Onida, giurista e uomo fuori del comune di Andrea Pugiotto Il Riformista, 18 maggio 2022 Il solo, in decenni, a esercitare la prerogativa dei giudici costituzionali di visitare le carceri senza autorizzazione. Quello che vide, non lo dimenticò. Negli anni successivi continuerà a prestare volontariamente assistenza legale ai detenuti di Bollate. Da leggere e rileggere la sua prefazione al libro “Contro gli ergastoli”. 1. Valerio Onida ci ha lasciato. Non è una perdita qualsiasi per il diritto costituzionale: infatti, se sul piano della pietas umana tutte le morti sono eguali, su piani differenti alcune pesano più di altre. E la scomparsa di Onida pesa come un macigno, pensando - con ammirazione e riconoscenza - ai risultati della sua ricerca scientifica, alle modalità del suo insegnamento universitario, agli incarichi istituzionali rettamente onorati, al suo modo di esercitare la professione legale. Sono e saranno in tante e in tanti a ricordarlo. Le istituzioni e la dottrina sapranno farlo nelle forme e nelle sedi più appropriate, e sarà un ricordo corale giustificato come non mai. Ma non è di questo che, qui, intendo scrivere. Di Valerio Onida vorrei dire due o tre cose che non tutti sanno di lui, e che è giusto diventino invece patrimonio collettivo, anche tra i non addetti ai lavori. Un modo breve e laterale ma egualmente autentico di ricordare - insieme, perché inscindibili - il giurista e l’uomo, entrambi fuori del comune. 2. Quattro anni fa, con grande sorpresa di tutti - e con il borbottio di tanti - la Corte costituzionale è uscita da Palazzo della Consulta per intraprendere un viaggio nelle carceri italiane. A spingerla, una convinzione scolpita nei fondamentali del costituzionalismo liberale: come disse il suo Presidente di allora, Giorgio Lattanzi, “la Costituzione per la persona, per qualunque persona, anche per chi è detenuto, è una protezione, uno scudo”. Far capire a tutti che la Costituzione è a garanzia di tutti: con questo intento, le giudici e i giudici costituzionali sono così entrati a Rebibbia, San Vittore, nel carcere minorile di Nisida ed in quello femminile di Lecce, negli istituti penitenziari di Terni, Genova-Marassi, Padova, Bologna, Firenze-Sollicciano, Napoli-Secondigliano, Potenza. Di quel “viaggio in Italia” esiste anche una riuscita narrazione cinematografica, per la regia di Fabio Cavalli, di cui raccomando la visione (la si può recuperare su RaiPlay). Un’iniziativa senza precedenti, è stato detto. È certamente vero, specialmente nel suo tratto istituzionale ed ufficiale. Ma non è del tutto vero. L’ordinamento penitenziario, dal 1975, prevede un elenco di soggetti ammessi a visitare gli istituti di pena “senza autorizzazione” e, tra questi, annovera sia il Presidente che i giudici della Corte costituzionale. Eppure, per decenni, tale disposizione è rimasta lettera morta. Con un’unica scintillante eccezione: Valerio Onida. Lo ricorda opportunamente Marco Ruotolo negli scritti in suo onore (Alle frontiere del diritto costituzionale, Giuffrè, 2011, p. 1781): in occasione dell’istruzione di una quaestio avente ad oggetto il regime penitenziario dell’art. 41-bis, il giudice Onida visitò la sezione del carcere milanese di San Vittore che “ospita” detenuti sottoposti al regime speciale del c.d. “carcere duro”. Con la sua scelta più unica che rara, memore dell’insegnamento di Piero Calamandrei sulle condizioni delle prigioni italiane (“Bisogna aver visto”), Onida testimoniava al meglio quella prossimità che è il tratto costitutivo della magistratura di sorveglianza e che - da giudice delle leggi chiamato a garantire la Costituzione dietro le sbarre - sentiva l’esigenza di incarnare. Dentro gli istituti di pena, negli anni a venire, Onida continuerà a prestare volontariamente attività di consulenza legale per i detenuti del carcere di Milano-Bollate, con una dedizione e un’empatia non comuni, figurarsi tra gli accademici. E da Presidente della neo-nata Scuola Superiore della Magistratura, volle con determinazione promuovere e realizzare corsi di aggiornamento interdisciplinari mirati al disegno costituzionale delle pene e della loro esecuzione. Non si era limitato a guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhio. Aveva visto e non aveva dimenticato. 3. Palazzo della Consulta ha fatto da quinta teatrale alle capacità interpretative dell’avvocato Onida. In nome e per conto delle Regioni, a difesa del disegno autonomistico costituzionale. Spesso a sostegno delle ragioni di comitati promotori, per l’ammissibilità di referendum. Ma anche avvocato di cause perse in partenza che riusciva, invece, a portare a successo: come quella per la pari durata tra leva militare e servizio civile (sent. n. 470/1989) che gli regalò la gratitudine di tutti gli obiettori di coscienza, Eletto poi nel 1996 dal Parlamento in seduta comune giudice della Corte costituzionale, nel 2004 ne assunse la carica di Presidente: così, per nove intensi anni, è stato la persona giusta al posto giusto. Da giudice relatore, ha firmato molte decisioni di grande spessore costituzionale ma è di una, apparentemente minore, che voglio parlare: la n. 526/2000. Perché riguarda, ancora una volta, la Costituzione dietro le sbarre. E perché, a suo modo, esemplare di come Onida sapeva interpretarla per assicurarne principi e regole. Come spesso accade quando si tratta di ordinamento penitenziario, la quaestio nasceva da una vicenda degradante: la sanzione disciplinare irrogata a un detenuto a causa del suo rifiuto, opposto all’ordine della direzione del carcere, di effettuare, completamente nudo, le flessioni sulle gambe davanti agli agenti penitenziari per consentire un’accurata perquisizione personale. Il carattere lesivo per la dignità del detenuto di tale operazione faceva emergere, a monte, l’assenza di un giudice che potesse accertarne la legittimità dei presupposti e delle modalità, abbandonati dal silenzio legislativo ad una circolare ministeriale. L’obbligo di documentare il perché, il come e il chi della perquisizione viene, invece, ricavato in sentenza direttamente dalla Costituzione, attraverso una sua intepretazione guidata da una bussola: “quanto più la persona, trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo di abusi, tanto più rigorosa deve essere l’attenzione per evitare che questi si verifichino”. È un ago che, da giudice relatore, Onida orienta in modo da assicurare fin da subito - in attesa di un legislatore latitante che a lungo resterà tale - una diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. Che sono in galera perché puniti, non per essere puniti ulteriormente. Come, infatti, si legge nella sent. n. 349/1993 - che la penna di Onida non dimentica di citare - la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona, ma non la sua soppressione: chi si trova in prigione ne conserva sempre un residuo, tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale. Valerio Onida, in questo, ha sempre mostrato una sensibilità affilatissima. Ed ha agito e tentato di rendere giustizia costituzionale di conseguenza. 4. Il giudice Onida faceva parte del collegio che si trovò a dover misurare con il metro della Costituzione la pena fino alla morte, all’indomani della sua introduzione: l’ergastolo nella sua variante ostativa. In assenza dell’istituto del dissent (oggi, se posso dire, necessario più che mai), le decisioni della Consulta sono collegiali. Non so, dunque, come Valerio Onida votò in occasione della sent. n. 135/2003 che respinse i relativi dubbi di costituzionalità perché l’ostatività al beneficio della liberazione condizionale deriverebbe non da un automatismo legislativo illegittimo ma “dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo”. Una tesi che la stessa Consulta, oggi, riconosce zeppa di malintesi. So, però, che cosa Valerio Onida ha fatto dopo, contro quella teologia della maledizione perenne (“fine pena mai”, “devi marcire in galera”, “gettare via la chiave”) che è l’opposto del senso costituzionale della pena. avvocato, davanti alla Corte EDU, ha autorevolmente patrocinato le ragioni dell’ergastolano ostativo Marcello Viola, contribuendo ad ottenere la sentenza del 2019 con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per una “pena perpetua non riducibile” che vìola la clausola convenzionale, inderogabile, del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Un “problema strutturale” del nostro ordinamento penitenziario che la CEDU ci impone di risolvere, riconoscendo la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per tutti gli ergastolani, previo accertamento giurisdizionale, caso per caso, delle condizioni previste dalla legge, note al reo già al momento della condanna. Da opinionista influente, si è speso alla vigilia delle decisioni con le quali è toccato (e toccherà ancora) alla Corte costituzionale giudicare della legittimità del regime ostativo applicato agli ergastolani (sent. n. 253/2019, ord. n. 97/2021). E lo ha fatto contro un “doppio binario” penitenziario che considerava espressione di un illegittimo diritto penale del nemico: “ma la durata delle pene e il loro termine, in esito a un percorso di risocializzazione, non possono, in base ai principi costituzionali e di umanità, conformarsi” a una logica “di tipo “militare”“ perché “reati, pene e percorsi di recupero riguardano persone, non pedine di un esercito”. Così scriveva - con tanto di corsivo testuale - nella sua prefazione al volume Contro gli ergastoli (Ediesse/Futura, 2021), che ho curato insieme a Stefano Anastasia e Franco Corleone. Piantata come un chiodo sul muro, inviterei a rileggerla nell’attesa che la Consulta riassuma nuovamente la quaestio sull’ergastolo ostativo, diciotto mesi dopo averlo già accertato “incompatibile con la Costituzione” ed a quasi tre anni dalla sentenza della Corte europea. La giostra della vita, che decide di fermarsi quando e come vuole, ha voluto che quella prefazione sia l’ultimo testo pubblicato da Onida. Ne andiamo fieri e ne sentiamo tutta la responsabilità. Già prossimo al capolinea, volle caparbiamente partecipare - da remoto - alla presentazione del volume a Montecitorio nel dicembre scorso: nella voce e nei lineamenti del volto i segni sofferenti di una malattia impietosa, sconfitta però - in quell’occasione - dalla sua consueta lucidità di pensiero e da un’indomita determinazione nel difendere le ragioni della Costituzione. Valerio Onida ci ha lasciato da pochi giorni. Ma già ci manca. Feltri: “Ergastolo ostativo? Pure i mafiosi hanno diritti” di Errico Novi Il Dubbio, 18 maggio 2022 Intervista al direttore editoriale di Libero che sul proprio giornale, si è schierato contro l’ergastolo ostativo: “Una pena che ti conduce alla morte è tortura, e la tortura è fuori dalla Costituzione”. “Non mi piacciono i luoghi comuni. Non li sopporto. Mi piace pensare, giudicare le cose per come le vedo, non per obbedire a un’etichetta”. Tanto è vero che Vittorio Feltri si rifiuta di stare al gioco, quando gli facciamo notare che il suo intervento di oggi su Libero a proposito dell’ergastolo ostativo è un coraggioso atto di eresia, rispetto alla visione della destra sul “fine pena mai”. “Ma poi io non sono neppure di destra. Inorridisco all’idea di una pena che ti conduce alla morte, una pena di morte lenta, di fatto una tortura”. Lo ha scritto oggi a chiare lettere sul giornale che ha inventato ventidue anni fa e di cui è tuttora direttore editoriale: “Quella sull’ergastolo ostativo è una battaglia di civiltà. Rinchiudere a vita, ovvero finché non subentri il trapasso, una persona in una cella, quantunque ella abbia compiuto reati connessi all’associazionismo mafioso, non lasciarle alcuna speranza di uscire, neppure un misero brandello, e nemmeno l’aspettativa di essere reinserita in società, equivale in sostanza al condannarla a morte precoce”. Feltri ha risposto così all’intervista rilasciata al Corriere della Sera da Giuliano Amato, presidente della Consulta, massima autorità di garanzia della Repubblica, che ha giustificato il rinvio della sentenza sull’incostituzionalità dell’ergastolo con la necessità di rispettare il Parlamento e assicurare misure rigorose per i detenuti di mafia. È stato coraggioso, direttore... Confesso che proprio non riesco a comprendere. Un omicidio è un omicidio. Cosa importa se è stato commesso per motivi di gelosia o per mafia o perché una persona è fuori di sé? Com’è possibile pensare che quando si tratta di mafia la pena non deve essere umana e anzi deve trasformarsi in tortura? Ripeto: lei è un simbolo della destra conservatrice nel nostro Paese, le piaccia o no. E in quello che dice ha pochi emuli, a destra... Perché io guardo, e penso. E arrivo a delle conclusioni che non discendono da giudizi preconcetti. Me ne infischio, di chi incasella le cose. Sono un conservatore in un Paese in cui c’è poco da conservare, ci sarebbero casomai molti valori da recuperare. Cosi come penso che anche un mafioso debba avere diritto a una pena umana, rieducativa, finalizzata al reinserimento anziché una pena di morte distillata in trent’anni, credo anche che i diritti dell’uomo sono talmente inviolabili da dover essere tutelati persino nel ventre della mamma. Ha cambiato idea sull’aborto? Lo considera un errore? No, non ho affatto detto questo. Credo che l’aborto sia un ripiego doloroso a cui si dovrebbe ricorrere in casi speciali. Ho le mie riserve sul fatto che possa essere considerato un pilastro della civiltà. Comunque ripeto: non è vero che sono di destra. Di sicuro a destra quasi nessuno la pensa come lei sull’ergastolo... Credo che il conformismo ci abbia rovinato. Come ci ha rovinato il politicamente corretto, i luoghi comuni che diventano slogan. Ha scritto che quella sull’ergastolo ostativo è una battaglia di civiltà. Neppure i parlamentari ultragarantisti hanno il coraggio di ricordarlo... L’ergastolo senza via d’uscita è qualcosa che va oltre la pena. Attendere la morte chiusi in gabbia è una cosa che, a pensarci, fa venire i brividi. Non mi stanco di ripeterlo: è assurdo che si facciano differenze di umanità della pena in base al reato. È una logica che credo sia fuori dalla Costituzione. Dovrebbe. Ma in Italia chi chiede di essere garantisti coi mafiosi passa per colluso... Sì, certo. Diventi mafioso pure tu. Ma vogliamo parlare del 41 bis? Del fatto che ti tengono sotto controllo e ti spiano anche dentro al cesso? O che stanno con le luci sempre accese? Una tortura. Ma la tortura mi pare non sia ammessa: né dalla Costituzione né dal diritto internazionale. Amato ha giustificato il rinvio della sentenza sull’ergastolo con la necessità di rispettare il Parlamento. Ma poniamo che nei 6 mesi in più dati al Parlamento, un “ostativo” anziano, chiuso da 30 anni, muore: avremo obbedito alla Costituzione, nel negargli di riassaporare per l’ultima volta la libertà? Secondo me la Costituzione ne esce stracciata, da una cosa del genere. Tutti se ne riempiono la bocca. Poi vorrei capire, visto che il cosiddetto ergastolo ostativo vale per chi non collabora: com’è possibile premiare chi si inventa quattro scemate? Mi pare un modo perfetto di inquinare la giustizia? FdI diverge dalla Lega sui referendum, in particolare su legge Severino e carcere preventivo: il rigorismo sulla giustizia è così insuperabile, a destra? Non condivido questa linea. Non sono posizioni conservatrici ma semplicemente crudeli, l’ho scritto. E non redo che la crudeltà faccia parte dell’evoluzione umana. No, a destra non mi pare si sia obbligati a essere intransigenti sulle garanzie. I diritti sono un’altra cosa. Andrebbe assicurato anche il diritto degli animali. Ecco, un Paese migliore ha attenzione per tutto, senza spazi residui di crudeltà, ma anche senza esasperare il politicamente corretto. Senza un nemico come Berlusconi, l’Anm è così indebolita che non riesce più a ottenere adesioni di massa agli scioperi? Mi pare che la magistratura sia sempre più piena di incoerenze. Penso a Davigo: fino a pochi mesi fa gli hanno leccato tutto il leccabile, adesso che non è più in servizio gli vanno contro. Mi pare una cosa incredibile. Palamara è stato un capro espiatorio? Ha detto cose che nessuno ha contestato. Ho grande rispetto per chi dice la verità. Non credo che alla fine potranno dargli una condanna penale. Certo non gli hanno dato una medaglia. Ma ha fatto quello che dovrebbero fare tutti: dire la verità. L’Oms: “Carceri, bisogna ridurre le malattie non trasmissibili” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2022 In uno studio di 76 pagine, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha illustrato come affrontare il carico di malattie non trasmissibili nelle carceri nella regione europea. Si apprende che circa 30 milioni di persone, la maggior parte delle quali soffre di molteplici svantaggi, si muovono ogni anno a livello globale tra le carceri e le comunità. Il continuo flusso di persone tra la comunità e le strutture penitenziarie rende quest’ultime un punto focale della salute pubblica, poiché gli investimenti effettuati nei servizi sanitari carcerari riducono l’onere per l’assistenza sanitaria della comunità e alla fine contribuiscono a società più sane. Secondo l’Oms, affrontare le disuguaglianze sanitarie nelle carceri è fondamentale. Le malattie non trasmissibili causano il 71% dei decessi a livello globale e rappresentano una sfida per i sistemi sanitari. Sono 4 i fattori di rischio di queste malattie più significativi nei luoghi di detenzione: uso di tabacco e alcol, bassi livelli di attività fisica e diete squilibrate. A ciò si aggiunge l’inquinamento ambientale e i fattori sanitari sistemici come cause di preoccupazione. Tuttavia - secondo lo studio dell’Oms, queste malattie sono scarsamente riconosciute come un problema sanitario importante nelle carceri, dove l’obiettivo principale è stato tradizionalmente la prevenzione delle malattie infettive e degli infortuni. Denuncia che ci sono scarse ricerche sulle malattie non trasmissibili nelle carceri o dati solidi dalle carceri. Il sottoinvestimento nelle malattie non trasmissibili osservato nella società in generale è amplificato nelle strutture carcerarie, dove le malattie non trasmissibili non sono ancora considerate una priorità. Il programma di lavoro europeo dell’Oms definisce una visione per supportare meglio i paesi nel raggiungimento della copertura sanitaria universale. Uno dei suoi fiori all’occhiello è la salute mentale, una componente importante della salute carceraria. Gli attuali sistemi informativi nella Regione Europea, tuttavia, non raggiungono in modo inadeguato l’intero mandato dell’erogazione dei servizi e dei risultati sanitari. Anche le informazioni sui fattori di rischio comportamentali acquisiti nelle cartelle cliniche delle carceri sono scarse. I dati precedenti del database europeo Health in Prisons suggerivano che solo il 2% degli Stati membri della regione disponeva di dati sulla percentuale di persone in sovrappeso in carcere e solo il 15% poteva indicare la prevalenza dell’ipertensione, entrambi fattori di rischio per le malattie non trasmissibili. Questo è il motivo per cui l’Oms ritiene che sia una priorità per i sistemi sanitari carcerari concentrarsi sulla piena attuazione delle cartelle cliniche penitenziarie. I sistemi informativi devono acquisire dati di alta qualità sui fattori di rischio delle malattie non trasmissibili in modo che possano essere adottate politiche basate sull’evidenza. Il rapporto dell’Oms riassume le prove esistenti e presenta politiche e interventi per ridurre il carico di malattie non trasmissibili nelle carceri, fornendo esempi di buone pratiche in tutto il mondo. Sebbene non siano esaustivi, questi esempi offrono soluzioni pratiche semplici e ben progettate per aumentare l’attività fisica, migliorare la qualità nutrizionale, ridurre l’ uso di alcol e tabacco, controllare il diabete e l’obesità, ridurre la pressione alta e miglioramento degli interventi ambientali. Il rapporto dell’Oms riassume i dati di una recente ricerca sulle disuguaglianze delle malattie non trasmissibili nelle persone che vivono in carcere. Quali sono? L’Oms indica alcuni fattori principali. La prevalenza di malattie cardiovascolari nelle persone di età superiore ai 50 anni che vivono nelle carceri in Europa è oltre 3 volte superiore a quella della popolazione generale. Le probabilità di avere una patologia respiratoria, tra cui l’asma e la broncopneumopatia cronica ostruttiva, sono da 3 a 6 volte più alte tra le persone in carcere rispetto alle comunità esterne. Rispetto alla popolazione generale, i detenuti hanno tassi di malattie psicotiche e depressione maggiore da 2 a 4 volte superiori e tassi di disturbo antisociale di personalità 10 volte superiori. Inoltre, i dati provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti d’America mostrano che alle persone detenute viene diagnosticato il cancro al collo dell’utero a tassi 4- 