Malati psichiatrici in cella: l’Italia è rimasta a cinquanta anni fa di Lirio Abbate L’Espresso, 1 maggio 2022 Il degrado delle condizioni dei pazienti reclusi: una situazione - illegale - di cui parliamo ormai da decenni. Che ancora una volta la Corte Costituzionale ha sanzionato, chiedendo al Parlamento una riforma urgente. Nel carcere di Pescara, in quello di San Vittore a Milano, e a Rebibbia e Regina Coeli a Roma ci sono dei “repartini” in cui sono chiusi una decina di pazienti. Molti di loro sono segregati in celle singole o massimo di due persone. E poi in altre strutture ci sono i malati che in piena crisi vengono contenuti nel letto, legati mani e piedi per impedire di far del male a sé o agli altri. Insomma, il racconto, corredato da immagini eclatanti e significative scattate da Valerio Bispuri, denuncia una situazione di degrado umano e sociale che credevo fosse stato spazzato via con la cancellazione dei manicomi, compresi quelli criminali. E invece mi devo ricredere. Le persone affette da patologie psichiche vengono ancora rinchiuse in cella. E nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, gli ex Opg, che di fatto sembrano delle piccole carceri. Le foto scattate da Bispuri - in questo secolo - ci fanno calare non solo dentro questo mondo, ma ci riportano indietro nel tempo. A quando Gad Lerner con Franco Zecchin raccontarono su L’Espresso nell’ottobre del 1988 le condizioni disumane in cui si trovavano i 375 ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Agrigento. Era una drammatica scoperta fatta da questo giornale e documentata da immagini a colori. Era un’inchiesta condotta assieme all’allora senatore radicale Franco Corleone e riguardava i malati di mente che allora popolavano i manicomi, tenuti in funzione “a esaurimento” dalla legge 180 che era stata approvata dal Parlamento nel 1978, fino a quando erano in vita le persone di cui era stata giudicata impossibile la dimissione. Era la rivoluzione di Franco Basaglia. A causa dei gravi problemi di funzionamento l’attuale sistema delle Rems non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società. Questo aspetto è stato sottolineato lo scorso gennaio dalla Corte costituzionale nella sentenza con cui ha rivolto un monito al legislatore perché intervenga con urgenza con una riforma. Che ancora attendiamo. La Consulta ha osservato come la totale estromissione del ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di Rems, e dunque in materia di esecuzione di misure di sicurezza disposte dal giudice penale, non è compatibile con l’articolo 110 della Costituzione, che assegna al Guardasigilli la responsabilità dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. La Corte ha tuttavia ritenuto di non poter dichiarare illegittima la normativa in questione, perché da una simile pronuncia deriverebbe “l’integrale caducazione del sistema delle Rems, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi Opg”, con la conseguenza di “un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. Di qui il monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema. Una riforma che deve assicurare innanzitutto un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, e insieme la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività. La Rems, come dice Franco Corleone, va rimodellata. Lui continua a ritenere “che abbiamo fatto una rivoluzione gentile, ma alla luce anche della sentenza della Corte Costituzionale serve una riforma”. Sì, occorre una riforma, ed evitare in tutti i modi che quelle persone malate chiuse in carcere, quando non dovrebbero starci, siano condannate all’inferno già su questa terra. Ecco in che condizioni vivono i malati psichiatrici nelle carceri e nelle Rems di Valerio Bispuri L’Espresso, 1 maggio 2022 Abbandonati, dimenticati, legati ai letti. Sono i pazienti psichiatrici che si trovano dove non dovrebbero. “Oggi non mi sento in forma, sono un po’ ingrassata, ma devo essere bella per stasera, perché vado a cena con Bob Kennedy”. Mentre mi racconta del suo appuntamento, “Marilyn Monroe” si mette degli occhiali a forma di gatto con dei brillantini e sorride. Accanto un signore di mezza età alla sua quarta sigaretta negli ultimi quaranta minuti, aspira il mozzicone ormai consumato e mi saluta dicendomi che deve andare a discutere di una cosa importante con Napoleone. Tutti e due sono ospiti frequenti del Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) del San Filippo Neri di Roma. Quelli che arrivano qui sono pazienti il più delle volte in preda a crisi psicotiche, i loro volti nel momento più acuto sono deformati da un dolore interiore che non ha più barriere e si trasforma in angoscia, in terrore di una realtà che non riconoscono. Prima di iniziare questo lungo viaggio nell’universo della psichiatrica italiana e africana conoscevo poco il mondo della follia: i gesti, gli sguardi, il tempo di chi fa fatica a vivere al ritmo emotivo e veloce della realtà. Ero stato oltre 15 anni fa nel Borda, il manicomio di Buenos Aires, per una settimana e avevo percepito la difficoltà e molto spesso il dolore acuto di chi è rinchiuso solo nel proprio mondo interiore. Anche nel lavoro sulle carceri italiane mi ero imbattuto in qualche detenuto con problemi psichici, spesso isolato in una cella singola, altre volte insieme ad altri carcerati. Schegge di un mondo che mi ha accompagnato fino al momento in cui quasi cinque anni fa decisi di approfondire, di capire, di entrare nelle stanze della mente di chi si disconnette dalla realtà e prende una strada tutta propria, fatta di tante piccole sfere che si intersecano tra loro. Riuscire a decifrarne il processo è una cosa complessa, perché la pazzia non è una sola e non si rispecchia in un’immagine unica, ma ha mille forme diverse che rimbalzano da persona a persona e afferrano l’inconscio per la coda facendolo azzittire o urlare o semplicemente bisbigliare un linguaggio spesso estraneo a chi sta intorno a loro. Per questo ogni persona malata ha bisogno di una cura e di un’attenzione differente e le varie “stanze della mente” cambiano e rendono mutevoli le “voci” che i pazienti sentono ogni tanto o tutto il giorno. All’inizio del lavoro ricordo di aver chiesto a una psichiatra che cosa volesse dire sentire le voci… nel senso concreto del termine. Mi rispose dicendomi di immaginare di mettere l’orecchio accanto a una parete sottile e sentire che qualcuno dall’altra parte del muro sta parlando con te o di te. Mi spiegava inoltre che a volte queste voci possono essere religiose o imperative, altre volte aggressive o noiose. Mi sono allora immaginato cosa si possa provare ad avere una persona o più persone che non vedi ma senti parlare con te. Il mio reportage fotografico è iniziato proprio da queste voci e dall’assenza. Prima di iniziare a fotografare non ho scattato ma sono rimasto a osservare lo spazio e il tempo di chi rimaneva ore seduto su un divano a guardare il vuoto e di chi invece si muoveva freneticamente senza smettere di parlare. Spesso mi torna alla mente ancora oggi il volto magro di Alessandro, la barba lunga, la sigaretta sempre accesa e il suo silenzio quasi eterno. Ogni tanto diceva qualche parola, poi tornava nel suo mondo. Alessandro stava da quasi cinque anni in una comunità a Primavalle, mi ero affezionato a lui, sempre separato da tutti, con lo sguardo fisso nel vuoto. Ci sono stati dei pomeriggi in cui siamo riusciti anche a giocare a carte insieme, a burraco, e a camminare lungo il corridoio. La malattia psichica è così, prende forme diverse, come nel caso di Roberto, ospite in una casa-famiglia e cristallizzato al 1987, quando aveva 19 anni ed era stato lasciato dal suo primo e unico amore. Da quel giorno tutto dentro di lui si era fermato e mi parlava dei gol della Roma di Di Bartolomei come fosse successo l’ultima domenica o del film “Gli Intoccabili” di cui aveva una videocassetta. Tutto era fermo a quel momento, a quell’anno e qui ho cominciato a capire che quasi sempre c’è un evento emotivo forte, un trauma psichico che sconvolge ogni cosa e come un maremoto entra nella mente e allaga tutte le stanze. Questo avviene su persone già fragili che vivono situazioni familiari difficili e hanno una predisposizione genetica per cui non costruiscono barriere emotive. Non c’è però solo un episodio a sconvolgere tutto. Sempre di più, soprattutto tra i giovani, la valanga arriva attraverso le droghe che prese in eccesso e per molto tempo se non uccidono il corpo distruggono piano piano la mente, interrompendo i circuiti con il reale. Una cosa di cui mi sono accorto in questi anni è che totalmente non si esce mai dalla malattia psichiatrica, da quella che spesso viene definita generalmente “follia”. Si può stare meglio, molto meglio, si può quasi guarire e arrivare a un’autonomia quotidiana ma la “follia” non cancella mai completamente quel senso di separazione e basta pochissimo per ricominciare da capo, avere una crisi e tornare al punto di partenza, al ricovero nel Spdc di qualche ospedale. È un sottile filo, così labile che si può sempre spezzare. La storia sulla malattia mentale è diventata così un altro capitolo della mia ricerca costante sul mondo degli invisibili che porto avanti da oltre venti anni: un’investigazione antropologica su quella che è la libertà perduta di chi è rinchiuso in carcere, di chi fa uso di droga, di chi è sordo e ora di chi ha una problematica psichiatrica. Ho iniziato a fotografare il mondo della follia, come quasi sempre mi capita, dopo aver aspettato, dopo essere stato tante volte nei luoghi che ospitano i pazienti psichiatrici, iniziando proprio dalla fine, dalla casa-famiglia, dove vivono insieme in due, quattro, fino a sei persone e condividono un appartamento e solo una volta al giorno passa un operatore a vedere che tutto vada bene. Scendendo poi tante volte nei reparti psichiatrici degli ospedali San Filippo Neri e Santo Spirito a Roma ho incontrato Marilyn ma anche tanto dolore e alcuni malati in piena crisi contenuti nel letto, legati mani e piedi per impedire loro di far del male a se stessi o agli altri. La legge lo prevede in determinate situazioni, quando non c’è altro modo per fermare un attacco psicotico aggressivo, anche se in Benin in Africa ho visto il missionario Gregoire avvicinarsi a pazienti per strada molto violenti e riuscire a calmarli con una carezza e delle parole sussurrate all’orecchio. In Italia ci sono due scuole di pensiero sul senso o meno del contenimento di un paziente: c’è chi lo ritiene indispensabile e chi lo rifiuta cercando altri metodi. Ancora oggi dopo tanti anni ho incontrato chi è a favore di quello che hanno portato Basaglia e la legge 180 sulla chiusura dei manicomi e chi ne vede invece le criticità. In questo tempo sospeso dove cercavo di capire e trovare la chiave fotografica ho passato interi pomeriggi nelle comunità a mangiare con i pazienti, a vedere video musicali a ripetizione, a fare partite di ping-pong, a cercare di spiegare cos’è la fotografia. Alla fine una delle cose più preziose erano sempre i loro abbracci ogni volta che andavo via e poi ritornavo e questo ritornare sempre dava loro tranquillità e a me permetteva di avvicinarli sempre più in profondità. Tutto il reportage ha così cominciato a muoversi verso quella parte interiore, ogni volta diversa e uguale, perché se è vero che la malattia mentale cambia da persona a persona ci sono poi dei gesti che si ripetono in tutti: la sigaretta continua e persistente fumata oltre il filtro, l’attaccamento spasmodico al cibo, quel muoversi lentamente e poi di scatto, quella voglia di andare e restare. Le foto hanno cercato di seguire questi gesti e questi sguardi, le abitudini e il loro senso nello spazio. L’ultimo anno l’ho dedicato completamente a quelle che sono le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo le Rems, gli ex Opg o se vogliamo manicomi criminali. Nelle tre Rems del Lazio a Subiaco e Palombara Sabina da alcuni mesi sto facendo un corso di fotografia con i pazienti e sono loro stessi a raccontare una storia che alla fine sarà una mostra collettiva. Le Rems sono delle piccole carceri dove vengono ospitati circa 16 pazienti, tutti con delle pene da scontare, ma a differenza del carcere vero e proprio con i relativi permessi possono uscire a fare attività e hanno una relativa maggiore libertà. Con alcuni di loro siamo diventati amici, chiacchieriamo, cuciniamo insieme, prendiamo il caffè e facciamo sfide a biliardino. Li osservo, ogni tanto scatto, a volte quasi anticipando un loro gesto, altre volte fermandomi nei loro sguardi. Con Guido, Gianpaolo, Valerio, Fabrizio Mosè e con tutti gli altri costruiamo la loro storia giorno per giorno, insieme. Ho sempre pensato che un progetto fotografico non sia solo di chi fotografa e che per raggiungere una profondità nell’immagine c’è bisogno di un lavoro collettivo, fatto dai pazienti ma anche dagli psichiatri, psicologi, dagli operatori, da chi mi ha permesso di entrare in luoghi interdetti ai fotografi. Negli ultimi mesi sono rientrato in carcere, di nuovo, questa volta per raccontare chi ha problemi psichici ed è rinchiuso. Sono entrato nel carcere di Pescara, a San Vittore a Milano, a Rebibbia e Regina Coeli a Roma. In quasi tutte le carceri ci sono dei cosiddetti “repartini” che ospitano una decina di pazienti. Molti di loro sono segregati in celle singole o massimo di due persone. Ci sono però decine di pazienti psichiatrici che vivono insieme ai detenuti comuni, in cella con loro. Qui la comunicazione è stata più difficile, l’aggressività era in alcuni casi esasperata e senza possibilità di dialogo. Scattavo spostandomi velocemente, avevo come la percezione di dover essere rapido, di entrare direttamente, un po’ come avevo fatto tanti anni prima raccontando le carceri sudamericane. I loro occhi avevano più rabbia e i gesti non seguivano il ritmo che avevo conosciuto lungo tutti questi anni nei luoghi della follia in Italia ma anche in Africa. Ora, verso la fine di questo viaggio nella malattia mentale, che è il grande labirinto che sto attraversando nello sforzo di capire e di testimoniare, ho tante immagini che mi porto dentro, ma se chiudo gli occhi per un attimo mi arrivano gli occhi spalancati di Gennaro che si guarda allo specchio. Meno costi se assumi detenuti di Stefano Liburdi Il Tempo, 1 maggio 2022 Non solo vantaggi economici ma anche valore sociale per dare opportunità a chi sconta la pena. Con la Legge Smuraglia sgravi contributivi fino all’80% alle cooperative e crediti di imposta anche alle imprese che impiegano i reclusi. Abbattere il costo del lavoro compiendo un’azione di grande valenza sociale. Grazie a una legge che in pochi conoscono, imprese e cooperative possono beneficiare di crediti d’imposta e sgravi contributivi se svolgono attività formativa o assumono detenuti. Da parte loro, le presone private della libertà, vedono attuarsi, in questa nuova possibilità che la vita offre loro, il dettato dell’articolo 27 della nostra Costituzione, dove dice che la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento del detenuto. La legge in questione è quella del 22 giugno 2000, n° 193 “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”, meglio conosciuta (poco) come “Legge Smuraglia”. Alle imprese che “assumono lavoratori dipendenti che risultano detenuti o internati presso istituti penitenziari ovvero sono ammessi al lavoro all’esterno, è concesso un credito mensile di imposta pari a 516,46 euro per ogni lavoratore assunto, in misura proporzionale alle giornate di lavoro prestate”, recita il testo. Nel caso in cui il detenuto venga assunto con contratto di lavoro a tempo parziale, “il credito d’imposta spetta in misura proporzionale alle ore prestate”. Inoltre il diritto ad applicare gli sgravi fiscali rimane anche per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione. Per le cooperative