Ergastolo ostativo, l’attendismo della Consulta indebolisce giurisdizione e Parlamento di Domenico Bilotti* e Francesco Iacopino** Il Dubbio, 19 maggio 2022 In Italia vige il diritto dell’emergenza, il diritto delle soluzioni tampone che poi si ossificano nell’ordinamento nella loro peggiore versione testuale e applicativa, soprattutto (ma non solo) in materia penale. L’attività legislativa appena ieri l’altro e oggi - da ieri - una decretazione esecutiva sovente di dubbia copertura costituzionale sono concepite sempre più spesso dalla classe politico- parlamentare e politico-governativa come forme di risposta estemporanea ad esigenze dell’opinione pubblica largamente eterodirette dalle ondate di allarmismi e di attenzione mediatica, a intervalli irregolari. Tra le tante emergenze presunte che sono state proposte al dibattito collettivo negli ultimi tre decenni, una vera e concreta ha impattato il funzionamento e gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale. Davanti a un legislatore non di rado allo sbando, a turno tardivo o pedante nell’esecuzione degli obblighi internazionali, infelice sul nudo piano lessicale che dovrebbe essere la base di buone norme, sempre incerto sulla strada da percorrere per lusingare fiammate di consenso, il giudice delle leggi ha sempre più frequentemente dovuto rivolgere moniti a ‘ tempo’ alle Camere. Decidere entro un tot, procedere secondo una direzione, addivenire alla riforma della disposizione sospetta di incostituzionalità. Lo abbiamo visto, con disperanti lungaggini e situazioni giurisprudenziali troppo segmentate e mal amalgamate tra loro, in materia di istigazione o aiuto al suicidio, in particolar modo con la sentenza n. 242 del 2019, che ha tentato di colmare il ritardo e l’inadeguatezza legislativi, essendo il nostro diritto, in materia di fine vita, fermo alle disposizioni anticipate di trattamento di cui alla legge n. 219 del 2017. Nihil novi sub Sole, è il caso di dire, se ci spostiamo a parlare della nuova ‘patata bollente’, già in corso di raffreddamento: l’ergastolo ostativo di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Sin dal 15 aprile del 2021 la Corte aveva assegnato termine congruo - un anno! - affinché le Camere provvedessero. L’ergastolo ostativo, l’ergastolo che sempre esclude l’attribuzione di un regime beneficiale (il quale non è il tana liberi tutti ma una semplice rimodulazione dei modi di esecuzione della pena), è in palese contrasto rispetto alla disciplina costituzionale e finanche codicistica della pena medesima. Non ha possibilità rieducative, sottrae un segmento importante del diritto penitenziario alla possibilità di un sindacato giurisdizionale. La Corte si impuntava appropriatamente sul fatto che l’ostatività non potesse essere vincolata alla mancanza di collaborazione in sede giudiziaria: quante collaborazioni avevano poco o nulla di genuino e soprattutto di processualmente affidabile? Come si può sanzionare la mancanza di collaborazione in contesti nei quali essa rischierebbe di sovraesporre il collaborante a fenomeni ritorsivi, e non soltanto a danno della propria persona? Davvero questo solo indice può accertare lo scioglimento di ogni legame con l’organizzazione mafiosa? E dalla eventuale collaborazione, magari dopo decenni di detenzione, possono poi giungere elementi precisi e di stretta attualità? Storia non breve e non così minoritaria del nostro diritto dimostra, certo, l’utilità investigativa di un contributo di collaborazione non motivato da meri meccanismi di delazione e promozionalità, ma anche la piena operatività in seno all’associazione mafiosa di soggetti formalmente e strumentalmente collaboranti. Le Camere a modo loro c’avevano provato. Ne erano emersi, tra i vari solo genericamente discussi e tra i tre presentati, due testi che, pur attuando in modo molto soft le indicazioni della Corte, cercavano di tradurne l’impianto a maggioranze politiche componibili (ci riferiamo a quelli degli onorevoli Della Vedova e Bruno Bossio). Il testo unificato finito in commissione ci sembra una versione depotenziata e non troppo ben coordinata rispetto a quanto si era detto in sede di lavori. Oggi la Corte costituzionale assegna al Parlamento altri sei mesi: siamo, per questa fase della nostra giustizia costituzionale, al tempo del decisionismo attendista. L’autorevole Presidente Amato ha nel suo curriculum scientifico trattazioni giuridiche importanti sulla doverosità di certe garanzie secondo criteri inflessibili di legalità costituzionale - non è mistero, ad esempio, in materia di libertà di domicilio, che fosse in quella dottrina che con, tra gli altri, i Pace e i Barile, perorava una nozione estensiva e tuzioristica di domicilio. Il profilo sembrava quello giusto per mettere a sistema tanti dossier, a cominciare dai referendum, sui quali la Corte è però sembrata fare un doppio salto carpiato. Ha prima lodato un giudizio ermeneutico-valoriale in tema di ammissibilità, chiaramente sostanzialistico, per far partecipare e votare i cittadini, poi dichiarando inammissibili i tre referendum di maggiore presa collettiva (in materia di droghe leggere, suicidio assistito, responsabilità civile dei magistrati). Oggi si dice che l’ergastolo ostativo - la decisione ultima sul se e come superarlo - spetta a quello stesso, inattuoso, Parlamento, anche perché le ragioni della lotta alla mafia impongono adeguata ponderazione. E ci mancherebbe pure di operare alla leggera, come sembrava in più punti e almeno in prima stesura il nostro codice antimafia (invero, un testo unico, reso attraverso il decreto legislativo n. 159 del 2011). L’ostatività, se pure pensata contro le mafie, in realtà è ormai caratteristica di un ventaglio ampio dei reati, che a prescindere da tutto sono riconosciuti non meritevoli di qualsivoglia regime penitenziario che non sia solo carcerario. L’ostatività che oggi patiscono gli ergastolani all’art. 4 bis rischia di favorire le mafie: crea simulacri di uomini d’onore e rende gli ergastolani ostativi - minima parte dei detenuti per fatti di mafia, peraltro - perfettamente divisi tra chi se ne fa un vanto e chi ne subisce l’ingiustizia. Continuiamo a preferire, per contrastare le mafie, che sia un giudice a valutare se sussistono ancora legami tra il singolo e l’antica associazione mafiosa di appartenenza. Sulla base (si spera) di criteri più democraticamente ed efficacemente sostenibili di una astratta noluntas a collaborare. *Professore a contratto di Diritto e religioni nell’Università Magna Graecia di Catanzaro **Avvocato, segretario Camera Penale di Catanzaro Ingiuste detenzioni, media di 43mila euro per ogni risarcimento (24 milioni all’anno in totale) di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2022 I numeri da tenere a mente sono due: 24 milioni e 43mila euro. Ventiquattro milioni e mezzo di euro è quanto ha pagato l’anno scorso lo Stato per risarcire chi ha subito ingiustamente la carcerazione preventiva. Quanto invece ai 43mila euro, è l’importo medio dei risarcimenti corrisposti. Entrambi i dati sono relativi al 2021. I numeri sono riportati tra le righe della Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione - 2021” presentata dal ministero della Giustizia al Parlamento. Dati che sembrano destinati a far discutere, proprio mentre è alta la polemica tra i magistrati e la politica sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Gli oltre 24 milioni costituiscono un conto certamente meno salato di quello che era toccato alla casse pubbliche nel 2020, quando l’esborso era arrivato a sfiorare i 37 milioni di euro ma comunque ancora molto consistente. Dal 2019 al 2021 sono 50 i magistrati finiti sotto procedimento disciplinare - Cinquanta invece i magistrati finiti sotto procedimento disciplinare dal 2019 al 2021 per scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge, ma nessun procedimento si è finora concluso con una condanna. In calo i provvedimenti di riparazione per ingiusta detenzione - Due anni fa erano stati 750 i provvedimenti di riparazione per ingiusta detenzione, nel 2021 si sono fermati a 565 ed è diminuito anche l’importo medio corrisposto: è stato pari a poco più di 43mila euro, a fronte dei quasi 50mila euro del 2020. Uffici giudiziari del Sud più “generosi” - Anche se le “liquidazioni” restano diverse su base territoriale, con gli uffici giudiziari del Sud che tendono a essere più “generosi”. I risarcimenti più sostanziosi, sono stati emessi in relazione a provvedimenti della Corte di Appello di Reggio Calabria: oltre 6 milioni e 700mila euro complessivi, per una media di più 88mila euro, doppia di quella nazionale. Aumentano le decisioni di accoglimento delle richieste di riparazione - E quasi ovunque c’è un “deciso incremento” delle decisioni di accoglimento delle domande di riparazione Quanto ai procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati per ritardi nelle scarcerazioni, 27 sono ancora in corso, 9 si sono conclusi con l’assoluzione e 14 con la formula di “non doversi procedere”. Nel presentare questi dati il ministero ha chiarito tuttavia che il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione “non è di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. L’effetto pandemia Covid sulle misure detentive - Il rapporto segnala anche, come effetto della pandemia, il calo nel biennio 2010-2011 dell’insieme delle misure coercitive personali, compresa la custodia cautelare in carcere. Carcere di cui ha parlato la ministra Marta Cartabia al question time assicurando che dopo il via libera del Garante della Privacy, atteso in questi giorni, partirà la sperimentazione per le bodycam ai poliziotti penitenziari. Ingiuste detenzioni: in 3 anni procedimenti disciplinari per 50 magistrati, nessuna condanna di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 maggio 2022 Via Arenula presenta la “Relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione - 2021” al Parlamento. Ecco i dati. Calano le “misure cautelari coercitive” negli anni 2020-2021 rispetto al biennio precedente. La “diminuzione significativa” è “probabilmente dovuta agli effetti della pandemia”. A rilevarlo è la “Relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione - 2021”, presentata dal ministero della Giustizia al Parlamento. I dati esaminati parlano chiaro: nel 2021 le misure coercitive sono state 81.102, mentre nel 2018 hanno raggiunto quota 95.798. In diminuzione, in particolare, le misure di custodia cautelare in carcere: 24.126 nel 2021, 31.970 nel 2018. Dal report emerge che una misura cautelare coercitiva su tre è di tipo carcerario (32%). Gli arresti domiciliari sono invece il 25%. Mentre il controllo a distanza con il braccialetto elettronico non è molto diffuso. Questo tipo di provvedimento riguarda solo nel 14% dei casi. La distribuzione geografica vede il Nord Italia in testa con il maggior numero di misure coercitive personali (40,7%). Nel Sud la percentuale scende al 25,3%, al Centro si attesta al 20,4% e nelle Isole si arriva al 13,6%. I distretti di Roma e Milano sono quelli con il maggior numero di misure emesse. Via Arenula si sofferma nella propria relazione anche sui casi di ingiusta detenzione: ammonta a 24,5 milioni la somma relativa ai risarcimenti pagati nel 2021, relativi a un totale di 565 ordinanze. Anche qui il dato, elaborato dal ministero della Giustizia insieme con il Mef, è in calo rispetto al benchmark, cioè all’importo versato nel 2020, che era stato pari a 36 milioni. L’anno scorso l’importo medio dei ristori è stato di 43.374 euro (a fronte dei 49.278 euro del 2020). Un capitolo rilevante, e significativo, riguarda i provvedimenti emessi nei confronti dei magistrati responsabili di queste misure afflittive. Nel triennio 2019-2021 le azioni disciplinari promosse per le scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge hanno interessato 50 giudici. Si tratta di un dato al quale, però, non corrisponde una conclusione dei procedimenti, che finiscono su un vero e proprio binario morto. Nessuna condanna e tempi dilatati. Sono 27 i procedimenti tuttora in corso. La sezione disciplinare del Csm in nove casi esaminati ha emesso una sentenza di assoluzione. Altri 14 fascicoli sono stati chiusi con la formula di “non doversi procedere”. Altra sezione riguarda i procedimenti con la contestazione di ritardi nella scarcerazione. Il ministero della Giustizia ha promosso 45 iniziative: per 5 di questi casi si è attivato il pg della Cassazione, che ha anch’egli la titolarità dell’azione disciplinare. Dei 5 casi promossi nel 2021, ne sono stati definiti 3 (2 con l’assoluzione e uno con l’ordinanza di non doversi procedere). Restano in attesa di definizione 2 casi. In attesa di decisione, inoltre, i 21 procedimenti avviati nel 2020. Il ministero della Giustizia ha chiarito nella relazione presentata al Parlamento che il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione “non è di per sé indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. Cartabia: “Bodycam, al via dopo il parere del Garante privacy” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2022 La sperimentazione delle bodycam in carcere partirà appena sarà dato il via dal garante della privacy. Lo ha detto la ministra della giustizia Marta Cartabia al question time della Camera. Presto, dunque, partirà la sperimentazione in Lazio e successivamente in Campania per estendersi poi a tutto il territorio nazionale. “All’esito della risposta del Garante potrà concretamente essere avviata la sperimentazione per 6 mesi, in due regioni, Lazio e Campania”, ha illustrato la ministra, aggiungendo che “Il Dap si è già attivato per dotare i