“Sull’ergastolo la Consulta deve rispettare il Parlamento” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 maggio 2022 Intervista al presidente Giuliano Amato dopo il nuovo rinvio della Corte sull’ergastolo ostativo. A trent’anni dalle stragi di mafia che indussero governo e Parlamento a varare il cosiddetto ergastolo ostativo - cioè il divieto di liberazione condizionale per gli affiliati alla criminalità organizzata che non si pentono e non collaborano con la giustizia - la Corte costituzionale ha evitato di cancellare una norma già dichiarata incostituzionale un anno fa, concedendo alle Camere altri sei mesi per portare a termine la riforma. Presidente Amato, vi hanno accusato di avere tradito le attese dei detenuti, in ossequio ai partiti inadempienti... “Io comprendo le reazioni e i punti di vista di tutti, ma alle Corti tocca essere equilibrate. Qui si tratta di bilanciare da un lato la tutela dei diritti delle persone in relazione ai presupposti per chiedere l’accesso ai benefici penitenziari, dall’altro le particolari ragioni di sicurezza che la legislazione italiana ha sempre riconosciuto in materia di mafia”. Quindi i diritti violati dei mafiosi pesano meno? “Niente affatto. Anzi, la Corte s’è preoccupata più di chiunque altro di evitare che i condannati per reati di mafia subiscano vessazioni irragionevoli, è intervenuta su diversi aspetti del “41 bis”, il cosiddetto “carcere duro”, e abbiamo già dichiarato incostituzionale il diniego automatico dei permessi ai condannati che non hanno collaborato. Nel caso della liberazione condizionale, invece, spetta al Parlamento stabilire se e come regolarla, tenendo conto della maggiore severità che caratterizza la disciplina dei reati di mafia”. Però su altre questioni, come il suicidio assistito per i malati terminali o l’attribuzione ai figli del doppio cognome, non avete concesso altro tempo al Parlamento... “Erano situazioni diverse. In quei casi non era stato fatto nulla, mentre per l’ergastolo ostativo la Camera ha approvato una riforma che il Senato ha già inserito nel suo ordine del giorno, con la richiesta di attendere il voto finale. Non potevamo non tenerne conto”. Non c’è alcuna garanzia che il Parlamento approvi la riforma entro sei mesi... “Quando a novembre la Corte si troverà a decidere, non più in mia presenza, valuterà la situazione e in assenza di una riforma affronterà il problema se sancire l’incostituzionalità introducendo un vuoto legislativo che ora abbiamo voluto evitare. A quel punto spetterebbe al Parlamento colmarlo successivamente”. Il vuoto normativo sarebbe così grave? Non potrebbe essere il vero stimolo a una riforma che dopo un anno non ha visto la luce? “Il vuoto lascerebbe soli a decidere i giudici di sorveglianza, affidati a se stessi e alle proprie valutazioni, con tutti i rischi del caso. Realizzando il massimo di incertezza del diritto. Parificare i condannati per mafia a quelli per altri reati, ai fini della concessione dei benefici, non tiene conto della specificità del fenomeno mafioso. La liberazione condizionale non è un diritto assoluto, il detenuto può chiederla a determinate condizioni fissate dalla legge. Ed è legittimo stabilire differenze tra quelle previste per un criminale comune e per un appartenente a un’organizzazione mafiosa in cui, come dice giustamente Gian Carlo Caselli, il legame è più stabile del matrimonio da quando esiste il divorzio”. Ma voi di fatto avete già stabilito che così com’è l’ergastolo ostativo è incostituzionale... “Noi abbiamo detto che la collaborazione con i magistrati non può essere l’unico indice per valutare il distacco dall’organizzazione mafiosa. Anche perché ci sono stati casi di false collaborazioni da parte di chi non aveva affatto abbandonato l’organizzazione. È vero che stiamo parlando di diritti di libertà, ma ci dev’essere sempre un bilanciamento tra valori costituzionali, e qui - lo ripeto - ci sono in ballo anche ragioni di sicurezza legate alla specificità del fenomeno mafioso. Non a caso, nella sua storia, la giurisprudenza della Corte ha lasciato in vita norme ai limiti della tollerabilità costituzionale proprio in ragione della peculiarità di quel fenomeno criminale”. Vi siete sentiti obbligati per rispetto della “leale collaborazione istituzionale” con il Parlamento, sebbene sia rimasto inadempiente? “C’è un problema di rispetto del legislatore, e noi non siamo la maestrina del Parlamento. Non diamo ordini, rivolgiamo inviti e non potremmo fare altrimenti. Se in un anno il Parlamento non si mostra in grado di affrontare una questione, com’è avvenuto per il suicidio assistito o il doppio cognome, io posso prendere la mia decisione senza tradire la leale collaborazione. Ma far valere una scadenza e non dare peso ai lavori in corso, soprattutto su questioni complesse, indebolirebbe la mia stessa credibilità rispetto alla leale collaborazione”. Con maggioranze ampie e composite come quella attuale è difficile sciogliere i nodi da voi indicati, e i diritti delle persone restano in attesa di leggi che non arrivano... “Capita in ogni parte del mondo. Negli Stati Uniti le divisioni tra repubblicani e democratici, e fra gli stessi democratici, tengono fermi da due anni i tentativi di regolare sul piano federale l’interruzione della gravidanza, e si sta arrivando a una decisione unilaterale della Corte suprema senza indicazioni da parte del Congresso. Ci sono diritti evidenti e quindi semplici da definire, e altri in cui è difficile trovare una soluzione, proprio perché serve che il legislatore fissi delle regole nel loro esercizio. Purtroppo è così”. Nell’estate del 1992 lei divenne presidente del Consiglio proprio mentre il Parlamento, all’indomani della strage di Capaci, adottò l’ergastolo ostativo e le altre misure antimafia. È stato difficile affrontare oggi la questione? “È stato difficile due anni fa, quando abbiamo deciso la prima questione sui permessi premio, e in particolare per me. Con il condizionamento delle terribili stragi di Capaci e via D’Amelio io avevo condiviso quel manicheismo che esiste ancora: o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi. C’è una componente ideologica in questa posizione, e non credo vada bene. Questa seconda decisione è stata più semplice, ed è passata senza alcuna opposizione”. Che ricordo ha delle stragi del 1992? “Un ricordo sconvolgente, anche perché ebbero un grande peso sulla vita istituzionale. L’uccisione di Falcone portò all’immediata elezione di Scalfaro al Quirinale e quella di Borsellino, avvenuta mentre da neopresidente del Consiglio ero impegnato a tempo pieno sulla crisi economica, ripropose in maniera traumatica la questione irrisolta della mafia. Trent’anni dopo ci siamo ancora dentro, e la Corte ne è pienamente consapevole come dimostra la vicenda dell’ergastolo ostativo. L’antimafia ha fatto grandi passi avanti da allora, ma se ancora oggi ci sono imprenditori che subiscono attentati se non pagano il “pizzo” significa che la strada è lunga, e temo non finirà nemmeno il giorno in cui sarà catturato Matteo Messina Denaro”. Malattie croniche, salute mentale e carcere: il nuovo rapporto dell’OMS conferenzasalutementale.it, 16 maggio 2022 Il rapporto dell’OMS evidenzia un nuovo approccio per ridurre i rischi di malattie non trasmissibili nelle carceri. Le malattie non trasmissibili nelle carceri: necessità di renderle tema prioritario e di investire Più di 1,5 milioni di persone sono detenute in Europa e la loro salute è più fragile di quella delle persone nelle comunità esterne. “Le malattie non trasmissibili causano il 71% dei decessi a livello globale e rappresentano una sfida per i sistemi sanitari. Tuttavia, le malattie non trasmissibili sono scarsamente riconosciute come un importante problema sanitario nelle carceri, dove l’obiettivo principale è stato tradizionalmente la prevenzione delle malattie infettive e degli infortuni”, ha affermato il dott. Hans Henri P. Kluge, Direttore regionale dell’OMS per l’Europa. “Il sottoinvestimento nelle malattie non trasmissibili testimoniato nella società in