Scarcerate il Dap di Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 17 maggio 2022 Nonostante gli impegni formali della politica e del gigantesco apparato di tutti coloro che si sono alternati al capezzale del Dap, sono anni che l’esecuzione penale non funziona. Tra rivolte, fughe, suicidi, pestaggi, condizioni ambientali inaccettabili e trattamenti disumani, qualora si paragonassero i risultati dell’azione penale a quelli di una azienda, da tempo, si sarebbe dovuto dichiarare fallimento. Non è accettabile che ci si abitui a mantenere lo statu quo considerando la criticità del sistema come un fatto fisiologico. È il tempo per una riforma semplice ma coraggiosa, finalizzata alla radicale revisione delle caratteristiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il Centro Europeo Studi Penitenziari all’art. 4 del suo statuto dichiara “Il Cesp promuove il cambiamento dell’atteggiamento politico sociale nei confronti delle finalità della detenzione, da un momento di sola contenzione al momento di sostegno di un recupero e reinserimento sociale della persona, fino al termine della pena, genera la necessità di sviluppare nuovi modelli operativi/ organizzativi e conseguenti strutture edilizie in grado di attuare i nuovi criteri metodologici”. In base alle sue finalità statuali, il Centro studi proprio nello spostamento del Dipartimento dal ministero della Giustizia alla presidenza del Consiglio dei ministri, ha ben visto la soluzione proposta dal presidente onorario del Cesp Enrico Sbriglia, la quale statuirebbe finalmente la necessaria cesura sul piano della gestione amministrativa tra il potere giudiziario e quello esecutivo. Tale ipotesi rimuoverebbe talune problematiche contraddittorie, comprovando la correttezza per quanto la ministra della Giustizia Cartabia abbia voluto intendere decidendo di affidare la direzione del Dap a un magistrato di sorveglianza piuttosto che a un procuratore della Repubblica. Da sempre presidio della magistratura, il Dipartimento, non solo per i ghiotti emolumenti previsti, non può più attendere ulteriormente una ristrutturazione anche in funzione del Pnrr con un progetto organico, che lo veda finalmente migrare alla più diretta responsabilità e informata articolazione presso la presidenza del Consiglio dei ministri, alla pari del Dipartimento della Protezione Civile e del Dipartimento delle politiche antidroga. Nel rispetto della Costituzione, l’ottenimento di una effettiva rieducazione del condannato dovrebbe vedere il Dap liberato dalla rigidità ministeriale, dalle dispute correntizie delle toghe, dalla verticistica gestione delle procure. Nel divenire diretta espressione dell’Esecutivo, il Dap recupererebbe la sua autonomia nei confronti della gestione da sempre in mano alla magistratura, consoliderebbe una cultura sistemica e multidisciplinare, diversa in effetti dalla sola potestà giudiziale e legalistico-securitaria, consentendo una diversa attribuzione delle stesse funzioni dipartimentali, con altre competenze, altre professionalità ed esperienze più vicine alle problematiche umanitarie. In questa ipotesi, differenti competenze consentirebbero di reinterpretare, attraverso nuovi parametri culturali, non più gravati da discutibili consulenze, il ritrovamento delle effettive funzioni delle strutture edilizie destinate alla custodia. Nuove attribuzioni quindi, tutte da ridefinire attraverso trasparenti e articolati organismi scientifici, tecnici e sociali, in grado di offrire formazione e recupero della persona e capacità lavorativa anche di servizio al territorio. Senza obliterare le giuste richieste di sicurezza, una consimile struttura somiglierebbe di più ad una rete di filiere specializzate e interconnesse sul territorio che non a singole obsolete realtà dove si soffre, ci si ammala e si muore. Le neuroscienze e diritti umani, concependo nuove funzioni per nuovi spazi dove si apprende e lavora, favorirebbero il desiderio di appartenenza e reintegrazione sociale. In linea con l’approccio scientifico che caratterizza le sue metodologie di studio, la proposta del Cesp intende liberare culturalmente il carcere, attualmente inteso come sistema chiuso, per ripensarlo in una logica sistemica aperta alle dinamiche della complessità e della multidisciplinarità. Il carcere attuale diverrebbe altro da sé, aiutando coloro che vi entrano, dando loro una maggiore opportunità di reinserimento sociale, eliminando o attenuando di molto la recidiva e la radicalizzazione nel rispetto della vera finalità dell’art. 27. È ovvio che in tal caso la dirigenza dovrebbe provenire direttamente dalle scelte governative e quindi dell’Esecutivo, organo costituzionale più direttamente aderente alla realtà del corpo sociale e della cultura di fondo più specializzata nella pianificazione e nel management, oltre che nell’effettiva conoscenza della gestione delle risorse umane, supportata da una maturata esperienza nel settore Human rights. Il Cesp e Il Dubbio, attraverso il progetto in corso di elaborazione, intendono promuovere un dibattito aperto sulle predette disfunzionalità e proposte, riportando all’interno delle regole penitenziarie europee (Parte V Direzione e Personale - Il Servizio penitenziario come servizio pubblico - punto 71) il Servizio Penitenziario Nazionale: “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. In tal senso il Cesp e Il Dubbio attiveranno nei prossimi mesi un ampio confronto su questa tematica che si concluderà con un primo convegno aperto a tutte le forze politiche interessate, volto a fornire il motore di una decisa azione legislativa che veda transitare nei prossimi anni il Dap presso il diretto controllo della presidenza del Consiglio liberandolo dalle vischiosità ministeriali. *Vicepresidente Cesp Cartabia ai detenuti del Beccaria: “La giustizia offre sempre un’altra possibilità” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2022 È intervenuta in questi termini e con questo spirito la ministra della Giustizia Marta Cartabia, rivolgendosi ieri mattina ai giovani detenuti dell’Istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria di Milano. “Quando entrate in contatto con i giudici, immagino ne abbiate un po’ timore e non immaginate la presenza amicale. Ma attraverso il loro lavoro, la giustizia è un volto amico che offre una seconda possibilità per tutti, ossia accendere una luce dove prima c’era l’oscurità”. È intervenuta in questi termini e con questo spirito la ministra della Giustizia Marta Cartabia, rivolgendosi ieri mattina ai giovani detenuti dell’Istituto penitenziario minorile Cesare Beccarla di Milano ieri mattina. “Dal Comune alla Regione, dal prefetto al direttore di questo istituto - ha concluso Cartabia - avete qui anche i vertici della giustizia milanese. Questo è un volto della giustizia che dobbiamo imparare a conoscere”. Alla ministra i giovani dell’Istituto hanno regalato un dipinto da loro realizzato che ritrae una candela accesa. A Cartabia sono state presentate le iniziative del progetto “Palla al Centro” della Fondazione Francesca Rava (che rappresenta in Italia l’organizzazione umanitaria Nostros pequenos hermanos, fondata nel 1954 in Messico e attiva in nove Paesi dell’America Latina), nell’ambito di un accordo di collaborazione con il Tribunale per i minorenni di Milano e con il Centro per la giustizia minorile per la Lombardia. “Un impegno recente - spiega Mariavittoria Rava presidente della Fondazione - visto che abbiamo iniziato a lavorare da pochi anni con i ragazzi del carcere, ma che ha già permesso di ottenere risultati concreti come la ristrutturazione della palestra e di quattro aule della ex palazzina femminile”. A brevissimo partirà anche il progetto di risistemazione dell’area verde all’interno dell’istituto. La prospettiva, ricorda Rava, è quella di intervenire in maniera concreta sulle forme più acute del disagio giovanile, sia puntando alla prevenzione, sia contrastando l’isolamento e i pregiudizi sui ragazzi entrati nel circuito penale, per la loro futura inclusione sociale e lavorativa, creando un ponte tra dentro e fuori, in sinergia con istituzioni, aziende, università e volontari. E a prendere forma nel corso del tempo sono state forme di supporto aziendale, precisa Rava, che si sono indirizzate su un doppio binario, quello dell’appoggio economico e quello del volontariato dei dipendenti. In prima fila allora aziende come Microsoft, Kayros Partners, Credit Agricole, ma anche studi professionali come Clifford Chance. La ministra Cartabia ha visitato anche l’aula di informatica allestita nell’area detentiva grazie al sostegno di Microsoft Italia, dove si svolgono durante l’anno (due volte alla settimana) corsi indirizzati a trasferire ai ragazzi competenze digitali e profili spendibili nel mondo del lavoro, permettendo di affrontare in maniera più agevole uno dei passaggi maggiore criticità, quello dell’uscita dal carcere (dove Rava ricorda già significativi esempi di inserimento lavorativo con imprese come Carrefour e Ikea). La visita si è conclusa nella riqualificata palestra dell’istituto alla presenza dei vertici giudiziari milanesi (tra gli altri, il presidente della Corte d’appello Giuseppe Ondei, il procuratore generale Francesca Nanni), del prefetto Renato Saccone, della vicepresidente della Regione Letizia Moratti, dell’assessore comunale al Welfare Lamberto Bertolè, di Silvia Candiani, amministratore delegato di Microsoft Italia. Il carcere a vita è una barbarie: serve una nuova legge di Vittorio Feltri Libero, 17 maggio 2022 Dopo decenni di carcere, tutti abbiano diritto alla libertà condizionale. Da qui ai prossimi sei mesi, così come ha stabilito la Corte costituzionale concedendo un ulteriore rinvio proprio la scorsa settimana, il Senato dovrà riscrivere la legge relativa all’ergastolo ostativo. Se ne discetta tutti i giorni da circa un anno di “ergastolo ostativo” e ancora tanto se ne parlerà e sono pronto a giurare che pochi cittadini ci abbiano capito qualcosa, dato che noi giornalisti abbiamo il pessimo vizio di dare per scontato quello che proprio noi mai dovremmo considerare ovvio, ovvero che chi ci legge sia già perfettamente a conoscenza dell’argomento. Del resto, tale espressione non risulta nei codici, non è contenuta in nessuna norma. Dunque, nel diritto non esiste. Per “ergastolo ostativo” si intende la perpetuità della detenzione quando il condannato per reati mafiosi non abbia collaborato con la giustizia. Quindi, per questa categoria di ristretti, quantunque abbiano già trascorso dietro le sbarre venti o trent’anni, l’ottenimento della libertà condizionale, ad esempio, è subordinato alla condizione che essi abbiano collaborato o decidano di collaborare con la giustizia. Fu la Cassazione a sollevare davanti alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art 4bis dell’ordinamento penitenziario del 1975 ove non permette la liberazione condizionale per chi non collabora. E lo scorso anno, in effetti, la Consulta bocciò, non senza suscitare un dibattito rovente, l’ergastolo ostativo. Il Parlamento si è dato da fare per scrivere una legge che fosse in linea con questa decisione, ma il risultato è stato scadente, ovvero esso ha elaborato una procedura molto complessa per giungere eventualmente alla liberazione condizionale, di fatto resa quasi inaccessibile. Ieri, dalle colonne del Corriere della Sera, in una intervista in cui ha illustrato i motivi per i quali è stato concesso il rinvio alle Camere allo scopo di migliorare una norma già dichiarata incostituzionale un anno fa, il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, specificando la necessità di un bilanciamento tra le libertà costituzionalmente garantite e la sicurezza pubblica, ha messo ancora una volta in luce un problema, a mio avviso da non sottovalutare, cioè quello delle false collaborazioni per assicurarsi la libertà condizionale. In fondo, se imponi ad un soggetto di collaborare con la giustizia per ottenere dei benefici, è probabile che questi, per ottenere quei benefici, finga la collaborazione o inventi addirittura fatti mai accaduti per guadagnarsi una boccata d’aria. E di fasulli collaboratori di giustizia la Giustizia, già messa male in Italia, non ha proprio bisogno. Quella sull’ergastolo ostativo è una battaglia di civiltà. Rinchiudere a vita, ovvero finché non subentri il trapasso, una persona in una cella, quantunque ella abbia compiuto reati connessi all’associazionismo mafioso, non lasciarle alcuna speranza di uscire, neppure un misero brandello, e nemmeno l’aspettativa di essere reinserita in società, equivale in sostanza al condannarla a morte precoce, una morte civile, certo, ma pur sempre di morte si tratta. Anche per coloro i quali hanno fatto parte della criminalità organizzata la detenzione riveste una funzione rieducativa e non meramente punitiva. E la rieducazione è sempre funzionale al reinserimento sociale. Imporre ad un ex mafioso di collaborare con la magistratura per usufruire della libertà condizionale, magari dopo decenni che questi se ne sta lontano dagli ambienti criminali, significa altresì vincolarlo a permanere non soltanto nell’istituto penitenziario ma altresì in determinate scelte esistenziali deviate assunte lustri prima. Siamo sicuri che così facendo realizziamo il bene dell’individuo e dello Stato? Giustizia, sciopero magistrati contro la riforma Cartabia. L’Anm: “Adesione oltre il 60%” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 17 maggio 2022 A Milano circa il 36%, a Roma il 40%, a Napoli il 60%. Il presidente dell’Anm, Santalucia: “Numeri elevatissimi nei piccoli tribunali con magistrati molto giovani”. “L’adesione allo sciopero, in base ai dati che stanno arrivando, ancora parziali, è di poco sopra il 60%, tra il 63 e il 65%”. Lo ha detto a Sky Tg 24 il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, riferendosi alla giornata di sciopero dei magistrati contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Santalucia ha parlato di dati di adesione alla protesa “elevatissimi” nei piccoli tribunali, dove lavorano “magistrati molto giovani”. È una conferma che sono proprio le toghe a inizio carriera ad avvertire “di più il pericolo di questo mutamento del modello di magistrato” ha aggiunto riferendosi agli effetti della riforma Cartabia all’esame del Senato. A Milano hanno aderito 91 magistrati ordinari, sui 250 in servizio, pari al 36,4%. In particolare erano presenti a Palazzo di Giustizia, pur aderendo allo sciopero, 53 magistrati mentre erano assenti in 38. Altre 16 toghe non si sono presentate al lavoro per altre ragioni. A tenere regolarmente udienza sono stati in 143. Tra i 57 magistrati tirocinanti, invece, hanno aderito allo sciopero solo in 9 (di cui 5 presenti in tribunale e 4 assenti), pari al 15,8% del totale. È del 40% anche l’adesione allo sciopero registrato nel distretto giudiziario di Roma e Lazio. È quanto rende noto l’Anm di Roma. “Il dato statistico non ci accontenta: dobbiamo lavorare per riportare i colleghi negli spazi comuni”, ha detto il segretario del Ges Lazio dell’Associazione magistrati, Emanuela Attura, “a conferma di ciò il fatto che la tavola rotonda aperta svolta oggi è riuscita molto bene, un momento di confronto costruttivo e utile”. Nei Tribunali di Napoli e Napoli Nord, che ha sede ad Aversa (Caserta), l’adesione si è attestata intorno al 60%. Secondo i dati resi noti dell’Anm, quella più alta è stata registrata nel Tribunale di Nola (intorno all’90%). Di poco oltre il 68% invece l’adesione a Torre Annunziata. A Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, l’adesione registrata è intorno al 40%. A Benevento, infine, l’adesione è stata del 68,69%. Mezzo sciopero, crisi intera. Un lunedì nero per i magistrati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 maggio 2022 Molto bassa la fiducia della categoria nella possibilità di trovare ascolto in Parlamento. Meno di un magistrato su due ha aderito allo sciopero, indetto ieri dall’Anm per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, in fase di approvazione al Senato. Sciopero di protesta, come ha detto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - “si pensa di controllare e irrigidire l’organizzazione della magistratura per controllare i magistrati” - ma anche sciopero per spingere il parlamento a qualche ripensamento. Del resto “questa più che una proatesta contro la ministra Marta Cartabia - ha aggiunto Santalucia - e un’astensione contro gli emendamenti introdotti alla camera, fortemente peggiorativi”. Ma se il testo dovesse cambiare al senato, visti i rapporti di forza nella maggioranza, le modifiche andrebbero nel senso opposto alle richieste dai magistrati. Più probabilmente, la Lega riuscirà a rallentare l’approvazione definitiva della riforma, in modo da rendere impossibile il rinnovo del Csm a luglio con le nuove regole. E in fondo alla possibilità di modifiche migliorative, dal loro punto di vista, credono assai poco gli stessi magistrati, si spiega così la bassa partecipazione allo sciopero - un crollo vertiginoso rispetto al precedente sciopero “politico” del luglio 2005. Alla grande maggioranza delle toghe la riforma non piace, ma evidentemente solo una minoranza ha pensato che l’astensione dal lavoro, a questo punto, potesse servire a ottenere qualcosa. Secondo i dati raccolti dalla stessa Anm nei distretti di Corte d’appello (a differenza che nel passato, questa volta il ministero ha rinunciato a dare le sue cifre ufficiali) ha aderito allo sciopero il 48% dei magistrati, una parte dei quali ha comunque