è anche prevista la riduzione dell’80% dei contributi per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale. Condizione necessaria per usufruire delle agevolazioni è che “le imprese assumano i detenuti ammessi al lavoro all’esterno, con contratto di lavoro subordinato per un periodo non inferiore ai 30 giorni e corrispondano un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro”. Dare formazione e offrire lavoro a chi ha sbagliato, è un’occasione imprenditoriale e una sfida sociale. Inoltre il detenuto arrivato a fine pena una volta reinserito nella società, difficilmente tornerà a delinquere e sarà così abbattuto il fenomeno della “recidiva”. I numeri dicono infatti che a tornare nell’illegalità sono circa l’80% dei reclusi che hanno scontato la loro pena interamente in carcere. Purtroppo ad oggi i detenuti con un lavoro e un salario sono solo il 35% della popolazione carceraria e di questi quasi il 90% presta servizio per l’Amministrazione Penitenziaria. “Andando in giro negli esercizi commerciali e nelle attività per chiedere se avessero bisogno di lavoratori e proponendo i detenuti, con mio grande stupore ho scoperto che la totalità degli imprenditori contattati non conosceva la Legge Smuraglia”. A parlare è Flavia Filippi, giornalista al Tg La 7 che ha dato vita a “Seconda Chance”, un progetto di volontariato che, su incarico del Provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise Carmelo Cantone, si occupa di promuovere questa Legge. “Perché chi è privato della libertà e sta scontando la sua pena, ha diritto a una nuova possibilità”. In pochi mesi sono già una quarantina i detenuti che lavorano in un’impresa o sono prossimi a farlo, frutto dell’interesse di importanti aziende della Capitale. Tra loro, solo per citarne alcune, i ristoranti “Porto”, “L’antica pizzeria da Michele”, “Residenze Argileto” al rione Monti, il circolo sportivo “Villa York”, “Botw” che organizza eventi e concerti tra cui quello di Vasco Rossi in programma a giugno a Circo Massimo, il ristorante “Uniq”, “Le Serre by ViVi”, 1l’“Osteria degli Avvocati”, il centro stampa e grafica “Pioda Imaging”, il ristorante “Mediterraneo “ all’interno del museo MAXXI, l’azienda agricola “Tre Colli” di Montelibretti e la ditta edile “Mirmat Service”. “Seconda Chance” opera perlopiù nel carcere di Velletri e a Rebibbia Nuovo Complesso dove ha trovato il fondamentale contributo della direttrice Rosella Santoro, dell’ispettrice Cinzia Silvano, della responsabile dell’area educativa Pina Boi, degli assistenti e delle educatrici. Grazie a questo lavoro di squadra, quando un imprenditore fa richiesta di assunzione, vengono selezionati i detenuti. La scelta è tra quelli con le caratteristiche necessarie e che hanno completato il percorso interiore grazie al quale la persona ha abbandonato la cultura criminale con cui era entrata nel penitenziario, a favore della cultura della legalità. A Rebibbia N.C. una volta a settimana entrano imprenditori legati all’edilizia, alla grafica, alla ristorazione, all’agricoltura. Una volta individuata la persona “giusta” per il lavoro richiesto, il carcere fa richiesta al Magistrato di sorveglianza che valuta la fattibilità dell’operazione. In caso di risposta positiva viene stipulato un accordo tra Amministrazione penitenziaria e azienda. Il detenuto inizia a lavorare e riceverà lo stipendio sul proprio conto corrente collegato al carcere. Generalmente, tra il colloquio e l’inizio della prestazione, trascorrono circa due mesi. Avere del denaro a propria disposizione, permette al recluso di affrancarsi economicamente dalla famiglia e riconquistare una parte della sua dignità. “I colloqui sono emozionanti - spiega la Filippi - Per i detenuti è un momento troppo importante. Arrivano tesi, con la fronte sudata. Qualcuno non ha dormito la notte. Si capisce che si sono vestiti bene per l’occasione”. La difficoltà più grande che la giornalista deve spesso affrontare è il pregiudizio di chi avvicina: “Il mio girare è un vero “porta a porta”. Ma ogni 30 imprenditori che mi dicono di no, incontro una persona meravigliosa che mi dice “perché no”. Questo mi ripaga di tutte le porte in faccia prese in precedenza”. La seconda chance di Lorena Crisafulli L’Osservatore Romano, 1 maggio 2022 Se in Italia l’accesso al mercato del lavoro si fa sempre più complesso anche per i giovani in cerca di prima occupazione, per un detenuto che sta finendo di scontare la sua pena lo è ancor di più, in quanto implica il superamento di barriere e pregiudizi dovuti alla sua condizione. Così, Flavia Filippi, cronista giudiziaria del Tg Lai, da sempre a contatto con la realtà penitenziaria, ha pensato di avviare l’iniziativa di inclusione sociale “Seconda Chance”. ““Grazie al mio lavoro mi sono resa conto che in carcere finiscono spesso persone sfortunate che non hanno avuto la possibilità di scegliere altre strade o l’avvocato giusto. Volevo in qualche modo rendermi utile e ho chiesto a Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti dei detenuti di Roma Capitale, di accompagnarmi da Carmelo Cantone, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, per illustrargli il mio progetto di promozione della legge “Smuraglia” - ci spiega Flavia Filippi. E così, il 27 gennaio 2021, il Giorno della Memoria, è partito tutto”. La legge n. 193 del 2000, cosiddetta “Smuraglia”, recante “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”, consente sgravi contributivi e fiscali in favore d’imprese e cooperative che impieghino detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno, in virtù dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario. La riapertura di ristoranti e attività legate alla gastronomia nel periodo successivo al lockdown ha incrementato notevolmente la richiesta di pasticcieri, cuochi, lavapiatti e camerieri, consentendo al progetto “Seconda Chance” di trovare un terreno più fertile rispetto agli esordi. “A causa della pandemia e del conseguente stallo economico, un anno fa era più difficile trovare riscontro tra gli imprenditori, ma grazie alla ripresa qualcosa si è mosso e abbiamo iniziato a siglare i primi protocolli d’intesa con il Consiglio Nazionale delle ricerche, con l’Associazione nazionale costruttori edili, con l’Unione artigiani italiani, con l’Associazione nazionale comuni italiani, con l’Agenzia per il Lavoro Orienta”. Hanno aderito favorevolmente al progetto anche realtà pubbliche come l’Istituto Superiore di Sanità dove, con il contributo del direttore generale Andrea Piccioli, sono stati assunti per un anno a partire da novembre tre uomini detenuti nel carcere di Rebibbia: Gennaro, Pasquale e Antonello. Inizialmente impiegati nella falegnameria storica dell’Istituto, oggi svolgono diversi lavori di riparazione e manutenzione all’interno e all’esterno dell’edificio. “Hanno verniciato le strisce dei parcheggi per i motorini e presto si occuperanno di restaurare la sirena d’allarme di San Lorenzo che suonò prima del bombardamento del luglio 1944 - ci racconta la giornalista. Dal momento in cui ho avviato questo progetto, ho ricevuto parecchi rifiuti da parte di titolari che preferivano non assumere detenuti, a volte è stato frustrante. Durante i colloqui a Rebibbia, vedo le mani di questi ragazzi aggrovigliarsi nella speranza di ricevere un sì e se il feedback è negativo, la delusione è maggiore perché penso a tutte le aspettative che hanno riposto nella possibilità di avere la loro seconda chance. Ma per fortuna arrivano anche risposte positive che mi ripagano dell’impegno e degli sforzi profusi, come quella di Alessandro Cantagallo, proprietario di un ristorante all’interno dello spazio del museo Maxxidi Roma, che ha richiesto diverse figure: un elettricista, un idraulico, un manutentore, un aiuto cuoco, un runner e due addetti alle pulizie”. Alcune resistenze da parte degli imprenditori sono legate al tipo di reato che i detenuti hanno commesso e al timore di una recidiva. Molti di questi uomini, infatti, si trovano in carcere per spaccio di stupefacenti o sono ex tossicodipendenti, alcuni alla fine del percorso detentivo, altri con diversi anni da scontare. “Provengono da quartieri periferici della Capitale, Tor Bella Monaca, Torre Gaia, Ottavia, Fidene, e il fattore che li accomuna è la volontà di dimostrare di essere cambiati, di aver compreso i propri errori. Hanno tutti una gran voglia di riscatto. Alcuni hanno già usufruito di permessi premio, altri hanno lavorato in carcere presso la scuola di polizia penitenziaria o al bar degli agenti di custodia. Non vengono scelti a caso, c’è un’attenta selezione da parte dell’amministrazione penitenziaria a cui comunico le figure professionali per le quali ho ricevuto richiesta dall’esterno. Solitamente si organizzano i colloqui a Rebibbia, dove l’ispettore Cinzia Silvano e le educatrici, guidate da Giuseppina Boi, individuano i detenuti potenzialmente corrispondenti ai profili ricercati. Il motore di tutto è Rosella Santoro, direttore del nuovo complesso di Rebibbia, che sin dall’inizio ha accolto favorevolmente la mia iniziativa - spiega la promotrice di “Seconda Chance”. A ogni singolo detenuto viene fatto un colloquio sulle sue competenze, successivamente l’ispettore descrive all’imprenditore le caratteristiche peculiari della persona e il reato che ha commesso se lui non lo ha menzionato in precedenza. Io prendo appunti a penna, non si può portare altro, e a casa elaboro al computer le schede da inviare alle diverse aziende. Sono loro stesse poi a inoltrare all’amministrazione penitenziaria una richiesta formale contenente le mansioni che dovranno svolgere i detenuti e gli orari di lavoro. Trascorsi all’incirca due mesi, quando il magistrato di sorveglianza dà parere positivo, la persona selezionata va a lavorare presso l’azienda. Ogni detenuto e imprenditore sono diversi, ma quando si crea empatia tra di loro è davvero stupendo”. La legge “Smuraglia” prevede che le imprese debbano assumere detenuti o internati negli istituti penitenziari, lavoranti all’esterno del carcere ai sensi dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario o semiliberi, con contratto di lavoro subordinato per un periodo non inferiore a 30 giorni e corrispondere un trattamento retributivo non inferiore a quanto previsto dalla normativa vigente per il lavoro carcerario, stipulando un’apposita convenzione con la Direzione dell’istituto penitenziario dove si trovano i lavoratori assunti. “L’iter è particolarmente controllato e la scelta ricade su uomini altamente affidabili, a cui si dà questa possibilità dopo un percorso ad hoc attraverso il quale uno staff di educatori e psicologi li segue e li indirizza” precisa Flavia Filippi. Occorre sottolineare che a beneficiare di questo progetto non sono soltanto i detenuti che trovano un’occupazione, allontanando il rischio di una ricaduta post detenzione, ma anche le imprese che hanno l’opportunità di abbattere notevolmente i costi del lavoro. “L’idea è quella di espandere questo progetto anche al di fuori dei confini di Rebibbia. Ad esempio, nel carcere di Velletri, dove molti hanno frequentato l’istituto alberghiero, ho contattato la direttrice per selezionare un detenuto che possa lavorare all’interno dell’Ente Parco Nazionale del Circeo dove il presidente M arzano ha bisogno di un operaio”, spiega la giornalista. Tra coloro che ha aiutato il progetto “Seconda Chance” c’è anche una donna, scarcerata nell’ottobre scorso, che può finalmente recuperare la patria potestà sulle due figlie grazie al suo nuovo lavoro a tempo indeterminato presso una ditta di pulizie. “Trovarle un’occupazione è stato più arduo perché la legge “Smuraglia” prevede agevolazioni fiscali a favore delle aziende che assumono detenuti, non gli ex, ma dopo vari tentativi ce l’abbiamo fatta”. La sensibilità e la perseveranza di Flavia Filippi nel realizzare la sua idea di una “Seconda Chance” conferma l’importanza di avviare iniziative come questa, il cui valore risiede non solo nell’opportunità di riscatto sociale offerta a persone svantaggiate, ma anche nella promozione di un modello di società civile dove la funzione rieducativa della pena detentiva, sancita dall’articolo 27 della Costituzione, ha la possibilità di trovare concreta applicazione. Laureato in cella: quindi pericoloso. E il giudice gli nega i domiciliari di Mauro Palma* L’Espresso, 1 maggio 2022 Il paradosso di un detenuto di Bologna rivela quanto sia poco considerata l’istruzione come strumento di reinserimento sociale. La laurea conseguita durante la detenzione e la frequentazione di un master per giurista di impresa, ove si consideri la sua personalità per come emerge dalle relazioni di sintesi, si ritiene possano aver affinato le sue indiscusse capacità e gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico, che possono essere svolte anche se ristretto in detenzione domiciliare”. Questa frase compare, nero su bianco, nella motivazione, da parte di un tribunale di sorveglianza, del rigetto di una istanza di differimento della pena per motivi di salute o, in via subalterna, di detenzione domiciliare. Erano i primi giorni di chiusura del 2020, quelli dell’ansia della diffusione del virus, particolarmente sentita nei diversi luoghi di privazione della libertà personale e soprattutto in carcere. Il detenuto aveva richiesto tale misura sulla base di un’asserita situazione di fragilità sanitaria che lo rendeva particolarmente esposto alle conseguenze di un eventuale contagio. Non interessa qui la sussistenza o meno di tali presupposti, né voglio avanzare alcun giudizio circa la decisione del magistrato: non è questo il tema. Ciò che fa invece sobbalzare sulla sedia è che in un provvedimento di un tribunale di sorveglianza di una città detta la Dotta, quale è Bologna, si legga che gli studi universitari, la laurea e addirittura il post-laurea possano essere fattori potenzialmente pericolosi in grado dì affinare la capacità criminale della persona detenuta. L’istruzione, la cultura, quindi, non come elementi di concretezza per quel percorso che dovrebbe rispondere alla finalità delle pene, come indica la nostra Carta. No, vengono qui interpretate come elementi di una possibile accresciuta capacità di commettere reati. Questo aspetto ci interroga perché estensivamente potrebbe applicarsi anche al di fuori del carcere: maggiore l’istruzione, più raffinata la possibilità di delinquere, soprattutto in alcuni ambiti di attività, come appunto quelle legate all’economia. Da qui, la necessaria indignazione, che ha coinvolto il Dipartimento universitario dove il giovane detenuto ha studiato, giuristi e docenti e che ha portato il Presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, a presentare, insieme alla avvocata Francesca Cancellaro, ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Per violazione dell’articolo 2 del primo protocollo integrativo della Convenzione che prevede il diritto allo studio, e di altri articoli importanti per gli effetti che tale affermazione può determinare in chi ha impostato il proprio percorso di detenzione in termini di riscatto, anche attraverso lo studio per un futuro positivo reinserimento nella società. Dietro c’è il persistere di una impostazione culturale (e ideologica) che non investe realmente sull’istruzione quale veicolo di un ritorno positivo alla collettività, ma che vede l’accesso allo studio come una sorta di privilegio e la presenza in carcere di una istituzione universitaria quale un ospite, anche gradito, ma mai compartecipe a tutti gli effetti di un progetto di positiva esecuzione penale. Invece ci sarebbe bisogno di un investimento massiccio proprio sull’istruzione: è vero in carcere ci sono più di milleduecento detenuti che frequentano l’università - e questo è un dato positivo - ma ce ne sono quasi altrettanti analfabeti e più di cinquemila che non superano il livello di istruzione elementare. Un dato che richiama la responsabilità anche di chi si esprime in quei termini sul “pericolo” rappresentato dall’impegno nello studio. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Stragi: le risposte che non avremo di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2022 Se l’ergastolo “riformato” tratta allo stesso modo i boss che collaborano e gli stragisti irriducibili, chi può avere ancora interesse a far luce sui punti oscuri di quella stagione? Il rischio è favorire l’omertà. Chi erano i personaggi che chiesero a Riina di organizzare in fretta e furia la strage di via D’Amelio prima che Borsellino potesse mettere a verbale dichiarazioni che avrebbero rivelato l’esistenza del complesso piano di destabilizzazione politica sotteso alle stragi, compromettendo alcuni mandanti eccellenti? Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare? Chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha dichiarato Spatuzza, presenziò alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 utilizzata per la strage del 19 luglio 1992? Chi erano gli uomini degli apparati statali presenti in via D’Amelio prima dell’arrivo delle forze di polizia, che fecero fare sparire l’agenda rossa su cui Borsellino aveva annotato informazioni e rivelazioni che non dovevano venire a conoscenza della magistratura? Si potrebbe continuare con decine di altre domande a cui in 30 anni gli irriducibili all’ergastolo han deciso di non rispondere e che realisticamente, appaiono destinate a restare senza risposta. La gravità delle ricadute negative per l’intera società civile dell’imminente approvazione della riforma dell’ergastolo ostativo impongono un supplemento di riflessione su un grande “rimosso”, riemerso alla luce grazie alla cartina di tornasole della vicenda Spatuzza. Posto che neppure la collaborazione con la giustizia basta a dimostrare il sicuro ravvedimento del condannato all’ergastolo, dovendosi valutare altri complessi fattori, come si ritiene conciliabile col ravvedimento il rifiuto di collaborare degli irriducibili? Quali sono le motivazioni soggettive del rifiuto di collaborare apprezzabili al punto da ritenerle probanti di un ravvedimento? La Consulta ha rimesso la palla al legislatore limitandosi, nelle 23 pagine della corposa motivazione dell’ordinanza n. 97/2021, solo a fugaci accenni esemplificativi di casi in cui la scelta di non collaborare può essere determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali. E ha indicato a titolo esemplificativo il caso in cui il condannato non può collaborare per non mettere a rischio la sicurezza dei propri cari. Ma è un esempio non pertinente alla rieducazione: ove sia oggettivamente accertata l’impossibilità dello Stato di assicurare la sicurezza dei familiari del condannato, perché sono tanti o rifiutano di sradicarsi dal territorio d’origine, si configura una causa oggettiva di inesigibilità della collaborazione. L’articolo 4 bis comma 1 bis dell’Ordinamento penitenziario vigente già prevede che nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione, il condannato all’ergastolo per reati ostativi può essere ammesso alle misure alternative alla detenzione anche in assenza di collaborazione, purché sia accertata la cessazione della sua pericolosità. La Corte avrebbe potuto quindi limitarsi a un mero intervento di ortopedia costituzionale, includendo anche il caso sopracitato tra quelli già previsti di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione, senza dissestare l’impianto portante dell’intera normativa. Ancora la Corte, per argomentare che la mancata collaborazione può essere motivata da ragioni diverse dalla persistenza di un legame con l’associazione mafiosa, accenna alla motivazione soggettiva di non esporsi al rischio di auto-incriminarsi, anche per fatti non ancora giudicati. Ma anche tale esempio non è pertinente alla rieducazione: il diritto al silenzio per evitare auto-incriminazioni è parimenti riconosciuto sia al condannato rimasto legato alla organizzazione mafiosa, sia a quello che pur non collaborando ha deciso di rescindere i legami per valutazioni utilitaristiche, sia a chi ha deciso di collaborare non avendo da riferire ulteriori fatti auto-incriminanti oltre a quelli già giudicati. Per analoghe ragioni non è pertinente alla rieducazione il rifiuto di accusare congiunti o persone legate da vincoli affettivi. Resta dunque insoluto il quesito iniziale: quali sono le motivazioni soggettive della non collaborazione compatibili e coerenti con il sicuro ravvedimento? È un quesito ineludibile, visto che la Corte di Cassazione ha specificato che alla formulazione di un giudizio positivo di ravvedimento si deve pervenire “in termini di certezza, ovvero di elevata qualificata probabilità confinante con la certezza” (sentenze n. 18022/ 2007 e 9001/2009). Ancora una volta il caso Spatuzza docet sul rigore di tale valutazione. La Corte Costituzionale non si è fatta carico di fornire indicazioni al riguardo ritenendo che esulasse dai suoi compiti e ha espressamente devoluto al legislatore il compito di integrare la norma sulla liberazione condizionale. Al riguardo ha suggerito di prevedere, per esempio, che il condannato debba motivare le specifiche ragioni del rifiuto di collaborare, in modo tale che il Tribunale di Sorveglianza possa trarne importanti elementi per valutare la sussistenza o meno del sicuro ravvedimento. Nonostante tale esplicito invito della Corte, il legislatore ha glissato passando a sua volta la palla ai Tribunali di Sorveglianza. Il testo approvato in Commissione Giustizia si limita infatti ad accennare che i magistrati di sorveglianza potranno tener conto delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione: l’avverbio “eventualmente” autorizza e legittima l’irriducibile a mantenere il silenzio anche sulle motivazioni della mancata collaborazione come se fossero superflue; e lascia carta bianca ai magistrati di sorveglianza nel decidere quali motivazioni soggettive del rifiuto di collaborare siano meritevoli di positivo apprezzamento per provare la rieducazione, incrementando così il rischio di soggettivismi interpretativi e di contrasti giurisprudenziali esiziali, viste l’estrema delicatezza e rilevanza della questione. Esempio: il rifiuto di collaborare dell’irriducibile che ritiene che ciò che conta è pentirsi dinanzi a Dio e non agli uomini, è indice di avvenuto e sicuro ravvedimento, visto l’elevatissimo numero di mafiosi assidui lettori della Bibbia tra un omicidio e l’altro (tra i quali tanti capi carismatici come Greco, Aglieri, Santapaola, Provenzano)? E il rifiuto di collaborare di chi ritiene la collaborazione un’infamità è conciliabile con il ravvedimento? Si consideri poi la sovraesposizione a rischio dei magistrati di sorveglianza, ai quali nel disimpegno del legislatore su temi cruciali viene attribuito una sorta di surrettizio potere di grazia. Certo è che i cittadini italiani a tutt’oggi non hanno avuto la fortuna di avere spiegato né dalla Consulta, né dal Parlamento, né dai tanti commentatori intervenuti nel dibattito, in quali casi sarà ritenuto che l’irriducibile è stato rieducato nonostante il pervicace rifiuto di collaborare. A cosa si deve tale fragoroso e prolungato silenzio? Forse al fatto che, dopo che la Corte Costituzionale ha aperto il vaso di Pandora della riforma, i nodi sono venuti al pettine e ci si rende conto della difficoltà di conciliare rieducazione e rifiuto di collaborare? Forse all’imbarazzo di dovere ammettere che - al di là delle migliori intenzioni di tanti - s’è aperta una falla che potrebbe condurre alla normalizzazione della cultura dell’omertà? Quella cultura che bolla come infame chi tradisce il codice di solidarietà al clan sociale di appartenenza accusando i suoi complici, e non ritiene infame invece chi col suo silenzio non prova alcuna ripulsa morale a consentire ai sodali di continuare a uccidere, a estorcere, a seminare violenza. Una cultura che travalica le associazioni mafiose e la classe criminale ed è purtroppo ampiamente e trasversalmente disseminata anche nei piani alti della piramide sociale, da sempre ostili al fenomeno della collaborazione. Piani alti che non hanno battuto ciglio quando proprio in questi giorni un’autorevole commentatrice di un giornale nazionale ha testualmente definito il pentimento “umiliazione e tradimento… un prezzo molto alto se non sei un mercenario dentro di te”. Domani ad Assisi il via al IV convegno nazionale dei cappellani delle carceri agensir.it, 1 maggio 2022 “Cercatori instancabili di ciò che è perduto”. È il tema del IV convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale penitenziaria, che si svolgerà all’Hotel Domus Pacis di Assisi, dal 2 al 4 maggio. “E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre”: questo versetto del Vangelo di Giovanni (10,16) fa da sottotitolo. I lavori iniziano lunedì alle 15. Dopi i saluti di Stefania Proietti, sindaco di Assisi, Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, è prevista la relazione di Marta Cartabia, ministro della Giustizia. Seguirà la celebrazione del Vespro con la lectio divina su “Parabola del Padre misericordioso” affidata a don Matteo Mioni, cappellano Reggio Emilia II.PP. A concludere la giornata la celebrazione eucaristica presso la basilica di Santa Maria degli Angeli, presieduta da mons. Stefano Russo, segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Martedì, dopo le lodi mattutine, interverrà il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, con una relazione su “La funzione del garante nella difesa della dignità e dei diritti della persona”. La mattinata si concluderà con le testimonianze di alcuni ristretti, Nel pomeriggio i lavori proseguono in laboratori su vari temi: “Stranieri”, “Disagio mentale”, “Ergastolo”, “Criminalità organizzata”, “Sex offender”, “Minori”. Dopo i vespri la celebrazione eucaristica presso la basilica di Santa Maria degli Angeli, presieduta da mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e di Foligno. Concluderà la giornata il Rosario per la pace con la Croce della Misericordia; partenza dall’Hotel verso la basilica di Santa Maria degli Angeli. Mercoledì, dopo le lodi mattutine, la relazione “La Chiesa in carcere, il cammino sinodale e il rapporto con il territorio”, a cura di don Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi. Seguiranno alcuni interventi in aula e la testimonianza del commissario di Polizia penitenziaria Amerigo Fusco. La sintesi dei lavori di gruppo sarà affidata a don Raffaele Grimaldi. Concluderà il convegno nazionale la celebrazione eucaristica presso la basilica di Santa Maria degli Angeli, presieduta dal card. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna. Anm, sì allo sciopero dei magistrati contro la riforma del Csm: “Vogliamo essere ascoltati” di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 1 maggio 2022 L’agitazione si terrà entro il 20 maggio, a ridosso del voto sulla legge a palazzo Madama. I voti sono stati 1.081 a favore, 169 contrari e 13 astenuti, su un totale di 1.423 iscritti. Una giornata di sciopero dei magistrati italiani contro la riforma del Csm. Che molto probabilmente si terrà a ridosso del voto sulla legge a palazzo Madama. Voto che dovrebbe cadere entro il 20 maggio in modo da poter applicare le nuove disposizioni alle elezioni per il rinnovo della componente togata del prossimo Consiglio che scade a luglio. A votare sì allo sciopero, dopo una lunga assemblea durata oltre otto ore e moltissimi interventi, è una folta rappresentanza di giudici che si sono ritrovati a Roma, nel complesso di Largo Angelico. Molti dei quali depositari delle deleghe consegnate dai colleghi durante le assemblee distrettuali che si sono svolte nei giorni scorsi. Complessivamente, parliamo di oltre duemila toghe che hanno espresso la loro volontà non solo di fare sciopero, ma anche di tenere una serie di assemblee per valutare soprattutto gli effetti che potrà avere la legge. Alla fine i voti sono stati 1.081 a favore, 169 contrari e 13 astenuti, su un totale di 1.423 iscritti. “Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati” si legge nel documento sottoscritto da tutti i gruppi, in cui si annunciano anche giornate di studio ad hoc sui futuri effetti della legge. E c’è anche la richiesta di un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per esporgli “le profonde inquietudini dei magistrati italiani sul pericolo che la riforma in esame pone al modello costituzionale di ordinamento giudiziario”. Nonché un ulteriore astensione se le risposte del governo non dovessero arrivare in alcun modo. Durissime, nel documento, le considerazioni sulla riforma. Nell’ordine, “aumenterà quell’ansia di carriera che tanto danno ha già fatto, e continuerà a fare”. Ancora: la richiesta che “i magistrati vengano valutati per la qualità del loro lavoro, e non soltanto per la quantità”. La previsione di “giudici impauriti dalle ripercussioni personali delle loro decisioni”. Nonché di pubblici ministeri “che sentono una condanna come una vittoria e un’assoluzione come una sconfitta”. Un quadro catastrofico che - secondo le toghe - deve essere cambiato. Da qui l’astensione dalle udienze, ma anche, d’accordo con gli avvocati, “una manifestazione pubblica, invitando tutti i cittadini e gli amministratori locali”. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia aveva aperto l’assemblea parlando di “una riforma che non servirà a migliorare il servizio, a diminuire anche solo di un giorno i tempi dei processi, sarà inutile e credo anche dannosa”. E ancora: “Un magistrato impaurito non sarà un miglior giudice. Il fascicolo stimola il sentimento impiegatizio dei magistrati” aveva detto tra gli applausi dei colleghi. E sui rapporti con la stampa Santalucia era stato netto: “Non è un diritto, ma è un dovere, è un momento di libertà, vogliamo una stampa e una magistratura indipendenti”. Subito dopo la proclamazione dello sciopero ecco Santalucia commentare così: “Non siamo contrari alle riforme, ma vogliamo una buona legge”. E ancora: “Lo sciopero sarà un’occasione per spiegare le ragioni del nostro dissenso su una riforma che speriamo sia emendata nelle storture che abbiamo rilevato. Lavoreremo per questo e chiediamo al Senato di riflettere su alcuni aspetti. Speriamo ci sia ancora tempo e per questo ci stiamo impegnando”. Il primo politico a intervenire è Catello Vitiello, il responsabile Giustizia di Italia viva e componente della commissione Giustizia della Camera. Iv si è astenuta sul voto della riforma. Dice Vitiello: “Il ruolo supplente della magistratura è stato colpa della politica. Non ho mai demonizzato le correnti e la politica giudiziaria. Ma le riforme non vanno fatte sull’onda della patologia. La magistratura ha un ruolo fondamentale, io credo nella sua indipendenza, ma non nella sua autoreferenzialità. Deve contare il merito, e non l’appartenenza. Sulle porte girevoli c’è stata un’incomprensibile disparità di trattamento tra fuori ruolo e toghe in politica, invece di decidere per tuti un periodo di decantazione e poi il rientro - osserva il responsabile Giustizia di Iv - Serve la parità tra giudici e avvocati, e se vale la parità delle armi, io toglierei qualcosa ai primi per darla ai secondi. Ma per avere la vera parità delle armi serve una riforma istituzionale con una separazione vera tra giudici e pm, a me piace il modello del Portogallo con due Csm”. Per Salvatore Casciaro, segretario generale di Anm, “Pensare di realizzare”, nel contesto in cui siamo, “una grande riforma, civile penale, dell’ordinamento giudiziario e del Csm, e di conseguire gli ambiziosi obiettivi del Pnrr, con abbattimento considerevole dei tempi dei processi, senza un coinvolgimento diretto, un ascolto reale e una piena condivisione e partecipazione delle categorie interessate (tutte: magistrati, avvocati e personale