5 volte superiori e che il rischio di morire di cancro è 1,4- 1,6 volte più alto rispetto alle persone nelle comunità esterne. Le malattie non trasmissibili esistenti pongono le persone infettate con il Sars- CoV- 2 a un rischio più elevato di Covid grave o di morte. D’altronde, questo lo abbiamo visto in Italia. Nel periodo emergenziale, alcuni detenuti con malattie pregresse sono stati mandanti in detenzione domiciliare. Ci furono polemiche, perché diversi di loro erano reclusi per mafia. A seguito dell’indignazione, alcuni di loro furono rispediti dentro. Hanno contratto il covid e sono morti. L’Oms sottolinea che una popolazione carceraria in aumento e che invecchia presenta ulteriori sfide a una popolazione che già sperimenta peggiori risultati di salute. Nel 2018 c’erano più di 11 milioni di persone che vivevano in carcere nel mondo, con un aumento dell’ 8% dal 2010. Una revisione sistematica incentrata sui dati epidemiologici delle persone in carcere ha evidenziato che gli anziani avevano tassi più elevati di diabete, cancro, malattie cardiovascolari e malattie del fegato. Vale la pena notare che, mentre nei paesi industrializzati e nella regione europea dell’Oms le persone di età pari o superiore a 65 anni sono convenzionalmente indicate come ‘ anziani’, è stato dimostrato che, per la popolazione carceraria, questa definizione vale dai 50 anni in su. Quando le persone finiscono di scontare la pena, la loro salute risulta peggiore rispetto a coloro che non sono mai state incarcerate, perché hanno meno risorse economiche, livelli di stress più elevati, priorità contrastanti e scarso accesso alle cure. Poiché la popolazione carceraria sta crescendo e cambiando, è più probabile che un numero crescente di persone anziane soffra di malattie non trasmissibili. È stato anche riferito che l’invecchiamento di per sé, che si verifica a livello globale, gioca un ruolo nel profilo di età della popolazione carceraria e, di conseguenza, nella prevalenza della malattia. L’obiettivo che l’Oms indica è quello di migliorare la salute delle persone che vivono in carcere e in altri luoghi di detenzione e raggiungere soprattutto l’obiettivo di sviluppo sostenibile: garantire una vita sana e promuovere il benessere per tutti a tutte le età, e ridurre disuguaglianza all’interno e tra i paesi. Per raggiungere tali obiettivi, è fondamentale affrontare le principali cause di morte prematura. Le malattie non trasmissibili rappresentano la maggior parte delle morti premature nel mondo, comprese le carceri. L’Oms conclude nel suo rapporto che tutti gli sforzi devono quindi essere incentrati sulla trasformazione delle carceri in ambienti che promuovono la salute in cui vi sia l’opportunità di impegnarsi nella prevenzione delle malattie non trasmissibili. La diagnosi precoce di queste malattie migliora la prognosi e quindi massimizza le possibilità di successo di qualsiasi intervento. Molte persone incarcerate provengono da comunità in cui ci sono barriere significative che bloccano l’accesso alle cure. Secondo l’Oms la reclusione può essere addirittura una sfida per ridurre le disuguaglianze poiché i governi, di fatto, hanno il dovere di prendersi cura delle persone private della libertà. Pierluigi Di Piazza, fondatore del Centro Balducci a Udine, è scomparso di Franco Corleone Messaggero Veneto, 18 maggio 2022 Una perdita irrimediabile per il Friuli Siamo uniti da un sentimento che ci possiede: sentiamo di essere vittime di una profonda ingiustizia. Nella serata dedicata ai trent’anni dalla morte di Ernesto Balducci Pierluigi ci ha dato l’addio con un invito a continuare in ciò che era giusto. Non so se ci può consolare, ma sentiamo la presenza di altri giganti friulani, poeti e spiriti profetici, Padre Davide Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Ci può aiutare il pensiero di Aldo Capitini, filosofo morale, teorico della nonviolenza e ideatore della Marcia per la pace Perugia-Assisi che scrisse della compresenza dei morti e dei viventi, un legame tra le vite presenti e quelle passate. L’immortalità, secondo Capitini, non è un fatto. Ma è la continuità di tutti, la realtà di tutti. Il culto dei morti è legato al tentativo di rendere la morte apparente. Ecco il senso della promessa della resurrezione. Aldo Capitini infine approfondisce il senso della trasformazione di tutti: “Forse in qualche animo dei “civili” di oggi sta scomparendo la consapevolezza costante che ci sono anche i morti, e si perde così la testimonianza perenne che i morti e tutti i sofferenti danno della finitezza degli esseri nati alla vita. C’è chi non vuol saperlo, vuol dimenticarlo, e così, nel visibile attivismo, perde quell’equilibrio e quella serenità che viene dal fare un posto di reverenza, di meditazione, di offerta a quella “testimonianza”, a quel martirio.” L’ultima affermazione che mi piace citare ha il fascino della poesia: “I morti non tornano perché non se ne vanno mai, perché sono uniti all’intimo”. Ricordo che regalai un libro di Capitini a Pierluigi per la sua convinta nonviolenza che traduceva nel suo Vangelo delle Beatitudini così:” Le persone che scelgono la nonviolenza e sono quotidianamente artigiane, costruttrici di pace… La nonviolenza attiva come scelta spirituale personale e comunitaria e, su un altro piano distinto non separato, come scelta culturale, etica e politica. La nonviolenza vissuta nel mondo violento; la costruzione quotidiana della pace vissuta nel mondo della terza guerra mondiale a pezzi in atto (come dice papa Francesco), dell’aumento nel 2016 della fabbricazione e del commercio delle armi; la pace della quotidianità nei rapporti e come progetto arduo di soluzione delle drammatiche guerre in atto…” Ricordare e raccontare rappresentano una dimensione di umanità e un valore da coltivare per tenere il filo della memoria. Alberto Mondadori in un ricordo dell’amico Buzzati scrisse che la persona scomparsa è presente ed è essenziale; siamo noi che non siamo nulla per chi non c’è più ed è questo il senso tragico e crudele della morte. Sono stati momenti indimenticabili quelli che ci hanno visto assieme al Centro Balducci per parlare di droghe e di carcere o per la premiazione del Premio Battistutta in piena pandemia. Mi confortò molto la vicinanza e la sintonia per il digiuno che avevo intrapreso per la vicenda della restituzione dell’onore per le vittime del militarismo e la giustizia sommaria nella Prima Guerra. Di Piazza ricordava il coraggio della coscienza, l’ubbidienza alle sue istanze profonde, a essere obiettori di coscienza al sistema di ingiustizia, di violenza, delle armi, della guerra, del razzismo, della discriminazione, della distruzione dell’ambiente. Affermava a dire sì e no nella vita di ogni giorno, scegliendo per la vita, non per la morte, Era il 17 ottobre 2020. Come non ricordare l’incontro in Via Spalato per piantare un melo come segno di cambiamento e di abbattimento delle sbarre e dei muri? Avevo pudore a sollecitargli aiuto e sostegno per battaglie che sapevo condivise, ma che potevano distoglierlo da compiti di solidarietà assai urgenti; per chiedergli la prefazione per il volume degli scritti di Maurizio Battistutta pregai Roberta Casco del compito delicato ed essenziale. Dopo la risposta positiva mi chiese che cosa mi aspettassi e se ritenevo che riproporre la sua orazione al funerale di Maurizio fosse una buona idea. Dissi che era una scelta opportuna e che poteva essere accompagnata da una riflessione attuale rileggendo i testi raccolti. Così fu. Di Piazza ricordò un pensiero fondamentale di Battistutta, “di non considerare il carcere come luogo a perdere, da rimuovere e abbandonare, ma come luogo utopico di sperimentazione e di trasformazione radicale. Carceri, quindi, come luoghi di vera cura, di vero reinserimento sociale, oltre che di laboratori culturali. In fondo, non credo sia un’utopia”. Di Piazza affermava la necessità di far prevalere “la sicurezza dei diritti” al “diritto alla sicurezza”. E insisteva dicendo che” Non sarà certo il potere salvifico attribuito alle telecamere, alle pistole elettriche, ai manganelli, a costruire e garantire la sicurezza, ma invece la sensibilità del cuore, della coscienza e dell’intelligenza, la convivenza accogliente e pacifica fra le diversità. Come non ricordare infine l’incontro in Via Spalato per piantare un melo come segno di cambiamento e di abbattimento delle sbarre e dei muri? Celebrando la morte di Maurizio Battistutta pronunciò parole che possiamo fare nostre oggi: “Avverto la nostalgia, la mancanza della sua presenza così vera e umana. Ma poi sento che la sua presenza è viva c e che continua a proporre con pacatezza e fermezza, sempre con profonda umanità. Continuiamo il cammino con il “noi” che via via formiamo, di cui lui è presenza così importante”. Il dolore è forte e rischia di schiantarci. Abbiamo il dovere di resistere e di essere all’altezza della passione e dell’amore di Pierluigi Di Piazza. Icaro e la Società della Ragione dedicheranno il Seminario del 31 maggio “Ripartire dalla Costituzione” su dignità e diritti nel carcere proprio a Pierluigi. Anm, i vertici negano il flop. Ma c’è chi parla di fallimento di Valentina Stella Il Dubbio, 18 maggio 2022 Resa dei conti all’interno del sindacato delle toghe, che si è giocato la possibilità di incidere sul dibattito parlamentare: i dissidenti chiedono le dimissioni dei vertici. Come nelle fasi di elaborazione del lutto, anche l’Anm in queste ore sta vivendo quella della negazione: lo sciopero non è stato un completo fallimento. Basta vedere cosa ha detto Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm, a Radio 24: “Non credo sia una lettura corretta, non è stato un flop. Un collega su due ha ritenuto che la sua contrarietà, la sua protesta contro la riforma fosse così forte da doversi esprimere con lo sciopero”. Eppure c’è chi, come Cristina Ornano, ex segretaria nazionale di Area Dg, ammette: “La contrarietà alla riforma è unanime, le divergenze riguardavano solo lo strumento dello sciopero”. E quindi ora c’è da capire perché l’Anm non è riuscita a creare una compatta aggregazione intorno ad una iniziativa che avrebbe dovuto lanciare un forte segnale contro una riforma fortemente stigmatizzata. Non basta dire, come sostiene qualche magistrato, che ora bisogna guardare avanti. Occorre prima guardarsi dentro per comprendere cosa non abbia funzionato. Lo ha detto anche Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente: “Dobbiamo prendere atto dell’esistenza di un significativo scollamento tra le maggioranze nette emerse nell’Assemblea Generale dell’Anm e il dato dell’adesione. È necessario capire perché i colleghi contrari allo sciopero non hanno partecipato all’assemblea per esprimere il loro dissenso. Occorre avviare una seria riflessione per comprendere e sanare questo scollamento e bisogna ascoltare con attenzione le ragioni dei colleghi che non hanno condiviso l’iniziativa”. Pure per Rossella Marro, presidente di Unicost, “da oggi ci si dovrà impegnare per rivitalizzare il dibattito interno coinvolgendo tutti i magistrati”. “Sarà possibile - ha aggiunto però - esprimere una valutazione quando saranno disponibili i dati dell’età e delle funzioni svolte da chi non ha aderito”. Con maggiore senso della realtà ha scritto Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica: “La percezione di uno sciopero indetto in fretta per intercettare e, forse, blandire la legittima rabbia della magistratura più giovane, senza, autenticamente, coinvolgere tutta la categoria, ci aveva indotto a proporre emendamenti che sollecitavano preliminari momenti di confronto interno ed esterno alla magistratura, insieme alla possibilità di gestire, con saggia pacatezza, i tempi di indizione dello sciopero. Sono state fatte altre scelte, che abbiamo subìto, ma questo non ci ha fatto recedere - come collettivo, a prescindere da legittime scelte individuali - da un tenace impegno per la riuscita dello sciopero. Perciò, abbiamo fallito anche noi; perché questo sciopero è stato un fallimento! Dovevamo prenderci il tempo per tessere una trama narrativa che coinvolgesse tutta la magistratura, vincendo le tentazioni di un suo frazionamento che è solo l’anticamera di un suo drammatico indebolimento associativo ed istituzionale”. E c’è anche chi non esclude una resa dei conti all’interno dell’Anm. Pasquale Grasso, ex presidente dell’Anm, all’HuffPost è stato tranchant: “In qualsiasi gruppo associato, se i dirigenti si propongono un obiettivo, provano a condurvi il gruppo e poi ottengono una sconfitta di questo tipo, dovrebbero assumersi la responsabilità delle conseguenze. E dimettersi”. Stesso pensiero espresso dai componenti del Cdc eletti nella lista Articolo Centouno: “Elementari regole di responsabilità politica imporrebbero che la Gec - prendendo atto che, in un passaggio cruciale della vita associativa, soffre di un radicale deficit rappresentativo, non essendo interprete della volontà della maggioranza dei magistrati - si presentasse dimissionaria alla prossima riunione del Cdc”. Intanto ieri all’interno dell’Anm si sarà vissuto un qualche psicodramma se per tutta la giornata si sono rincorse voci di un possibile comunicato che poi non è mai arrivato. Mattina e pomeriggio i vertici sono stati lì a ragionare e la stampa ad aspettare. Poi nulla, almeno fino alle 19. Anche questo è significativo delle difficoltà di interpretare una debacle e di comunicarla all’opinione pubblica, quella stessa opinione pubblica a cui l’Anm aveva detto di volersi rivolgersi in tutti questi giorni. Perché tutti questi errori uno dietro l’altro? Prima si è indetta una conferenza stampa senza consegnare un foglio con una proposta alternativa ai subemendamenti tanto contestati, poi ci si è affrettati a convocare un’assemblea che ha visto una presenza fisica solo dell’1,8 per cento dei magistrati iscritti all’Anm, sebbene quelli favorevoli all’astensione, tramite pure le deleghe, siano stati l’11 per cento. Poi si è deliberata l’astensione il 16 maggio, senza neanche aspettare il calendario dei lavori in Senato, come pure ragionevolmente era stato ipotizzato all’inizio. Ora con il 48,50 per cento di adesione allo sciopero, l’Anm si è bruciata subito una reale possibilità di incidere sul dibattito parlamentare. Dibattito che paradossalmente potrebbe protrarsi fin dopo la data fatidica del 12 giugno, dedicata ai referendum. Questo potrebbe da un lato rendere la sconfitta dei comitati promotori - Lega e Partito Radicale - più morbida perché una mancata approvazione della riforma potrebbe rinvigorire l’appuntamento referendario, ma allo stesso tempo potrebbe risvegliare la magistratura dal torpore di queste ore post sconfitta per intraprendere una nuova battaglia che questa volta potrebbe vederla vincitrice. Magistrati spaccati dopo lo sciopero flop. Il vicepresidente Csm: “La riforma serve” di Francesco Grignetti La Stampa, 18 maggio 2022 Lo sciopero dei magistrati non è andato affatto bene. La prova di forza con la politica ha dimostrato semmai debolezza. E il giorno dopo, c’è sbandamento. Il gruppo più eterodosso, Articolo 101, denuncia: “Un plateale insuccesso”. A questo punto chiedono le dimissioni di tutto il gruppo dirigente dell’Anm e sperano in gesti eclatanti, quali ad esempio il rientro in ruolo di tutti i colleghi che collaborano con questo governo. Magistratura democratica, a sua volta ammette: “È stato un fallimento”. Md rifiuta “l’immagine falsa ed ipocrita di una magistratura inadeguata su cui addossare le inefficienze del sistema: una magistratura da punire”. La riforma, però, sembra ormai marciare a passi veloci. Manca soltanto l’ultimo passaggio del Senato. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, intervistato a Metropolis, in onda sui siti Gedi, dice: “Dopo aver visto gli applausi al presidente della Repubblica, credo che il Parlamento non possa non arrivare a una riforma della giustizia. Questa non è una riforma epocale, ma può servire”. E dice anche, Ermini, non poi così sorpreso che lo sciopero non abbia sfondato tra i magistrati stessi: “Io non avrei scioperato. C’è stata una forte discussione, anche giusta, e datala situazione in cui si è trovata la magistratura negli ultimi anni”. Lo sciopero precedente cadde in piena era berlusconiana, dodici anni fa. E quella volta l’adesione era stata massiccia. “E c’erano ragioni più serie. In questa riforma, posso comunque vedere che le cose più indigeribili, non ci sono”. Ermini: “Sul Csm sciopero poco serio. Renzi? Mi ha deluso” di Liana Milella La Repubblica, 18 maggio 2022 Intervista al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Tutto il dibattito sulla riforma è stato impostato male: non è una legge vendicativa per le toghe. Il referendum? Molti non sanno di che si parla”. L’amarezza c’è tutta ogni volta che parla di Matteo Renzi. Si vede negli occhi che si abbassano e si sente nella voce che si assottiglia. Anche qui, nello studio di Metropolis, davanti a Gerardo Greco e a me, che di Renzi e della loro storia vorremmo sapere tutto. Ma l’espressione di David Ermini - oggi vice presidente del Csm, ma fino al settembre 2018, quando salì al Colle da Mattarella, parlamentare renziano - s’incupisce. Lui lo chiama ancora “Matteo”. Perché “siamo stati amici”. Anche se “Matteo”, solo poche ore prima, lo ha attaccato di nuovo, come ha fatto nel Mostro, il suo ultimo libro. Ha ripetuto che Ermini “è un pubblico ufficiale che riceve una prova del reato e la distrugge”. Ermini va diritto verso un’azione legale: “Siamo stati amici, abbiamo condiviso una stagione, lui mi ha proposto per il Csm, e qui la mia strada istituzionale si è separata dalla sua...”. Né un deputato, né un membro del Csm deve obbedire a chi lo ha fatto eleggere? “Un organo di rilievo costituzionale deve decidere in modo autonomo. Anche il vice presidente non può e non deve rendere conto a chi lo ha votato, ma al presidente della Repubblica, che è il capo del Csm”. Renzi le ricorda che se sta al Csm è per merito suo? “Un momento. Mi sono lamentato per un fatto specifico. Ho dato mandato a un collega fiorentino di tutelarmi, e lui deciderà i modi e i tempi. E su questa vicenda non ho nient’altro da dire”. Lei è stato deputato, e forse tornerà a farlo... “Chi vivrà, vedrà...”. Ma tra lei e l’ex segretario del Pd ci sono ruggini che lasciano un po’ di amaro in bocca? Questo lo può dire... (Ermini abbassa lo sguardo, sorride leggermente, tace per qualche secondo...). “Certo non sono situazioni che ti rendono felice, soprattutto se con una persona ci lavori per vent’anni. Sono stato zitto l’anno scorso, quando è uscito il libro Controcorrente. Ma domenica non potevo più tacere ... Non è piacevole, perché io sono di quelli che nel movimento di Renzi ci ha creduto molto. E devo dire che anche grazie a Matteo sono cresciuto, abbiamo fatto tante battaglie insieme, quindi una situazione come questa non mi può rendere felice... ma si può andare avanti”. Ma cos’è accaduto tra di voi? “È inutile che insistete, di questa questione non parlo”. Parliamo dello sciopero delle toghe che non è andato bene... “Non so se sia andato al di sopra o al di sotto delle aspettative. C’erano stati molti magistrati che avevano già detto di non condividere la scelta dello sciopero. C’è stata una forte discussione anche giusta. Perché nella situazione di grande difficoltà in cui si è trovata la magistratura negli ultimi anni è giusto che si discuta su come andare avanti”. L’ultimo sciopero, ai tempi di Berlusconi, segnò percentuali ben diverse... “Fu fatto per ragioni più serie, e anche più gravi. In tempi non sospetti, quando ancora si ipotizzava di farlo, io ho detto subito che se fosse toccato a me non avrei scioperato...”