lavorato per garantire i servizi essenziali e la continuità degli organi costituzionali (ai ministeri, al Csm). La percentuale più bassa di adesione è stata registrata in Cassazione, il 23%. Bassa anche nel resto del distretto di Roma: 38%. Più alta, ma più bassa delle previsioni a Milano (51%) e a Napoli (53%), sopra i170% solo a Bologna (73%), discreta a Bari (69%), minima a Cagliari (39%) e a Messina (35%). Percentuali che impallidiscono al confronto con lo sciopero del 14 luglio del 2005, il precedente diretto quando l’Anm incrociò le braccia contro la riforma dell’ordinamento del centrodestra. Allora a Milano si astenne dal lavorare il 90% delle toghe e più dell’80% in quasi tutti gli altri distretti. “Tutto sommato è un risultato comunque significativo, considerato la grande campagna che c’è stata contro lo sciopero”, il commento del segretario di Area Dg Eugenio Albamonte, che ha sottolineato il dato positivo dell’adesione più alta tra i giovani magistrati. “In un contesto generale non facile, c’è stato un livello di adesione all’astensione intorno al 50%, comunque importante”, ha detto il segretario dell’Anm Salvatore Casciaro, magistrato della corrente di destra Mi. Secondo il quale “l’Anm si è fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati, ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi”. In realtà l’Anm è stata nuovamente ascoltata in audizione in commissione al senato la settimana scorsa, ma senza che siano emerse disponibilità a raccogliere le richieste dei magistrati. Al contrario, se l’approvazione definitiva della riforma tarderà (com’è probabile, si aspettano notizie oggi dalla capigruppo del Senato), il 12 giugno si terranno i cinque referendum sulla giustizia che anche loro spingono in direzione opposta a quella indicata dalle toghe - ad esempio cancellano del tutto la possibilità di giudici e pm di cambiare, anche una sola volta, funzione. Intanto però la deludente adesione allo sciopero farà discutere anche l’Anm al suo interno. Comincia Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica: “Il 48% di adesione ci consegna una magistratura apparentemente divisa, in realtà è anche l’effetto di una proclamazione affrettata. Proprio per questo avevamo richiesto un tempo più lungo per spiegare meglio le ragioni dello sciopero dentro e fuori la magistratura. Non abbiamo avuto la possibilità di costruire una sintonia collettiva interna, né la capacità di trovare interlocutori solidali all’esterno”. Toghe, sciopero flop. Si astiene solo il 48% dei magistrati di Valentina Stella Il Dubbio, 17 maggio 2022 Un boomerang per l’Anm che parla di “campagna mediatica”. Una vera debacle, lo sciopero indetto dall’Anm per la giornata di ieri: neanche la metà dei magistrati ha incrociato le braccia. Secondo i dati ufficiali delle 19.30, la percentuale di adesione è del 48,45 per cento, ossia 4.285 magistrati su 8.844. Il risultato più “raggelante” arriva forse da Roma, che si ferma al 38%. “Il dato statistico non ci accontenta: dobbiamo lavorare per riportare i colleghi negli spazi comuni - ha spiegato il segretario della giunta Anm del Lazio, Emanuela Attura -. A conferma di ciò il fatto che la tavola rotonda aperta che si è svolta oggi (ieri, ndr) è riuscita molto bene, un momento di confronto costruttivo e utile”. Vi ha partecipato anche Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma, che ha ribadito: “Il metodo del confronto con gli avvocati, che in altri casi è stato attuato e che si è rivelato proficuo, in questa riforma avrebbe contribuito a individuare un percorso più rapido per l’approvazione e per marcare l’effettivo superamento di una crisi della magistratura nell’interesse di tutti i cittadini”. Se nel distretto di Milano ha scioperato il 51% delle toghe, a Milano città si è astenuto dall’attività appena il 39% dei magistrati. Pure in quello di Napoli si arriva pelo pelo al 53%. Mentre in Cassazione ha scioperato solo il 23% dei consiglieri. Non c’è dubbio, insomma, che quella di ieri sia stata una giornata nera per l’Anm: si è voluta confrontare con una sfida politica nazionale che è chiaramente andata persa. E qualche magistrato già si interroga sul futuro del presidente Giuseppe Santalucia e sulle sue possibili dimissioni. Eppure il segretario generale dell’associazione, Salvatore Casciaro, prova a ridimensionare la sconfitta: “In un contesto generale non facile c’è stato un livello di adesione all’astensione intorno al 50%, comunque importante. Il che dimostra come l’Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati”. E infine auspica: “Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo sul Csm, e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi”. Ma con questi numeri viene chiaramente spazzata via ogni ipotesi di fare pressione sul Senato. La magistratura ne viene fuori divisa e debole, con una Anm incapace di aggregare i magistrati intorno a una iniziativa che aveva l’ambizione di dare una scossa al Parlamento, di evitare l’approvazione di una riforma definita “punitiva” e che ridurrebbe il magistrato a burocrate. Tuttavia non parla di flop neanche Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg. Sollecitato dall’AdnKronos, punta il dito su una campagna mediatica ostile: “Tutto sommato, in considerazione anche della grande campagna che è stata fatta contro lo sciopero dei magistrati, che ovviamente colpisce anche gli stessi magistrati, nel senso che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, seguiamo le agenzie e così via, direi che è un dato comunque significativo”. “Sono convinto - osserva infine il pm di Roma - che il dato da tenere in considerazione siano le quasi 50 iniziative organizzate in giro per l’Italia in altrettanti tribunali, per aprire il dibattito all’opinione pubblica, alla stampa, alla società civile, agli avvocati e agli altri professionisti che lavorano con noi”. Chi invece prova a fare autocritica è il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, che così commenta al Dubbio: “La stragrande maggioranza della magistratura giudica questa riforma pessima, anche la maggior parte di quelli che non hanno scioperato. L’esito della giornata di astensione è quello di una magistratura apparentemente divisa, ma, in realtà, è anche l’effetto di una proclamazione eccessivamente affrettata. Proprio per questo avevamo richiesto un tempo più lungo per spiegare meglio le ragioni dello sciopero dentro e fuori la magistratura. Non abbiamo avuto la possibilità di costruire una sintonia collettiva interna, né la capacità di trovare interlocutori solidali all’esterno. I nodi nevralgici della crisi pretendono una seria volontà di auto-riforma, capace di coinvolgere tutti gli attori della giurisdizione. Come Anm, sino ad oggi, non siamo stati capaci di farci carico di questo sforzo, e questo ci ha fatto perdere autorevolezza nelle interlocuzioni con il riformatore, ci ha isolato da accademia, avvocatura, sindacati del personale amministrativo e società civile. Restano ferme le buone ragioni dello sciopero ed è necessario partire dai confronti avviati in questi ultimi giorni in tutte le sedi distrettuali, per recuperare un dialogo, finalizzato a migliorare la riforma”. Ha parlato di “giorno triste, l’ennesimo per la giustizia” la presidente del Cnf Maria Masi: “Non poche perplessità e molto sconcerto ha suscitato nell’avvocatura la decisione dell’Anm di scioperare contro la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario. Fino all’ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c’è stato. Un’occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell’ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione. Ancor meno si comprendono le dichiarazioni del presidente Anm Santalucia, soprattutto quando si è riferito al “pericolo di un mutamento del modello di magistratura” che avrebbe convinto i giovani magistrati ad aderire allo sciopero. Esiste già il riferimento a una magistratura ‘ modello” ed è a quella che i giovani magistrati dovrebbero guardare, perpetuandone il coraggio e la generosità”. “Inutile, politico, elettorale”. Ecco perché le toghe dicono no allo sciopero di Simona Musco Il Dubbio, 17 maggio 2022 Dall’aggiunto di Roma Ielo al giudice milanese Salvini, dal pm capitolino Bianco al pg di Torino Saluzzo: le ragioni di chi ieri non ha risposto alla chiamata alle armi. “Inutile e inopportuna”, una protesta che sa di “lotta politica” e offre spunti per la “campagna elettorale”. La magistratura si divide sullo sciopero organizzato dall’Anm, che ieri ha chiamato a raccolta da nord a sud le toghe per protestare contro la riforma Cartabia. Ma la chiamata alle armi ha registrato le defezioni di chi, come l’aggiunto di Roma Paolo Ielo o il giudice milanese Guido Salvini, ritengono insensato scioperare. Sono diverse le voci critiche tra le toghe proprio nel giorno in cui diverse procure d’Italia hanno lavorato a ranghi ridotti. Tra queste anche quella del procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, pur convinto che “la riforma è per molti versi, quasi per tutti, assolutamente censurabile e non serve a nulla”. Una posizione sovrapponibile a quella di Ielo, secondo cui il disegno di legge è “ispirato ad una logica punitiva”, come dimostrerebbero i nuovi illeciti disciplinari, il fascicolo del magistrato e la stretta sul passaggio dalle funzioni giudicanti e requirenti, norme “ai limiti della Costituzione e comunque inidonee ad imprimere una svolta positiva all’amministrazione della giustizia”. Ma nonostante la riconfermata “fedeltà” all’Anm, “in questo caso e in questo momento, dissento - ha sottolineato Ielo - dall’utilizzazione dello sciopero come forma di protesta, perché inutile e inopportuna”. Salvini si lancia invece in una critica ben più aspra, parlando di lotta politica nel tentativo di influenzare “l’indirizzo legislativo del Parlamento”. Uno sciopero “inventato”, insomma, in quanto al netto dei pareri sulla riforma “non si può scioperare contro un provvedimento votato dal legislatore a larga maggioranza e dopo numerosi confronti nelle Commissioni anche con i magistrati. I magistrati hanno il diritto e forse il dovere di scioperare, ma nel caso di leggi sulla giustizia che appaiono in modo grave e diretto anticostituzionali e certo questo non è il caso della riforma Cartabia”. Il fascicolo delle performance, anzi, basandosi sulle “gravi anomalie” potrebbe essere utile per “evitare che gravi disastri processuali, alcuni dei quali, anche a Milano, entrino, come spesso accade, addirittura quale nota di merito nel curriculum di un magistrato. E non dimentichiamo che saranno sempre altri magistrati, i Consigli giudiziari e il Csm, a redigere le valutazioni e non il ministro o il governo”. Ma ad andare più in profondità sui temi della protesta è Giuseppe Bianco, sostituto procuratore a Roma, anche lui tra coloro che hanno scelto di non aderire allo sciopero. “Il problema è la legittimazione di una dirigenza correntizia che, per le note vicende, ha pochi titoli per opporsi ad una riforma che proprio quella dirigenza ha favorito - spiega al Dubbio -. Lo sciopero rilancia il vecchio slogan dell’indipendenza. Ma ormai non è più credibile dire che la minaccia venga solo dalla politica. Le vicende del 2019 hanno dimostrato che c’è anche il condizionamento interno, non meno velenoso”. Il ddl dovrebbe essere approvato, salvo colpi di scena, col testo già licenziato dalla Camera. Una “riforma modesta”, aggiunge Bianco, che “peggiora poco e migliora poco”, perché “lascia inalterato il sistema complessivo”. E il punto più volte indicato come fondamentale - il sistema elettorale - non inciderebbe in alcun modo sulle degenerazioni alle quali la politica ha dichiarato di voler mettere mano: “Le correnti più strutturate ed ideologiche sono in grado di adattarsi a qualsiasi scenario, reinterpretando ogni regola in funzione perennemente autoconservativa - spiega il pm capitolino -. Per il resto alcuni punti cancerogeni non si affrontano: uno, per esempio, è l’impasse costituzionale fra Consiglio Superiore e magistratura amministrativa. Le decisioni di annullamento del Consiglio di Stato devono essere applicate o no?”. Altro tema è quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, “sul quale sarebbe importante innestare una riflessione seria”. Nemmeno il sorteggio, da solo, basterebbe: “Il sistema è in grado di assorbire e condizionare le velleità di qualsiasi sorteggiato indipendente”. E per essere efficace servirebbero “misure complementari, che riducano gli spazi rimessi alla contrattazione del sistema correntocratico”, come l’introduzione di criteri “obiettivi e matematici” per le nomine, perché il merito “è un concetto vuoto, che serve solo a giustificare il gioco di mercato delle varie correnti”. Tutti punti che la riforma Cartabia non affronterebbe, con la paradossale conseguenza di “favorire il sistema, perché svia l’attenzione dai punti dolenti e regala a qualche corrente egemone il pretesto per una mobilitazione modesta in chiave meramente elettoralistica, in vista delle prossime elezioni per il Csm. Se non ci fosse stata la riforma - conclude Bianco -, nei comizi elettorali una certa curia interna non avrebbe avuto letteralmente più niente da dire”. Riforma del Csm, la gip Maccora: “La legge è migliorabile ma dialoghiamo con partiti e cittadini” di Liana Milella La Repubblica, 17 maggio 2022 La vicepresidente dei giudici per le indagini preliminari di Milano: “Lo sciopero come forma di protesta è sempre stato strumento da usare con massima cautela”. “Non ho scioperato. Una scelta molto sofferta, ma non mi sentivo di farlo”. Dice così Ezia Maccora, presidente aggiunta dei gip di Milano. I numeri dicono che l’astensione non è riuscita. Segno di debolezza per la magistratura? “Lo sciopero come forma di protesta è sempre stata l’extrema ratio, strumento da usare con massima cautela…”. Che stavolta non c’è stata? “Ho parlato con molti colleghe e colleghi in questa settimana e avevo percepito la preoccupazione di tutti per questa forma di protesta in un momento storico in cui il Paese fa i conti con gli effetti della pandemia e con una guerra in corso”. Però i giudici di Nola e Busto Arsizio hanno scioperato in massa e sono stati durissimi contro la riforma Cartabia... “Comprendo le ragioni che spingono alla protesta questi giovani colleghi, con cui sarebbe molto importante confrontarsi, ma penso che lo strumento avrebbe dovuto essere un altro. Un mezzo idoneo a far capire ai cittadini, ai giuristi, agli avvocati, le criticità della riforma e le nostre preoccupazioni. Per esempio sono state molto utili le assemblee aperte che si sono tenute in molti distretti”. Adesioni sotto il 40% a Milano, in passato roccaforte delle proteste contro Berlusconi… “Si trattava di riforme completamente diverse, con un attacco diretto all’indipendenza e all’autonomia della magistratura, e di momenti storici del tutto differenti. In quei casi i magistrati avevano il sostegno di giuristi e di una larga fetta dell’opinione pubblica. Oggi noi siamo preoccupati che i cittadini non capiscano lo sciopero”. Perché l’Anm e i capi corrente non se ne sono resi conto? “Non si è capito il vero sentire generalizzato dei magistrati. In molti chiedevamo, visti i tempi lunghi per il voto finale al Senato, di riaprire il dialogo con la politica e con la ministra, e di organizzare giornate aperte ai cittadini per far capire gli aspetti negativi della riforma”. C’è stato chi ha spinto a tutti i costi verso lo sciopero... “Chi l’ha fatto oggi deve necessariamente confrontarsi con il fatto di non essere riuscito a rappresentare tutta la magistratura”. Un segnale c’era già nell’assemblea mezza vuota di Roma del 30 aprile... “C’è una crisi che coinvolge l’associazionismo e le correnti, e quella scarsa presenza l’ha confermato”. L’Anm è vissuta come espressione delle correnti? “La mancata partecipazione allo sciopero è stata trasversale alle correnti. Molti ritengono che non è stato compiuto il salto etico che ci si attendeva dopo il caso Palamara”. Il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo non è andato in assemblea e ha definito lo sciopero “inutile e inopportuno”. Pur se il suo giudizio sulla riforma è “pesantemente negativo”... “Tanti magistrati ritengono che la riforma abbia aspetti decisamente negativi, ma anche positivi, come il ritorno al concorso di primo grado”. Santalucia, che ha lavorato in via Arenula come capo dell’ufficio legislativo, ripete che la riforma è poco conforme alla Costituzione... “Ci sono aspetti sicuramente negativi, e c’è da augurarti solo che i decreti delegati li correggano”. Me ne citi due... “Creare di fatto una separazione tra pm e giudice. Il migliore pm è quello che valuta le prove con l’occhio del giudice. L’impianto della riforma spinge verso una produttività slegata dalla complessità del lavoro del magistrato”. Per scioperare i giudici devono avere di fronte una legge monstre? E accettare quelle così così? “Il problema non è accettare leggi così così, ma mettere in evidenza le criticità, se ci sono, anche duramente, e soprattutto farle comprendere all’opinione pubblica per non avere una magistratura isolata dal Paese. Lo sciopero, oggi, non è lo strumento giusto”. Lei era al Csm quando ci fu l’ultimo sciopero contro Berlusconi. Allora nessuno ipotizzava un flop. Oggi il calo di consensi è frutto anche di processi finiti nel nulla? “Esercitare la giurisdizione non è una gara tra chi vince e chi perde. Valutare le prove e arrivare a una decisione è il lavoro che i magistrati fanno tutti i