amministrativo), è, a mio avviso, un grave errore di metodo”. Casciaro ricorda che “un grande scrittore francese insignito del premio Nobel per la letteratura suggeriva in tempo di catastrofi “lo sforzo di dominare i propri risentimenti”. Questa riforma, nata in una difficile congiuntura, appare viziata proprio dal risentimento”. Molto applaudito anche l’intervento di Giovanni Tedesco, napoletano, già vicesegretario e noto esponente di Area, il quale con amara ironia sottolinea: “Noi non sforniamo pizze, lo dico col massimo rispetto di un fondamentale mestiere. Ma la giustizia non è la catena di montaggio delle pizze. E anche delle più semplici: solo marinare, neanche una capricciosa sarebbe consentita”. Ecco perché, sintetizza Tedesco, “la mia stella polare è uscire con una decisione unitaria: per me, spero che l’assemblea possa deliberare una giornata di astensione, per quanto indigeribile possa essere in astratto. Ma badate che in 35 anni solo due volte si è scioperato: è questa scelta, anche se non servirà a cambiare la riforma, resterà per la nostra coscienza, resterà nella storia associativa, nell’interesse dei cittadini”. Tedesco chiude ringraziando i politici presenti “tra l’altro l’unica vera occasione di confronto, non formale, l’abbiamo organizzata noi”. Una giornata di sciopero per una interlocuzione con il governo. Netta la richiesta di Giulia Bongiorno, noto avvocato penalista e la responsabile Giustizia della Lega. “La riforma va cambiata al Senato”. Dice Bongiorno: “Chi conosce la mia storia, sa che mi sono schierata a favore della magistratura in passato anche contro quella che allora era la mia parte politica. E adesso mi chiedo: che succederà al Senato? Questa riforma sarà cambiata? Per me le riforme devono incidere, altrimenti è meglio non farle. È meglio fare delle modifiche, perché le riforme non devono essere occasioni perdute. La riforma ha anche aspetti positivi, ma il limite è che non centra l’obiettivo, cioè la degenerazione del correntismo. Il sorteggio temperato avrebbe reciso il cordone ombellicale tra l’eletto e la corrente (applausi da Articolo 101, ndr). Ma la maggioranza al governo è estremamente eterogenea - continua Bongiorno - Questa riforma è blanda, non è incisiva, va migliorata al Senato perché adesso il tema politico è tra chi vuole cambiare la riforma e chi dice di no. Io vi chiedo, chi vorreste mandare al Csm che quando esce non abusa del suo mandato? Ma nella riforma non viene ridisegnato l’intero Csm. Oggi i miei clienti mi chiedono sempre “ma il giudice è di sinistra o di destra?” (si solleva una reazione di buuuhhhh dall’assemblea, ndr). Per me il problema esiste e va affrontato”. Affilata nei contenuti, molto garbata nei toni, la magistrata Paola Cervo, che - essendosi rivolta direttamente alla senatrice leghista Bongiorno - è stata lungamente applaudita. “Lei è la benvenuta, qui onorevole: perché il nostro dna è la giurisdizione. E la giurisdizione è il contraddittorio. Ma quello che lei diceva prima - un indagato si chiede ormai solo se un giudice è di destra o di sinistra - è davvero una frottola, ed è una frottola seminata già venti anni fa da un presidente del Consiglio. Il combinato disposto della pagellina e del disciplinare ci impedirebbe la libertà e l’autonomia che è il nostro dovere verso i cittadini. Voi, cara onorevole, dovreste scioperare con noi”. Enrico Costa, di Azione, difende il suo emendamento che introduce il fascicolo del magistrato, avversato dall’Anm come “pagellina”, che “spegne il coraggio del magistrato”. “Nessuna censura, nessuna schedatura. Forse siete voi che non vi fidate di voi stessi - dice provocatoriamente Costa - e non la politica che non si fida di voi”. Poi il deputato aggiunge: “Io penso che debba essere azzerato e che non sia fisiologia il numero di ingiuste detenzioni, o di processi nati morti - sottolinea Costa - ma se si mandano a o processo le persone che non ci devono andare, e se lo fa più volte sempre lo stesso magistrato, questo non va”. Costa tocca poi il tema della presunzione di innocenza, soffermandosi “sulla eccessiva esposizione dell’indagato: non ci si chiede mai”, alla fine di quel processo finito in un nonnulla, “se quell’indagato sia rimasto la stessa persona o se invece porti con sé una cicatrice non sanabile. E mi meraviglia che nel parere del Primo presidente di Cassazione si dica che la valutazione sull’interesse pubblico”, della notizia da divulgare, “poiché non è stata fissata” dalle norme “sia insindacabile”. Il segretario della corrente di sinistra delle toghe, Eugenio Albamonte di Area, si rivolge direttamente a Giulia Buongiorno: “La distinzione non è tra chi vuole riaprire la riforma al Senato e chi non vuole farlo, il problema è chi vuole riaprirla per rincarare la dose. Perché ci sono una serie di segnali che indicano l’intenzione di girare ancora di più il coltello nella piaga. Ricordo che la riforma originaria non suonava come una rivalsa della politica verso la magistratura, chiudendo definitivamente a vantaggio di una parte un conflitto che va avanti dal 1992”. Albamonte parla di “cannoni puntati verso di noi”. E alle affermazioni di Costa di Azione replica: “Quando si parla di ‘significative anomaliè non si dice nulla di concreto. La norma si applica a tutti, non solo ai pm, e produrrà appiattimento culturale e conformismo”. Poi Albamonte cita casi concreti in cui la magistratura ha preso decisioni del tutto innovative, come nel provvedimento sui rider, nell’inchiesta Cucchi, e in tutti gli interventi sulla coltivazione della cannabis per uso personale. Netta la critica sugli illeciti disciplinari previsti dalla riforma: “Si tratta di norme in bianco, come quella sugli atti rilevanti, o quella sulla presunzione di innocenza, per la quale mi chiedo chi stabilirà che cosa è di interesse pubblico, e in rapporto a quale realtà”. Anna Rossomando, senatrice e responsabile giustizia del Pd, tocca vari punti. “Per noi la guerra dei 30 anni tra politica e magistratura si è chiusa da tempo. Qualcuno magari ha pensato che fosse solo il secondo tempo di questo conflitto? Eh sì, magari e purtroppo qualcuno lo ha pensato, vagheggiato si, ma - analizza la senatrice dem - eravamo dentro una maggioranza molto composita, che ha comunque accettato di arrivare fino a un punto di condivisione, per stare dentro un recinto istituzionale”. Sulla legge elettorale del Csm: “Sono contenta di aver ottenuto un riequilibrio con un intervento proporzionale”. Sulla cosiddetta “pagellina”: “Non piace neanche a me il termine fascicolo della performance del magistrato”, ma non sono passate altre norme più dure, e non accettabili”. Sulla norma-silenziatore relativamente alla presunzione di innocenza e alle conferenze: “Io ricordo però anche il periodo in cui si proponeva perfino il silenzio totale su tutte le notizie per tutto il periodo delle indagini preliminari”. E infine, la senatrice assicura: “Faremo molta attenzione e vigileremo su decreti attuativi. Chiaro che non si può mantenere l’esistente. Ma un conto è lo scontro, un altro il confronto. Chiaro che non ci ispiriamo all’Ungheria - ironizza - come modello di separazione dei poteri dello Stato”. Da Giulia Sarti, responsabile Giustizia del M5S, un netto no all’ipotesi di riaprire la riforma del Csm al Senato. Dice Sarti: “Sull’hotel Champagne la magistratura ha dato le sue risposte, Palamara è fuori dalla magistratura e i consiglieri del Csm si sono dimessi. Ma Cosimo Maria Ferri invece resta al suo posto e il Parlamento ha respinto l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni”. Quanto al prossimo destino della legge nel passaggio al Senato, Sarti, in linea di principio e per quello che la riforma stessa contiene, dice che il M5S “sarebbe molto felice di riaprire la discussione, perché la soluzione data alla separazione delle funzioni non ci piace, il risultato non è quello iniziale del ddl Bonafede, dove erano previsti due passaggi possibili da pm a giudice”. Ma, dice Sarti, “se si riapre il dibattito al Senato, per i numeri che ci sono lì, ci sarà il tentativo di introdurre la responsabilità diretta dei magistrati e altre misure che finora siamo riusciti a evitare”. Perché Sarti avverte in Parlamento l’esistenza di “una voglia punitiva contro la magistratura” che potrebbe riemergere in pieno e quindi peggiorare ulteriormente la riforma. Botta-risposta polemico nell’assemblea delle toghe. Accade quando il presidente della riunione, Italo Federici di Unicost, parla del sorteggio e definisce “incostituzionale” questo sistema per eleggere il Csm. Immediata la reazione di Andrea Reale, esponente e animatore di Articolo 101, l’unico gruppo all’opposizione nella giunta dell’Anm e che da sempre ha chiesto invece proprio il sorteggio come metodo elettorale. “Sei il presidente dell’assemblea, devi essere su opere partes, non puoi dire così, non è vero che il sorteggio è incostituzionale”. Cartabia a distanza difende le toghe - “La nostra magistratura è un presidio del nostro vivere democratico”, dice Marta Cartabia, ministra della Giustizia, in un video messaggioinviato all’edizione 2022 di Extralibera’, in programma all’Auditorium di Roma, ‘Giornate di ControMafieCorruzione’, lanciata dall’Associazione Libera. La Guardasigilli ha deciso di non partecipare all’assemblea dell’Anm “per rispetto”. Cartabia invitata, non va all’assemblea - Il presidente delle toghe Giuseppe Santalucia ha recapitato direttamente alla ministra della Giustizia Marta Cartabia l’invito e altrettante lettere che sono state inviate ai responsabili Giustizia dei partiti. La Guardasigilli ha cortesemente declinato. Per “rispetto” nei confronti di un dibattito che necessariamente deve essere libero di criticare la futura legge, finora approvata dalla maggioranza solo in un ramo del Parlamento. La sua, avrebbe detto la stessa Cartabia, avrebbe potuto essere considerata “una presenza invadente”. Però la ministra ha comunicato alle toghe che per suo conto c’è il suo capo di gabinetto Raffaele Piccirillo, che in questi mesi ha seguito da presso tutto il cammino complesso e anche sofferto della riforma. Gli altri invitati - È arrivato un sì pieno invece dai responsabili Giustizia dei partiti che, anche in questo caso, con una lettera scritta recapitata già tra mercoledì e giovedì, sono stati invitati a partecipare all’assemblea - che si tiene stamattina a Roma in largo Angelico 1, a partire dalle 9 e trenta - dove possono essere presenti tutti i magistrati iscritti all’Anm, nonché i delegati delle varie assemblee che si sono svolte nei singoli palazzi di giustizia. Nella lettera, firmata da Santalucia, è scritto che “com’è noto, alcuni aspetti della riforma in itinere creano preoccupazione tra i magistrati ed è questa la ragione di un’assemblea generale che possa favorire il confronto e l’approfondimento delle questioni”. E ancora: “La magistratura associata, oggi come in passato, mette a disposizione della Politica il proprio contributo di idee, ricca dell’esperienza professionale di cui i magistrati italiani sono portatori, nella speranza di poter essere ascoltata”. Ma l’invito dell’Anm è giunto anche al presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, presente all’assemblea. Presenti la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando, quella del M5S Giulia Sarti, della Lega Giulia Bongiorno, di Azione Enrico Costa, di Italia viva Catello Vitiello. L’assemblea - che si è aperta verso le 11 con il discorso del presidente Santalucia dopo gli adempimenti burocratici - è programmata fino alle 18. A quell’ora si sa se le toghe hanno effettivamente votato per fare sciopero contro la riforma di Cartabia e del governo Draghi. Del resto è escluso, a questo punto della riforma, che possano essere introdotte delle correzioni al Senato, anche se Lega e Italia viva ci sperano. Ma la prospettiva della fiducia è quella più scontata. Riforma del Csm, l’Anm proclama lo sciopero di Valentina Stella Il Dubbio, 1 maggio 2022 L’obiettivo sarebbe quello di astenersi dai processi nel giorno stesso in cui la riforma approderà nell’Aula di Palazzo Madama. L’Assemblea generale dell’Anm ha deciso: lo sciopero contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario si farà. Spetterà ora alla Giunta esecutiva centrale stabilire il prima possibile la data. Per farlo bisognerà prima conoscere il calendario dei lavori del Senato: l’obiettivo sarebbe quello di astenersi dai processi nel giorno stesso in cui la riforma approderà nell’Aula di Palazzo Madama, non quando inizieranno i lavori della Commissione Giustizia. Questa la sintesi della mozione unitaria approvata con 1081 voti favorevoli che prevede, tra l’altro, “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”. Come previsto dal Codice di autoregolamentazione dell’Anm, “la proclamazione dell’astensione dalle funzioni giurisdizionali sarà comunicata almeno dieci giorni prima dell’inizio, con indicazione della durata e delle motivazioni, alla presidenza del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia”. Non è passata invece la mozione dei 101 che immaginava “almeno tre giorni di astensione periodica fino alla modifica delle disposizioni che attentano all’indipendenza interna ed esterna della Magistratura”, così come è stato respinto l’emendamento di Stefano Celli che chiedeva di prevedere “la possibilità di revoca [dello sciopero] in caso di positivi riscontri” dall’interlocuzione con le forze politiche. Era stata presentata anche una terza mozione da Magistratura Democratica che poi è stata ritirata perché il blocco principale è stato inserito in quella unitaria. Come ci ha spiegato Stefano Musolino, segretario di Md, “siamo favorevoli alla giornata di astensione sole se prima verranno messe in atto le iniziative che abbiamo elencato”, tra cui l’organizzazione “in collaborazione con gli ordini forensi, i rappresentanti del personale amministrativo” di “una manifestazione pubblica, invitando alla stessa tutti i cittadini e gli amministratori locali”. La lunga giornata di lavori si era aperta con la relazione del Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che era terminata con una standing ovation da parte della platea. Gli applausi per il vertice dell’Anm sono stati molti durante la sua relazione, a significare l’insofferenza che interessa giovani e meno giovani magistrati. Per una occasione così importante ci si sarebbe aspettati molta più affluenza, invece ci sono stati 121 delegati, oltre 50 singoli, per un totale di 1423 votanti, numeri che sono sintomo di una stanchezza da parte della base, che ancora non si è riavvicinata allo spirito associativo dopo quanto emerso dallo scandalo Palamara. E dagli interventi che si sono alternati è mancata la proposta alternativa: dalle toghe è venuto fuori solo un anatema sulla riforma subemendata dopo il Consiglio dei ministri ma nessuna proposta alternativa, solo una pars destruens ma non una costruens. Considerato che si sta puntando molto sulla comunicazione ai cittadini per spiegare perché questa riforma è deleteria sarebbe stato interessante non assistere solo ad una autodifesa, ma conoscere concretamente le proposte tecniche alternative, probabilmente riservate solo ai tavoli di confronto politico. “Siamo consapevoli dell’importanza della riforma della giustizia ma vogliamo un’altra riforma”, ha esordito Santalucia, per poi passare ad elencare gli aspetti più critici della stessa: separazione delle funzioni, disciplinare, valutazioni professionali. Le prima due immediatamente precettive, la terza da sottoporre ai decreti attuativi. “Come ho detto agli amici avvocati, non capisco perché il pm non dovrebbe sperimentare la funzione giudicante. Si va verso un pm isolato, sempre più vicino alle forze di polizia”. E poi: “Non siamo eredi dello scontro politico giudiziario di Mani pulite. Ma vogliamo contribuire al dibattito pubblico e farci ascoltare