provveditorati di tutte le strumentazioni”. La Guardasigilli ha sottolineato le “opportunità offerte dalla tecnologia per la sicurezza in carcere, un’esigenza particolarmente urgente”. La guardasigilli rileva che per l’installazione a tappeto di videosorveglianza fissa ha già assicurato l’intera copertura finanziaria, mentre sulle bodycam, strumento che può rafforzare la tutela dell’ordine e della sicurezza, dopo il piano di alcuni anni fa mai entrato a regime, vi è ora il nuovo progetto di cui si attende la sperimentazione. Come riportato da Il Dubbio il Dap, ad ottobre dell’anno scorso, ha deciso di riprendere l’iniziativa, abbandonata per problemi di natura tecnica nel 2018, dell’introduzione dei dispositivi body cam, ovvero le telecamere mobili a disposizione degli agenti penitenziari utilizzabili per gli eventi critici. Parliamo della risposta da parte del ministero alla lettera del garante nazionale delle persone private della libertà, in merito alle perquisizioni generali ordinarie e straordinarie e alla dotazione di difesa prevista per gli operatori in tali circostanze. La ministra, in risposta al Garante, aveva reso noto che la competente Direzione generale del personale e delle risorse, già nel dicembre del 2020 ha avviato un censimento dei sistemi di video sorveglianza all’interno delle carceri, chiedendo ai Provveditorati regionali di indicare, per ciascun istituto penitenziario, l’esistenza e lo stato di funzionamento degli impianti, nonché di specificare l’entità dei fondi da stanziare in loro favore. Per quanto concerne i dispositivi body cam (Il Dubbio ne ha parlato a più riprese), il ministero aveva rivelato che il progetto iniziale di video sorveglianza in mobilità in uso al personale della Polizia penitenziaria (sistemi Scout ed Explor), risalente ormai negli anni, non è andato a regime per questioni di natura tecnica. Per questo motivo, il Dap ha deciso - già nel corso del 2020 - di riavviare l’iniziativa. Ora, per la sperimentazione, si attende il via da parte del garante della privacy. Intanto oggi dalle 17.30 si svolgerà l’Agorà “Carcere, sistema penitenziario ed esecuzione della pena. Quale riforma?”. Sono previsti, tra gli altri, gli interventi del vicesegretario del Pd Peppe Provenzano della responsabile Giustizia del Partito Democratico, Anna Rossomando, dei parlamentari Pd Alfredo Bazoli, Monica Cirinnà, Andrea Giorgis, Franco Mirabelli, Walter Verini, del Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, del Direttore Generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di messa alla prova del ministero della Giustizia Lucia Castellano, del costituzionalista Marco Ruotolo (già presidente della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita dalla ministra Cartabia), e del garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria e Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali Stefano Anastasia. Per le Agorà democratiche è il secondo incontro tematico sulle carceri dopo quello di Torino, che a marzo ha generato un confronto con le esperienze dei Garanti, di rappresentanti delle associazioni per la tutela dei diritti umani e del volontariato penitenziario, operatori di giustizia e amministratori locali. Il focus di oggi è sulle proposte di riforma dell’ordinamento penitenziario per introdurre misure innovative che incidano concretamente sulla piena attuazione della funzione rieducativa del carcere e sul miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di detenuti e operatori, affrontato anche il tema della custodia cautelare. Dopo due anni ancora troppi misteri sui morti nel carcere di Modena di Nello Trocchia Il Domani, 19 maggio 2022 L’8 marzo 2020 il carcere Sant’Anna di Modena si è trasformato in un girone infernale. Rivolte, detenuti morti, pestaggi. Su cosa sia accaduto in quei giorni è in corso, da tempo, una battaglia legale tra le procure della repubblica di Modena e Ascoli e gli avvocati dei familiari delle vittime e dell’associazione Antigone. L’esito non è scontato, sono stati presentati anche dei ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma un dato è certo: troppe domande restano ancora senza una risposta. E questo nonostante sia stata istituita una commissione ministeriale per indagare su quello che è successo. Commissione che ha stilato una relazione finale, che non è stata ancora pubblicata. Cosa sappiamo a due anni di distanza? “Pochissimo. Sappiamo che sono morte nove persone, diciamo otto perché l’esame autoptico di uno non era completo, per overdose di metadone”, dice l’avvocata Simona Filippi che rappresenta l’associazione Antigone. Quel giorno le telecamere dell’istituto erano accese? “Non ci sono riscontri formali sulla presenza di registrazioni delle telecamere. Alcuni frammenti, contenuti in un’annotazione, fanno pensare che a Modena ci fossero delle telecamere accese, ma da un altro fascicolo sembrerebbe che uno dei luoghi dove ci sarebbero state le violenze non fosse videosorvegliato”. Le stesse domande sono state rivolte al procuratore capo di Modena, Luca Masini, che però non ha risposto. I morti senza assistenza - A Modena, l’8 marzo 2020, i detenuti hanno dato vita a una rivolta violenta, devastando e incendiando alcune sezioni del carcere. Per questi fatti è in corso un’indagine. Un’altra è stata aperta a carico di quattro agenti della polizia penitenziaria accusati di lesioni e tortura. Un altro fascicolo riguarda invece la morte di otto detenuti, cinque deceduti nell’istituto di pena e tre dopo il trasferimento in altri penitenziari. Decessi avvenuti dopo l’assalto alla farmacia del carcere e l’abuso di metadone. L’indagine è stata chiusa con l’archiviazione e Antigone ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Perché? “Non condividiamo l’impostazione che è stata data dalla procura, condivisa dal giudice che ha archiviato. Di certo si è verificata una situazione eccezionale, a seguito della rivolta e devastazione del carcere, di certo c’era necessità di spostare i detenuti, di certo era nota la condizione di alterazione di alcuni detenuti dovuta all’assalto alla farmacia, ma questo avrebbe consigliato di trasferire in ospedale i reclusi a rischio overdose. Se non in ospedale almeno trasferiti in ambulanza in modo da monitorarne lo stato di salute o coinvolgendo lo staff sanitario del carcere di destinazione. Invece si è preferito lo spostamento con i mezzi della polizia penitenziaria e alcuni reclusi nelle ore successive sono morti”, dice Simona Filippi. Un altro ricorso è stato presentato dagli avvocati Luca Sebastiani, Barbara Randazzo e da Valerio Onida, l’ex presidente della Corte costituzionale scomparso nei giorni scorsi. “Le indagini dovevano approfondire le circostanze evidenziate, relative alla modalità di trasferimento dei detenuti, e sulla base di queste bisognava celebrare un processo. Nel nostro ricorso ricostruiamo gli accadimenti e li portiamo all’attenzione dei giudici europei”, risponde Filippi. Il caso Piscitelli - Tra i detenuti morti dopo il trasferimento c’era anche Salvatore Piscitelli. Trasportato nella notte da Modena ad Ascoli Piceno, è morto la mattina successiva al suo arrivo. Gli altri detenuti raccontano, in un esposto, di aver più volte sollecitato l’intervento dei sanitari, ma di essere stati ignorati. In questo caso il fascicolo, aperto dalla procura di Ascoli Piceno, si è chiuso con la richiesta di archiviazione contro la quale si è opposta l’associazione Antigone, ora si attende il verdetto del giudice. Nella stessa richiesta di archiviazione si riferisce di un ritardo, nel corso della mattina, nell’attivazione dei soccorsi, ritardo per cui, però, non è configurabile un reato. “La procura archivia sostenendo che gli eventuali soccorsi fatti a Piscitelli in tempo, e non in ritardo, non gli avrebbero salvato la vita. Noi ci opponiamo ricostruendo tutto il percorso fatto dal detenuto che entra di notte sui mezzi della penitenziaria già in condizioni di salute compromesse (dopo l’assunzione di metadone). Non solo, stando al resoconto dei detenuti, Piscitelli, poco prima del trasferimento, avrebbe subito un pestaggio nella caserma. Dall’autopsia, tra l’altro, sono emerse lesioni in alcune parti del corpo. Ad Ascoli è stata fatta una visita medica, ma non sappiamo quanto approfondita e neanche il perché non siano stati fatti accertamenti ulteriori”, dice Filippi. Secondo Antigone il percorso da Modena ad Ascoli, oltre all’assunzione di metadone, ha messo in evidenza omissioni e responsabilità che hanno determinato la morte di Piscitelli. Ora un giudice dovrà decidere se archiviare o no. “Il decesso atroce di Piscitelli ha spinto cinque detenuti a rompere il silenzio presentando un esposto alla magistratura perché, raccontano, hanno in ogni modo segnalato le condizioni pessime del detenuto che poi è morto, ma senza avere risposte. Il fatto che i reclusi scrivano un esposto è un’eccezione non la regola”, ricorda Filippi. I detenuti sentiti dai pubblici ministeri raccontano di aver più volte segnalato le condizioni di Piscitelli. Uno di loro, Mattia Palloni, ricorda anche che il detenuto, durante il viaggio verso Ascoli, gli ha donato una collanina come segno della loro amicizia. Palloni, dopo la morte di Piscitelli, la indossa sempre e l’ha mostrata ai magistrati che lo hanno interrogato. Le testimonianze dei detenuti, che parlano di ripetuti pestaggi, non sono agli atti del fascicolo sulle morti archiviato dal tribunale di Modena. L’unica cosa che non si archivia sono le domande, tante e senza risposta. Il carcere, luogo di morte senza pena di morte di Alessandro Stomeo Gazzetta del Mezzogiorno, 19 maggio 2022 L’idea di fondo che domina la Costituzione rispetto alla pena quale sanzione per l’autore di reati, è quella della cosiddetta “rieducazione”, ma non mi sembra che l’anelito contenuto nell’art. 27 costituzionale si sia mai tradotto in realtà, con ciò scontentando tutti. La realtà, comunque, ci dice che la detenzione in carcere, per come vissuta, è probabilmente uno dei più visibili e nefasti errori della società moderna, che non ha saputo cogliere ed approfondire la grande innovazione e la lucida prospettiva che i grandi giuristi, filosofi ed intellettuali avevano introdotto con l’umanizzazione delle pene corporali, della tortura, della pena di morte. Ma cosa è diventata e come si è evoluta la pena della detenzione in carcere, quanto è aderente al dettato della Costituzione e, soprattutto, quale è lo scopo condiviso della pena detentiva al nostro tempo? Lo Stato che irroga le pene detentive e le esegue in che modo affronta i nodi problematici che gravitano intorno al carcere ed alla funzione della pena? Purtroppo i dati e le oggettive evidenze dicono che il carcere (ed anche la pena) rimangono argomenti demagogici da utilizzare a scopo elettorale. C’è chi vorrebbe “gettare le chiavi” per i corruttori e i corrotti, chi per i ladri d’appartamento, chi per gli “zingari” e gli immigrati irregolari, chi per gli stupratori o gli spacciatori, molte volte sulla scia di freschi fatti di cronaca. Intanto, però, il carcere è diventato un luogo di morte, senza pena di morte, oramai appunto abolita. Si muore perché si sceglie di farlo, per suicidio; l’ultimo nel carcere di Foggia il 12 maggio 2022, che si aggiunge ad altri 22 suicidi solo nell’anno in corso, oltre a 50 decessi per altre cause. I suicidi in carcere nell’anno passato sono stati 54, mentre 62 nel 2020 con 68 e 90 decessi per altre cause negli stessi anni. Il tasso percentuale di suicidi in carcere è circa 10 volte superiore che all’esterno, più o meno 10 suicidi ogni 10.000 detenuti. L’idea iconoclastica del carcere come luogo di isolamento dei pericolosi e come luogo di “redenzione” per i deviati, si è rivelata falsamente rassicurante e fallimentare, lasciando il posto ad una realtà ben diversa nella quale gli istituti di pena sono luoghi vuoti di speranza di reinserimento sociale, approssimativi nella architettonica, fatiscenti, con carenze di organico sia tra le Forze di Polizia Penitenziaria che, soprattutto, tra gli operatori sanitari, sociali e di supporto amministrativo. Il carcere, insomma, con i problemi che porta, è diventata una patata bollente che si vuole accollare tra le mani del primo che passa, visto che non è neanche un affare economico tanto che con il PNRR Italia pare che gli stanziamenti siano di 132,9 milioni di euro, utilizzabili dal 2022 al 2026 per la “costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture”. Solo pochissime strutture in tutta Italia ne potranno usufruire. Nessun Governo ha avuto ed ha una progettualità condivisa su come uscire da una impasse che riguarda decine di migliaia di individui. Il lavoro della Commissione “Ruotolo”, voluta dal Ministro Cartabia, e il progetto di riforma della stessa Cartabia sono buone intenzioni che dovranno fare i conti con un assetto parlamentare tutt’altro che stabile. Albamonte: “Così la riforma ha colpito i pm e diviso noi toghe” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 maggio 2022 Il segretario di AreaDg Eugenio Albamonte prova a spiegare il flop dello sciopero. “Torni l’unità”. Sullo sciopero dell’Anm Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, ci dice: “Non ci siamo resi conto di quanto questa idea di modifica strutturale della magistratura potesse già aver intaccato l’unità al nostro interno”. Come reagire? “Spingere fortemente verso una unità e contrastare queste dinamiche di parcellizzazione”. L’ex presidente dell’Anm Pasquale Grasso e Articolo101 ritengono che sarebbe necessario un passo indietro dei vertici dell’Anm dopo il risultato dello sciopero... La scelta dello