giorni. Senza pensare a vittorie o a sconfitte, e senza compiacere la piazza”. Caro Letta, ripensaci. Il No del Pd ai referendum sulla giustizia è un guaio di Enrico Morando e Stefano Ceccanti* Il Foglio, 17 maggio 2022 Tre quesiti vanno nella stessa direzione del lavoro del dem. Un appello di Enrico Morando e Stefano Ceccanti, esponenti del Partito democratico. Scriviamo all’indomani di uno sciopero di alcuni magistrati italiani che ovviamente non condividiamo ma che ha puntualmente motivato una cosa vera, ossia che c’è politicamente, prima ancora che tecnicamente, una coerenza tra almeno tre dei quesiti referendari e il lavoro parlamentare che ha portato all’approvazione da parte della Camera. Per questa ragione non si capirebbe, soprattutto da parte di chi vi ha lavorato, un atteggiamento diverso tra il Parlamento e la cabina elettorale Il quesito referendario più significativo - sul piano politico-culturale - è certamente quello rivolto ad azzerare la possibilità, per il magistrato, di passare dalla funzione giudicante a quella requirente (e viceversa). Esso è rivolto a rendere effettivo ed esigibile il diritto del cittadino, nel processo “giusto”, a essere giudicato da un soggetto “terzo” rispetto al magistrato della pubblica accusa e all’avvocato della difesa. Walter Verini (il Dubbio, 14-5-22) sostiene, per conto del Pd, le ragioni del No anche a questo quesito, perché “tenendo conto di quanto pochi siano, nella realtà, i cambi da pm a giudice (121 del quadriennio 2016-2020, trenta l’anno)”, ritiene di poter concludere che sia “più che sufficiente il punto di caduta” definito dal Parlamento, che ha ridotto i quattro passaggi previsti dalla legislazione vigente a uno solo. Prendiamo per buoni i dati sulle dimensioni del fenomeno, ma li consideriamo del tutto inappropriati a fondare una reiezione del quesito referendario. L’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo, introdotto nel 1999 grazie a un lavoro politico-parlamentare di cui la sinistra riformista fu protagonista, recita testualmente: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. È semplicemente evidente che se la carriera del giudice è “unica” rispetto a quella del pubblico accusatore, questa “unità” entra in rotta di collisione - ben aldilà della soggettiva intenzione dei singoli magistrati - col diritto del cittadino al processo giusto. Non è dunque una questione di quantità - il numero di giudici che ogni anno trasmigrano verso la funzione requirente (e viceversa). È una limpida questione di principio. Proprio a questo principio, del resto, deve essersi ispirato il Parlamento quando ha deciso una così drastica riduzione del numero dei passaggi da una funzione all’altra. Perché un solo passaggio, invece di nessun passaggio? Ci sono state certo fondatissime ragioni che hanno suggerito ai riformisti di entrambi i campi di accettare la soluzione di compromesso: se si giudica negativamente il passaggio di funzioni, in presenza di un Parlamento nel quale le posizioni giustizialiste hanno molti sostenitori, si può ben accettare una riduzione da quattro a uno. Il quesito referendario, per definizione, si muove in una logica binaria e propone al cittadino-elettore una domanda cui può rispondere solo con un sì o con un no. Chi vota No - come Verini vorrebbe che facesse il Pd - non difende il ragionevole e positivo compromesso che riduce i passaggi di carriera a uno solo. Anzi, sostenendo il mantenimento della legislazione vigente, finisce col negare il valore stesso dell’accordo raggiunto in sede parlamentare. Col risultato di presentare agli elettori, sullo stesso tema, due posizioni opposte: se si vota in Parlamento, si parte dal giudizio secondo il quale i passaggi di carriera oggi possibili sono troppi e li si riduce a uno solo. Se si vota nel paese, si torna alla difesa dello status quo. “Ricostruire la giustizia - sostiene Verini - è opera da realizzare nei luoghi appropriati”. Giusto. Ma se c’è da ricreare equilibrio in un sistema che lo ha perso da decenni, l’intera collettività nazionale deve essere resa almeno consapevole, se non partecipe, della lunga iniziativa riformatrice che è necessaria e dei princìpi fondamentali che la ispirano. Come si può pensare di ottenere questo risultato creando, per mere ragioni di tattica politicista, un così grande baratro tra ciò che si dice e si fa in Parlamento (i passaggi di carriera ostacolano il giusto processo e dovrebbero essere impediti, ma possiamo ben accettare, in virtù dei rapporti di forza parlamentari, che si riducono a uno solo); e ciò che si dice e si fa nel paese (i passaggi di carriera garantiscono l’unicità della “cultura della giurisdizione” e voi cittadini andate a votare e votate No, lasciando che restino addirittura quattro)? Il voto Sì al referendum è certamente coerente con l’iniziativa del governo, del Parlamento e del Pd per la riduzione a uno dei passaggi. Il quesito referendario, a vittoria del Sì acquisita, non la smentirebbe, perché andrebbe oltre la riforma, ma muoverebbe nella stessa direzione. Per la vittoria del No, varrebbe il contrario. Peraltro un anno dopo la riforma dell’articolo 111 della Costituzione la Corte con la sentenza 37/2000 ammise un referendum sulla separazione argomentando puntualmente che l’unico vincolo posto dalla Carta è l’unicità del Csm, ma che per il resto essa “non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”. Anche per il quesito sul sistema di valutazione dei magistrati, la coerenza tra lavoro parlamentare e voto Sì è evidente: le soluzioni finali proposte, infatti, sono analoghe, rompono l’autoreferenzialità di partenza delle valutazioni. Al di là del coinvolgimento nel quesito anche dei professori universitari e non solo degli avvocati, la vera differenza di natura è la seguente: la riforma Cartabia si realizza tramite delega al governo, mentre quella che risulterebbe dalla vittoria del Sì al referendum sarebbe immediatamente precettiva. Come questa unica differenza di natura possa motivare due atteggiamenti opposti (Sì alla riforma; No al referendum), appare imperscrutabile. Infine il quesito sul sistema elettorale del Csm è l’unico che cadrebbe in caso di approvazione parlamentare della riforma. Proprio per questo, quindi, chi approva la riforma in Parlamento non può con tutta evidenza fare campagna per il No al referendum qualora la riforma non sia nel frattempo arrivata in tempo. Per queste ragioni non solo noi voteremo comunque Sì a quei quesiti, ma soprattutto invitiamo la Direzione del Pd che si apre oggi a evitare di assumere posizioni che ne minerebbero la credibilità riformista proprio su un tema qualificante su cui, come su altri, il Pd sta ben operando in Parlamento. *Presidente e vicepresidente vicario dell’associazione Libertà Eguale Giustizia, il Pd si spacca sui referendum di Aldo Torchiaro Il Riformista, 17 maggio 2022 I riformisti protestano e oggi sono attesi i loro interventi contro la decisione di votare no. Ma Letta cerca in tutti i modi di ricucire con Conte e questo potrebbe essere il terreno favorevole. Compagni democratici, niente scherzi. I referendum si avvicinano e oggi il Pd decide, con una Direzione convocata al Nazareno, le indicazioni da dare. Il momento è solenne e la confusione, sotto il cielo dem, assoluta. Le dichiarazioni sui 5 no di Walter Verini - l’ex responsabile Giustizia che i più ricordavano su posizioni garantiste, migliorista con Napolitano e Lama prima e veltroniano poi - hanno aperto un confronto serrato tra le correnti e i singoli esponenti. Il sentore è che Verini abbia parlato per conto di Anna Rossomando, che uno sgarbo alla magistratura non vuole farlo. Ma anche che ci sia stato un accordo trasversale, auspici lo stesso Verini e Legnini, per ricondurre la partita in Parlamento, scoraggiare il fronte garantista e al contrario permettere all’asse Pd-Cinque Stelle, fiaccato dalla guerra, di ritrovare un terreno comune. Trasformando l’iniziativa parlamentare a sostegno della riforma Cartabia in un muro di No ai referendum, i Dem contraddicono il loro stesso impegno in aula. “Oltretutto sulle cose sovrapponibili non possiamo dire No, perché abbiamo appena detto Sì in Parlamento. Gli elettori e i parlamentari non possono votare in maniera antitetica, si apre un problema enorme”, fa notare Stefano Ceccanti. È vero che non sarà una direzione monotematica ma con diversi punti all’ordine del giorno quella convocata oggi dal segretario PD, Enrico Letta. Dalle alleanze al cammino delle Agorà ma con due temi, si riferisce da fonti dem, prioritari: ribadire il sostegno al governo Draghi fino a fine legislatura e appunto, decidere la posizione del partito sui referendum. La tornata referendaria del 12 giugno, con 5 quesiti in tema di giustizia, finora è stata piuttosto sorvolata dal PD. La posizione dem è composita: Base Riformista voterebbe perlopiù Sì. I Giovani Turchi anche. Ma tanti tra i Lettiani sarebbero tentati di riconoscere le ragioni dei quesiti. Di tre di questi c’è chi tende a dire che finiranno per essere superati dalle riforme civile, penale e del Csm mentre si va verso un No più diffuso sia sull’abrogazione della legge Severino, che per i dem va cambiata e migliorata ma non abolita, sia sulle misure cautelari. In verità sul Csm, il rischio di arrivare al 12 giugno senza che il Parlamento sia riuscito ad approvare la riforma è più che concreto. “Facciamo queste riforme - ha detto ieri il capogruppo Pd in commissione Giustizia al Senato, Franco Mirabelli - in un contesto difficile. Che noi non possiamo ignorare. I referendum dimostrano la volontà di alimentare il conflitto ideologico più che risolvere i problemi. Abbiamo contrastato proposte punitive per i magistrati o di dubbia costituzionalità. Ma questa riforma dell’ordinamento giudiziario è utile e potrà essere migliorata con il contributo di tutti quando discuteremo i decreti attuativi”. Si sta parlando d’altronde di una materia su cui l’intervento in commissione giustizia corre parallelo alla corsa verso le urne. Nel caso della richiesta valutazione dei magistrati da parte degli avvocati, la riforma interviene. Ma lo fa con una legge delega che non è direttamente applicabile finché non c’è il decreto del governo. Dunque, in realtà questa norma a oggi non c’è. Su questa base, a rigor di logica, il referendum bisognerebbe tenerlo lo stesso, perché crea condizioni immediatamente applicabili. Se in Parlamento si è votato per far votare gli avvocati, il quesito determina le condizioni perché a votare siano avvocati e docenti universitari. Ma la sostanza è la stessa. Risulterebbe un po’ difficile spiegare agli elettori dem perché in Parquesito. lamento si è votato in un modo e agli elettori viene chiesto di votare in modo opposto. I passaggi tra chi giudica e chi accusa - che oggi sono quattro - e verrebbero ridotti a uno con la riforma, a zero con il referendum. Per prassi, visto che la materia referendaria è oggetto di riforma, può avvenire che la consulta convochi i promotori del Referendum per chiedere loro se accettano la riforma così com’è, o se insistono per sottoporre il loro quesito agli elettori. Se i Referendari decidono di mantenere il quesito, perché puntano alla separazione integrale delle carriere, come potrà il Pd dire ai suoi elettori di opporsi? “Ognuno farà le sue riflessioni”, ci dicono dal Nazareno. Il confronto sarà a tutto campo, con posizioni trasversali da rispettare; c’è attesa per gli interventi di Matteo Orfini, Andrea Marcucci e Andrea Romano, mentre Giorgio Gori fa sapere di votare Sì a tutti i quesiti. A tirare le somme, Rossomando e Letta. Il segretario cerca di ricucire con Giuseppe Conte, come tutti sanno. Ma potrebbe approfittare dell’occasione per ribadire una posizione garantista autonoma e smetterla di subire - giunto quasi al termine dei cinque anni di legislatura - i diktat dei grillini sulla giustizia. Referendum. Giuseppe Benedetto: “Un sì per una riforma vera? di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 17 maggio 2022 Il presidente della Fondazione Einaudi: “Bisogna riportare l’ordine giudiziario dentro la Costituzione”. È un sì convinto ai cinque quesiti referendari sulla giustizia, quello che arriva dal presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto. Presidente Benedetto, quali sono le ragioni per cui votare sì, il prossimo 12 giugno? “Lo stato della giustizia italiana merita da anni profonde riforme, che riportino l’ordine giudiziario entro i confini voluti dalla Costituzione. Quando un potere occupa spazi che non gli competono è difficile ripristinare l’equilibrio istituzionale, ma la difficoltà della sfida non può scoraggiarci, piuttosto deve essere il presupposto per il moltiplicarsi degli sforzi. Votare sì è necessario per dare un segnale forte ed univoco al Parlamento, che deve assumersi la responsabilità di una riforma sistemica che non può più attendere”. Quanto sono importanti i referendum su cui gli italiani si esprimeranno? “Non vi è dubbio che incidano su alcuni profili rilevanti, tuttavia nutro alcune perplessità sull’adeguatezza dello strumento. Ad esempio, condivido pienamente la separazione delle funzioni tra magistrati, ma la reale separazione delle carriere richiede una riforma costituzionale che porti a due distinti Csm, uno dei giudici e l’altro dei pubblici ministeri. Insomma, servono riforme ampie che il referendum abrogativo per natura non può essere, ma è un ottimo inizio”. Quali sarebbero i benefici per i cittadini, in caso di vittoria del sì? “Il quesito sulla valutazione dei magistrati permette di superare l’autoreferenzialità dei giudizi, positivi nel 99% dei casi, mentre quello sull’elezione del Csm svincola il magistrato da un accordo preventivo tra le correnti. Pienamente da condividere anche il quesito sulla custodia cautelare, il cui abuso è un tratto distintivo del nostro sistema, così come quello sulla legge Severino, che ha condotto alla sospensione di parlamentari e pubblici amministratori, poi assolti nei successivi gradi di giudizio. Non posso che approvare l’ultimo sulla separazione, sebbene abbia già espresso i miei dubbi sulla portata”. Come mai tutto questo silenzio intorno ai referendum? A chi fanno paura i quesiti? “La sua è una domanda retorica, perché sappiamo tutti a chi fanno paura. La magistratura non ha alcuna intenzione di lasciare il potere acquisito nel corso degli anni e tenterà fino all’ultimo di auto-conservarsi. Ne è dimostrazione lo sciopero generale: i magistrati intendono rimanere gli unici funzionari pubblici dello Stato non valutati da nessuno. Certi partiti, invece, stanno in silenzio perché l’abbattimento in via processuale degli avversari politici fa comodo”. Cosa ne pensa, infine, della riforma Cartabia, al vaglio del Senato? “La riforma Cartabia e gli ultimi provvedimenti sono da accogliere positivamente. Abbiamo superato l’aberrante abolizione della prescrizione e finalmente vi sarà un fascicolo del magistrato per valutazioni serie e attendibili. Tuttavia, serve una nuova Assemblea costituente che revisioni in modo organico la parte II della Costituzione, così come proposto a tutti i partiti dalla Fondazione Luigi Einaudi”. Intervista a Luciano Violante di Paola Filippi e Roberto Conti giustiziainsieme.it, 17 maggio 2022 Onorevole Violante, lei è entrato in magistratura nel 1966 e ne è uscito nel 1983. È stato magistrato in un periodo di transizione fondamentale. Da magistrato ha vissuto l’Italia della contestazione degli anni 70, il riflusso degli anni 80 e infine il terrorismo. Com’era la magistratura alla fine degli anni 60 e come era quando l’ha lasciata? Quanto ha cambiato la magistratura l’ingresso delle donne? Luciano Violante: sono stato giudice istruttore sino al 1977, poi all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia sino al 1979, anno in cui sono stato eletto per la prima volta alla Camera. Mi sono dimesso nel 1983, dopo aver vinto la cattedra di istituzioni di diritto e procedura penale. In magistratura c’era una forte divisione tra la componente prevalentemente giovane che si sentiva impegnata per un’applicazione totale della Costituzione e quella prevalentemente più anziana che considerava con sospetto questa tendenza, ritenuta politicizzata. La mia generazione era la prima interamente educata in età repubblicana ed era naturalmente propensa alla innovazione. Aggiunga il più generale spirito modernizzatore di quegli anni. Ci sentivamo portatori di uno spirito diverso dal passato. Eravamo fortemente integrati con l’Università; cito a caso le intense discussioni sui caratteri del diritto nuovo con Stefano Rodotà, Alessandro Baratta, Franco Bricola, Giorgio Ghezzi. Pietro Barcellona, Giorgio Marinucci. Al centro ponevamo la critica alla neutralità del diritto e alla sacralizzazione del ruolo. La più intensa stagione di riforme mai vissuta nella storia repubblicana cancellava l’autorità maritale, l’adulterio della donna, il delitto d’onore, stabiliva che l’adozione serviva per dare una famiglia a un bambino e non un bambino a una famiglia. Lo statuto dei diritti dei lavoratori e il processo del lavoro rovesciavano i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori. Il terrorismo bloccò questo processo. Le divisioni si posero quindi su un altro piano. Tra coloro che ritenevano giuste tutte le misure restrittive, quelli che valutavano caso per caso (io ero tra questi) e quelli che le ritenevano sempre e comunque incostituzionali. Era comunque forte il senso di far parte di una aristocrazia della Repubblica; anche perché questo ti insegnavano i