generale è amplificato nelle strutture carcerarie, dove le malattie non trasmissibili non sono ancora considerate una priorità”. A livello globale, si stima che circa 30 milioni di persone, la maggior parte delle quali soffre di molteplici svantaggi, si muovano ogni anno tra carceri e comunità. Per alcune persone della Regione il carcere è un luogo dove per la prima volta nella loro vita si accede ai servizi sanitari. Secondo la nuova pubblicazione dell’OMS, le politiche sulle malattie non trasmissibili nelle carceri dovrebbero concentrarsi su più fattori sanitari rispetto a prima, allinearsi con gli approcci raccomandati dall’OMS e tenere conto delle specificità dell’ambiente carcerario sia nella progettazione che nell’attuazione di interventi e politiche. Malattie cardiovascolari e respiratorie, tumori e salute mentale nei centri di detenzione: fatti chiave - Il rapporto dell’OMS riassume i dati di una recente ricerca sulle disuguaglianze NCD che devono affrontare le persone che vivono nelle carceri. La prevalenza di malattie cardiovascolari negli individui di età superiore ai 50 anni che vivono nelle carceri in Europa è oltre 3 volte superiore a quella della popolazione generale. Si dice che le probabilità di avere una condizione respiratoria, inclusa l’asma e la broncopneumopatia cronica ostruttiva, siano 3-6 volte superiori tra gli individui nelle carceri rispetto alle comunità esterne. Rispetto alla popolazione generale, le persone nelle carceri hanno tassi di malattie psicotiche e depressione maggiore che sono 2-4 volte più alti e tassi di disturbo antisociale di personalità che sono 10 volte più alti. I dati provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti d’America mostrano che alle persone nelle carceri viene diagnosticato un cancro cervicale a tassi 4-5 volte superiori e corrono un rischio di morte per cancro che è 1,4-1,6 volte superiore rispetto alle persone nelle comunità esterne. Le malattie non trasmissibili esistenti mettono gli individui infetti da SARS-CoV-2 a rischio maggiore di COVID-19 grave o morte. Nuovo approccio per ridurre i rischi di malattie non trasmissibili nelle carceri - Per diversi decenni, l’OMS si è concentrata sui 4 fattori di rischio NCD più significativi nei luoghi di detenzione: consumo di tabacco e alcol, bassi livelli di attività fisica e diete squilibrate. Ma questo rapporto dell’OMS condivide una visione rinnovata che include l’inquinamento ambientale e i fattori sanitari sistemici come cause di preoccupazione. “Nelle carceri, molti fattori di rischio di malattie non trasmissibili si sovrappongono e hanno un effetto negativo cumulativo sulla salute”, ha spiegato la dott.ssa Carina Ferreira-Borges, responsabile del programma di alcol, droghe illecite e salute carceraria presso l’OMS/Europa. “Ad esempio, si stima che i rischi ambientali siano responsabili di quasi un quarto dei decessi e l’accesso limitato all’assistenza sanitaria può lasciare molte condizioni sottostanti, come ipertensione e diabete, incontrollate”. Il rapporto dell’OMS sottolinea la necessità di dati più completi che le strutture di detenzione possano raccogliere e condividere tra loro per migliorare le politiche. Per sviluppare le capacità correlate tra il personale sanitario carcerario, l’Ufficio europeo dell’OMS per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili ha annunciato un corso di formazione speciale chiamato “Innovazione nella politica e nell’azione delle malattie non trasmissibili: un corso per gli operatori sanitari carcerari”. L’OMS invita tutti gli Stati membri a partecipare. Sciopero dei magistrati, la giustizia non è una trincea di Michele Ainis La Repubblica, 16 maggio 2022 Mettersi sulla difensiva dinanzi al discredito che ha sommerso il potere giudiziario e mentre i cittadini attendono processi più lunghi delle guerre puniche, quello sì, è un errore. S’annunzia oggi (lunedì 16 maggio) uno sciopero, quello dei giudici italiani. E c’è in vista una riforma dell’ordinamento giudiziario, già timbrata il 26 aprile dalla Camera. Per la verità, sulla giustizia c’è in vista pure un referendum. Anzi cinque, ma non ne parla mai nessuno. Tanto che la percentuale d’elettori interessati al voto, stando a un sondaggio Swg del 9 maggio, viaggia attorno al 30%, ben lontano dal quorum di validità. Cominciamo da qui, perché questo torpore? La guerra, certo, che ha sommerso come una colata lavica ogni altra questione. E però non solo. C’entra altresì la complessità della materia, il tecnicismo dei quesiti: per dirne una, quello sulla separazione delle funzioni tra giudici e pm snocciola 1068 parole, senza mai un punto, senza un capoverso. C’entra la perfidia di cui ha dato prova la Consulta, disinnescando i tre referendum che avrebbero viceversa acceso gli italiani: la responsabilità dei magistrati, ma soprattutto eutanasia e droghe leggere. Sicché voteremo sul numero di firme che deve raccogliere ogni candidato al Csm, ma non sulle questioni della vita e della morte, dei doveri e dei diritti. Rispetto a queste superiori controversie, siamo sempre un popolo bambino. O forse c’entra il disincanto che ti monta addosso dopo mille riforme precedenti, che non hanno mai tagliato le unghie alle correnti giudiziarie. E dopo mille referendum poi traditi, come avvenne nel 1987, circa la responsabilità civile dei magistrati. D’altronde stavolta può succedere ancora prima del voto: almeno due quesiti (valutazione dei giudici e liste al Csm) rischiano infatti d’essere annullati, se la riforma Cartabia passa anche in Senato. Tanto rumore per nulla, verrebbe da osservare. Né la riforma, né a loro volta i referendum, cambieranno i connotati della giustizia italiana. L’abbattimento delle firme (da 25 a 50), per esempio: così i magistrati non dovranno più chiedere soccorso ai gruppi associativi per candidarsi al Csm, ma il loro appoggio rimarrà comunque indispensabile per essere poi eletti. Tutt’altra storia se fosse stato introdotto il sorteggio, neutralizzando davvero le correnti. Ma l’innovazione è parsa troppo ardita per le nostre prudenti inclinazioni. Eppure prima il Consiglio superiore della magistratura (con un parere negativo di 142 pagine), poi l’Associazione nazionale magistrati (con il primo sciopero dopo 12 anni), sparano a palle incatenate. Per quali ragioni? Forse per il timbro garantista che contrassegna i referendum, specie sull’abolizione della legge Severino e sui limiti alla custodia cautelare. Forse per l’indirizzo restrittivo sulla libertà dei magistrati che si è fatto largo in Parlamento, introducendo per esempio il fascicolo delle performance di ciascun giudice, stabilendo un unico passaggio (anziché quattro) fra magistratura giudicante e requirente, precludendo agli eletti il rientro nelle aule giudiziarie. O forse per un riflesso conservatore, che alle nostre latitudini accomuna ogni categoria dinanzi ai cambiamenti, sia pure minuscoli o modesti. Non che la conservazione sia di per sé un errore. Dipende da cosa si vuole conservare: c’è forse qualcuno che non vorrebbe conservare per tutta la vita la sua mamma? Però chiudersi in trincea dinanzi all’onda di discredito che ha sommerso il potere giudiziario per il caso Palamara, e mentre i cittadini attendono processi più lunghi delle guerre puniche, quello sì, è un errore. Com’è un errore immaginare, da parte dei politici, che basti aggiungere un po’ di cipria o di rossetto a qualche legge, per rendere la Dea della giustizia più avvenente. Separazione delle carriere e scelta dei vertici del Csm, ecco perché oggi i magistrati scioperano di Liana Milella La Repubblica, 16 maggio 2022 Separazione delle carriere e scelta dei vertici del Csm, ecco perché oggi i magistrati scioperano contro la riforma Cartabia. Oggi i giudici italiani scioperano. L’Associazione nazionale magistrati, il loro sindacato, ha proclamato l’astensione il 30 aprile contro la riforma del Consiglio superiore della magistratura firmata dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Legge finora approvata solo da un ramo del Parlamento, la Camera, e in attesa del