sciopero è stata adottata a larga maggioranza da una assemblea molto partecipata, sia in presenza che sotto forma di deleghe. Una volta che in democrazia si è presa una decisione, questa va attuata. Però con un 48,50 per cento di adesioni c’è qualcosa che non ha funzionato... Questa riforma ha come strategia quella di distinguere tra un’alta magistratura e una bassa magistratura. Da una parte la Corte Suprema di Cassazione, le cui pronunce vengono oggi rinvigorite da un miglior significato anche per le ricadute che hanno sulla carriera, insieme alla dirigenza degli uffici, a cui vengono dati strumenti maggiori e incisivi anche per esercitare la leva del disciplinare al fine di poter perseguire più efficacemente i risultati che ci si prefigge. Dall’altra parte c’è chi all’interno dell’ufficio sarà sottoposto a quelle misure che si spera verranno utilizzate in modo sapiente e virtuoso. Senza dubbio, dunque, si tratta di una riforma che crea delle faglie, anche generazionali, all’interno della magistratura: tra giovani magistrati che hanno davanti a loro sei o sette valutazioni di professionalità e magistrati più anziani, più vicini al termine della carriera e convinti di poter mantenere la schiena dritta e continuare a fare, come hanno sempre fatto, il loro lavoro. Non è un caso che l’adesione maggiore ci sia stata tra i magistrati più giovani. Quello di cui non ci siamo resi conto è quanto questa idea di modifica strutturale della magistratura potesse già aver intaccato l’unità al nostro interno. Quindi è colpa della riforma se siete divisi... Le dirò di più, ossia che in prospettiva si potranno creare faglie ancora più pericolose: tra civilisti e penalisti, considerato che la riforma si rivolge a tutta la magistratura ma è chiaramente concepita per ridurre la capacità della giurisdizione penale. Tra giudici e pm, in quanto gran parte di essa è concepita per legare le mani alla magistratura requirente. Tra giudici di primo grado e d’appello, e tra questi ultimi e la Cassazione, considerato che si andranno a valutare gli esiti dei procedimenti. Seguendo questo meccanismo arriveremo ad una magistratura polverizzata. L’unica reazione che possiamo avere oggi è spingere fortemente verso una unità e contrastare queste dinamiche di parcellizzazione che si sono manifestate in modo preoccupante attraverso la decisione di aderire o meno allo sciopero. Però qualcuno deve assumersi la responsabilità di non aver compreso la divisione già in atto... Non è colpa di nessuno. Semplicemente le varie articolazioni della magistratura hanno reagito alla riforma per come la percepiscono sulla loro stessa pelle, quindi con toni e modalità di preoccupazione differenti e anche con una diversa valutazione dell’opportunità di utilizzare lo strumento dell’astensione. Il problema è che la magistratura deve rendersi conto nella sua interezza che, al di là di quanto la riforma possa incidere sulla prospettiva professionale di ciascuno di noi, occorre custodire l’idea della magistratura che avevamo quando abbiamo iniziato a esercitare le nostre funzioni, per quanto mi riguarda negli anni 90. Tuttavia il prezzo da pagare per non aver compreso questa spaccatura e per aver mal gestito lo sciopero, come qualcuno sostiene, è quello di aver perso potere con il legislatore. Una cosa è fare pressione sul Senato con una Anm compatta, altro è presentarsi al tavolo della trattativa con una magistratura spaccata... Quanto ai tempi di gestione della protesta , sono stati determinati dal fatto che i tempi del Senato, inizialmente ristretti, si sono improvvisamente dilatati. Per il resto è la prima volta che la magistratura, di solito molto unita in queste dinamiche, si presenta in modo così visibilmente diviso. Luca Palamara in una intervista a questo giornale ieri ha detto che il risultato dello sciopero “è un segnale di sfiducia, c’è crisi di consenso”... C’è chi questa crisi di fiducia l’ha generata e c’è chi cerca di reagire, limitando i danni creati. “Protesta suicida dell’Anm, la politica ora detti le regole” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 19 maggio 2022 Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm, spiega che “lo sciopero dei magistrati era un’operazione suicida fuori dal tempo” e che “questo è il tempo della responsabilità della politica”, il cui mestiere “è quello di perseguire gli interessi generali, anche a costo di sacrificare quelli delle corporazioni”. Per poi strigliare gli stessi magistrati: “È chiaro che un pm che si vede respingere tutte le proprie richieste di rinvio a giudizio o di condanna, evidentemente non sa fare il proprio mestiere”. Onorevole Vietti, la debacle dello sciopero indetto dall’Anm è un fatto nuovo nella storia dei rapporti tra magistratura e politica. Che giudizio dà dell’accaduto? Credo che chiunque avesse un minimo di sensibilità politica fosse in grado di capire che uno sciopero dei magistrati in questo momento sarebbe stato un fallimento. La categoria esce da un periodo molto critico, di forte delegittimazione e di perdita di credibilità presso l’opinione pubblica. Ma anche di frustrazione dei vari magistrati che fanno il loro dovere e che ovviamente non amano la rappresentazione negativa della categoria emersa negli ultimi due anni. Lo sciopero era contro la riforma Cartabia: pensa che il testo della guardasigilli possa cambiare in meglio la giustizia nel nostro paese? Sono il primo a dire che la riforma Cartabia non risolve i problemi, ma impostare lo sciopero dicendo che attenta all’autonomia e all’indipendenza della magistratura è fuori dal tempo. La giustizia in Italia così com’è non funziona, per cui dire “non vogliamo cambiare niente” è un’operazione suicida. Nell’ordine giudiziario, per la prima volta, c’è l’impressione che una buona fetta dei magistrati non si riconosca nell’Anm: come può incidere questo nella politica della giustizia? Penso che le riforme le debba fare la politica. Perciò è sbagliato in via di principio stare a chiederci cosa debbano o non debbano fare i magistrati. Questo è il tempo della responsabilità della politica. Se la politica c’è, batta un colpo. Quando leggiamo nella Costituzione che i magistrati sono soggetti solo alla legge, dobbiamo intendere che sono soggetti innanzitutto alla legge, che però è scritta dal legislatore. Occorre tornare alla divisione dei poteri: è la legge che si impone al magistrato, non viceversa. Dunque la palla è nel campo della politica: cosa dovrebbe fare per cambiare in meglio il nostro sistema giudiziario? Se la politica, dopo una fase (purtroppo) di delegittimazione della magistratura, nella quale è emerso plasticamente che il suo governo così com’è non funziona, non ha il coraggio di intervenire e cambiare le regole del gioco, allora abdica al proprio mestiere, che è quello di perseguire gli interessi generali, anche a costo di sacrificare quelli delle corporazioni. La ministra Cartabia ha provato a farlo con le proprie riforme: come giudica il fatto che gli avvocati possano votare sulla valutazione di professionalità di un magistrato? Avevo già inserito una norma simile nelle proposte di modifica dell’ordinamento giudiziario che consegnai al ministro Orlando. Certo è un po’ poco per raddrizzare il governo della magistratura. Se poi penso che nel silenzio generale la riforma aumenta i membri del Consiglio superiore da 24 a 30, mi chiedo se il governo sia in sintonia con la realtà o se viva fuori dal mondo. Qual è il suo parere sulla norma che impone di nominare i capi di tribunali e procure seguendo l’ordine in cui quegli uffici sono andati scoperti, e non con le cosiddette nomine “a pacchetto”? Anche questo fa parte delle proposte che feci nella commissione Orlando, perché è semplice buonsenso. Il problema è che finché seguiremo un testo unico della dirigenza con 100 articoli che spiegano nei minimi dettagli quali caratteristiche deve avere il capo dell’ufficio e che quella è una scelta di responsabilità “politica”, continueremo a far governare i magistrati ordinari da quelli del Tar. La riforma prevede che un magistrato possa essere penalizzato se si scopre che i suoi provvedimenti sono puntualmente smentiti: che ne pensa? Il fascicolo del magistrato c’è già, sfatiamo l’idea che sia una rivoluzione. Il problema è come lo si usa. Se vogliamo dire che un magistrato va valutato anche per gli esiti della sua attività sono totalmente d’accordo. È chiaro che un pm che si vede respingere tutte le proprie richieste di rinvio a giudizio o di condanna, evidentemente non sa fare il suo mestiere, che non è quello di fare inchieste eclatanti che finiscono sui giornali, ma portare a casa le condanne quando ci siano sufficienti elementi per chiederle e per ottenerle. La stessa cosa ovviamente vale per i giudici ai quali vengono ribaltate le sentenze in appello o in cassazione. No, la riforma non è un attentato all’indipendenza dei magistrati di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 19 maggio 2022 Continua incessante il vigoroso dibattito sulla Riforma Cartabia e, in particolare, sulle modifiche che questa apporterebbe nella vita lavorativa dei magistrati. Da un lato, infatti, in nome di una maggiore efficienza della macchina della giustizia - elemento di per sé neutro, e anzi, da più parti auspicato - viene contestato il presunto metodo “aziendalista” che parrebbe esser stato prescelto dal Legislatore e che condurrebbe a ottenere i risultati attesi mediante una tanto laboriosa quanto rischiosa “gerarchizzazione degli uffici giudiziari”, perseguita mediante una stratificazione del programma di gestione. Gestione non più calibrata solo sull’ufficio ma anche sulla sezione e da questa sul singolo magistrato, supportata dalla minaccia dello strumento disciplinare nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. I sostenitori di tale orientamento, tra i quali, da ultimo, il dottor Claudio Castelli, presidente della Corte d’Appello di Brescia, ritengono che alcune delle proposte di cui alla Riforma contribuirebbero a colpire in profondità l’indipendenza del magistrato. Trattasi di quelle che introdurrebbero nuove ipotesi di illeciti disciplinari o estenderebbero la portata di quelli già presenti, che amplierebbero i poteri dei capi degli uffici, che vedrebbero la creazione di un fascicolo personalizzato delle performance del magistrato ai fini della valutazione di professionalità e delle attitudini per il conferimento di incarichi dirigenziali, sulle quali lo scrivente ha già detto su queste pagine. Non solo. L’intervento riformatore, a detta del dottor Castelli, incrementerebbe un “deleterio carrierismo e arrivismo” tale da condizionare i magistrati ad assumere come unico metro di giudizio della loro attività il “prodotto sentenze”, determinando così un certo conformismo nelle decisioni. Conseguenza immediata di questa deriva sarebbe l’abdicazione dell’organo giudicante ad una visione evolutiva del diritto, perlomeno in tutti quei casi in cui forte sarebbe l’esigenza di adottare pronunce meno comode ma più “coraggiose”. D’altro canto, v’è chi invece accoglie con maggior favore la Riforma, osservando con una buona dose di onestà intellettuale che “uno dei temi cruciali per la riforma della giustizia è la scarsa efficienza di molti uffici giudiziari”. Osservazione di Giuseppe Pignatone, attualmente in carica come presidente del Tribunale dello Stato Vaticano, il quale rileva - del tutto condivisibilmente che seppur la scarsa efficienza di certi uffici giudiziari non possa attribuirsi tout court a una scarsa produttività dei singoli magistrati, sussistono tuttavia ampi margini per un miglioramento tanto dell’organizzazione dei primi quanto dell’operato dei secondi. Non si deve infatti dimenticare che il principio ispiratore di questa Riforma, prima ancora che su correzioni a meccanismi più o meno perfettibili che interessano l’amministrazione della giustizia, poggia su una riconquista della credibilità e dell’immagine dell’indipendenza del magistrato agli occhi dei cittadini, i quali inevitabilmente sono portati a valutare il loro grado di affidamento nella stessa in ragione dei soggetti (e delle loro professionalità) che incontrano nell’amministrarla. È in questi termini, dunque, che le innovazioni apportate dalla Riforma, pur comportando delle importanti modifiche sul piano del funzionamento degli uffici giudiziari e su quello dell’attività professionale del singolo magistrato, si inseriscono e vanno lette. Smettiamola: nessun attentato all’indipendenza del magistrato, costituzionalmente tutelata e strenuamente difesa da tutti gli operatori del diritto. La qualità dell’amministrazione della giustizia può mantenersi solo in un sistema nel quale la valorizzazione di ciascun magistrato (anche in un’ottica di carriera e di ottenimento di incarichi direttivi o semidirettivi) passi attraverso una costante valutazione soggettiva, completa, integrata, trasparente ed obiettiva di professionalità, come in ogni ambiente lavorativo. Il merito va premiato tanto quanto vanno investigate e, in taluni casi, sanzionate prassi deontologicamente scorrette o gravi e inescusabili negligenze. Lo si ripete, come in ogni ambiente lavorativo e in ogni ordine professionale. Nessuna caccia alle streghe, ma solo l’ambizione di riavvicinare la Giustizia al cittadino, nel nome del quale è amministrata, destinatario ultimo e primo interessato dell’operato dell’attività della magistratura. Amministrare la giustizia significa creare un Sistema che, fermo nei principi costituzionalmente tutelati, sia anche efficiente; sia, cioè, in grado di combinare saggiamente la libertà di giudizio del singolo con l’esigenza