. Lei non è un magistrato, ma un avvocato... “Certo, e vedo subito che le questioni più difficili da digerire per un magistrato - il sorteggio per il Csm e la responsabilità civile diretta - in questa riforma non ci sono. Restano le valutazioni di professionalità in cui entreranno anche gli avvocati e il fascicolo per ogni giudice. Punti che non ritengo assurdi. E poi la gerarchizzazione delle procure, dove i sostituti sono più sottoposti al controllo dei capi”. E la legge elettorale? Alle toghe non piace affatto... “È una questione complicata, ma come nelle elezioni politiche ogni legge ha dei pro e dei contro. Il nodo è capire chi mandi al Csm e il rapporto che s’instaura dopo l’elezione. Non basta una legge, occorre una rivoluzione etica. Perché il rapporto fiduciario, il cordone ombellicale che ci può essere nel momento del voto non deve esistere anche dopo. Una volta eletto, io non devo rendere conto a chi mi ha mandato lì”. L’esiguo 38% di toghe che sciopera a Milano, città simbolo di Mani pulite, non toglierà alla magistratura la forza per far cambiare leggi che ritiene sbagliate? “Tutto il dibattito sulla riforma è stato impostato male. Ci sono stati troppi proclami, come quel parlare di una riforma “vendicativa” contro la magistratura, mentre la stessa magistratura andava chiudendosi sempre più su se stessa e alla fine è arrivata allo sciopero. Invece bisogna puntare a un equilibrio”. E quale potrebbe essere? “Le parti della legge contestate dai magistrati sono assolutamente discutibili, tant’è che il Csm ha votato un parere estremamente critico, ma le leggi le fa il Parlamento, e una volta che le approva i magistrati le devono rispettare. Se poi, in una riforma di così ampia portata, qualcosa non dovesse funzionare, allora lo stesso Parlamento potrà tornarci sopra”. Era proprio necessario provocare le toghe riducendo da 4 a 1 i passaggi da pm a giudice? “Rispondo a titolo personale, e da avvocato. Un pm che ha fatto per qualche anno il giudice io lo preferisco. Non so se sia positivo che uno nasca come pm e finisca la carriera con la stessa casacca addosso. Meglio un magistrato che prima fa il giudice, e poi diventa pm”. Ora che farà il Senato? Dirà l’ultimo sì alla legge Cartabia? “Dopo aver assistito - perché ero lì alla Camera - agli applausi al presidente della Repubblica Mattarella il giorno del suo giuramento, credo che il Parlamento non possa non arrivare a votare la riforma. Ogni partito ha rinunciato a qualcosa. Non è una riforma epocale, ma è utile”. Che succede il 12 giugno? Gli italiani andranno a votare per i referendum sulla giustizia e non sanno di cosa si sta parlando? “Diciamo la verità, per molti è proprio così, perché sto ricevendo molte chiamate e messaggi in cui mi si chiede cosa ci sia mai nei cinque quesiti. Che succederà? E chi può dirlo?”. Sciopero flop di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 maggio 2022 Il giorno dopo il fallimento della protesta contro la riforma Cartabia la magistratura italiana fa i conti con una nuova fase che lo stesso Santalucia ha definito delle vacche magre. Quelle grasse erano del periodo Palamara? Questa volta non sarebbe bastata l’immagine televisiva di Antonio Di Pietro e gli altri pm con i visi stanchi e la barba lunga. E neanche il famoso comizio nell’aula magna di Saverio Borrelli che invitava le toghe a “resistere” sulla linea del Piave. Questa volta il corpo dei magistrati è parso più dalla parte del “non ci sto” del politico Oscar Luigi Scalfaro e il “non ci lasceremo processare” di Aldo Moro, che non da quella dell’intoccabile Partito delle procure. Hanno lavorato. In pochi hanno incrociato le braccia e a Milano, nonostante la presenza del capo del sindacato unico, è bastata un’auletta per contenere la manifestazione delle cinquanta toghe presenti. Non è importante la percentuale in numeri dell’adesione allo sciopero indetto lunedì scorso dall’Anm. Per noi che abbiamo manifestato tanto da ragazzi, sognando e prefigurando un mondo diverso, è sempre stata importante la “cifra politica”, più che quella numerica della partecipazione. La capacità di segnare una presenza, di incidere nel corpo vivo di un problema. Questa capacità il sindacato del presidente Giuseppe Santalucia non l’ha avuta. Tanto che lo stesso dirigente ha dovuto rinchiudere in una bolla di tipo sentimentale il fallimento, parlando dello sciopero come di un grande “atto di generosità” delle toghe nei confronti dei cittadini. Ma del pane dei diritti hanno bisogno i cittadini, non delle brioches regali di un corpo togato sempre più lontano e intoccabile. Una corporazione che sempre di più parla a se stessa piuttosto che agli altri. E la prima conseguenza negativa per il sindacato unico dei magistrati sarà il fatto che, quando il 12 giugno gli elettori saranno chiamati a votare i referendum sulla giustizia, ci sarà qualcuno a ricordare loro che, contro una riforma che ne è la pallida sembianza ma ne ha alcuni simili contenuti, la casta si è chiusa a riccio. E si è in parte rifiutata, per un giorno, di amministrare la giustizia in nome del popolo italiano. Ma ha pensato soprattutto ai propri, di diritti. Senza mai accennare ai doveri. Sarà dura spiegare per esempio, che coloro che ogni giorno sono chiamati nei tribunali a giudicare gli altri, non tollerano nessuna valutazione su di sé. Perché ci sarà qualcuno, nel corso della campagna referendaria, a ricordare qualche numero, che in questo caso è fondamentale: per esempio che per la responsabilità disciplinare dei magistrati viene archiviato (dai colleghi) il 90% delle denunce, e per quella civile si arriva alla condanna nell’1,2% dei casi. Non saranno chiamati a votare sulla responsabilità delle toghe, è vero, la decisione politica della Consulta lo ha vietato. Ma capiranno, i cittadini, che la semplice proposta che esista un fascicolo in cui la vita professionale di ogni singolo pubblico ministero o giudice sia esaminata (dai colleghi, non dai brutti e cattivi politici) non è offensiva, né un affronto personale, ma urgente e indispensabile. Perché chiunque abbia frequentato un palazzo di giustizia, chiunque abbia incontrato un magistrato in sede civile o penale, sa quanta sofferenza abbia poi portato a casa, indipendentemente da ogni singolo risultato processuale. E non rassicurano certe dichiarazioni. Senza entrare nella psicologia di ogni portatore di toga, vien da chiedersi, ma non hanno ancora capito? Scusandoci per il paragone, alcuni di loro sembrano un po’ gli alpini ubriachi, stupiti perché alle donne italiane non vanno giù le pacche sul sedere e neanche i complimenti pesanti. Non se ne può più di sentir dire che ogni riforma, per quanto contenuta come quella proposta dalla ministra Cartabia, sarebbe un attentato all’indipendenza e autonomia della magistratura. Senza che mai qualcuno spieghi che cosa vuol dire questa frase. Non è questo che interessa a chi ha l’avventura (e spesso la sventura) di ritrovarsi al cospetto di un magistrato. Ci si aspetterebbe piuttosto una rivendicazione di imparzialità, ma nessuno ne parla mai. E anche di lontananza dalla politica, perché la mescolanza dei ruoli, questo si che è visto con sospetto. E la fine delle “porte girevoli” è gradita a tutti. Perché non capiti più di ritrovarsi a essere giudicati in tribunale da colui che fu un ex avversario politico in Parlamento. E dovrebbe essere più cauto Nello Rossi, direttore della rivista “Quale giustizia” ed ex leader di Magistratura democratica, quando afferma di essere, per fatto generazionale, uno di quelli che hanno sempre tenuto insieme l’attività professionale con quella associativa. Una vera rivendicazione politica. Cosa che di questi tempi, dopo le rivelazioni di Luca Palamara, non è proprio gradita ai più. Perché nessuno ha proprio creduto che l’ex presidente della Anm fosse un caso isolato, una bestia nera immolata la quale le acque si sarebbero placidamente richiuse. Il “calati giunco che passa la piena”, non funziona proprio più. Non ha funzionato per la politica, dopo lo sconquasso del 1992. Mestamente se ne rende conto lo stesso Santalucia, quando dice “Anche per l’Anm c’è stata una stagione delle vacche grasse. Ora è quella delle vacche magre”. Ma che cosa erano queste “vacche grasse”? E quali forme di dimagrimento si potrebbero raggiungere con la riforma Cartabia e con i referendum? Il ruolo politico di pubblici ministeri cui bastava andare in televisione per dire che senza manette loro non potevano lavorare e poi solo per questo godevano del pubblico entusiasmo, era vacca grassa. Lasciar marcire in carcere gli innocenti non ancora processati e liberarli solo quando, e se, accusavano qualcun altro, era vacca grassa. Distruggere interi partiti con la complicità di qualche cronista giudiziario era vacca grassa. Spendere milioni in intercettazioni e poi magari “sbagliarne” l’interpretazione era vacca grassa. Fingere di applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per tenere in caldo i fascicoli degli amici politici fino ad accompagnarli alla prescrizione, era vacca grassa. Complicità tra chi ti accusa e chi ti deve giudicare, era vacca grassa. Vedere il mondo della politica, annientato da trent’anni di dominio incontrollabile dell’unica vera casta, ancora prono ai piedi dei pubblici ministeri è stato, fino a poco tempo fa, la Grande Vacca Grassa di un’epoca intera. Quali sono le diete che potranno portare a una vita normale l’amministrazione della giustizia e il suo rapporto con la politica e con la società se il Senato approverà la legge Cartabia e se il 12 giugno il cinquanta più uno (qui la percentuale è fondamentale) dei cittadini andrà alle urne e se la maggioranza di loro voterà SI ai referendum? Piccola dieta nella prima ipotesi, almeno perché si faccia rientrare in parte il ruolo del pm nell’alveo dei Paesi di democrazia occidentale, con la riduzione dei passaggi da accusatore a giudice e con la possibilità di valutarne l’attività. Significativo dimagrimento se si voteranno i referendum: per una separazione definitiva tra i due ruoli, per una svolta sulla custodia cautelare, sempre ricordando che significa carcere per gli innocenti secondo la Costituzione. Teniamo fermi almeno questi punti, per ora. Nella speranza che un domani non esistano più scandali come il processo “Trattativa Stato-mafia” o quello milanese al governatore Attilio Fontana. E neanche che Giancarlo Pittelli e i tanti nella stessa situazione, siano agli arresti da anni senza aver avuto una sentenza. Elezione del Csm, al via la campagna per la nomina di 10 componenti laici di Alberto Cisterna Il Riformista, 18 maggio 2022 La campagna per l’elezione del Csm è partita. Comunque vada la composizione di palazzo dei Marescialli risentirà di una singolare situazione. Mentre, infatti, saranno applicate le nuove norme volute dalla ministra Cartabia per la scelta dei consiglieri togati (20 su 30), un Parlamento praticamente con le valigie in mano si appresta alla nomina dei restanti 10 componenti laici tra cui sarà scelto il prossimo vice Presidente. È chiaro che la politica è chiamata a operare scelte di alto profilo che possano assecondare l’intento della nuova legge elettorale di spezzare o almeno mitigare il controllo delle correnti sulla magistratura italiana. Un nugolo di norme riguarda proprio il funzionamento del Csm in settori nevralgici per la governance delle toghe - dagli incarichi direttivi al cosiddetto fascicolo delle performance - ed è chiaro che la cifra istituzionale della prossima consiliatura sarà data proprio dai primi approcci a dossier importanti. Ci saranno da smaltire le scorie dell’affaire Palamara, la vicenda del processo Eni, gli approdi delle indagini sulla Loggia Ungheria, la scelta del prossimo procuratore di Napoli e la copertura di altri importanti incarichi. Il Quirinale, probabilmente, accenderà un faro sulle trattative tra i partiti alcuni dei quali, destinati a un drastico ridimensionamento, lasceranno in eredità al Csm una rappresentanza numericamente importante per i prossimi quattro anni. Ancora di più, quindi, si avverte la necessità di scelte equilibrate che possano accompagnare la magistratura attraverso una prossima legislatura parlamentare che non è detto abbia maggioranze politiche benevole con le toghe come in passato. Se, come pare, i referendum del prossimo giugno dovessero fallire - anche per la disattenzione mediatica che li accompagna - e i partiti che si sono impegnati conquistassero la maggioranza nel prossimo Parlamento, non è impensabile qualche fallo di frustrazione verso le toghe e il tentativo di un più cruento regolamento dei conti. In questo scenario al calor bianco il Colle sarà chiamato a un ruolo complesso proprio per la posizione che riveste di presidente del Csm e dovrà evitare contrapposizioni che, invero, lo sciopero di ieri lascia ampiamente presagire. I magistrati vivono una delicata condizione in cui si sommano la frustrazione per i danni fatti dalla gestione correntizia, le impellenze del Pnrr con i suoi obiettivi di smaltimento e una difficile condizione lavorativa. Una miscela esplosiva che ha, anche, l’effetto di scoraggiare i più bravi dall’accesso alla magistratura ordinaria. Quindi al Parlamento il compito di individuare la squadra dei dieci consiglieri e di tracciare il profilo del prossimo vice presidente che, in quel consesso, esercita un ruolo fondamentale. A esempio non sarebbe fuori di luogo dismettere le solite soluzioni “giuridiche” e individuare qualche docente universitario con esperienze in materia di organizzazione o anche di giustizia amministrativa, tenuto conto del calvario di annullamenti che affligge l’attività del Csm in materia di nomine anche di grande rilievo. Così come potrebbe avere diritto di tribuna nel Csm quella parte dell’avvocatura e dell’accademia che sono più sensibili ai temi della separazione delle carriere o delle garanzie processuali al fine di attivare circuiti di interlocuzione con quelle realtà territoriali in cui più acuto è il tema del processo penale e della sua tenuta costituzionale. Insomma le toghe sono chiamate a un impegno importante con il voto di luglio, ma il Parlamento non potrà certo pensare di aver liquidato la faccenda con l’approvazione di una legge, per poi tornare ai soliti bilancini e alle solite spartizioni. L’autorevolezza della politica e la riconquista di un equilibrio nei confronti della magistratura si giocherà anche sul crinale della composizione del prossimo Csm che tanto rilievo assume nella vita delle toghe. Referendum, il Pd si schiera con il No. Ma Letta apre ai dissidenti: “Il partito non è una caserma” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 18 maggio 2022 “Non è coi referendum che si fa una riforma complessiva, perché si rischia di provocare più problemi che offrire soluzioni”. Ciononostante “il Pd non è una caserma, quindi daremo un orientamento di voto ma lasceremo la libertà ai singoli vista la materia così delicata”. Sono parole del segretario dem Enrico Letta, che ieri in direzione ha difeso la scelta di schierare il partito per il No ai cinque quesiti sulla giustizia, aprendo tuttavia a chi la vede in modo diverso nel partito e ottenendo l’approvazione all’unanimità della sua relazione. Nella quale ha risposto alla lettera aperta del deputato Stefano Ceccanti e dell’ex ministro Enrico Morando pubblicata sul Foglio, con la quale chiedevano al Nazareno di ripensare la propria linea politica. “Per noi l’importante era che il parere della segreteria sui tre quesiti che si sovrappongono al lavoro parlamentare non fosse liquidatorio, e così è stato - spiega Ceccanti al Dubbio. Il segretario non si è espresso rigidamente per il No e quindi la posizione di chi è a favore del Sì è stata accettata”. Certo, ora bisogna vedere come far convivere nelle prossime settimane due visioni così diverse soprattutto su temi come la legge Severino e la separazione delle carriere dei magistrati. “Abbiamo letto l’intervista di Verini (deputato e tesoriere Pd, ndr) sul vostro giornale e abbiamo reagito chiedendo una posizione più equilibrata - aggiunge il deputato dem. Il tesoriere ha le sue convinzioni, del tutto rispettabili, ma la linea del Pd deve tenere conto di anche posizioni diverse”. Su una simile lunghezza d’onda si muove Enza Bruno Bossio, deputata dem da subito schierata per il Sì a tutti i quesiti. “Ho votato a favore della relazione perché Letta ha detto cose completamente diverse da Verini, che si era schierato per cinque No - commenta la deputata poche ore dopo la direzione. Ha detto che ognuno può sentirsi libero di votare liberamente e quindi mi sento autorizzata a portare avanti la campagna per il Sì senza dovermi giustificare rispetto alla linea del partito”. Per poi attaccare il leader della Lega, Matteo Salvini, reo di aver personalizzato e politicizzato la campagna referendaria. “Si dovrebbe discutere sul merito, non sulla base di convinzioni politiche”, conclude Bruno Bossio. Chi invece si muove su una posizione diversa, in netto contrasto con il segretario, è Andrea Marcucci, forte sostenitore dei quesiti. “I referendum sollevano temi che per loro natura interrogano la libertà di coscienza, non credo abbia senso dare una rigida indicazione di partito - ragiona il senatore dem. Come garantista, sottolineo che sulla carcerazione preventiva e sulla legge Severino è necessario intervenire, perché il mantenimento dello status quo è deleterio: il 12 giugno (data del voto, ndr) è un’occasione per ribadire la centralità della giustizia, ma ricordiamoci che in ogni caso il Parlamento dovrà sciogliere questi nodi”. Senza verità non ci può essere riconciliazione di Marta Cartabia La Stampa, 18 maggio 2022 Io dalla famiglia Calabresi, da Gemma e Mario in particolare, ho imparato il mestiere che sto svolgendo ora. Ho imparato qual era l’idea di giustizia che avrei voluto portare avanti. Ho imparato a mettere a fuoco quale fosse il volto della giustizia per cui avrei voluto lavorare da ministra. Quello che è accaduto, è stato di trovarmi protagonista in un momento di svolta - era il 28 aprile 2021 - quando la Francia, dopo una serie di insistenti richieste sull’estradizione degli italiani condannati per i reati di terrorismo e riparati a Parigi, dispose con una certa sorpresa di consentire alla giustizia di fare il suo corso per esaminare quelle richieste di estradizione. Un processo di estradizione che era stato bloccato per decenni in nome della famosa dottrina Mitterand, secondo cui quelle erano state condanne per idee politiche e non per aver commesso reati. Quell’interpretazione screditava le istituzioni italiane, il lavoro della nostra magistratura, ma soprattutto offendeva le vittime e il loro dolore. Perciò quando insediata al governo ebbi la possibilità di ribadire la nostra richiesta al neo ministro della giustizia francese, Eric Dupond Moretti, non ebbi esitazione. La notizia di quella svolta provocò reazioni fortissime e divergenti. Fui chiamata a intervenire nel dibattito pubblico e a spiegare questo gesto del governo. E dissi: “Non è sete di vendetta che mi anima e spero non animi nessuno in questo Paese, ma sete di chiarezza e sete di reale possibilità di riconciliazione, perché non ci può essere riconciliazione senza verità”. In quei giorni, mi colpì moltissimo la reazione in particolare di Gemma Calabresi, riassunta in una bella intervista proprio a la Stampa: “Provo due sentimenti. Il primo è un sentimento di giustizia perché finalmente la Francia riconosce le sentenze italiane, ed è importante. Io, il mio percorso, l’ho iniziato dopo il processo in Italia. Dopo aver avuto verità e giustizia. Ma nello stesso tempo, ho pensato a quell’uomo più anziano di me che è molto malato e chiedo che senso ha oggi toglierlo alla sua famiglia e relegarlo in un carcere a finire i suoi giorni. Sinceramente non me ne sento gioire”. Questa posizione, che si commenta da sé, mi conferma la sensazione che ho ogni volta che mi trovo al cospetto di Gemma Calabresi, come al cospetto delle vittime di gravi reati. Dico al cospetto perché c’è un’autorevolezza che non deriva dalla veste istituzionale ma da un vissuto che quasi genera soggezione. Perché il loro dolore, la loro storia esige autenticità. Perché si è dato forma lì a quella che è una delle componenti a cui tengo di più delle tante riforme a cui stiamo lavorando, quella della giustizia riparativa. È una strada che passa dall’incontro. Passa dal mettere in luce fino in fondo tutti gli aspetti della verità: il compito della giustizia e dei tribunali credo che risponda essenzialmente a questo bisogno di verità che hanno innanzitutto le vittime e tutta la collettività. Ma la giustizia riparativa guarda oltre. Guarda a una possibilità di ricucire, guarda a una possibilità anche per chi ha subito fatti così gravi - oltre che per chi li ha commessi - di uscire dalla prigionia di quel momento, pur vissuto in tutta la sua gravità, e spingersi con uno sguardo in avanti. Oggi ricorrono i 50 anni dall’omicidio di Luigi Calabresi. Una giornata in cui si consegna alla storia quello che è accaduto. Chiudo citando il presidente Mattarella che ha parlato di “ricomposizione della comunità, ricostruzione del nostro tessuto civile”. Per una giustizia più giusta: una maratona per Tortora di Piero Sansonetti Il Riformista, 18 maggio 2022 Oggi in occasione del 34esimo anniversario della morte di Enzo Tortora, a partire dalle 10 andrà in onda da piazza Montecitorio una maratona oratoria per onorarne la memoria e rilanciare la battaglia per una giustizia giusta con il voto sui 5 referendum del 12 giugno. L’evento verrà trasmesso integralmente su Radio Leopolda. Otto ore di diretta, fino alle 18, durante le quali hanno assicurato il loro intervento tra gli altri il magistrato Carlo Nordio, il direttore de Il Giornale Augusto Minzolini, il direttore del Sole24ore Fabio Tamburini, il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti, Mariolina Sattanino, Jas Gawronski, Luigi Manconi, Giancarlo Loquenzi, il presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto, Beniamino Migliucci (già Presidente Unione