voto definitivo del Senato. Ma i contrasti nella maggioranza sono ancora molto forti. C’è una ragione d’urgenza, a luglio deve essere rinnovato l’attuale Csm, dopo 4 anni di permanenza, ma dopo il caso Palamara (giugno 2019) c’è bisogno di una nuova legge elettorale, sollecitata più volte dal presidente Sergio Mattarella, che renda impossibili le intese preventive delle correnti della magistratura. Da quanto tempo le toghe non scioperavano - Bisogna risalire al 3 giugno 2010 - il premier era Silvio Berlusconi, il Guardasigilli Angelino Alfano - per trovare un altro sciopero dei giudici. Quello era stato deciso contro una manovra economica che penalizzava le toghe, e quindi la possibilità di fare giustizia. Una curiosità, il presidente dell’Anm che decise per lo sciopero era proprio Luca Palamara, rimosso dalla magistratura nel 2020 per l’inchiesta di Perugia dov’è sotto processo. Il segretario era il pm di Roma Giuseppe Cascini, oggi componente togato del Consiglio superiore. Solo un passaggio nella carriera da pm a giudice - Ma quali sono le ragioni dello sciopero? Al primo posto c’è lo stop alla possibilità di cambiare “casacca” - da giudice a pm, e viceversa - per quattro volte. La magistratura è una grande famiglia, ma con una profonda divisione interna. Da una parte ci sono i giudici, dall’altra i pubblici ministeri. Oggi sono possibili quattro passaggi. Dopo invece sarà possibile farlo solo una volta, e solo durante i primi dieci anni della carriera. Sarà possibile, invece, in qualsiasi momento, passare al civile. I giudici considerano la nuova regola un grave errore perché passando da una funzione all’altra anche più volte il giudice diventa più a tutto tondo. E comunque solo una legge costituzionale, secondo le toghe, può bloccare il passaggio. E non una legge ordinaria. Il fascicolo personale di ogni toga - Al secondo posto nella lista delle preoccupazioni c’è il fascicolo personale di ogni magistrato. Come in tutte le professioni, anche i magistrati fanno carriera, secondo regole molto stringenti. A fare le “valutazioni di professionalità” e a decidere i nuovi incarichi, e quindi l’avanzamento in carriera, è il Csm. La riforma della ministra Cartabia ha rivisto e formalizzato in modo rigido l’esistenza, presso lo stesso Csm, di un “fascicolo” per ogni magistrato. Nel quale saranno segnalate anche le “anomalie” nel comportamento della toga, “anomalie” che riguardano espressamente anche le sue decisioni giudiziarie. L’Anm ha parlato di una “pericolosa schedatura” e di un danno anche alle indagini perché il magistrato sarà più prudente nelle decisioni. Un pm meno libero, stop alle conferenze stampa - Avrete visto mille volte in tv le conferenze stampa nelle procure dopo gli arresti per un’inchiesta. Magistrati e forze di polizie schierati a beneficio delle telecamere. Con la nuova legge tutto questo non potrà più accadere, o sarà drasticamente ridotto. Perché la riforma impone al capo dell’ufficio di rispettare le regole sulla presunzione d’innocenza, approvate nel 2016 in Europa, e recepite in Italia a ottobre scorso. La legge è firmata da Marta Cartabia, ma a battersi per ottenerla è Enrico Costa di Azione. Adesso, con la riforma del Csm, quella legge viene messa in pratica. A decidere tutto sarà il capo dell’ufficio, il procuratore, e non ci sarà più alcuna libertà di aver rapporti con la stampa. I magistrati respingono tutto questo e gridano al bavaglio. Sopratutto perché in futuro al danno si aggiunge la beffa. In quanto, contro la toga che parla e viola la presunzione d’innocenza può scattare anche un illecito disciplinare e quindi un processo contro la toga al Csm. Gli avvocati votano nei consigli giudiziari - Anche sulla presenza degli avvocati, con tanto di diritto di voto, nei consigli giudiziari, i mini Csm per ogni distretto, i magistrati hanno perso un’altra battaglia storica. E ora contestano la decisione che dà ampio spazio agli avvocati per valutare un magistrato dandogli un punteggio piu o meno ampio. Prima di questa riforma loro potevano contare solo sul “diritto di tribuna”, nessun voto specifico. D’ora in avanti invece potranno farlo. La legge elettorale per il Csm - È la “madre di tutte le battaglie”. La nuova legge con cui scegliere i futuri componenti togati del Csm. Che saranno 20 anziché gli attuali 16. Una legge che - come ha chiesto il presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella - deve impedire accordi sottobanco tra le correnti per pilotare l’elezione di un magistrato. La ministra Cartabia, alla fine, ha scelto un sistema maggioritario binominale con un piccolo correttivo proporzionale che però non soddisfa affatto i magistrati. Che invece chiedevano soprattutto un sistema interamente proporzionale. Che non hanno avuto. E adesso sostengono che la legge sul Csm è tutta contro di loro. Ed è fatta anche questa per normalizzare le toghe e togliere loro tutti gli spazi. Le toghe si fermano contro la riforma: “No a magistrati meno indipendenti” di Giuseppe Legato La Stampa, 16 maggio 2022 Da Anm ad Area Dg: “Il rischio è scoraggiare l’innovazione che ha portato le tutele ai rider”. I numeri dell’adesione no, non si conoscono ancora con precisione, “ma - dice un giudice di lungo corso a Palagiustizia - il Piemonte è stato sempre tiepido di fronte agli scioperi nazionali”. Eppure la riforma Cartabia, o meglio l’astensione per esprimere dissenso alla modifica dell’ordinamento giudiziario, anima eccome il dibattito in corso Vittorio Emanuele, nel tempio di magistrati requirenti e giudicanti che si sentono - perlomeno nei vertici delle rappresentanze sindacali e di corrente - all’ultima chance di dire no. Basta leggere cosa dichiara Cesare Parodi, presidente dell’Anm Piemonte in forza a Torino con ruoli di coordinamento del pool fasce deboli: “Nessuno sciopera per mantenere privilegi o garanzie personali, ma solo per manifestare un profondo disagio verso un meccanismo destinato a non incidere minimamente sull’efficienza del sistema quanto solo sul ruolo della magistratura”. Ancora si tratterebbe di “una riforma destinata ad incidere sull’indipendenza dei singoli magistrati, giudicanti come requirenti, a premiare un’efficienza quantitativa rispetto a quella qualitativa”. Ossia “a creare indirettamente un meccanismo in grado di condizionare e reprimere la spinta evolutiva che la magistratura italiana ha da sempre saputo esprimere, cogliendo gli stimoli della società civile”. In definitiva? “Scioperiamo anche per dire sin da ora che questa riforma non risolverà minimamente questo unico vero grande problema; qualcuno, sappiamo che accadrà, proverà ad attribuire alla magistratura la responsabilità di un totale o parziale fallimento della riforma”. Toni decisi dunque, convinti. Gli stessi che utilizza Roberto Arata, giudice, 58 anni, coordinatore regionale di Area democratica per la giustizia: “È l’ultima occasione - dice - per dire delle cose rispetto a una restaurazione”. O se preferite “a una prevista crescente gerarchizzazione della giurisdizione”. Il riferimento rimanda ai nuovi criteri di valutazione di professionalità dei magistrati “che diventa negativa quando le proprie decisioni non vengono confermate”. Cioè: se i colleghi dei gradi successivi non esprimono la stessa pronuncia questo diventerà criterio per valutare il magistrato in senso negativo. Il rischio? “L’uniformità agli indirizzi dominanti diventa un criterio di valutazione quando in verità l’adeguamento della giurisdizione è sempre partito da basso”. L’esempio più lampante è quello dei rider e della loro tutela “che è partita dal primo grado, la sede in cui si prendono decisioni innovative e importanti con cui si cambiano gli orientamenti della Cassazione”. Al contrario “se questo diventa un rischio di valutazione non positiva diventa una cappa che impediva alla giurisdizione di crescere”. In attesa dei numeri lo sciopero non dovrebbe incidere su due processi di rilievo previsti per domani. Il primo è quello che vede imputata Chiara Appendino, ex sindaca di Torino, accusata di falso in bilancio nell’inchiesta