capi migliori. La cortesia, la buona educazione, specie a Torino, erano componenti essenziali della professione. Alcuni intendevano un privilegio corporativo l’essere considerati come un’aristocrazia; altri la intendevano come un sovrappiù di responsabilità. Quanto alle donne, mia moglie é una delle otto prime donne entrate in magistratura. Siamo stati la prima coppia di magistrati e il CSM non sapeva che regole applicare; ci suggerirono di scegliere una grande città; decidemmo per Torino. All’inizio per le donne non fu facile; non c’ertano neanche i bagni per loro. Ma anche in questo campo valeva una distinzione generazionale. È stato pretore mandamentale e poi giudice istruttore, le stesse funzioni di Giorgio Falcone e Paolo Borsellino, una funzione che condivideva il ruolo requirente con quello giudicante, erano altri tempi e il rito era quello del codice Rocco, indagare e poi rinviare a giudizio rendeva i processi meno giusti? Il referendum (che propone l’eliminazione del passaggio) e il DDL in discussione al Senato sulla riforma ordinamentale (che riduce il passaggio ad un’opzione da esercitarsi entro sei anni dalla prima legittimazione) hanno riacceso il dibattitto, mai sopito, sulla separazione dei pubblici ministeri dai giudici. Qual è il suo pensiero in proposito? L’appartenenza all’ unico ordine, quello dell’art. 104 Cost., ritiene possa effettivamente minare l’indipendenza dei giudici e ledere il principio del giusto processo? Luciano Violante: Non ho mai fatto il pretore. Fui prima giudice a latere in tribunale e poi giudice istruttore. Aver fatto l’esperienza della valutazione delle prove mi è stato utile quando ho dovuto raccoglierle. Certo il giudice istruttore che faceva l’istruttoria e poi decideva se assolvere o rinviare a giudizio (e a volte, grazie a un escamotage, esercitava anche l’azione penale) era una figura assolutamente anomala. Credo che la separazione delle professioni sia un errore. A maggiori esperienze corrisponde un migliore bagaglio professionale. In Francia e in Germania, ad esempio, è un merito aver esercitato diverse funzioni. Negli ultimi sedici anni il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto 2 magistrati su mille, quello inverso 3 su mille (compresi passaggi in corte di appello e in Cassazione) secondo lei come può sostenersi che la separazione delle carriere (questo l’effetto dell’introduzione dell’opzione entro un termine), potrebbe influire positivamente sul processo penale? Luciano Violante: Non c’entra nulla. Se si considera l’alta percentuale di proscioglimenti e di assoluzioni, ci si rende conto che quello della subalternità del giudice al pm è un sospetto infondato. In Magistrati, Lei ha affermato che “bisogna fissare il principio dello stare decisis”, invocando anche ragioni di natura economica. Una parte consistente della magistratura, critica aspramente la proposta di riforma ordinamentale che prevede la creazione del fascicolo delle c.d. performance. Si sottolinea che una valutazione parametrata all’esito degli atti e dei provvedimenti, nelle successive fasi rischia di minare l’indipendenza e ingessare il diritto vivente, svuotandone il ruolo propulsivo, fino a introdurre un sistema contrario al dettato costituzionale (art. 101 Cost.) e gerarchico, come lei lo definì nello stesso saggio. Non intravede il pericolo che un sistema di valutazione della professionalità fondato sulle verifiche degli esiti dei procedimenti rischi di produrre l’effetto di trasformare il giudice da interprete dei principi costituzionali e delle carte dei diritti fondamentali a mero ratificatore del precedente per evitare che la sua decisione, magari innovativa, sia censurata e che l’effetto finale sia, per eterogenesi dei fini, quello dell’abbassamento dell’impegno a cambiare la giurisprudenza per la migliore tutela possibile dei diritti fondamentali? Luciano Violante: Sono anche io critico sul cosiddetto fascicolo. È la proposta di chi non sa che cosa è un processo. L’ordinamento che prevede tre gradi di giudizio presuppone che siano possibili valutazioni diverse. Tuttavia ci sono state troppe iniziative penali avventate che hanno distrutto senza fondamento la reputazione e la vita di troppe persone e di troppe famiglie. Gli errori si pagano sempre. E poi, guardi non è che le decisioni innovative siano di per sè corrette. Possono anche essere delle emerite sciocchezze. Lei comunque tocca un punto di fondo. Compito principale del giudice è la riforma dell’ordinamento o l’equa risoluzione dei conflitti? Io penso che la riforma sia compito primario delle istituzioni politiche. Pensi alla vicenda della procreazione medicalmente assistita, alla quale sono seguiti diversi interventi del giudice costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo che ne confermarono pienamente le ragioni di base. Non la considera, paradossalmente, una conferma di quella sua affermazione “Il diritto che non riconosce il valore creativo della contestazione alla legge non progredisce, statico” che Lei stesso scrive in Giustizia e mito, insieme a Marta Cartabia. Non crede che la naturale vocazione del diritto ad implementarsi per effetto dell’interpretazione innovativa dei giudici, al quale concorre quella dei pubblici ministeri degli affari civili costituisca un valore fondamentale dei moderni sistemi democratici? Luciano Violante: Purché il magistrato comprenda che lui non é il sagace inventore di nuove intelligenti interpretazioni, ma il custode della certezza dei diritti. Cito il caso Stamina. Molti uffici giudiziari disapplicarono direttamente il decreto legge Balduzzi, senza ricorrere alla Corte Costituzionale. Fu un abuso grave. Il nostro ordinamento prevede come mezzo per contestare la legge il ricorso alla Corte Costituzionale. Questa è la via per fare evolvere il diritto. In ogni caso tra il puro arbitrio interpretativo e il subalterno ossequio al precedente ci sono molte vie di mezzo. Puoi certamente discostarti da una interpretazione dominante, ma devi spiegarne accuratamente le motivazioni. Nei paesi di common law il giudice è vincolato al precedente non per questo è meno indipendente di un giudice europeo. Il cittadino ha diritto di sapere prima, non dopo, che cosa può fare e che cosa non può fare. Il nostro ordinamento, come altri in Europa, si sta evolvendo verso il diritto giurisprudenziale, che dà centralità alla sentenza piuttosto che alla legge; questo cambiamento esige un di più di responsabilità e di professionalità. E forse anche una riflessione più attenta da parte della stessa magistratura sulle trasformazioni che sono in corso. Lei ha dedicato un libro ai doveri dell’uomo e, nel suo più recente “Senza vendette”, si duole del fatto che la nostra sia un’era che tende verso i diritti senza riflettere adeguatamente sui doveri, tanto cari a Mazzini. Qual è, secondo lei, il dovere più pregnante al quale il magistrato - sia giudice che pubblico ministero- non può e non deve sottrarsi: ricercare la verità, osservare la legge, salvaguardare i diritti? Oppure quale? Luciano Violante: Il dovere di pensare che potrebbe sbagliare. Non pensa che nel dovere di fedeltà alla Repubblica, sul quale pure Lei ha insistito, imponga ad ogni magistrato l’impegno di rendere viva la Costituzione nella infinita varietà delle vicende giudiziarie? Quale potrebbe e dovrebbe essere la sintesi fra diritti fondamentali dell’uomo e certezza del diritto, se mai si possa giungere ad una sintesi? Luciano Violante: Dal punto di vista procedurale lo strumento é sempre il ricorso alla Corte. Ma non basta. Il magistrato acquisisce, attraverso l’esercizio colto, non puramente burocratico, della professione, un complesso di competenze e di valutazioni che lo legittimano come intellettuale capace di affrontare anche sul piano della letteratura scientifica le questioni che lei pone. Ho l’impressione che la magistratura debba riconquistare un proprio protagonismo nella cultura giuridica. Gemma Calabresi, il coraggio del perdono di Cesare Martinetti La Stampa, 17 maggio 2022 Parla la vedova del commissario: “Cinquant’anni fa è stato assassinato. Ogni 17 maggio guardo l’ora e dico: ecco, adesso. Prima di uscire si cambiò la cravatta e mi disse: questo è il simbolo della mia purezza”. Signora Gemma Calabresi, lei sogna suo marito? “Sì. Siamo io e lui in un ristorante, a un certo punto si sente come un’esplosione, io salto in piedi e grido: “Usciamo, usciamo”. Sono spaventata, ma lui mi dice: “Calmati, stai tranquilla, non è successo niente”. Era il suo modo di tenermi serena. Ma nell’immagine successiva del sogno io sono fuori dal ristorante, da sola, arriva un’altra esplosione e io capisco che lui è morto perché non è uscito”. E l’altro sogno? “Siamo io e lui, ci teniamo per mano e scappiamo, ci nascondiamo, siamo inseguiti da qualcuno che ci vuole uccidere, ma mentre scappo io già so che io mi salverò, mentre lui no”. E in questi sogni come vede Gigi? “Devo dire la verità, lo vedo giovane. Io capisco che sono giovane anch’io, ma non mi vedo. All’inizio questi sogni erano disperati, mi svegliavo con il fiatone, con la tristezza, con il magone. Piano, piano è un po’ come se ci avessi fatto pace e ora mi piace fare questi sogni perché così lo vedo. Ed è come se lo ritrovassi”. Quanto siete rimasti insieme? “Meno di quattro anni, non sono riuscita a fare il terzo anniversario di matrimonio: quando è stato ucciso mancavano tredici giorni”. E quindi per lei lui è sempre giovane? “Sì, io adesso ho 75 anni, lui ne aveva 34. Ed è rimasto così”. Cosa penserà questa mattina, alle 9 e un quarto e cioè nel momento in cui 50 anni fa suo marito, il commissario Luigi Calabresi, è stato assassinato? “Come sempre, tutti gli anni, il 17 maggio, al mattino guardo l’ora, chiudo gli occhi e dico: “Ecco, adesso”. Cos’è successo, quel mattino? “Siamo a casa, in cucina, io sto preparando la colazione per i bambini. Ne avevo già due, Paolo e Mario. Il terzo Luigi era nella mia pancia. Stavo aspettando una signora che doveva venire ad aiutarmi in casa. Non la conoscevo, era la prima volta che veniva. Gigi stava uscendo, mi ha dato le solite raccomandazioni, quelle che noi chiamavamo “le regole”, e cioè non dire alla signora che faccio il commissario, quando esci stai attenta che non ti seguano, che non ci siano macchine ferme davanti al portone...”. E quali sono state le ultime parole che ricorda di suo marito? “È venuto da me, aveva la sua giacca nera, i pantaloni grigi, ma prima di uscire si era cambiato la cravatta. Ne aveva una rosa di seta, ne ha messa una di lana bianca. E mi ha chiesto: “Come sto, così?” Io gli ho risposto: “Bene, ma stavi bene anche prima”. E lui mi ha detto: “Sì, ma questo è il simbolo della mia purezza”. E queste sono le ultime parole che mi ha detto”. Una frase impressionante, sapendo adesso che stava per morire. Lei come l’ha interpretata? “In quel momento sono rimasta spiazzata, ma non ho fatto a tempo a chiedergli perché mi diceva quello o che senso aveva. Lui era eternamente in ritardo ed era già uscito. Dopo ho capito: era il suo testamento. Come se avesse voluto dirmi: continueranno a calunniarmi, ma sappi che io sono puro e sono innocente”. Questa dimensione di minaccia incombente quanto ha pesato nella sua vita? “Molto, anche se lui non mi diceva tutto, molte cose le ho scoperte soltanto dopo, certi giornali non li portava a casa e io li ho visti molti anni dopo. Poi io allora avevo i bambini, un daffare enorme, grazie al cielo, perché mi hanno tenuto la mente occupata, il cuore e il resto”. Tutto è cominciato con la morte dell’anarchico Pino Pinelli, precipitato dalla finestra dell’ufficio di suo marito pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana. Lui come glielo ha raccontato? “Lui in quel momento non era nella stanza e quand’è arrivato mi ha raccontato quello che gli avevano riferito. Ne era distrutto, perché un uomo era morto e pensava che aveva moglie e due bambine. Non mi ha mai minimamente detto di ritenere Pinelli colpevole. Anche lui era stato tirato dentro da questo uragano pazzesco”. Ci sono voluti molti anni perché vi incontraste, voi, le due vedove e le famiglie. È successo il 9 maggio 2009 su invito del presidente Napolitano. Cosa vi siete dette quel giorno? “Io pensavo che anche in quella casa il papà non era rientrato: chi più di noi due poteva capire l’altra? Eravamo unite dallo stesso dolore. Ci siamo guardate negli occhi, ci siamo date la mano, ci siamo abbracciate. Io le ho detto: “Finalmente”. E lei mi ha risposto: “Peccato non averlo fatto prima”. Lei ha raccontato in un libro appena pubblicato (La crepa e la luce, Mondadori) il percorso intimo compiuto nei 50 anni che ci dividono dall’uccisione di suo marito. Lei oggi si dice “in pace”. Ma come ci è arrivata? “Sono stati anni lunghi, difficili, con scivoloni indietro… Nei primi mesi avevo una fantasia che facevo in genere nel momento in cui andavo a dormire. Con me c’erano mia mamma, o qualche mia sorella, mi davano sonniferi e allora per un po’ io mi immaginavo di mettermi una parrucca e degli occhialoni e di infiltrarmi in un covo di terroristi, guadagnare la loro fiducia. E immaginavo che un giorno qualcuno a un certo punto si sarebbe vantato: “Ho ucciso io Calabresi…”. E a quel punto lei cosa pensava di fare? “Avrei estratto la pistola che avevo nascosto nella borsa e gli avrei sparato. Questa fantasia, che facevo occhi aperti, prima di addormentarmi, allora pensavo mi facesse stare bene. Ma non è così perché quando uno si crogiola nel dolore e nella vendetta non può stare bene. In realtà sta malissimo. Oggi me ne vergogno molto”. Perché allora l’ha voluto raccontare? “Per far capire a tutti che si può. Dopo un dolore lacerante si può risalire e si può tornare ad amare la vita, si può cambiare il giudizio sulle persone che vedevi solo come male e si può essere ancora felici. Volevo condividere il mio percorso con gli altri”. Quanto tempo ci vuole per arrivare ad accettare l’idea di poter perdonare? “Io ci ho messo anni prima di iniziare il mio cammino. Inizialmente lo facevo un po’ con la testa, poi ho capito che era tempo perso. Anche perché si scivolava indietro, bastava un articolo di giornale, una scritta che tornava sui muri, un documentario televisivo per cadere di nuovo nella rabbia. Poi ho capito che il perdono lo si dà solo con il cuore, non puoi prenderti in giro, il dono si fa con amore. Lo dice la parola, è un dono. Pianino pianino, lo devi fare, ogni giorno un pezzettino, lo devi volere, lo devi scegliere come vita. Io ci sono riuscita anche attraverso la fede”. È necessaria la fede o si può fare anche senza, diciamo in modo laico? “Penso che si possa fare anche da un punto di vista umano. Ma io ho talmente fede che penso che anche quando uno mi dice che ha dato un perdono laico, dietro c’è il buon Dio che ci guida ed è sempre vicino a noi. Per me la fede è stata fondamentale. Dare il perdono ti dà la pace, ti rende libero”. Qual è stato il momento in cui ha cominciato a pensare di poter perdonare gli assassini di suo marito? “Io insegnavo religione e un giorno un mio allievo mi ha chiesto: “Maestra, perché quando uno muore diventa sempre buono? Si parla sempre bene dei morti, muoiono solo quelli bravi?”