si possa sopperire all’inadeguatezza della macchina giudiziaria facendo ricorso a scorciatoie come automatismi e presunzioni nell’inflizione di misure che incidono sui diritti costituzionali, allora vota no. Però ricordati che, così facendo, stai propugnando una visione illiberale della giustizia, impregnata dalla cultura del sospetto. Passerò in rassegna i quesiti per dare sostanza a queste affermazioni. Due di questi difendono i principi costituzionali del giusto processo e della presunzione di innocenza: quello sulla separazione delle carriere tra pm e giudici e quello contro gli abusi della carcerazione preventiva. Votare sì vuol dire accentuare il ruolo di parte del pm, come prevede la Costituzione. Non è poco, dato che il processo penale consiste nella soluzione di un conflitto di interesse tra accusa e difesa; perciò bisogna evitare ogni forma di preminenza - anche culturale - di una delle due parti sul giudice. Rischio oggi concreto, perché l’attuale disciplina consente quattro passaggi di funzione nel corso della carriera; inutile negare che il cambio di casacca da pm a giudice porta con sé una forma mentis da cui, anche inconsapevolmente, è difficile liberarsi. Il quesito sulla carcerazione preventiva è una battaglia di civiltà. La modifica non metterà a repentaglio la sicurezza pubblica; gli indiziati dei reati più gravi e pericolosi continueranno infatti a poter essere arrestati prima del processo. L’obiettivo referendario è evitare che la misura cautelare venga disposta con troppa facilità, devastando la vita del malcapitato. Per rendersi conto delle dimensioni del problema, basta citare i dati diffusi dai promotori del referendum: un detenuto su tre è in custodia cautelare, e dal 1992 lo Stato ha speso quasi 795 milioni di euro per indennizzi da ingiusta detenzione. Gli altri tre quesiti non sono meno importanti. Incominciamo dal diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari e dall’abrogazione della raccolta delle firme per le candidature al Csm. Gli obiettivi dei promotori sono contrastare autoreferenzialità e corporativismo nella magistratura, in favore del merito e dell’indipendenza dal correntismo. Il fatto che i quesiti siano sorpassati dalla riforma Cartabia non deve fare abbassare la soglia dell’attenzione. Prima di tutto perché manca il voto del Senato, e dubito che arriverà prima del referendum. Il mancato raggiungimento del quorum, o la vittoria dei no, rinvigorirebbero le ambizioni di restaurazione; al contrario, una netta vittoria dei sì potrebbe agevolare la riforma e creare le condizioni per nuovi interventi di stampo liberale nella prossima legislatura. L’ultimo quesito riguarda il decreto Severino. Ne viene chiesta l’abrogazione perché contiene misure che limitano in modo automatico il diritto di elettorato passivo, per gli amministratori locali anche in presenza di una condanna provvisoria. Io voterò sì, perché credo che sia il giudice penale, all’esito di un processo fondato su prove giudiziarie e sulla regola di giudizio del ragionevole dubbio, l’unico soggetto che, in modo individualizzato come prevede la Costituzione, possa incidere sui diritti costituzionali, tra i quali rientra il principio della rappresentatività democratica. Non va inoltre dimenticato, come ha spiegato la Corte costituzionale ammettendo il quesito, che la vittoria del sì lascerebbe salve le sanzioni penali dell’interdizione perpetua e temporanea dai pubblici uffici. *Presidente Italia Stato di Diritto Per favore non speculate sul mito di Falcone di Otello Lupacchini Il Riformista, 20 maggio 2022 Accusato di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Mannoia, il magistrato rispose lapidario: “È necessario distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie”. Ma davvero qualcuno crede di paragonare il Maxi processo alle inchieste evanescenti di chi si sente il suo erede in Calabria? L’acume, la professionalità, il rigore di Giovanni non han fatto proseliti. Da quando sono stati barbaramente assassinati, Falcone e Borsellino hanno assunto natura mitologica, di cui, retorica aiutando e spirito critico mancando, si sarebbe alimentata l’antimafia strumento di potere. In virtù del sacrificio delle loro vite, si continua da allora ad arruolare i due Magistrati sotto le bandiere della “pubblicità ingannevole”, per tale intendendosi ogni pubblicità idonea, in qualunque modo, a indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e delle quali possa pregiudicare il discernimento. Emblematico il folle paragone tra il Maxi processo, che ha fatto la storia d’Italia, e le evanescenti inchieste del procuratore Gratteri. Il 23 maggio di trent’anni or sono, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, vennero uccisi dall’esplosione di una potente carica di tritolo, posizionata a opera di Cosa nostra in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, sull’autostrada che da Punta Raisi conduce a Palermo. Il tragico evento, cerniera tra la Prima e la Seconda Repubblica, era stato preceduto da lugubri presagi: nei primi giorni di marzo, Elio Ciolini, uomo legato all’estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, detenuto nel carcere di Firenze, aveva indirizzato ai giudici felsinei una lettera per annunciare una “nuova strategia della tensione in Italia” da attuarsi nei cinque mesi successivi, fino a luglio; in quel periodo, sosteneva, “accadranno eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico” e cioè esplosioni che colpiranno persone “comuni” in luoghi pubblici, il sequestro e l’eventuale “omicidio” di un esponente politico della Democrazia cristiana, il sequestro e l’eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica; trascorsi alcuni giorni, era stato ammazzato Salvo Lima; sarebbero poi seguite la strage di Capaci, quella di via d’Amelio e, infine, quelle dell’estate 1993, le cui vittime sarebbero state “persone comuni”. Non interessa la fonte di tali premonizioni, quanto, piuttosto, segnalare il fatto che, da quel tragico 23 maggio 1992, le figure di Giovanni Falcone, prima, e di Paolo Borsellino, successivamente, hanno assunto natura mitologica, di cui, retorica aiutando e spirito critico mancando, si sarebbe alimentata l’antimafia strumento di potere. In virtù del sacrificio delle loro vite, si continua da allora ad arruolare i due Magistrati barbaramente assassinati sotto le bandiere della “pubblicità ingannevole”, per tale intendendosi ogni pubblicità idonea, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, a indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e delle quali possa pregiudicare il discernimento. Fu Adolf Hitler, in Mein Kampf, a esporre la teoria totalitaria della menzogna: il pensiero, la ragione, il discernimento del vero e del falso, la decisione, il giudizio, sono una cosa molto rara e assai poco diffusa nel mondo; è un affare d’élite, non della massa; quest’ultima è mossa dall’istinto, dalla passione, dai sentimenti e dai risentimenti; non sa pensare; né lo vuole: non sa che obbedire e credere; crede a tutto ciò che le si dice, a condizione che lusinghi le sue passioni, i suoi odi, i suoi terrori: inutile mantenersi nei limiti della verosimiglianza: al contrario, più si mente in modo grossolano, massiccio, brutale, più si sarà creduti e seguiti; inutile, altresì, cercare di evitare le contraddizioni; inutile mirare alla coerenza: la massa non ha memoria; inutile nascondere la verità: essa è radicalmente incapace di riconoscerla; inutile persino nasconderle che la si inganna: l’animale parlante è, prima di tutto, un animale credulo, e l’animale credulo è precisamente quello che non pensa. Da uomo pensante, appartenente magari alle “masse degenerate e imbastardite”, rifiuto d’accodarmi alle pseudo aristocrazie-totalitarie, del “credere, obbedire, combattere”, quale dovere del popolo, essendo il pensiero prerogativa del capo. Reputo, invece, mio dovere denunciare lo scandalo dei maldestri tentativi di rappresentare Nicola Gratteri quale redivivo Giovanni Falcone, ovvero d’abbassare Giovanni Falcone al livello di Nicola Gratteri. A quest’ultimo, il quale parrebbe esposto a gravissimi pericoli per la propria incolumità fisica, va incondizionatamente tutta la mia più sincera, umana solidarietà, ben sapendo cosa significhi, per dolorosa, personale, quarantennale esperienza, vivere sottoposti a obiettive, gravi limitazioni, sia pure a fini securitari, della propria libertà personale. Il che, tuttavia, non m’impedisce, anzi me lo impone come dovere, di evidenziare l’assurdità di affermazioni del tipo “Il dottore Gratteri […], nel distretto di Catanzaro sta affrontando una situazione che è assolutamente analoga a quella che nei primi anni Ottanta affrontò il primo pool antimafia di Palermo, ecco perché col processo “Rinascita Scott” si arriva a […] numeri così alti di ordinanze di custodia cautelare e di imputati: la situazione (odierna) della Calabria è, da un punto di vista criminale, paragonabile a quella della Sicilia dei primi anni Ottanta”, specie se ascrivibili non già a un oscuro “menante”, addetto alla bassa cucina in qualche redazione giornalistica, quanto piuttosto a colui che ha sostenuto l’accusa nel processo palermitano relativo alla cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia” e che, dunque, solo per questo dovrebbe sapere cosa accadeva nella Sicilia degli anni a cavallo del 1980, e cosa abbia rappresentato il maxi-processo istruito da Giovanni Falcone, nei confronti del Gotha e dei gregari di Cosa nostra a partire dalla prima metà degli anni Ottanta. Accusato di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, di essersi fermato sulla soglia del cosiddetto “terzo livello”, Giovanni Falcone rilasciò un’intervista a Giovanni Bianconi, pubblicata sul quotidiano La Stampa del 6 settembre 1991, nella quale, affermato innanzitutto come sia sempre necessario “distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie”, chiarì che “sotto il profilo penale non si poteva fare di più”, là dove si fosse voluto “interrompere la solita trafila con cui si era andati avanti per decenni: omicidio eccellente, indagini che non portano a specifiche responsabilità per delitto, imputazioni collettive generiche, lunghe istruttorie con la carcerazione preventiva e poi proscioglimenti e assoluzioni per tutti”; ribadendo, dunque, che un’indagine antimafia, la quale aspiri ad approdare a qualche risultato utile, “dev’essere improntata a rigore, ma anche a cautela”. Alla temeraria obiezione giusta la quale “proprio questo avrebbe potuto riportare l’antimafia al solito tran tran burocratico”, avanzata magari da “un sindaco che per sentimento o per calcolo” avendo cominciato “ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso”, anche se avesse dedicato tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne avesse mai trovato per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministrava, si sarebbe potuto “considerare come in una botte di ferro”. la replica di Giovanni Falcone fu tranchant: “Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba. In una Sicilia dove non ci sono altri esempi che l’illegalità, occorre far vedere che il diritto esiste. Buscetta, puntandomi la mano contro, una volta mi disse: “Io accuso voi magistrati con due dita, come fanno gli arabi per indicare una colpa gravissima. Avete creato dei mostri dando rilievo a personaggi di scarso peso, mentre in realtà i veri capi non li avete toccati”“. A proposito del rigore e dello scrupolo garantista di Giovanni Falcone, valga la testimonianza del prof. Sergio Mattarella nell’intervento che pronunciò, quale presidente della Repubblica, il 23 maggio 2017: “Ho conosciuto il giudice Falcone prima ancora che l’eco delle sue inchieste lo rendesse famoso in Italia e all’estero. Ne ho seguito l’impegno messo in opera nella sua attività giudiziaria. Con quella sua attività ha impresso una svolta all’azione della giustizia contro la mafia. Anzitutto con il suo metodo di lavoro, con il suo modo di svolgere le inchieste. Nei primi tempi veniva talvolta criticato, dicendo che operava come un agente di polizia più che come un magistrato, una sorta di sceriffo. Non era vero: il suo era un metodo moderno, più dinamico, più attivo di quanto fosse abituale, ma manteneva forte e inalterato lo stile e il carattere del magistrato, attento, fino allo scrupolo, alla consistenza degli elementi di prova raccolti. Le sue inchieste, difatti, erano contrassegnate da grande solidità; e le sue conclusioni venivano sempre condivise dai Tribunali e dalle Corti giudicanti”. Evito, pietatis causa, ogni notazione sul modus procedendi e sui risultati troppo spesso effimeri delle roboanti indagini di Nicola Gratteri, “evanescenti” sicut umbra lunatica. I sopravvissuti alle stragi del 1992: “Siamo morti anche noi, dimenticati dallo Stato” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 20 maggio 2022 L’autista e i poliziotti scampati al tritolo di Capaci e via d’amelio: “Spesso trattati come vittime di serie B. Ma non smettiamo di raccontare ai giovani gli anni bui”. Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone, ripensa spesso alle ultime parole del giudice: “La settimana prima dell’attentato, mentre eravamo in macchina, mi disse: “È fatta, sarò il nuovo procuratore nazionale antimafia”. Ma non gli hanno dato il tempo”. Angelo Corbo, uno dei poliziotti di scorta, ha impresso nella mente lo sguardo di Giovanni Falcone intrappolato nell’auto appena saltata in aria fra un cumulo di macerie: “Era ancora vivo”, sussurra. Antonio Vullo continua ad avere gli incubi la notte: rivede i suoi compagni che accompagnano Paolo Borsellino, e all’improvviso si scatena l’inferno di fumo e fiamme in via D’Amelio. Sono i sopravvissuti delle stragi del 23 maggio e del 19 luglio 1992. “Anche noi vittime di quella violenza mafiosa - dice Giuseppe Costanza - ma troppo spesso siamo stati dimenticati dalle istituzioni. Per vent’anni, alle commemorazioni, neanche mi invitavano, attorno a me c’era solo un silenzio tombale”. Stessa sensazione che ha provato Corbo, il pomeriggio della strage di Capaci era nella blindata che seguiva quella di Falcone, con i colleghi Gaspare Cervello e Paolo Capuzza: “Siamo stati trattati a lungo da vittime di serie B, anzi di serie promozione - dice - ma a me non importa ricevere inviti ufficiali, preferisco andare nelle scuole a parlare con i ragazzi. Loro mi danno il riconoscimento più grande”. Ai ragazzi è dedicata la nuova fondazione che Costanza presenterà il 23 maggio: “Proprio per sostenere progetti di legalità con i più giovani - spiega - gli studenti, ma anche gli insegnanti e le associazioni non li hanno mai trascurati un giorno i sopravvissuti delle stragi”. Dice Vullo: “Quando vado in via D’Amelio per raccontare ai giovani cosa ho vissuto trovo sempre grande affetto”. Ecco, la nuova vita dei sopravvissuti del 1992. Non smettono di raccontare. Proprio come fa un altro grande collaboratore di Falcone e Borsellino, Giovanni Paparcuri, scampato all’attentato che il 29 luglio 1983 travolse il giudice istruttore Rocco Chinnici, i carabinieri della scorta e il portiere dello stabile: oggi è l’animatore del museo della Memoria che sorge nell’ufficio bunker dei magistrati assassinati. Dietro ai racconti di ogni giorno dei sopravvissuti, c’è soprattutto un dolore mai sopito. Angelo Corbo non usa mezzi termini: “Il giorno in cui è esplosa la bomba, siamo morti pure noi. E quelle persone che c’erano prima non ci sono più. Siamo rinati in modo diverso, più complicato”. Ma, nonostante le difficoltà, non hanno mai smesso di testimoniare il loro impegno in questi trent’anni. “Anche quando certe persone hanno strumentalizzato l’antimafia”, dice Vullo. È arrivato persino un pentito che ha sostenuto di avere rivelazioni eclatanti sulla strage Borsellino, Maurizio Avola. Le parole di Vullo, raccolte dai magistrati di Caltanissetta, sono state determinanti per smentire l’ennesimo impostore che sosteneva di essere stato in via D’Amelio vestito da poliziotto: “Quel giorno non ho visto nessuno in strada. Meno che mai un poliziotto”, ha messo a verbale. I superstiti non hanno mai smesso di difendere i loro giudici e la verità che ancora manca. Giuseppe Costanza continua a ripetere nelle scuole che un attentato come quello di Capaci “non poteva essere realizzato da una banda di allevatori, ma ci volevano dei professionisti”. E poi torna a ripercorrere la sua vita dopo Capaci: “Al risveglio, pensavo di aver vissuto il giorno più brutto della mia vita. Invece, restare in vita è stato peggio. Dopo un anno di visite, al lavoro non sapevano cosa farsene di me”. Lo misero a fare fotocopie. “Una condizione mortificante, dopo otto anni passati in prima linea accanto al giudice Falcone”. Avrebbe voluto coordinare il parco auto del tribunale, ma gli dissero che era necessaria una qualifica più alta per quel lavoro. E gli spiegarono che la promozione per meriti di servizio è prevista solo per il personale militare. “Così lo Stato mi ha umiliato - dice Costanza - nel 2004 mi hanno dispensato dal servizio, mi hanno rottamato. È il destino di noi sopravvissuti”. “Avevo 4 mesi quando la mafia uccise mio padre: da piccolo provai rabbia, mai odio” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 20 maggio 2022 Intervista a Emanuele Schifani, figlio dell’agente della scorta di Falcone che è diventato capitano della Finanza: “Scoprii che papà era stato ucciso a una festa di compleanno, me lo disse un bambino. Andai a mia madre piangendo. La prima volta che vidi le immagini della strage di Capaci mi chiesi: perché” Chi era Vito Schifani? Un lungo silenzio. Un sospiro. “Vito Schifani poteva essere tante cose. Poteva essere mio padre. Poteva essere un marito. Mentre l’unica cosa certa è che era un poliziotto ed è morto a Capaci il 23 maggio del 1992 alle 17.58”. Emanuele Antonino Schifani aveva quattro mesi quando suo padre fu ammazzato da quella montagna di tritolo assieme al giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e altri due membri della scorta: Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Oggi sono passati 30 anni da quando la mafia dichiarò guerra allo Stato. Schifani ha 30 anni (e 4 mesi) ed è un capitano della Guardia di Finanza, che, assai orgoglioso, comanda una compagnia di 170 uomini alla Scuola ispettori e sovrintendenti dell’Aquila, dove si stanno formando 3.000 divise delle Fiamme gialle. Capitano, ricorda la prima volta in cui ha scoperto che suo padre era stato ucciso dalla mafia? “Non c’è mai stato un giorno preciso in cui mi sono seduto e mia madre mi ha raccontato la nostra storia. C’è stato però un episodio, quando ero a Palermo, che mi ha fatto scontrare con la verità. Avevo 3 anni e, alla mia festa di compleanno, un bambino mi disse: “Tanto tu non hai il papà”. Andai a piangere da mia mamma e lì ci fu la prima spiegazione. La tragica morte di mio padre è stata una consapevolezza maturata con la crescita: c’è voluto molto tempo per capire quale era la mia storia”. Ha mai sognato suo padre? “Non che io ricordi. Probabilmente l’ho fatto. Ma al mattino i sogni svaniscono”. Deve essere stato durissimo iniziare una nuova vita... “La svolta c’è stata nel ‘95, quando avevo 3 anni. Mia madre Rosaria, all’epoca dell’attentato, aveva 22 anni. Si ritrova sola. Cerca una spiegazione. Una spiegazione che non riesce a trovare. E probabilmente, nella ricerca di questa spiegazione, incontra quello che poi è stato mio padre. Lo conosce a Palermo. È stato, secondo me, un segno del destino, perché indossava un’uniforme, seppure diversa. Lavorava al Gico, il reparto della guardia di Finanza che fu costituito per reprimere il fenomeno mafioso. Non gli ho mai chiesto come si sono conosciuti. Ma è stato sicuramente un evento che ha cambiato il corso della vita mio e di mia madre. Nel ‘95 ci siamo trasferiti a Firenze. E lì è appunto ripartita la vita. Poi ci siamo trasferiti in Liguria: lì sono cresciuto. Ho fatto il liceo e realizzato il mio sogno: entrare nella Guardia di Finanza. Un obiettivo raggiunto anche grazie all’influenza positiva di avere un’altra divisa in casa. Il merito è di mia madre e dei valori che mi sono stati insegnati da Gianluigi, mio padre”. “Vi perdono, ma inginocchiatevi”. Il j’accuse di sua madre durante i funerali dopo la strage è un pezzo di storia, un messaggio ancora più forte di quella maledetta esplosione. Riesce a vedere quel video? “Quei 2 minuti e 20 secondi sono complicati da guardare per tante persone che io conosco. Ho difficoltà a vederle anche io. Ovviamente ora li vedo con gli occhi di un uomo di 30 anni: a 16 avevo altri occhi. Ma c’è una cosa che accomuna i 16 ai 30: il senso di dolore provocato da quelle immagini. Ed è un senso di dolore che accomuna me a tutti coloro che non riescono a vedere con tranquillità quelle immagini, a meno che tu non sia senza cuore e non ti renda conto ciò che è successo 30 anni fa”. I responsabili della strage di Capaci sono stati quasi tutti individuati e condannati. Prova odio? O cos’altro? “Io, oggi, di sicuro non provo odio. Quello che ho provato in passato, e che adesso si è acquietato, è un sentimento di rabbia. Ho sempre pensato che l’odio sia una pulsione inutile. Perché ti rende ottuso, non ti permette di ragionare. La rabbia è comunque un sentimento che ti dà anche la forza di andare avanti. Anche se io la mia situazione non l’ho mai definita, penso che la rabbia sia stata una parte della mia vita. E penso di essere riuscito a controllarla nel modo migliore, perché sennò non sarei qui oggi, con questa divisa. La rabbia, se estrema, non ti permette di ragionare, ma se correttamente incanalata ti dà l’energia anche per cambiare e fare qualcosa di utile, anche nel piccolo”. Ha fiducia nella giustizia? “Io ho assolutamente fiducia. Non ne ho mai dubitato una volta”. Alla camera ardente a Palermo, il presidente del Senato Spadolini si avvicinò a sua madre e lei gli disse: “Presidente, io voglio sentire una sola parola: “Lo vendicheremo”. Se non può dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola”. Lo Stato ha vendicato suo padre? “Innanzitutto, non penso che lo Stato vendichi. Non esiste uno Stato vendicatore. Lo Stato non fa vendetta, fa giustizia”. Cosa prova davanti alle immagini della strage? “Io le immagini dell’esplosione a Capaci le guardo quando capita. Di certo non le vado a cercare. Così come guardo e ascolto le parole di mia madre dal pulpito, ai funerali. Le guardo in un certo modo, con un determinato sentimento. Forse è lì che nasce tutta la mia rabbia. Forse perché, da giovane, la prima volta le ho viste dopo che a scuola si era parlato per la prima volta delle stragi di mafia e le andai a cercare. Provai rabbia, amarezza. Perché? Perché? Come fa l’uomo a essere così crudele, a spingersi così tanto in là? A spingersi dove, poi?”. Che rapporto ha con la Sicilia? “Scendo in Sicilia per le vacanze. Per andare a trovare i pochi parenti che sono rimasti”. Ha mai incontrato altri figli come lei, figli di donne e uomini uccisi dalla mafia? Cosa vi siete detti? “Ne ho incontrati più di uno. Di recente ci siamo visti con Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Falcone: l’anno scorso, nell’Aula bunker a Palermo, per le commemorazioni. In realtà non c’è bisogno di parlare. Siamo accomunati da questo. Siamo simili, non serve dire altro. Io avevo 4 mesi, lui nemmeno 2 anni: ci capiamo con uno sguardo”. Nec recisa recedit (“Neanche spezzata retrocede”) è il motto della Guardia di Finanza. È per questo che ha deciso di entrare nella Fiamme gialle? “Ho scelto la Guardia di Finanza perché quella rabbia di cui parlavo prima mi ha spinto a volermi rendere utile. Mi sembrava la cosa più giusta da fare. Non ho solo seguito le orme dei miei padri. Il percorso l’ho tracciato io”. Come racconterà, un giorno, ai suoi figli chi era il loro nonno? “È ancora presto per avere figli”. Lei si occupa di reati legati soprattutto al denaro, il motore della mafia. La mafia è diversa da quella di 30 anni fa: oggi è più forte o inchieste e condanne l’hanno indebolita? “Questo non so dirlo. Sicuramente il metodo di indagine è cambiato. In 30 anni è cambiato tutto. Ci sono state tante vittorie e continueranno ad esserci sia grazie al nostro lavoro, sia a quello instancabile dei magistrati”. Il 23 maggio cosa farà per ricordare suo padre, i colleghi della scorta, il giudice Falcone e sua moglie Francesca? “Saranno 30 anni. E come sempre sarò a Palermo, in quell’Aula bunker dove tutto è nato”. Permesso premio all’ex mafioso che ha ottenuto la revoca del 41-bis, anche se non collabora di Vincenzo Giannetto Giornale di Sicilia, 20 maggio 2022 Ha diritto al permesso premio se ha ottenuto la revoca del 41-bis ed ha reciso i suoi collegamenti con la mafia. E può ottenere il beneficio anche un boss condannato a più ergastoli come Giuseppe Barranca, della famiglia mafiosa di Brancaccio, in carcere da oltre 25 anni e attualmente detenuto ad Opera a Milano. Contro il no alla richiesta del permesso premio, la Corte di Cassazione ha accolto il suo ricorso. Il beneficio era stato rifiutato dal Tribunale di Sorveglianza, nonostante la revoca del 41-bis e il corretto comportamento tenuto in carcere, a causa dei numerosi ergastoli che gli erano stati inflitti per il concorso (così come avevano scritto i giudici) in alcune stragi di mafia: gli attentati di Capaci, di via dei Georgofili a Firenze, di via Fauro a Roma e via Palestro a Milano. La sentenza della Consulta (253/2019) supera però il criterio della scelta collaborativa, stabilendo che il diritto ai benefici spetta anche a chi non è disponibile a “parlare”. E secondo la Cassazione, il permesso premio non può essere rifiutato neppure se la mancata collaborazione deriva da una scelta e non è frutto della cosiddetta collaborazione impossibile. Quello che conta, secondo quanto sottolinea la Suprema corte con la sentenza 19536, è solo “la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali e mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita”. Il Tribunale, invece, aveva considerato del tutto volontario il “silenzio non collaborante”. Dunque, per i giudici del riesame, a causa della mancata dissociazione, ma anche dell’assenza di azioni riparatorie in favore delle vittime, era difficile immaginare l’interruzione del suo legame di appartenenza alla mafia. Secondo la Cassazione, invece, un giudice non deve fare queste valutazioni morali, e non deve desumere “un’emenda intima, personale ed umana del proprio passato, bensì la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita”. Obbligo di dimora, il Gip può limitare gli orari di uscita senza richiesta del Pm di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2022 La Cassazione, sentenza 19463 depositata ieri, cambiando indirizzo, amplia lo spettro dei poteri del Giudice per le indagini preliminari nella applicazione dell’obbligo di dimora. Per la III Sezione penale infatti, “non viola il principio della domanda cautelare il giudice che, adito della richiesta di applicazione della misura cautelare dell’obbligo di dimora, d’ufficio prescriva all’indagato di non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del giorno, ai sensi dell’art. 283, comma 4, cod. proc. pen.”