di garantire una certa uniformità delle decisioni. Non si dimentichi, poi, non potendo che aderire sul punto a quanto lucidamente osservato dal dottor Pignatone, che “una giustizia inefficiente è di per sé giustizia negata, che contribuisce quanto gli errori clamorosi o la mancata professionalità a provocare danni serissimi alla collettività”. *Avvocato, Direttore Ispeg Giustizia, riforma impossibile: perché l’Italia è condannata a stare ferma di Bruno Ferraro* Libero, 19 maggio 2022 “La giustizia spacca il governo” e “la riforma è un bluff”: questi alcuni titoli di articoli giornalistici che hanno tentato di fotografare l’estrema difficoltà di una riforma della giustizia nel nostro Paese, al cospetto di una categoria (quella dei magistrati) votata alla difesa ad oltranza di prerogative costituzionali che nel corso degli anni si sono trasformate in privilegi. Eppure dalla riforma della giustizia dipendono anche i fondi messia disposizione dall’Europa, pronta a valutare la serietà del PNRR relativo e legittimata a decidere la revoca totale o parziale dello stanziamento. Questi i punti: le candidature per il CSM, che dovrà essere rinnovato prima dell’estate, vanno sottratte alle correnti; la mera separazione delle funzioni giudicanti e requirenti è cosa molto riduttiva rispetto alla richiesta di separazione delle carriere; la partecipazione del Foro alla valutazione sulla professionalità è prevista in misura irrilevante (operazione di facciata); i magistrati distaccati nei ministeri vengono addirittura “premiati” con il cumulo di stipendio ed indennità. Non viene affrontata l’anomalia dei magistrati operanti all’interno del Ministero della Giustizia; le cosi dette pagelle di valutazione (pareri sulla professionalità) richiedono sentenze definitive sull’esito dei processi condotti dagli interessati, mentre le valutazioni arrivano prima ogni quattro anni; vengono meno le scuole di specializzazione che preparavano al concorso, per cui aumenta il rischio di magistrati improvvisati; non si è voluto introdurre il sistema del sorteggio per la scelta dei componenti del CSM, né nella forma piena (con la scusa dell’incostituzionalità) né nella forma temperata (mantenendo in vigore la successiva nomina per elezione); nulla è previsto in tema di responsabilità civile, disciplinata con norme che di fatto non incidono mai sulle tasche dei giudici che hanno errato e continuano a prevedere la responsabilità dello Stato sebbene lo Stato sia il primo danneggiato. Sono alcuni soltanto dei nodi che attengono all’organizzazione ed alla disciplina della magistratura italiana, legittimando la sensazione che nessuna riforma è possibile insieme ai magistrati, laddove l’avvio in Parlamento della discussione sulla riforma Cartabia ha determinato la pronta reazione dell’ANM con la proclamazione di uno sciopero sicuramente impopolare ed inopportuno. Una prima conclusione è al momento impossibile e, per quanto mi concerne, vorrei ulteriormente segnalare gli aspetti della scarsa produttività, del gran numero di magistrati fuori ruolo, della cattiva selezione dei dirigenti degli uffici, delle cosiddette carriere parallele e della separazione delle carriere (oggi più che mai attuale e non rinviabile). Non parlo, in questa sede, avendolo già fatto in altri scritti precedenti, delle riforme rivolte allo snellimento della giustizia civile ed alla “purificazione” del processo penale, perché estranee al problema costituito dalla collocazione del magistrato nell’assetto della giustizia *Presidente aggiunto Onorario di Corte di Cassazione Il giudice Cioffi e il pm Itri: “Colleghi, votiamo sì al referendum” di Annalisa Chirico Il Foglio, 19 maggio 2022 I cinque quesiti referendari, su cui gli italiani potranno esprimersi il 12 giugno, agitano i magistrati. Ma c’è chi, tra i togati, spinge per andare a votare per “smetterla di lamentarsi della mala giustizia”. C’è chi dice no, anzi sì. I cinque quesiti referendari, su cui gli italiani potranno esprimersi il 12 giugno, agitano la corporazione togata. “Io voterò e voterò sì - dice al Foglio il sostituto procuratore di Napoli Paolo Itri, membro dell’Anm, in quota Magistratura indipendente, fino al 2020. “Poi mi sono dimesso, dopo lo scandalo Palamara. Gli accordi spartitori tra le correnti erano noti a tutti. Ma a quel punto ho detto basta e mi sono tirato fuori. Le correnti sono un fenomeno eversivo”. Lei ne ha fatto parte. “Ho aperto gli occhi e ho imparato dalla mia esperienza. In seno all’Anm e alle correnti ci sono persone che combattono contro questo sistema”. Venendo al referendum, dottor Itri, lei voterà sì a tutti i quesiti? “L’unico su cui nutro qualche dubbio è quello riguardante la custodia cautelare in carcere. L’Italia non può permettersi alcuna forma di lassismo. La questione centrale è che il magistrato sia una persona dotata di equilibrio e professionalità”. I test psicoattitudinali per chi decide della libertà altrui sono un buon viatico? “Non sono contrario ma dai magistrati dobbiamo pretendere professionalità. La riforma Cartabia è un pannicello caldo perché non tocca le correnti. Se c’è una cosa che minaccia l’indipendenza dei magistrati sono le correnti, non la politica”. Per pm e giudici carriere separate? “Sono favorevole alla separazione delle carriere anche se non è il primo dei nostri problemi. La normativa vigente impone diversi paletti, come l’obbligo di cambiare funzione e regione. Tuttavia, se il divieto assoluto può servire a pacificare gli animi, non mi oppongo”. E sulla valutazione dei magistrati? “Non temo il giudizio degli avvocati ma ritengo che sia un rimedio poco efficace. Mi domando fino a che punto gli avvocati si sentiranno liberi di giudicare un magistrato che desidera avanzare in carriera con il rischio di ritrovarselo in un processo. Quanto al Csm, mi sembra positivo lo sforzo referendario per estendere la possibilità di candidarsi per il Csm ma non mi illudo che questo possa ridurre lo straripante potere correntizio. Servirebbe un approccio più coraggioso sul sistema elettorale. Esempio? Il sorteggio temperato”. Al tribunale di Napoli nord il giudice Giuseppe Cioffi, con un passato associativo nell’Anm, nelle file di Unicost, spiega che andrà a votare perché “è un’occasione per far sentire la propria voce con l’espressione libera del voto. I quesiti potevano essere meglio formulati, tuttavia sarebbe auspicabile una maggiore informazione, gli italiani non sanno su che cosa si andrà a votare”. Nel merito dei quesiti? “Sposo le opinioni espresse da Carlo Nordio sulla necessità di sostenere i referendum. O si va a votare o bisogna smetterla di lamentarsi della mala giustizia. Oggigiorno mi ritrovo inaspettatamente a condividere le posizioni di illustri magistrati come Bruti Liberati o Maddalena, in passato ‘antagonisti associativi’. Quando l’ex procuratore della Repubblica di Milano critica il processo mediatico o l’astensione dei magistrati contro la riforma Cartabia sono con lui”. E i referendum? “Voterò a favore, pur con qualche caveat. Sulla valutazione dei magistrati i meccanismi di controllo esistono già ma è giusto apportare modifiche. Non possiamo pretendere di restare immutabili”. Sul carcere preventivo? “Esistono esagerazioni ed esasperazioni nello stesso concetto ‘custodiale’. La carcerazione preventiva è stata caricata di significati e funzioni che non dovrebbe avere, anche a causa della durata eccessiva dei processi. E ciò è inammissibile, perché la libertà individuale è un bene supremo”. Sulla incandidabilità dei condannati in primo grado? “La norma in questione è stata dettata dall’urgenza di assecondare un’istanza punitiva proveniente da una parte della società e della politica. Anche in questo caso l’eccessiva durata dei processi incide negativamente: se l’accertamento giudiziario verso un politico si completasse in pochi mesi, non servirebbero automatismi normativi”. Referendum sulla giustizia, Carlo Nordio: “Al voto per una riforma vera” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 19 maggio 2022 Tra i principali sostenitori del sì ai cinque quesiti referendari in materia di giustizia c’è Carlo Nordio, ex magistrato e presidente del Comitato “Sì per la libertà, sì per la giustizia”. Lo raggiungiamo telefonicamente mentre è in viaggio, destinazione Teramo, per un’iniziativa a supporto della campagna per il sì, organizzata dalla Fondazione Luigi Einaudi. Dottor Nordio, perché votare sì? “Perché è una risposta strategica che va al di là del significato dei singoli quesiti, che sono anche tecnicamente difficili da comprendere da parte degli elettori. Ai cittadini chiediamo se siete contenti della giustizia penale italiana, allora disinteressatevi dei referendum ed andate al mare. Ma se ritenete - come tutto lascia supporre - che siate insoddisfatti per la lunghezza dei processi, per l’abuso della custodia cautelare, per l’interferenza dei pubblici ministeri sulla politica e più in generale per lo sfacelo della giustizia penale italiana, allora questa è l’occasione per esprimervi”. Qual è il messaggio che gli elettori possono lanciare votando sì ai referendum? “È un messaggio orientato ad una riforma radicale della giustizia. Questo Parlamento non ha la forza politica di procedere con questa riforma, ma una vittoria del sì ai referendum sarebbe un messaggio vincolante per il prossimo Parlamento, per una riforma appunto radicale e liberale, perché la sovranità appartiene al popolo ed il referendum, per quanto nella sua forma abrogativa abbia dei limiti tecnici, è comunque espressione massima della volontà popolare”. Cosa ne pensa della riforma della giustizia della guardasigilli Marta Cartabia? “La riforma Cartabia contiene soluzioni buone, è il minimo sindacale per ottenere gli aiuti economici da parte dell’Unione europea, ma incontra dei vincoli insormontabili. Il primo è che le riforme non le fa il ministro, ma il Parlamento. Questo Parlamento non ha, però, la volontà politica né il tempo di varare provvedimenti seri. Il secondo vincolo è che il nostro processo penale si è rivelato incompatibile con la Costituzione, tanto che è stato modificato diverse volte dalla Consulta, e ciò ha provocato norme incoerenti. Incoerenze che sono state aumentate dai successivi interventi del legislatore, per cui oggi il processo penale è ingestibile, lungo, incerto e per di più soggetto a mille variabili capricciose della sorte. La riforma Cartabia incontra questi limiti, entro i quali ottenere i sussidi europei. È, invece, necessaria una grande riforma, indispensabile per realizzare in Italia una giustizia più rapida, più efficiente e più giusta”. La sorprende l’atteggiamento di Enrico Letta, che pur lasciando libertà di scelta ai suoi parlamentari si è schierato per il no ai quesiti? “In parte mi sorprende perché Letta è sempre stato molto equilibrato ed attento nei confronti delle ragioni dei garantisti. Dall’altro lato, me lo aspettavo perché il Pd deve fare moltissima strada per emanciparsi dalla sua soggezione nei riguardi della magistratura: una soggezione che va avanti da lungo tempo anche perché la magistratura, eliminando Silvio Berlusconi per un po’ di tempo dalla vita politica, ha reso oggettivamente un favore all’opposizione di sinistra. Un po’ per la paura di inchieste, un po’ per gratitudine verso i magistrati, il Partito democratico è ancora esitante per pronunciarsi a favore di una riforma che alla magistratura potrebbe dispiacere. Però, ci sono nell’ambito dei dem delle forze innovative, garantiste, che non vanno sottovalutate e che io spero abbiano complessivamente voce in capitolo nel partito. L’apertura fatta da Letta, di lasciare libertà di scelta ai suoi parlamentari, è una specie di compromesso tra questi vincoli storici che il Pd ha nei confronti della magistratura giustizialista e l’istanza di rinnovamento che preme all’interno del partito”. Ricordando Enzo Tortora in vista del referendum di Claudia Diaconale L’Opinione, 19 maggio 2022 Il 18 maggio del 1988 muore Enzo Tortora diventato, suo malgrado, il simbolo di tutte le vittime della giustizia. La sua vicenda professionale è nota: Tortora infatti è stato conduttore e autore radiofonico e televisivo, ma anche attore, giornalista e politico. Nasce a Genova nel 1928, si laurea in giornalismo ed inizia la sua carriera con Paolo Villaggio in alcuni spettacoli. Viene assunto come conduttore radiofonico dalla Rai a soli 23 anni, per lo spettacolo “Campanile d’oro”; nel 1956 compare per la prima volta sullo schermo presentando “Primo Applauso” in coppia con Silvana Pampanini. Quella trasmissione segnerà la svolta definitiva per la sua carriera e Tortora diventa il protagonista di diverse trasmissioni di successo (tra cui “Telematch”, “Campanile sera”, “Il gambero”, “Portobello” e “La Domenica Sportiva”). Il 17 giugno 1983 inizia la sua inesorabile discesa nell’inferno della malagiustizia: viene arrestato con l’accusa di associazione camorristica e traffico di droga per presunti legami con il clan di Raffaele Cutolo. Nonostante Tortora continui a professare sbigottito la propria innocenza definendo tutto il caso come “il più colossale errore” della storia giudiziaria italiana, rimarrà recluso per 7 mesi (sarà momentaneamente liberato nel gennaio 1984). Poi il 17 settembre 1985 viene condannato a dieci anni di carcere. Resterà agli arresti domiciliari avendo rinunciato all’immunità parlamentare, essendosi dimesso dal Parlamento europeo nel quale rappresentava il Partito Radicale. La sua innocenza verrà riconosciuta e dimostrata con l’assoluzione definitiva della Corte d’appello di Napoli il 15 settembre 1986. È bene ricordare che nel corso dell’iter giudiziario verrà smontato tutto l’impianto dell’accusa: dalle false testimonianza, ai falsi testimoni, fino alle perizie calligrafiche sbagliate. La vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli, in una nota ha dichiarato: “A 34 anni dalla scomparsa di Enzo Tortora, suo malgrado celebre vittima della malagiustizia, nonostante i passi avanti degli ultimi mesi, c’è ancora tanto da fare per riformare un ordinamento come quello giudiziario che dovrebbe essere sinonimo di trasparenza, correttezza e terzietà. Solo così i cittadini potrebbero avere reale fiducia nella giustizia. I referendum che si svolgeranno a breve, a meno di un mese dall’anniversario della morte di Enzo Tortora, rappresentano un’occasione storica, la più grande degli ultimi anni, per riaffermare la necessità di una giustizia realmente giusta. Il dna autenticamente garantista di Forza Italia ci vede impegnati in prima linea per sostenere questa battaglia che mi auguro sarà sposata da tutte le forze che si definiscono liberali e, soprattutto, riformiste”. Simona Viola, responsabile giustizia di Più Europa, si esprime più o meno sulla stessa linea: “Enzo Tortora è stato un ‘eroe normale’, un cittadino incappato nella giustizia ingiusta dei teoremi che ha scelto di fare della propria vicenda privata una questione politica. Con coraggio si è prima candidato e poi, eletto, ha rinunciato all’immunità parlamentare per dimostrare la propria totale e assoluta innocenza. Un esempio unico di impegno civile e politico. Ricordare Enzo significa accendere un faro sulla ‘malagiustizia’, non dimenticare e spronare le riforme necessarie, ancora mancanti, affinché il suo dramma non si ripeta”. Anche il senatore Pd Andrea Marcucci si unisce al coro tramite i social: “Enzo Tortora era un uomo perbene, un professionista affermato. 