. Io lì per lì gli ho risposto che era giusto così, perché di una persona bisogna ricordare sempre gli esempi positivi, i suoi valori e non certo l’eventuale male che aveva commesso”. Ed è a questo punto che ha cominciato a pensare in modo diverso? “Sì, perché improvvisamente mi sono detta che anche gli assassini di mio marito non potevano essere soltanto quello che erano stati nel momento in cui avevano ucciso o deciso di uccidere. Ho pensato che dovevano essere anche padri buoni e affettuosi. E l’avevo visto al processo. Ho pensato che potevano aver aiutato tanta gente. E allora li ho separati da quell’atto, perché non avevo diritto di relegarli tutta la vita all’atto peggiore che avevano compiuto. E quindi gli ho restituito la loro dignità di persone, la loro vita con tutte le sfaccettature, facendo il contrario di quello che facevano i terroristi quando uccidevano una persona perché simbolo di qualcosa attraverso la calunnia, gli slogan urlati nelle manifestazioni. Loro disumanizzavano, trasformavano le persone in “cose” e così potevano colpire anche con il consenso del popolo. Io nel mio sentimento, invece, ho fatto esattamente il contrario e li ho resi completamente umani. Ed è stato fondamentale per fare la svolta dentro di me. E da allora non li ho più neanche chiamati assassini”. Anche suo marito era molto religioso? “Sì, molto. Una settimana prima era venuta a cena una nostra amica che congedandosi aveva detto: “Gigi stai attento, è un momento tanto pericoloso, guardati”. E lui gli aveva risposto con il salmo: “Il Signore è il mio pastore, io non manco di nulla”. Questo era il Luigi Calabresi che dipingevano come un assassino. Tra l’altro sembrava sempre che parlassero di un vecchio, ma lui era il più giovane della questura, quando l’hanno ucciso aveva appena 34 anni. Tant’è vero che lo mandavano nelle manifestazioni perché era quello che poteva dialogare di più con i giovani e cercare di capire”. Il nome “Calabresi”, con tutta quella terribile simbologia che si è portato dietro, è stata una delle parole chiave degli Anni 70. Quanto è stato difficile portarlo? “Le dico una cosa: io questo cognome l’ho portato con molto orgoglio, a testa alta. Ai miei figli, prima del processo, avevo detto: riabiliteremo il nome di papà con il nostro comportamento. E li devo ringraziare perché si sono fidati, non sono mai stati aggressivi, hanno accettato le sentenze, nel bene e nel male. E il loro comportamento ha contribuito a dare a Gigi la sua vera figura. Oggi ha un’immagine ripulita dal fango che gli hanno buttato addosso, una figura di uomo onesto, appassionato, che amava il suo lavoro e la sua famiglia. Un servitore dello Stato con la sua cravatta bianca che ha meritato la medaglia al valore civile. E io sono molto contenta perché gli ho ridato la dignità. Posso dire che sono arrivata. Oggi mi sento in pace, libera”. Ma c’è voluto molto tempo perché ci fosse un pieno riconoscimento delle vittime. Ci sono stati anni in cui sembrava che il discorso pubblico fosse dominato dalla memoria dei terroristi. Lei lo Stato lo ha sempre sentito vicino? “Negli Anni 70 ho vissuto momenti di solitudine. Per fortuna avevo i miei bambini piccoli, avevo la mia famiglia che mi ha avvolto: io ero la quarta di sette fratelli e sorelle. Nell’81 mi sono risposata con Tonino Milite che ha preso tutti noi con molto amore e ho avuto un quarto figlio. Nonostante tutto io ho amato la vita. Noi non abbiamo smesso un giorno di parlare di Gigi, anche in modo allegro, con le sue battute e i suoi valori. Però, certo, a quell’epoca, per come l’ho vissuta io, penso che lo Stato fosse impreparato. Poi il presidente Ciampi ci ha dato la medaglia a noi vittime, Napolitano ha spinto per la riconciliazione e Mattarella ha pronunciato parole meravigliose. Molti dicono che tutto questo è arrivato tardi, ma io sono contenta che si sia arrivati, la storia ha bisogno anche dei suoi tempi”. A proposito di tempi, domani 18 maggio, a Parigi ci sarà la prima udienza per l’estradizione di Giorgio Pietrostefani, condannato con Adriano Sofri come mandante dell’uccisione di suo marito. Che sentimento prova? “Ne provo due. Il primo è di giustizia perché finalmente la Francia riconosce le sentenze italiane. Ed è importante: io il mio percorso l’ho iniziato dopo il processo in Italia. Dopo aver avuto verità a giustizia. Ma nello stesso tempo ho pensato a quell’uomo più anziano di me, ha 78 anni, ed è molto malato e mi chiedo che senso ha oggi toglierlo dalla sua famiglia e relegarlo in un carcere a finire i suoi giorni. Sinceramente non mi sento di gioire”. Puglia. Maria Pia Scarciglia (Antigone): “Carceri in grande affanno” di Antonella Annese ledicoladelsud.it, 17 maggio 2022 L’emergenza nelle carceri è ormai all’ordine del giorno. Il quadro che emerge dai dati pubblicati dal XVIII rapporto sulle condizioni della detenzione da parte dell’associazione Antigone, che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, è ancora negativo nonostante i reati in diminuzione. Maria Pia Scarciglia, Avvocato e Presidente Antigone Puglia, spiega quali sono i punti critici del nostro sistema penitenziario. Avvocato, come mai nonostante la diminuzione dei reati negli ultimi due anni si parla ancora di aumento del numero dei detenuti? “Purtroppo il fatto che i reati diminuiscano e la popolazione detenuta no è una triste verità. La questione è che i detenuti presenti nelle nostre carceri hanno tassi di recidiva molto alti. Si è calcolato che il 62% è alla seconda carcerazione. Questo dimostra che lo strumento carcerario non è la giusta risposta penale o per lo meno non può bastare o non è sufficiente a rispondere a diverse esigente sociali o economiche”. Quanto è compromessa la situazione nelle carceri italiane? “Purtroppo la situazione non è per niente buona. Le ultime stime ci dicono che a metà aprile i detenuti erano circa 54.500, di cui 4,2% donne. Un dato interessate riguarda il fatto che gli stranieri permangono nel sistema penitenziario più degli italiani”. Come mai? “Perché molti di loro sono senza fissa dimora e non hanno un luogo di riferimento per gli arresti domiciliari”. Ci sono altri numeri interessanti da analizzare? “Abbiamo un tasso molto alto di detenuti in custodia preventiva in attesa di giudizio, circa il 31%”. Secondo Lei, un simile numero è determinato da un iter di giudizio lento? “Non proprio, l’Italia è tra i paesi che ha il più alto numero di norme. Un’ eccessiva produzione legislativa produce fisiologicamente un ingolfamento della macchina della giustizia. Da questo punto di vista la ministra Cartabia ha colto il senso del problema mettendo in piedi una serie di concorsi per infoltire il comparto della giustizia. Purtroppo però siamo anche un Paese che ricorre moltissimo al carcere rispetto alla media europea”. Può spiegare meglio? “Statisticamente chi finisce in carcere ha un tasso di recidiva più alto rispetto a chi sconta la pena in aerea esterna. Un tempo si diceva che il carcere è una “discarica sociale” ed in effetti i dati lo confermano. Purtroppo è lo scotto che paghiamo per l’assenza di un sistema che azzeri le differenze sociali”. Come si può rimediare? “Sicuramente con la definizione di un sistema di welfare efficace. Crediamo che sia preferibile, laddove possibile, con soggetti con pene brevi, quindi sotto i 3 anni, si debbano utilizzare misure alternative, come sanzioni pecuniarie o diversamente detentive. Solo così si può evitare che i soggetti entrino nei circuiti penali”. Secondo la vostra associazione, cosa dovrebbe fare il Governo per limitare l’emergenza? “Sicuramente rafforzare le misure alternative esterne puntando sul lavoro, la formazione e lo studio. Riteniamo la riforma Cartabia un attimo punto di partenza perché, con quel poco a disposizione, ha potenziato l’area delle detenzioni alternative interessando circa 20.000 persone. Un dato importante che riparte da una visione carcero-centrica che ridà senso alle pene. Chiediamo inoltre che lo Stato si occupi delle persone prima che finiscano in galera”. Per quanto riguarda la vita all’interno del carcere cosa è necessario migliorare? “Bisogna assolutamente recuperare il diritto alla salute, che spesso non è garantito, e puntare su programmi di integrazione perché il carcere non deve isolare ma creare le condizioni per il reinserimento nella struttura sociale”. La pandemia si è abbattuta in maniera inattesa ed ha cambiato alcune dinamiche. Come ha inciso nella vita detentiva? “Dal punto di vista del carcere ha messo a dura prova tutti. Tuttavia devo ammettere che ha costretto le strutture a puntare sulla tecnologia. Sono stati introdotti i computer per permettere le video chiamate e garantire lo studio, tutte novità che per adesso sono state mantenute. Speriamo in un incremento nell’utilizzo di questi strumenti”. Puglia. Carceri: suicidi, violenza ed evasioni. Il sovraffollamento ha raggiunto il +150% di Veronica Manca* ledicoladelsud.it, 17 maggio 2022 La situazione è ormai allarmante: alla denuncia della Polizia penitenziaria, si uniscono anche Antigone e il Garante regionale, evidenziando tutti sia la carenza di agenti, l’insufficienza di risorse, che l’inadeguatezza dei servizi I quotidiani, in queste ultime settimane, ci restituiscono un’immagine preoccupante della salute delle carceri in Puglia: dai due suicidi, in meno di dieci giorni, nella Casa circondariale di Foggia, con entrambi i detenuti che sono stati ritrovati impiccati nella propria cella dalla Polizia penitenziaria; alle aggressioni tra detenuti e verso il personale, all’interno del carcere di Taranto. Non si possono non ricordare poi le evasioni avvenute a Trani e i fatti, violenti, che hanno contraddistinto la prima fase, concitata, della pandemia, con le rivolte a Bari, Brindisi, Foggia, Lecce e Melfi. La situazione è ormai allarmante: alla denuncia della Polizia penitenziaria, si uniscono anche Antigone e il Garante regionale, evidenziando tutti sia la carenza di agenti, l’insufficienza di risorse, che l’inadeguatezza dei servizi. Secondo il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, dal 2021 ad oggi, si sono registrati ben 530 atti di autolesionismo, 5 suicidi, 92 tentativi di suicidio, 322 aggressioni di cui 70 sfociate in lesioni. Anche i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, del resto sono chiarissimi in tal senso: al 30 aprile 2022, sono presenti ben 3.900 detenuti con un sovrannumero di oltre 1.000 unità rispetto ai posti regolamentari. Tale tasso di sovraffollamento, pari al +150%, è un dato eccezionale rispetto alla situazione delle altre regioni, e come è stato annunciato in diverse occasioni, è sicuramente un dato destinato a crescere. La cronicità del sovraffollamento interessa peraltro più strutture: Bari, con 430 detenuti presenti (su 283 posti disponibili), e Foggia con 543 presenze (rispetto a 365 unità regolamentari). I dati più allarmanti si segnalano, tuttavia, su Lecce e su Taranto, con un esubero di oltre 200 unità per struttura (Lecce: con 1.157 su 806 e Taranto con 715 su 500). Ad una visione qualitativa della popolazione carceraria, emerge inoltre che nelle carceri pugliesi vi sono ristrette solo 176 donne (4%), dislocate tra la Casa di reclusione femminile di Trani (46), la Casa circondariale di Foggia (27), la Casa circondariale di Taranto (35) e, nel più alto numero, nella Casa circondariale di Lecce (68). Il numero degli stranieri è assolutamente contenuto, con una presenza complessiva pari al 14,8% (578). Inoltre, il 64,9% (2.532) dei detenuti è recluso in esecuzione di un titolo definitivo; solo il 15% (619) è in custodia cautelare in fase avanzata di appello o cassazione; mentre un 19% (745) di detenuti è in attesa di giudizio di primo grado). Se il dato intramurario dà il segno di un eccesso di carcerizzazione, anche il dato sull’accesso alle misure di comunità desta qualche perplessità: al 30 aprile 2022, solo 6.000 persone risultano in carico agli Uffici Esecuzione Penale Esterna. Il 58% di utenti sta scontando una misura, ma non necessariamente alternativa, dato che da tale numero dovrebbero essere scomputati la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità concessi in fase processuale. *Avvocata e componente Osservatorio carceri dell’Unione Camere Penali italiane Parma. Si suicidò in carcere. Chiesta l’archiviazione, il Gip la respinge di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 maggio 2022 Il detenuto, in precedenza, aveva già provato a uccidersi. Per il giudice occorre individuare i “titolari di garanzia” e verificare se sono stati adottati gli interventi normativi sulla prevenzione del rischio suicidario. Si è suicidato l’anno scorso nel carcere di Parma, inalando il gas del fornellino. La procura ha chiesto l’archiviazione, ma ora il giudice per le indagini preliminari l’ha respinta, chiedendo ulteriori integrazioni per capire se i protocolli siano stati applicati. Anche perché, così risulta dai diari clinici, il detenuto aveva già tentato di uccidersi con il gas. Un caso raro che un gip respinga l’archiviazione, visto che i suicidi in carcere finiscono sempre per deresponsabilizzare lo Stato che ha il dovere di adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Si è tolto la vita dopo 3 mesi di carcere era in attesa di primo giudizio - Parliamo di Drame Ahmadou che il 6 gennaio del 2021 viene tratto in arresto presso la Casa Circondariale di Parma, in attesa di primo giudizio per rapina e resistenza. Alle ore 23 del 19 aprile 2021, un agente di polizia penitenziaria effettua un giro di controllo nella sezione dove è collocata la cella di Drame e nota che “tutto era nella normalità e in particolare il detenuto in oggetto era seduto nella propria camera detentiva a guardare la tv assieme al suo compagno di stanza”. Circa due ore dopo, alle ore 01:20, durante un ulteriore giro di controllo, l’agente nota Drame “disteso a terra supino sul pavimento e il compagno che dormiva sul proprio letto”. L’infermiere e il medico di guardia, subito allertati, prestano il primo soccorso, provano a rianimare Drame senza però riuscirvi: il personale del 118, giunto poco dopo, ne constata il decesso alle ore 02.48. La sorella, tramite l’avvocato Carmelo Portale, si oppone all’archiviazione - Il pubblico ministero, avuto contezza della morte di Drame all’interno del carcere di Parma, affida al medico legale l’incarico di stabilire le cause della morte. Nelle conclusioni della relazione tecnica viene indicato che Drame era deceduto a causa di un “edema polmonare acuto a verosimile genesi cardiaca (evento aritmico/ischemico) compatibile con inalazione di gas”. La pubblica accusa, non rinvenendo elementi obiettivi tali da ipotizzare l’intervento di terzi nel determinismo del decesso, chiede l’archiviazione del procedimento. A quel punto, tramite l’avvocato Carmelo Portale, la sorella del detenuto si oppone all’archiviazione evidenziando che il pubblico ministero si sarebbe limitato a constatare le cause naturali del decesso senza tuttavia indagare un profilo ulteriore, ovvero l’eventuale concorso a titolo colposo di persone terze nella causazione dell’evento. Più precisamente, ha sottolineato che il primo aprile del 2021, venti giorni prima dell’evento suicidario, il detenuto aveva già posto in essere una condotta simile, inalando del gas da un fornellino della cella; ciò avrebbe dovuto condurre l’organizzazione carceraria, su cui grava una posizione di garanzia, a eliminare il fornelletto o comunque a sostituirlo con uno elettrico e privo di rischi. Aveva già tentato di uccidersi sempre inalando gas dal fornellino - Sempre la parte offesa ha evidenziato che la psicologa aveva visitato Drame proprio nella giornata del primo aprile, non rilevando elementi indicativi di rischio suicidario. Allo stesso modo, il 22 febbraio del 2021, la psicologa descriveva il paziente come “maggiormente sereno”. Tali valutazioni, secondo l’opponente connotate da imperizia, avrebbero impedito alla struttura penitenziaria di approntare misure idonee a salvaguardare l’incolumità dello stesso. Non solo, ha evidenziato che le condizioni organizzative dell’istituto penitenziario di Parma erano carenti sotto il profilo della mancanza di personale, cosa che avrebbe determinato inevitabili ricadute sulla vigilanza dei detenuti. Sulla scorta di tali considerazioni viene fissata l’apposita udienza, ed è emerso dalle cartelle cliniche che il detenuto, fin dall’incarcerazione, è stato seguito attivamente da un’equipe di medici che ha svolto nel primo mese una serie di colloqui, tesi ad individuare la corretta terapia farmacologica e a verificare la presenza di eventuali volontà autolesive, anche a fronte dei pregressi tentativi suicidari emersi dalle dichiarazioni di Drame. Dalla cartella clinica emerge che, per ben quattro volte nel corso di tale periodo, al detenuto è stata posta attenzione alla presenza o meno di progettualità autolesiva. Nonostante che Drame dichiarasse alla psicologa uno stato di serenità e fosse motivato alla possibilità di iniziare un percorso comunitario, ha tentato di uccidersi inalando il gas del fornelletto. Il medico di turno, riferiva che il soggetto era “critico per il gesto compiuto che non intende ripetere”. Ma così non è stato. Venti giorni dopo, nella notte, ripete il gesto e muore. Nell’ordinanza del gip, si legge che tale evento si è verificato all’interno di una camera detentiva dove Drame era sotto la custodia e la sorveglianza del personale dell’istituto penitenziario, quindi “sussiste certamente la posizione di garanzia degli operatori a cui il detenuto/paziente era affidato con relativa presa in carico dello stesso”. Pur in presenza di tale posizione di garanzia, si evidenzia che tale posizione “non implica un automatico addebito della responsabilità colposa per il prodursi dell’evento, in forza del principio della verifica concreta sia della prevedibilità ed evitabilità del medesimo, che del nesso causale tra l’omissione e l’evento”. Il gip, però, aggiunge che affinché possa essere svolta tale verifica concreta, “è necessario appurare chi sono i titolari della suddetta posizione di garanzia e quali regole cautelari sono fissate a loro carico”. Per rispondere in modo puntuale a tale duplice quesito, occorre - scrive il gip - “che venga svolta una integrazione delle indagini acquisendo agli atti del fascicolo il “Protocollo di prevenzione del rischio suicidario in Istituto” adottato nel luglio 2019 da Ausl ed istituti penitenziari di Parma. La prevenzione del rischio suicidario è, infatti, oggetto di plurimi interventi normativi”. Entro quattro mesi la procura di Parma dovrà svolgere ulteriori accertamenti - Il gip, quindi, elenca i vari decreti e accordi in merito alla prevenzione dei suicidi in carcere. Tra questi, cita la Circolare n. 11 del 2014 del Direttore generale sanità e politiche sociali della Regione Emilia Romagna sulla prevenzione del rischio autolesivo e suicidario in carcere e nei servizi minorili; l’Accordo 26 ottobre 2017 tra il Governo, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali sul documento recante “Piano nazionale per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario nei servizi residenziali minorili del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità”; la Circolare n. 11 del 14 dicembre 2018 della Direzione generale Cura della persona, salute e welfare della Regione Emilia-Romagna contenente il “Piano regionale di prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti-linee guida 2018”. Proprio all’interno di quest’ultima circolare si prevede che “tutte le strutture penitenziarie si devono dotare di un Piano Locale che costituisca la declinazione operativa del presente Piano regionale e dell’Accordo nazionale citato, in linea con le indicazioni dell’Oms”. Vengono inoltre stabilite le linee - guida in ordine ai vari grading di rischio ed ai relativi interventi da