Camere Penali Italiane), Maria Masi (Presidente del Consiglio nazionale forense), Raffaele Della Valle (già avvocato del collegio di Enzo Tortora), il presidente di Italia Viva Ettore Rosato, il sottosegretario al ministero degli Esteri, Benedetto Della Vedova (Più Europa), il sottosegretario al ministero dell’Interno, Ivan Scalfarotto (Italia Viva), gli onorevoli Riccardo Magi (Più Europa), Lucia Annibali (Italia Viva), Catello Vitiello (Italia Viva), Maurizio Lupi (Noi con l’Italia), Osvaldo Napoli (Azione), Giusy Bartolozzi (Gruppo misto), Pietro Pittalis (Forza Italia), sen. Salvatore Margiotta (PD), sen. Gianni Pittella (PD), l’attore Massimo Wertmuller, il regista Luca Barbareschi, Rita Bernardini (Partito Radicale) e Claudio Martelli. Un’occasione per avvicinarsi ai referendum del 12 giugno affrontando le principali problematiche, ancora irrisolte, della giustizia italiana. Alle 10 daranno il via alla maratona degli interventi da piazza Montecitorio il direttore di Radio Leopolda Roberto Giachetti e la presidente della “Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora”, Francesca Scopelliti. In occasione dell’anniversario della scomparsa del celebre conduttore di Portobello, a partire dalle ore 11 il Partito Radicale manifesterà davanti alla sede Rai di Viale Mazzini per chiedere che vi siano dibattiti sui referendum giustizia in orari di massimo ascolto e il ritiro degli spot dissuasivi di comunicazione attualmente in onda affidandone la realizzazione a chi ha prodotto gli spot per Eurovision con identica programmazione. Il Partito Radicale invita tutti i comitati impegnati nella campagna referendaria ad essere presenti. Saranno presenti la Tesoriera Irene Testa, dirigenti e militanti del Partito Radicale ed esponenti dei Comitati per il sì. Inoltre è prevista la partecipazione di Tiziana Nisini, Sottosegretario Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali. Bolzano. Dramma in carcere: 23enne muore inalando gas da un fornelletto di Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 18 maggio 2022 Aveva cercato già in passato di farla finita, stavolta nessuno è riuscito a salvarlo. Lunedì sera Oskar Kozlowski si è tolto la vita in carcere soffocandosi con il gas. Inutili i tentativi di rianimarlo fatti dai compagni di cella: per il 23enne polacco, in carcere per l’omicidio di Maxim Zanella avvenuto lo scorso anno a Brunico, non c’era più nulla da fare. Una morte che dimostra quanto drammatica sia la situazione all’interno dell’ormai fatiscente carcere di Bolzano. “Siamo talmente pochi che non abbiamo le forze per sorvegliare i detenuti” ammette una guardia carceraria ricordando che, da anni, i sindacati della polizia penitenziaria denunciano la situazione insostenibile all’interno della prigione di via Dante. Erano circa le 18.30 quando Oskar Kozlowski è andato in bagno. I compagni di cella, che in quel momento stavano cenando, non hanno notato nulla di strano. Ma quando hanno notato che Kozlowski non tornava, sono andati a vedere se fosse successo qualcosa. Lo hanno trovato riverso sul fornelletto a gas, hanno provato a rianimarlo ma era troppo tardi. Il giovane si è intossicato respirando il gas della bomboletta da campeggio che i detenuti usano per cucinare nelle loro celle. Non è la prima volta che nelle carceri italiane un detenuto si toglie la vita in questo modo ma, vista l’inadeguatezza delle celle e degli spazi comuni, le bombolette da campeggio sono sempre state tollerate per dare modo ai carcerati di cucinarsi qualcosa. Uno dei pochi svaghi che a Bolzano sono consentiti vista la mancanza di aree verdi, palestre e attività culturali. Il carcere di Bolzano non ha nemmeno un suo direttore visto che Anna Rita Nuzzaci dirige anche il carcere di Trento ed è costretta a fare la spola tra i due istituti. All’organico manca almeno una ventina di guardie: su un organico previsto di 75 agenti ne sono presenti solo 55. “Siamo talmente pochi che non sappiamo nemmeno come fare le ferie, una situazione insostenibile. Tutti sono costretti a fare gli straordinari altrimenti non si riesce a garantire la sorveglianza” denunciano gli agenti che da anni chiedono, invano, rinforzi. Con la morte di Kozlowski si estingue anche il processo per l’omicidio di Maxim Zanella e la sua famiglia non potrà ottenere il risarcimento. Ma soprattutto non potrà sapere come mai il 23enne polacco avesse deciso di colpire l’amico. Quella sera i due si erano ritrovati a casa di Zanella per fare un rito in modo da evocare un demone. Il satanismo era una delle passioni di Kozlowski che si era anche fatto tatuare il numero 666 sul braccio. Per ragioni ancora da chiarire - e che ora difficilmente potranno esserlo - Kozlowski aveva colpito Zanella con un coltello. Un colpo secco alla giugulare: Zanella aveva perso i sensi ed era morto dissanguato. Nel frattempo Kozlowski era fuggito e aveva vagato per ore in città liberandosi del cellulare e del coltello usato per uccidere. Poi si era recato al pronto soccorso in stato confusionale: i medici avevano notato i tagli sulle braccia e avevano allertato i carabinieri che, non senza fatica, erano riusciti a ricostruire l’accaduto. Ma il movente resterà un mistero: Kozlowski non ha mai chiarito per perché, di punto in bianco, aveva deciso di colpire l’amico. Kozlowski era seguito dagli psicologi del carcere. Inizialmente sembrava pentito per l’accaduto e aveva anche chiesto una Bibbia. Una conversione repentina che aveva fatto pensare che il giovane avesse abbandonato il satanismo. Ma i demoni dentro la sua mente lunedì si sono risvegliati, inducendolo a farla finita una volta per tutte. Bologna. Carcere, gli avvocati si appellano a Lepore: “Basta morti in cella” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 18 maggio 2022 Tre decessi in pochi mesi nelle sezioni al secondo piano. “Alla Dozza succede di tutto. Non è più possibile assistere inermi mentre si contano i morti. Tra farmaci di pessima qualità, sostanze stupefacenti e alcolici autoprodotti, la situazione è fuori controllo. Ora basta, le istituzioni devono assumersi le loro responsabilità”. Il più arrabbiato di tutti è il presidente della Camera penale, Roberto D’Errico. Lo dice apertamente e lo scrive sui documenti ufficiali dell’associazione che, proprio ieri, ha posto la questione chiamando in causa la magistratura, l’amministrazione penitenziaria e persino il sindaco Matteo Lepore, in qualità di autorità sanitaria. Nelle scorse ore un detenuto quarantenne è stato trovato morto nella sua cella: è il terzo caso in pochi mesi, dopo quello del 4 febbraio scorso e di novembre 2021. Episodi denunciati anche dal sindacato della polizia penitenziaria Sinappe, che fanno dire all’Ordine degli avvocati che la situazione in alcune sezioni del secondo piano della Dozza è indecente. “Nelle visite periodiche che il nostro Osservatorio ha svolto all’interno del carcere - scrivono i penalisti - abbiamo potuto constatare con i nostri occhi le drammatiche condizioni delle sezioni collocate nel secondo piano giudiziario che, senza esagerazione alcuna, lo stesso sindacato Sinappe nel suo comunicato definisce “discarica sociale”, dove tossicodipendenti e persone affette da patologie mentali sono di fatto abbandonate al loro destino”. Da qui per chiamare in causa “la Procura della Repubblica e il Provveditorato”, chiedendo “quali accertamenti siano stati svolti in relazione alle morti, quali siano state le conclusioni di quelle indagini, quali siano state le cause di quelle morti, e se siano state individuate responsabilità”. Gli avvocati vanno anche oltre “perché appare incredibile che vi siano intere sezioni di un carcere che sfuggono a qualsiasi tipo di controllo”. Infine chiamano in causa Lepore che a maggio scorso ha “parlato del carcere come di un “quartiere” di Bologna”. D’Errico invita il sindaco “ad andare a visitare quel quartiere, così come fa con tutti gli altri della città, perché possa rendersi conto di quanto scriviamo ormai da troppo tempo, perché si possa rendere conto che nella nostra città c’è un quartiere dove le vite si spengono, nel silenzio dei più”. Bologna. A che punto siamo con la salute in carcere? bandieragialla.it, 18 maggio 2022 Intervista a Nadialina Assueri, coordinatrice assistenziale dell’Ausl di Bologna. Dottoressa Assueri, qual è il suo ruolo in carcere? Oltre a coordinare le professioni sanitarie presenti sia nel carcere minorile “Pratello” che nella Casa Circondariale “Rocco d’Amato” di Bologna (operatori socio sanitari, infermieri, terapisti dell’area psichiatrica, educatori professionali), mi occupo di migranti in prima accoglienza e in situazioni di fragilità e delle persone senza fissa dimora. Cosa ne pensa del trasferimento dell’assistenza sanitaria in carcere dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale e quindi a Regioni e Asl? Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 aprile 2008 la funzione sanitaria passa dal ministero della giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Viene riorganizzata l’assistenza sanitaria con l’obiettivo di garantire la Salute ai cittadini reclusi in un’ottica di equità come a tutti i cittadini. Ci sono state molte difficoltà perché l’organizzazione dell’assistenza doveva tenere conto dei vincoli del sistema carcerario. Facciamo alcuni esempi. È stata riorganizzata la gestione della terapia, prima si preparava la terapia per tre giorni e chi preparava non era chi consegnava la terapia. Adesso il professionista infermiere ha la responsabilità del processo della gestione della terapia dalla preparazione alla consegna. Altro esempio è l’organizzazione dei servizi sanitari interni che devono essere organizzati tenendo presente gli orari e le attività di vita del carcere (apertura delle celle per la socialità, la scuola/università, i colloqui con i familiari e con i magistrati/avvocati…). Alla domanda “Cosa ne penso di questo intervento normativo?”, credo che sia stata una riforma giusta che vuole tendere all’equità, perché la salute non è più gestita dal ministero della giustizia ma dal Ministero della Salute, e quindi la salute è fuori dal percorso di giustizia della persona. Quali sono le principali difficoltà riscontrate sul lavoro? Il lavoro consiste in una continua riorganizzazione per migliorare il servizio sanitario tendendo a raggiungere l’equità rispetto ai cittadini esterni: se un detenuto ha un infarto deve poter contare sugli stessi tempi di risposta dei cittadini esterni. Il decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230 (art. 1) afferma che i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari diritto dei cittadini in libertà, all’erogazione di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, ma è realmente così? Il carcere ha molti ostacoli organizzativi legati alle regole e ai vincoli della sicurezza. Dopo la rivolta, che ha distrutto l’area specialistica interna stiamo per terminare la ristrutturazione e l’obiettivo è implementare le consulenze specialistiche e gli esami strumentali interni anche con l’ausilio della telemedicina, per abbattere le liste di attesa. Si sta acquistando una nuova strumentazione clinica per ripristinare quella distrutta. Ricordo infine che in carcere l’assistenza sanitaria è gratuita con l’esenzione totale dei ticket. Per rendere il lavoro più agevole, il personale sanitario si deve confrontare con gli agenti penitenziari? Deve assolutamente esistere una collaborazione tra personale sanitario e agenti penitenziari. Sulla base dell’esperienza personale posso testimoniare che ciò esiste. È necessaria proprio per poter migliorare e fare funzionare i servizi (ad esempio l’accompagnamento alle visite esterne) e la gestione degli ambulatori interni. Rimane il vincolo della riservatezza dei dati sanitari, che sono gestiti solo dagli operatori sanitari. Come vengono gestiti i farmaci all’interno del carcere? Come vengono affrontate le problematiche in merito ai tossicodipendenti e ai malati psichiatrici? Prima dello scoppio della rivolta l’infermiere preparava la terapia da somministrare davanti alla cella. A seguito della rivolta, dove sono stati rubati psicofarmaci in quantità, mettendo a rischio la salute e a volte la vita dei detenuti che hanno saccheggiato gli ambulatori delle sezioni, è stato necessario non lasciare negli ambulatori dei piani psicofarmaci e farmaci pericolosi. Ora la terapia viene preparata in area sanitaria e portata in sezione solo al momento della consegna/somministrazione, già in bustine. In carcere i farmaci vengono forniti dalla farmacia dell’ospedale presente sul territorio. Alle persone ristrette vengono garantiti farmaci di fascia A, e il materiale da medicare al pari di un reparto ospedaliero. Per quanto riguarda i detenuti che abusano di sostanze o hanno una dipendenza patologica, è presente il Servizio Dipendenze Patologiche e la psichiatria interna, la persona viene presa in carico e vengono garantite tutte le terapie necessarie. Il servizio di psichiatria interna è presente dal lunedì al sabato e ha in carico le persone con disturbi psichiatrici. A quali controlli sanitari viene sottoposto il nuovo giunto? Con l’avvento del Covid, il nuovo giunto all’ingresso viene posto in isolamento dalla restante popolazione detenuta e dopo 5 giorni sottoposto al tampone molecolare, durante questo isolamento viene sottoposto anche allo screening per la TBC e a esami ematici per valutare lo stato di salute. Se la persona detenuta dichiara al momento dell’ingresso di fare uso di droghe, verrà sottoposto ad analisi di laboratorio per accertare la condizione dichiarata. In caso di esito positivo, dopo colloquio con il medico del SerT può avere la certificazione di tossicodipendenza e inizierà un percorso di riabilitazione. Con quale criterio decidete che le condizioni fisiche di una persona malata siano compatibili o meno con la reclusione? La Regione Emilia Romagna ha stabilito che questa decisione spetta a una Commissione medica, composta da un medico legale e un medico interno che valuta le condizioni di salute della persona. Qual è la situazione dell’organico del personale medico? La carenza di personale medico è, per svariate ragioni, marcata all’interno delle carceri. Stiamo cercando di motivare i medici a entrare in questa realtà. Nel carcere bolognese, attualmente, sono presenti 5 medici a tempo pieno e medici specializzandi in servizio solo di notte e nei weekend. Lei ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere del lavoro per l’impegno a garantire l’assistenza sanitaria all’interno del carcere Dozza durante il periodo della rivolta del marzo 2020. Si aspettava un riscontro simile? Ha cambiato qualcosa per lei? No, è stata una sorpresa. Ci tengo a sottolineare che tutto ciò è stato possibile grazie alla collaborazione di tanti operatori rimasti dentro, per cui questa onorificenza non è soltanto mia ma di tutti gli operatori del carcere. Una cosa che mi preme sottolineare è che, grazie a questa onorificenza, si è parlato di cosa succede all’interno di queste mura. Ho avuto occasione di poter parlare del carcere e della salute delle persone in carcere, inoltre sono stata sollecitata a impegnarmi politicamente a livello della città per le persone che assisto che sono ai margini e poco conosciute ma che hanno molti bisogni e necessità di interventi sociali e sanitari in un’ottica di equità. Ascoli. “Detenuti pestati e muro di omertà”. Violenze in carcere, le denunce di Peppe Ercoli Il Resto del Carlino, 18 maggio 2022 La Procura indaga a seguito della morte di Salvatore Cuomo Piscitelli. L’associazione Antigone dà battaglia contro la richiesta di archiviazione: “Barbarie durante le rivolte per il lockdown”. Sono due i fronti d’inchiesta sui quali lavora la Procura di Ascoli a seguito della morte di Salvatore Cuomo Piscitelli e sui presunti pestaggi subiti nel carcere di Ascoli dai detenuti che vi furono trasferiti a marzo 2020, in pieno lockdown, dopo la rivolta nel carcere di Modena. L’inchiesta aperta per omicidio colposo per la morte di Piscitelli ha riguardato un medico e un agente di polizia penitenziaria del carcere di Marino del Tronto, ipotizzando che a monte del decesso del detenuto vi fosse stato un ritardo nei soccorsi; la magistratura ha chiesto l’archiviazione non ravvedendo responsabilità nell’operato del medico e dell’agente. Si è opposta l’associazione Antigone e sarà dunque ora il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Ascoli a stabilire se l’inchiesta va archiviata o riaperta. E’ nel prendere visione del fascicolo che il legale di Antigone ha verificato che nelle carte vi erano diverse testimonianze di altri detenuti del carcere di Ascoli che hanno riferito di pestaggio avvenuti in quei giorni da parte degli agenti di polizia penitenziaria della casa circondariale di Ascoli, all’arrivo di detenuti da Modena. Racconti “crudi” che hanno spinto Antigone a presentare un ulteriore esposto alla Procura di Ascoli che ha aperto da tempo un’inchiesta su quanto detto dai detenuti; al momento non vi sono iscritti al registro degli indagati. Nell’estate 2021 la vicenda di quanto avvenne nelle carceri di Modena e di Ascoli a marzo 2020 è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica per via di un reclamo inviato al ministro della Giustizia Marta Cartabia da un detenuto che sarebbe uno dei cinque testimoni della morte di Piscitelli. Come sottolineato nell’esposto presentato a suo tempo alla Procura di Ancona proprio dai cinque detenuti, il 40enne era giunto da Modena “in fin di vita”. A diffondere il racconto del detenuto è stato il Comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna: “In queste sei pagine di testimonianza - commenta il comitato - viene nuovamente descritta la barbarie a cui sono stati sottoposti i detenuti durante le rivolte. Si torna a porre l’accento nuovamente sui ritardi nei soccorsi o addirittura sulla loro omissione”. Il detenuto in questione scrisse al ministro chiedendo di “rompere il muro di omertà” aggiungendo che “Piscitelli stava male ed emetteva versi di dolore. Sollecitammo nuovamente gli agenti senza ottenere risposta. Verso le 9 dopo l’ennesimo sollecito sentimmo un agente dire “fatelo morire”. Salerno. Detenuto morto in carcere, l’autopsia: sul corpo segni di percosse di Ciro Cuozzo Il Riformista, 18 maggio 2022 Segni di violenza, riconducibili a percosse subite da giorni, sul corpo di Vittorio Fruttaldo, il detenuto di 35 anni stroncato da un malore dopo uno scontro fisico con gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Fuorni a Salerno. È quanto emerge da un primo esame esterno sul cadaere dell’uomo deceduto lo scorso 10 maggio durante il trasporto in ambulanza all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. L’autopsia, iniziata ieri, verrà completata oggi e il quadro sarà più chiaro. Nel frattempo emergono dettagli raccapriccianti che smentiscono la versione fornita dal sindacato di polizia penitenziaria secondo cui il detenuto, affetto da problemi di natura psichiatrica (circostanza smentita dai referti medici), avrebbe aggredito due agenti con un coltello rudimentale e, nel corso della colluttazione, sarebbe stato stroncato da un malore. In realtà, stando a quanto appurato dal professore di medicina legale dell’Università di Salerno incaricato dell’autopsia, sul corpo di Vittorio sono presenti lividi e segni di violenza riconducibili a percosse che andavano avanti da giorni, da tempo, non relative alla sola giornata del 10 maggio. Vittorio, secondo quanto appreso dal Riformista, era un detenuto che aveva problemi di tossicodipendenza. Avrebbe finito di scontare la sua pena a ottobre 2022 e necessitava di una terapia per disintossicarsi. Che ci faceva dunque in carcere? E perché gli agenti penitenziari lo ritengono un soggetto affetto da problemi di natura psichiatrica pure in assenza di un referto medico che cristallizzi il tutto? Il 35enne, originario di Aversa, sarebbe stato ‘rieducato’ dai poliziotti dopo essersi reso protagonista di un’aggressione avvenuta a inizio maggio. Fruttaldo avrebbe rifilato uno schiaffo a un agente in seguito a un alterco e da quel giorno, sempre secondo quanto appreso dal Riformista, sarebbe stato sistematicamente picchiato. Una circostanza che saranno le indagini della procura di Salerno a dover confermare. Tuttavia restano i segni di violenza risalenti anche ai giorni precedenti il decesso e la richiesta, nella prima perizia mandata ai pm (ieri però in scipero), di acquisire anche le telecamere di videosorveglianza relative ai giorni precedenti, in modo tale da far luce sui presunti pestaggi che il detenuto subiva. Al momento i due agenti “aggrediti” (secondo il sindacato) sono indagati per omicidio preterintenzionale (quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente). Accusa che potrebbe cambiare dopo l’esito dell’autopsia. Fondamentali saranno anche le testimonianze degli altri detenuti che dovrebbero essere ascoltati dagli investigatori per far luce su quanto accaduto nel carcere di Salerno ed evitare che si ripetano episodi analoghi alla mattanza di Santa Maria Capua Vetere quando, prima delle misure cautelari e delle devastanti immagini che sconvolsero l’opinione pubblica, i detenuti, impauriti di subire ulteriori ripercussioni, derubricavano le percosse subite con l’oramai celebre “sono caduto dalle scale”. Modena. 