34 anni dopo la sua morte, pensiamo a lui, la sua vicenda umana fa sanguinare ancora il cuore per come venne stritolato da un’assurda macchina della giustizia, fatta di finti pentiti, di imperizia dei giudici e di difese corporative. Allora come oggi, la parola magica è: riforma della giustizia, da perseguire ovunque sia possibile, in Parlamento e nel Paese. Da liberale, amico dei radicali, ho l’orgoglio di pensare che la mia tradizione politica fu sempre con Enzo Tortora, soprattutto durante quei mesi terribili”. Eppure, nonostante tante belle parole e molte buone intenzioni, a 34 anni di distanza dalla sua morte in Italia ancora ci sono più di 1.000 casi l’anno di ingiusta detenzione. Eppure, in vista del referendum sulla giustizia, i magistrati dell’Anm hanno scioperato per protesta. Eppure, il segretario del Pd Enrico Letta, solo ieri (martedì 17 maggio) ha dichiarato: “Non è coi referendum che si fa una riforma complessiva”. Però qualcosa va fatto. E la politica sono più di 30 anni che tergiversa. E allora sì: le riforme si possono fare anche con i referendum. Gaia Tortora: “Informazione vergognosa sui quesiti. Si dà per scontata una bassa affluenza” di Francesco Boezi Il Giornale, 19 maggio 2022 La giornalista e figlia di Enzo: “Referendum tecnici? Un motivo in più per spiegarli ai cittadini. Come con mio padre, la politica se ne frega”. Gaia Tortora, giornalista, nota conduttrice televisiva e figlia di Enzo Tortora morto il 18 maggio di 34 anni fa, denuncia l’esistenza di un problema d’informazione legato all’imminente referendum sulla giustizia. C’è una polemica sulla copertura televisiva del referendum. Qualcuno parla persino di “complotto”... “Non si tratta di un complotto ma di cialtroneria o di sciatteria. Il che è anche peggio. Perché si dà per scontato che questo referendum non possa registrare una grossa affluenza. Le persone dovrebbero essere informate in ogni caso. Lo trovo gravissimo. Penso sia vergognoso che non si parli del referendum da nessuna parte”. Si ritiene delusa dall’atteggiamento della politica? “Non sono delusa. Si era capito subito che in molti non credessero in questo referendum. Io credo molto nello strumento referendario, perché è un’arma di espressione politica. Però l’informazione non informa, dunque non pone i cittadini nelle condizioni di smetterla di lamentarsi. Magari, com’è successo nel caso di mio padre, non servirà a niente. Perché la politica ai tempi se ne fregò, e capisco che ora ci sia una sorta di disillusione. Ma non ci si può permettere il lusso di demandare”. Invece il cosiddetto “fronte giustizialista”? “Non c’è uno sbilanciamento verso il No, ma perché sin dal primo giorno si insiste sul fatto che questo referendum non serva a niente e che il quorum non sia raggiungibile. Certo, i quesiti sono molto tecnici, è vero. Quindi? Facciamo uno sforzo maggiore - mi verrebbe da dire - spiegando. Non mi è parsa una grande idea, poi, programmare il voto insieme alle amministrative, in un’unica giornata. L’effetto trascinamento è a rischio”. In questa fase, viene dato spazio a molte teorie sulla guerra in Ucraina, alcune anche particolari. Invece sul referendum... “Questo Paese offre spazi a pseudo giornalisti putiniani russi che vorrebbero gettare missili su Torino ma non a due persone serie - e ci sarebbero eccome - per spiegare le ragioni del Sì e quelle del No del referendum sulla Giustizia. Tutto quello che è buon senso ed è serio ha più difficoltà a passare”. E i massimalisti del giustizialismo? “Devo dire che non hanno neppure troppo bisogno d’impegnarsi. Mantenere il silenzio è un atteggiamento che diviene semplice. Non siamo all’interno di una dialettica tra una posizione e l’altra, con cui ognuno potrebbe elaborare un’opinione: ignoriamo proprio che esista un tema, che i cittadini abbiano raccolto le firme e che ci sia un referendum”. Lei voterà tutti Sì? “Sì, anche se il quesito più importante non è stato ammesso”. In molti sostengono che questo referendum avrebbe avuto più possibilità se la Consulta avesse approvato gli altri su cannabis ed eutanasia... “Non faccio processi alle motivazioni della Corte. Di sicuro, i quesiti che sono stati bocciati avrebbero avuto un grandissimo effetto di trascinamento, perché erano stati quelli più sostenuti dalle giovani generazioni. Questo è innegabile. Ma non si può buttare tutto a mare perché non si vota per quelle questioni. Io crederò sempre nei referendum: ho una cultura diversa. Il problema resta d’informazione. Di lamentele ne ho sempre sentite tante in merito ai referendum. Però una situazione così imbarazzante non l’avevo mai vista”. Giustizia tributaria, si cambia: meno magistrati ma di professione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2022 Ieri il via libera del Consiglio dei ministri. La riforma mira ad attuare entro il 31 dicembre 2022 gli obiettivi del Pnrr, riducendo il contenzioso ed aumentando la fiducia degli investitori. Il Consiglio dei Ministri ha approvato ieri un disegno di legge che rivoluziona la giustizia e il processo tributario: la novità più rilevante è l’addio al magistrato onorario e part time con l’arrivo di un giudice professionale selezionato per concorso. Di conseguenza viene rimodulato al ribasso anche l’organico che scende dai circa 2600 ‘onorari’ di oggi a 450 magistrati in primo grado e 126 in secondo. Ma si prevede anche il giudice monocratico per le controversie fiscali fino a 3mila euro; l’introduzione della prova testimoniale scritta e la conciliazione rafforzata, oltre all’aumento del contributo unificato per il ricorso principale e l’appello incidentale. Il Ddl su proposta del Ministro dell’Economia, Daniele Franco, e del Ministro della giustizia, Marta Cartabia, mira a raggiungere entro la fine dell’anno gli obiettivi del PNRR, e cioè: rendere più celere il contenzioso tributario e ridurre il numero di ricorsi in Cassazione. L’obiettivo dunque è accrescere la fiducia degli operatori economici, compresi gli investitori esteri, rispetto a un contenzioso che vale circa 40miliardi di euro ogni anno. Soddisfatti tributaristi della Lapet. “Apprezziamo l’attività posta in essere dal presidente del Consiglio che ha inteso mettere finalmente mano alla riforma della giustizia tributaria” commenta il presidente nazionale Roberto Falcone. “Siamo finalmente sulla buona strada - prosegue -, ora l’auspicio è che si possano aprire ulteriori margini di intervento. Mi riferisco in modo particolare all’estensione dei soggetti abilitati al patrocinio tributario quali i tributaristi qualificati ai sensi della legge 4 del 2013”. In agitazione invece l’Associazione magistrati tributari (Amt), presieduta da Daniela Gobbi, che contesta in particolare “l’introduzione di norme che affidano al ministero dell’Economia competenze di esclusiva pertinenza dell’organo di autogoverno, quale la gestione dello status giuridico ed economico dei magistrati tributari e il reclutamento dei nuovi giudici e organizzazione delle procedure concorsuali”, così “ accentuando e confermando l’inaccettabile commistione, più volte segnalata, della contestuale gestione della Agenzia delle Entrate e della giustizia tributaria”. Un tema ripreso anche da Forza Italia che chiede la fine della dipendenza dei giudici tributari dal Mef, che è parte in causa nelle liti, ma anche l’eliminazione dei limiti all’appello per le cause fino a 3mila euro. E lo stop all’ incremento dei costi di giustizia. Professionalizzazione dei magistrati tributari - I magistrati tributari, che oggi sono tutti onorari, verranno reclutati a tempo pieno mediante un apposito concorso con prove scritte e orali. È rimodulato, riducendolo sensibilmente, l’organico della magistratura tributaria composto da 450 magistrati in primo grado e 126 in secondo grado. Fino a quando non sarà interamente compiuto il percorso di reclutamento dei giudici professionali, continueranno ad operare in parallelo i giudici tributari onorari già presenti nelle Commissioni tributarie provinciali e regionali; questi ultimi rimarranno in servizio, in un ruolo ad esaurimento, fino al compimento dei 70 anni di età, limite di pensionamento esteso a tutti i giudici tributari, con allineamento alle altre magistrature. Per quanto concerne la retribuzione si va verso l’equiparazione a quella percepita dai magistrati ordinari. Rafforzamento dell’organo di autogoverno - Sono istituiti presso il Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria (CPGT): a) un Ufficio ispettivo a tutela del corretto esercizio e funzionamento degli organi della giustizia tributaria; b) l’Ufficio del Massimario nazionale, per garantire l’uniformità di giudizio per fattispecie analoghe. Le massime giurisprudenziali prodotte alimenteranno un’apposita banca dati che permetterà agli operatori del settore di conoscere gli orientamenti giurisprudenziali e di prevedere l’eventuale esito delle liti. Ma è previsto anche il potenziamento della struttura amministrativa attraverso nuovi reclutamenti da destinare agli Uffici professionalizzati. Interventi sul processo - Nei processi di primo e secondo grado si introduce, con opportuni accorgimenti, la prova testimoniale, al pari di quanto previsto nei giudizi civili e amministrativi. Inoltre, a fini deflattivi, è implementato l’istituto della conciliazione per le controversie di importo fino a 50.000 euro. Si introduce poi il giudice monocratico in primo grado per le controversie fino a 3.000 euro e, in conseguenza, è modulato l’appello solo in determinati casi (cd. appello critico). Molta attenzione poi è stata posta al processo tributario in Cassazione considerato il carico che affligge il giudice di legittimità. Vengono così introdotte apposite misure deflattive, come: la pronuncia del principio di diritto in materia tributaria, che consentirà la più tempestiva formazione di orientamenti giurisprudenziali consolidati. E con la stessa finalità debutta anche il rinvio pregiudiziale, cioè diretto, dai giudici tributari di primo e secondo grado alla Cassazione per ottenere la soluzione preventiva di questioni nuove o rilevanti o particolarmente complesse o ricorrenti. La riforma della giustizia tributaria ha un problema: riduce la terzietà dei giudici di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 maggio 2022 Dal Consiglio dei ministri via libera al ddl per velocizzare i contenziosi tributari: i magistrati saranno specializzati e reclutati con concorso, ma resta il nodo della loro dipendenza dal ministero dell’Economia e delle Finanze. “La riforma della giustizia tributaria è ormai una brutta ‘telenovela’ che è iniziata con il governo Conte 1. Mi auguro che si riesca a raggiungere il traguardo della sua approvazione entro la fine dell’anno. Noto con rammarico che nessuno ci ha coinvolto in alcun confronto tecnico”. Lo dichiara, in un’intervista al Foglio, Antonio Leone, presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt), a proposito del disegno di legge di riforma della giustizia tributaria varato martedì sera dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento, elaborato dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, e dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, mira a velocizzare i tempi del contenzioso tributario. Una riforma considerata essenziale nell’ambito del Pnrr, in virtù del suo impatto sul sistema giudiziario italiano e anche del suo peso sul piano economico: basti considerare che le cause tributarie pendenti in Cassazione (circa 47 mila) costituiscono il 43 per cento di tutto l’arretrato civile e che il contenzioso tributario ammonta a quasi 60 miliardi di euro. Se da un lato, però, la riforma prevede importanti innovazioni, dall’altro essa non elimina i limiti più evidenti di cui soffre la giustizia tributaria del nostro paese, primo fra tutti il deficit di terzietà e di autonomia dei