predisporre. Il gip, sottolinea che solo da un’analisi del suddetto protocollo adottato nel luglio 2019 da Ausl ed istituti penitenziari di Parma si potrà quindi comprendere quali fossero le regole cautelari specifiche da seguire nel caso del detenuto Drame e chi fossero i destinatari delle stesse. Al fine poi di comprendere se e come il suddetto protocollo sia stato seguito e attuato nel caso che ci occupa, il gip indica che vengano acquisite le dichiarazioni, tramite audizione o specifica nota/relazione del Dirigente aggiunto di Polizia Penitenziaria che, in qualità di Comandante delegato dal Direttore degli Istituti penitenziari di Parma, ha trasmesso alla Procura della Repubblica di Parma il rapporto e le conclusioni del tragico suicidio. Ora, entro quattro mesi, la procura di Parma dovrà fare tutti questi accertamenti. Viterbo. Detenuto suicida in cella: chiesto rinvio a giudizio per sanitari e agenti corrierediviterbo.it, 17 maggio 2022 Omicidio colposo per il suicidio in carcere di Andrea Di Nino: chiesto il rinvio a giudizio per 3 dei 4 indagati, appartenenti ai vertici, al personale sanitario e alla Polizia penitenziaria della casa circondariale viterbese. Avanzata invece una richiesta di condanna a 4 mesi di reclusione per l’unico che scelse, tramite il proprio difensore, e ottenne, di essere giudicato con il rito abbreviato. Queste le richieste che il pm Michele Adragna ha avanzato durante l’udienza preliminare che si è celebrata ieri davanti al gip Giacomo Autizi, che è stata interamente riservata alla requisitoria del pubblico ministero. Si tratta dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Viterbo che riguarda il fascicolo aperto per omicidio colposo, a seguito della morte di Andrea Di Nino, il detenuto romano di 36 enni che il 21 maggio del 2018 si tolse la vita impiccandosi nella cella di isolamento del carcere di Mammagialla. In tutto sono 13 i parenti del detenuto costituitisi parti civili nel dibattimento e riconosciuti come vittime: 8 fratelli e i 5 figli. A coordinare le indagini i pm Michele Adragna e Stefano D’Arma, i quali hanno tracciato diversi profili di colpa per ciascun indagato. Erano circa le 22 del 21 maggio di 4 anni fa quando Andrea Di Nino fu rinvenuto esanime. Il 36enne, all’epoca, stava scontando una condanna di 2 anni nel penitenziario sulla Teverina per possesso di sostanze stupefacenti e mancava meno di un anno alla sua scarcerazione. Alcuni mesi prima del gesto drammatico, esattamente il 13 dicembre 2017, Andrea Di Nino, appoggiato da altri tre detenuti, nel corso di alcuni disordini scoppiati nell’infermeria avrebbe minacciato un assistente capo della polizia penitenziaria, aggredendolo verbalmente e pertanto avrebbe dovuto rispondere delle accuse di minacce e oltraggio a pubblico ufficiale, in concorso con gli altri 3 carcerati, reato che fu considerato estinto con la morte del 36enne a ottobre 2019, quando prese il via il processo che vide imputati soltanto i compagni di prigione, che si concluse con due condanne a 6 mesi di reclusione. Si tornerà in aula il 6 giugno per le arringhe, mentre per il 20 giugno è attesa la decisione sul rinvio a giudizio. Ascoli. I detenuti denunciano le violenze in carcere. “Svegliati a manganellate” di Nello Trocchia Il Domani, 17 maggio 2022 I fatti sarebbero accaduti nell’istituto della città marchigiana pochi giorni dopo la rivolta avvenuta nella casa circondariale di Modena. “Picchiati molti stranieri”. “Individuate gli eventuali responsabili delle violenze che sarebbe state commesse da alcuni agenti della polizia Penitenziaria a danno di alcuni detenuti”. È la richiesta che arriva dall’associazione Antigone, in un esposto presentato in questi giorni alla procura marchigiana alla luce delle testimonianze rese dai detenuti reclusi nella casa circondariale, nel marzo 2020. Un fascicolo è già aperto contro ignoti e prende l’abbrivio proprio dal racconto degli ospiti del carcere nel periodo iniziale dell’emergenza pandemica, tutti detenuti che erano stati trasferiti ad Ascoli da Modena dove, nel carcere Sant’Anna, c’era stata una violenta rivolta. “Individuate gli eventuali responsabili delle violenze che sarebbe state commesse da alcuni agenti della polizia Penitenziaria a danno di alcuni detenuti”. È la richiesta che arriva dall’associazione Antigone, in un esposto presentato in questi giorni alla procura di Ascoli Piceno alla luce delle testimonianze rese dai detenuti reclusi nella casa circondariale, nel marzo 2020. Un fascicolo è già aperto presso la procura marchigiana e si fonda sul racconto dei reclusi del carcere nel periodo iniziale dell’emergenza pandemica. Gli avvocati hanno scoperto l’esistenza di un fascicolo dalla consultazione degli atti, un fascicolo modello 44, iscritto contro ignoti. Le testimonianze dal quale si origina sono quelle dei detenuti trasferiti ad Ascoli da Modena dove, nel carcere Sant’Anna, c’era stata una violenta rivolta. All’inizio della pandemia le carceri italiane sono teatro di rivolte, a Modena viene devastata una parte del penitenziario, ma soprattutto muoiono 9 detenuti per assunzione di un mix letale di farmaci dopo l’assalto alla farmacia dell’istituto. Le indagini di Modena - A Modena, nel carcere Sant’Anna, l’8 marzo 2020, i detenuti hanno inscenato una rivolta violenta che è stata arginata dagli agenti della polizia penitenziaria, intervenuti per “riprendere” il controllo del carcere. Per i fatti accaduti in quelle ore la procura ha aperto tre fascicoli. Uno per le devastazioni compiute dai detenuti, un altro per la morte di nove reclusi e, infine, uno per le violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta. La prima indagine è ancora in corso. La seconda inchiesta è stata archiviata perché i detenuti sono morti, secondo i risultati delle indagini, per overdose di metadone e non sono emerse altre responsabilità. Contro l’archiviazione del fascicolo è stato presentato un ricorso, poi respinto. L’inchiesta relativa alle violenze sui detenuti è, invece, nella fase delle indagini preliminari, sul registro degli indagati ci sono 4 agenti della polizia penitenziari, coinvolti per i reati di lesioni e tortura. Un fascicolo che è stato aperto dopo la presentazione di diversi esposti da parte di Antigone e di alcuni detenuti. Le indagini di Modena si intrecciano con quelle della procura marchigiana. Le violenze denunciate dai detenuti nel carcere di Ascoli Piceno emergono dalla lettura di alcuni atti relativi alla morte di uno dei reclusi trasferiti da un carcere all’altro: Salvatore Piscitelli. La morte di Piscitelli - Un procedimento penale è stato aperto dalla procura di Ascoli per ricostruire le ore precedenti la morte del detenuto. Piscitelli era stato pestato, emerge dall’autopsia e dalle testimonianze, ma muore per aver assunto un mix letale di sostanze e, secondo i pubblici ministeri, anche nel ritardo nei soccorsi non è configurabile alcun reato. Contro questa archiviazione ha presentato ricorso proprio Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi. Nel fascicolo dell’inchiesta, nata per ricostruire eventuali responsabilità nella morte di Piscitelli, vengono allegati gli interrogatori di diversi detenuti. I reclusi, ascoltati come persone informate sui fatti, dopo la presentazione di un esposto, hanno denunciato sia violenze e pestaggi che avrebbero subito sia di cui sono stati testimoni. Così si arriva all’indagine della procura di Ascoli e al nuovo esposto di Antigone che prende spunto proprio dalla lettura delle testimonianze depositate nel fascicolo Piscitelli. L’associazione chiede alla procura marchigiana di individuare i responsabili della mattanza tra il personale della polizia penitenziaria. Ora c’è un fascicolo contro ignoti dei magistrati di Ascoli, che dovranno riscontrare le dichiarazioni prima di decidere se proseguire nell’inchiesta. Ma cosa raccontano i detenuti? Torniamo a quelle ore quando i reclusi vengono trasferiti da Modena ad Ascoli. È la notte dell’8 marzo. Il racconto dei detenuti - Claudio C. racconta, il 18 dicembre 2020, la prima mattina nell’istituto di pena, un risveglio a colpi di manganello. “Prima della conta che si fa verso le otto, otto e qualcosa (…) è arrivata su la squadretta, otto-nove appuntati, casco, scudo e manganello. Sono partiti dal lato destro (…) cella per cella, ‘Collega, apri qua’, entravano si sentivano solo le urla dei detenuti (…) Certo il personale di Ascoli Piceno. Cella per cella. Non ne hanno saltata una, cioè tranne qualcuna di noi italiani, agli stranieri non hanno saltato una cella”, spiega ai pubblici ministeri di Modena che lo ascoltano, prima che gli atti prendano per competenza la strada della procura ascolana. Gli stranieri venivano massacrati, ma non tutti gli italiani si salvano dalle botte. “La mattina sono venuti e ci hanno picchiati (…) il giorno invece sentivo urlare altri, altri ragazzi delle altre stanze (…) Poi dopo sono ancora tornati, ma senza più i manganelli, solo con gli schiaffi. Per ricordarci che noi eravamo pezzi di merda, figli di puttana”, dice Bianco F. Le testimonianze sono convergenti, i detenuti presentano l’esposto solo a dicembre per paura di ritorsioni. “Invece nei giorni successivi, non ricordo se il 10,11,12 o 13 marzo, siamo stati picchiati tutti, me compreso, dagli agenti della polizia Penitenziaria del carcere di Ascoli Piceno. Ricordo che gli agenti, in quei giorni, passavano, non ricordo se di mattino o di pomeriggio, ma passavano e aprivano le celle, tutti muniti di sfollagente, casco protettivo e scudo, e ci picchiavano col manganello, colpendoci ripetutamente su tutto il corpo, per più minuti (...) A me personalmente è accaduto almeno due volte e sono entrambe avvenute nei primi giorni di detenzione”, dice Belmonte C, ascoltato il 24 giugno 2021. “La maggior parte delle persone che venivano picchiate erano stranieri (...) a un detenuto albanese, che noi chiamavamo Gas, ma non so dire quale fosse il suo vero nome, una mattina hanno rotto la mano, tra il mignolo e l’anulare”, dice Nicola T. ai magistrati, il 19 dicembre 2020. L’accoglienza, a colpi di manganello, raccontata dai detenuti ospiti del carcere di Ascoli Piceno è il seguito di quanto accaduto a Modena dove i reclusi raccontano di aver subito altre botte: il pestaggio nello stanzone. Roma. La rivolta a Rebibbia per i colloqui in pandemia: il pm chiede 42 condanne di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 17 maggio 2022 “Capiamo la frustrazione e la paura per il virus ma vi furono anche contestazioni pacifiche” ha detto il pm. Le prove dei reati in cinque dvd depositati al processo. Materassi dati alle fiamme. Medicinali saccheggiati dall’infermeria. Aree comuni messe a ferro e fuoco. Minacce di morte alla polizia penitenziaria. Perfino un ispettore sotto sequestro. A due anni dalla rivolta di Rebibbia che terremotò il reparto G11, e inaugurò un lockdown incendiario nei penitenziari della penisola, ecco le richieste dell’accusa al processo: quarantadue condanne e tre assoluzioni. “Noi capiamo la frustrazione per i colloqui con i familiari che furono sospesi per il Covid e capiamo anche che ci si sentiva in pericolo per un virus sconosciuto e minaccioso - dice nell’aula bunker il pm Francesco Cascini- ma vi furono anche contestazioni pacifiche come quella avvenuta al reparto femminile di Rebibbia dove ci si limitò a far rumore percuotendo le sbarre”. L’uso della violenza è la vera discriminante insomma, per i pm. Gli abusi sono altra cosa dalla rivendicazione pacifica dei propri diritti, sottolinea l’accusa. Il processo poggia su cinque Dvd che ricostruiscono il film della rivolta. Ore ed ore di riprese. Immagini delle devastazioni, degli incendi e delle violenze, fissate da differenti angolazioni a completare il quadro delle testimonianze raccolte dal personale della polizia penitenziaria all’indomani dei fatti. Inutile da parte dei rivoltosi il tentativo di coprirsi il volto per proteggersi dalle telecamere a circuito chiuso: molti erano stati riconosciuti dai tatuaggi sul corpo. Sulla base di quelle immagini il pm ha ricostruito l’esistenza di tre diversi gruppi di partecipanti: il primo che potrebbe essere definito dei promotori, fra cui i detenuti Marco Gallorini e Matteo Schiavi per i quali sono stati sollecitati 8 anni di carcere. Un secondo poo l formato da protagonisti attivi senza essere i registi della contestazione. E un terzo gruppo di spettatori partecipi ai quali vengono contestati reati più lievi, come le devastazioni. Erano i giorni drammatici delle prime misure anti Covid che cominciavano a circolare sotto forma di bozze di decreto della presidenza del consiglio. Il 6 marzo esplose la protesta. In parallelo, fuori dal carcere, i familiari dei detenuti inscenavano contestazioni (spesso scenografiche) lungo la Tiburtina. Il 9 marzo, grazie anche a un comitato al quale presero parte alcuni avvocati (fra cui Diamante Ceci), le contestazioni rientrarono ma la conta dei danni fu davvero drammatica. Rebibbia contagiò altre realtà. Vi furono proteste nei penitenziari di Modena e Pavia ad esempio ma anche in altre carceri minori. Il 15 luglio ci sarà la sentenza. Salerno. Detenuto psichiatrico, rimbalzo di competenze per il programma di supporto di Petronilla Carillo Il Mattino, 17 maggio 2022 Aveva solo 12 anni quando fu sottoposto alla prima perizia psichiatrica che evidenziò “condotte aggressive, scarso rendimento scolastico, disturbo della socializzazione e della personalità emotivamente instabile”. Poi, con il trascorrere degli anni, prima l’uso di alcol in età giovanissima e poi di cocaina, hanno portato ad un peggioramento delle sue condizioni. Tanto che, proprio per dare soddisfazione alle sue esigenze di droga e anche di gioco, ha iniziato a commettere reati che lo hanno portato in carcere. Ma, anche qui, la vita per lui non è stata semplice. Vittorio B., oggi 28enne, residente a Boscoreale, ha cambiato diversi istituti penitenziari perché, come scrivono i giudici del tribunale di Sorveglianza, insofferente “alle regole inframurarie e allo status detentivo”. Tant’è che è stato sottoposto a misure di punizione per la sua litigiosità, con detenuti ed agenti, e per aver rifiutato alcuni percorsi educativi. Ora Vittorio è ristretto nel carcere di Fuorni dove, proprio di recente, un altro detenuto con problemi psichiatrici è morto dopo una lite con alcuni agenti, evento che ha fatto scattare anche una inchiesta della procura di Salerno con l’iscrizione di due poliziotti penitenziari nel registro degli indagati. Il suo legale, l’avvocato Pierluigi Spadafora, che da poco ha assunto la sua difesa, proprio per “tutelare” il ragazzo, che deve restare in cella fino ad ottobre del 2023, ha chiesto all’Asl di competenza l’elaborazione di un programma di supporto terapeutico neuro-psichiatrico per consentire al 28enne di uscire dal carcere, andare in affido in prova ai servizi sociali e iniziare un percorso di recupero psichiatrico con conseguenziale reinserimento sociale. Mai, però, il legale si sarebbe aspettato un rimbalzo di competenze. Le richieste si racchiudono tutte in una manciata di giorni (dal 5 al 10 maggio) durante i quali è emerso un rimbalzo di responsabilità tra il Dipartimento di Salute mentale del distretto 56 dell’Asl Napoli 3 e lo stesso distretto Asl. Tutte espresse, nero su bianco, in uno scambio di pec con il legale. E questo perché, il Dsm, lo stesso che ha redatto la perizia ed autorizzato la pensione di invalidità in quanto “non abile allo svolgimento di attività lavorativa” ha rinviato la pratica all’Asl ritenendo che le condizioni del 28enne, certificate da due perizie e da un provvedimento del tribunale di Sorveglianza, “non corrispondono ad un intervento di presa in carico”, consigliando all’avvocato Spadafora di rivolgersi alla Asl. Questa, dal canto suo, ha rinviato la responsabilità al Dsm in quanto “il soggetto è già stato preso in carico dal Dipartimento”. Intanto il 28enne resta in cella. Non ha rapporti con gli altri detenuti, è irascibile e a stento riesce a sostenere anche un colloquio con il suo legale. “Il carcere - commenta l’avvocato Pierluigi Spadafora - dovrebbe avere una funzione rieducativa. Abbiamo certificazioni del fatto che il mio assistito è insofferente a questo regime, tanto da essere finito anche al pronto soccorso per un litigio con un compagno di cella, e soprattutto che ha delle gravi patologie. Cosa si aspetta? Che ci siano altre tensioni nell’istituto penitenziario? Oppure che lui, a fine pena, esca e torni a fare ciò che faceva prima? Magari si attende che ci scappi il morto, visto che è certificata non solo la sua aggressività ma anche il suo autolesionismo?”