dalla politica”. E in sala ad ascoltarlo in prima fila c’erano i responsabili giustizia dei partiti: la dem Anna Rossomando, Giulia Sarti del M5S, Enrico Costa di Azione, Catello Vitiello di Italia Viva, Giulia Bongiorno della Lega, ai quali Santalucia si è spesso rivolto direttamente per sottolineare le distorsioni della riforma dal punto di vista delle toghe. Da Forza Italia hanno fatto sapere di non essere stati invitati. La ministra Marta Cartabia era stata invitata ma come ha spiegato Santalucia “non sarà presente non per disattenzione né per disinteresse ma per rispetto”, considerato quello che è stata chiamata a decidere l’assemblea, “ma è fortissima la sua disponibilità al dialogo”. Tuttavia ha mandato il suo capo di gabinetto Piccirillo ad ascoltare i lavori. “Questa riforma non migliora il servizio e non velocizza i tempi della giustizia. Crea ulteriori adempimenti che saranno inevitabilmente burocratizzati”, ha proseguito Santalucia. Si tratta, ha spiegato, di una scelta “inutile e credo anche dannosa. Noi dobbiamo avere coraggio nelle decisioni e con questa riforma si spegne il coraggio”, riferendosi al fatto che nel fascicolo di valutazione verranno inseriti anche gli esiti degli affari. “Vogliamo resistere a un ingabbiamento nelle paure. State attenti, dico alla politica, perché un magistrato impaurito non sarà un miglior giudice. Così si sta solleticando il sentimento impiegatizio dei magistrati”, ha aggiunto Santalucia, tra gli applausi. È stata poi la volta dell’intervento del segretario Salvatore Casciaro: “Questa riforma, nata in una difficile congiuntura, appare viziata proprio dal risentimento. Nell’ultimo Comitato direttivo centrale del 19 aprile si è detto che è una riforma “contro” i magistrati non “per” i cittadini”. Per Casciaro, la riforma approvata alla Camera è “permeata da logiche aziendalistiche, che mira all’efficienza e pensa ai tribunali come a catene di montaggio, che forniscono, possibilmente in tempi rapidi, un prodotto, poco importa se sia o meno di qualità. Una riforma che altera profondamente il modello costituzionale di giudice. Si potenzia la figura del dirigente dell’ufficio, e, accogliendo alcuni suggerimenti, anche del Cnf, lo si trasforma nel court manager”. Critico sulla riforma anche Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente: “Questa riforma completa quella Castelli-Mastella, aumenterà l’ansia di carriera” e allontana l’ipotesi di un ritiro dello sciopero per aprire un dialogo in vista dei decreti attuativi: “È sbagliato l’intero impianto della riforma. Bisogna correggere ora le storture”. Molto attesi erano gli interventi dei politici per capire se c’era un margine di apertura al dialogo per modificare il testo al Senato, scongiurando così lo sciopero. Il primo parlamentare ad intervenire è stato Catello Vitiello: “Non ho mai demonizzato le correnti e la politica giudiziaria. Ma le riforme non vanno fatte sull’onda della patologia. La magistratura ha un ruolo fondamentale, io credo nella sua indipendenza, ma non nella sua autoreferenzialità. Deve contare il merito, e non l’appartenenza”. Verso la senatrice Giulia Bongiorno sono arrivati dei buu dalla sala quando ha detto che i suoi clienti le chiedono “se il giudice che mi andrà a giudicare è di destra o di sinistra”, per poi aggiungere: “Questa riforma è blanda, non è incisiva, va migliorata al Senato perché adesso il tema politico è tra chi vuole cambiare la riforma e chi dice di no”. W ha concluso: “Mi piacerebbe ricevere da voi idee costruttive. E se ci sono spunti utili sono pronta a portarli nelle sedi opportune”. Le ha risposto il leader di Area Eugenio Albamonte: “Qui il tema non è se riaprire o meno il dibattito in vista del Senato, ma chiedersi perché farlo? Per rincarare la dose? Per girare ancora il coltello nella ferita? Questa riforma per evitare l’appiattimento professionale rischia quello culturale”. E ha aggiunto: “Su di noi ci sono dei cannoni puntati”. Il vice segretario di Azione Enrico Costa ha preso di petto il tema tanto criticato dai magistrati e che è frutto della sua battaglia parlamentare, ossia il fascicolo di valutazione: “Qualcuno sostiene che esso c’era già ma non è vero, c’era la regola ma mancava lo strumento. Mi sarei aspettato la protesta sulle regole. Comunque non si tratta affatto di una schedatura”. E poi: “Le ingiuste detenzioni non sono fisiologiche, sono una patologia del sistema. Però lo Stato paga gli indennizzi ma non si volta indietro per capirne le cause”. Infine: “Dal 2010 ad oggi, su 644 azioni intraprese per responsabilità indiretta dei magistrati, ci sono state solo 8 condanne in dodici anni. Vi invito dunque a riflettere sulla drammatizzazione degli effetti rispetto alle riforme in campo”. Dopo il voto dell’Anm a favore dell’astensione ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Lo sciopero dei magistrati contro le valutazioni di professionalità è sbagliato e, se possibile, incrina ulteriormente la fiducia dei cittadini nei loro confronti. Era un finale già scritto, evidente di fronte ad una immotivata drammatizzazione quotidiana dei toni. Il Parlamento non si farà condizionare”. Mentre Anna Rossomando, senatrice e responsabile giustizia del Pd, precisando che “a noi piaceva il testo Cartabia così come approvato in Cdm”, ha assicurato: “Mon vedo il pericolo che voi state partecipando ma faremo molta attenzione e vigileremo su decreti attuativi. Chiaro che non si può mantenere l’esistente. Ma un conto è lo scontro, un altro il confronto”. Su una linea molto simile Giulia Sarti, responsabile Giustizia del M5S, che, quasi ponendosi alla opposizione della riforma appena approvata, ha spiegato così la sua ferma contrarietà alla riapertura del dibattito in Senato: “Noi saremmo molto disponibili a riaprire il dibattito ma per i numeri che ci sono lì, ci sarà il tentativo di introdurre la responsabilità diretta dei magistrati e altre misure che finora siamo riusciti a evitare. Qualcuno punterebbe ad annullare qualsiasi passaggio di funzioni”. Si è poi presa l’applauso della sala quando ha detto: “Sull’hotel Champagne la magistratura ha dato le sue risposte, Palamara è fuori dalla magistratura e i consiglieri del Csm si sono dimessi. Ma Cosimo Maria Ferri invece resta al suo posto e il Parlamento ha respinto l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni”. Tra gli ospiti anche Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali italiane, che ha fatto un intervento molto duro: “Come mai questo silenzio sul tema dei fuori ruolo? Io vi chiedo come mai questo vostro silenzio ostinato sul tema dei fuori ruolo, cioè un’unicità mondiale. Non esiste nessun altro Paese al mondo nel quale si formi un governo di qualsiasi colore e 200 magistrati vanno nell’Esecutivo”. E poi il punto criticato dalla sala: “Non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento più diffusamente proposte sui temi caldi e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni siano altre. Ma perché pretestuosità? Perché la riforma del fascicolo - ha aggiunto Caiazza -, che per il resto esiste, come ha ricordato bene Costa, con quegli stessi criteri, valutazione degli esiti, significa valutazione di che cosa è successo nei gradi successivi, oggi lo fate con le cause a campione o quelle proposte da voi, e nella riforma si intende acquisire l’intera attività del giudice. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le sentenze creative, le 20 sentenze creative, ovviamente, non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare, ci chiediamo con franchezza e con amicizia, questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è? O dobbiamo immaginare, ma questo sarebbe l’ultimo dei consessi dove questo può accadere, che si vogliano delle norme che esistono formalmente ma che non funzionano nel concreto, cioè quella direttiva del 2007 che prevede le valutazioni ma che non le fa”. E ha chiuso: “Come potete avere paura del vostro lavoro? Se noi pensiamo a un fascicolo con tutte le vostre sentenze, i provvedimenti, le ordinanze, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate”. “Li abbiamo ascoltati 7 volte. C’è stata mediazione vera, ora decide il Parlamento” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 maggio 2022 Il sottosegretario Sisto: esiste la separazione dei poteri. Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia: i magistrati sciopereranno contro la riforma, cosa ne pensa? “Lo trovo ingiusto”. Perché? “Perché l’Anm è stata ascoltata al ministero per ben sette volte, minoranze comprese. Poi il Parlamento decide. La legge, alla Camera è stata votata dall’85% delle forze politiche”. Ma non è ancora legge… “Manca il sì del Senato, certo. Ma visto il larghissimo consenso, mi sembra che la scelta di incrociare le braccia non sia in perfetta sintonia con la Costituzione (cito un guru come il presidente Gaetano Silvestri). All’articolo Dm prevede i giudici soggetti solo alla legge, ma, almeno quella, come tutti sono tenuti a rispettarla. Si chiama separazione dei poteri...”. Intende dire che è una scelta eversiva? “No, per carità. Né eversiva né illegittima. E ben consentito ad un sindacato di criticare. Ma l’Anm non è un sindacato qualsiasi e certo non può rimproverare alla ministra Cartabia la mancanza di dialogo”. L’Anm dice che non è protesta ma richiesta di ascolto… “C’è stato tempo per riflettere, seguito da un confronto plurimo. Ma poi, per la Costituzione, è solo il Parlamento che scrive le leggi”. Criticano soprattutto il fascicolo delle perfomance e la separazione delle funzioni... “Il fascicolo è lo strumento operativo di un criterio già presente. E molte mediazioni sono state fatte al ribasso. La legge elettorale del Csm, in tante proposte, prevedeva il sorteggio temperato. Sulla separazione delle funzioni c’era chi proponeva “passaggi zero”. Le porte girevoli prevedevano stop più incisivi e a più categorie. Sui fuori ruolo addirittura il testo Bonafede era stato più drastico. C’è stata una mediazione secondo me necessaria, prolungata, convinta: tutti hanno fatto un passo indietro, per fame, insieme, due avanti”. Mediazione vera? “Sì. Lo ha dimostrato l’Aula. A parte l’astensione di Italia viva la maggioranza è stata iper compatta. E la prova della mediazione è che per alcuni la riforma è del tutto buonista e insufficiente; per altri, come l’Anm, super aggressiva. La scelta del Parlamento sta evidentemente nel mezzo”. Lo sciopero può portare a modifiche del testo? “Non dipenderà certo dall’Anm. Il Parlamento ha i suoi meccanismi di decisione, ha la necessità e il dovere di andare avanti ed evitare che alle prossime votazioni del Csm vi sia il solo rischio di andare con l’attuale legge. Sarebbe una sconfitta della democrazia, non solo della politica”. Al Senato i voti potrebbero non essere compatti… “Le fibrillazioni su questi temi sono fisiologiche. Ma confido in una ulteriore prova di maturità dei gruppi di maggioranza”. Non pensa che sarebbe una sconfitta far passare una riforma che non piace a nessuno? “Quello che davvero conta, nel nostro sistema fondato sulla democrazia rappresentativa, è che la legge sia votata in Parlamento”. Ora ce lo chiede anche l’Europa: “Norme violate” di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2022 Non ci sono solo i magistrati italiani, direttamente interessati dalla riforma Cartabia. Preoccupazione per il testo che ora approderà al Senato è stata espressa anche dai colleghi europei. Quelli riuniti nell’assemblea europea dei magistrati (Eaj) che appena due giorni fa durante un meeting hanno stilato un comunicato dai toni forti, letto ieri in Assemblea dell’Anm (l’associazione nazionale magistrati) dal segretario generale Salvatore Casciaro. A riprova che anche a livello europeo ci sono timori per l’impatto che questa riforma potrà avere sul mondo delle toghe. “L’Eaj - è il comunicato dell’assemblea europea dei magistrati letto ieri in Anm - avverte coloro che promuovono i provvedimenti che le previste modifiche alla legge sull’Ordinamento Giudiziario che introduce, tra l’altro, un nuovo sistema di valutazione dei giudici e un fascicolo personale di performance per ogni giudice possono essere in contrasto con le norme europee e possono indebolire l’indipendenza del singolo giudice”. Il riferimento è alla proposta di Enrico Costa - parlamentare di Azione protagonista indiscusso di questa riforma - recepita da Marta Cartabia che prevede un fascicolo di valutazione dei pm con i risultati da loro conseguiti di tipo quantitativo e qualitativo. Per molte toghe è una schedatura: tot sentenze di condanna ribaltate in appello, ad esempio, peseranno sul giudizio del magistrato, con tanti saluti alla carriera. E anche ieri in Anm Casciaro (di Mi) proprio su questo punto ha parlato di una “riforma permeata da logiche aziendalistiche, che mira all’efficienza e pensa ai tribunali come a catene di montaggio, che forniscono, possibilmente in tempi rapidi, un prodotto, poco importa se sia o meno di qualità”. Oltre il fascicolo sui pm ci sono altri aspetti della riforma parecchio criticati in questi mesi dalla magistratura: come il sistema di elezioni del Csm o anche la possibilità nel caso del penale di un solo passaggio di funzione tra requirente e giudicante che deve avvenire entro i dieci anni dall’aggiudicazione della prima sede. L’allarme dunque è anche dei giudici europei che nel comunicato di due giorni fa hanno sottolineato: “Va evitata qualsiasi situazione che vedrebbe i giudici sottoposti a pressioni indebite o soggetti a influenze politiche. Allo stesso modo è importante che la posizione indipendente e l’efficienza ben consolidate della pubblica accusa non siano messe in pericolo”. A quanto scrivono, l’Eaj continuerà a seguire gli sviluppi della riforma Cartabia: “Analizzerà con attenzione gli emendamenti proposti e supporterà i colleghi italiani nel difendersi da ogni possibile degrado”. Chissà se la politica ignorerà gli allarmi delle toghe europee. Come ha già fatto nei lunghi mesi di proteste e critiche da parte dei magistrati, stavolta italiani. Pio La Torre e la legge che colpì la mafia di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 1 maggio 2022 Il modo migliore di onorare la memoria del politico ucciso nel 1982 è un efficiente piano di riutilizzo dei beni confiscati alle cosche. Il 30 aprile di 40 anni fa veniva ucciso dalla mafia, insieme all’amico e autista Rosario Di Salvo, il politico siciliano Pio La Torre. Dalla Chiesa, che ne era stato estimatore e amico, alla domanda di Giorgio Bocca: “Generale, perché fu ucciso il comunista Pio La Torre?”, rispose: “Per tutta la sua vita; ma, decisiva, la sua ultima proposta di legge”. Qualche “manina” aveva relegato la proposta in un remoto cassetto. Fu recuperata proprio dopo la morte di Dalla Chiesa (3 settembre 1982) per essere convertita - sull’onda dell’indignazione e ribellione degli italiani onesti - nella legge 646 del 13 settembre 1982, intitolata appunto a La Torre, oltre che al ministro Rognoni. Ed ecco che la mafia, di cui prima si negava spudoratamente l’ esistenza, è finalmente vietata e punita come reato associativo nell’articolo 416 bis del codice penale. Così dotando forze dell’ordine e magistratura di uno strumento di eccezionale importanza, senza del quale (parola di Falcone) pretendere di sconfiggere la mafia era come pensare di fermare un carrarmato con una cerbottana. Nello stesso tempo la proposta di La Torre (fatta propria dalla legge 646/82) inaugurava una “filosofia” ispirata alla necessità di affiancare alle indagini tradizionali interventi sulla accumulazione delle ricchezze derivanti dall’agire mafioso. Di qui i nuovi istituti del sequestro e della confisca dei beni appartenuti, direttamente o indirettamente, ai soggetti indiziati di far parte delle organizzazioni mafiose. Con obiettivi ben precisi. Non solo impedire che le risorse rimaste in possesso