. Precedentemente invece la Corte aveva affermato che è illegittima l’iniziativa officiosa del giudice per le indagini preliminari il quale, in mancanza di una richiesta del pubblico ministero, disponga modalità più gravose di applicazione della misura (Sez. 6, n. 456 del 14/02/1992). Accolto dunque il ricorso del Procuratore della Repubblica del Tribunale di Enna contro l’ordinanza del Tribunale della Libertà di Caltanissetta che, accogliendo parzialmente il ricorso di un uomo indagato per droga, aveva annullato l’ulteriore previsione disposta dal Gip di non allontanarsi dalla abitazione dalle 20,00 di alle ore 6,00 del giorno successivo. Secondo il Pm, e la Cassazione gli ha dato ragione, laddove il Tribunale ha eliminato l’ulteriore prescrizione per mancanza della domanda cautelare del Pm, è incorso in un errore di diritto, in quanto l’articolo 283, comma 4, cod. proc. pen. attribuisce al G.i.p. l’autonomo potere di impartire una prescrizione accessoria che attiene alla fisionomia propria della misura. “È ben vero - scrive la Cassazione - che, ai sensi dell’art. 291 Cpp, le misure cautelari personali sono disposte dal giudice su richiesta del pubblico ministero, sicché, in assenza della domanda cautelare, salvo i casi espressamente previsti dalla legge, al giudice è preclusa la possibilità di applicare ex officio misure cautelari personali”. Del resto, prosegue la decisione, la giurisprudenza di legittimità “è saldamente attestata” nel ritenere che “vige il principio della ‘domanda cautelare’ sia quando debba procedersi all’adozione di una misura, sia quando vengono in considerazione le modalità esecutive della misura stessa perché, ad esempio, le esigenze cautelari risultino aggravate, con la conseguenza che è illegittima l’iniziativa officiosa del giudice per le indagini preliminari il quale, in mancanza di una richiesta del pubblico ministero, disponga modalità più gravose di applicazione della misura, ovvero provveda alla sostituzione ex officio, e senza parere del pubblico ministero, della misura degli arresti domiciliari con quella dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria”. Tuttavia, nonostante sulla specifica questione dell’obbligo di dimora si registri una sola decisione che nega il potere del Gip di disporre “modalità più gravose” nell’esecuzione, per la Suprema corte tale conclusione non è “persuasiva”. Seguendo il “chiaro dato testuale dell’art. 283, comma 4, cod. proc. pen.”, prosegue il ragionamento, esso prevede espressamente che “il giudice può, con separato provvedimento, prescrivere all’imputato di non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del giorno, senza pregiudizio per le normali esigenze di lavoro”. In tal modo, si attribuisce al giudice, regolarmente investito della domanda cautelare, “un potere discrezionale autonomo in ordine a un profilo del tutto accessorio della misura in esame, che, appunto, può essere disposto ex officio in relazione alla valutazione delle esigenze cautelari da preservare nel singolo caso concreto, e con il limite che da dette prescrizione non derivi pregiudizio per le normali esigenze di lavoro del soggetto a cui viene applicata la misura”. Pur se incidente sulla libertà di movimento, la prescrizione di cui all’articolo 283, comma 4, cod. proc. pen. non è infatti assimilabile a una misura di tipo custodiale, quale gli arresti domiciliari, perché, come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 215 del 1999, “mentre la persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, ancorché autorizzata ad assentarsi dal luogo degli arresti ‘nel corso della giornata’ (e, quindi, non per più giorni consecutivi) per cause specifiche e per recarsi in luoghi determinati, non cessa per ciò solo di essere in stato di custodia e, pertanto, in una condizione di ‘non libertà’, la persona sottoposta alla misura dell’obbligo di dimora è invece ‘libera’ nell’ambito del territorio individuato dalla ordinanza applicativa, anche nell’ipotesi in cui le venga prescritto l’obbligo di non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del giorno”. In questo senso, conclude, il carattere meramente accessorio della prescrizione di cui all’articolo 283, comma 4, cod. proc. pen., che “non è assimilabile al contenuto di una misura incidente sulla libertà personale”, fa sì che essa “come espressamente previsto dalla norma, “può” essere disposta dal giudice, già legittimamente investito della domanda cautelare”. Veneto. Inclusione sociale: positivo il bilancio del progetto Esodo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2022 Confronto su un progetto - con tanto di relazioni scientifiche sui risultati - che favorisce la formazione del lavoro e la ricerca di abitazione per le persone in esecuzione penale, dentro e fuori dal carcere. Parliamo del convegno tenutasi a Verona il 13 maggio scorso per il decennale del “progetto Esodo”, realizzato in collaborazione con Caritas Italiana e Fondazione Cariverona. Al convegno, condotto dal direttore di TeleArena Mario Puliero e aperto dal messaggio video di saluti da parte della ministra per le Disabilità, Erika Stefani, e dell’assessora alla Sanità ai Servizi Sociali e alla Programmazione Socio Sanitaria della Regione del Veneto, Manuela Lanzarin, sono intervenuti il Direttore generale Esecuzione penale esterna di messa alla prova del ministero della Giustizia Lucia Castellano, il presidente di Caritas Italiana, monsignor Carlo Maria Redaelli, il Direttore dell’Unità operativa dipendenze, Terzo Settore, nuove marginalità e inclusione sociale della direzione servizi sociali della Regione del Veneto, Carla Midena, il direttore Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria del Triveneto Angela Venezia, il Presidente della Fondazione Cariverona, Alessandro Mazzucco, per la Fondazione Esodo il presidente monsignor Gino Zampieri, il vicepresidente don Enrico Pajarin e Alessandro Ongaro della segreteria, i professori dell’Università degli Studi di Verona Daniele Loro e Giorgio Mion. Inizialmente pensato per i territori di Verona, Vicenza e Belluno, nel 2011 il progetto fu redatto e avviato con il finanziamento di Fondazione Cariverona, il coordinamento delle tre Caritas Diocesane e la collaborazione del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Triveneto, degli Uffici di Esecuzione penale esterna di Verona (competente anche per Vicenza) e di Venezia (competente anche per Belluno) e del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Verona. Sommando le persone raggiunte ogni anno, il numero complessivo dei destinatari di interventi di inclusione sociale e lavorativa è di 3.550 persone, così suddivise: 1.671 per il territorio della Diocesi di Vicenza, 1.536 per quello della Diocesi di Verona e 343 per Belluno- Feltre. Ad essi vanno aggiunti i primi interventi avviati a partire dal 2021 nelle altre due Diocesi coinvolte, ossia 6 nel territorio veneziano e 1 nel territorio di Vittorio Veneto. I beneficiari sono nel 91% dei casi uomini e per il 9% donne; nel 47% dei casi si è trattato di italiani, per il 32% di persone provenienti da altri Paesi Ue e per il 21% da Paesi extra UE. L’età media delle persone raggiunte è di circa 40 anni sia per i maschi sia per le femmine. Le azioni di accoglienza residenziale in totale sono state 965 per un ammontare di 132.421 giornate di presenza nelle residenzialità. Ne hanno beneficiato 430 persone singole, pertanto la presenza media di ogni persona è stata di 308 giorni. Mentre i percorsi di formazione professionalizzante sono stati complessivamente 2.223 ed hanno coinvolto 1.008 persone singole. 218 di queste hanno effettuato successivamente anche un percorso di inserimento lavorativo. Al termine del percorso 60 persone avevano un contratto di lavoro. I percorsi di inserimento lavorativo sono stati complessivamente 1.774 ed hanno coinvolto complessivamente 1.003 persone. 245 persone al termine del percorso di inserimento lavorativo avevano ottenuto almeno 1 contratto di lavoro. Foggia. Semilibero ucciso davanti al carcere. “Amava la sua nuova vita da volontario” di Mariangela Mariani foggiatoday.it, 20 maggio 2022 Alessandro Scrocco è stato assassinato la sera del 18 maggio davanti al carcere di Foggia. Da due anni prestava servizio presso il Banco Alimentare della Daunia. Nel 2010 aveva ucciso un 29enne. “Alessandro ci manca, perché ha fatto parte della nostra famiglia”. Con queste parole il Banco Alimentare della Daunia Francesco Vassalli Onlus ricorda il 32enne assassinato davanti al carcere di Foggia, dove era detenuto in regime di semilibertà. “Per circa due anni abbiamo incontrato il suo sguardo, i suoi pensieri. Non ci ha dato solo una mano a spostare pacchi, con lui abbiamo condiviso il banco come casa” evidenziano i volontari e colleghi di Alessandro, ucciso nella sua Nissan mentre effettuava una manovra in retromarcia: uno, due, tre colpi di arma da fuoco non gli hanno lasciato scampo. Sulle pagine dell’associazione che recupera cibo e lo distribuisce ai più bisognosi, nel novembre dello scorso anno Danila Paradiso aveva raccontato la storia di quel ragazzo noto alle cronache locali per l’omicidio del 29enne Giuseppe Speranza, freddato il 2 gennaio 2010 dopo un violento litigio scoppiato la notte di Capodanno tra i due e successivamente tra le famiglie. Per quel delitto fu condannato a 16 anni e due mesi di carcere. Dopo aver vissuto in diversi istituti penitenziari d’Italia, aveva cominciato un percorso di reinserimento sociale. Da luglio 2020 Alessandro accompagnava la prima delle due figlie di sette anni a scuola, poi si dirigeva nei magazzini del Banco Alimentare della Daunia di via Manfredonia. “Stando in Istituto non ti accorgi molto di quello che avviene fuori. La vita per me, ora, ha un sapore diverso” diceva. “Al Banco sto bene. Mi sono sentito subito a mio agio, come in una famiglia. Nel lavoro, come in famiglia, bisogna essere uniti”. A Perugia, dove aveva trascorso gli ultimi anni di detenzione prima di trasferirsi nel capoluogo dauno, aveva frequentato corsi di teatro e falegnameria, oltre ad aver conseguito l’attestato Haccp. In carcere faceva lo ‘spesino’, consegnava cioè gli alimenti ai detenuti. Fuori dalla cella gestiva il magazzino del Banco, istruendo i nuovi volontari del servizio civile. “Sto insegnando loro molte cose perché sono qui da più tempo e sono pratico con i muletti. Alla fine trasferisco loro quello che altri hanno insegnato a me” raccontava. Prestava anche servizio alla Parrocchia di Gesù e Maria, dove consegnava i pacchi per la mensa dei poveri. “Per fortuna ho iniziato una nuova vita” diceva. Scontata definitivamente la sua pena, avrebbe voluto tornare a gestire l’autolavaggio di famiglia e continuare a dedicare del tempo al Banco Alimentare. Nel corso di quella chiacchierata, di appena sei mesi