8 marzo 2020: l’inferno nel carcere tra morti, botte e saccheggi di Nello Trocchia Il Domani, 18 maggio 2022 A Modena la procura indaga su quatto agenti della Polizia penitenziaria per lesioni e tortura nei confronti di alcuni detenuti. Il fascicolo della città emiliana si incrocia con quello aperto ad Ascoli Piceno, dove la procura locale ha deciso di procedere contro ignoti dopo alcune testimonianze di violenze in carcere. Un dato emerso dalla lettura degli atti relativi alla morte nell’istituto marchigiano di un detenuto, Salvatore Piscitelli: il documento raccoglie le testimonianze di cinque reclusi, che hanno deciso di raccontare ai pubblici ministeri le violenze subite l’8 marzo 2020, i primi giorni dell’emergenza Covid. Due anni fa, sono stati trasferiti dalla casa circondariale di Modena a quella di Ascoli Piceno, dove sarebbero proseguite le violenze iniziate nel primo istituto di pena. Ma cosa era successo a Modena? E cosa c’è nel racconto dei detenuti depositati nella richiesta di archiviazione per la morte di Piscitelli? La rivolta e il pestaggio - Nel carcere Sant’Anna di Modena, l’8 marzo 2020, decine di reclusi hanno messo in atto una rivolta, poi contenuta dagli agenti della polizia penitenziaria. La procura ha aperto tre fascicoli di indagine. Uno, ancora in corso, riguarda le devastazioni compiute dai detenuti. Un altro, già archiviato, ha indagato sulla morte di nove reclusi. L’ultimo, invece, si concentra sulle violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta. I detenuti, chiamati a parlare come persone informate sui fatti, avrebbero riconosciuto diversi agenti, consultando un album fotografico che gli inquirenti gli hanno sottoposto durante un colloquio. Il procedimento è nella fase delle indagini preliminari, l’ultima proroga è stata richiesta e ottenuta dalla procura a settembre del 2021. Gli inquirenti stanno cercando di fare luce su quanto è accaduto, ma le indagini procedono a rilento. Sono iniziate a seguito di alcuni esposti presentati, nel 2020, da sette detenuti che hanno raccontato quello che era successo prima nel carcere emiliano, e poi in quello marchigiano. Il fascicolo è nelle mani della magistrata Lucia De Santis e del procuratore Luca Masini. La denuncia del militare - Tra le testimonianze rese ai pubblici ministeri emiliani una è stata rilasciata da un ex militare, si chiama Claudio Cipriani, in carcere per rapina. “Sono stato in Palestina tre volte, in Kosovo, cioè, ho fatto un sacco di missioni all’estero”, dice. Cipriani, insieme ad altri detenuti, a novembre 2020 ha presentato un esposto all’autorità giudiziaria. Un mese dopo, il 18 dicembre, è stato ascoltato. Ha raccontato il caos, l’inizio delle rivolte, alle quali sostiene di non aver preso parte: gas, fumo, lacrimogeni. La situazione è stata “apocalittica”. Nel momento in cui sono iniziate le rivolte, Cipriani si trovava nella zona dei passeggi, all’esterno. Si è reso presto conto che stava succedendo qualcosa: ha visto del fumo e delle fiamme provenire dalla quarta sezione del carcere, dove si trovava l’ufficio degli agenti. Da un ispettore ha ricevuto le chiavi per aprire una sezione rimasta chiusa. Insieme ad altri detenuti si è spostato verso un campo, per scappare dal carcere in fiamme, ottenendo l’ok da un ispettore della penitenziaria. I reclusi sono stati poi ammanettati e portati in uno stanzone. Lì riconoscono i volti di alcuni agenti provenienti dagli istituti di Bologna e Reggio Emilia, carceri che hanno frequentato in precedenza. “Mano a mano che entravano tutti quanti picchiavano a tutti quanti, però tutti quanti (...) perché noi siamo entrati, ci hanno detto: “Toglietevi le scarpe! Toglietevi le scarpe!”. Entravano anche i ragazzi che si vedeva che avevano preso un sacco di terapia o di farmaci o di qualcosa, perché si vedeva che non erano presenti a sé stessi, erano proprio al di là (...) ed erano stranieri. Quindi, gli davano i calci nelle gambe, li buttavano a terra, tanto erano ammanettati, erano in due, gli toglievano le scarpe, le scarpe le hanno buttate tutte in un unico punto, le hanno ammassate tutte in un unico punto e là manganellate a tutta forza”, ha detto Cipriani. “Cosa sentiva?” Chiede il pubblico ministero. “Urla, le strilla: “Ahia, ahia!”, sentivamo il colpo del manganello, ma le raffiche di manganello, si sentiva e si percepiva che non era un manganello, erano tipo dieci manganelli e poi li vedevamo entrare successivamente, perché sentivamo le urla e poi due secondi entravano a coppia, ammanettati. Chi con il sangue che gli scorreva dalla testa, chi tutto spaccato e le posso assicurare che il 90 per cento di quelli che sono entrati in quelle condizioni erano tutti poi gli stranieri all’interno di questo istituto”, ha detto agli inquirenti. Alcuni dei ragazzi malmenati, di cui non ricorda i loro nomi, provenivano dall’Albania. “Togliti le scarpe” Diversi agenti presenti nel corridoio antistante lo stanzone, e la sala stessa, erano coperti dagli scaldacollo. Cipriani ha raccontato di aver sentito un ispettore urlare: “Ora facciamo un altro G8”. Lo aveva già visto nel carcere di Reggio Emilia. Secondo il detenuto, sarebbero stati i poliziotti esterni, quelli provenienti da Bologna e Reggio a picchiare i detenuti, e quelli interni al carcere di Modena a fare da moderatori. ““Togliti le scarpe, mettiti a terra”, manganellate in faccia, nei fianchi, sulle gambe, dappertutto”, ha detto. Quasi tutti gli italiani sono riusciti a evitare i pestaggi, mentre i detenuti stranieri sono stati massacrati di botte. Successivamente, sono stati fatti salire su un pullman per essere trasferiti ad Ascoli Piceno; anche in quel caso Cipriani racconta di aver assistito ad altri pestaggi. Il detenuto è riuscito a riottenere le scarpe grazie ai buoni uffici di un ispettore di Bologna che già conosceva, gli altri reclusi, invece, sono rimasti scalzi. Una volta arrivati in città sono scesi dal pullman, sono stati smistati su alcuni furgoni, e poi sono stati portati nel nuovo carcere. “E lì sono entrati, io l’ho riconosciuto questo grosso di Bologna, perché era ..., era lo stesso che era nello stanzone, calci, pugni, schiaffi e cazzotti, ci hanno fatto nuovi nuovi, sul furgone”, ha detto Cipriani. Una volta raggiunto il carcere sono stati perquisiti, nudi, ma alla visita medica nessuno ha riferito delle botte ricevute nelle ore precedenti per paura di ritorsioni. Nella sala erano presenti anche gli appuntati. Cipriani ha parlato anche di Piscitelli, uno dei detenuti morti, trasferito da Modena ad Ascoli. Racconta che anche lui è stato “picchiato, picchiato e ripicchiato”. Piscitelli è morto per l’assunzione e l’abuso di metadone, ma dall’autopsia sono emerse diverse lesioni. Le testimonianze dei detenuti sono concordanti e riferiscono di ripetuti pestaggi. “A Modena l’hanno picchiato nello stanzone e ad Ascoli quando lo hanno fatto scendere dal pullman. Lui non ce la faceva a camminare, allora c’è stato uno di quello che l’ha preso per i capelli, l’hanno fatto scendere per i capelli”, dice Cipriani. La morte di Piscitelli ha spinto i detenuti a presentare l’esposto alla procura. Secondo i reclusi, il giorno dopo l’ingresso ripartono i pestaggi. Cipriani viene risparmiato in cella, ma ha ascoltato e visto quello che è successo. “Io li vedevo che entravano con casco, scudi e manganelli e sentivo le urla dentro e la gente che urlava e sentivo le botte, le manganellate, i calci, gli schiaffi, i pugni e i cazzotti, però vederlo non..., però sentivamo tutto e vedevamo quasi tutto, cioè vedevamo entrare in 5, 6, 7, 8 in cella”, dice Cipriani. Santa Maria Capua Vetere. Torture in carcere, la responsabile del reparto si difende in tribunale di Attilio Nettuno casertanews.it, 18 maggio 2022 La sua presenza in carcere durante il periodo dell’orribile mattanza del 6 aprile 2020 sarebbe stata caratterizzata da una certa discontinuità. Questo il senso delle parole di Roberta Maietta, dirigente del Reparto Danubio della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, che ha reso spontanee dichiarazioni nel corso dell’udienza preliminare celebrata all’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere dinanzi al gup Pasquale D’Angelo. Maietta oltre a rendere dichiarazioni ha anche depositato una memoria per dimostrare di non aver avuto un ruolo nelle torture ai danni dei detenuti. Secondo la Procura, dopo i pestaggi al reparto Nilo del 6 aprile 2020, 15 detenuti - ritenuti i promotori di una protesta sfociata nella repressione da parte degli agenti penitenziari - sarebbero stati trasferiti al Danubio in isolamento illegittimamente. Al Danubio - questa la ricostruzione della Procura - ai detenuti sarebbero state negate sia le visite mediche sia i colloqui (mediante videochiamata durante il lockdown) con i familiari. Ma Maietta in aula ha negato il suo coinvolgimento nella vicenda. Nel corso dell’udienza hanno concluso le discussioni le parti civili, tra cui il difensore del garante nazionale per i detenuti che ha ribadito - oltre a reiterare la richiesta di rinvio a giudizio per 105 agenti come formulata dalla Procura - la competenza in capo alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere essendoci, tra le contestazioni, anche quella dell’omicidio di Hakimi Lamine, morto quasi un mese dopo il pestaggio. Al via anche le discussioni dei difensori degli imputati. Sono state trattate le posizioni difese dagli avvocati Michele Spina (per Fabio Ascione) e Francesco Moronese (per Massimo Oliva) oltre che l’avvocato Roberto Rosario. Le arringhe dei difensori proseguiranno la prossima settimana. Tra i difensori degli imputati sono impegnati - tra gli altri - gli avvocati Giuseppe Stellato, Mariano Omarto, Vittorio Giaquinto, Carlo De Stavola, Raffaele Costanzo, Angelo Raucci, Roberto Barbato, Dezio Ferraro, Elisabetta Carfora, Domenico Di Stasio, Valerio Stravino, Gerardo Marrocco, Massimo Trigari, Luca Di Caprio, Mario Corsiero, Rossana Ferraro, Ernesto De Angelis, Claudio Botti, Vitale Stefanelli, Michele Spina, Fabrizio Giordano, Raffaele Russo, Valerio Alfonso Stravino, Antonio Leone, Domenico Pigrini, Ciro Balbo, Dario Mancino, Natalina Mastellone, Gabriele Piatto, Massimiliano Di Fuccia, Carlo De Benedictis, Rosario Avenia, Domenico Scarpone, Eduardo Razzino e Nicola Russo. Complessivamente sono oltre 90 le parti civili ammesse tra detenuti, Ministero della Giustizia, Asl, i garanti nazionale e regionale per i diritti dei detenuti oltre ad alcune associazioni. Tra gli avvocati che difendono i detenuti vittime delle aggressioni ci sono: Carmine D’Onofrio (tra i primi a depositare una denuncia per uno dei detenuti facendo avviare l’indagine), Luca Viggiano, Elvira Rispoli, Goffredo Grasso, Fabio Della Corte, Giuseppe De Lucia, Gennaro Caracciolo, Ferdinando Letizia, Marco Argirò, Pasquale Delisati, Andrea Balletta, Giovanni Plomitallo, Antimo Busico e Cristian Aniello. A rappresentare l’Asl di Caserta, invece, l’avvocato Marco Alois mentre l’avvocatura dello Stato si è costituita per il Ministero della Giustizia. Asl e Ministero della Giustizia sono stati citati anche in qualità di responsabili civili. Roma. Rebibbia femminile: nuova convenzione per lavoro detenute gnewsonline.it, 18 maggio 2022 Al fine di dare concreta attuazione al dettato costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione nella parte in cui si dice che: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e nell’ottica di strutturare un’esecuzione penale prioritariamente finalizzata a favorire il reinserimento sociale della popolazione detenuta, anche tramite la formazione professionale e l’avvio al lavoro, la direzione della Casa Circondariale Femminile di Roma Rebibbia attraverso una indagine di mercato, intende individuare un soggetto giuridico imprenditoriale cui affidare, in comodato d’uso gratuito per un periodo di anni 3 rinnovabili, un locale all’interno dell’istituto da dedicare ad attività di produzione industriale o artigianale, volte alla formazione e all’impiego di detenute. Le ditte interessate potranno richiedere la possibilità di effettuare un sopralluogo: la data della visita verrà concordata e si effettuerà comunque entro il 25 maggio 2022. A carico dell’impresa assegnataria verranno imputati i costi dell’energia elettrica, dell’acqua e del gas. L’impegno dell’impresa sarà anche quello di formare, qualificare e successivamente assumere un numero di unità lavorative non inferiore a 5 tra le detenute presenti e l’onere di applicazione della normativa vigente in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro (D.Lgs 81/2008). I relativi progetti alla base della Convenzione con l’Amministrazione penitenziaria, corredati dai documenti richiesti, debbono pervenire, a mezzo e-mail all’indirizzo ccsf.roma@giustiziacert.it, oppure tramite raccomandata A/R indirizzata alla direzione, con la dicitura “Proposta di convenzione per attività industriale o artigianale” all’Ufficio protocollo di questa Casa Circondariale Femminile, entro e non oltre le ore 11.00 del giorno 31 maggio 2022. Alba (Cn). Ristrutturazione del carcere, sopralluogo preliminare alla consegna del cantiere lanuovaprovincia.it, 18 maggio 2022 Dopo l’ordine del giorno sulla Casa di reclusione “G. Montalto”, approvato all’unanimità dal Consiglio comunale con l’obiettivo di mettere in campo nuove azioni per l’apertura del cantiere di ristrutturazione atteso da sei anni, il presidente del Consiglio comunale albese ha invitato i parlamentari locali e i Garanti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Bruno Mellano (regionale) e Alessandro Prandi (comunale) per fare il punto sulla situazione. L’incontro (foto) si è tenuto lunedì 16 maggio nella sala consiliare “T. Bubbio”. Il Provveditore regionale Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Rita Monica Russo non ha potuto partecipare per impegni istituzionali, ma ha comunicato che la Direzione del personale e delle risorse del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sarà presente il 17 e il 18 maggio nell’istituto di Alba con il Direttore dei lavori e il Dirigente competente per il sopralluogo tecnico preliminare alla consegna del cantiere alla ditta aggiudicatrice che avverrà nei primi giorni del mese di giugno. L’incontro in Municipio - a cui hanno partecipato diversi consiglieri comunali di maggioranza e opposizione, oltre al sindaco di Priocca e Senatore della Repubblica e all’ex sindaco di Alba ora consigliere regionale - si è aperto con questa buona notizia, dopo la chiusura della Casa di reclusione avvenuta nel gennaio 2016 a causa di un’epidemia di legionella e l’aggiudicazione dei lavori nel giugno 2021 per 3,8 milioni di euro. E’ stato il presidente del Consiglio comunale a ripercorrere le tappe del lungo iter: il trasferimento dei 122 detenuti a inizio 2016, il primo stanziamento da parte del Governo avvenuto pochi mesi dopo la chiusura, la riapertura di una piccola porzione in seguito ad alcuni lavori di bonifica nel giugno 2017, i problemi di sovraffollamento, il primo annuncio di riapertura previsto entro la metà del 2019, le tempistiche disattese, i continui solleciti anche da parte del sindaco di Alba, fino alla pubblicazione del bando nel novembre 2020 e l’aggiudicazione della gara di appalto nel giugno 2021. L’assessore alle Politiche sociali ha voluto sottolineare come quella del carcere sia una problematica non solo albese, ma dell’intero territorio che ha sempre potuto contare su una struttura di eccellenza, anche sotto il profilo dei tanti progetti sociali e rieducativi attivati nel corso degli anni, sede di lavoro per tante persone, oggi sottoutilizzata e, per questo, a rischio di un sempre maggiore deterioramento. L’assessore ha anche voluto ringraziare i Garanti comunale e regionale, così come tutto il Consiglio comunale, per aver sempre tenuto alta l’attenzione sul “G. Montalto”. Il senatore roerino ha voluto porre l’accento sul problema dell’adeguamento dei costi: oggi, da una parte, ci si trova di fronte a un carcere in condizioni peggiori rispetto a sei anni fa e, dall’altra, più si protrae l’inizio dei lavori e più si corre il rischio che i prezzi della gara d’appalto possano non essere idonei. Il consigliere regionale che, come ex sindaco di Alba, aveva vissuto in prima persona la chiusura del carcere, ha sottolineato come, nonostante il problema e la relativa soluzione siano stati immediatamente individuati subito dopo la chiusura, l’iter si sia prolungato in modo inaccettabile. Diversi anche gli interventi dei consiglieri comunali presenti in sala. Il Garante regionale Bruno Mellano: “È stato un lungo calvario, inspiegabile per un intervento semplice e per cui sono subito stati stanziati i fondi. Cerchiamo di essere ottimisti viste le ultime novità, ma non abbassiamo la guardia. Il Provveditore si è dato disponibile ad un incontro con il sindaco qui ad Alba e credo che possa essere un’ottima occasione per capire quale futuro l’Amministrazione penitenziaria abbia in mente per la struttura albese. Un carcere funziona bene solo se la detenzione incide sulla recidiva, grazie ai percorsi e ai progetti che vengono attivati e al personale qualificato presente”. “Aspettiamo di vedere se questa volta i tempi annunciati verranno rispettati - prosegue il Garante comunale Alessandro Prandi -. Quando sarà avviato il cantiere si dovranno affrontare ulteriori questioni. Come convivranno i lavori con l’attività oggi presente in carcere che avrà a disposizione ancora meno spazi di adesso? E una volta riaperto completamente cosa succederà? Proseguirà il progetto di Casa Lavoro o tornerà ad essere Casa di Reclusione? Servono risposte chiare per poter organizzare al meglio il lavoro all’interno della struttura nell’interesse dei detenuti e del territorio”. Oggi, martedì 17 maggio, il presidente del Consiglio comunale e l’assessore alle Politiche sociali hanno incontrato in carcere il Direttore dei lavori che sta verificando la fattibilità del progetto e del cantiere e che ha dato rassicurazioni sui tempi e sulla cifra stanziata che, al netto dell’aumento dei prezzi oggi non ancora quantificabile, è idonea a rimettere in sicurezza la struttura albese in base alle normative vigenti. Torino. Ferrante Aporti, in aumento i minori reclusi di Massimiliano Quirico comune.torino.it, 18 maggio 2022 Nella mattinata del 17 maggio 2022, la presidente del Consiglio Comunale e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino hanno visitato l’Istituto Penale Minorile (Ipm) “Ferrante Aporti” di Torino, unico istituto penale per minori in Piemonte, dove hanno incontrato la direttrice e la vice-direttrice dell’ente e la comandante della Polizia Penitenziaria. Attualmente, si registra la presenza di 42 giovani reclusi, tra cui 26 minori: un numero molto elevato rispetto al passato, quando i giovani adulti erano sempre la maggioranza. Questa inversione di tendenza e il costante aumento dei minori è fonte di preoccupazione per la direzione e l’area educativa, come hanno spiegato i vertici dell’Istituto. La maggior parte dei minori sono stranieri dimoranti in città; molti sono minori non accompagnati sprovvisti di documenti di identità, dei quali diventa anche complesso stabilire la corretta età. L’istituto - ha constatato la Garante - si configura come un presidio per garantire la sicurezza sociale e arginare le baby gang, fenomeno che, nonostante le azioni intraprese dalla Città per contrastare bullismo e cyberbullismo, risulta ancora in crescita. Durante la visita, presidente e Garante si sono confrontate anche con i giovani detenuti e il personale della polizia penitenziaria e, passando dalla “piazza” del piano terreno, luogo luminoso su cui si affacciano tutte le aule dedicate alle attività scolastiche e di formazione, hanno visitato anche le sezioni che ospitano le camere di pernottamento destinate a giovani e minori. Come ha spiegato la presidente del Consiglio Comunale, con la visita al Ferrante Aporti, preceduta da quelle del Cpr e della casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, si conclude il percorso di conoscenza diretta dei luoghi di privazione della libertà personale, che saranno oggetto di approfondimento da parte della Commissione consiliare speciale Legalità, che lavorerà al fianco della Garante dei detenuti. La presidenza del Consiglio Comunale - ha garantito - continuerà comunque a svolgere un ruolo di attivatore di iniziative e messa in rete di soggetti e moltiplicatore di rilevanza delle