di tali soggetti alimentino altri crimini; non solo contrastare il riciclaggio che inquina l’economia legale e danneggia gli operatori onesti; ma anche indebolire in radice il potere e il prestigio delle cosche, posto che boss e picciotti temono sì di finire in galera, ma ancor più di perdere i “piccioli”, la ricchezza che è la spina dorsale (con la violenza e l’intimidazione) del loro potere. La legge La Torre ha poi innescato vari interventi legislativi. Una svolta, decisamente positiva per la sua originalità, si è avuta con la legge n. 109 del 1996, un’iniziativa popolare fortemente sostenuta da Luigi Ciotti e da “Libera” con la raccolta di un milione di firme: una spinta irresistibile che “costrinse” il Parlamento ad approvare la legge all’unanimità, introducendo il riutilizzo a fini sociali e/o istituzionali dei beni confiscati alle mafie. In questo modo - con la restituzione del “maltolto” - l’impegno antimafia ha assunto anche una forte valenza simbolica di compensazione (giustizia riparatoria) delle sofferenze inferte alla comunità. Aprendo nuove prospettive di sviluppo, dal momento che i beni sottratti ai mafiosi possono essere al centro di operazioni di rilancio economico. Tanto premesso, affinché il ricordo di Pio La Torre non sia solo celebrativo, occorre pure segnalare che le esperienze realizzate devono fare i conti con luci e ombre. Numerosi sono i casi positivi di beni destinati ad assistenza per anziani o per aggregazioni di giovani o per il recupero di tossicodipendenti, oppure sedi di forze dell’ordine; e di aziende, una volta in mano alle mafie, oggi gestite da cooperative che stanno sul mercato. Nello stesso tempo vi sono purtroppo - nella applicazione della legislazione in materia di sequestri e confische - tempi troppo lunghi e zone di grave ineffettività. Occorre essere impietosi nel giudizio e dire che si tratta di casi di sconfitta per lo Stato; anche per non lasciare tale legislazione esposta al rischio di essere travolta da critiche superficiali o interessate. Il modo migliore per fare memoria di Pio La Torre e delle altre vittime innocenti di mafia è mettere in campo efficienti piani di riutilizzo capaci di intercettare le risorse, in particolare del Pnrr, destinate alla valorizzazione di quanto lo Stato ha acquisito con le confische. Monitorando costantemente la situazione e mappando i bisogni (di uso sociale e/o istituzionale) dei vari territori. Se ai provvedimenti di confisca segue una lunga fase di abbandono, è probabile che molti potranno dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Non arginare questa sorta di “nostalgia del Faraone” equivarrebbe, di fatto, a svilire il sacrificio di Pio La torre e di tutte le altre vittime di mafia. Un inaccettabile tracollo dell’etica della responsabilità. Sicilia. Allarme nelle carceri: “È record di suicidi tra i detenuti” blogsicilia.it, 1 maggio 2022 Pino Apprendi commenta i dati di Antigone. “I dati della relazione di Antigone sulle carceri ci danno l’idea della incapacità dello Stato di applicare la Costituzione nei confronti delle persone che hanno perduto la libertà. Un aumento dei detenuti rispetto al 2020 e al 2022, oltre 1300 in più, 54.604 contro i 53.364 del 2020”. Lo dice Pino Apprendi dell’osservatorio carceri di Antigone e copresidente del comitato “Esistono i Diritti”. Apprendi inoltre pone l’accento su un dato particolare: quello dei suicidi. E sottolinea: “Un forte aumento di suicidi e atti di autolesionismo. Il dato in Sicilia è il più alto d’Italia, 5 casi in 4 mesi, con una popolazione carceraria di circa 5300 detenuti e 16 casi nel resto d’Italia con i rimanenti 49000 detenuti. Qualcosa non funziona”. Pino Apprendi, lunedì 2 maggio visiterà il carcere Bicocca di Catania. “Grazie al nostro intervento - aggiunge - la Regione Siciliana ha approvato le linee guida per la prevenzione al suicidio in carcere”. “Vengono applicati”. Ad inizio marzo manifestazione all’Ucciardione - E sullo stesso tema, ad inizio marzo, si è svolta una manifestazione per accendere i riflettori sulla necessità di attenzionare i diritti dei detenuti, troppo spesso lasciati soli nel proprio percorso di recupero sociale. Questo è il senso del sit-in di protesta, denominato “La Luce della Speranza”, organizzato dal gruppo politico della Nuova DC, insieme al comitato “Nessuno Tocchi Caino”. L’evento si è tenuto nella serata di martedì 1 marzo, di fronte all’ingresso del carcere Ucciardone di Palermo. I partecipanti hanno effettuato una piccola fiaccolata, in memoria dei due ragazzi morti suicidi recentemente nelle carceri di Palermo e Catania. Una fiaccolata silenziosa, tenuta nella gelida serata palermitana. All’evento era presente anche l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro. Il leader della Nuova DC ha ricordato la necessità di non lasciare soli i detenuti, troppo spesso dimenticati nel loro percorso di rieducazione e reinserimento sociale. “È un’iniziativa nata per alimentare e coltivare la speranza delle tante persone private della libertà che hanno bisogno di non sentirsi abbandonate. Siamo qui per far sentire la nostra presenza. Per ricordare loro che faremo battaglie utili affinché la loro dignità e la loro speranza non venga a mancare. In un paese di diritto come il nostro, dove non c’è la pena di morte, c’è troppa gente che muore per pena dentro le carceri. Bisogna ricordarlo, perché ricordare serve a migliorare le cose”. Taranto. Detenuto si suicida in carcere, il Sappe annuncia lo stato di agitazione di Cinzia Semeraro Corriere del Mezzogiorno, 1 maggio 2022 Un uomo di 48 anni, con fine pena nel 2024, si è impiccato con un asciugamano. Il sindacato della polizia penitenziaria: “Lo Stato deve occuparsi dell’incolumità dei detenuti”. Un detenuto di 48 anni si è suicidato in cella nel carcere di Taranto, impiccandosi con una corda rudimentale ricavata da un asciugamano. L’uomo era condannato per reati contro il patrimonio con fine pena nel 2024. A renderlo noto Federico Pilagatti della segreteria nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria), che sottolinea ancora una volta i vuoti di organico della polizia penitenziaria all’interno del carcere tarantino. Il Sappe ritiene che “ora sia il momento che inizi a pagare chi ha responsabilità e non prende provvedimenti poiché lo Stato deve garantire anche l’incolumità dei detenuti con ogni mezzo”. Il Sappe ha proclamato lo stato di agitazione e indetto un sit-in degli agenti per il 4 maggio davanti al carcere di Taranto. “I poliziotti - conclude Pilagatti - per protesta bruceranno i loro tesserini di riconoscimento, si incateneranno e firmeranno la petizione per il passaggio al Ministero degli Interni, poiché la sicurezza e la gestione delle carceri è diventato ormai un problema di ordine pubblico nazionale”. Appena tre giorni fa il sindacato aveva denunciato una tragedia sfiorata nel carcere di Bari, con un detenuto che aveva dato fuoco alla cella barricandosi in bagno. L’uomo, e gli altri carcerati della sezione, sono poi stati tratti in salvo dai pochi agenti della penitenziaria presenti. Vasto (Ch). Altri accertamenti per il detenuto morto in carcere di Paola Calvano ilnuovoonline.it, 1 maggio 2022 Resta un mistero la morte di Doriano Mancinelli, il 46enne ex ristoratore di Atri trovato mercoledì mattina morto nel letto della cella del carcere di Torre Sinello che divideva con altri 4 detenuti. L’esame autoptico non ha chiarito la causa del decesso. La perizia eseguita dal dottor Pietro Falco non ha individuato traumi letali. A chiarire adesso le cause della morte saranno gli esami istologici e biologici. All’autopsia ha assistito per la famiglia della vittima il professor Cristian D’Ovidio. Ad assistere la famiglia Mancinelli sono gli avvocati Gennaro Lettieri e Antonello Cerella. Fossano (Cn). Laboratori di cucina e ceramica: il futuro dei detenuti inizia da un mestiere di zaira mureddu La Stampa, 1 maggio 2022 Mercoledì ai progetti-lavoro già avviati nel carcere si aggiungeranno anche quelli di panificazione e riparazione di giocattoli. I laboratori dove i detenuti a Fossano imparano a cucinare verdura e frutta coltivati a pochi chilometri di distanza e a lavorare la ceramica sono stati ricavati nell’ex falegnameria del carcere. Profumo di peperoni al forno e verdure fresche, come nelle migliori cucine delle nonne. Che sia questo uno dei ricordi associabili ad un carcere è singolare, ma tant’è. In quella che fino a qualche anno fa era una vecchia falegnameria inutilizzata nella casa di reclusione di Fossano, dallo scorso anno è operativo un laboratorio di trasformazione di frutta e verdura coltivate a pochi chilometri di distanza. E da mercoledì (4 maggio) al profumo delle verdure si aggiungerà quello del pane. Nella stessa ex falegnameria, infatti, entrerà in funzione un piccolo laboratorio con forno per produrre pane da grano coltivato biologicamente. È solo uno dei tre progetti lavorativi che verranno inaugurati in settimana fra le mura del carcere di Fossano, fiore all’occhiello del Distretto penitenziario ligure piemontese insieme a quello di Chiavari, fra gli “istituti a custodia attenuata per detenuti lavoranti”. Un artigiano panificatore sarà affiancato da un recluso che ha seguito un corso di formazione. La casa circondariale ha messo a disposizione i locali in comodato d’uso gratuito, i macchinari e la materia prima sono di MondoFood, che lo scorso anno aveva avviato un progetto analogo al Cerialdo di Cuneo in collaborazione con il Baladin. I locali sono stati messi a norma grazie all’impegno di tutti. Non c’è più nulla di quella vecchia falegnameria, se non le splendide volte a crociera. I due laboratori si affacciano su uno dei tre cortili dell’antico convento trasformato in carcere; dall’altra parte ce ne sono altri due, che diventeranno operativi mercoledì con il panificio. Sono un laboratorio di riciclo e riassemblaggio di giocattoli ed uno di lavorazione della ceramica. Dietro le quinte c’è una cooperativa di Savigliano, la stessa che ha promosso il primo laboratorio di trasformazione della frutta. Come per il panificio, la struttura penitenziaria ha messo a disposizione i locali seguendo le norme in materia lavorativa, mentre arredi e macchinari sono della cooperativa. I detenuti che seguiranno la produzione di ceramica in carcere hanno appena concluso il corso di formazione. “Ognuno di loro ha imparato a lavorare, impastare, modellare e decorare la creta, ma ha anche sviluppato capacità specifiche: c’è chi ha più talento nella decorazione, chi a plasmare le forme - dicono dalla cooperativa Perla che ha proposto il progetto -. La lavorazione della ceramica è un po’ come quella della terra: serve forza all’inizio, ma anche delicatezza nelle fasi successive. Ed ogni passaggio può avere una funzione terapeutica”. I quattro laboratori produttivi sono un traguardo importante del lavoro avviato in seguito alla trasformazione dell’istituto nel 2014, ma le basi sono precedenti. Lo sanno bene la dirigente Assuntina Di Rienzo, il cui incarico affidatole nel 2019 è stato confermato nei giorni scorsi fino al 2025, e Antonella Aragno, funzionario giuridico pedagogico a Fossano da più di trent’anni. “Rieducare, a volte educare al lavoro - dicono -: questo è lo scopo dei progetti che si basano su una legge capace di agevolare le imprese che ne fanno parte”. In carcere i corsi di “educazione” al lavoro sono realtà da tempo, come quello di carpenteria, i cui allievi hanno imparato a forgiare quasi tutto, dai mobili alle decorazioni. Arrivano dal laboratorio del carcere anche i vasi in ferro battuto collocati in via Roma, nel centro storico di Fossano. Venezia. Mons. Moraglia: “Il carcere è lo specchio per verificare se una società funziona” agensir.it, 1 maggio 2022 “La misericordia propriamente non fa parte del diritto, come qualcosa di esterno ad esso, ma rispettando le caratteristiche proprie del diritto consente di amministrare la giustizia in modo più umano. Questo perché c’è una amministrazione umana del diritto”. Mons. Francesco Moraglia è intervenuto così ieri, al primo appuntamento di formazione per i volontari della Pastorale degli Istituti penitenziari del Patriarcato di Venezia. Il corso “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (8 incontri fino a giugno) è promosso e organizzato dalla Pastorale degli Istituti Penitenziari, curata da don Antonio Biancotto. All’evento ha preso parte anche la direttrice del carcere maschile e femminile di Venezia, Immacolata Mannarella, insieme al comandante delle Guardie carcerarie e all’Educatore Capo Area. Per il patriarca, chi esercita un servizio in carcere “deve guardare in modo benevolo il detenuto e saper far rete con tutti. Il volontario non deve identificare il detenuto con il suo passato e accompagnarlo a guardare invece alla dignità della sua persona e a tutte le componenti della sua umanità, per aiutarlo a compiere un cammino. In questo servizio il volontario deve saper dialogare con le altre competenze e professionalità presenti nell’istituto penitenziario, dalla direzione agli educatori, in modo da favorire la rieducazione del detenuto, nella consapevolezza che anche chi ha compiuto gravi delitti può riscattarsi. Il carcere può, e deve, essere un luogo di rinnovamento umano e spirituale delle persone”. Arrivare alla rieducazione è un cammino che presuppone, per il Patriarca, l’esercizio della misericordia: “La misericordia propriamente non fa parte del diritto, come qualcosa di esterno ad esso, ma rispettando le caratteristiche proprie del diritto consente di amministrare la giustizia in modo più umano. Questo perché c’è una amministrazione umana del diritto. Dobbiamo parlare di giustizia ‘umana’. La giustizia rende un importante servizio all’uomo e alla società”. Il penitenziario, ha affermato il patriarca, rimane la cartina al tornasole di un Paese: “Un carcere rimane sempre lo specchio per verificare se una società funziona. Lo Stato, per questo, nell’esercitare il suo compito di punire il condannato deve sempre guardare al dettato costituzionale che punta alla rieducazione (articolo 27). La giustizia deve essere realmente tale, adeguata al caso concreto, e che non sia né buonista né crudele, poiché in entrambi i casi non sarebbe vera giustizia. Non è lecito trincerarsi dietro ai problemi strutturali del nostro sistema penitenziario, lasciando cadere le difficoltà su chi opera in carcere; si tratta, invece, di un tema che deve essere affrontate politicamente. Le carenze, molte volte, non sono di chi opera in carcere, per questo anche il volontario deve essere capace di ‘fare catena’ e comunicare con altri, rispettando le regole e cooperando con tutti, a garanzia di tutti quelli che lavorano in una struttura penitenziaria”. Primo Maggio senza pace. Ora Draghi parli al Paese di Massimo Giannini La Stampa, 1 maggio 2022 Per Lorenzo, schiantato da una putrella nel suo ultimo giorno di tirocinio a Udine. Per Luana, mangiata viva da un orditoio tessile a Prato. Per i 1.221 che se ne sono andati l’anno scorso. Per i 218 che sono caduti già quest’anno. Questo Primo Maggio è per loro, come ha detto il presidente della Repubblica: una Festa al contrario, perché non c’è niente da festeggiare quando il lavoro non è vita ma è morte, non è diritto ma sopruso. Ma la festa al contrario vale anche per tutti gli altri. Per chi di lavoro ci vive, o più spesso ci sopravvive. Per chi nel lavoro, insieme al dovere, vede anche il riscatto e il rispetto, ma non trova né l’uno né l’altro. Sergio Mattarella ha ancora una volta il merito di parlare chiaro, al Paese e al Palazzo. Il lavoro irregolare troppo spesso “varca il limite dello sfruttamento, persino della servitù”. La precarietà è “una spina nel fianco della coesione sociale”. Le condizioni salariali sono critiche per troppi “lavoratori poveri e pensionati poveri”. Mai come quest’anno, il Primo Maggio di