fa, aveva ripreso un proverbio: ‘Fai del bene e scordati, fai del male e pensaci’. Alla fine dei conti è proprio così”. Chi e perché ha ucciso il 32enne saranno gli inquirenti a stabilirlo. Intanto la nuova vita da volontario di Alessandro Scrocco, è stata interrotta il 18 maggio, davanti al carcere di Foggia, alle 20.45. Viterbo. Ucciso in carcere dal compagno di cella. Due agenti accusati di omicidio colposo di Valeria Terranova Corriere di Viterbo, 20 maggio 2022 Detenuto ucciso in carcere dal compagno di cella, ieri 19 maggio altra udienza davanti al gip Savina Poli per due poliziotti della penitenziaria, indagati per concorso in omicidio colposo. Giovanni Delfino, 70enne viterbese, fu massacrato a colpi di sgabello all’interno del penitenziario Mammagialla la sera del 29 marzo 2019 dal 36enne di origini indiane, che fu condannato a 14 anni di reclusione a ottobre 2020 dalla corte d’Assise di Viterbo. La perizia psichiatrica effettuata nel corso del primo procedimento da due specialisti attestò che il giovane fosse parzialmente incapace di intendere e di volere. La sentenza di primo grado dispose, inoltre, il trasferimento dell’omicida presso una Rems, nella quale starebbe attualmente scontando parte della pena. Il primo verdetto fu riformato dalla sentenza di secondo grado emessa ad aprile 2021 dalla Corte d’Appello che diminuì la pena a 12 anni. Nel febbraio 2019 Singh Khajan fu arrestato a Cerveteri e tradotto nella casa circondariale di Civitavecchia per tentato omicidio nei confronti di un 70enne. Successivamente il trentenne fu trasferito a Viterbo e venne segnalato come “soggetto pericoloso”. Secondo l’accusa, i poliziotti non potevano non essere a conoscenza della pericolosità del 36enne, il quale avrebbe dovuto stare in cella da solo, e non potevano non sapere che c’erano due celle singole disponibili. Uno degli indagati che ha scelto di essere giudicato con rito abbreviato sarà sentito il 22 giugno e il 30 giugno si celebrerà la discussione che riguarderà entrambi. Bologna. Condizioni di vita e morti in carcere: il sindaco Lepore in visita alla Dozza di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 20 maggio 2022 Il sindaco, che ha definito il carcere “un quartiere della città”, andrà a verificare di persona le condizioni di vita dei detenuti, dopo l’ennesima morte in cella, avvenuta la settimana scorsa. Il sindaco, Matteo Lepore, visiterà il carcere “Rocco D’amato” la prossima settimana. Il primo cittadino risponde così anche alle richieste della Camera Penale bolognese, dopo l’ultimo decesso in cella di un detenuto 40enne: “Nel mese di novembre del 2021 era avvenuto un altro decesso. Non sono allo stato note le cause di quest’ultima, ennesima, morte, anche se la sua giovane età e la collocazione nel tristemente noto secondo piano giudiziario lasciano pensare a cause non dissimili da quelle che avevano portato alle precedenti morti, ovvero abuso di farmaci o di sostanze stupefacenti” scrivono gli avvocati, Roberto d’Errico e Chiara Rodio, rispettivamente presidente e segretaria della Camera Penale di Bologna. Considerazioni dure nella nota dell’associazione: “Nelle visite periodiche che il nostro Osservatorio ha svolto all’interno del carcere abbiamo potuto constatare con i nostri occhi le drammatiche condizioni delle sezioni collocate nel secondo piano giudiziario, che, senza esagerazione alcuna, lo stesso sindacato Sinappe nel suo comunicato definisce ‘discarica sociale’, dove tossicodipendenti e persone affette da patologie mentali sono di fatto abbandonate al loro destino, in queste condizioni gli psicofarmaci sono l’unica forma di assistenza che si offre a questi ‘scarti’ della società, per lo più stranieri senza alcun collegamento familiare o sociale, fantasmi che non hanno nessuno che li pianga e che pretenda giustizia del loro destino”. “Perché davvero appare incredibile che vi siano intere sezioni di un carcere che evidentemente sfuggono a qualsiasi tipo di controllo, in cui è troppo facile reperire psicofarmaci e altre sostanze psicotrope in quantità tali da portare alla morte di giovani vite”. La Camera Penale di Bologna intende quindi di far conoscere alla città quanto accade dentro il carcere “perché piangere le morti non serve a nulla se nulla si fa per evitarne altre” e chiede “alla Procura della Repubblica ed al Provveditorato quali accertamenti siano stati svolti in relazione alle morti di novembre e febbraio, quali siano state le conclusioni di quelle indagini, quali siano state le cause di quelle morti, e se vi siano responsabilità per questo”. Il sindaco Lepore che ha più volte ha definito il carcere della Dozza come un “quartiere” di Bologna raccoglie dunque l’invito per toccare con mano come si vive in un istituto penitenziario sovraffollato che, come più volte dichiarato dagli addetti ai lavori, non può che portare a recidiva, che come calcola il sindacato dei penitenziari, Sinappe, si aggira intorno al 60%, ovvero più della metà delle persone con precedenti torna in carcere contro il 38% per chi è alla prima carcerazione. “Se lo riterrà, lo accompagneremo noi - scrive la Camera Pena. Lo porteremo a conoscere come si vive, e come si muore, in quel quartiere. Chiediamo che la magistratura entri in carcere, quella di sorveglianza ma anche quella di cognizione, perché nel momento in cui si infligge la pena detentiva si abbia piena consapevolezza della condizione in cui verrà eseguita, in luoghi dove non si scorge neppure un’apparenza di quei principi costituzionali a cui abbiamo giurato obbedienza. Chiediamo a tutti coloro che possono fare qualcosa di farla, ora! Questa morte non sarà l’ultima, ma almeno che serva a dare un volto ai fantasmi” conclude l’associazione. Reggio Calabria. Ufficio per la giustizia riparativa, siglato il protocollo Mandela’s Office reggiotoday.it, 20 maggio 2022 Ieri mattina, nel salone dei Lampadari “Italo Falcomatà” di Palazzo San Giorgio è stato siglato il Mandela’s Office, protocollo d’intesa per l’istituzione dell’ufficio per la giustizia riparativa di Reggio Calabria. L’importante presidio trova sede all’interno di un bene confiscato alla criminalità organizzata, nel centro storico della città e punta a diventare l’ufficio di riferimento per tutto il territorio metropolitano in materia di giustizia riparativa, nel quadro di un percorso che investe sulla rigenerazione sociale e umana, fortemente voluto a suo tempo dal Sindaco, Giuseppe Falcomatà. Presenti al tavolo per la sottoscrizione del documento i sindaci f.f. di Comune e Città metropolitana, Paolo Brunetti e Carmelo Versace, l’assessore comunale al welfare, Demetrio Delfino e la direttrice del Centro per la giustizia minorile per la Calabria, Isabella Mastropasqua. Hanno preso parte all’incontro, inoltre, i garanti per i detenuti di Comune e Città metropolitana, Giovanna Russo e Paolo Praticò e il consigliere metropolitano delegato alle politiche sociali, Domenico Mantegna. “Oggi si porta a compimento un percorso virtuoso, avviato già qualche anno fa dall’amministrazione comunale su forte impulso del sindaco Giuseppe Falcomatà, in materia di giustizia riparativa”, ha affermato Versace. “È un passo che segna anche il rinnovato impegno delle istituzioni del territorio, Comune e Città metropolitana, al servizio del sistema giustizia con l’obiettivo di offrire ai cittadini un presidio democratico di prossimità. Ma è anche la testimonianza diretta dell’ottima collaborazione tra gli enti locali e il ministero della Giustizia, proseguendo nel solco tracciato ormai da tempo e che è stato anche sugellato proprio a Reggio Calabria con la visita della ministra Cartabia il cui impegno e attenzione nei riguardi del nostro territorio stiamo toccando con mano. Un sentito ringraziamento anche all’assessore Demetrio Delfino e al consigliere metropolitano delegato, Domenico Mantegna che, di concerto con gli uffici di Settore, stanno seguendo da vicino questo importante progetto e naturalmente anche ai nostri garanti per la dedizione con cui stanno svolgendo il loro delicato incarico”. Il prossimo step, è stato ribadito, dovrà essere la piena operatività del Mandela’s Office, “superando le criticità che si sono accumulate nel tempo - ha evidenziato Brunetti - e cooperando sinergicamente affinché questo bel progetto possa essere messo a breve a disposizione della collettività. La firma su questo protocollo rappresenta dunque un preciso impegno che sin da oggi chiama in causa tutti gli attori coinvolti, istituzioni e burocrazia”. Orientamento ma non solo, tra i servizi che potrà erogare il Mandela’s Office, come spiegato dall’assessore Delfino, “perché in sinergia con il ministero e grazie ai professionisti che opereranno al suo interno, sarà possibile anche mettere l’uno di fronte all’altro, sia l’offeso che il reo, nel quadro delle dinamiche democratiche previste dalla giustizia riparativa che com’è noto pone a confronto le due differenti posizioni in chiave costruttiva e rigenerativa. Al suo interno, inoltre, ci saranno i nostri garanti dei detenuti, comunale e metropolitano, proprio per assicurare un quadro di servizi quanto più completo ed efficace possibile. È qualcosa di innovativo per il nostro territorio e siamo fiduciosi che possa produrre gli effetti desiderati”. Il progetto oggi, assume un valore centrale, ha infine rimarcato Mastropasqua, “anche nell’ottica del lavoro che sta conducendo la ministra Cartabia su questo terreno affinché si giunga anche ad una legge che disciplini la giustizia riparativa in ambito penale. E in questa direzione la effettiva operatività dell’ufficio sarebbe perfettamente coerente con la dimensione formale di una norma che finalmente anche nel nostro Paese darà uno spazio ufficiale ad una pratica che viene ritenuta fortemente innovativa e rivoluzionaria, specie sotto il profilo culturale”. Bergamo. “Una pena alternativa al carcere è urgente, giusta e possibile” bergamonews.it, 20 maggio 2022 “Quando sei in carcere pensi sempre alla libertà. La immagini, la sogni. Poi ti rendi conto che quella condizione così voluta è forse il momento più difficile, se non hai un lavoro, una casa in cui tornare o una famiglia che ti aspetta”. Piergiorgio racconta la sua storia di detenuto ai ragazzi e alle ragazze del Liceo Falcone e dell’Istituto Mamoli di Bergamo. In silenzio, seduti nell’auditorium di Piazza Libertà, si rendono conto che esiste una realtà dentro la comunità che non può avere vita parallela. Deve essere inclusa nella città con il supporto di istituzioni, associazioni e persone. Capire come fare e perché è urgente agire è stato lo scopo dell’evento Dal carcere al territorio, dal carcere con il territorio: per una comunità inclusiva della pena, proposto nell’ambito di Bergamo Next Level, la rassegna organizzata dall’Università e da Pro Universitate Bergomensi. La tavola rotonda è stata anticipata da Fuori Pena Ora, uno spettacolo tratto dall’omonimo libro di Elvio Fassone, ex magistrato, che racconta la storia vera del rapporto tra Fassone e Salvatore M. uno degli esponenti più pericoloso della bocca di fuoco catanese. Sul palco Michele Marinini, voce narrante, regista e drammaturgo, insieme a Michele Agazzi, chitarrista. Insieme hanno dato voce alle emozioni complesse dei protagonisti. Elvio Fassone e Salvatore M. si conoscono nelle aule di tribunale, l’uno giudice e l’altro imputato, per crimini orrendi. La pena è quella dell’ergastolo, come prevede il codice penale. Ma se uno dei compiti del giudice è applicare correttamente il dettato normativo, è altrettanto vero che gli uomini e le donne di magistratura non possono prescindere da un fattore fondamentale, quello umano. Ogni legge va applicata, anche il comma 3 dell’art 27 della Costituzione secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Forse anche per questo motivo che tra i due protagonisti è nato un legame epistolare, prima di rispetto e poi forse anche di amicizia, durato oltre vent’anni. in questo tempo Salvatore è invecchiato, ha perso l’unico amore della sua vita, ha intrapreso un percorso di redenzione fatto di attese e troppe delusioni. Nel rimarcare la volontà di un uomo di voler essere altro oltre il suo passato, oltre i crimini, oltre le sbarre il riadattamento teatrale di Michele Marinini ha colpito l’obiettivo: arrivare e alla pancia dei presenti. Con queste forti emozioni nel cuore gli studenti e le studentesse hanno affrontato un dibattito in modo attivo, intervenendo e facendo domande, sintomo del fatto che il tema è urgente quanto attuale. “Qual è la cosa che più vi manca?”, hanno chiesto gli studenti a Luigi e Piergiorio, detenuti del carcere di Bergamo, da tempo sottoposti al regime di esecuzione penale