giudici, che continueranno a dipendere e a essere retribuiti direttamente dal Mef, cioè una delle parti in causa nei contenziosi tributari. La novità principale prevista dalla riforma è l’istituzione di una magistratura specializzata: i magistrati tributari, che oggi sono tutti onorari e lavorano a mezzo servizio (sono o magistrati di altre giurisdizioni o professionisti privati come commercialisti), verranno reclutati a tempo pieno mediante un apposito concorso. Vengono inoltre previste norme volte a velocizzare i processi, come il giudice monocratico in primo grado per le controversie fino a 3 mila euro e misure deflattive del contenzioso in Cassazione. A sorprendere, però, è la mancata cancellazione dei legami di dipendenza oggi esistenti tra i giudici tributari e il Mef. Non solo le commissioni tributarie provinciali e regionali hanno spesso sede nelle stesse strutture che ospitano gli uffici dell’Agenzia delle entrate, ma i giudici tributari sono retribuiti dal Mef. Piuttosto che recidere questi legami di dipendenza, rafforzando il ruolo dell’organo di “autogoverno” dei giudici tributari (il Cpgt), come peraltro era stato suggerito dalla commissione di studio istituita dalla ministra Cartabia e presieduta da Giacinto Della Cananea, la riforma accentua l’anomalia. Il provvedimento, infatti, affida al Mef funzioni in materia di status giuridico ed economico dei magistrati tributari e il reclutamento dei nuovi giudici, competenze che sarebbero di esclusiva pertinenza del Cpgt. Ciò ha spinto l’Associazione dei magistrati tributari a proclamare lo stato di agitazione. “Non posso che ribadire la fondamentale importanza del Cpgt - dichiara Leone - chiamato ad assicurare l’indipendenza dei giudici tributari, ovvero uno ‘schermo’ tra i giudici e il Mef per garantire la loro imparzialità e terzietà”. Il Cpgt, però, evidenzia Leone, “non ha purtroppo le stesse prerogative degli altri organi di autogoverno, a iniziare dal Csm”. A maggior ragione, Leone auspica che “il Cpgt possa finalmente essere coinvolto nell’elaborazione della riforma”. Pif: “La lotta alla mafia va raccontata, perché non è un capitolo chiuso” di Paolo Morelli Corriere della Sera, 19 maggio 2022 Lo sceneggiatore e regista ospite al Salone del Libro: “Un linguaggio nuovo per superare la retorica”. “La distanza fra oggi e la strage di Capaci è pari a quella che separa la Seconda guerra mondiale dalla mia data di nascita. Non è un fatto percepito come lontano, ma di più”. Parte da questo ragionamento Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, classe 1972, nell’affrontare uno dei temi principali del Salone Internazionale del Libro in partenza oggi: l’eredità dell’antimafia. “Uno che nasce ora avrà la difficoltà di capire quanto la lotta alla mafia non sia una cosa passata. La realtà non è un capitolo chiuso”. In occasione dei 30 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la kermesse letteraria al Lingotto Fiere dedica diversi appuntamenti al tema. L’autore e sceneggiatore palermitano è uno degli autori più attesi. Pif, al Salone in tanti parleranno di questo tema ai più giovani. Come si fa a spiegarlo a loro? “Per i bambini e per i ragazzi serve un linguaggio diverso perché le generazioni cambiano, quindi occorre adeguarsi a un nuovo modo di parlare. È uno dei motivi per cui con altre persone (l’associazione culturale “Sulle nostre gambe”, ndr) abbiamo creato la app NoMa, che dà vita alle lapidi per raccontare la storia delle persone uccise dalla mafia. Serve usare un linguaggio più moderno, ma serve anche raccontare questi personaggi come persone normali, perché presentarli come santi laici tante volte allontana. La loro storia è incredibile, proprio perché non avevano superpoteri. Io dico sempre nelle scuole: “leggetene come se fossero vivi”, altrimenti appassisce tutto”. Questo aspetto come influisce sul racconto? “È un problema di comunicazione. Rinnovare il linguaggio serve per stare al passo con le generazioni. La cosa importante è che tutto non diventi una storia morta, ma sempre attuale. So che sembra una bestemmia, ma deve essere anche una cosa allegra”. In che senso? “Ogni tanto mi scappa e dico che il 23 maggio vado a “festeggiare Falcone”. Una volta lo dissi a Maria Falcone e lei, che aveva tutti i motivi per offendersi, mi diede ragione. Andiamo a festeggiare queste persone perché le ricordiamo in maniera positiva, non attraverso una storia lagnosa, triste e retorica. Ricordiamo che Palermo, la Sicilia e l’Italia sono cambiate grazie a persone come Giovanni Falcone. Sempre nel rispetto di quanto accaduto, esiste una storia positiva” Lei presenterà oggi Illegal, l’agenda della legalità, con Marco Lillo (Sala Oro, ore 15.30), edita da PaperFirst. Che cos’è? “Vogliamo dimostrare quanto è rivoluzionario e alternativo rispettare le regole, cioè quello che la mafia non vuole. Questa agenda scolastica ricorda le persone che sono state uccise e ci informa, un’altra cosa che le mafie non vogliono. Informarsi è un’arma pericolosa per loro. Non è un’agenda lagnosa e triste, ma ci permette di raccontare delle storie e capire quanto le persone abbiano cambiato il Paese. È un’agenda che definisco “positiva” perché grazie a queste persone oggi stiamo meglio. Parte del ricavato, peraltro, andrà a finanziare l’app NoMa. La retorica? È giusto metterla, ma crediamo nell’allegria dell’antimafia”. Che eredità ci lascia l’antimafia? “Spesso rischia di autodistruggersi, ma ho capito che l’unico modo per non rimanere delusi è pensare che la leadership della lotta alla mafia non venga delegata, dobbiamo darci noi stessi questa leadership, noi guidiamo la nostra lotta contro la mafia. Non mi deve interessare se un tizio, parente di un morto ammazzato, sia antipatico nella vita, mica devo fare un viaggio con lui, devo chiedermi se fa qualcosa di utile o no. Il concetto è che la mafia è il nemico, non dobbiamo implodere altrimenti facciamo un favore ai mafiosi. L’eredità è ricordare che non è una storia chiusa, ma dipende da noi”. Fiammetta Borsellino: “Mio padre e Falcone consegnati alla mafia dai loro colleghi” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 19 maggio 2022 La figlia del magistrato ucciso in via d’Amelio: “Da quando abbiamo deciso di parlare siamo rimasti soli. Dello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno”. Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. “Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perchè nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Lui e Giovanni Falcone, almeno nell’ultimo anno della loro vita ne avevano piena consapevolezza”. Lei era ancora una ragazzina nel 1992. Si ricorda cosa diceva suo padre? “Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo”. E così è stato? “Senza dubbio. C’è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento. L’ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perchè è stato abbandonato dai suoi colleghi”. Parole dure le sue... “Che occorreva dire. E dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l’intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così”. L’ultimo processo, quello sul depistaggio, andrà a sentenza proprio in coincidenza con i 30 anni delle stragi. Non crede che riuscirà a stabilire la verità? “Ho assistito a decine di testimonianze di magistrati, avvocati, investigatori, una sfilata di reticenza, di “non ricordo” di fatti che avrebbero dovuto segnare anche le loro vite. Una cosa, dal punto di vista umano, veramente inaccettabile, misera, pietosa. Dall’aula della corte d’assise di Caltanissetta sarei potuta uscire con un sentimento umano diverso se solo avessi percepito una disponibilità alla ricerca della verità che non ho visto”. Tanta amarezza dunque in questo trentennale dalle stragi? “Mi creda, ormai, abbiamo trovato pace. Tutto finalmente è chiaro. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano”. Come ha raccontato alle sue figlie la storia del nonno e di Giovanni Falcone? “Capisco che può sembrare strano ma non c’è stato bisogno di raccontare loro nulla. In casa siamo stati sempre circondati dai nonni anche quando non c’erano più. C’è la bicicletta di mio padre appesa a una parete, la vecchia insegna della farmacia di famiglia, le foto della cena di riappacificazione di mio padre e Leonardo Sciascia. Ne parliamo sempre con grande serenità. Posso dire che i nostri figli hanno vissuto quel passato come presente. Certo, a scuola, qualche volta è capitato che gli abbiano detto: “Tuo nonno è morto con un’autobomba” ma anche loro hanno imparato a gestire questa parte pubblica”. Qual è la più grande eredità che le ha lasciato suo padre? “La faccia pulita dell’Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera. Ricca non certo materialmente. Quando papà è morto sul suo conto corrente abbiamo trovato un milione di lire. Perchè oltre alla nostra famiglia portava avanti quella di una sua sorella rimasta sola con sette figli e aiutava anche quelle di alcuni uomini delle forze dell’ordine a lui vicini. Era il papà silenzioso di tanti”. Maria Falcone: “Trent’anni in nome di mio fratello, che fatica combattere la mafia” di Francesco La Licata La Stampa, 19 maggio 2022 La sorella del giudice ucciso il 23 maggio 1992: “Difenderne con forza la memoria è stata la prima missione. I politici? Cossiga mi scrisse di non andare oltre con il Csm, Andreotti non venne al funerale e mi rimproverò”. I familiari delle vittime della violenza mafiosa sembrano destinati a dover sopportare un dolore più acuto di quanti abbiano avuto perdite in altri ambiti. Alla ferita del danno subìto, molto spesso si è aggiunta la frustrazione, il senso di impotenza di fronte alla giustizia negata. E per questo li abbiamo visti sempre in prima linea nella difesa di una memoria che non può essere cancellata perché senza memoria è impossibile la ricerca della verità. Maria Falcone, sorella e cognata dei due magistrati uccisi a Capaci insieme con tre dei poliziotti di scorta, è certamente tra quelli che questa “missione” la portano avanti da sempre, certamente sin dal giorno in cui il tritolo sull’autostrada le ha aperto un mondo che mai e poi mai pensava di dover conoscere. Sono passati trent’anni da quel 23 maggio del 1992, un tempo intimamente lunghissimo, ma mai la “professoressa Maria” ha dato segni di stanchezza o di cedimento, anche di fronte all’altalenarsi dell’impegno antimafia di cittadini e istituzioni, anche di fronte alle inevitabili delusioni che una simile battaglia può offrire. Tutto questo segmento di vissuto adesso, Maria Falcone, lo ha voluto “chiudere” in una sorta di diario che racconta la sua “nuova vita”, nata dalle macerie di Capaci. Ne è venuto fuori un libro emozionante scritto per Mondadori, con l’aiuto della giornalista Lara Sirignano: “L’eredità di un giudice”, “Trent’anni in nome di mio fratello Giovanni”. E allora, cominciamo dal titolo. Perché questo racconto a distanza di tre decenni? “Il tempo trascorso mi sembra quello giusto per una riflessione su ciò che è accaduto, a me, alla mia famiglia, alla mia terra e al Paese intero. La storia di Giovanni Falcone non appartiene più soltanto agli affetti familiari, ciò che lui è stato, la sua eredità in termini di esempio, di etica e correttezza istituzionale, è entrata a far parte di un patrimonio collettivo ormai intoccabile. Gli stessi strumenti giuridici lasciati a chi è venuto dopo rappresentano una ricchezza che ci viene invidiata e copiata da molte legislazioni di Paesi anche più progrediti del nostro. Ecco l’eredità del giudice”. Un ruolo fondamentale in questa difesa della memoria di Giovanni Falcone è da attribuire alla Fondazione nata subito dopo la strage. “Era troppo fresco il ricordo di quanto aveva dovuto subire Giovanni in vita, ingiustizie, avversione politica e professionale, calunnie e bugie, per non aver chiaro che bisognava costruire una protezione forte alla memoria di mio fratello. La Fondazione nacque per volere dei familiari più stretti e con l’ausilio di poche persone: il ministro Martelli, Liliana Ferraro, il rettore dell’epoca, Ignazio Melisenda, e Giannicola Sinisi che di Giovanni era stato stretto collaboratore al ministero. Passo dopo passo, è diventata un centro di aggregazione di uomini e donne di buona volontà e cuore pulsante di tante attività rivolte alla creazione e al sostegno di una coscienza antimafia”. Lei stessa è stata, per anni, protagonista di un instancabile giro per le scuole d’Italia. “Sono stata e rimango convinta che una delle battaglie fondamentali da vincere è riuscire a strappare i giovani al fascino della “via breve”, dei soldi facili e delle scelte “furbe”. E nessuno sa meglio di me quanto difficile e impari sia la lotta contro il fascino del male, specialmente nelle zone più diseredate del nostro Paese”. Immagino sia andata incontro a più d’una delusione. “Certo: una volta, in una scuola della Campania, si alzò un ragazzino che parlò in difesa della mafia perché, a suo dire, assicurava lavoro e benessere. Disse che la stessa sopravvivenza era garantita dal boss del suo paese. Rimasi per un attimo paralizzata, poi gli spiegai che la sola cosa che i boss potevano garantirgli era il carcere e la morte. Ma è dura contrastare la suggestione della mafia buona”. Ci saranno stati, però, momenti più esaltanti, vero? “Nel carcere di Rossano, in Calabria, dove un gruppo di detenuti aveva dipinto ottanta tele e aveva organizzato una mostra dal titolo emblematico: “La riconciliazione è possibile”. Il ricavato delle vendite vollero donarlo alla Fondazione, certamente un bel segnale di speranza”. Nel suo libro ricorda i momenti difficili di Giovanni a Palermo e a Roma. I “processi” al Csm, le “bocciature”, l’astio dei colleghi e dei politici, il dolore terribile di quel 23 maggio dopo l’illusione della vittoria in Cassazione che confermava le condanne di primo grado al maxiprocesso. Un racconto davvero faticoso e doloroso. “Neppure dopo la sua morte, si rassegnarono gli sciacalli. Anche cercando di disperdere quanto di buono il pool antimafia aveva creato in Sicilia e quanto Giovanni aveva reso “sistema” stando agli “affari penali” del ministero. Da vivo aveva subìto attacchi anche da persone insospettabili: Sciascia con la polemica sui professionisti dell’Antimafia (con lo scrittore però si chiarì) e Orlando che lo accusò di tenere le carte nei cassetti, come se mio fratello volesse nascondere la verità per mire politiche. Per non parlare degli attacchi sul Giornale di Sicilia e le critiche di semplici cittadini che lamentavano il continuo via vai di sirene della sua scorta”. Poi fu accusato di essersi venduto alla politica. “Già. Io poi ho avuto contatti con alcuni politici e non sempre felici. Ricordo una lettera di Cossiga che, senza neppure troppa reticenza, mi consigliava di non andare oltre nella mia richiesta di essere ascoltata dal Csm e una risposta di Andreotti di cui avevo sommessamente sottolineato l’assenza ai funerali di Giovanni in contrapposizione con i funerali di Salvo Lima, dove invece era andato pure per difenderne l’onore macchiato dai sospetti di contiguità con la mafia. Andreotti mi scrisse quasi rimproverandomi di essermi prestata a una strumentalizzazione antidemocristiana. Cose da pazzi”. E la sinistra? “Ricordo gli attacchi a Giovanni di grandi nomi della sinistra: Augias durante la trasmissione di Babele, la recensione di Sandro Viola su La Repubblica che gli rimproverava di aver scritto Cose di Cosa nostra quasi a voler chiedere: ma chi si crede di essere? E poi l’attacco di Pizzorusso che lo bocciava come candidato alla Procura nazionale perché troppo intimo di Claudio Martelli. Io stessa, in anni più recenti, ero stata convinta da Valter Veltroni a candidarmi nel Partito democratico. Misteriosamente, però, quando fu resa pubblica la lista dei candidati non conteneva il mio nome”. Per concludere, prof. Maria Falcone, non mi sembra sia molto presente dalle nostre parti una cultura dell’antimafia. “Mi duole ricordare come, mentre in Italia si cercava di dimenticare il nome di Giovanni Falcone, negli Usa veniva eretto un busto nell’atrio della sede principale dell’Fbi. E quando chiesi al direttore della polizia federale cosa rappresentasse Giovanni per loro, mi rispose: “La personificazione del senso dello Stato”. Atteggiamenti distanti dalla nostra politica. Ripenso, e finisco, a una riunione a Palermo nel terzo anniversario della strage per parlare di azioni di contrasto alla mafia. Invitammo, insieme con i leader di tutti i partiti, Silvio Berlusconi che rispose di non poter venire ma avrebbe mandato al suo posto l’avv. Previti. Non accettammo la sostituzione perché c’è un limite a tutto e così Berlusconi si liberò dagli impegni e venne”. Padova. “Da carcerati a nuovi uomini con l’aiuto della società” di Pamela Ferlin Corriere del Veneto, 19 maggio 2022 Carlo Mazzeo dal 2018 dirige il Due Palazzi di Padova. “Nel reinserimento, il lavoro un tassello fondamentale contro la recidiva”. La redenzione che passa attraverso il lavoro. La difficoltà di farsi accettare una volta “fuori”. E poi l’amore, che esiste e va gestito anche “dentro”, senza ipocrisie, aggiungendo complessità ad un mondo fatto di mille diversità in fragile equilibrio tra loro. Cos’è oggi il carcere? Un luogo di comunità e risocializzazione, o piuttosto l’inferno sulla terra? Ne parliamo col direttore Claudio Mazzeo, dal 2018 alla guida del Due Palazzi di Padova. “È un argomento divisivo il carcere: c’è chi sposa funzione contenitiva e punitiva e chi ne auspica l’abolizione. Invece il carcere deve svolgere una funzione sociale nel rispetto del principio di umanizzazione e ri-socializzazione. C’è il carcere parlato: pensatori e politici spesso ne disquisiscono in modo autoreferenziale. Noi che il carcere lo viviamo, sappiamo che è un luogo di sofferenza, perché la privazione della libertà è contro-natura. Perciò tra chi la libertà la perde e chi controlla la reclusione, può scattare conflittualità. Però il carcere è anche condivisione di una comunità. Noi: i carcerati, la polizia, i volontari e gli operatori, siamo una comunità con le sue regole e obiettivi, relazioni, linguaggio, emozioni e tensioni”. In carcere non solo per far scontare una pena? “Credo che le pene troppo brevi non consentano alcun percorso di rieducazione, non uscirà un soggetto pronto ad essere re-inserito nella società. Anzi, aggraverà la condizione di disagio sociale con lo stigma dell’ex carcerato. Quindi sì alle pene alternative, all’articolo 21, ai lavori socialmente utili e al carcere come estrema ratio, sotto la guida incrollabile dell’articolo 27 della Costituzione che parla di carcere come di luogo nel quale offrire una possibilità di riscatto”. Lo scopo risocializzante del carcere è stato centrato? “Solo con il contributo della società esterna si completa un buon percorso di reinserimento, il lavoro è un tassello fondamentale per abbattere la recidiva”. Quindi lei non crede che il carcere possa assolvere alla sua funzione principale? “La mia esperienza testimonia il contrario. Nel nostro istituto abbiamo dalla Scuola elementare al Polo Universitario, i corsi di formazione professionale e da settembre anche il corso del Liceo Alberghiero, perché uscire di qui con una cultura e un mestiere è la prima condizione necessaria per essere accolto dalla società. Il Due Palazzi è sede di numerose associazioni e cooperative che offrono lavoro ai detenuti, consentendo l’apprendimento di un mestiere e la conquista di un piccolo stipendio che restituisce la dignità al detenuto e ha anche lo scopo di sostenere le famiglie rimaste a casa”. Solo il 16 per cento dei carcerati lavora, non le sembra un po’ poco? “Vanno sviluppate nuove sinergie con la società esterna. Abbiamo formato detenuti nell’edilizia che hanno ridipinto i licei di Padova. Quelli formati nel giardinaggio hanno collaborato a mantenere il verde pubblico. La soddisfazione è stata entusiasta da parte di tutti i soggetti coinvolti. Dobbiamo fornire strumenti efficaci per il “dopo”, fornire competenze utili di cui ci sia penuria, per non innescare il conflitto sociale, per quei lavori dei quali altri cittadini non si sentano defraudati. Giusto o sbagliato che sia, è senso di realtà”. E per il futuro? “Abbiamo in cantiere un’ambiziosa collaborazione con il tessuto imprenditoriale del territorio per formare nuove figure professionali. Già la legge Smuraglia prevede sgravi fiscali per chi assume detenuti per incentivare la sinergia con il mondo del lavoro “fuori”. Abbiamo promosso il concetto della raccolta differenziata, perché la formazione di una consapevolezza è necessaria all’acquisizione di una coscienza civica. Il rispetto della dignità umana è il riconoscimento dei diritti fondamentali, tra i quali un ambiente salubre”. Rieducati, formati e ri-socializzati, basta per definire un carcere umano? “No, il carcere è privazione della libertà, è un luogo di sofferenza, ma deve consistere anche in altro. A breve inaugureremo il Parco “I Have a Dream” dove i detenuti potranno stare a contatto con la natura e incontrare dignitosamente le famiglie e i figli piccoli. Le piattaforme che lo circondano diventeranno spazi chiusi dove svolgere attività al coperto in caso di maltempo, e una di queste dovrebbe diventare la casetta dell’affettività”. Un Parco aperto anche alla società in maniera promiscua e la promiscuità in carcere? “Esattamente, l’idea è che la società esterna possa accedere al Parco in particolari occasioni, con modalità e tempi studiati attentamente. Per le casette dell’affettività sono sicuro che i tempi siano maturi, oggi abbiamo molti esempi all’estero e anche a Bollate, quello della sessualità in carcere è un tema urgente e delicato che solo l’ipocrisia ottusa non vuole affrontare”. Ha dipinto una società progredita, sembra che vada tutto bene… “Non tutto, oltre al sovraffollamento, la eterogeneità della popolazione detenuta crea conflitto ed è difficile gestire certi momenti di tensione. C’è carenza di educatori e psicologi, anche se questo mese abbiamo raddoppiato l’organico e impostato nuovi percorsi di recupero specifici per i sex offender. È un mestiere duro, costellato di responsabilità ma è un mestiere che amo con passione da 30 anni, e oggi rappresenta una sfida di cui mi sembra di intravvedere una possibilità di riuscita. C’è carenza anche di direttori, dopo 27 anni stanno facendo un concorso, tra poco i “nuovi” verranno in affiancamento. Confidiamo nella ministra Cartabia che è competente e sensibile”. Torino. Nel carcere Lorusso e Cutugno il 13% dei detenuti ha meno di 24 anni di Massimo Massenzio Corriere Torino, 19 maggio 2022 Strutture fatiscenti o sovraffollate, necessità di incrementare i percorsi di uscita dal carcere, preoccupante aumento della popolazione giovanile. La relazione della garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Monica Cristina Gallo, mette in evidenza le crepe di un sistema penitenziario che a Torino, come in molte altre città, non riesce a rinnovarsi. Nelle 337 pagine del lavoro svolto dallo staff del garante, Gallo non si limita a una fotografia dei diversi luoghi di privazione della libertà, ma indica anche gli obiettivi che l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza dovrebbero porsi. “Il più urgente è la riduzione dei numeri perché una città che ha un carcere pieno non è una città in buona salute. Un terzo dei detenuti devono rimanere in quella struttura meno di tre anni e potrebbero accedere alle misure alternative. Ma non possono perché sono senza casa, senza lavoro e senza relazioni personali. Per loro l’unica prospettiva è quella di restare in carcere”. Al 31 dicembre 2021 i detenuti presenti al Lorusso e Cutugno erano 1.371, 9 in meno rispetto all’anno precedente, ma sempre troppi rispetto ai 1060 posti disponibili. Nel 56% dei casi si tratta di persone che hanno riportato una condanna definitiva, ma il 24% è ancora in attesa del primo grado di giudizio. Gli italiani sono in maggioranza (752) e le nazionalità più rappresentate sono quella marocchina (175) e romena (96). “La condizione di vita in carcere deve essere migliorata attraverso un percorso di attenzione che rieduchi davvero - ha commentato il sindaco Stefano Lo Russo. Conosciamo le particolari problematicità del nostro carcere e il 2021 è stato un anno complicato. La garante, ha svolto un lavoro eccellente, ma il livello di attenzione deve essere mantenuto”. A fine anno è stato avviato, proprio su impulso della garante, un procedimento penale a carico di 23 agenti della polizia penitenziaria torinese, del comandante e dell’ex direttore dell’istituto: “L’intera giunta è al fianco della garante - ha sottolineato il primo cittadino - ma le colpe di pochi, sulle quali deve pronunciarsi la magistratura, non devono macchiare l’immagine di tante donne e uomini che svolgono un compito prezioso”. La relazione della garante evidenzia una costante crescita dei giovani all’interno della casa circondariale torinese. In 50 giorni si sono registrati 35 nuovi ingressi di persone di età compresa fra i 19 e 24 anni che rappresentano il 13% della popolazione carceraria. Numeri senza precedenti che preoccupano e devono essere approfonditi: “Sicuramente la pandemia e le restrizioni alla mobilità hanno influito. Un’altra causa può essere legata al fenomeno delle baby gang, ma così la struttura carceraria diventa quasi contenitore di rabbia sociale, che varrebbe la pena invece curare sul territorio”. Per l’istituto penale minorile Ferrante Aporti, invece, non emergono particolari criticità. La presenza media (in aumento) è di circa 30 ragazzi su 48 posti disponibili, con una maggioranza di etnie straniere. Discorso molto diverso, infine, per il Cpr di corso Brunelleschi, segnato dalla morte di Moussa Balde, il 23enne guineano che si è tolto la vita un anno fa. Durante il 2021 il centro non ha mai raggiunto la massima capienza e le presenze sono diminuite rispetto al 2020, ma su 755 persone trattenute solo il 18% sono state rimpatriate: “Questo vuol dire per il 72% degli ospiti il trattenimento è stato inutile o addirittura illegittimo. C’è una grande inchiesta su carcere e Cpr, magari anche questo tema potrà essere attenzionato. La vicenda di Moussa ha scosso tutta la città e ha portato alla chiusura dell’”ospedaletto”, una struttura non idonea. Adesso la gestione è cambiata e speriamo che, come sembra, si possano creare le basi per avviare un percorso assieme”. Milano. Dal carcere di Bollate appello alle imprese: “Investite qui dentro” ansa.it, 19 maggio 2022 “Chiuso contratto con WindTre, offriamo servizi di qualità”. Era nato nel 2007 come un progetto innovativo per offrire numerose occasioni di inserimento lavorativo e qualificazione professionale dei detenuti, non più trattati come ‘lavoranti’ bensì come ‘lavoratori’ a tutti gli effetti: dopo un periodo di formazione, un contratto con lo stipendio in linea con il mercato e tutte le garanzie previste dalla legge. Alla fine di giugno questo progetto che per 15 anni ha visto legati il carcere di Bollate e l’operatore telefonico H3G prima e WindTRE si concluderà. Per questo dall’interno dell’istituto è partito un appello alle imprese di Milano e Provincia affinché si facciano avanti per investire nei servizi “di qualità” offerti “a condizioni economiche