guerra ci interroga tutti. E pretende risposte, soprattutto dal governo e dalle classi dirigenti. C’è un dovere di chiarezza sulla politica economica. Lo diciamo da almeno due mesi: anche se Draghi non lo conferma, noi in un’economia di guerra ci viviamo già. In un mondo in cui la crescita prevista si dimezza al 3 per cento, il Pil italiano torna a decrescere dello 0,2 per cento nel primo trimestre, l’inflazione ad aprile sale al 6,2 per cento, la spesa pubblica sfonderà il tetto dei 1.000 miliardi a fine 2020, i ricavi delle imprese crolleranno del 3,2 per cento l’anno prossimo. Sul versante prezzi-salari il quadro è ancora più complesso. La guerra fa esplodere un focolaio inflattivo già acceso da tempo su tutte le filiere: tra il 2019 e il 2021 i prezzi del gas sono cresciuti del 636 per cento, quelli del petrolio del 46, quelli del mais del 77, quelli del frumento del 57. Per contro, le retribuzioni medie orarie tra gennaio e febbraio sono ferme, e tra il 1990 e il 2020 i salari medi degli italiani sono calati del 2,9 per cento. Gli occupati precari sono 3,2 milioni, quelli a part time sono 4,8 milioni. I lavoratori che aspettano il rinnovo contrattuale sono 6,8 milioni. La media di attesa tra i vari settori merceologici è di 30,8 mesi. In queste condizioni disastrose, ci si aspetterebbero due cose. Un’operazione-verità sulle condizioni reali del Paese, un grande patto sociale sul modello di quello cui Ciampi vincolò le parti sociali nel 1993. Non abbiamo né l’una né l’altro. Abbiamo invece rigurgiti di lotta di classe tra imprese e sindacati. Abbiamo un tavolo negoziale, proposto dal ministro Orlando, che Confindustria considera “un ricatto”. E abbiamo un governo che centellina aiuti (il prossimo, in arrivo, di altri 8 miliardi) ma si ostina a non prendere di petto il vero nodo della fase: con la guerra che ha fatto saltare i conti del Def, non converrà rivedere le priorità indicate dal Pnrr, e magari riflettere anche su un ulteriore scostamento di bilancio? Ha ragione Veronica De Romanis: forse è il caso che Draghi parli al Paese, e spieghi come il governo intende affrontare i mesi durissimi che ci aspettano. Se mai ha avuto senso, il pacchetto “pace o condizionatori” ormai non si può più vendere alle famiglie e alle imprese italiane. C’è un dovere di chiarezza sulla politica estera. I principi di base li conosciamo e li condividiamo: lo abbiamo detto e lo abbiamo scritto più volte. La Russia è il carnefice, l’Ucraina è la vittima. Questa guerra è frutto della nuova volontà di potenza di Putin, che negli ultimi vent’anni ne ha già fatte tre (Cecenia, Crimea e Siria) e ne porta fino in fondo le responsabilità. Sua è la colpa del massacro dei civili, dello stupro delle donne, delle torture ai bambini. Sua è la colpa dell’invasione di uno Stato sovrano, della devastazione delle città, del saccheggio dei villaggi. Sua è la colpa delle tre crisi che adesso squassano il pianeta: crisi economica, crisi energetica, crisi alimentare. Non abbiamo bisogno di ribadire da che parte stiamo: stiamo dalla parte dell’Occidente e dell’Alleanza Atlantica, delle liberaldemocrazie e del diritto internazionale, del multilateralismo e della globalizzazione. È la parte giusta della Storia, e lo ripetiamo con forza e con orgoglio. Respingiamo gli opposti ideologismi. C’è un ideologismo pro-russo e anti-amerikano (per usare una vecchia formula dei tempi della guerra in Vietnam): quello dei sedicenti martiri del Pensiero Unico, che in tv denunciano le odiose censure della fantomatica “informazione mainstream” mentre la medesima li lascia sdottoreggiare h24 sui talk e sui giornali, e degli indecenti cacadubbi della Sacra Rete, che sui social rimbalzano la bassa propaganda mosco-fila pronta a negare qualunque evidenza. Se servisse ancora una “firma” sui bombardamenti in territorio ucraino, l’abbiamo ottenuta con i due missili del Cremlino piovuti su Kiev durante la visita del segretario generale dell’Onu. Ma c’è anche un “occidentalismo” cieco e sordo (per usare la formula di Margalit e Buruma ai tempi dell’attacco qaedista alle Twin Towers). Quello degli intellettuali boots on the ground, che considerano intelligenza col nemico qualunque riflessione retrospettiva sulle vicende geo-strategiche di questi ultimi trent’anni. Capire come ci siamo illusi di ricostruire un Ordine Mondiale dopo la caduta del Muro di Berlino non significa affatto giustificare l’ingiustificabile (gli orrendi crimini di Putin). Ma aiuta a comprendere (possibilmente per non ripeterli) gli errori di prospettiva e i rapporti di causa-effetto che hanno contribuito a portarci fin qui. Cioè non dentro un nuovo Ordine, ma alle soglie della Terza Guerra Mondiale. “Xavier Solana, da alto rappresentante della politica estera europea, a metà anni 2000 disse chiaramente che non era più pensabile un rapporto tra la Nato e l’Urss come quello dei tempi della Guerra Fredda… Era necessario identificare gli interessi comuni tra europei e russi. E visto che loro erano alla ricerca di una collocazione, bisognava creare un sistema di sicurezza e di difesa comune fondato sugli interessi vitali di europei, russi, americani… L’errore non fu ampliare i margini dell’Unione fino alla Russia, come fece Prodi. Al contrario, fu di essere rimasti chiusi in noi stessi, e aver portato la vecchia Nato ai confini… Fiona Hill, bravissima consigliera di diversi presidenti Usa, ha raccontato i suoi colloqui alla Casa Bianca nel 2008, con George Bush e Cheney. Prima del vertice Nato a Bucarest cercò di dissuaderli dall’includere nell’Alleanza militare Georgia e Ucraina, scatenando l’ira di Cheney e la reazione contrariata di Bush, il quale replicò che lui amava la “diplomazia vigorosa”. Quanto vigorosa, l’avevamo capito qualche anno prima con la sciagurata invasione dell’Iraq. Sappiamo poi come sono andate le cose…”. Chi articola questi pensieri non è un pericoloso agente della Fsb travestito da giornalista. E non è neanche il professor Alessandro Orsini, in uno dei suoi deliri onanistici sui bimbi felici sotto le dittature. È il presidente della Consulta Giuliano Amato, in un’intervista al “Venerdì”. A meno che non si pretenda di inserire anche lui nella lista nera degli utili idioti del nuovo Zar di San Pietroburgo, conviene ragionare su ciò che dice. Senza per questo offrire sponde alla mattanza russa o indebolire la resistenza ucraina. La fine della pace è ormai sancita. La fase due del conflitto russo-ucraino è una guerra permanente a bassa intensità. Il piano-monstre di aiuti militari da 33 miliardi di dollari annunciato da Biden è un vero salto di qualità. L’intendenza euro-atlantica segue, aprendo a Ramstein il primo arsenale delle democrazie. Parliamo non più solo di sistemi di difesa anti-carro e anti-aereo, ma di armi offensive importanti e imponenti. Anche l’Italia sta per varare un decreto bis sull’invio di nuove armi all’Ucraina. Ormai siamo co-belligeranti a distanza. Come ha scritto giustamente Domenico Quirico, siamo entrati in guerra anche noi, ma senza il coraggio e l’onestà di dirlo a noi stessi. Se la realtà è questa, allora tutti i governi a partire dal nostro hanno il dovere di spiegarlo alle opinioni pubbliche e ai Parlamenti. La domanda posta da Lucio Caracciolo è cruciale: dov’è la vittoria per noi occidentali? Stiamo armando Zelensky per consentirgli di resistere nell’attesa che le nostre sanzioni convincano Putin a fermarsi, o crediamo e vogliamo che l’esercito ucraino vada fino in fondo e vinca la guerra anche per conto nostro? Vorremmo saperlo: non è accettabile che la lista delle armi che stiamo inviando ai resistenti ucraini sia secretata dal Copasir. E dovremmo discuterne: non è possibile che Draghi non spieghi la posizione italiana alle Camere, cosa che finora è accaduta tre volte, il 25 febbraio, il 1° e il 23 marzo. La doppia missione del premier, prima a Kiev e poi a Washington il 10 maggio, segnala una positiva ripresa dell’iniziativa diplomatica. Ma è necessario un colpo d’ala nell’azione e nella comunicazione politica. Non basta dire “faremo quello che deciderà l’Europa”, anche perché la Ue non decide ed è tuttora divisa sull’embargo energetico. Bisogna dire cosa abbiamo fatto finora, nel rispetto o meno dell’articolo 11 della Costituzione. Bisogna sapere cosa vogliamo fare d’ora in poi, e semmai cos’altro noi proponiamo all’Europa, visto che la richiesta di fissare un tetto al prezzo del gas è stata respinta con perdite. E bisogna capire se l’Italia e l’Europa hanno ancora un po’ di filo da tessere, per provare a dare una chance alla pace. Tenendo sempre a mente le parole di Robert Schumann, citato proprio da Mattarella nel suo splendido discorso a Strasburgo: “La pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Migranti. Catalina, Zorina, Adriana, le braccianti invisibili calpestate dal nostro Paese di Maurizio Di Fazio L’Espresso, 1 maggio 2022 Piegate sui campi, sette giorni su sette per una paga misera. Vittime di molestie sessuali, sfruttate e senza diritti. Dopo il rapporto denuncia di ActionAid “Cambia terra” abbiamo lasciato a loro la parola. Violenze e discriminazioni nei campi, all’ombra di un capitalismo prossimo a viaggiare sulle gambe volanti dei droni. E due anni di pandemia hanno peggiorato inesorabilmente la situazione. Vittime preferenziali, le donne, soprattutto straniere. Lavorano senza pause, senza un bagno dove andare, magari senza nemmeno una bottiglietta d’acqua. Donne invisibili quelle che raccolgono la frutta e la verdura che atterra ben levigata sulle nostre tavole, alla mercé di salari da fame e in nero. Il loro guadagno medio si attesta infatti sulle settecento euro al mese, pur lavorando dieci ore al giorno, sei giorni su sette: in busta paga viene segnato meno dell’indispensabile. Uno sfruttamento dal retrogusto medievale per tutte loro. Prevaricazioni massicce e sommerse, diritti elementari calpestati, molestie sessuali e aggressioni. Della serie, la schiavitù non è stata abolita veramente dappertutto. È dal 2016 che ActionAid indaga sulle inconcepibili condizioni femminili occupazionali e di vita in agricoltura in certe frange della Puglia, della Basilicata e della Calabria, dove il caporalato muove una considerevole economia illegale. Nel suo ultimo rapporto, intitolato “Cambia terra”, l’organizzazione ha intervistato decine di operaie agricole comunitarie di origine rumena e bulgara. Impiegate nell’arco ionico, l’area che comprende le province di Matera, Taranto e Cosenza. E le loro testimonianze sono agghiaccianti. Catalina (nome di fantasia). Ha trentadue anni, è arrivata in Italia dodici anni fa con i genitori. Vorrebbe terminare l’università, Economia e Commercio, se potesse permetterselo. “Non lavoravo nei campi da tre anni. Ho dovuto ricominciare per via della pandemia, ho perso il posto da ragioniera. È difficile trovare qualcos’altro se si è rumene come me. Comincio a lavorare alle sei del mattino, preparo il terreno per piantare le fragole. Sto sempre piegata e adesso che sono incinta è molto faticoso. È logorante, ma sono obbligata ad andarci, ho bisogno di soldi. Secondo il ginecologo dovrei smettere subito: alle volte mentre lavoro sento dei crampi, dice che corro il rischio di perdere il bambino. Guadagno trentotto euro al giorno. C’è chi lavora senza soluzione di continuità, dal lunedì alla domenica. Ho provato a cambiare settore, cercando un posto come segretaria od operaia nei magazzini di impacchettamento, ma ho ricevuto in cambio solo avances sessuali. “Sei giovane e bella, usciamo insieme” mi dicevano, e se avessi accettato mi avrebbero dato forse il posto. Ma a questo punto è meglio zappare. Purtroppo mi è accaduto lo stesso anche nelle serre. All’inizio sono cortesi, poi diventano sempre più insistenti. Sono italiani, sanno delle nostre difficoltà economiche, pensano che siamo delle morte di fame pronte a tutto. Mi viene l’ansia e tanta rabbia. Avrei voluto denunciare tante volte. Ho conosciuto parecchie altre ragazze nella mia situazione”. La rappresaglia, la ritorsione, la lista nera è dietro l’angolo. Racconta Annarita Del Vecchio, psicologa e collaboratrice di ActionAid in Puglia: “Le rumene in particolare sono considerate donne facili, poco di buono, pericolose perché si crede che vengano a rubare i mariti delle italiane. Molte si ribellano, ma quando rispondono ai tentativi di abuso con il rifiuto restano disoccupate. I molestatori restano impuniti perché non ci sono denunce”. C’è un figuro soprannominato “l’uomo delle cime di rape”. Imperversa nella zona di Ginosa Marina, è un caporale che molesta le donne che lavorano per lui. Nel barese esiste invece una tecnica codificata. La mattina, quando nelle piazze sopraggiungono i furgoni per portare le operaie nei campi, la “prescelta” viene fatta salire davanti, nello spazio accanto al guidatore. Sul cruscotto vengono apposti un cornetto e un caffè caldo. Se mangi la colazione simbolicamente offerta, vuol dire che accetti la molestia sessuale implicita e quindi otterrai l’ingaggio di giornata. Ma se rifiuti, il giorno dopo rimani a casa. Zorina (nome di fantasia). Lavora in Calabria. Viene dalla Bulgaria ed è una stagionale da molti anni. “Io ho denunciato, non ho avuto paura. Stare nei campi annichilisce l’autostima, ti svuota e ti annulla, perché siamo considerate degli oggetti. Le donne non socializzano con nessuno quello che accade, pensano che il sistema in cui si trovano sia normale. Il problema delle molestie è che le lavoratrici non se le aspettano, non conoscono i loro diritti, non ricevono informazioni adeguate e così restano per lo più in silenzio”. Adriana (nome vero, leader di ActionAid in Calabria). È originaria della Romania. Ha lavorato per anni nei campi, oggi è una colf. “Quante violenze fisiche e psicologiche avvengono. Le donne che le subiscono non conoscono bene la lingua, non hanno una famiglia oppure hanno un marito complice del datore di lavoro abietto. Sono soggetti molto fragili e vulnerabili e più la società le isola e marginalizza, più diventa arduo rispondere alle angherie del capo o del caporale che approfittano dello spaesamento di queste donne, del fatto che non abbiano accesso ai servizi, non sappiano a chi indirizzarsi. La loro debolezza così si accentua e si connette a una perdita di identità culturale e morale. Si arriva a sentirsi degli scarti della società, escluse dal consorzio civile. Ad abituarsi al peggio, restando sotto il torchio dello sfruttatore e carnefice. Uno dei problemi di cui non si parla mai è quello della maternità. Come se noi non avessimo diritto a esser madri. La gestione dei figli è davvero difficile. In campagna si inizia a lavorare molto presto, alle due o tre di notte, e allora ci tocca prendere i bambini ancora addormentati e portarli a casa di estranee che ne accudiscono cinque, sei o dieci nelle loro case. Li tengono fino al pomeriggio. Non potremmo certo portarli all’asilo in piena notte. Siamo costrette perciò a ricorrere a soluzioni informali, pericolose, destinate a lasciare in loro pesanti strascichi”. In alternativa, non avendo una rete familiare di sostegno in loco, vanno con loro nelle serre, dormono dentro cassette di legno. Quelli che non erano stati lasciati giocoforza in patria, da nonni e zii. In Calabria esistono asili nido dedicati irregolari, a pagamento e in nero con personale per nulla qualificato. “Non interessa a nessuno dove lasciamo i nostri bambini. Non conta se ci mancano, se non li vediamo per mesi. Le braccianti sono invisibili, sono solo dei numeri. A volte dobbiamo anche rinunciare al nostro nome se è difficile da pronunciare, per potere avere un impiego ne troviamo un altro, più facile per gli italiani” conclude Adriana. Spiega Grazia Moschetti, responsabile dei progetti ActionAid nell’Arco Ionico: “Il modello agricolo attuale non è sostenibile, né per le lavoratrici a rischio o in condizioni di sfruttamento, né per