esterna. “Tutto”, risponde Luigi. “Manca la flessibilità della vita normale - aggiunge Pierluigi - in carcere tutto è scandito da regole, ogni richiesta deve essere fatta formalmente”. La loro testimonianza ha dato forma e sostanza a quanto detto da Grazia Fortunato, psicologa e psicoterapeuta impegnata in carcere, Gino Gelmi, presidente dell’associazione Carcere e Territorio, e Matteo Rossi della Fondazione Istituti Educativi. Scontare una pena non significa necessariamente essere detenuti in carcere, concetto ancora non pienamente accolto dalla collettività. Esistono forme alternative alla pena detentiva che veramente consentono a pieno la finalità rieducativa a cui deve tendere ogni condanna. “Lavoro in un magazzino, non ho mai subito forme di pregiudizi da parte dei colleghi”, dice Piergiorgio. “Io quest’anno farò il diploma di maturità all’istituto alberghiero e intanto lavoro in un ristorante”, racconta con fierezza Luigi. “Per me studiare non è un peso, ma una bellissima forma di libertà, la possibilità di diventare migliore”. Per far sì che esperienze come queste producano risultati positivi serve una collaborazione permanente tra carcere, territorio, istituzioni, associazioni e comunità. Serve un cambiamento culturale che abbatta ogni forma di pregiudizio. “Il lavoro che sta facendo l’amministrazione comunale insieme alle associazioni è volta a promuovere una cultura del lavoro e di formazione all’interno degli istituti di pena- ha detto Marcella Messina, assessora alle politiche sociali, intervenuta alla conferenza - La sfida per abbattere la recidiva è oggi lavorare affinchè i detenuti abbiano una casa di riferimento e un lavoro che garantisca loro una possibile forma di emancipazione”. Roma. Fuori dalle gabbie, uomini e cani insieme di Barbara Marini vita.it, 20 maggio 2022 Un progetto della Fondazione Cave Canem propone percorsi di educazione cinofila in alcuni penitenziari: i detenuti imparano a prendersi cura degli animali salvati dai canili e una professionalità che potrà servire per quando avranno acquistato la libertà. Il progetto raccoglie fondi sulla piattaforma For Funding di Intesa Sanpaolo “Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano/Se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido/non avrò vissuto invano” (Emily Dickinson). Sono così celebri ed efficaci questi versi di Emily Dickinson che basta tirarli fuori al momento giusto, per riaffermare la necessità che le creature hanno di prendersi cura reciprocamente, perché la vita sia ri-accolta, possa ri-nascere e perché ogni esistenza ri-trovi la sua dignità. Ed è così semplice là dove le vite sono ingabbiate e segnate da colpe e da pene da scontare o dove sono offese e nascoste e considerate minori o inutili. E se questo succede tra creature che conoscono le sbarre quelle vere, che siano uomini e cani pare strano, ma ad armi pari, normalmente e da secoli, il rapporto tra questi è fatto di compagnia e gratitudine. Così la Fondazione Cave Canem da anni nel mondo dell’educazione cinofila, che si occupa di randagismo ma anche di recupero di cani che hanno subito violenza e abbandoni, ha avuto la geniale e semplicissima idea, che a far ciò per cui si muove, debbano essere le persone che vanno esse stesse recuperate e ciò che accomuna i primi e i secondi è proprio l’esperienza della privazione, della abnegazione, talvolta della violenza e l’esigenza, appunto, di rinascere. Chi meglio di loro se non loro stessi? Chi salva chi? Tra persone e animali nell’intento di ritrovare la propria dignità e libertà, nasce quindi un bel progetto della Fondazione Cave Canem, per il recupero e la rieducazione dei cani randagi, in tre istituti penitenziari, a Roma, Napoli e Spoleto. Fuori dalle gabbie, questo l’altrettanto semplice e geniale nome del progetto, si rivolge a persone che devono scontare pena coinvolte e che vengono istruite al lavoro con cani abbandonati in un percorso di riscatto sociale e reinserimento. Se il cane trova la possibilità di essere rieducato per essere poi accolto in famiglia, la persona in carcere, si lascia rieducare in un percorso professionale fatto di conoscenza, disciplina, empatia e sensibilità. L’idea di far crescere percorsi rieducativi per carcerati e per cani dietro e sbarre è una iniziativa che dal 2019 ha già coinvolto più di 150 autori di reato e circa 200 cani tra Umbria, Lazio e Campania. Il progetto è sostenuto da Intesa San Paolo che partecipa alla raccolta fondi attraverso la sua piattaforma di crowfunding, For Funding: l’obiettivo è raggiungere quota 30mila euro in sei mesi, per il canile di Spoleto, nel carcere di massima sicurezza, in collaborazione con il Comune della cittadina umbra. Il denaro è finalizzato al percorso formativo per i detenuti che potranno così continuare a occuparsi della cura dei cani e per le opere di manutenzione del canile stesso. Il fiorire di questi progetti ha portato già molti cambiamenti: nell’istituto penitenziario di Secondigliano è nato un canile comunale, “la collina di Argo”, all’interno del carcere stesso. All’Istituto Penale per i Minorenni - Casal del Marmo - di Roma, diciotto ragazzi sono stati coinvolti nella speranza di permettere una via professionale fuori dal carcere. Gli obiettivi sociali, insieme alla tutela degli animali, sono una strategia vincente per la Fondazione Cane Cavem: le persone che vengono coinvolte non solo ricevono una educazione, non solo hanno l’opportunità di migliorare la vita di molti animali, favorendo esponenzialmente la possibilità di essere adottati da famiglie e uscire dal canile, ma nel tempo, acquisiscono delle competenze che possono poi essere spese nel reinserimento, a fine pena, nel mondo del lavoro e del sociale. Dalla casa di reclusione di Spoleto partono i progetti e lì sono già stati attivati i corsi di formazione professionale in materia di gestione e accudimento e recupero comportamentale del cane. I detenuti hanno anche permesso l’adeguamento e il recupero del canile comunale e hanno poi realizzato un piccolo rifugio per cani abbandonati nei pressi del penitenziario. Da questa esperienza, per coloro che si sono distinti nelle attività sono nate delle borse-lavoro con cui sono stati premiati. Nessuno vive invano. Torino. “Nemmeno mai è per sempre”. Al Salone l’esperienza di un ex giovane detenuto di Marco Accossato La Stampa, 20 maggio 2022 Le lettere e le storie dei ragazzi del Ferrante Aporti di trent’anni fa. Al Salone del Libro attraverso l’esperienza di un ex giovane detenuto il racconto degli anni in cui il carcere minorile di Torino investì fortemente sulla formazione e sul riscatto. Dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta Torino fece la scelta coraggiosa e illuminata di non abbandonare al proprio destino i ragazzi e le ragazze detenuti nel carcere minorile Ferrante Aporti, ma di dar loro un’opportunità di riabilitazione attraverso l’incontro con la cultura, l’arte, la bellezza e il lavoro. Comune, tribunale per i minori e Università di Torino, cercarono e trovarono un’altra via sulla pena come funzione riabilitativa e risocializzante. L’intera città fu coinvolta: associazioni, società sportive, volontari, furono chiamati a entrare in carcere. Anche la Chiesa torinese fece la propria parte. Ai ragazzi detenuti venne insegnato un mestiere, scommettendo sull’umanizzazione e le relazioni sociali con progetti oltre le sbarre. Parallelamente, la Città investì sulla scuola e sulle opportunità di aggregazione, quindi sulla prevenzione. Ma che cosa resta oggi di quel progetto? Se ne parla venerdì 22 maggio 2022, alle ore 16, al Salone Internazionale del Libro di Torino, presso lo Spazio Città di Torino (Padiglione 1), in occasione della presentazione del libro curato dal giornalista de La Stampa Marco Accossato “Nemmeno mai è per sempre- Lettere abbandonate al Ferrante Aporti di Torino” (Independently published): un confronto sul significato del restare reclusi per molti anni in età giovanile, sulla necessità di interventi a favore di misure alternative alla detenzione, e soprattutto sulla prevenzione della devianza giovanile. Partecipano, con il curatore del libro e il protagonista della vicenda, Gianna Pentenero, assessora alle Politiche per la Sicurezza e Sistema Carcerario, Monica Gallo, garante dei diritti dei detenuti, Gianfranco Todesco, del reparto investigazioni tecnologiche della Polizia Municipale con Valeria Lacovara della polizia Municipale, e Piero Bellino, educatore dell’associazione Acmos. Negli anni in cui Torino viveva l’emergenza microcriminalità, gli anni del boom abitativo, del problema della casa, della periferia-ghetto e di via Artom, dell’immigrazione mal sopportata, del vandalismo e dei conflitti sociali che ne derivavano, l’allora sindaco Diego Novelli sostenne: “Non si può trasformare la città in un lager. Bisogna chiedersi il perché di questa rabbia, una spirale inarrestabile che si allarga e si riproduce senza fine”. “Spezzare quella spirale significò tentare di ricreare una città più umana, più ricca di fraternità e aiuto, che non emarginasse ma integrasse”. E desse una seconda possibilità. Il libro “Nemmeno mai è per sempre” documenta la scelta vincente di quella linea politica attraverso un percorso tracciato da una serie di lettere ritrovate dopo 30 anni: il libro racconta il riscatto di uno dei ragazzi del Ferrante Aporti, studente quindicenne condannato al massimo della pena per un delitto. Una sorta di Cyrano per i coetanei che in carcere lo incaricavano di scrivere per loro le lettere a genitori e fidanzate. Da “scuola superiore di delinquenza” - come lo definì lo stesso Novelli - il carcere minorile Ferrante Aporti divenne una sorta di istituto di formazione professionale, con laboratori di ceramica, falegnameria, tessitura, panificazione. Tanti, come il protagonista del libro, hanno avuto e colto la loro seconda possibilità. Pozzuoli (Na). “Anime perse”, la mostra che racconta la vita delle detenute cronacaflegrea.it, 20 maggio 2022 Inaugura sabato 21 maggio 2022 (ore 17) al Complesso Monumentale di San Severo al Pendino, via Duomo 286, a Napoli la mostra “Anime perse - Donne, madri nelle carceri italiane” del fotoreporter ravennate Giampiero Corelli. La mostra raccoglie 45 immagini che fanno parte di un grande lavoro di fotoreportage realizzato da Corelli in numerose carceri italiane dal 2008 a oggi. Un progetto focalizzato sulle sezioni e carceri femminili, per cogliere la vita delle donne detenute ma anche delle addette di polizia penitenziaria, includendo anche chi le carceri le dirige. Un affondo in un mondo fatto di sofferenza, ma anche di tanta voglia di riscatto. Le donne colte dallo sguardo del fotografo ravennate sono spesso anche madri che si sono volute fare riprendere per dare una testimonianza forte della loro vita da recluse. La mostra al Complesso Monumentale di San Severo al Pendino è organizzata in collaborazione con la Sartoria Sociale e Sostenibile Palingen, presente all’interno del carcere femminile di Pozzuoli con l’obiettivo di dare una seconda possibilità a donne in difficoltà e di recuperare tessuti altrimenti destinati allo scarto. Le donne detenute, regolarmente assunte e retribuite, hanno la possibilità di formarsi nell’arte della sartoria italiana, un modo per facilitare il loro reinserimento lavorativo al termine della pena detentiva. L’obiettivo della mostra Anime perse - Donne, madri nelle carceri italiane è proprio quello di dare visibilità al lavoro svolto dalle donne detenute e di sensibilizzare circa l’importanza dell’inclusione sociale e della tutela dell’ambiente. L’importanza di generare impatto sociale in questo contesto si evince dall’analisi di alcuni dati. Si stima infatti che siano solo il 10% i casi di recidiva nei detenuti che hanno partecipato ad un programma lavorativo o di reinserimento. Il reportage di Giampiero Corelli si basa su fotoreportage realizzati in tempi diversi in quasi tutte le carceri femminili italiane: un lavoro che si concluderà ad inizio estate 2022. Per il mese di settembre è già prevista una mostra a Ravenna che sarà la sintesi di un lungo percorso e che in seguito viaggerà in altre città italiane. La mostra “Anime perse - Donne, madri nelle carceri italiane”, realizzata grazie alla concessione da parte del Comune di Napoli dello spazio espositivo, è a ingresso gratuito e sarà visitabile fino al 10 giugno. All’evento inaugurale di sabato 21 maggio interverranno, oltre al fotoreporter Giampiero Corelli e al co-fondatore di Palingen Marco Maria Mazio: Maria Luisa Palma, direttrice della Casa circondariale femminile di Pozzuoli; Luca Trapanese, assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli; Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. Condurrà