politiche messe in atto dalla Commissione. Un progetto specifico sui giovani verrà invece avviato dalla Garante, in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino, per meglio comprendere come il territorio possa concretamente agire per arginare alcuni fenomeni di sofferenza e rabbia sociale che - ha affermato la Garante - non devono assolutamente essere sottovalutati: il carcere non può e non deve essere una risposta, perché, con la privazione della libertà, nei giovani si acutizzano ansia, depressione e autolesionismo, con gravi effetti sul percorso di crescita. Ulteriori approfondimenti sul tema verranno svolti in occasione della relazione annuale della Garante, in programma alle ore 10.00 di mercoledì 18 maggio 2022 a Palazzo Civico, con diretta streaming sul canale multimediale della Città di Torino. Porto Azzurro (Li). “Io e i sei detenuti universitari: questa è la vera rieducazione” di Stefano Bramanti Il Tirreno, 18 maggio 2022 Studio e risultati accademici ottenuti da una cella: parla una delle volontarie dell’associazione “Dialogo”. Loredana Pugliese, campana da 18 anni all’Elba, è una volontaria dell’associazione “Dialogo” guidata da Licia Baldi. Adottata dall’isola è educatrice professionale e, nonostante l’impegno di marito e figli, nel tempo libero aiuta, una volta a settimana per due-tre ore, sei carcerati universitari che studiano dalla loro a cella. Loredana si confronta con gli educatori della struttura penitenziaria a Porto Azzurro e supporta i reclusi studenti che non possono usare internet, ma i risultati ci sono. Alcuni giorni fa uno di loro ha superato un esame con il voto di 29 trentesimi. I detenuti della casa di reclusione posta nel forte spagnolo di San Giacomo usufruiscono della formazione scolastica grazie al direttore Francesco D’Anselmo e il suo staff. Pugliese racconta il suo impegno volontario importante e delicato. “Seguo il progetto “Universazzurro” dal 2016, che è in vigore dal 2004, sostenuto dalla Fondazione Livorno. In passato i docenti venivano a Porto Azzurro per fare gli esami ai nostri ragazzi. Dapprima il rapporto era con l’università di Firenze, ora si collabora con l’Università di Pisa. Abbiamo sei studenti universitari detenuti. Uno è iscritto all’Università campana Vanvitelli. È arrivato qua che gli mancavano solo tre esami per finire e ha proseguito, grazie all’area educativa del carcere, facendo esami via Skype, on-line. Ormai gli rimane solo da discutere la tesi di laurea in Finanza e marketing. Gli altri cinque fanno la laurea triennale in studi umanistici. Io sono la referente che tiene i contatti con Pisa, con la segreteria per burocrazie e prendo intese con i docenti ottenendo programmi di studio per i nostri universitari. L’associazione “Dialogo” procura materiale didattico e quando lo studente è pronto esegue gli esami on-line”. A Pugliese abbiamo chiesto come e perché in un recluso matura la voglia di seguire un corso studi universitari. “Alcuni vogliono accrescere la loro preparazione dopo aver preso il diploma di Stato - spiega la volontaria - e quindi mandiamo la richiesta all’università tramite la dirigenza del carcere, per ottenere l’autorizzazione a fare gli esami fuori dai normali appelli che praticano i cittadini liberi. La data va concordata con l’ufficio matricola del carcere e si chiede la disponibilità al docente universitario di fissare l’esame. Già prima della pandemia si agiva con Skype e nel periodo della diffusione del virus si è continuato a usare i collegamenti on-line. I docenti universitari sono molto disponibili e forniscono i loro materiali digitali e noi li passiamo agli studenti carcerati salvando i dati su cd, perché loro hanno il computer, ma non possono accedere a Internet per regolamento. Poi naturalmente esistono dispense e libri e quant’altro materiale, come detto fornito dall’associazione “Dialogo”. Pugliese evidenzia il grande impegno di questi uomini privati della libertà, che mettono in tale esperienza passione e grande interesse. “Abbiamo universitari dai 30 anni di età fino ai 50 anni - racconta -. Di recente uno di loro ha sostenuto un esame di storia dello spettacolo, con un collegamento pomeridiano e il risalutato è stato di 29 trentesimi. I successi ottenuti sono reali, non ci sono da parte dei docenti atteggiamenti tendenti ad agevolare il recluso. Nell’esame fanno esprimere ampiamente i nostri candidati, proprio per dare loro la possibilità di parlare e mostrare le loro capacità e i loro saperi. Decidono di studiare anche in base agli stimoli del carcere che dispone di un apparato scolastico collegato al liceo Foresi di Portoferraio, che punta alla funzione rieducativa della pena. Nella reclusione c’è la componente punitiva, che limita la libertà in base al reato, ma la rieducazione è prevista dalla nostra Costituzione repubblicana e il legislatore ha previsto strumenti ad hoc per arrivare alla risocializzazione e al reinserimento dei detenuti”. “C’è da garantire loro la possibilità di ritrovare un lavoro, specializzandosi, di formarsi nel settore religioso, di avere cura del proprio tempo libero, e qui al San Giacomo, si fa del teatro e poi i vari corsi scolastici. - dice Pugliese avviandosi alla conclusione -. Abbiamo prigionieri con pene più o meno lunghe e reati più o meno gravi. A Porto Azzurro ci sono i cosiddetti detenuti comuni, quindi legati a reati di omicidio, spaccio, rapine. Per l’uso di internet negli studi, da più parti si preme per attuare tale esigenza al fine di avere un minimo di accesso alla rete, al recluso, per motivi di studio. Oggi è vietato per motivi di sicurezza, ma nel futuro potranno esserci aperture specifiche”. Lecce. Un’aula studio per i detenuti iscritti all’Università di Emiliano Moccia vita.it, 18 maggio 2022 Nella Casa circondariale di Borgo San Nicola, a Lecce, è stata inaugurata un’aula studio per accogliere e supportare le attività degli studenti detenuti iscritti ad un corso di laurea dell’Università del Salento. Postazioni per pc, tavoli per riunioni seminariali, una smart tv e pannellature personalizzate per abbattere il riverbero acustico. L’aula studio inaugurata nella Casa circondariale di Borgo San Nicola, a Lecce, è pronta ed attrezzata con arredi e supporti tecnologici per accogliere le attività degli studenti detenuti iscritti ad un corso di laurea dell’Università del Salento. Perché quello dell’istruzione e della formazione è un tassello importante nel percorso di reinserimento sociale di chi ha sbagliato. Ed al momento, sono circa venti i detenuti iscritti a corsi di laurea dell’Ateneo salentino nei settori dei beni culturali, comunicazione, sociologia, pedagogia, giurisprudenza, lingue, viticultura ed enologia e scienze motorie. Alcuni dei ristretti hanno già conseguito la laurea triennale, in alcuni casi con il massimo dei voti. Quella avviata nel penitenziario di Lecce, dunque, segna la prima iniziativa di questo genere in Puglia, nell’ambito dell’adesione di UniSalento alla CNUPP - Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari, istituita dalla CRUI - Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. “Ai detenuti viene offerta la possibilità di un percorso che ne favorisca il reinserimento sociale e occupazionale: qualcosa di estremamente significativo, dunque, per la comunità accademica e per la comunità territoriale” ha detto il rettore Fabio Pollice, inaugurando l’aula. “Lo studio universitario all’interno degli istituti penitenziari rappresenta una sfida per le istituzioni e un’opportunità per i detenuti, che possono così impiegare il tempo in modo proficuo, vivere la detenzione in modo attivo e più responsabile” ha spiegato Mariateresa Susca, direttrice del Casa circondariale di Borgo San Nicola. “Hanno la possibilità di riflettere sulla propria condizione e di investire su sé stessi, preparandosi per quello che accadrà alla fine del periodo di detenzione con maggiore consapevolezza e con un titolo spendibile”. La realtà dei Poli Universitari Penitenziari italiani è iniziata più di venti anni fa a Torino presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”. Quel cammino, pur con differenze locali, è stato replicato in numerose altre sedi universitarie, coinvolgendo attualmente circa quaranta Atenei che operano in ottantadue carceri dal Nord al Sud Italia. L’adesione di UniSalento al CNUPP nasce dalla convinzione che “questo sarà un contenuto e un contenitore, non soltanto uno spazio per i nostri iscritti detenuti, ma per tutta la popolazione carceraria. Uno spazio di formazione, di interazione e di scambio tra dentro e fuori” ha aggiunto Marta Vignola, delegata del rettore per il Polo penitenziario universitario. L’obiettivo che si intende raggiungere, in sinergia con l’Amministrazione Penitenziaria, è di trasformare la detenzione da un tempo “sospeso” a un periodo formativo, investendo sul capitale umano oggi detenuto per ridurre i rischi di recidiva e per offrire nuove possibilità per il futuro una volta scontata la pena. Livorno. Progetto Gorgona: una mostra dedicata al carcere telegranducato.it, 18 maggio 2022 “Progetto Gorgona 2021/2022 - Il carcere delle libertà”, ideato e coordinato da Flavia Bertolli, docente del liceo scientifico Majorana di Capannori e membro del consiglio di amministrazione della Fondazione “Carlo Laviosa”. Oltre 200 studenti degli istituti superiori di Lucca, Capannori, Livorno e Cecina, hanno partecipato al lavoro sulla base dell’articolo 27 della Costituzione Italiana e sulla necessità del reinserimento in società dei detenuti che hanno scontato la loro pena. Hanno conosciuto la realtà rieducativa e lavorativa di Gorgona visitandola insieme ai loro insegnanti e sotto la guida di esperti ambientali e di alcuni detenuti. In detenuti del carcere di Gorgona hanno la possibilità di scontare la propria pena ricostruendo la propria identità di cittadini attivi e consapevoli grazie al lavoro agricolo, edile, e all’accudimento degli animali, nonché la sistemazione della sentieristica e della viabilità dell’isola. Il modello Gorgona è infatti la creazione di una vera e propria comunità dove ogni detenuto ha la possibilità di fornire il proprio contributo, con uno specifico ruolo che ne sviluppi il senso di appartenenza, condivisione e responsabilità. I ragazzi del liceo scientifico Majorana di Capannori, dell’Istituto Tecnologico-Agrario Brancoli Busdraghi di Lucca, dell’Istituto Nautico Cappellini di Livorno, dell’Istituto professionale Orlando di Livorno e del Liceo Fermi di Cecina, sono stati chiamati a rielaborare i nuovi orizzonti civici ed etici esplorati a Gorgona, attraverso la realizzazione di pannelli grafici e video. Con i risultati del loro lavoro parteciperanno a un concorso indetto dalla Fondazione che premierà gli elaborati che meglio avranno illustrato i valori della libertà. Libertà non solo intesa in senso geografico, ma interiore. I lavori degli studenti saranno esposti dal 21 maggio al 2 luglio 2022 nelle sale dei Bottini dell’Olio, negli spazi al primo piano prospicenti la biblioteca, in una mostra promossa dalla Fondazione Laviosa nell’ambito delle iniziative che celebrano il Centenario dell’azienda. Palermo: “Graffiti art in prison”, artiste e detenuti a lavoro insieme in carcere tg24.sky.it, 18 maggio 2022 Sono due gli workshop artistici avviati in questi giorni dalle artiste di GAP nelle carceri di Palermo; il primo, con Stefania Galegati, già da una settimana impegna 5 dottorandi dell’Università di Palermo e 12 detenute per il progetto relazionale intitolato “Pagliarelli University. La scuola dei saperi”; il secondo, con Matilde Cassani, da lunedì coinvolge 12 dottorandi internazionali e 13 detenuti impegnati in una trasformazione visiva dello spazio carcerario. Entra nel vivo il progetto GAP “Graffiti Art in Prison” del Sistema Museale dell’Università di Palermo, in partenariato con il Kunsthistorische Institut in Florenz Max-Planck-Institut, il Dems dell’Università degli Studi di Palermo, l’Università di Saragozza e l’Accademia di Arte e Design Abadir di Catania. Il progetto è finanziato nell’ambito del programma europeo Erasmus+ col patrocinio del Ministero della Giustizia (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e del Ministero della Cultura. Sono due gli workshop artistici avviati in questi giorni dalle artiste di GAP nelle carceri di Palermo; il primo, con Stefania Galegati, già da una settimana impegna 5 dottorandi dell’Università di Palermo e 12 detenute per il progetto relazionale intitolato “Pagliarelli University. La scuola dei saperi”; il secondo, con Matilde Cassani, da lunedì coinvolge 12 dottorandi internazionali e 13 detenuti impegnati in una trasformazione visiva dello spazio carcerario dal titolo “Operazione Grigi Cortili” all’interno del carcere dell’Ucciardone. Domani e venerdì sono inoltre previste due passeggiate nel centro storico, il primo sul tema della street art e dei graffiti a cura della professoressa Cinzia Garofalo di Unipa, il secondo tra fotografia ed architettura, condotto dall’artista Giovanna Silva, che realizzerà anche le fotografie delle detenute. Le parole delle artiste - Matilde Cassani spiega il senso del suo lavoro all’interno di una delle aree di passeggio del carcere: “Per un detenuto il luogo dove avviene la pausa è fondamentale, seppure i cortili hanno un aspetto scarno sono spazi dove avviene la socialità. Qui sono tredici i detenuti che utilizzano colori e altri materiali per ridisegnare lo spazio e le sedute. Inizieremo a discutere con i dottorandi su come rivivere e trasformare lo spazio, poi inizieremo a lavorare e speriamo che la comunicazione, rimanga come un segno vivo tra i soggetti che coinvolgiamo tra queste mura”. Spiega Stefania Galegati: “Mi muovo su diversi piani per otto incontri, per realizzare un laboratorio pratico che ho definito una scuola di saperi, un lavoro di gruppo dove le destinatarie sono le detenute stesse ed i dottorandi coinvolti, a turno ciascuno insegna qualcosa agli altri, e produrremo così anche un video. Condivisione e pedagogia radicale sono le direttrici del mio lavoro e il mio personale obiettivo è quello di fornire gli strumenti a chi è detenuto per istruirsi a vicenda anche in futuro. Realizzeremo inoltre una scritta a terra nel cortile del Pagliarelli, una striscia bianca nel cortile dell’ora d’aria, come ho già fatto altrove, con scritte in bianco che raccontano storie emblematiche, frammenti di vita che emergeranno in questi laboratori, pensieri che escono fuori”. Quelle voci liberate di Volterra: lettere in fuga dal manicomio che ora si possono ricevere di Lorenza Cerbini Corriere della Sera, 18 maggio 2022 Il progetto “Corrispondenze immaginarie”. Mariangela Capossela ridà vita a un secolo di missive scritte dai pazienti e mai spedite. Una casella postale speciale e una proposta ai lettori. “Carissima moglie, Sono con questa mia Lettera perfatti assapere lottimo stato d mia Assalute lo sto bene E Così spero di te, Riguardo ha male stai Contenta sono Guarito persempre. Pero non mi Vuogiano anchora Rimandare te Stai allegra ha momento tu averai letto Parti subibito. Intutti Emodi Portami Cappotto Malia di Lana Muotande E Lire, 25 N. 3 tordi arrosto e Cotti da XXX. E Te una strinta di mano E credimi Per sempre Tuo Aff.mo Marito”. La lettera è datata 21 gennaio 1906. Chi scrive è rinchiuso nel manicomio di Volterra. Il suo nome uno dei tanti in una struttura capace di ospitare fino a cinquemila ospiti. “Era il più grande manicomio d’Italia. Iniziò l’attività nel 1887 e fu chiuso nel 1978 per effetto della legge Basaglia”: l’artista Mariangela Capossela riapre così il vaso di Pandora su un pezzo doloroso d’italica storia. Gente scomoda - “Volterra - dice - è marcata dalla reclusione. Da una parte il carcere cittadino situato nell’inespugnabile fortezza medicea. Dall’altra la cittadella dell’antico manicomio. Accolse gente da tutta Italia. C’erano i malati psichici, ma anche gli oppositori politici, gli omosessuali, le ragazze madri, le mogli abbandonate. Gente anche scomoda, insomma, che nelle missive inviate alle famiglie chiede informazioni, si lamenta, vuole ricevere denaro e viveri. Vuole comunicare con l’esterno. Le risposte però non sono mai arrivate. Quelle lettere, infatti, non venivano mai spedite, finivano dentro le cartelle cliniche. Un violento atto di censura per mettere a tacere la follia, i desideri, i sogni e le speranze”. “Corrispondenze Immaginarie (Ci)” è il progetto di arte pubblica partecipata che Mariangela Capossela (vive da anni in Francia e realizza progetti di arte sociale tra cui Trenodia, presentato nel 2019 in tre regioni del Sud Italia sulla riattualizzazione della lamentazione funebre collettiva) sta realizzando per Volterra22, prima Città toscana della cultura (il programma nel sito www.volterra22.it). Dialogo civile - Il tema scelto per lo sviluppo del percorso progettuale è “Rigenerazione umana” e nel giorno dell’apertura dell’anno Volterrano, Capossela ha iniziato a “liberare le lettere mai inviate per rompere i confini della reclusione e creare un dialogo civile interrotto”. Nel 1981 alcune sono state raccolte nel volume Corrispondenza Negata. Epistolario della nave dei folli (a cura di C. Pellicanò, R. Raimondi, G. Grimi, V. Lusetti e M. Gallevi, Ed. Del Cerro 2008, prima edizione Pacini 1981). “Gli originali purtroppo sono stati perduti”, dice Capossela mentre copia a mano alcuni testi: “La dimensione manuale è parte pregnante del progetto”. Un ritorno alla penna, al ritmo lento del gesto di trascrizione, alle macchie d’inchiostro, agli scarabocchi, all’io che diventa forma alfabetica. Capossela interpreta la corrispondenza immaginaria come un fluire di energia da persona a persona che si fonda su un principio di dono e di scambio, delle lettere ma anche delle identità. Nella cittadina toscana è stata aperta una casella postale dedicata e destinata a raccogliere le missive di ritorno, innestando così “un processo di memoria viva intorno alla cura psichiatrica e una riflessione dinamica su normalità e anormalità, malattia e reclusione nella nostra società attuale”. Concerto - Le prime ventidue lettere sono già state spedite, consegnate a Roberta Santini, direttrice dell’ufficio postale di Volterra. Una è stata letta durante la serata di apertura dell’anno volterrano in occasione del concerto di Vinicio Capossela (il cantautore ha tenuto una doppia performance, prima all’interno del carcere con la compagnia teatrale La Fortezza, poi nel teatro cittadino). In un’azione simbolica, Mariangela ha gettato la camicia di forza indossata dal fratello che stava interpretando un’apposita canzone. Le lettere trascritte (si parte da 365) verranno inviate a chi desidererà riceverle. Una porzione è anche riservata ai lettori del Corriere della Sera - Buone Notizie. Chi intende partecipare al progetto, può inviare richiesta e indirizzo al numero whatsapp 371-5307708, impegnandosi a rispondere entro il 31 dicembre 2022. Come progetto d’arte pubblica partecipata “Corrispondenze Immaginarie (Ci)” prevede in particolare di coinvolgere più soggetti. “Nella settimana tra il 6 e il 12 giugno, nelle aree esterne dell’ex ospedale psichiatrico San Girolamo oggi in stato di abbandono - dice Capossela - si terranno tre scrittoi pubblici. Il pubblico copierà alcune lettere su un grande rotolo che poi verrà tagliato in unità singole che saranno imbustate e spedite”. Coinvolti anche gli studenti del Liceo Carducci di Volterra. Info su www.corrispondenzeimmaginarie.it. Dateci una legge sull’omotransfobia di Cathy La Torre La Stampa, 18 maggio 2022 Ieri si è celebrata in tutto il mondo la Giornata contro l’omotransfobia. La data è altamente simbolica: il 17 maggio 1990 l’omosessualità è stata rimossa dalla lista delle malattie mentali contenuta all’interno della classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Oms. La risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia in Europa è stata invece approvata a Strasburgo il 18 gennaio 2006 e definisce l’omofobia come “la paura e l’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (Lgbt), basata sul pregiudizio” e la considera analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo. Dal quel lontano 1990 a oggi, ci sono Paesi che hanno fatto passi da gigante per evitare discriminazioni, se non addirittura violenze, nei confronti delle persone omo, bi e transessuali. In Italia invece abbiamo mancato l’occasione di avere una “nostra” giornata nazionale contro l’omotransfobia pure prevista nel ddl Zan bocciato dal Senato l’anno scorso grazie a un’alleanza trasversale di politici che nutrono la loro popolarità vellicando gli istinti più bassi dell’elettorato. Non ci stancheremo mai di dire che una legge contro l’odio omotransfobico è indispensabile anche nel nostro Paese per restituire giustizia a tutti quelli che si sono trovati a essere bersaglio di violenze inaudite per il semplice fatto di essere