Ream. A Novara, invece, non si fermerà il processo Eternit: i giudici Gianfranco Pezone, Manuela Massino e Maria Giovanna Compare non aderiranno cosi come il pm Gianfranco Colace. I magistrati scioperano per difendere l’autonomia di Mariarosaria Savaglio Il Domani, 16 maggio 2022 Le ragioni dello sciopero che è stato proclamato per oggi dall’Assemblea generale dell’Associazione nazionale magistrati probabilmente appaiono alla gran parte dei cittadini poco comprensibili. Non si sciopera per il rinnovo dei contratti o per negoziare sui livelli salariali. La magistratura sciopera perché le norme contenute nella riforma Cartabia appaiono suscettibili di ridurre gli spazi di autonomia e indipendenza della giurisdizione, in qualche caso in maniera impercettibile, in altri più significativa, ma comunque in modo inesorabile e progressivo. Se non si presta attenzione per tempo a tale restringimento, si corre il rischio che un giorno si arrivi al soffocamento di quelli che sono i principi cardine per il buon funzionamento della giurisdizione a garanzia e tutela del cittadino. Tale rischio, in uno stato con una democrazia matura, non si può assolutamente correre, anche perché in assoluta controtendenza rispetto all’evoluzione del modello europeo del potere giudiziario. Non è scelta di corporazione - L’opposizione alla riforma viene propagandata come una scelta corporativistica, se non illegittima. Nel migliore dei casi come una scelta inopportuna, richiamando le non poche patologie che affliggono la giustizia. Queste valutazioni non possono essere condivise perché è indubbio il pieno diritto, costituzionalmente garantito, anche dei magistrati di scioperare. Si tratta, inoltre, di una decisione adottata non senza sofferenza in seguito ad ampie valutazioni effettuate in assemblea. Oggi è principio acquisito che il potere giudiziario è un potere diffuso, che ogni giudice decide secondo la propria coscienza nel rispetto della legge e questo a garanzia delle parti più deboli del processo. Non è sempre stato così. Prima che si affermasse il modello di giurisdizione disegnato dalla Costituzione, grazie soprattutto alle battaglie portate avanti dall’Anm e dalla magistratura associata, la concezione burocratica della giurisdizione era dominante e si accettava che vi fosse una magistratura alta e una magistratura bassa. Una concezione che portava con sé un evidente conformismo della giurisprudenza, la quale non era capace di andare incontro ai mutamenti della società che anche il legislatore non sempre è in grado di cogliere tempestivamente. La salvaguardia della giurisdizione - La concezione della giurisdizione come potere diffuso e orizzontale ha quindi rafforzato le garanzie delle parti, soprattutto quelle più deboli, e assicurato la vitalità della giurisprudenza. La riforma, con l’introduzione di nuovi ed evanescenti illeciti disciplinari, l’esportazione del modello gerarchico anche negli uffici giudicanti, la separazione di fatto delle carriere tra pm e giudici, rischia di riportare indietro la magistratura di decenni. Scegliere oggi di protestare vuol dire, quindi, non accettare che vengano compiuti passi indietro verso la naturale tutela di un’eguaglianza sostanziale dei cittadini e non condividere che si proceda verso una giustizia da esercitare in maniera difensiva e conformista. Le riforme occorrono, certo, ma occorre, prima di tutto, che si tratti di riforme coerenti con gli obiettivi proclamati di una migliore gestione della macchina giustizia e che non ne comportino lo snaturamento. La proclamazione dello sciopero, infine, è stata una scelta che si è espressa in una assemblea nazionale aperta a tutti gli iscritti, decisione legata alla necessità di far sentire la propria voce in un dibattito inquinato da rivendicazioni che nulla hanno a che fare con l’efficienza della giustizia, ma sembrano più manifestare un senso di rivalsa a discapito di autonomia che invece è la garanzia di una giustizia equa e a servizio del cittadino. Referendum sulla giustizia, la congiura del silenzio: rimbocchiamoci le maniche per il sì di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 16 maggio 2022 Il 12 giugno prossimo il corpo elettorale viene convocato “ad referendum”, dunque per esprimersi su cinque quesiti abrogativi di norme vigenti, il cui esatto - ma anche più generico- contenuto è noto ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori e di cittadini appassionati della giustizia penale e dell’ordinamento giudiziario. Un numero di persone infinitamente inferiore al quorum (metà degli aventi diritto più uno) richiesto per la validità dell’esito elettorale. Siamo di fronte ad una congiura del silenzio, o ad una iniziativa politica improvvida? Che il nostro istituto referendario sia solo abrogativo, richieda cinquecentomila firme validamente raccolte e poi munite, ciascuna di esse, del relativo certificato elettorale che i promotori sono chiamati a procurarsi da soli in giro per tutti gli 8mila comuni italiani, è circostanza ben nota a chi decide di farsene promotore. Che il raggiungimento del quorum presupponga necessariamente ab origine una dimensione popolare dei quesiti proposti, cioè di ampia condivisione e comprensione, nella pubblica opinione, delle questioni con essi affrontate, è premessa addirittura ovvia di un accorto ragionamento politico. Ciascuno di noi saprà valutare se questa iniziativa politica oggetto del voto del prossimo 12 giugno abbia tenuto nel giusto conto queste basilari premesse. Certo è che ancora ci chiediamo, anche noi che ci orientiamo discretamente tra quei quesiti, e che di quei problemi ci occupiamo da una vita sia per ragioni professionali che di impegno politico ed associativo, quando, dove ed all’esito di quale dibattito o confronto, e tra chi, sia maturata la scelta di quei quesiti, la loro stesura tecnica, e la composizione politica del comitato promotore. Domanda legittima, visto che -dio non voglia- i costi politici di un eventuale insuccesso saranno addebitati e pagati ben oltre il ristretto perimetro dei proponenti. E qui, per il momento, mi fermo. Ma la congiura del silenzio, volta ad impedire il raggiungimento del quorum, resta in tutta la sua evidente, allarmante gravità, costituendo una emergenza democratica che nessuno può seriamente confutare. Innanzitutto, e prima che sul silenzio, occorre ritornare sull’esito dei giudizi di ammissibilità, che hanno falcidiato esattamente i tre quesiti più popolari, i quali avrebbero determinato se non la certezza, almeno la altissima probabilità del pieno raggiungimento del quorum. Eutanasia e droghe leggere avrebbero scatenato inevitabilmente un grande dibattito pubblico, portando alle urne ampie fasce di elettori magari non altrettanto interessati ai quesiti sulla giustizia. E tra questi ultimi, la dichiarata inammissibilità di quello sulla responsabilità civile del magistrato, popolarissimo (“chi sbaglia, paga”, sarebbe stato lo slogan irresistibile), ha completato il quadro di una mutilazione che è francamente assai difficile non considerare chirurgica. Ora, i quesiti residui affrontano temi assai meno popolari di quelli eliminati, ma comunque di grande rilievo per la qualità della vita sociale e civile del Paese. È giusto che il diritto di elettorato passivo debba essere pregiudicato da una sentenza di condanna non definitiva (legge Severino)? Non è uno scandalo che un magistrato che abbia fatto il PM per una vita possa diventare a proprio piacimento, chessò, Presidente di sezione della Corte di Cassazione (separazione delle funzioni)? Non è odiosa la pretesa che gli avvocati, pur presenti nei Consigli giudiziari, non debbano esprimersi sulla professionalità dei magistrati il cui operato osservano quotidianamente? Non è forse l’abuso della custodia cautelare uno dei più gravi malanni che affliggono la giustizia penale nel nostro Paese? Ed anche sul sistema elettorale del CSM, non è un male che l’opinione pubblica possa dire la sua. Sta di fatto che il dibattito non decolla, certo anche per imprevedibili contingenze internazionali che assorbono