la giornalista Rai Adriana Pannitteri. Durata della mostra: 21 maggio - 10 giugno. Orari: lunedì e martedì 9-14.30; mercoledì-sabato 9-18; domenica chiuso. Ingresso gratuito. Con il patrocinio di: Comune di Napoli, Regione Campania, Garante Diritti dei Detenuti, Camera di Commercio di Napoli, Consorzio Remis, Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Napoli - “Mostra Fotografica Palingen Sartoria Sociale”. Sponsor: Input Data, Pio Monte della Misericordia, Fondazione Banco Napoli. Gli autori - Giampiero Corelli lavora come fotoreporter da 35 anni. Collabora con diverse testate giornalistiche e agenzie fotografiche tra le quali Il Resto del Carlino, Il Messaggero, La Repubblica, Il Venerdì di Repubblica. Da sempre interessato alla dimensione femminile, indagata attraverso la lente delle problematiche sociali, ha realizzato numerosi reportage che si sono tradotti in mostre e pubblicazioni, tra le quali: Io non m’arrendo - Dieci storie di donne badanti; Donne che non tremano: i volti e le storie de L’Aquila dopo il terremoto; Il vento negli occhi, reportage sulle donne militari italiane impegnante nella missione militare in Afghanistan; Tempi diversi, sulle suore di clausura; Data mi fu soave medicina, lavoro fotografico realizzato all’interno di ospedali durante il primo lockdown per l ‘emergenza Covid 19. Dal 2015 al 2021 ha portato avanti il progetto Dante esule - Percorso contemporaneo nell’Italia di oggi. Dal 2008 svolge reportage nelle carceri italiane. Nel 2009 è uscito il primo libro dedicato all’argomento dal titolo La bellezza dentro - Donne e madri nelle carceri italiane. Il co-fondatore di Palingen, Marco Maria Mazio, è un avvocato che, dopo aver collaborato nel 2014 come educatore part-time nel carcere femminile di Pozzuoli, avendo visto la voglia di riscatto e il potenziale creativo delle detenute, ha fondato insieme al cugino Andrea Telese, laureato in economia e marketing, il progetto di Palingen. Marco Maria è stato autore di numerosi interventi ed articoli a supporto delle iniziative sociali che mirano a facilitare il reinserimento dei detenuti nel mercato del lavoro (cfr. De Vita A., Mazio M. M., “Il diritto di ricominciare: il lavoro nelle carceri italiane” su Comunità di Connessioni). La Spezia. “Tutto quel che sono”, in scena con i detenuti del carcere cittadellaspezia.com, 20 maggio 2022 Si terrà giovedì 26 e venerdì 27 maggio alle 21 al Teatro degli Impavidi di Sarzana lo spettacolo teatrale “Tutto quel che sono… con un tragico sorriso”, sviluppato dallo studio presentato con il titolo Operine nel settembre 2021, che vedrà in scena gli attori - detenuti della Casa circondariale della Spezia. L’opera è il frutto della quarta annualità del progetto Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, promosso su tutto il territorio nazionale da Acri e sostenuto ad oggi da 11 Fondazioni di origine bancaria, tra cui Fondazione Carispezia. Per Aspera ad Astra sta realizzando in 14 carceri italiane innovativi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro, che riguardano non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Ispirata all’esperienza ultratrentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo, questa iniziativa ha dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, che possa quindi favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Ad alimentare e rendere fattibile questo progetto c’è un’inedita comunità, composta da diversi soggetti, coinvolti ciascuno con ruoli diversi: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali che curano la formazione, direttori e personale degli istituti di pena, detenuti. Il percorso teatrale all’interno della Casa circondariale “Villa Andreino” della Spezia è curato fin dalla prima edizione dall’Associazione Gli Scarti, che in questi anni ha realizzato uno spettacolo teatrale, “Incendi”, il mediometraggio “Ciò che resta, appunti dalla polvere”, presentato con una proiezione pubblica la scorsa estate a Sarzana con il critico Tatti Sanguineti e al MedFilm Festival di Roma, e il già citato “Operine… con un tragico sorriso sulle labbra”. Con il coinvolgimento di nuovi detenuti, il lavoro conclusivo dei laboratori avviati a dicembre 2021, mette al centro dell’azione scenica Ettore Petrolini, figura apparentemente strampalata ma di straordinaria efficacia teatrale e di grande intelligenza artistica. Attraverso le sue iperboli linguistiche e i suoi rovesciamenti della logica comune, lo spettacolo vuole indagare le forme del “comico grottesco”, del meccanismo della comicità, ispirandosi allo stile popolare del teatro di varietà. Attingendo al surrealismo grottesco che “con un sorriso sulle labbra” ci parla del tragico, in una realtà che mostra però i lati più vuoti di essa, l’insensatezza del mondo e la sua incomprensibilità. Tutto quel che sono mette in scena come la comicità sia un mezzo di conoscenza e di vittoria morale sul brutto, frammento di una bellezza che fa ridere e piangere insieme. Per Renato Bandoli ed Enrico Casale dell’Associazione Gli Scarti “tutto quel che sono da una strofa di Fortunello vuol dire: ecco, sono qui, sono questo, col mio tragico sorriso. Questo sembra dirci l’uomo petroliniano che, attraverso le sue famose e famigerate cretinerie, i lazzi, i colmi idioti, gli stupidi proclami, si impossessa dei corpi e delle voci degli attori-detenuti, dando vita ad azioni che muovono la scena con l’andamento del teatro di varietà. Niente psicologia, niente sociologia, ma il tentativo di mettere in vita quei lati insensati e tragicomici della realtà, spesso nascosti nel perbenismo della cosiddetta normalità. Siamo tutto quel che siamo”. Biglietti: intero: 5€. Gratuito per studenti e familiari dei detenuti. Per info e prenotazioni: 346 4026006 anche su WhatsApp. Parma. Presentazione del libro “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere” parmadaily.it, 20 maggio 2022 Onda, la lista progressista che sostiene Michele Guerra, ha puntato l’attenzione sulla realtà carceraria e sul difficile rapporto tra carcere e città attraverso la presentazione del libro “Tre metri quadri - quattro anni di visite in carcere”. L’autore, Alessandro Capriccioli, storico militante dell’Associazione Luca Coscioni e consigliere regionale nel Lazio di Più Europa/Radicali, ha interloquito con Roberto Cavalieri, già Garante cittadino per i diritti dei detenuti e da pochi mesi eletto Garante regionale. Nell’occasione è stato presentato il programma della coalizione di Michele Guerra sul carcere, punto fortemente voluto ed influenzato da Onda. “Cercheremo di migliorare le condizioni di vivibilità del carcere di Parma, promuovendo anche forme alternative alla pena detentiva, allo scopo di ridurre la piaga della reiterazione dei reati. Favoriremo un continuo monitoraggio sulla adeguatezza in termini di risorse umane e mezzi delle forze dell’ordine, in considerazione della struttura penitenziaria che raggiungerà a regime gli 800 detenuti, compresi i reclusi di massima sicurezza e 41 bis e proseguiremo con le politiche che promuovono i progetti di giustizia riparativa e i percorsi dei messi alla prova. La presenza a Parma di uno degli Istituti penitenziaria tra i più importanti del Paese deve rappresentare una occasione di partecipazione e innovazione per l’Amministrazione attraverso l’istituzione di un osservatorio che segua due direzioni: la prima che attenzioni le possibili influenze sul territorio per la presenza dei circuiti di massima sicurezza e 41bis con la presenza di cartelli mafiosi ancora attivi; la seconda riguarda il monitoraggio dei reati comuni commessi nel territorio di Parma ed in particolare per quello che riguarda i reati di genere1 e la violazione della legge sulle sostanze stupefacenti anche al fine di promuovere politiche di prevenzione, antiproibizionistiche e alternative alla detenzione per il numero, preponderante, di giovani e adulti che possono essere considerati autori di reati minori”. Il consigliere regionale di Più Europa Capriccioli ha voluto manifestare il forte sostegno a Onda in quanto “Parma è la città dei diritti, la figura del garante dei detenuti esiste grazie all’iniziativa dei Radicali ed istituita dal sindaco Pizzarotti. I candidati e le candidate di Onda saranno in grado di far fare a Parma un ulteriore salto di qualità sul fronte delle libertà individuali”. Cristo si è fermato a Eboli. Nell’orto dei detenuti di Roberta Barbi vaticannews.va, 20 maggio 2022 Riscoperta delle tradizioni come nel libro di Carlo Levi e attenzione alla sostenibilità ambientale: tutto questo e molto di più è l’orto condiviso che curano i detenuti dell’Istituto di custodia attenuata (Icatt) di Eboli ispirandosi alla Laudato Si’ di Papa Francesco. Autostima, collaborazione, empatia, condivisione: sono solo alcuni dei frutti che assieme a melanzane, pomodori e basilico maturano nell’orto sociale dell’Icatt di Eboli, Salerno. All’interno delle possenti mura del Castello Colonna, da un anno una decina dei circa 35 detenuti che la struttura ospita, si “sporcano le mani” nella terra, dando vita a una produzione che per ora è finalizzata all’autoconsumo. “Tra tutte le attività trattamentali l’orto è una delle più complete - spiega la direttrice dell’Icatt, Concetta Felaco - perché unisce il valore terapeutico del lavoro manuale al concetto di sostenibilità ambientale che dovrebbe essere al centro sia per la popolazione detenuta che per quella esterna, inoltre prevede una certa preparazione teorica che risulterà poi spendibile professionalmente all’interno di un territorio prevalentemente agricolo”. L’istituto di custodia attenuata di Eboli ospita persone che hanno compiuto reati perché vittime delle dipendenze, prima tra tutte quella da stupefacenti. In questo tipo di istituti si adotta una modalità di sorveglianza dinamica e si punta molto sulla conoscenza della personalità dei detenuti; quelli di qui spesso utilizzano i prodotti dell’orto per preparare un pranzo a cui sono invitati anche i propri familiari: “Raccogliere il frutto del proprio lavoro, fisicamente, per i nostri ragazzi è molto terapeutico - prosegue la direttrice - noi viviamo a Eboli e nel libro che ci dedicò negli anni Quaranta Carlo Levi si parlava della civiltà contadina del Mezzogiorno di cui cerchiamo con il nostro orto di scoprire i valori e riportarli all’oggi. Per molti si tratta di una riscoperta, perché la maggior parte dei ragazzi viene proprio dal mondo agricolo, e poi c’è il valore della famiglia, molto forte e importante specie per chi è costretto a vivere separato da questa: è il sostegno e il fulcro di tutto il loro recupero”. L’orto condiviso di Eboli non sarebbe stato realizzato senza la collaborazione tra la struttura, Coldiretti Salerno e l’associazione Gramigna che con i suoi volontari si è occupata della progettazione dello spazio e della piantumazione, oltre a incaricarsi quotidianamente della manutenzione: “Il nostro è un progetto di speranza e di rinascita che consente ai ragazzi di non sprecare il tempo altrimenti vuoto della detenzione - è la testimonianza di uno dei volontari, Rosario Meoli - abbiamo iniziato con lezioni teoriche, poi abbiamo preso in mano gli attrezzi e ci siamo immersi, letteralmente, nella terra, con entusiasmo, per piantumare quelli che oggi sono i nostri ortaggi, prodotti completamente biologici, come dico io, cresciuti solo con il sudore”. “L’immersione nella terra è anche un’immersione in se stessi - riflette Meoli - coltivare un orto, infatti, è un po’ come coltivarsi, perché le piante hanno la straordinaria capacità di riportare le persone alle proprie radici e questo vale anche per i detenuti: è il valore aggiunto dell’agricoltura sociale”. Così, dopo tanto lavoro e fatica, ma soprattutto dopo una lunga attesa, sono arrivate le prime soddisfazioni: “La natura ha i suoi tempi, lunghi come quelli della detenzione - continua Meoli - perciò coltivare insegna che per avere un frutto migliore bisogna anche saper aspettare, mai pretendere tutto e subito. In questa grande avventura ognuno ha il suo ruolo e il suo compito, grande o piccolo che sia, che deve svolgere al meglio per ottenere il massimo risultato”. Da metafora della vita, l’orto condiviso dei ragazzi di Eboli si è trasformato in un progetto professionale che presto li farà conoscere anche all’esterno: “Grazie alla collaborazione con Coldiretti miriamo a partecipare ai mercatini locali con le nostre conserve, data l’ingente produzione di pomodori - conclude il volontario di Gramigna - ma abbiamo anche molte piante officinali come lavanda e rosmarino, perciò stiamo pensando anche alla produzione di essenze”. Se un