quello che sono senza nascondersi. Come racconto nel mio ultimo libro Ci sono cose più importanti (Mondadori), sono oramai numerosi i casi di aggressione omofoba in cui i giudici non riconoscono il movente dell’odio così che gli aggressori, di solito gli stessi che seminano odio e minacciano sul web, si sentono liberi di passare dalle minacce social alle violenze in strada sentendosi impuniti. Ad esempio, per l’aggressione che fece molto scalpore grazie al video che la riprese, avvenuta nella metro romana ai danni di una coppia gay, attaccata e malmenata da un uomo infastidito dalla loro presenza, il responsabile non è imputabile per omofobia. Il testo del ddl Zan, che è stato ripresentato tale e quale la settimana scorsa dal Pd con poche speranze di approvazione, interviene sulla legge Mancino del ‘93 - che in origine puniva unicamente le discriminazioni di ordine religioso, razziale ed etnico - introducendo all’interno dell’articolo 604 bis e 604 ter del Codice penale nuove circostanze di reato contro i comportamenti discriminatori e violenti rivolti a un individuo per via dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale o di eventuali disabilità fisiche o mentali. I dati 2021 elaborati da Ilga Europe (International lesbian and gay association) mostrano un’Italia al 35esimo posto su 49 Paesi nella tutela lgbt+, restringendo la classifica ai soli Paesi Ue, l’Italia si trova al 23esimo posto su 27. L’Est Europa è il fanalino di coda: Polonia e Ungheria si confermano le più repressive e ad arresti, attacchi fisici e condanne, si aggiungono vere e proprie campagne discriminatorie di hate speech promosse da istituzioni e reti mediatiche pubbliche. L’Italia dunque si posiziona tra gli ultimi Paesi europei in materia di diritti lgbt+ e tra i primi - secondo uno studio condotto dall’Agenzia dell’Ue per i diritti fondamentali - per tasso di discriminazione, fissato al 19%. Tutti gli indicatori inoltre ci dicono che in Italia gli episodi di reati e altri atti motivati da odio omofobico sono in aumento. Lo sostiene il rapporto Hate Crimes No More Italy, ad esempio, che ci dà un inquietante fotografia di come sta crescendo l’odio del diverso. Siamo anche i primi in Europa per omicidi a sfondo transfobico. Un Paese che, a distanza di circa trent’anni dall’inizio del dibattito nelle aule di Governo, ancora non riesce a dotarsi di una legge contro l’omotransfobia a causa delle resistenze di una classe politica decisamente non più al passo con la società che rappresenta non possiamo più accettarlo. Ecco perché nel 2022 serve una legge contro l’odio per la comunità Lgbt+ di Isabella Borrelli Il Domani, 18 maggio 2022 Secondo l’ultimo report dell’Agenzia Eu dei diritti fondamentali 2019, solo il 39 per cento delle persone Lgbt+ esprime liberamente la propria identità, a causa di un clima percepito come sempre più carico di odio. Nonostante la situazione sia retrograda e violenta, con numerosi casi di aggressioni di matrice omolesbobitransfobica, molti esponenti politici - con buona pace dell’opinione pubblica - ritiene che un’aggravante per le aggressioni e le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere non serva. Così, nel 2022, ci troviamo ancora a dibattere se è giusto che io abbia diritto a menzionare l’esistenza della mia fidanzata. Ma i diritti e le tutele non dovrebbero avere a che fare né con il privilegio, né con il coraggio e nemmeno con il merito. Ho sempre dovuto farci i conti con le parole. Pesarle, rifletterci, contare fino a dieci e poi scegliere quali usare. Non ho mai avuto il privilegio di lasciarmele scappare di bocca con aria distratta, in maniera goliardica. Soprattutto quando si trattava di far riferimento alla persona con cui uscivo o di cui ero innamorata. A ogni pausa caffè al lavoro, per anni, ho fatto estrema attenzione a cambiare sempre il genere della persona citata, a trasformare Claudia, Roberta e Anna in Claudio, Roberto e Alessandro. Fare coming out - Fare coming out vuol dire letteralmente venire allo scoperto, uscire fuori. L’espressione si riferisce al momento in cui si decide di condividere con familiari e amici, la propria identità di genere o orientamento sessuale. Io sono riuscita a fare coming out nel mio ambiente lavorativo solo qualche anno fa, sotto la spinta dell’attivismo e di un’ansia che non riuscivo più a gestire. Fare coming out è probabilmente un’esperienza della vita completamente estranea per le persone eterosessuali e/o che si riconoscono nel proprio genere, e per questo probabilmente succede che non se ne riesca a capire l’importanza di questo stare allo scoperto. In Italia, secondo l’ultimo report dell’Agenzia Eu dei diritti fondamentali 2019, solo il 39 per cento delle persone Lgbt+ esprime liberamente la propria identità, a causa di un clima percepito come sempre più carico di odio. Secondo lo stesso report, infatti, per la metà del campione la situazione è nettamente peggiorata negli ultimi anni. In generale, il dibattito sul tema della discriminazione è a mio parere umiliante. Anche chi non si dice apertamente contro, spesso afferma “quello che ognuno fa a casa propria sono affari suoi” o che “non si è contrari all’omosessualità perché ognuno a letto va con chi vuole”. Questo genere di affermazioni sono ugualmente omofobe, perché i diritti e la non discriminazione non hanno a che fare col privato o con l’intimo. Non mi sembra che le persone eterosessuali non si stringano la mano per strada e, se non lo fanno, questo è frutto di una libera scelta e non di paura. La libertà di scegliere configura, di fatto, il privilegio. Un altro elemento interessante è il concetto di intimità in riferimento alla comunità Lgbt+ e agli spazi pubblici. Vivere liberamente e in sicurezza uno spazio pubblico non ha a che fare con l’intimità, e manifestare la propria identità non ha niente di intimo. Creare questa connessione ha a che fare con la sessualizzazione e l’ideologizzazione che viene fatta ai danni delle persone omosessuali, lesbiche, bisessuali o trans. Come se il semplice esprimere chi si è abbia carattere erotico o ideologico. Ma non è un bacio tra due donne lesbiche a essere più intimo rispetto a un bacio tra un uomo e una donna, ma è il nostro sguardo di giudizio e oggettificazione a cambiare. Quella stessa oggettificazione che si lega a doppio filo alle violenze subite in quello stesso spazio pubblico come persone Lgbt+. Intimità e sicurezza - Parlare di decoro, intimità, così come non sentirsi al sicuro nei luoghi pubblici e privati, non liberi di esprimere - a pari di tutti gli altri - la propria identità non solo ci racconta la discriminazione che viviamo, ma anche il controllo esercitato a livello sistemico. La parità si configura nel momento in cui, prendendo quel caffè di cui parlavo prima, non devo pensare cento volte alle parole da usare con i miei colleghi per timore delle loro reazioni o di dover gestire delle conseguenze sul lavoro. Quando sono riuscita a farlo, mi era già stato intimato il contrario da un ex datore di lavoro perché non “creassi una barriera” tra me e i clienti. Io mi occupo di comunicazione, e ho fatto finta di non capire di quale barriera potesse frapporsi a causa del mio orientamento sessuale. Ci ho messo tempo, dopo, a trovare il coraggio di farlo ugualmente, dopo il mobbing e le battute scherzose che volevano indagare questioni - quelle sì - del tutto intime. Purtroppo non sono sola. In Italia, secondo il report 2022 Istat e Unarr, il 40,3 per cento delle persone intervistate afferma, in relazione all’attuale o ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale (41,5 per cento tra le donne, 39,7 per cento tra gli uomini). Una persona su cinque dice di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale. Una legge - Nonostante la situazione sia retrograda e violenta, con numerosi casi di aggressioni di matrice omolesbobitransfobica, molti esponenti politici - con buona pace dell’opinione pubblica - ritengono che un’aggravante per le aggressioni e le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere non serva. Anche per affermare questo loro punto di vista, usano parole spesso violente, giustificate come contraddittorio all’interno di talk show, dall’alto di editoriali e trafiletti, o sui social media. Tuttavia, secondo me, non esiste un contraddittorio alla vita delle persone. A chi amano e a chi sono. Non esiste un parere contrario a un bacio per strada, o a un’esperienza di mobbing. È possibile effettuare un contraddittorio in merito a due posizioni opposte in merito alle politiche, non essere contrari alla vita di qualcuno. Così, nel 2022, ci troviamo ancora a dibattere se è giusto che io abbia diritto a menzionare l’esistenza della mia fidanzata per timore di non essere ritenuta la persona giusta per rappresentare la mia azienda. E, ora che lo faccio, ad essere riconosciuta nel mio privilegio come persona coraggiosa. Ma i diritti e le tutele non dovrebbero avere a che fare né con il privilegio, né con il coraggio e nemmeno con il merito: non c’è nulla come donna lesbica che debba meritarmi in più degli altri per non subire discriminazioni. Accordo per formare e avviare al lavoro rifugiati e altri migranti vulnerabili di Maurizio Carucci Avvenire, 18 maggio 2022 Formare e avviare al lavoro nel settore edile rifugiati e altri migranti vulnerabili, al fine di accompagnare il loro percorso verso l’autonomia e per sostenere la crescita trainata da super bonus e Pnrr: questo l’importante duplice obiettivo del protocollo d’intesa triennale firmato congiuntamente dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Andrea Orlando, dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, dal presidente di Ance Gabriele Buia, dai segretari generali di Fillea-Cgil, Alessandro Genovesi, Filca Cisl, Enzo Pelle e dal segretario della Feneal Uil Francesco Sannino. Un documento alla cui elaborazione hanno collaborato anche Acnur e Anci. La collaborazione tra governo e parti sociali mira all’inserimento socio-lavorativo di almeno 3mila persone, tra richiedenti e titolari di protezione internazionale o temporanea, titolari di protezione speciale, minori stranieri non accompagnati in transizione verso l’età adulta ed ex minori stranieri non accompagnati. I destinatari, individuati nei Centri di accoglienza straordinaria e nel Sistema di accoglienza e integrazione saranno inseriti nei percorsi di formazione delle scuole edili, coordinate dall’ente paritetico Formedil e faranno esperienze sul campo con tirocini da svolgersi direttamente presso le imprese di settore. Per i minori stranieri non accompagnati e per coloro nel frattempo diventati maggiorenni sono previsti anche interventi pilota basati sull’attivazione di contratti di apprendistato. Inoltre il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha assegnato ai vari Ats-Ambiti territoriali sociali in Italia le risorse economiche, legate al Pnrr, al fine di favorire attività di inclusione sociale per soggetti fragili e vulnerabili, come famiglie e bambini, anziani non autosufficienti, disabili e persone senza dimora. Nel complesso, agli Ats e per essi, ai singoli Comuni e agli enti gestori delle funzioni socio-assistenziali sono stati assegnati oltre 1.250 milioni di euro. Nello specifico, la misura prevede interventi di rafforzamento dei servizi a supporto delle famiglie in difficoltà, soluzioni alloggiative e dotazioni strumentali innovative rivolte alle persone anziane per garantire loro una vita autonoma e indipendente, servizi socio-assistenziali domiciliari per favorire la deistituzionalizzazione, forme di sostegno agli operatori sociali per contrastare il fenomeno del burn out e iniziative di housing sociale di carattere sia temporaneo sia definitivo. Non solo l’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici che fuggono dalla guerra in Ucraina. Le categorie sindacali che organizzano e rappresentano i lavoratori in somministrazione - Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uiltemp - hanno infatti reso operativo per tutto il settore l’accordo sottoscritto con Assolavoro a sostegno dell’accoglienza, per tutti coloro che sono sottoposti a protezione internazionale e temporanea, con l’intento di mettere in campo una serie di azioni volte ad agevolare l’inclusione e l’inserimento socio-lavorativo. La crisi in Ucraina ha accelerato un percorso che era già in programma. “Abbiamo voluto fortemente promuovere queste attività formative e di sostegno, a favore di tutte le donne e gli uomini che necessitano di protezione umanitaria e che versano in condizioni di difficoltà economiche, ma anche sociali e di integrazione - spiegano le organizzazioni sindacali - l’auspicio è che questo aiuto concreto rappresenti un’opportunità reale nell’immediato e offra una prospettiva di vita e lavoro nel nostro Paese. Allo stesso tempo ci auguriamo che anche lavoratrici e lavoratori del comparto si attivino direttamente a favore di chi oggi vive un momento di difficoltà, accogliendo e rendendosi disponibili a dare un aiuto a chi ne ha più bisogno. Quello della somministrazione è un settore privato che ha messo a disposizione le proprie risorse, con le sue articolazioni della bilateralità, a favore di donne e uomini migranti, estremamente bisognosi di misure che favoriscano sostegno, assistenza e opportunità di inclusione sociale”. L’accordo prevede una serie di misure di sostegno e di formazione, volte a favorire l’inserimento lavorativo dei rifugiati. Riguardo ai percorsi di formazione, dopo un bilancio delle competenze sono previste due fasi. Al termine della prima fase di formazione base di lingua italiana e di cultura ed educazione civica italiana sarà rilasciato un attestato di frequenza necessario, poi, per accedere alla successiva fase di formazione professionale (a meno che il lavoratore o la lavoratrice non dimostrino di possedere già le conoscenze necessarie per accedere direttamente). Per sostenere concretamente quanti prenderanno parte ai percorsi di formazione, saranno riconosciuti un’indennità di frequenza e il un rimborso per le eventuali spese sostenute per vitto, alloggio e trasporto, oltre a una indennità una tantum pari a 1.000 euro, a conclusione del primo percorso formativo tracciato dal bilancio delle competenze previsto. Sempre con l’obiettivo di favorire la fruizione e incentivare la partecipazione a questi percorsi formativi, è previsto l’accesso agevolato alle prestazioni dell’ente bilaterale di settore Ebitemp, relative ai contributi per sostenere le spese per asilo nido e per l’acquisto di materiale didattico e libri a favore dei figli o di quanti siano studenti lavoratori. Un forte incentivo a partecipare a queste iniziative di inclusione sarà offerto anche ai lavoratori somministrati che vorranno direttamente partecipare alle azioni di sostegno e di accoglienza in favore dei rifugiati, attraverso ospitalità, adozione, affidamento e ricongiungimenti familiari. A quanti si attiveranno in questa direzione sarà riconosciuta, sempre per il tramite di Ebitemp, un’indennità una tantum pari a 1.000 euro lordi, e, in caso di accoglienza di minore di anni 18 o di donna in gravidanza, pari a 1.500 euro lordi. Infine, l’accordo prevede due nuove prestazioni erogate da Ebitemp: il rimborso per assistenza psicologica per sé o per i propri familiari fino al II grado di parentela/affinità, nel limite massimo di 200 euro ad assistito; il rimborso per l’acquisto di beni prima necessità bebè, quindi le spese per beni necessari alla cura del proprio figlio fino a tre anni di età (per esempio passeggino, fasciatoio, culla, omogeneizzati eccetera). Questo rimborso è riconosciuto per ciascun figlio nel limite massimo di 800 euro. Fondazione Adecco, Maw e l’impegno a favore dei rifugiati - Sono 650mila le persone rifugiate che, dal 2011 al 2017, sono arrivate in Italia dal Mediterraneo centrale e 102.654 i cittadini ucraini che, da febbraio a fine aprile, hanno fatto ingresso nel Paese. Questi i dati emersi nel corso di Inclusion@Work - L’inserimento lavorativo delle persone rifugiate: un valore per l’intera società, l’evento digitale promosso da The Adecco Group. Realizzato in collaborazione con Fondazione Adecco, Acnur e Vita, il webinar è stato l’occasione per illustrare l’attuale situazione delle persone titolari di protezione internazionale nel nostro Paese, a partire da quelle che sono fuggite dalla guerra in Ucraina, e avviare un confronto sul tema e sulle possibili iniziative da mettere in campo insieme alle aziende e a tutte le parti interessate. Tra i partecipanti anche la multinazionale francese di abbigliamento Kiabi, che insieme a Fondazione Adecco sta sviluppando un progetto di inclusione lavorativa a sostegno dei rifugiati. Da più di dieci anni, The Adecco Group è impegnata in attività di supporto delle persone rifugiate, allo scopo di favorirne l’inserimento nel mondo del lavoro. Tra i progetti portati avanti negli ultimi mesi, spiccano il recente stanziamento di 200mila euro, messi a disposizione di alcuni partner di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità impegnati per offrire sostegno ai profughi ucraini, e la creazione di Jobs for Ukraine, un portale che mette a disposizione dei cittadini ucraini fuggiti dal loro Paese diverse opportunità professionali e moduli di formazione gratuita. Fino a oggi, la piattaforma ha raccolto più 3mila posizioni lavorative aperte, oltre 1.100 aziende iscritte - di cui 65 italiane - e più di 3.200 candidature. Le aziende interessate ad avere maggiori informazioni possono mettersi in contatto con il team del Gruppo Adecco che segue i progetti di formazione e inclusione lavorativa delle persone rifugiate, compilando il form presente a questo link: https://www.adecco.it/servizi-per-le-aziende/inclusion-at-work. Alloggi, abbigliamento, dispositivi tecnologici, materiali scolastici, tutoraggio e accessori per bambini e anziani. L’Agenzia per il lavoro Maw attiva il suo supporto a favore dei rifugiati ucraini. Ha risposto all’emergenza sottoponendo un primo questionario ai propri lavoratori per raccogliere le esigenze di coloro che hanno famiglie in Ucraina o che stanno accogliendo rifugiati. In risposta a questi bisogni, Maw ha costruito una rete di aiuti diffusa su tutto il territorio nazionale. Più in particolare, sono stati distribuiti buoni spesa del valore di 200 euro l’uno ai lavoratori ucraini che stanno ospitando rifugiati. Sono stati donati, inoltre, dispositivi tecnologici, abbigliamento, materiali scolastici e accessori per bambini e anziani per più di 30 famiglie. Parallelamente, a supporto del progetto umanitario Emergenza Ucraina, sono state inoltre donate 80 paia di scarpe a donne e bambini rifugiati presso la presso la Fondazione Francesca Rava - Nph Italia Onlus. Le calzature sono state prodotte da chi ha frequentato il corso per operatori calzaturieri promosso da Maw, finanziato dal fondo Forma.Temp e organizzato dalla società di formazione Howay Srl, con la collaborazione di Consorzio Toscana Manifatture e Fracopel Spa, che ha scelto di partecipare all’iniziativa donando la pelle con cui sono state prodotte le scarpe. Si tratta di un unicum a livello italiano ed europeo, siglato a sostegno dei rifugiati di qualsiasi nazionalità sottoposti a protezione internazionale e temporanea, per un totale stanziato di 45 milioni di euro. Il protocollo prevede, tra i vari servizi, l’erogazione di attività di orientamento e bilancio delle competenze, corsi di lingua ed educazione civica italiana e corsi di formazione professionale. Si tratta di servizi gratuiti che prevedono per i beneficiari una diaria oraria, il rimborso per vitto e alloggio e un contributo finale di mille euro. Per i rifugiati che parteciperanno ad un corso di formazione o che accederanno ad un lavoro in somministrazione, è inoltre previsto l’accesso ad alcune prestazioni di welfare come il contributo per gli asili nido, il sostegno all’istruzione, il rimborso all’assistenza psicologica e per l’acquisto di beni di prima necessità per neonati. L’accordo prevede anche un contributo straordinario una tantum rivolto ai lavoratori in somministrazione che ospiteranno persone titolari di status di protezione internazionale. Aidp firma un memorandum con l’Acnur - L’Aidp-Associazione italiana direzione del personale ha firmato un memorandum d’intesa con Acnur, Agenzia Onu che tutela i diritti e il benessere dei rifugiati e richiedenti asilo in tutto il mondo. L’associazione, che conta oltre 3.500 iscritti tra i professionisti delle risorse umane, ha deciso di aderire al progetto Welcome. Working for Refugees Integration per promuovere l’inclusione sociale attraverso opportunità di lavoro, workshop, conferenze, corsi di formazione e molte altre attività. È previsto un roadshow nazionale in tutte le regioni d’Italia, con l’individuazione di specifici tavoli regionali, per promuovere l’accordo e coinvolgere numerose aziende