ormai quasi esclusivamente l’attenzione dei media. Ma le stesse forze politiche teoricamente schierate per il SI sembrano assai poco impegnate, quando non addirittura defilate, anche per ragioni di equilibri e di strategie elettorali non sempre nobilissime. In ogni caso, l’assenza della informazione da parte del Servizio Pubblico Radiotelevisivo è un autentico scandalo, e non ha, non può avere giustificazioni di sorta. Se quella nozione di Servizio Pubblico avesse ancora un senso, dovremmo vedere da qui al voto un quotidiano martellamento di informazioni, approfondimenti, dibattiti, che sono semplicemente doverosi nei riguardi dei cittadini elettori. Il venir meno di questa funzione di informazione pubblica è un vulnus mortale al diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati su una scadenza elettorale così importante. Altrimenti, l’esito elettorale sarà inesorabilmente falsato, e falsato sarà il dibattito politico che ne conseguirà. Dunque, ora rimbocchiamoci le maniche, sollecitiamo con forza la RAI a fare il proprio dovere, e lavoriamo tutti per il SI. I bilanci politici si faranno a tempo debito. Così la violenza di genere diventa invisibile e viene ignorata di Davide Varì Il Dubbio, 16 maggio 2022 Nel nostro Paese il 34,7% delle cause giudiziali di separazione con affido presenta indicazioni di violenza domestica mentre per quanto riguarda i procedimenti minorili sulla genitorialità siamo in presenza di violenza domestica nel 34,1% dei casi e nel 28,8 per cento di violenza diretta su bambini e ragazzi, per l’85% agita dai padri. Si tratta di fenomeni per lo più “invisibili”, perché non riconosciuti dagli operatori nel corso dei processi. Di più, in queste cause di separazione con figli in cui sono presenti tracce di violenza, nel 96% dei casi i Tribunali ordinari non acquisiscono i relativi atti e anche nell’iter successivo non ne tengono conto nell’84,4% dei casi anche per decidere sull’affido dei figli, mentre i Tribunali per i minorenni nei casi in cui c’è violenza finiscono con l’affidare i minori nel 54% dei casi alla sola madre, anche con incontri liberi con il padre violento. Sono questi in estrema sintesi i dati che emergono dall’ultima indagine della Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere dal titolo “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”, che è stata approvata all’unanimità il 20 aprile 2022. La vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa. La Commissione, sollecitata anche dalle numerose richieste di madri vittime di violenza a cui sono stati - in molti casi - sottratti i figli, facendosi carico di questo tema, ha deliberato di svolgere un’inchiesta volta a verificare la concreta attuazione in Italia dei principi della Convenzione di Istanbul e a individuare la portata del fenomeno cosiddetto di vittimizzazione secondaria in danno di donne e minori vittime di violenza. L’oggetto dell’indagine sono stati i procedimenti sulla responsabilità genitoriale pendenti a marzo 2017 di fronte ai Tribunali per i minorenni. Lo scopo è stato di “verificare la capacità di tutti gli attori coinvolti nei procedimenti de responsabilitate (magistrati togati o onorari, avvocati, consulenti e servizi sociali) di riconoscere la violenza e di considerarla un discrimine ai fini della decisione sulla responsabilità genitoriale e sulla domiciliazione dei figli minori, di comprendere se è presente una specifica formazione in materia di violenza di genere, di accertare quanto venga rispettata in concreto la Convenzione di Istanbul”. Il campione statistico ha riguardato 620 fascicoli, rappresentativi dei 1452 iscritti nei Tribunali per i minorenni al ruolo nel mese di marzo 2017. In Italia il numero complessivo di tali procedimenti nel 2017 era di 18938, di cui 13704 iscritti nei 12 Tribunali selezionati (Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Roma, Taranto e Torino). La violenza nei contesti familiari e affettivi - L’analisi ha rilevato che nel 34,1% dei casi nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale pendenti nei Tribunali per i minorenni sono presenti allegazioni di violenza (atti, denunce, annotazioni) e/o di disfunzionalità genitoriale che portano al rifiuto del figlio di vedere il genitore violento. Di questi, l’86,3% riguardano allegazioni di violenza, ovvero affermazioni di una delle parti (da sottoporre a verifica nel corso o all’esito del procedimento) relative a comportamenti violenti di uno o di entrambi genitori nei confronti dell’altro genitore o della prole, il 3% riguardano disfunzionalità genitoriali, ovvero comportamenti solo potenzialmente pregiudizievoli per i figli, mentre il 10,7% riguardano sia allegazioni di violenza che disfunzionalità genitoriali. Nel 16,9% dei fascicoli in cui si è riscontrata la presenza di violenza domestica sono presenti anche misure cautelari, in gran parte a carico del padre (91,3%). Nel 6,7% dei casi sono presenti sentenze penali di condanna, in gran parte a carico del padre (84,7%). Da notare che i documenti relativi alle violenze sono già presenti nelle memorie di costituzione e negli atti introduttivi, con deposito di atti quali referti o denunce nel 65,2% dei casi. Nel 28,8% dei procedimenti pendenti davanti ai Tribunali per i minorenni, la violenza riguarda direttamente il minore e viene esercitata nell’85,1% dei casi dal padre, nell’8,6% dei casi dalla madre e nel 6,3% da entrambi i genitori. Nel 9,4% dei casi con allegazioni di violenza e/o disfunzionalità genitoriale, viene segnalato negli atti introduttivi il rifiuto del minore di vedere un genitore, che nel 70,3% dei casi è il padre. Anche di fronte ai Tribunali dei minorenni, l’ascolto dei bambini e dei ragazzi avviene solo nel 33,4% dei casi. “Numerosi - scrive la Commissione - sono gli affidi ai servizi sociali, riscontrati nel 55,2% dei casi (175 casi su 317), misura che appare particolarmente punitiva per i genitori e fortemente rivittimizzante per le madri che hanno subito maltrattamenti. In questi casi, infatti, il genitore viene esautorato”. Nel 56,3%, cioè molto più della metà dei casi, l’affido ai servizi sociali viene confermato anche nell’ultimo provvedimento provvisorio assunto dal Tribunale per i minorenni. L’indagine ha appurato che nell’80,4% dei casi in cui il Tribunale per i minorenni ha adottato una decisione conclusiva: nel 19% ha confermato l’affidamento ai servizi sociali, nell’8% il collocamento presso i due genitori, nel 54% il collocamento presso la sola madre, con incontri anche liberi con il padre violento. “Solo a titolo esemplificativo - si legge nella Relazione - alcune delle ipotesi più ricorrenti di possibile vittimizzazione secondaria nell’ambito dei procedimenti civili e minorili, numerosi sono i casi in cui sono le stesse norme a condurre a questo effetto. Nei procedimenti di separazione e divorzio giudiziale, rispettivamente l’articolo 708 codice di procedura civile e l’articolo 4 della legge n. 898/1970, prevedono espressamente la presenza congiunta dei coniugi davanti al Presidente per il tentativo di conciliazione, senza alcuna deroga; l’applicazione di queste disposizioni in presenza di condotte di violenza domestica - in alcuni casi anche accertate dall’autorità penale - produce come conseguenza la necessaria contemporanea presenza nel medesimo contesto della donna che ha subito violenza e del partner violento, senza che sia prevista l’adozione delle cautele invece dettate nell’ambito dei procedimenti penali. La soggezione psicologica che subisce la vittima, in mancanza di adozione di necessarie tutele, può avere come conseguenza non solo l’esposizione a tensioni e pressioni agite dal violento, ma anche l’impossibilità per la vittima di esporre nel dettaglio le condotte subite nel corso della relazione familiare, con il rischio di mancata emersione dei comportamenti di violenza”. Ma la forma più ricorrente e grave di vittimizzazione secondaria può realizzarsi - continua la Relazione - nei procedimenti di affidamento dei figli, in conseguenza della mancata applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, nel