ragazzo su due non capisce cosa legge di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 20 maggio 2022 Ogni tanto torna l’attenzione sui numeri tristi dell’infanzia. Sì, tristi, perché duri. Espressione di una grande ingiustizia nel Paese. Li fornisce l’Istat su tutti i fronti, dalla povertà, alle interruzioni nel percorso di studio, ai problemi di socialità, alle condizioni di salute. Lo fa l’Invalsi denunciando la grave situazione delle competenze dei nostri bambini. Lo ha fatto ieri Save the children, con la solita attenta lettura degli indicatori del disagio dei minori. I bambini sono la risorsa più bella del Paese, bambini dai mille colori, di tutte le classi sociali che hanno diritto ad un futuro migliore. Sono, però, il segmento più colpito dalla povertà assoluta. Più di 1 milione 300 mila minori sono in questa situazione. E sono anni che hanno il primato della povertà. Sono anni che l’Istat produce le stime che documentano troppo disagio. Già nel 2012, 10 anni fa la povertà assoluta dei bambini era triplicata. Non si è mai abbassata. Anzi nel 2020 è ulteriormente cresciuta. E pure il livello di competenze è peggiorato. Metà dei nostri ragazzi non raggiunge le competenze necessarie in italiano, peggio in matematica, secondo l’Invalsi. È vero la situazione è peggiorata nel periodo della didattica a distanza. Ma, attenzione, non è un problema semplicemente congiunturale. Sono anni che ce lo trasciniamo. Per anni il grande professore Tullio De Mauro (quanto manca a tutti noi) metteva in guardia sulle conseguenze di questa situazione e sul livello basso di competenze degli adulti. La svolta va data su tutti i fronti. Investire sui bambini e sulle bambine significa metterli in condizione di sviluppare tutte le proprie potenzialità, indipendentemente dalla classe sociale, o dalla loro origine. vuol dire investire sul futuro del Paese. Il governo ha varato la Child Guarantee un Piano di azione da qui al 2030 per combattere le disuguaglianze e la povertà minorile. E lo abbiamo fatto tra i primi avendo un livello di povertà minorile più elevato della media europea. La Commissione europea ha previsto 635 milioni di euro di stanziamento per il nostro Paese. Molti sono i punti qualificanti. Si prevede l’offerta di un pasto sano al giorno a scuola come livello essenziale delle prestazioni (Lep). L’offerta educativa deve essere prevista anche nella fascia pomeridiana. La refezione scolastica e il tempo pieno devono essere estese nelle scuole dell’infanzia e nelle primarie. Obiettivi del Piano sono infatti la progressiva estensione del servizio di refezione scolastica e del tempo pieno nelle scuole dell’infanzia e primaria. Il Piano si sofferma inoltre sulla universalità e la gratuità di servizi educativi di qualità alla prima infanzia su tutto il territorio nazionale. In particolare si pone l’obiettivo di portare l’offerta di posti a tempo pieno nei servizi educativi per l’infanzia verso il 50% sul territorio nazionale, con almeno il 33% di copertura a livello di Ambito territoriale, di servizi pubblici e privati accreditati che ricevono finanziamenti pubblici. Importante l’attenzione per facilitare la partecipazione ai servizi da parte dei gruppi maggiormente a rischio di esclusione sociale. È un passo in avanti importante. Così come tutta la parte di prevenzione e promozione della salute materno infantile e la salute psicologica dei bambini. Ma sarà fondamentale nel suo perfezionamento ampliare le risorse. I bambini e le bambine hanno diritto ad un investimento massiccio. Solo questo garantirà di sconfiggere la povertà minorile diventata strutturale. *Direttora del dipartimento Metodi e Tecnologie dell’Istat Suicidio assistito, via libera per Fabio Ridolfi di Viola Giannoli La Repubblica, 20 maggio 2022 “Rientra nei parametri ma ancora nessuna indicazione su modalità e farmaco”. È la seconda autorizzazione data in Italia. Il parere del Comitato etico Regione Marche è rimasto nel cassetto per 40 giorni ed è stato comunicato solo dopo l’appello pubblico del 46enne immobilizzato a letto da 18 anni per una patologia irreversibile. A ventiquattr’ore dal suo appello - “lo Stato mi aiuti a morire” - salta fuori il parere tanto atteso. Un parere che dice, nero su bianco, che Fabio Ridolfi, il 46enne da 18 anni immobilizzato a letto per una patologia irreversibile, che ieri ha diffuso un video per chiedere il suicidio medicalmente assistito, “rientra nei parametri stabiliti dalla Consulta nella sentenza Cappato-Dj Fabo per potere accedere all’aiuto medico alla morte”. Lo sostiene il Comitato etico Regione Marche, come reso noto dall’Associazione Luca Coscioni che segue la storia di Fabio e molti altri. “È il secondo caso italiano, dopo quello di ‘Mario’ ad avere ottenuto il via libera per l’aiuto al suicidio”, sottolineano dalla Coscioni. Ma come Mario, che si è rivolto al tribunale di Ancona per ottenere ciò che gli spettava, anche Fabio Ridolfi è rimasto imbrigliato nella rete della burocrazia della Asur Marche. Il parere che dà il via libera al suicidio assistito risale all’8 aprile, ma è rimasto in un cassetto per più di un mese ed è stato recapitato a Fabio solo dopo l’appello. “Nonostante i ripetuti solleciti”, dunque, “qualcuno in Asur Marche aveva ‘dimenticato’, per 40 giorni, di comunicare” il parere a Ridolfi che lo attendeva da due mesi, dopo essersi sottoposto alle visite mediche previste. Una situazione che il tesoriere dell’Associazione, Marco Cappato, definisce “kafkiana”. Non solo, perché quel parere è incompleto e ancora “nulla dice sulle modalità e sul farmaco da usare affinché la volontà di Fabio possa finalmente essere rispettata”, commenta Filomena Gallo, avvocato e segretario dell’Associazione. “È ora doveroso - aggiunge - che il Sistema sanitario delle Marche definisca le modalità del caso nella massima urgenza, senza che sia necessario nuovamente da parte di Fabio procedere per vie legali”. “È da notare - incalza Cappato - come il suo appello sia stato accolto dal silenzio assoluto da parte dei capipartito e dei ‘protagonisti’ del dibattito parlamentare, attualmente impantanato al Senato. Eppure, l’utilità di una legge sarebbe proprio quella di stabilire tempi certi per dare risposte ai malati. Purtroppo - conclude - il testo approvato alla Camera non fornisce alcuna garanzia nemmeno da questo punto di vista, e sarebbe dunque da discutere urgentemente e da integrare”. Adesso coraggio e visione per un’Europa davvero nuova di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 20 maggio 2022 È il momento per avanzare, il momento della nascita di una federazione. Le condizioni sono irripetibili: ci costringono a unirci e ci favoriscono a farlo. Se l’Europa è sempre avanzata nelle crisi, il momento per avanzare è questo. Il momento della nascita di una federazione. Le condizioni, nel male ma anche nel bene, sono irripetibili. Da un lato ci costringono a unirci; dall’altro ci favoriscono a farlo. In Francia, il Paese più nazionalista, è appena stato rieletto un presidente che fa suonare l’inno europeo - composto da un tedesco - prima della Marsigliese. In Germania, il Paese più in difficoltà per la dipendenza energetica dalla Russia, il cancelliere socialdemocratico guida un governo europeista con Verdi e liberali, senza però quella forza egemonica che nell’era di Merkel era stata spesso più di ostacolo che di aiuto alla costruzione europea. In Italia c’è l’ex presidente della Bce. In Spagna il premier socialista dialoga con il nuovo leader del Pp, il governatore della Galizia Feijóo, storico capo dell’ala moderata ed europeista del partito. Alla Casa Bianca non c’è più un presidente ostile all’Ue come Trump. Il Regno Unito è fuori e non può più porre veti. L’alleanza euroscettica di Visegrad è in frantumi, con Orbán filorusso e gli altri contro. Putin, che ha tentato con ogni mezzo - incluse la corruzione e la manipolazione in Rete - di ostacolare la nascita di un’Europa unita, non è mai stato così debole. Soprattutto, il continente fronteggia sui suoi confini orientali la più grave crisi politica, militare, energetica dalla seconda guerra mondiale. È più che mai il momento di chiedersi: se non ora, quando? Qualcosa in effetti sta già accadendo. Si discute come superare il vincolo dell’unanimità, che concedendo a ogni Paese il diritto di veto rende ovviamente complicato prendere decisioni. Si lavora per mettere in comune i sistemi di difesa, risparmiando uomini, tempo, denaro. Ci si unisce per combattere l’inflazione e contrattare i prezzi ieri dei vaccini e oggi del gas. È chiaro che un’Europa unita pesa di più, in ogni campo. Ma le tecnicalità non bastano. Serve una forte iniziativa politica. I temi su cui trovare l’unità sono evidenti. Difesa. Immigrazione. Energia: la Commissione ha un piano da quasi 300 miliardi, cifre sino a poco tempo fa impensabili. Fisco: non è possibile che i governi dell’Unione continuino a farsi concorrenza sleale, con i Paesi poveri del Sud che attirano pensionati e i Paesi ricchi del Nord che attirano multinazionali. L’Europa si è data una moneta comune e, con la pandemia, un debito comune. Occorre studiare anche forme comuni di governo dell’economia. E occorre una guida comune. Se è vero che non ci sono leader in Europa in grado di parlare con Putin, con Biden, con Xi da pari a pari, questo non significa che non possano esserci in futuro. La costruzione europea è ferma da troppo tempo. Il trattato di Maastricht, che pose le basi dell’euro, è del 1992. Il Parlamento europeo è del 1979. Una vita fa. Sono 43 anni che i popoli d’Europa eleggono i loro rappresentanti. Perché non potrebbero eleggere anche un presidente? Già si è tentato di legare la scelta del capo della Commissione a una maggioranza parlamentare; ma un conto è una designazione contrattata a Bruxelles; un altro è un’elezione diretta. L’obiezione è nota: l’Europa non può nascere perché ogni Paese è troppo legato all’interesse nazionale. Ma ciò accade proprio perché ogni governante risponde ai propri elettori. Per questo serve un leader con un’investitura più ampia. Come spesso accade, la società è più avanti della politica. I vari sistemi economici sono ormai profondamente intrecciati (si pensi a Francia e Italia: parliamo sempre delle acquisizioni d’oltralpe; ci dimentichiamo ad esempio che il capo della Renault è un italiano). Le nuove generazioni hanno imparato le lingue, volato low cost, fatto l’Erasmus, seguito la Champions, studiato o lavorato all’estero: l’Europa è il loro destino. Certo, non sono cose che si decidono in poche settimane. Ma le basi vanno gettate adesso. Non si può attendere l’unanimità di ventisei Stati. I sei fondatori - Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo - oltre alla Spagna possono costituire un nocciolo duro. E avanzare. Lasciando liberi gli altri di seguire. E costruendo attorno all’Europa quell’anello di Paesi amici, dal Marocco alla Turchia, e ora sino all’Ucraina, che Prodi propose da presidente della Commissione, quando fu deciso l’allargamento a Est, e che Macron rilancia quando dice che non possiamo accogliere ora Kiev nell’Ue, ma non possiamo neppure abbandonarla. Certo, occorrono coraggio e visione. Ci sono spinte che vanno nella direzione opposta. Per restare solo alle idee espresse negli ultimi giorni sul Corriere della Sera, Matteo Salvini - intervistato da Marco Cremonesi - ha chiesto la riscrittura dei trattati, ma in senso sovranista, non federalista; mentre il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner - intervistato da Federico Fubini - è tornato a evocare il fantasma del debito e del rigore. Però a spingere verso la federazione tra i grandi Stati europei è una forza ben più irresistibile: la storia. E la consapevolezza, non unanime ma ormai matura sia in Germania sia in Francia, che nessun Paese europeo può reggere da solo nel mondo globale. L’Unione europea più che alla pace adesso pensa a quanto armarsi di Francesca De Benedetti Il Domani, 20 maggio 2022 L’Europa va al riarmo. Come ha comprato i vaccini, vuole comprare le armi, e per le armi vuole spendere di più diminuendo al contempo il controllo democratico. La tendenza precede l’aggressione dell’Ucraina, ma “non bisogna perdere lo slancio” che la guerra ci dà, dice Ursula von der Leyen. La Commissione Ue presenta i piani per il futuro, e non sono solitari: anche i governi si riarmano, mentre l’Europarlamento prepara una riforma dei trattati che va nella stessa direzione. Il riarmo - “La nostra spesa militare è insufficiente”, dice la Commissione, che parla di “scelta tecnica, non ideologica” e accompagna le conclusioni con un grafico. L’Ue sembra Davide in confronto ai Golia russo e cinese, ma “il