competitive” dall’istituto noto a livello nazionale per la qualità dei percorsi educativi promossi tanto al suo interno quanto all’esterno. La società di telefonia non ha cambiato idea ed è andata avanti sulla strada annunciata lo scorso dicembre che ha portato a ridurre il servizio offerto dai carcerati impiegati nel call center, come informazioni agli utenti in caso di sospetto phishing o letture delle bollette, fino a chiuderlo. E questo nonostante i tentativi messi in atto dalla direzione di Bollate e la ‘Cooperativa sociale bee.4 altre menti’ per ‘salvare’ la commessa che aveva dato lavoro a 30 ospiti dell’istituito milanese e 4 esterni. “La conclusione del progetto è un duro colpo - ha spiegato Marco Girardello, socio della cooperativa bee.4 - in quanto è stata azzerata una delle principali fonti di lavoro presenti all’interno del carcere. A meno di 2 mesi dalla fine di questa commessa - ha aggiunto - dobbiamo ancora sistemare 13 lavoratori. Stiamo trattando con importanti società ma al momento non possiamo dire ancora di aver raggiunto il nostro obiettivo”. Pertanto “lanciamo un appello alle imprese presenti sul territorio di Milano - ha concluso Girardello - affinché vengano a visitare i nostri spazi all’interno di Bollate, e decidano di investire qui dentro non rinunciando a servizi di qualità e senso”. Palermo. Studiare in carcere: Unipa e il Malaspina insieme per promuovere la cultura del libro palermotoday.it, 19 maggio 2022 Il rettore Massimo Midiri, e la direttrice dell’istituto penale per i minorenni, Clara Pangaro, hanno siglato un accordo quadro per la realizzazione di attività socio-culturali. Il rettore dell’Università degli studi di Palermo, Massimo Midiri, e la direttrice dell’istituto penale per i minorenni di Palermo, Clara Pangaro, hanno siglato un accordo quadro per la realizzazione di attività socio-culturali volte a promuovere la cultura del libro, l’integrazione con le biblioteche del territorio e l’ampliamento dell’offerta a nuovi target di utenza. “Con la stipula di questo accordo quadro UniPa intende promuovere la cultura della lettura in ambito penale minorile attraverso lo sviluppo della biblioteca penitenziaria - spiega Midiri. Con questo partenariato avviamo una proficua e duratura collaborazione con l’Istituto penale per minorenni con annesso Centro di prima accoglienza di Palermo. La sinergia fra le due istituzioni si inserisce nel solco delle politiche della Terza Missione e di azioni già intraprese dall’Ateneo, come la realizzazione di Poli universitari penitenziari in Sicilia, per consentire ai detenuti e ai soggetti in esecuzione penale esterna il conseguimento di titoli di studio universitari”. Per la direttrice Pangaro “la promozione della cultura e dell’educazione alla lettura rivestono una importanza centrale nella formazione di un completo e armonico sviluppo della personalità dei giovani. Questo accordo costituisce un concreto impegno per mettere in campo azioni e risorse volte a implementare progetti di cooperazione e collaborazione istituzionale per favorire l’integrazione dei soggetti svantaggiati e offrire nuove opportunità di inserimento sociale per la costruzione di un futuro diverso”. Il Servizio speciale Sistema bibliotecario e archivio storico di Ateneo è stato individuato quale struttura interessata e coinvolta in attività di Terza missione finalizzate alla promozione di attività di educazione alla lettura che favoriscano lo scambio e il confronto fra lettori di diversa età e appartenenti a contesti culturali differenti; alla diffusione della conoscenza delle biblioteche e alla promozione dei servizi da esse offerti; all’alfabetizzazione all’uso consapevole delle risorse e dei servizi offerti dalle biblioteche; all’offerta di servizi di consulenza per la gestione efficace delle biblioteche, anche favorendo la creazione di reti con il territorio; alla proposta di brevi percorsi formativi di base sulle tecniche di catalogazione dei volumi per avviare l’attività della biblioteca. Le singole attività da realizzare saranno oggetto di appositi accordi attuativi, favorendo lo sviluppo della biblioteca carceraria (potenziamento della raccolta documentaria e dei servizi), con il coinvolgimento del personale bibliotecario, che svolgerà attività di promozione e di educazione alla lettura. Benevento. “Basta guardie e ladri, il carcere rinasce con il dialogo” di Mariateresa De Lucia ottopagine.it, 19 maggio 2022 A Benevento il film Ariaferma. Il Garante Ciambriello: l’attuale sistema ha fallito. “Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va” cantava Fabrizio De Andrè cristallizzando l’apparente inconciliabile rapporto tra guardie e detenuti. Ed è questa la chiave di lettura più intensa del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo per cui Silvio Orlando, che lo interpreta con Toni Servillo, ha vinto il David di Donatello come Miglior attore protagonista. La pellicola è stata proiettata nel carcere di Poggioreale prima, in quello di Benevento questa mattina promossa dal Garante dei ristretti, Samuele Ciambriello. “Le pene e il carcere servono a rieducare e non posso non chiedermi se il carcere come azienda non ha fallito se l’80 per cento dei detenuti fa ritorno. Queste iniziative servono ad andare oltre le mura dell’indifferenza. Ariaferma è un film educativo, formativo. C’è grande sensibilità e lo abbiamo proiettato per ridurre le distanze. E se il vecchio motto degli agenti di penitenziaria era ‘vigilare per redimere’ il nuovo dice ‘infondere speranza’, mi auguro che intorno alla comunità del carcere si crei un clima più sereno. Purtroppo per la politica il carcere è una risposta semplice a bisogni complessi”. Ciambriello parla anche dei poliziotti penitenziari “Dopo i minatori fanno il lavoro più usurante che c’è. Ogni anno -aggiunge - decine di loro si suicidano, la politica fa finta di vivere la solidarietà”. La pellicola che riesce a dare una fotografia molto verosimile dell’ambiente carcerario inquadra la realtà di un carcere in fase di chiusura. Un trasloco che ad un tratto subisce una battuta d’arresto lasciando ‘sospesi’ una dozzina di carcerati e altrettanti agenti e riscrivendo le regole dei rapporti tra le due categorie. Al film è seguito un dibattito moderato dal giornalista Bruno Menna con il garante Samuele Ciambriello, l’attore Salvatore Striano, il direttore Gianfranco Marcello, Francesco Pedicini, presidente Nuova Cooperativa di Integrazione sociale e Adele Caporaso, della cooperativa Il “Melograno”. “Siamo grati al garante dell’opportunità - ha rimarcato il direttore Marcello - questo film parla di noi, di tutte le persone che ci sono dentro, lontano dalla visione americana e più vicina a quella che viviamo in realtà”. “Girarlo è stato duro. È accaduto durante il primo lockdown ed eravamo chiusi in una bolla. Ma è anche stato emozionante - ha spiegato l’attore Salvatore Striano -. C’erano veri poliziotti penitenziari, oltre a me anche altri ex detenuti. È un film poetico, che ci dice di smetterla di fare guardia e ladri e cercare il dialogo per uscire con le armi del lavoro, della cultura e degli aiuti”. Palermo. Mogol al Malaspina per incontrare i ragazzi detenuti palermotoday.it, 19 maggio 2022 Ospite del teatro della struttura penitenziaria, il grande autore ha raccontato ai giovani il percorso che lo ha portato a diventare autore di canzoni, soffermandosi sul periodo in cui era ancora un bambino e poi un adolescente e su come le scelte fatte allora hanno segnato tutta la propria vita. Incontro tra Mogol e i ragazzi detenuti al Malaspina: il più grande autore italiano di canzoni, martedì pomeriggio si è recato nell’Istituto penale per i Minori di Palermo, dove, insieme all’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Alberto Samonà, per oltre un’ora e mezza, si è intrattenuto con i giovani del Malaspina, accompagnati dalla Direttrice dell’Istituto Clara Pangaro. Ospite del teatro della struttura penitenziaria, Mogol ha raccontato ai ragazzi il percorso che lo ha portato a diventare autore di canzoni, soffermandosi sul periodo in cui era ancora un bambino e poi un adolescente e su come le scelte fatte allora hanno segnato tutta la propria vita. La direttrice Clara Pangaro ha illustrato al Maestro Mogol il percorso compiuto insieme ai ragazzi detenuti, che nei mesi scorsi hanno preso parte al progetto “Dillo con una canzone”, promosso dall’associazione Rock10elode presieduta da Gianni Zichichi, presente all’incontro, insieme al personale dell’area educativa e di Polizia Penitenziaria, insieme ad altri operatori e assistenti sociali che lavorano nell’istituto. Quindi, è stato proiettato il video del brano “Fiori dal nulla”, risultato del progetto “Musica in libertà” avviato lo scorso anno e uno dei ragazzi detenuti ha cantato un brano scritto da lui stesso, mentre altri ragazzi hanno letto ad alta voce un mix di testi di grandi successi del duo Battisti/Mogol. Nel corso dell’incontro, sono stati fatti ascoltare anche un paio di brani di grande successo scritti da Mogol, di cui il Maestro ha illustrato il significato. Una visita toccante, nella quale si è parlato tanto di musica, ma anche di futuro e di come questo vada costruito a partire dalle scelte di ciascuno. “L’incontro fra Giulio Mogol e i ragazzi del Malaspina è stato un momento particolarmente toccante e significativo - sottolinea l’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Alberto Samonà - per le parole adoperate dal Maestro che ha incitato i giovani detenuti a credere in se stessi, facendo tesoro degli errori compiuti per migliorarsi e per l’emozione che ha suscitato in ciascuno dei presenti”. Ddl Zan, l’ultimo tentativo di Letta: un tavolo di maggioranza per rilanciare la legge di Giovanna Casadio La Repubblica, 19 maggio 2022 I dem al Senato pensano a convocare una riunione per trovare una mediazione. Malpezzi: “Siamo pronti”. Sul ddl Zan il Pd chiama a raccolta tutti i partiti. Il giorno dopo la giornata internazionale contro l’omotransfobia, Enrico Letta rilancia affinché la legge che porta il nome del deputato e attivista lgbt Alessandro Zan non finisca di nuovo nel congelatore, scrivendone definitivamente la parola fine. Quindi i Dem al Senato pensano di convocare una riunione di tutta la maggioranza per rimettere le carte in tavola su una legge che rappresenta il minimo sindacale in fatto di difesa contro i crimini d’odio. La capogruppo dem Simona Malpezzi conferma che è questa l’ipotesi per cercare di superare lo stallo e ragionare sui cambiamenti del testo. “Il Pd è aperto a modifiche, che però mantengano la tutela di tutti. L’abbiamo detto e ripetuto: siamo pronti”, dice Malpezzi. Zan, a Metropolis tv ieri, calcola i tempi: “Nonostante ci sia un conto alla rovescia verso fine legislatura, se c’è la volontà politica la legge si può ancora approvare, sedendosi attorno a un tavolo per discutere”. “Ghigliottinata” a Palazzo Madama con un voto segreto e l’esultanza scomposta delle destre a ottobre scorso, dopo un primo via libera alla Camera, è rimasta ferma sei mesi prima di essere ripresentata, come il regolamento parlamentare prevede. Ora la Lega e Fratelli d’Italia ironizzano sulle priorità della sinistra. Salvini il 9 maggio scorso ha attaccato: “La priorità per Letta e la sinistra, che non è più neanche sinistra, non sono la pace e il lavoro, ma il ddl Zan”. Il Pd replica che “diritti civili, giustizia sociale e compatibilità ambientale vanno di pare passo, sono tre pilastri”. Nella direzione dem di ieri, il segretario contrattacca: “Per la destra non è mai il momento dei diritti: ogni volta un argomento nuovo per dire non è il momento per il ddl Zan e per lo ius scholae. Il nostro impegno sul ddl Zan sarà ancora più determinato”. Interlocutori privilegiati dei giallo-rossi - Pd, 5Stelle e Leu - affinché qualcosa si smuova sono i renziani (che a Montecitorio hanno detto sì, e poi si sono sottratti al Senato) e Forza Italia, dove c’è un drappello di liberal a favore. Elena Bonetti, ministra renziana delle Pari opportunità e della Famiglia, sempre a Metropolis, ha affermato: “Non posso essere io a convocare un tavolo, perché il governo è parte terza”. Difende la scelta fatta da Italia Viva: “Al Senato Renzi non ha detto semplicemente non ci sono i numeri, ma non ci sono i numeri, attenzione. Subito certo ci vuole una legge che contrasti le discriminazioni lgbt, sono la prima a sostenere la necessità di una legge. Il dialogo è con il Parlamento, non con il governo. E se la legge è stata affossata è stato per la mancanza di dialogo. È stata negata la possibilità di sedersi a un tavolo. Si è fatto un esercizio di posizionamento. Sui diritti fondamentali va sempre cercato uno spazio di mediazione”. Mediazione che per Zan invece si è sempre cercata. Monica Cirinnà, senatrice e responsabile diritti del Pd, precisa che ora attorno al tavolo vanno rimessi tutti i capigruppo di maggioranza, dal leghista Massimiliano Romeo al renziano Davide Faraone, dalla forzista Anna Maria Bernini a Loredana De Petris di Leu e alla grillina Maria Domenica Castellone. Cirinnà ritiene che occorra incalzare Matteo Renzi e i renziani. Sul tavolo di maggioranza le modifiche possibili riguardano l’articolo 1 del ddl Zan, quello dove sono elencate le definizioni di orientamento sessuale, sesso e genere; l’articolo 4 sulla libertà di espressione e l’articolo 7 sulla educazione nelle scuole. Su una questione però non c’è spazio per stravolgimenti, ovvero il riferimento all’identità di genere che tutela le persone transgender. Sempre Zan: “Non si può chiedere di introdurre una discriminazione in una legge contro le discriminazioni”.