quale si prevede che “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione”. Il mancato accertamento delle condotte violente e la conseguente mancata valutazione di tali comportamenti nella adozione di provvedimenti di affidamento dei figli, ha come conseguenza l’emanazione di provvedimenti stereotipati che dispongono l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, senza distinguere tra il genitore violento e la genitrice vittima di violenza. Con conseguente imposizione alla madre, per provvedimento della stessa autorità giudiziaria, di assumere decisioni - peraltro sovente ostacolate dal genitore violento, con l’ulteriore pregiudizio per il minore che spesso rimane privo dei necessari interventi di sostegno - per i figli insieme con l’autore della violenza, con il rischio di essere di nuovo esposta ad aggressioni, a pressioni o a violenti condizionamenti. I casi emblematici - La Commissione ha esaminato 36 casi di procedimenti aventi ad oggetto domande di affidamento di figli minori o relative alla titolarità della responsabilità genitoriale in cui le madri hanno denunciato di essere state vittime di violenza ovvero hanno denunciato i partner per abusi sui minori. Nell’ambito di questi 36 procedimenti, 25 donne sono state sottoposte, come epilogo delle loro vicende, ad un provvedimento con cui è stata limitata la loro responsabilità genitoriale ed i figli sono stati allontanati e collocati in luoghi alternativi all’abitazione nella quale vivevano, in applicazione di percorsi trattamentali che richiamano la cosiddetta Pas o teorie analoghe. Nei casi restanti vi sono consulenze tecniche che si pronunciano negativamente sulle capacità genitoriali delle madri ma che non hanno portato, al momento, a provvedimenti di allontanamento dei figli, anche se i casi sembrano purtroppo avviati ad avere la medesima conclusione. Nei casi esaminati, pur non costituendo un campione rappresentativo del fenomeno del riconoscimento della violenza di genere nei procedimenti aventi ad oggetto domande di affidamento di figli minori o relative alla titolarità della responsabilità genitoriale, emergono criticità che possono fornire elementi di conoscenza, soprattutto in relazione alle evidenze emerse dall’indagine statistica: la violenza denunciata dalle madri su di loro o sui minori non viene riconosciuta nei procedimenti civili o minorili. Le consulenze tecniche di ufficio presentano varie criticità: i consulenti non vengono scelti in albi con specifica formazione sui temi della violenza di genere; non si ricostruisce la storia della violenza; trova applicazione la molto discussa teoria dell’alienazione parentale, secondo la quale la funzione del padre è imprescindibile per il minore in nome della bigenitorialità, per cui se la violenza non viene riconosciuta le madri sono alienanti rispetto ai padri violenti; i minori cambiano spesso collocazione dalla madre al padre, a volte con un periodo temporaneo in struttura per essere preparati, con l’ulteriore trauma del prelievo forzoso. Criticità e proposte - Nella maggior parte dei procedimenti analizzati non emerge dunque una specifica attenzione al tema della violenza domestica, anche in presenza di allegazioni di parte in merito all’esistenza di condotte violente, e in alcuni casi persino in presenza di provvedimenti emessi nell’ambito di procedimenti penali. Nessuna specifica istruttoria viene compiuta per verificare se, in concreto, le condotte violente descritte dalla donna negli atti di causa o riferite nel corso delle udienze, siano state poste in essere. Solo in pochi casi si realizzano forme di coordinamento tra le autorità giudiziarie. Nei procedimenti presso i Tribunali ordinari, nessuna cautela viene adottata per evitare forme di vittimizzazione secondaria nel corso del procedimento: le parti compaiono davanti al giudice contemporaneamente per il tentativo di conciliazione. “In una prospettiva di riforma - continua la Relazione - occorre cambiare innanzitutto l’approccio culturale nei confronti della violenza contro le donne. Prima ancora di valutazioni e accertamenti psicologici, tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nel ciclo della violenza devono ‘riappropriarsi dei fatti’, interrogandosi ed accertando, ad esempio, le ragioni per cui un minore rifiuta di incontrare un genitore. È necessario che i giudici tornio alle prove “classiche”: sentire come informatori o testi i familiari, i vicini di casa, gli insegnanti. In caso di pendenza di processi penali occorre acquisire gli atti utili”. La Commissione pertanto, in relazione alle criticità e alle buone prassi richiamate, raccomanda a tutti gli attori istituzionali coinvolti, a partire dal Parlamento, formazione specialistica in materia di violenza domestica e assistita per tutti gli operatori e l’applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul sulla custodia dei figli. Al riguardo, la Commissione ipotizza la modifica dell’articolo 337-ter del codice civile, specificando che il ‘diritto alla bigenitorialità opera solo in presenza di genitori dotati di idonee capacità genitoriali, da ritenersi non sussistenti a carico del genitore autore di violenza domestica ed assistita, nel presupposto che il best interest del minore sia garantito pienamente assicurando al minore tutela dalla violenza domestica ed assistita; la modifica dell’articolo 337-quater del codice civile, che disciplina l’affidamento esclusivo dei minori ad un genitore, introducendo una presunzione di disfunzionalità genitoriale a carico del genitore violento, prevedendo che in presenza di indici di violenza domestica il giudice debba disporre l’affidamento esclusivo del figlio minore al genitore vittima di violenza, salvo che ciò non sia attuabile per altri motivi accertati; la modifica degli articoli 330 e 333 del codice civile, che disciplinano rispettivamente la decadenza dalla responsabilità genitoriale e le condotte del genitore pregiudizievoli per il figlio, prevedendo che in presenza di indici di violenza domestica l’accertamento di fatti di violenza domestica (da compiere anche in via incidentale nell’ambito del procedimento civile o minorile) costituisca condotta pregiudizievole compiuta dal genitore autore della violenza in danno del minore, salva prova contraria. La Commissione suggerisce di prevedere che in presenza di accertamento, anche in via incidentale e provvisorio, di condotte di violenza domestica vengano adottate idonee misure a tutela dei minori e del genitore che abbia subito violenza per le frequentazioni con il genitore che abbia agito violenza. Nel caso di allegazioni di violenza è necessaria attività istruttoria e ascolto diretto del minore e accertamenti tecnici, con esclusione di teorie non riconosciute ed accettate dalla comunità scientifica (Pas). Occorre vietare il prelievo forzoso dei minori al di fuori delle ipotesi di rischio di attuale e grave pericolo per l’incolumità fisica del minore stesso. La Commissione propone inoltre di istituire con urgenza una commissione interministeriale (Giustizia e Salute) che esamini l’attuale condizione di tutti i minori allontanati coattivamente dalla loro abitazione, valutandone gli effetti sul minore stesso e sulle madri. Indispensabile, infine, il sostegno alle donne vittime di violenza. La Commissione richiede di ampliare i requisiti di accesso al patrocinio a spese dello Stato per le donne vittime di violenza che debbano difendersi in provvedimenti civili o minorili per l’affidamento dei figli. Il fenomeno invisibile della vittimizzazione secondaria nei tribunali di Simona Musco Il Dubbio, 16 maggio 2022 Sono dati allarmanti quelli contenuti nel rapporto della Commissione Femminicidio presentato venerdì scorso in Senato. “Il 35 per cento delle separazioni giudiziali e dei procedimenti sui minorenni contiene violenza, ma essa viene negata nelle aule giudiziarie”. “Il 35 per cento delle separazioni giudiziali e dei procedimenti sui minorenni contiene violenza, ma essa viene negata nelle aule giudiziarie. È anche per questo che le donne