. Quindi: “In questo strano giro di pec, non intravedo soluzioni... Eppure si tratta di un soggetto che ha bisogno di cure. Invece, vengono offerte soltanto sterili consulenze. E così rischiamo di rimettere in libertà una persona che ha delle problematiche serie, senza pensare a curarlo. Stiamo parlando di patologie psichiatriche”. Il legale è pronto a portare la questione all’attenzione del ministro della Giustizia e di quello della Sanità. Roma. Lavori pubblica utilità: rinnovata convenzione Tribunale-Comune di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 17 maggio 2022 Il Tribunale di Roma e il Dipartimento politiche sociali e salute del Comune di Roma hanno rinnovato il 6 maggio 2022 la convenzione per lo svolgimento, da parte di imputati, di lavori di pubblica utilità. È proprio grazie alla proficua collaborazione in materia di giustizia riparativa nata fra i due enti che l’accordo - stipulato per la prima volta nel 2007 e successivamente confermato nel 2012 e infine nel 2017 - proseguirà per altri cinque anni. Firmato dal presidente del Tribunale, Filippo Reali, e dall’Assessore alle Politiche sociali, Barbara Funari, prevede che, fino ad un massimo di 500 soggetti per annualità, possano svolgere lavori di pubblica utilità, laddove il giudice, verificata la sussistenza delle condizioni necessarie, sentito il PM e su richiesta dell’imputato, ritenga di poter applicare la misura in sostituzione delle pene detentive o pecuniarie previste. Allo stesso modo vi può accedere l’imputato nei confronti del quale il giudice decida di sospendere il procedimento, disponendo la messa alla prova. Ingresso della Procura di Roma - L’istituto della messa alla prova, anche per la tipicità che caratterizza i soggetti interessati, rafforza la finalità riparativa già prevista nell’affidamento in prova (lavoro di pubblica utilità, volontariato di rilievo sociale e mediazione con la persona offesa), conferendole particolare rilievo quale obiettivo specifico teso ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato e ad assicurare, ove possibile, il risarcimento del danno. Le attività lavorative, che dovranno essere prestate in favore della collettività e non saranno retribuite, potranno essere svolte in favore di organizzazioni che prestino assistenza nei confronti di tossicodipendenti o alcoldipendenti, persone con disabilità, anziani, minori o stranieri; che si occupino della tutela del patrimonio ambientale, culturale, archivistico o, ancora, beni del demanio, ospedali o case di cura. L’elenco degli organismi e degli enti in questione sarà curato e aggiornato da Roma Capitale e inviato al Tribunale di Roma e al corrispondente Ufficio per l’esecuzione penale esterna. Potranno accedere a quanto previsto dalla convenzione i soggetti che risiedano nel Comune di Roma o coloro che siano stabilmente domiciliate nella città per motivi di studio o di lavoro: il collegamento fisico con il territorio è una delle condizioni che saranno prese in esame per l’inserimento del soggetto nel programma. Milano. “Un’energia contagiosa” ma il Beccaria è tutto esaurito di Marianna Vazzana Il Giorno, 17 maggio 2022 La visita del ministro Cartabia che ha apprezzato le attività per la rinascita. Da mesi non c’è più posto al carcere per i minorenni. Ora ospita 37 detenuti. Una penna. La cercava ieri un giovane detenuto per scriversi sul braccio il nome di una ragazza appena conosciuta. Una volontaria. Niente smartphone in tasca e l’inchiostro torna amico. Una scena che fa riflettere su cosa significhi stare “dentro” e su cosa rappresenti per un adolescente. Una scena marginale ma significativa durante una giornata importante all’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria che ha accolto il ministro della Giustizia Marta Cartabia: ha potuto guardare da vicino i frutti del progetto “Palla al centro” promosso dalla Fondazione Francesca Rava. Una palestra riqualificata e quattro aule rimesse a disposizione nell’ex palazzina femminile per un corso di grafica e web design, più un laboratorio di arte. Poi l’aula di informatica, gestita da volontari di Microsoft Italia, teatro di corsi digitali. “La forza di questa iniziativa è nella capacità di contagiare tutti con energia positiva”, ha evidenziato il ministro, ispirata dal quadro creato e donatole dai ragazzi: “C’è buio. Ma qualcuno ha acceso una candela che porta luce ed energia raggiungendo anche i punti più periferici: Fondazione Rava è così. E la giustizia stessa è un volto amico che dà una seconda possibilità”. Il buio ha abbondato nell’ultimo anno: arrestati dalla Polizia di Stato nella provincia di Milano 325 giovani dai 14 ai 20 anni per rapina in strada. Quasi uno al giorno. E il Beccaria continua a essere al completo: oggi sono 37 i ragazzi (la capienza è di 36). Si lavora per costruire un ponte tra “dentro” e “fuori” con percorsi di rinascita. “Grazie alle attività - evidenzia Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Rava - i ragazzi capiscono che c’è un’alternativa ai reati che hanno commesso. La percentuale più alta è quella dei reati contro il patrimonio. Molti dei giovani che prendono strade sbagliate vivono in situazioni di povertà: si intervenga per aiutare le famiglie”. E nel lockdown “alcuni hanno sviluppato una dipendenza da social che ha portato a un’astrazione dalla realtà”. A non distinguere la violenza “vera” da quella virtuale. Progetti come “Palla al centro” aiutano a tornare in carreggiata ma anche “a ridurre - sottolinea il direttore del carcere Fabrizio Rinaldi - la sensazione di abbandono”. I prossimi corsi saranno di jujitsu e arte; in lista anche la riqualificazione dell’area verde e due campus in collaborazione incursori e palombari di Comsubin della Marina Militare. Tra gli intervenuti: Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni, il prefetto Renato Saccone, la vicepresidente della Regione e assessore al Welfare Letizia Moratti, l’assessore al Welfare del Comune Lamberto Bertolè. Livorno. “Kutub Hurra”, libri in arabo per i detenuti iltelegrafolivorno.it, 17 maggio 2022 Dalla Tunisia in arrivo volumi per gli arabofoni. Fino ad ora avevano a disposizione solo il Corano. “Kutub Hurra. Libri a Porti Aperti”. Firmata la convenzione tra il Direttore delle carceri di Livorno e dell’Isola di Gorgona, il Garante delle persone private della libertà del Comune di Livorno e l’associazione Un Ponte Per; una convenzione che avvia la prima importante parte del progetto, ovvero l’arrivo dalla Tunisia di libri in arabo nelle carceri toscane. I libri sono donati dall’associazione tunisina in memoria di Lina Ben Mhenni (Association Lina Ben Mhenni), l’attivista protagonista della Rivoluzione dei Gelsomini che in Tunisia aveva raccolto moltissimi libri con l’obiettivo di portarli nelle carceri del Paese. La collaborazione tra l’Association Lina Ben Mhenni e Un Ponte Per ha ridato una seconda vita a questi libri con un viaggio attraverso il Mediterraneo, un mare ridotto oggi ad un non-luogo di morte. Il progetto si prefigge di ripensare lo spazio mediterraneo come un luogo di connessione, scambio culturale e cooperazione per la pace dei popoli. Grazie a questa convenzione - merito della collaborazione tra Un Ponte Per, ARCI Livorno, CESDI e il Garante dei Detenuti - i libri entreranno in carcere e potranno essere finalmente fruiti dai detenuti arabofoni, in ossequio alla funzione riabilitativa della pena come disposto dall’art.27 della Costituzione italiana. Non c’è riabilitazione possibile senza cultura, formazione, condivisione. La privazione della libertà non può e non deve coincidere con la privazione della cultura. I detenuti arabofoni in Italia rappresentano la comunità linguistica maggiore - dopo quella italofona - nelle nostre carceri (dati XVIII° Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione). Nonostante ciò, spesso i detenuti hanno accesso solo al testo del Corano come lettura nella propria lingua madre. Portare altri libri in arabo significa poter fare attività culturali, formazioni e scambi, dando il diritto anche a chi non parla l’italiano di avere opportunità di lettura diverse e creare un clima carcerario inclusivo. Al progetto collaborano l’associazione Mangwana e l’associazione Controluce (che già svolge attività nel carcere di Pisa) grazie alla quale c’è speranza di estendere l’ingresso dei libri anche nel carcere pisano. Roma. Le attrici di Rebibbia, dal carcere al lavoro grazie al teatro di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 17 maggio 2022 Le attrici del reparto femminile di Rebibbia per la prima volta fuori dal carcere con lo spettacolo “Ramona e Giulietta”. Progetto di inclusione e reinserimento anche lavorativo attraverso il teatro con il progetto “Le donne del muro alto” di Francesca Tricarico. Ramona e Giulietta è la riscrittura tragicomica di uno dei più grandi classici shakespeariani. Uno spettacolo tutto al femminile scritto e allestito all’interno della Casa Circondariale Femminile di Roma Rebibbia. Una storia d’amore e di rabbia, che racconta il carcere con i suoi tempi e spazi, le sue privazioni, a cominciare dall’affettività negata. Un pretesto per riflettere su quanto il carcere sia una potente lente d’ingrandimento della società e per scardinare quello che ancora oggi è un tabù fuori e dentro le mura carcerarie, l’amore tra due donne. Mercoledì 18 maggio lo spettacolo si sposta fuori dalle mura dell’istituto per una grande prima serale romana, presso lo Spazio Rossellini, in via della Vasca Navale 58 a Roma, con il sostegno delle Officine di Teatro Sociale della Regione Lazio, della Fondazione Severino e della Fondazione Cinema per Roma. Scritto e diretto dalla regista Francesca Tricarico con le attrici detenute della casa circondariale femminile di Rebibbia che hanno aderito al progetto “Le Donne del Muro Alto”, Ramona e Giulietta è interpretato dalle stesse attrici che oggi continuano a portarlo in scena da donne libere o semilibere, ammesse alle misure alternative alla detenzione. Donne che attraverso il teatro hanno l’opportunità di lavorare e abbattere lo stigma sociale legato alla detenzione e ancor più alla detenzione femminile, di fare sentire la propria voce e quella delle loro compagne ancora recluse. “Siamo alla prima rappresentazione serale romana fuori dal carcere - spiega Francesca Tricarico, regista e coordinatrice del progetto - ed è un evento importante per le attrici che si confronteranno con un pubblico probabilmente diverso rispetto alle precedenti rappresentazioni. Il teatro per noi è un ponte fondamentale tra il dentro e il fuori; e a maggior ragione nella difficile fase del post detenzione rappresenta uno strumento forte di inclusione lavorativa e sociale. È il luogo che meglio di ogni altro, creando un incontro emotivo tra attori e spettatori, consente di dimostrare che non esiste un noi e un loro, che il carcere è parte della società”. Il progetto “Le Donne del Muro Alto”, partito nel 2013, è divenuto nel 2021 un vero e proprio percorso di accompagnamento all’inclusione sociale e lavorativa nella fase del ritorno nella società civile dopo un’esperienza detentiva. L’associazione Per Ananke si occupa della diffusione della cultura teatrale e artistica con particolare attenzione ai luoghi di disagio sociale, dal 2013 è impegnata nella realizzazione di laboratori teatrali nella Casa circondariale Femminile di Rebibbia, dal 2020 all’esterno con donne ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione, dal 2022 anche nella Casa Circondariale di Latina sezione Alta Sicurezza. Fa parte del coordinamento nazionale Teatro in carcere e dal 2018 le sue produzioni teatrali legate alle attività in carcere sono presenti alla Festa del Cinema di Roma in collaborazione con Fondazione Cinema per Roma. Monza. Carcere: “Il Giardino delle Ortiche”, presentazione allo Sporting Club ilcittadinomb.it, 17 maggio 2022 Venerdì 20 maggio a Monza, con il patrocinio dell’ordine degli avvocati la presentazione del volume che raccoglie articoli e poesie dei detenuti. L’associazione Zeroconfini onlus e lo Sporting Club Monza, con il patrocinio dell’Ordine Avvocati di Monza e di Fondazione Forense, presentano venerdì 20 maggio alle ore 18, presso lo Sporting Club, l’antologia “Il Giardino delle Ortiche” a cura di Antonetta Carrabs. La pubblicazione è frutto di articoli, poesie e testi in prosa scritti dai detenuti della redazione Oltre i confini- Beyond Borders della Casa Circondariale di Monza, alcuni dei quali saranno presenti all’incontro. Dopo i saluti istituzionali dell’avvocato Filippo Carimati - Presidente Sporting Club Monza dell’avvocato Vittorio Sala - Presidente Ordine degli Avvocati di Monza, Maria Pitaniello - Direttore della Casa Circondariale, di Cristiano Puglisi - Direttore de Il Cittadino. Antonetta Carrabs - presidente di Zeroconfini Onlus illustrerà il progetto letterario che raccoglie anche le tante interviste fatte dai detenuti della redazione Oltre i Confini- Beyond Borders ad altri detenuti della Casa Circondariale monzese. L’inserto di 8 pagine ha una cadenza trimestrale e viene pubblicato e distribuito da Il Cittadino di Monza e Brianza su tutto il territorio brianteo. A condurre l’incontro gli avvocati Giulio Tagliabue - Presidente Fondazione Forensee Carlo Cappuccio - Consigliere Ordine Avvocati di Monza e Coordinatore Comm. Attività Culturali. L’Ordine degli Avvocati di Monza ha riconosciuto agli avvocati 1 credito formativo in “altra materia non obbligatoria”. L’iniziativa è gratuita. Ai partecipanti verrà consegnato in omaggio il libro “Il Giardino delle ortiche” sino ad esaurimento delle copie. “Il Giardino delle Ortiche”, parlano i protagonisti - “Questo libro racconta il nostro altrove - dice la redazione di Beyond Borders - Non vuole essere un riassunto di esistenze perdute ma il racconto delle nostre storie di vita che risuonano qui dentro come uno sciame sismico e ci fanno rumoreggiare la testa come un alveare. Sono racconti nomadi di persone recluse, meritevoli di essere raccontati e immortalati su una bobina di carta. In questo nostro triste presente viviamo a contatto con persone di etnie diverse e provenienti da mondi lontani che ci portano a scoprire realtà che appartengono a diverse latitudini e longitudini. Scrivere è diventato per noi un bisogno primario, ci aiuta a traghettare verso la vita libera, forse con una maggiore consapevolezza di tutti quei valori che avevamo perduto e che oggi abbiamo ritrovato.” “La scrittura ha una valenza terapeutica autentica, rappresenta un ponte tra chi scrive e l’esterno che permette di conoscere e farsi conoscere - dice il direttore del carcere di Monza Maria Pitaniello - Ritengo per questo che tutti gli opifici di scrittura presenti oggi negli Istituti Penitenziari debbano essere istituzionalizzati, attraverso associazioni che stabilmente si prendano cura di attivare e gestire detti laboratori. Anche per questo esprimo i miei ringraziamenti al Dirigente del CPIA di Monza e della Brianza Dr. Claudio Meneghini per aver creduto nella forza riabilitativa della scrittura e della poesia. Un ringraziamento particolare al Presidente dell’Associazione Zeroconfini Onlus Dott.ssa Carrabs e al Direttore del Cittadino di Monza e Brianza Dr. Puglisi per la preziosa collaborazione nell’organizzare eventi che mettono in risalto l’attenzione che codesta Associazione rivolge alla popolazione detenuta della Casa Circondariale di Monza. In particolare il corso di scrittura giornalistica, nato come iniziativa trattamentale di alto livello, è divenuto, nel tempo, autentico laboratorio culturale di scambi esperienziali condivisi ed ha assunto enorme risvolto”. “Questa pubblicazione è un’opportunità per far scoprire alla comunità dei “liberi” chi siano realmente gli inquilini di una casa circondariale, cioè gli appartenenti a una categoria sociale che rientra nel novero degli invisibili. Sia per motivi oggettivi (non hanno e non possono avere contatti con il mondo esterno), ma anche perché le situazioni di sofferenza vengono quasi sempre lasciate ai margini dei nostri pensieri, delle nostre vite piene di impegni, di frenesia e di rumore in questa società che ci vuole sempre brillanti, connessi e operativi. Un’esigenza, quest’ultima, che mal si accompagna al tempo dedicato a pensare a chi si trovi in una situazione di disagio - dice il direttore del Cittadino Cristiano Puglisi - Come può essere, per l’appunto, quella dei detenuti. Che, in un dato momento della loro vita, hanno sentito chiudersi alle proprie spalle le porte di una cella, con la certezza che, di punto in bianco e per un periodo più o meno lungo, non avrebbero più potuto avere rapporti con i loro cari: sentire l’abbraccio di un figlio, le parole di conforto di un padre e di una madre. Mai pensiero, in realtà, potrebbe essere più sbagliato o superficiale: proprio dall’incontro con i testi di chi sperimenta sulla propria pelle la realtà carceraria emerge, fatto sconvolgente per chi si trovi ad approcciarla per la prima volta, la tremenda verità che in questi luoghi non ci sono certo solamente persone intrinsecamente cattive, ma, per lo più, esseri umani che, per i motivi più svariati, dalla debolezza caratteriale alle difficoltà economiche, si sono trovati a sbagliare. E che, magari, alle spalle avevano una vita e una storia perfettamente “normali”: una famiglia, degli amici, un lavoro. Persone, insomma, come tutti noi. Che dagli errori, quindi, non siamo immuni. Ecco, io credo che sia proprio questo lo spirito con cui affrontare i testi che troverete all’interno di questo volume. Testi che sono fatti per essere letti con gli occhi, certamente. Ma che, prima di tutto, vanno affrontati con il cuore. Solo con quest’ultimo possiamo predisporci a percepire la sofferenza, ma anche, talvolta, la speranza, delle anime che li hanno composti”. Migranti. I volontari di Iuventa: “Rischiamo 20 anni di carcere, ma non fermeranno la solidarietà” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 maggio 2022 Alla vigilia del primo grande processo alle organizzazioni umanitarie accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che si apre sabato a Trapani, grande mobilitazione della flotta umanitaria e della società civile. Alla vigilia di un’estate che si preannuncia estremamente impegnativa sul fronte dei flussi migratori nel Mediterraneo si apre a Trapani il primo e più grande processo alle Organizzazioni umanitarie accusate di