e direzioni del personale. Il progetto, realizzato in collaborazione con il ministero del Lavoro, Confindustria e il Global Compact Network Italia, ha come scopo quello di realizzare percorsi di integrazione condivisi e partecipativi. L’idea è quella di promuove l’inserimento lavorativo di rifugiati e richiedenti asilo attraverso diverse iniziative, come la diffusione di materiali e strumenti per le aziende che vogliano procedere con la loro assunzione, la formazione mirata per le imprese sui temi della protezione internazionale e della diversità in azienda e lo scambio di buone prassi sul loro inserimento nel mercato del lavoro. Nasce Apice per valutare i titoli di studio esteri - Rappresentare gli oltre 300 professionisti che in Italia si occupano di valutare e riconoscere i titoli di studio esteri: questo il ruolo della neonata Apice-Associazione professionale italiana dei credential evaluator. L’attuale emergenza ucraina ha acceso un faro sull’importanza di questa figura per l’integrazione di studenti, docenti e ricercatori provenienti dalle zone di conflitto nei nostri Atenei: solo nel periodo febbraio - maggio 2022 le richieste dal Paese sono aumentate dell’80% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il credential evaluator è una figura cardine per aiutare non solo chi proviene da zone di conflitto, ma anche tutti coloro che, possessori di un titolo di studio estero, vogliano continuare il loro percorso di studi o avviare una carriera in Italia. Nell’anno accademico 2020/21 erano 17.712 gli studenti internazionali provenienti da 185 Paesi diversi che si sono immatricolati presso le istituzioni della formazione superiore italiane, un numero cresciuto del 38,88% negli ultimi dieci anni. Dati che vengono confermati anche da Cimea, il Centro nazionale italiano afferente alla rete Enic-Naric del Consiglio d’Europa e dell’Unesco, che ogni anno registra un incremento del 30% di richieste di attestati di comparabilità - documentazione rilasciata in caso di esito positivo della valutazione di un titolo estero - e che negli ultimi tre anni ha rilasciato oltre 20mila attestati e fornito supporto rispondendo a oltre 170mila quesiti. Due bandi per favorire l’inclusione delle persone sorde - Il Pis-Pio Istituto Sordi, storica istituzione educativa milanese oggi divenuta Fondazione di erogazione, mette a disposizione due dotazioni, una a rilevanza nazionale e una locale, rispettivamente di 80 e 30mila euro, per supportare attività mirate sulla disabilità uditiva. Le scadenze per la presentazione delle candidature sono 31 maggio e 30 giugno. Il fenomeno della sordità è tanto diffuso quanto sommerso. Secondo l’Oms-Organizzazione mondiale della sanità, nel mondo sono circa 460 milioni le persone in condizione di perdita dell’udito di cui 34 milioni in età infantile, con un progressivo incremento nel prossimo futuro. In Italia le persone che hanno una perdita uditiva sono circa cinque milioni, di cui il 75% ha una perdita uditiva leggera o media e il 5% grave o profonda. La maggior parte di loro ha perso l’udito dopo l’acquisizione del linguaggio, soprattutto a partire dai 50 anni di età. Un terzo delle persone sopra i 65 anni convive con una perdita di udito. In Europa la perdita di udito coinvolge oltre 34 milioni di persone ed è considerata condizione a vario titolo disabilizzante. La sordità neonatale è la più frequente disabilità sensoriale congenita e, sempre secondo l’Oms, incide in circa 1-4 casi ogni mille abitanti. In Italia sono almeno 90mila le persone con disabilità uditiva (certificati ai fini Inps), con un’incidenza intorno al 1,5%. Perdere l’udito in età precoce spesso significa incorrere in difficoltà di acquisizione del linguaggio con tutto ciò che ne consegue: disagio, rischio di isolamento, difficoltà di comunicazione e relazione. Borse di studio per il corso di doppiaggio attento alla diversità e all’inclusione - Nasce la prima edizione del corso in Recitazione e scrittura applicate al doppiaggio ideato da 3Cycle - società di doppiaggio fondata e diretta da Marco Guadagno - in collaborazione con Diversity e con il sostegno di Netflix. Un corso di perfezionamento che vuole formare nuovi talenti trasmettendo loro le migliori tecniche della professione, attraverso docenti di grandissima esperienza, ma con un approccio inedito ai temi della Diversity & Inclusion. L’obiettivo è di tracciare una nuova direzione per il doppiaggio italiano, fornendo strumenti e chiavi di lettura per muoversi nella professione con rispetto verso l’opera originale, rimanendo fedeli - nelle parole, nei significati, nelle voci e nelle emozioni - alle intenzioni di chi l’ha creata e alle molteplici identità che vi sono rappresentate. Accanto alle materie più strettamente tecniche, si affiancheranno per la prima volta anche workshop dedicati a introdurre le tematiche D&I, curati dalla Fondazione Diversity con il coinvolgimento di esperti come la scrittrice ed editorialista Marina Cuollo, la scrittrice Espérance Hakuzwimana, la copywriter e digital strategist Grazia Fainelli, e alcuni approfondimenti sull’interpretazione inclusiva e non stereotipata (per il corso dedicato ad attori e attrici) e su linguaggio, adattamento e sottotitolazione inclusivi (per il corso dedicato a dialoghisti/e e a traduttori e traduttrici). Il corso nasce nello scenario dell’evoluzione delle nuove tecnologie e di un mercato dell’audiovisivo sempre più globale e articolato, che vede l’ascesa dei nuovi servizi di streaming e il conseguente aumento delle produzioni da doppiare, provenienti da tutto il mondo, che stanno dando un nuovo impulso al settore del doppiaggio e dell’adattamento. Nel rispetto degli standard d’eccellenza che hanno da sempre caratterizzato la grande tradizione italiana, servono oggi nuove competenze, nuove sensibilità e nuove voci per stare al passo con la molteplicità delle tematiche, delle storie e delle culture con cui i professionisti e le professioniste del settore devono confrontarsi ogni giorno. Il corso si rivolge a persone che abbiano già avuto esperienze formative e/o professionali nell’ambito cinematografico, teatrale o televisivo e che vogliano perfezionare le proprie competenze nel mondo del doppiaggio. Saranno quindi coinvolte nella call to action per l’apertura del bando di ammissione le più importanti scuole pubbliche e private di cinema e teatro e - nella convinzione che i valori dell’inclusione debbano riguardare non solo i contenuti formativi ma anche le modalità di accesso - l’apertura del bando sarà accompagnata anche da una campagna di lancio curata da Diversity volta a raggiungere talenti appartenenti a gruppi sottorappresentati, con particolare attenzione alle aree di identità di genere, etnia, disabilità. La campagna Safe in dubbing ha l’obiettivo di aumentare le loro opportunità di ingresso nel settore e di generare al contempo un rinnovamento dell’industry partendo dalla sua diversificazione e vedrà il coinvolgimento di associazioni e attivisti/e digitali per raggiungere più persone possibili, contribuendo a una sempre maggior rappresentazione delle diversità nel comparto audiovisivo sia on screen che off screen. Inoltre, grazie al sostegno di Netflix, sono previste otto borse di studio a copertura totale della quota di partecipazione e sette borse di studio a copertura del 50%, che saranno attribuite da una speciale Commissione tenendo conto del talento e delle potenzialità di tutti i candidati e le candidate che avranno fatto richiesta di borsa di studio avendone i requisiti economici. Le candidature per il test di ingresso sono aperte fino al 10 giugno. Per maggiori informazioni sul bando e sulle borse di studio: www.3cycle.it. Riabilitazione sociale dei detenuti, il bilancio di Programma 2121 - Bilancio positivo di Programma 2121, iniziativa pubblico-privata promossa dal ministero della Giustizia italiano e da Lendlease, operatore internazionale di real estate, infrastrutture e rigenerazione urbana, con lo scopo di favorire il reintegro dei detenuti nella società attraverso percorsi di formazione e inserimento lavorativo. Nel 2017 Lendlease propone il Programma 2121 con l’intento di valorizzare la presenza del Carcere di Bollate nelle immediate vicinanze di Mind Milano Innovation District, il progetto di riqualificazione dell’area ex-Expo, gestito in partnership pubblico-privata da Arexpo e Lendlease. Il nome dell’iniziativa deriva dall’articolo dell’ordinamento penitenziario che abilita i detenuti al lavoro extra moenia (Art. 21) unito al framework temporale della durata di tre anni di messa a regime (2018-2021). Un progetto pilota di innovazione sociale che punta a inglobare il carcere all’interno del grande ecosistema dell’innovazione di Mind e che colloca Lendlease come leader sul tema in momenti di non obbligatorietà normativa. Firmatari del Protocollo d’Intesa di Programma 2121, oltre al ministero della Giustizia italiano (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Prap-Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Lombardia e Tribunale di Sorveglianza di Milano) e Lendlease sono Anpal, Regione Lombardia, Città Metropolitana di Milano, Comune di Milano, Arexpo, Fondazione Triulza, PlusValue, Fondazione Fits! e Milano Santa Giulia. Il Protocollo d’Intesa ha l’obiettivo di replicare l’esperienza di Programma 2121 al di fuori del sistema penitenziario lombardo, raggiungendo quindi una scala di impatto superiore in termini sia di numeri di beneficiari coinvolti, sia di settori industriali interessati, sia di valore - economico e sociale - generato. Il Programma 2121 è uno dei progetti che contribuiscono al raggiungimento dell’obiettivo dichiarato al mercato di creare 250 milioni di dollari di valore sociale entro il 2025 attraverso partnership condivise, usando come criterio operativo il target 1:5 per cui per ciascun dollaro investito devono esserne generati cinque di valore sociale.? La diocesi di Milano a fianco delle persone in difficoltà economiche - Marco Balducci, amministratore delegato di Nhood Services Italy (nuova società di consulenza immobiliare che agisce sulla riqualifica urbana con l’obiettivo di creare o rigenerare luoghi di vita, spazi di coesione e inclusione sociale con servizi per i cittadini sposando il modello della città entro i 15 minuti) e monsignor Luca Bressan, presidente della Fondazione Caritas Ambrosiana hanno concordato un protocollo d’intesa per la diffusione e promozione del Fondo Diamo Lavoro. Il Fondo è un progetto della Diocesi di Milano; costituisce la terza fase di un percorso avviato dopo le crisi economiche dello scorso decennio e rinnovato in occasione della pandemia da Covid-19. Il Fondo offre formazione e accompagnamento al lavoro a persone disoccupate e in profonda difficoltà economica. Costituisce un’opportunità importante anche per imprenditori, professionisti e artigiani, società di fornitura e partner di servizi - a partire da quelli già inseriti nella filiera di Nhood - che possono selezionare e accogliere nuovi lavoratori, offrendo esperienze di tirocinio formativo per un periodo fino a sei mesi. L’efficacia del Fondo nel consentire inserimenti lavorativi è dimostrata dai numeri: dal 2018 a fine 2021 sono state supportate in vario modo 781 persone e sono stati conclusi 657 tirocini, con una percentuale di assunzioni successive pari al 51%. Altri tirocini sono ancora in corso nel 2022. Le aziende iscritte al portale online del progetto loro dedicato (www.diamolavoro.it) sono 1.165. Il Fondo facilita l’incontro tra persona e azienda attraverso una piattaforma sulla quale, previa iscrizione, i soggetti imprenditoriali interessati hanno la possibilità di consultare i profili professionali delle persone disponibili all’apprendimento on the job, in modo semplice e immediato. Il tirocinio si configura a tutti gli effetti come formazione, che può prevedere una finalizzazione al termine del percorso, o essere interrotta e non concludersi, nel caso in cui l’esperienza non si rivelasse soddisfacente per i soggetti coinvolti, con un’assunzione da parte dell’azienda. Durante il percorso, tirocinante e azienda vengono supportati da Caritas Ambrosiana e dalla Fondazione San Carlo onlus, ente accreditato presso la Regione Lombardia per i servizi al lavoro e alla formazione. Fondazione San Carlo intrattiene i rapporti con le aziende e le associazioni di categoria coinvolte nel progetto, sia sul versante amministrativo, sia in relazione al tutoraggio; il tirocinio si svolge secondo le modalità previste dalla normativa regionale vigente ed è gestito da Fondazione San Carlo, che si fa carico di ogni adempimento formale. Quegli ultimatum sui negoziati di pace di Gabriele Romagnoli La Stampa, 18 maggio 2022 Quando viene detto che non ci sono negoziati è probabile che siano in corso. Il rischio è che i contendenti (Putin di sicuro da una parte, Zelensky o Biden dall’altra) si cimentino nel “gioco dell’ultimatum”. Si tratta di un noto esperimento sociologico, usato per lo più nel campo dell’economia sperimentale, ma applicabile anche a una trattativa come quella sul destino dell’Ucraina. Nella versione classica due giocatori devono decidere come dividere una cifra loro consegnata. Al primo tocca fare la proposta. Al secondo la scelta: accettare o rifiutare. Se sceglie di rifiutare, amen: nessuno riceve nulla. Si tratta di un ultimatum perché non esiste una seconda possibilità: prendere o lasciare. Nei casi fin qui testati viene di solito rigettata un’offerta inferiore al 30 per cento della somma. Il giocatore pensa di dover salvaguardare un principio di equità e antepone questa scelta al danno che comunque patirà ricevendo zero. Lo consola il fatto che anche l’altro, l’offerente, avrà zero. Quella che viene chiamata una “lose-lose situation” in cui tutti perdono è preferibile a una vittoria 70-30 dell’altro. L’accettazione di un’offerta iniqua creerebbe un precedente, legittimerebbe un sopruso, lascerebbe una ferita nella Storia. Ma il rifiuto che cosa lascia? Niente. Ora, provate a immaginare questo gioco in un negoziato sotterraneo sull’Ucraina. Certo, è determinante chi sia il primo giocatore: se a fare l’offerta sia Putin o l’altro (Zelensky o Biden). Se la proposta è umiliante per l’avversario è probabile che si ottenga il rifiuto e si prosegua verso una “soluzione zero” in cui restino da spartirsi macerie, rimorsi, errori. Ma quale è il limite dell’accettabilità? Che cosa rende l’offerta vicina al decoroso 50/50? Dove sta l’exit strategy e soprattutto: perché uno dei due dovrebbe indicarla all’altro se pensa di poter ottenere di più? Se non vede che sta distruggendo le proprie risorse, il futuro e lo stesso obiettivo oggetto della sua rivendicazione? Come uscirne? Negli esperimenti a un certo punto si è cominciato a somministrare ai giocatori una sostanza chiamata citalopram, un inibitore della ricaptazione della serotonina. Qualcosa di simile all’immaginario captorix ingerito dal protagonista del romanzo di Hoellebecq intitolato appunto Serotonina. Nel suo recente libro La pillola per diventare buoni il filosofo Matteo Galletti riferisce che dopo la somministrazione “i riceventi si dimostrano meno propensi a ridurre i guadagni degli offerenti che hanno proposto somme inique”. Non è chiaro se possa anche indurre a offerte più equilibrate. Per quello si può ricorrere all’ossitocina, la cosiddetta “molecola morale”, capace di favorire la fiducia e la generosità. Sorvolando sulla difficoltà di far assumere queste sostanze a contendenti che siano capi di Stato (ma c’è chi ha saputo rendere ben altri servizi), resta la domanda: sarebbe lecita una risoluzione chimica del conflitto? O dei conflitti, dato che la “pillola per diventare buoni” potrebbe essere somministrata anche prima di un’assemblea di condominio, dopo un tamponamento, durante un talk show? Si aprirebbe un dibattito. “No pill” difensori del libero arbitrio a qualunque costo contro fautori del condizionamento a fini di prevenzione delle guerre su ogni scala. Poi magari scopriremo che è già in atto: non si dava forse il bromuro a colazione alle reclute per tenerle calme? Non servirebbe ancora quando si radunano a distanza d’anni? Nella scena più famosa del film Matrix veniva data al protagonista la scelta tra due pillole: blu, fine della storia; rossa, la verità. E noi: preferiamo diventare buoni o giocare all’ultimatum? L’Egitto costruisce una nuova prigione per 20mila detenuti ilfarosulmondo.it, 18 maggio 2022 Il ministero dell’Interno egiziano sta attualmente costruendo un nuovo complesso carcerario nel Sinai, a nord-est del Paese, sufficiente per ospitare 20mila detenuti. La notizia arriva tra le continue richieste di rilascio di decine di migliaia di prigionieri politici detenuti nelle carceri dell’Egitto da quando il presidente Abdel Fattah el-Sisi è salito al potere nel 2013. Mada Masr, un sito web di notizie egiziano indipendente, ha citato due fonti affermando che la nuova prigione si trova nella zona di al-Jafjafah nel Sinai centrale e che la sua costruzione è iniziata nell’agosto dello scorso anno. Il progetto è supervisionato dall’Autorità di ingegneria delle forze armate. Il complesso carcerario è in costruzione in un’area che in precedenza era un uliveto di proprietà della gente del posto. Le informazioni sono state verificate da Mada Masr, che ha ottenuto progetti e perizie ingegneristiche eseguite su richiesta dell’esercito. Il complesso carcerario comprenderà quattro carceri normali e due carceri di massima sicurezza, con una capacità totale di 20.064 detenuti. Il rapporto ha aggiunto che il design della prigione sarà simile al complesso carcerario di Wadi el-Natrun, che Sisi ha annunciato a settembre come la più grande prigione del Paese. Egitto e il dramma dei diritti umani - Lo scorso anno, Sisi aveva dichiarato a un canale televisivo che la prigione di Wadi al-Natrun sarebbe stata “una prigione completamente in stile americano” a cui seguiranno “sette o otto” altri progetti simili in tutto l’Egitto. “Il prigioniero nel complesso sconterà la sua pena in modo umano: godrà di movimento, sussistenza, assistenza sanitaria, umanitaria, culturale e riformatrice”, ha dichiarato Sisi in un commento alla stampa. La dichiarazione ha innescato una reazione tra gli attivisti che hanno documentato il deterioramento delle condizioni dei diritti nelle carceri da quando è salito al potere. La prigione di Wadi al-Natrun è stata seguita a gennaio dall’inaugurazione del complesso carcerario di Badr, chiamato “Centro di correzione e riabilitazione” nella città di Badr, 65 chilometri a est del Cairo. L’amministrazione di Sisi ha costruito più di un terzo delle attuali carceri del Paese, stimate in 81. Cina. Prigione Xinjiang, diecimila uiguri incarcerati, è il più alto tasso di detenuti al mondo di Gianluca Modolo La Repubblica, 18 maggio 2022 Diecimila gli uiguri condannati al carcere per terrorismo in una sola contea del Xinjiang, quella di Konasheher: quasi una persona su 25. Una proporzione trenta volte maggiore il tasso di reclusione nel resto della Cina e dieci volte tanto quello degli Stati Uniti. È quanto scrive l’Associated Press in una lunga inchiesta. L’agenzia di stampa americana ha ottenuto una lista “parzialmente verificata”, ma scrive: “L’elenco è di gran lunga il più grande che sia emerso finora con i nomi degli uiguri imprigionati e rispecchia le dimensioni di una campagna del governo cinese che ha costretto circa un milione di persone nei campi di internamento e nelle prigioni”. Le pene citate nel documento vanno da due a venticinque anni, con una media di nove anni di reclusione. Ad ottenere l’elenco è stato Gene Bunin, studioso russo-americano, da una fonte anonima. “È arrivato tra le mani dell’Ap - scrive l’agenzia - tramite Abduweli Ayup, uiguro in esilio in Norvegia. L’Ap lo ha autenticato attraverso interviste con otto uiguri che hanno riconosciuto 194 persone nell’elenco”. Sotto la pressione internazionale e le denunce delle violazioni dei diritti umani nella regione a maggioranza musulmana, i funzionari cinesi hanno annunciato la chiusura tre anni fa dei campi di rieducazione “a breve termine”: “Tuttavia, sebbene l’attenzione si sia concentrata sui campi, migliaia di uiguri languiscono ancora per anni o addirittura decenni in prigione per quelle che gli esperti dicono essere accuse inventate di terrorismo”, scrive l’agenzia. Almeno un milione di detenuti nei campi di rieducazione e lavoro forzato, secondo varie inchieste internazionali. Una menzogna per Pechino per la quale si tratta di “centri di formazione professionale” e per combattere il terrorismo. A fine mese, dopo anni di richieste, si attende il viaggio in Cina della commissaria per i diritti umani dell’Onu Michelle Bachelet. Una visita che includerà anche la regione del Xinjiang. Bachelet sarà il primo alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani a visitare la Cina dal 2005.