non denunciano. Un marito violento non può essere un buon padre, deve passare questo principio. Possiamo cambiare la cultura imperante attraverso tanta formazione e credendo alle donne”. A dirlo è la senatrice del Pd e presidente della Commissione Femminicidio Valeria Valente, che venerdì scorso ha presentato al Senato la relazione dal titolo “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”. Un documento importante, che ha richiesto due anni di lavoro e che ha restituito un quadro drammatico: madri e figli finiscono per essere vittime due volte, prima dei mariti/ padri violenti e poi delle aule giudiziarie. Il 34,7% delle cause giudiziali di separazione con affido presenta indicazioni di violenza domestica, così come il 34,1% dei procedimenti minorili sulla genitorialità. Fenomeni per lo più “invisibili” perché non riconosciuti dagli operatori nel corso dei processi. Dalla relazione emerge dunque un quadro chiaro di violenza negata e quindi di vittimizzazione secondaria delle donne che la subiscono e dei loro figli da parte delle istituzioni, che portano ad esiti anche gravi, come l’allontanamento dei figli dalle madri che hanno denunciato e/o subito violenza e/o l’affidamento dei figli ai padri maltrattanti. “Una delle proposte avanzate dalla Commissione - ha sottolineato Valente - è di istituire una commissione di inchiesta interministeriale, che coinvolga i dicasteri della Giustizia, della Famiglia e della Sanità per capire come stanno i figli sottratti alle madri. Credo che lo dobbiamo a tutte quelle mamme che, pur avendo spesso denunciato violenza domestica, si sono viste sottrarre il figlio o la figlia con la forza, con provvedimenti spesso transitori e quindi non impugnabili, che però poi durano anni”. All’evento hanno preso parte, tra gli altri, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato e la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Secondo cui “non ci può essere spazio per teorie destituite di fondamento scientifico come la Pas” nei procedimenti di affido di minori nelle separazioni conflittuali, come ha anche “stabilito con una recente sentenza la Cassazione”. Cartabia ha sottolineato la necessità di un profondo cambiamento culturale e di formazione specifica per tutti gli operatori che si occupano di violenza di genere e minori. “Tra le situazioni più gravi ai miei occhi, puntualmente riportate nella relazione, vi è quello delle donne che, per il fatto di aver subito violenza, vengono considerate “cattive madri”, madri inadeguate. Madri che, oltre ad aver subito violenza, vengono allontanate anche dai figli che - in questa lettura - non sarebbero state in grado di proteggere. I 1500 casi esaminati da questo documento mostrano che non di rado le donne che denunciano e si separano dal compagno violento subiscono anche queste conseguenze. E i figli con loro. Occorre, anzitutto, dare un nome alle cose, e questa relazione lo fa, ad esempio quando scandisce con chiarezza che “la violenza assistita è da considerare anch’essa violenza sui minorenni”. Ma il problema, ha evidenziato la ministra, dipende anche dalle condizioni in cui lavorano i giudici, spesso non facili “per il sovraccarico e per il moltiplicarsi di questi casi portati alla loro attenzione”. Il presidente della Consulta ha invece posto l’accento sulla bigenitorialità, da non ritenere necessariamente “un ideale”: “Che accordo è quello fra due persone una delle quali continua ad esercitare violenza, sia pure non estrema, sull’altra? - ha sottolineato Amato - E perché la bigenitorialità è sempre meglio? Perché sempre? Perché anche quando il bambino ha paura del padre e non lo vuole vedere?”. Secondo il presidente della Consulta, occorre, nelle cause di separazione conflittuale con affido dei minori, “sfuggire al giudizio schiavo del “presentismo”, improntato al raggiungimento di un accordo ad ogni costo, e guardare anche agli elementi che possono gettare un’ombra sulla prognosi dei comportamenti futuri del genitore violento. Ma le norme non bastano, ha aggiunto: “Dobbiamo puntare sulla scuola che abbiamo ed è lì che in nostri ragazzi devono imparare a cogestire il mondo insieme alle donne e ad avere rapporti equilibrati con loro”. Squarciamo il velo sulle violenze domestiche ignorate anche dai tribunali di Valeria Valente* Il Dubbio, 16 maggio 2022 Perché le donne fanno fatica a denunciare la violenza che subiscono all’interno delle loro case, per mano di mariti, compagni, fidanzati? Perché le madri spesso non riescono a prendere le distanze dai mariti/padri violenti, anche se temono per la propria incolumità e per quella dei loro figli? Cosa succede alle mogli/madri che denunciano i mariti e cercano di separarsi? Cosa accade quando il Tribunale per i minorenni deve decidere sulla responsabilità genitoriale di bambine e bambini? È proprio vero che è così difficile per le donne vittime di violenza maschile, e per le madri in particolare, ottenere giustizia? Per rispondere a tutte queste domande, come Commissione Femminicidio abbiamo deciso ormai 4 anni fa di rilevare per la prima volta in Italia il fenomeno della cosiddetta ‘vittimizzazione secondaria’, cioè quel rendere vittima una seconda volta, all’interno di un’aula di Tribunale, le donne che hanno già subito violenza, con comportamenti di sfiducia e incredulità, di travisazione dei fatti, di manipolazione. Ciò che abbiamo scoperto è stato sconcertante e allarmante insieme. Una relazione ‘storica’ perché squarcia il velo sulla violenza domestica nei processi civili e delimita finalmente il fenomeno, approvata all’unanimità e presentata in un convegno al Senato con il Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato e la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Nel complesso, per la nostra indagine abbiamo preso visione, con i nostri consulenti, di quasi 1500 fascicoli, sia relativi ai procedimenti giudiziali di separazione davanti ai Tribunali civili, che riguardanti la responsabilità genitoriale di fronte ai Tribunali per i minorenni. Con l’aiuto dell’Istat abbiamo svolto due indagini campionarie per rilevare le tracce di violenza, capire l’entità del fenomeno e gli impatti sulla vita delle donne e dei loro figli. Attraverso l’inchiesta sui procedimenti di divorzio, abbiamo scoperto che in più di una separazione giudiziale su 3 (35%) sono presenti ciò che in gergo si chiamano ‘allegazioni di violenza’, cioè denunce, annotazioni, referti, dichiarazioni che accusano il marito e padre. Ma che nella quasi totalità di questi casi (96%), nell’udienza presidenziale che dà l’avvio al procedimento di divorzio e che dispone i primi interventi anche sull’affidamento dei figli, i giudici non tengono conto di queste tracce evidenti di violenza domestica. Non richiedono gli atti dei procedimenti penali, non approfondiscono le denunce, non parlano con le mogli in modo separato, ma le convocano insieme ai mariti. Vittima e carnefice nella stessa aula, anche se è vietato espressamente dalla Convenzione di Istanbul che protegge proprio donne e bambini da questi reati e che in Italia è legge ormai dal 2013. In un terzo dei casi trasformano addirittura la separazione in consensuale, anche se sarebbero obbligati ad evitarlo in presenza di violenza. Che consenso può esserci da parte di una donna che viene picchiata e abusata per anni, al punto da temere per la propria vita e per quella dei propri figli? La stessa cosa avviene nei Tribunali per i minorenni: nel 34 per cento dei casi in cui i giudici devono stabilire se ci sia ancora e a carico di chi la responsabilità genitoriale, siamo in presenza di violenza, in gran parte (28,8%) diretta ai danni delle bambine e dei bambini, esercitata per lo più dal padre. Ma pure di fronte a percosse, maltrattamenti e anche abusi sessuali, 7 bambine e bambini su 10 non vengono ascoltati direttamente dal magistrato. Nessun giudice pone loro una domanda semplice: perché non vuoi vedere, non vuoi andare a casa da papà? Perché avviene tutto questo? Perché per ‘vedere’ la violenza è necessario riconoscerla ed evitare comunque di