divario di investimenti” racconta solo una parte della storia. Bruxelles cita i dati dell’aumento delle spese militari: “Dal 1999 al 2021, l’Ue nel suo complesso ha aumentato le spese solo del 20 per cento, gli Usa del 66, la Russia del 292, la Cina del 592”. Eppure Mario Draghi ha notato che “l’Ue spende tre volte più della Russia”. Il fatto è che la Commissione, indicando l’Ue come fanalino di coda, si basa sull’incremento delle spese, non sul loro ammontare. Che è incomparabilmente più alto in Europa che in Russia, e che in Ue continua a crescere. I dati Sipri dicono che nel 2014, nell’Ue pre-Brexit sono stati spesi 244 miliardi di dollari; nel 2019 sono diventati 280, nel 2021 erano 304 calcolando il Regno Unito, 242 senza. La Russia ha speso 64 miliardi nel 2014, 60 nel 2019 e 63 nel 2021. La Cina ha sborsato 183 miliardi nel 2014, 246 nel 2019 e 270 nel 2021. Gli Usa 708 miliardi nel 2014, 743 nel 2019, 768 nel 2021. “Non prospettiamo una corsa al riarmo, ma uno stop al disarmo silenzioso”, sostiene l’alto rappresentante Ue Josep Borrell. Acquisti congiunti - “Gli stati si sveglino e aumentino le spese militari”, dice Borrell. L’obiettivo di Bruxelles è sempre più nitido: sotto l’ombrello della “difesa europea” non c’è solo il coordinamento e l’ottimizzazione delle spese. “Va aumentata anche la quantità”. Bruxelles stila una lista della spesa: rimpinguare subito i magazzini svuotati per aiutare gli ucraini, ma pensare anche alle armi futuribili del lungo periodo; droni, difesa cyber, e così via. L’investimento pilota della Commissione per avviare i primi acquisti comuni copre fino al 2024. Con mezzo miliardo del bilancio europeo, Bruxelles dice di voler incentivare i governi a comprare insieme, e cita l’esperimento fatto per i vaccini. In quel caso, la Commissione ha tenuto segreta la composizione della squadra negoziale, l’articolazione esatta delle spese, e ha rivelato qualcosa sui contratti con Big Pharma solo dopo le pressioni di eurodeputati e società civile. Nel corso dei mesi, gli acquisti si sono concentrati sempre più su un’azienda, Pfizer-BioNTech. Pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, la mediatrice Ue ha definito “malgoverno” l’opacità di Bruxelles: von der Leyen aveva messaggiato per settimane con l’amministratore delegato di Pfizer mentre un contratto per i vaccini veniva negoziato, e ha rifiutato di rendere pubblici i messaggi. A vantaggio di chi - Le misure annunciate questo mercoledì dalla Commissione non nascono con la guerra in Ucraina: elevano a potenza le tendenze in corso. Bruxelles dice di voler incentivare i consorzi tra stati con l’esenzione dall’Iva; von der Leyen aveva parlato di “esenzione dall’Iva”, di sgravi agli acquirenti di materiale bellico, già a settembre nel “discorso sullo stato dell’Unione”. L’esistenza di un consorzio, senza opportuni vincoli, non elimina di per sé il rischio di doppioni: ai cacciabombardieri di sesta generazione tempest sta lavorando l’Italia con Regno Unito e Svezia; in parallelo, Francia e Germania. Finora l’esistenza di un fondo europeo per la difesa non ha spinto di per sé i governi a lavorare insieme, come la stessa Commissione attesta: “Nonostante nel 2020 la spesa per la difesa europea sia aumentata, gli investimenti fatti in modo collaborativo sono calati all’11 per cento”. Il fondo europeo per la difesa, che Bruxelles vuole ampliare e che è nato nel 2016 sotto l’impulso dei colossi dell’industria militare, finora è andato a vantaggio di pochi paesi - Francia, Germania, Italia e Spagna - e pochi big: Leonardo, Indra, Safran, Thales, Airbus. I giganti dei quattro paesi più sovvenzionati coordinano il 68 per cento dei progetti. “C’è immenso bisogno di acquisti”, per la Commissione. L’ex manager scelto da Macron come commissario al Mercato interno, Thierry Breton, è in prima linea. La riforma guerrafondaia - Il progetto europeo si fondava sulla condivisione di risorse per eliminare tentazioni guerrafondaie; oggi l’Ue mette insieme soldi per comprare armi. La transizione è anche istituzionale. Una svolta è stata l’uso della “peace facility” per spedire armi in Ucraina. Poi c’è stata la richiesta della Commissione all’Europarlamento di “essere pronti a approvare spese militari nel bilancio Ue”, accolta dalla presidente Metsola. Finora, il fondo europeo di difesa è stato giustificato come sostegno all’industria: l’Ue drena soldi pubblici in ricerca e sviluppo, anche se la proprietà intellettuale resta in mano all’azienda. Ora c’è un ulteriore passo: la Commissione incentiva con il bilancio comune gli acquisti di armi. Ma non è finita qui. Il parlamento Ue, che vuole riformare i trattati, farà arrivare sul tavolo del Consiglio di giugno la sua proposta sui punti da modificare. A giudicare dalla bozza di risoluzione che circola oggi, gli eurodeputati rinunceranno anche al poco controllo che hanno sul riarmo. In un paragrafo si legge che “il parlamento può dare alla Commissione competenze straordinarie e concederle tutti gli strumenti in caso di crisi nel campo della difesa”. I popolari vogliono pure “l’acquisto comune di materiale militare con il bilancio Ue”. Cooperazione internazionale per il reinserimento dei detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 20 maggio 2022 “Con quello che sto facendo cerco di redimermi agli occhi della società e della mia famiglia”. Mariela è detenuta in un carcere femminile di Città del Messico ed è una delle 500 persone private della libertà che sono state coinvolte nel programma di reinserimento “De Vuelta a la Comunidad”, nato dalla cooperazione internazionale fra Governo di Città del Messico, Ministero della Giustizia italiano, Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine ed Enel Green Power. Nel corso di un evento collaterale inserito nell’agenda della 31ª Sessione della Commissione per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale in corso a Vienna dal 16 al 20 maggio, è stato illustrato oggi lo stato di avanzamento del programma e sono state mostrate in un video le testimonianze di alcune delle persone che ne hanno beneficiato: donne e uomini che hanno raccontato qualcosa del loro periodo di detenzione e dell’impatto che il progetto ha avuto sulle loro vite. Mariela, così come Amelia, Yazmin e Jorge; ma anche Michell, diplomato del programma, che attualmente gestisce una piccola impresa alimentare e studia all’università. Nelle loro parole tutta la speranza, ma anche la determinazione di voler portare a termine un percorso di reinserimento che può davvero permetter loro di presentarsi alla società esterna come persone nuove. “È un Programma che offre importanti opportunità di lavoro e di reinserimento”, ha detto nel corso del suo intervento il Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Roberto Tartaglia. “In Italia abbiamo sottoscritto tantissimi protocolli d’intesa per progetti di pubblica utilità che puntano alla formazione e al reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, sia durante lo svolgimento della pena che una volta usciti dal carcere. Come Ministero della Giustizia - ha sottolineato Tartaglia - vogliamo rafforzare la cooperazione internazionale con i partner del progetto e incentivare le occasioni di mettere insieme le finalità pubbliche delle istituzioni penitenziarie con le esigenze private del sistema delle imprese”. Tartaglia ha ricordato anche la Convenzione di Palermo del 2000 per la lotta alla criminalità organizzata: “È nata dall’impulso dato da Giovanni Falcone, di cui proprio in questi giorni commemoriamo il trentennale della scomparsa. E obbliga gli Stati membri alla riabilitazione dei detenuti condannati, sottraendo di fatto manodopera alle organizzazioni criminali”. Soddisfazione per il buon andamento del programma è stata espressa dal responsabile dell’Ufficio Unodc Messico, Kristian Hölge: “È un eccellente programma per il reinserimento delle persone private della libertà attraverso la formazione e il lavoro, ma serve anche a prevenire la violenza e la recidiva. Dobbiamo rafforzare questa collaborazione per migliorare le condizioni di vita nelle carceri”. “Il programma ha consentito fin qui a 500 detenuti di avere un lavoro e anche un sostegno economico e abbiamo coinvolto anche le loro famiglie”, sottolinea il responsabile del lavoro nel sistema penitenziario di Città del Messico, Aarón Sánchez Castañeda. “Li abbiamo coinvolti in progetti di riforestazione, cura e manutenzione di parchi ecologici, nella produzione di mascherine protettive nel periodo della pandemia e, in tempi più recenti, nella pulizia delle aree limitrofe al circuito del Gran Premio di Formula E, come avvenuto anche in Italia”. “Ci auguriamo che si possa presto andare oltre il successo dell’esperienza messicana e italiana”, ha detto la rappresentante di Enel Green Power, Montserrat Palomar. “Come partner del progetto, tutti noi di Enel Messico ci sentiamo coinvolti, anche come volontari. E siamo felici di pensare che le tante persone che ora stanno lavorando lo stanno facendo anche con le risorse e la conoscenza che hanno ricevuto da noi”. Colonia 52, il carcere per gli evacuati ucraini di Azovstal: “È un lager nel cuore dell’Europa” di Fabio Tonacci La Repubblica, 20 maggio 2022 Colonia penale numero 52, anche il nome fa paura. I primi duecento combattenti evacuati dall’Azovstal sono stati portati con i pullman a Olenivka, un villaggio a pochi chilometri da Donetsk, nell’autoproclamata Repubblica popolare separatista. Olenivka è famosa soltanto per una cosa: le sue due prigioni. La Colonia penale numero 52 è la più grande e, stando ai racconti che ne fanno gli ucraini, la più terribile. Si tratta di un vecchio istituto correttivo dove rinchiudono gli “inaffidabili” che non superano l’esame dei campi di filtrazione, come il Comando militare russo chiama quelle strutture che, nei territori occupati, usa per individuare sospetti, soldati e oppositori. “Ci sono almeno tremila civili in ostaggio nella colonia, tra cui poliziotti, attivisti e trenta volontari che sono stati rapiti mentre portavano aiuti a Mariupol”, ritiene la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmila Denisova. Di recente si è appellata alle Nazioni Unite perché la Colonia numero 52 sia considerata un crimine di guerra. “I civili vengono interrogati per ore, sono torturati con scariche elettriche. Sono atti di terrorismo, secondo la convenzione del Consiglio d’Europa”. Il sindaco di Mariupol Vadym Boychenko dice che a Olenivka tengono dieci persone in celle due metri per tre, senza possibilità di sdraiarsi, con poca acqua e cibo, e con il permesso di usare il bagno una volta al giorno. “Nella colonia hanno camere di detenzione temporanea e altre dove rimangono fino a tre mesi. Crediamo che vi siano migliaia di abitanti di Mariupol lì dentro, nonostante la struttura abbia una capienza di 850 posti”. Petro Andriushchenko, consigliere del sindaco di Mariupol, usa la definizione più forte: “È un vero campo di concentramento costruito dalla Russia nel cuore dell’Europa”. Di quel che accade a Olenivka, o nell’ancor più famigerata Izolaytsia, la prigione segreta di Donetsk, si hanno pochi brevi filmati girati col telefonino e il resoconto di chi c’è stato in passato. Niente di certo si sa sulla destinaizone finale dei difensori di Mariupol. Con il silenzio assoluto imposto da Zelensky, la storia dell’evacuazione dell’Azovstal è raccontata solo dal Cremlino, che infatti rimarca il più possibile il concetto di “resa dei nazisti del Reggimento Azov” e diffonde questa cifra: 1.730 militari ucraini (tra Azov, marine della 36° Brigata, poliziotti, volontari, guardie di frontiera) usciti finora dal ventre dell’acciaieria. È un numero impossibile da verificare con fonti indipendenti. Il Comitato internazionale della Croce Rossa sul posto ne sta registrando i nomi classificandoli come prigionieri di guerra e specificando di non essere coinvolto nel loro trasferimento. In un filmato che gira sulle chat russe, uno degli 80 feriti portati all’ospedale di Novoazovsk, sempre nella Repubblica separatista, spiega che si nascondevano al terzo piano sottoterra e che comunicavano con il Comando di Kiev via Internat grazie al sistema satellitare Starlink donato da Elon Musk. Sono tutte notizie da prendere con le molle. Come quella, accreditata ieri mattina dai media russi, dell’uscita dall’Azovstal del vicecomandante dell’Azov Sviatoslav Palamar. In serata, è stato pubblicato sui social un filmato in cui lo si vede dentro l’acciaieria. “Io e il comando militare siamo ancora qui. È in corso una determinata operazione di cui non rivelo i dettagli. Sono grato all’Ucraina e a tutto il mondo per il sostegno. Ci vediamo”.