collusioni con i trafficanti di uomini e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Quella della Procura di Trapani è l’unica delle tante inchieste di Procure siciliane ad essere arrivata a conclusione con la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei volontari a bordo di una delle tante navi umanitarie che in questi anni sono scese in mare per sopperire all’assenza di una flotta di soccorso europeo. Sabato 21 maggio, con la loro nave sotto sequestro ormai da cinque anni, davanti al giudice dell’udienza preliminare di Trapani compariranno alcuni componenti della Ong tedesca Jugend Rettet scesi in mare a bordo della nave Iuventa. Rischiano pene fino a 20 anni di carcere. Per loro è prevista una grande mobilitazione di tutte le altre organizzazioni umanitarie e della società civile con una manifestazione che si terrà nelle stesse ore in cui il giudice prenderà in esame la richiesta della Procura finita in questi anni nell’occhio del ciclone anche per aver ordinato intercettazioni e sorveglianza di giornalisti e legali. Kathrin Schmidt, imputata insieme a Dariush Beigui, Sascha Girke e Uli Tröder, dice: “Da quando la nostra nave è stata sequestrata nell’agosto 2017, più di 10.000 persone hanno perso la vita nel tentativo di trovare salvezza in Europa. Altre migliaia sono state riportate forzatamente in Libia dove rischiano la tortura e la morte. Non permetteremo che questa guerra legale ci impedisca di agire in solidarietà con le persone in movimento”. Soccorsi concordati con i trafficanti, scafisti presi a bordo, segnali di presenza con le luci delle navi, transponder per la localizzazione spenti, barche e persino salvagenti riconsegnati alle organizzazioni criminali. Sono gravissime le accuse contestate ai 21 indagati dell’inchiesta sui salvataggi in mare delle Ong della Procura di Trapani che ha chiesto il rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falso di comandanti, capimissione ed equipaggi di diverse navi della flotta umanitaria che tra il 2016 e il 2017 salvarono migliaia di migranti. Gli imputati stanno ricevendo un ampio supporto nel domandare l’immediata cessazione del processo. Artisti, esponenti della Chiesa, membri del Parlamento europeo e rinomate organizzazioni della società civile, tra cui Amnesty International, il Centro Europeo per i Diritti Umani e Costituzionali (ECCHR) e l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), chiedono di far cadere le accuse e di porre fine alla criminalizzazione della solidarietà nei confronti delle persone in movimento. Debito, paesi poveri, sicurezza alimentare: cosa succede se la guerra in Ucraina paralizza il G20 di Franco Bruni Il Domani, 17 maggio 2022 Il G20 fallisce se per la questione ucraina i paesi non vogliono sedersi allo stesso tavolo. Serve convincere gli Usa ad avere un atteggiamento pragmatico e costruttivo, rinunciando a strumentalizzare il G20 per segnare punti con Russia e Cina. Va inoltre ridisegnata l’agenda attorno a pochi punti molto urgenti e importanti, come il debito dei Paesi più poveri, la sicurezza alimentare e le politiche sanitarie. L’Italia, come membro della troika del G20, potrebbe farsi portatrice presso l’Indonesia della proposta di un’agenda le cui linee di fondo sono state condivise da Ue e Usa. Mentre continua la guerra ucraina, tanti temi urgenti della cooperazione globale passano in seconda linea. Sono in pericolo i lavori del G20; cresce il rischio di un mondo diviso e debole di fronte a gravi problemi comuni. Il G20 rischia il fallimento se i paesi in disaccordo sulla questione Ucraina non vogliono sedersi allo stesso tavolo. Per quanto riguarda il vertice conclusivo la questione può avere sviluppi strani. La presidenza indonesiana ha invitato il presidente ucraino Volodomyr Zelenski; la sua presenza potrebbe contribuire all’assenza di quello russo Vladimir Putin la quale potrebbe rimettere al tavolo Joe Biden che ora vuol escludere Putin. Ma al di là del gioco delle sedie al vertice finale, c’è il più concreto lavoro dei numerosi comitati interministeriali da salvare. Occorre concludere su questioni urgenti e indipendenti dalla guerra. L’agenda - Servono almeno due azioni. Primo: convincere gli Usa ad avere un atteggiamento pragmatico e costruttivo, rinunciando a strumentalizzare la diplomazia del G20 per segnare dei punti con la Russia e la Cina. Poiché a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina, si può sospettare che la posizione degli Usa sia dettata prevalentemente dal gioco propagandistico della politica interna nel quale l’esibizione di un contrasto muscolare con la Cina sia persino più importante di quello con la Russia. Spetta forse all’Ue, e soprattutto ai suoi tre Paesi maggiori, Germania, Francia e Italia, di premere sull’alleato d’oltreatlantico perché cambi atteggiamento. La seconda azione cruciale è il ridisegno dell’agenda del G20 di quest’anno. Se è troppo ampia e ambiziosa lo stato delle relazioni internazionali metterà continuamente i lavori a rischio di fallimento e, comunque, vedrà conclusioni di pura vetrina. Ancor peggio se si volesse usare proprio il G20, come alcuni Paesi sembrano pensar di fare, per affrontare più o meno direttamente la questione della guerra ucraina. È necessario limitare l’agenda, scegliendo pochi temi la cui urgenza e importanza siano indiscutibili e la cui natura sia tale da non offrire pretesto a giochi di esclusione con la Russia. L’urgenza stessa di quei problemi e la possibilità concreta di contribuire a una loro parziale soluzione con decisioni maturate nel G20, devono essere la ragione, proclamata dalla presidenza indonesiana, per l’impegno del gruppo quest’anno. Tre temi che avrebbero queste caratteristiche sono la gestione del debito insostenibile dei paesi più poveri, la sicurezza alimentare del globo e le politiche sanitarie globali. Sul primo fronte il G20 degli ultimi anni ha fatto qualche passo importante che ora urge completare, per evitare gravi crisi finanziarie, politiche e umanitarie. La sicurezza alimentare ha un profilo sfidante per il suo ovvio aggancio con le produzioni e i commerci agrari dei paesi belligeranti in Ucraina: ma è una sfida che anche tali paesi possono accettare di affrontare. Le iniziative in corso per permettere che dai loro porti partano i carichi alimentari vanno in questa direzione. Le politiche sanitarie hanno visto, nel G20 2021, sotto la presidenza italiana, un tentativo originale e importante, che non va lasciato soccombere, di far lavorare insieme i ministri delle Finanze e quelli della Salute. In materia di vaccini sia Cina che Russia hanno problemi e tensioni con l’occidente, ma una trattativa ben mirata e circoscritta può trovare nella concretezza di parziali soluzioni una ragione di accordo. L’Italia, come membro della troika del G20, potrebbe farsi portatrice presso l’Indonesia della proposta di un’agenda le cui linee di fondo sono state condivise da Ue e Usa. Dopodiché starà all’abilità degli indonesiani la gestione dei lavori interministeriali e del summit finale, dove vanno sopportate, senza enfatizzarle, eventuali assenze e dissensi, nonché approvazioni non unanimi, purché l’impegno globale a cooperare sia confermato col perseguimento di alcuni risultati limitati ma molto concreti. Con la speranza che negli anni futuri il G20 possa tornare a permettersi maggiori ambizioni. Aiutare i curdi, la chance di Biden di Bernard-Henri Lévy e Thomas S. Kaplan La Stampa, 17 maggio 2022 “Uno statista non è in grado di creare nulla” osservò il “Cancelliere di ferro” Otto von Bismarck. “Deve solo attendere e ascoltare finché non sente i passi di Dio che risuonano in mezzo agli eventi; a quel punto deve balzare in piedi e attaccarsi all’orlo della Sua veste”. Un secolo e mezzo più tardi, il Cancelliere tedesco Olaf Scholz a quanto pare ha sentito quei passi. Cancellando un importante accordo per importare gas dalla Russia e cambiando una politica invalsa da tempo consistente nel non inviare mai armi letali in zone di guerra, Scholz ha afferrato l’orlo di quella veste e ha trasformato il ruolo della Germania nel mondo. Di importanza addirittura maggiore per l’ordine globale, la guerra di Vladimir Putin in Ucraina potrebbe essere provvidenziale anche per il presidente Biden. Che piaccia o no, da molti anni il ritiro degli Stati Uniti dalla scena internazionale è stato una faccenda di primo piano nelle cancellerie e nei ministeri di Europa, Asia e Medio Oriente. Ancora prima di quando Barack Obama non fece seguire alle parole i fatti per ciò che concerne la “linea rossa” superata in Siria, ancora prima del tradimento dei curdi iracheni e siriani da parte di Donald Trump, in giro si va dicendo forte e chiaro che l’America è sleale nei confronti dei suoi amici e corre seriamente il rischio di essere sfidata da un nuovo asse, formato da Cina, Russia e perfino avversari di second’ordine come l’Iran. Questa potrebbe sembrare una calunnia nei confronti dell’America, che per decenni è stata una potenza egemonica perlopiù generosa. Come ben sanno gli ucraini e i curdi, però, la vita è ingiusta. A nessuno piace un perdente, tanto più se è arrogante. Si può essere arroganti e al tempo stesso magnifici nel proiettare potere e valori. Si può essere inconcludenti, ma rispettati, se si è abbastanza umili riguardo ai propri passi falsi. Essere a uno stesso tempo inetti e arroganti suscita il disprezzo generale. Gli Stati Uniti hanno toccato il fondo con il tragico fallimento del loro abborracciato ritiro dall’Afghanistan. Gli alleati naturali dell’America hanno chiesto a buon motivo se dovessero coprirsi le spalle con Cina e Iran. Poi le cose sono cambiate. La débâcle di Kabul - che quasi certamente ha imbaldanzito il Cremlino - è stata superata in modo impressionante dai molteplici errori commessi dalla Russia e dai crimini di guerra perpetrati in Ucraina. Gli Stati Uniti si sono pertanto visti offrire un’opportunità storica per ribaltare anni di ripiegamento e riaffermare la leadership che sembravano aver perso per sempre. In modo coerente con l’osservazione di Bismarck, non è stata l’America a crearsi questa opportunità che deve all’inimmaginabile coraggio e all’inaspettata leadership del popolo ucraino e ai suoi comandanti e alla loro capacità di convogliare la resilienza e il valore in un successo spettacolare sul campo di battaglia che ha messo in imbarazzo il mondo intero raddoppiando il loro eroismo. Come può, però, l’Amministrazione Biden trasformare questa opportunità in un dono che possa continuare a offrire? Prima di tutto continuando a rifornire e sostenere l’Ucraina contro la Russia. L’importante, in ogni caso, è plasmare questo nuovo atteggiamento in una dottrina vera e propria e ricreare, per la prima volta da anni a questa parte, una politica estera bipartisan, che si impegni a permettere a coloro che lo desiderano di sostenere il fardello delle battaglie per gli interessi e i valori che hanno in comune con tutti gli americani. Che si inizi dai curdi. Come gli ucraini, gli alleati curdi dell’America hanno combattuto e vinto battaglie contro un nemico feroce che è anche ostile agli Stati Uniti: lo Stato Islamico. Sono stati loro a pagare con il loro sangue le loro vittorie, così che non dovesse farlo l’America. Come gli ucraini - terra di oltre 40 milioni di abitanti che la Russia vorrebbe farci credere che non è una vera nazione -, i curdi si vedono negare la loro identità di popolo. Sono circa 30 milioni, il gruppo etnico più vasto e privo di uno Stato nel mondo. Come gli ucraini, soffrono per il fatto di dover sfidare la geografia, a cavallo tra i confini di Iran, Iraq, Siria e Turchia. Eppure, sempre come le loro controparti ucraine, i combattenti peshmerga curdi in Iraq e i curdi siriani di Rojava sono un caso pratico di studio sull’effettiva esecuzione dell’esortazione lanciata da tempo dall’America secondo cui i suoi amici dovrebbero combattere di più e gli Usa dovrebbero addestrarli e assisterli. I curdi hanno accettato quel patto. Durante il conflitto con lo Stato Islamico, iniziato nel 2014, sono rimasti uccisi meno di una ventina di soldati americani. Con coraggio e stoicismo, i curdi hanno dovuto accollarsi l’onere di una campagna di successo nel corso della quale hanno perduto circa 11 mila uomini e donne e patito il ferimento di altri 23 mila. Quale è stata la ricompensa per questo eccezionale caso di studio di “condivisione dell’onere”? Il tradimento. Prima in Iraq, dopo il referendum del 2017 nel quale i curdi votarono a favore dell’indipendenza, poi in Siria quando ai soldati americani fu ordinato nel 2019 di farsi da parte così che le forze turche e i loro mandatari islamisti potessero invadere e trucidare i nostri compagni d’armi. Sia Biden sia Kamala Harris hanno criticato questa farsa contro i curdi. In pratica, tutti i loro colleghi democratici hanno concordato con le loro dichiarazioni. Anche la maggior parte dei repubblicani si è mostrata con veemenza filo-curda nelle manifestazioni di gratitudine e ammirazione per un popolo che ha combattuto e vinto battaglie feroci così che il terrorismo non faccia più visita alle nostre città e alle loro. Gli americani di ogni colore politico si stanno mobilitando per l’Ucraina e Biden ha ragione a chiedere al Congresso di approvare aiuti per 40 miliardi di dollari. Gli americani di tutti i tipi sarebbero pronti a sostenere i curdi, se solo ne avessero l’occasione. Dipende dal presidente offrirgliene una. Una vittoria bipartisan nell’America di oggi sarebbe considerata un caso. Due vittorie, invece, sarebbero motivo di celebrazione - nonché un’opportunità per Biden di tener fede alla sua promessa per cui “l’America è tornata”. Iran. Appello di Amnesty per salvare la vita di Ahmadreza Djalali riminitoday.it, 17 maggio 2022 “Annullate la sua condanna a morte”. “Djalali è detenuto soltanto come rappresaglia per il suo rifiuto di utilizzare i suoi legami scolastici e lavorativi nelle istituzioni accademiche europee e in altre istituzioni per spiare per l’Iran”. Mercoledì alle 18.30 si terrà un sit-in in piazza Cavour a Rimini organizzato da Amnesty Rimini in favore di Ahmadreza Djalali, ricercatore condannato a morte in Iran nel 2017 e la cui esecuzione è prevista per sabato 21 maggio. “Ahmadreza Djalali è stato condannato in via definitiva a morte da un tribunale iraniano con l’accusa di “spionaggio”. Djalali è stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. Si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta - affermano da Amnesty Rimini - Le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui “confessava” di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi”. “Ahmad avrebbe anche urgente bisogno di cure mediche specialistiche. Nell’ultimo anno, tre diversi esami del sangue hanno indicato che ha un numero basso di globuli bianchi. Un medico che lo ha visitato in carcere all’inizio del 2019 ha detto che deve essere visto da medici specializzati in ematologia e oncologia in un ospedale fuori dal carcere - denuncia Amnesty - Dal suo arresto il 26 aprile 2016, ha perso 24 kg e ora pesa 51 kg”. Con il sit in di mercoledì, Amnesty Rimini appoggia dunque l’appello internazionale alle autorità iraniane affinché annullino la condanna e la sentenza di Ahmadreza Djalali. “Djalali è detenuto soltanto come rappresaglia per il suo rifiuto di utilizzare i suoi legami scolastici e lavorativi nelle istituzioni accademiche europee e in altre istituzioni per spiare per l’Iran”. Qatar. Tre ergastoli per aver criticato la legge elettorale di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2022 Nel Qatar che tra sei mesi ospiterà i mondiali di calcio succede che chi cerca di migliorare la situazione dei diritti umani per mostrare al mondo un paese migliore venga condannato all’ergastolo. Il 10 maggio, al termine di un processo a porte chiuse, un tribunale di primo grado della capitale Doha ha emesso tre condanne al carcere a vita nei confronti di due avvocati e di un attivista. Un quarto imputato ha ricevuto una condanna a 15 anni. All’origine del processo c’è la legge n. 6 del 2021, firmata dall’emiro Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani il 29 luglio scorso, che regolamenta l’elezione del consiglio della Shura. Si tratta di un organismo insieme consultivo e legislativo, composto da 45 seggi di cui ora 30 elettivi e gli altri 15 nominati direttamente dall’emiro. La prima elezione per i 30 seggi a disposizione si è svolta a ottobre. Ma prima del voto, la promulgazione della legge aveva scatenato le proteste della tribù al Murra, i cui esponenti non hanno potuto candidarsi né votare in quanto l’elettorato attivo e passivo è riconosciuto solo ai discendenti dei residenti già cittadini nel 1930, secondo un sistema di divisioni delle tribù elaborato un secolo fa dai britannici. Da quel sistema, gli al Murra sono stati esclusi perché, originari dell’Arabia Saudita, sono stati naturalizzati dopo. Il provvedimento è stato vissuto come l’ennesimo atto persecutorio nei confronti di questa tribù semi-nomade, che da tempo è discriminata per quanto riguarda l’accesso all’istruzione, al lavoro e alle cure mediche. I quattro attivisti che hanno preso le difese, anche sul piano legale, degli al Murra sono stati giudicati colpevoli dei seguenti “reati”: contestazione di una legge ratificata dall’emiro, minaccia all’emiro tramite i social media, minaccia all’indipendenza dello stato, organizzazione di raduni pubblici non autorizzati e violazione online dei valori sociali. *Portavoce di Amnesty International Italia