le tante imprese che rispettano le regole nonostante le molte difficoltà che il mercato e la concorrenza sleale impone loro. Abbiamo bisogno di cambiare prospettiva, mettendo al centro i bisogni delle lavoratrici agricole come cittadine e come persone che a oggi sono escluse dai più basilari servizi di welfare e più in generale dai processi democratici delle comunità di appartenenza. Servono spazi pubblici di confronto dedicati alle donne, costruiti da loro e supportati da tutte le parti in causa, dalle imprese alle associazioni. Solo con il contributo di tutti - come sta accadendo nell’Arco ionico - possiamo coltivare relazioni positive dentro e fuori i luoghi di lavoro. Le operaie agricole non possono più essere escluse o lasciate ai margini degli interventi delle istituzioni, a oggi attuati senza una chiara prospettiva di genere. Continuare a farlo significa non mettere fine deliberatamente alle violazioni dei diritti e alle violenze che subiscono”. Fine vita. Maiorino (M5S): “Ora acceleriamo. Pillon relatore? Sarà costretto a collaborare” di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 1 maggio 2022 La senatrice grillina scelta dalle commissioni Sanità e Giustizia di Palazzo Madama insieme al leghista, contrario al ddl Zan e l’utero in affitto. “Preferivo qualcuno meno schierato, ma siamo in quattro a tutela della legge. Sono fiduciosa, molto dipenderà anche da Italia viva” Dopo l’ok della Camera, martedì la commissione Giustizia del Senato ha iniziato la discussione sul fine vita. Con una legislatura agli sgoccioli e l’ostruzionismo del centrodestra, il testo rischia di naufragare. “Ora dobbiamo accelerare”, dice Alessandra Maiorino, esponente del M5S e relatrice del provvedimento insieme al più duro degli oppositori della legge sul suicidio assistito: il leghista Simone Pillon. Senatrice, la sensazione è che il centrodestra voglia ritardare il più possibile l’approvazione del testo. È così? “Non nego che ci sono delle difficoltà, ma sono fiduciosa. Credo che in fondo sia nella volontà di tutti di arrivare a dare una legge al Paese”. Il centrodestra ha ottenuto la nomina a relatore del sentore Pillon, da sempre contrario al fine vita. È d’accordo con questa decisione? “Il presidente della commissione Ostellari si è sempre avvalso della facoltà di nominare i relatori senza consultare il resto dei parlamentari. Noi, come M5S, abbiamo chiesto che il relatore fosse meno schierato, ma il fatto che ce ne siano quattro va a tutela della legge”. Non crede che la nomina di Pillon finirà per ostacolare il cammino della legge? “Anche io sono relatrice del provvedimento e di certo non ho idee conservatrici. Pillon sarebbe stato un problema anche se non fosse stato relatore, ma visto che ricopre questo ruolo magari ora sarà costretto a collaborare”. La Lega ha chiesto una stretta sugli stupefacenti in cambio del fine vita. Siete disposti a concederla? “No, il testo del centrodestra sugli stupefacenti prevede delle forti sproporzioni tra sanzioni e lieve entità del reato. In tutto ciò la cosa più assurda è che il centrodestra abbia imposto l’incardinamento di una legge che è già all’esame della Camera. I numeri sono incerti sia in commissione che in aula. La legge rischia di non farcela? “Tutto dipende da come si comporterà Italia Viva. Se voterà con il campo progressista non credo che ci saranno particolari problemi. Però è importante trovare un modo per allargare il consenso attorno a questo provvedimento, coinvolgendo anche una parte del centrodestra”. Realisticamente: in quanto sarà possibile ottenere il via libera definitivo? “Come Movimento 5 stelle abbiamo chiesto di accelerare. Finite le audizioni bisognerà esaminare tutte le varie proposte di legge depositate sullo stesso tema, arrivare poi ad un testo unico, lo stesso approvato alla Camera, ed infine approvarlo”. C’è ancora parecchio da fare dunque... “Siamo all’inizio, ma dobbiamo essere veloci. Alla legislatura non è rimasto molto tempo. E qualora il Senato dovesse modificare il testo approvato alla Camera questo dovrebbe necessariamente ritornare a Montecitorio. I tempi rischiano di dilatarsi”. Se da una parte la destra rema contro il provvedimento, una parte del centrosinistra crede invece che il testo sia troppo restrittivo. È d’accordo? “Il testo è la sintesi delle varie sensibilità presenti nelle forze politiche. Certo, su alcune parti si sarebbe potuto fare di più”. Tipo? “Io avrei messo un limite all’obiezione di coscienza. Altrimenti si rischia di creare la stessa situazione dell’aborto: un diritto che spesso viene negato a causa dell’elevato numero di medici obiettori”. Parolin: “Non si arriva alla pace con le armi, le guerre portano soltanto distruzione” di Domenico Agasso La Stampa, 1 maggio 2022 Il segretario di Stato Vaticano boccia la politica della contrapposizione: “La diplomazia continui a lavorare”. Rinviata l’ipotesi di un viaggio di Papa Francesco a Kiev: “Soltanto se servirà davvero a fermare le bombe. Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, c’è chi dice che il Papa sia uno dei pochi leader, se non il solo, che cerca la pace vera, e non “camuffata” da tregua “inquinata” dal riarmo globale: si può arrivare alla pace attraverso le armi? “Degli antichi romani si diceva: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, prima fanno il deserto e poi lo chiamano pace! Le guerre ci dimostrano proprio questa triste verità: la “pace” a cui esse portano è quella del deserto, anzi, oserei dire, la pace del cimitero, perché costruita sopra le macerie di tante distruzioni, soprattutto di vite umane, che nella maggior parte sono quelle di bambini, di donne, di anziani e di tanti altri innocenti. Pertanto, non si può arrivare alla pace attraverso le armi, al contrario ci si può arrivare solo rinunciando alle armi. Purtroppo, la disponibilità alla risoluzione pacifica dei conflitti è spesso inversamente proporzionale alla forza militare di cui si dispone”. Come valuta il ruolo delle religioni? E la posizione che ha assunto il Patriarca Kirill? “Le posizioni pubbliche assunte dal Consiglio Ucraino delle Chiese e delle Organizzazioni Religiose dimostrano la totale sintonia tra i leader religiosi del Paese nel formulare condanna contro l’aggressione militare sofferta dall’Ucraina e nell’esprimere vicinanza alla popolazione, sollecitando anche aiuto militare a scopo di difesa. Quanto al Patriarca Kirill, mi permetto solo di citare le parole che il Santo Padre gli ha dedicato nel messaggio Urbi et Orbi di Pasqua: “Caro fratello, possa lo Spirito Santo trasformare i nostri cuori e renderci veri operatori di pace”“. Si può giustificare una guerra con la Parola di Dio? “Ogni guerra, in quanto atto di aggressione, è un’azione contro la vita umana e, pertanto è un’azione sacrilega. Di conseguenza, non si può trovare alcuna giustificazione nella Parola di Dio, che è sempre parola di vita, non di morte”. La questione di fondo del conflitto riguarda i rapporti tra Russia e Chiesa di Mosca insieme con (contro) l’Occidente, come sostenuto nella stessa Chiesa di Mosca? Cioé, uno dei problemi chiave è la presunta decadenza delle democrazie liberali occidentali che andrebbe di pari passo con la secolarizzazione? “È innegabile che il mondo attuale stia tentando di promuovere un’antropologia che si discosta dalla visione cristiana e che si rispecchia nei “Novi diritti”, fondati su un approccio esclusivamente individualista. La stessa Chiesa cattolica riconosce il grave rischio che ciò comporta per la difesa e la promozione della dignità umana e non può non essere preoccupata al riguardo. Tuttavia, il modo di contrastare questo fenomeno da parte dei cristiani mai può essere violento, e meno ancora armato, ma deve ispirarsi a quello che Gesù stesso ha insegnato, una proposta sempre più credibile della verità evangelica sul mondo, sull’uomo e su Dio”. Qual è l’attività diplomatica della Santa Sede? “Continua l’impegno per ristabilire la pace in Ucraina, a tutti i livelli. Rimane disponibile a facilitare qualsiasi negoziato tra le parti che possa mettere fine all’aggressione militare e proteggere la vita dei civili, che si trovano nelle zone di combattimento, anche attraverso corridoi umanitari. Le parole chiave per la Santa Sede sono: rispetto per la vita umana e disponibilità al negoziato”. L’organizzazione dell’incontro tra Francesco e Kirill si è interrotta… “La preparazione era arrivata ad un buon punto. Tuttavia, come il Santo Padre stesso ha reso pubblico nell’intervista a La Nación del 22 aprile, alla fine è stato ritenuto opportuno annullarlo, perché avrebbe potuto creare molta confusione. Immagino che finché la situazione attuale non conoscerà sviluppi positivi, rimarrà sospeso”. L’ipotesi del viaggio del Papa a Kiev è sempre “sul tavolo”? Quali dovrebbero essere le condizioni perché avvenga? “Il Santo Padre è pronto a fare tutto quanto è nelle sue possibilità per mettere fine alla guerra in Ucraina e sta da tempo considerando con attenzione le possibili formule. Pertanto, il desiderio di realizzare un viaggio apostolico in Ucraina rimane vivo nel suo cuore, però la sua realizzazione è condizionata dalla possibilità di favorire un reale miglioramento della situazione nel Paese. Come lui stesso ha spiegato, non avrebbe senso un viaggio se poi, il giorno successivo, la guerra riprendesse come prima”. Quali sensazioni ha provato vedendo le immagini della ragazza ucraina e dell’amica russa che portavano insieme la Croce? “L’immagine delle due donne, Irina e Albina, ucraina e russa, che portano insieme la croce il Venerdì Santo al Colosseo, durante la Via Crucis presieduta dal Papa, l’ho percepita - mi si passi l’espressione - come qualcosa di “scandaloso”, nel senso paolino del termine, cioè come qualcosa umanamente difficile da comprendere. È stato, nello stesso tempo, un segno di speranza. Nel mistero della croce troviamo la forza dell’amore e del perdono di fronte all’odio e alla morte. Questi sembrano prevalere, ma la vita e l’amore di Dio sono più forti. L’amicizia che esisteva prima della guerra e continua ad esistere anche ora tra quelle due donne, colleghe di lavoro, è più forte della divisione e dell’odio. La guerra pretende di dividere due popoli, che sotto la croce si riconoscono fratelli”. Il mistero dei 6 oligarchi russi morti in tre mesi: “Epidemia di suicidi” di Enrico Franceschini La Repubblica, 1 maggio 2022 I casi sono stati classificati come suicidio ma il sospetto è che non abbiano seguito la linea di Putin sull’invasione e che qualcuno gliela abbia fatta pagare, dando un segnale anche ad altri imprenditori tentati dall’esprimere dissenso. Quattro erano dirigenti di Gazprom. Centinaia di oligarchi russi legati al Cremlino sono stati colpiti dalle sanzioni occidentali dall’inizio della guerra in Ucraina, nella speranza di spingerli a schierarsi contro il conflitto e a delegittimare Vladimir Putin. Ma negli ultimi mesi alcuni membri della casta dei miliardari di Mosca hanno subito una punizione ancora peggiore delle sanzioni: sono morti, quasi tutti in circostanze poco chiare. Il sospetto è che non abbiano seguito la linea del presidente russo sull’invasione e che qualcuno gliela abbia fatta subito pagare, dando un segnale anche ad altri imprenditori tentati dall’esprimere dissenso. Naturalmente è soltanto un’ipotesi che circola sui media, negli ambienti diplomatici e in quelli dell’intelligence. Di certo c’è che, se l’Occidente si aspettava una rivolta degli oligarchi contro Putin come risultato delle sanzioni, è rimasto deluso: a parte qualche velata critica alla guerra in generale, non direttamente alla Russia, da parte di un paio di oligarchi, tra cui il miliardario Oleg Deripaska, e la fuga all’estero di un oligarca della prima ora, Anatolij Chubais, salito alla ribalta già negli anni della presidenza Eltsin, la maggioranza si è allineata. Cosa pensino davvero, non è noto. Uno dei motivi per cui tacciono è non danneggiare le proprie imprese in Russia. Un altro potrebbe essere la paura di fare la fine della mezza dozzina deceduti nel frattempo. I casi più recenti risalgono alla settimana scorsa, quando due oligarchi russi sono stati ritrovati morti insieme alle loro famiglie nel giro di 48 ore in quelli che gli investigatori hanno definito “suicidio o omicidio”. Dall’inizio del 2022, altri quattro hanno perso la vita apparentemente suicidandosi in modo misterioso. Il multimilionario Sertej Protosenya è stato ritrovato impiccato il 20 aprile nella villa che aveva affittato in Spagna per la Pasqua con i suoi familiari. I corpi della moglie e della figlia di 18 anni erano nei loro letti, ciascuna morta accoltellata. Gli inquirenti stanno indagando la possibilità che si tratti di un duplice omicidio più un suicidio, ma non escludono nulla al momento. Protosenyan era un ex-manager del complesso energetico Novotek, la maggiore azienda indipendente fornitrice di gas in Russia.Nessun messaggio per spiegare le ragioni per cui si sarebbe tolto la vita è stato rinvenuto nella casa. Appena il giorno prima, l’agenzia Tass ha riportato la morte di un altro oligarca, Vladislav Avayev, nel suo appartamento di Mosca, dove sono stati ritrovati i corpi senza vita anche della moglie e della figlia di 13 anni. Lui era l’ex-vicepresidente della Gazprombank, la banca collegata al gigante energetico statale russo. La polizia ha reso noto che secondo indagini preliminari l’uomo si sarebbe suicidato dopo avere ucciso la consorte e la figlia con la pistola che gli è rimasta in pugno dopo essersi sparato. “Ho l’impressione di una messa in scena”, ha avuto il coraggio di commentare un altro ex-vicepresidente della Gazprombank, Igor Volobuev, di origine ucraina, che 24 ore dopo ha annunciato di avere lasciato la Russia e di essere andato a combattere per Kiev. “Forse il mio collega sapeva troppo o rappresentava un pericolo”. All’inizio di marzo, dunque dopo due settimane di guerra, un terzo oligarca, Vasily Melnikov, è stato trovato morto insieme alla moglie e a due figli di 10 e 4 anni nella loro dacia vicino a Nizhny Novgorod. Arma di quello che la polizia ha definito anche in questo caso un “triplice omicidio seguito da un suicidio” sarebbe un coltello ritrovato nella lussuosa residenza. Vicini di casa e amici hanno dichiarato al giornale Kommersant di non riuscire a credere che Melnikov abbia potuto uccidere moglie e figli. Erano appena tornati da una vacanza alle Maldive. Il 28 febbraio, con la guerra scoppiata da quattro giorni, un quarto oligarca, Mikhail Watford (il cognome che aveva adottato quando si è trasferito a vivere nel Regno Unito - quello anagrafico era Tolstosheya), è stato trovato impiccato nel garage della sua villa nel Surrey, una contea dell’Inghilterra meridionale. Nel suo caso la moglie e i bambini, che erano nell’abitazione, non sono stati vittime di violenze. Tre giorni prima, dunque un giorno dopo l’inizio dell’invasione, un vicepresidente del Gazprom, Aleksandr Tyulyakov, è stato ritrovato impiccato nel garage della sua dacia del quartiere moscovita di Leninskij. Un mese prima, nel medesimo quartiere, un sesto oligarca, anche lui ex-manager del Gazprom, è stato ritrovato morto per un apparente suicidio. In un messaggio di spiegazioni lasciato accanto al cadavere, ha detto di essersi ucciso per “un insopportabile dolore a una gamba”. Nella comunità di emigranti dall’ex-Urss in Europa, qualcuno parla di “epidemia di suicidi”: certamente sei oligarchi che si tolgono la vita in tre mesi, quasi tutti durante la guerra in Ucraina, non sembrano una coincidenza. Ma non è insolito morire, scomparire o suicidarsi, per i nuovi ricchi che circolano all’ombra del Cremlino: nel 2017 un rapporto pubblicato da Usa Today riscontrò che 38 imprenditori o dirigenti d’azienda russi avevano perso la vita nei tre anni precedenti. L’invasione dell’Ucraina, per una ragione o per l’altra, ha aumentato il ritmo.