rimuoverla. Perché anche gli operatori della giustizia (magistrati, avvocati, servizi sociali, consulenti), come tutti noi, sono immersi in pregiudizi e stereotipi per cui, nella famiglia, i ruoli sono prestabiliti e il rapporto di potere è asimmetrico ai danni delle donne. La violenza è dunque ‘negata’ e neppure nominata, ma derubricata a ‘conflitto famigliare’ (e in questo caso non scattano le leggi di protezione). Madri e figli sono dunque vittime due volte: una prima volta da parte del marito/padre e la seconda da parte dello Stato, delle istituzioni che dovrebbero proteggerli, ma che invece non credono, non approfondiscono, nei casi peggiori criminalizzano. Succede così che la maggioranza dei figli alla fine venga affidata alle madri, ma con incontri liberi con i padri violenti. Oppure che i figli vengano affidati ai servizi sociali, anche fino alla maggiore età. L’inferno che si perpetua. Nonostante la sentenza Massaro, un ruolo rilevante in questo contesto viene svolto dalle consulenze tecniche d’ufficio, spesso molto critiche nei confronti delle madri, quasi mai dei padri. Se i minori si rifiutano di vedere i padri violenti, le madri diventano ‘ostative, alienanti, manipolanti, malevole, simbiotiche’, nella battaglia a colpi di consulenze tecniche d’ufficio. Non c’è dunque da stupirsi se le donne decidono di non separarsi, di sopportare le violenze, di non correre il rischio. I rapporti di forza all’interno delle coppie e delle famiglie sono sbilanciati, il potere economico è in mano agli uomini, i figli sono armi di ricatto e come narrano le cronache dei femminicidi e dei figlicidi, l’inasprimento delle pene è inefficace di fronte a uomini disposti al suicidio pur di non perdere il possesso. Questo è il patriarcato che resiste al nuovo diritto di famiglia, alle sentenze della Corte Costituzionale, al doppio cognome, alle competenze, ai talenti e ai traguardi delle donne che avanzano nella società in modo lento ma inesorabile. Certo, si obietterà che per fortuna stiamo parlando del 30 per cento delle separazioni e dei provvedimenti di affido. Significa che, per fortuna, in 7 famiglie su 10 che entrano in un tribunale la violenza non c’è. Ma di questi casi dobbiamo preoccuparci e occuparci e per questo, nelle conclusioni, la Commissione di inchiesta sul femminicidio ha chiesto che processo civile e penale dialoghino (norma già prevista dalla riforma, deve entrare in vigore), che ci sia più formazione, che i giudici tornino ad accertare i fatti (con indagini, sentendo le persone informate, leggendo gli atti che attestano la violenza), ad ascoltare i bambini, che i minori non possano più essere separati con la forza dalle mamme, che le donne vittime di violenza vengano sostenute e protette. E in ogni caso, e per prima cosa, credute. *Senatrice Pd, presidente della Commissione Femminicidio Albano: “La tutela del figlio prevalga su tutto Il genitore violento deve essere allontanato” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 16 maggio 2022 “Una persona violenta non può essere un buon genitore, non può svolgere il ruolo educativo di guida autorevole nei confronti del figlio, e il principio di bigenitorialità deve cedere rispetto al superiore interesse del minore”. Ne è convinta Filomena Albano, già Presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, oggi giudice presso il Tribunale di Roma, sezione famiglia e minori. Con lei analizziamo i dati della relazione sulla “vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”, presentato venerdì scorso dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente. Il rapporto indaga questo fenomeno “invisibile”, analizzando e quantificando per la prima volta in maniera scientifica i percorsi di violenza nelle aule di tribunale, in ambito civile. Ciò che ne emerge è che la violenza sostanzialmente non viene compresa e riconosciuta. La sua esperienza conferma questo quadro? La mia esperienza sia come Giudice della famiglia e dei minori sia, in precedenza, come Presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, mi dice che i procedimenti di affidamento dei figli, in cui sono allegati fatti di violenza, richiedono una marcia in più di tutti - giudici, avvocati, consulenti tecnici, responsabili dei servizi - e una corsia preferenziale nella trattazione. Altrimenti c’è il rischio che la violenza sia invisibile, sia confusa con il conflitto familiare, e che, con il passare del tempo, la ricostruzione dei fatti diventi sempre più complessa. Il Giudice, quando vi sono allegazioni di violenza, deve procedere ad accertare i fatti, senza attendere l’esito del giudizio penale, che può intervenire anche dopo anni, perché in presenza di bambini e ragazzi occorrono decisioni rapide a loro tutela. La relazione della Commissione ha raccolto e analizzato dati del 2017; in questi ultimi 5 anni registro una progressiva maggiore attenzione al tema della violenza domestica e una aumentata consapevolezza del fatto che una persona violenta non può contemporaneamente essere considerato un buon genitore. Vediamo i dati nel dettaglio. Secondo il rapporto, in circa un terzo dei casi analizzati sono presenti allegazioni di violenza. Ma nelle cause di separazione con affido dei figli, nel 96% dei casi i tribunali ordinari non acquisiscono gli atti relativi. Perché? Perché il coordinamento tra penale e civile non sempre funziona, perché il grande numero di procedimenti in materia di affidamento dei figli rende difficile la necessaria trattazione tempestiva di quelli di violenza domestica, perché l’altra parte del processo quasi sempre contesta i fatti. E invece il Giudice civile deve non solo acquisire gli atti, ma anche procedere direttamente ad accertare i fatti, attraverso informatori, l’ascolto del minore, il libero interrogatorio delle parti, l’esame dei referti medici, delle fotografie, senza attendere l’esito del penale, che può intervenire anche dopo anni, mentre nei procedimenti di affidamento dei figli il tempo è importante. Sarebbe necessario, dunque, un maggiore coordinamento tra il penale e il civile? Il coordinamento deve essere migliorato. In diversi uffici giudiziari sono nati protocolli che prevedono scambi di informazioni e trasmissione di provvedimenti tra procura e giudice civile e tra giudici minorili e giudici civili, ma rimettersi alle buone prassi degli uffici non è sufficiente. Occorre un sistema informatico integrato che consenta al giudice civile di conoscere se a carico di un genitore che chiede l’affido condiviso del figlio vi sia un procedimento penale pendente per maltrattamenti in famiglia, accedere agli atti ostensibili, anche per evitare inutili duplicazioni di accertamenti, con perdita di tempo e di risorse e sofferenza per le vittime, sentite più volte nelle aule di giustizia. Spesso la violenza non viene neanche nominata nei processi, o viene derubricata a “conflitto familiare”. Un riflesso culturale che ha ricadute giuridiche? Il conflitto va distinto dalla violenza, ma la capacità di distinguere richiede competenze e esperienza, fin dalla introduzione dei giudizi, negli atti introduttivi da parte degli avvocati. Occorre sottolineare con forza che la violenza assistita è una grave forma di maltrattamento ai danni dei figli e impedisce l’esercizio condiviso della genitorialità. Il principio di bigenitorialità è considerato prioritario, anche quando c’è violenza. Ma secondo le ultime pronunce della Cassazione dovrebbe prevalere il superiore interesse del minore... Una persona violenta non può essere un buon genitore, non può svolgere il ruolo educativo di guida autorevole nei confronti del figlio e il principio di bigenitorialità deve cedere rispetto al superiore interesse del minore che, in ogni bilanciamento di interessi, va riconosciuto preminente, come ci ricorda l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, le norme costituzionali e sovranazionali. Il diritto alla bigenitorialità - che è un diritto del figlio - opera in presenza di genitori che hanno idonee capacità genitoriali. L’ascolto del minore soggetto dell’affido viene disposto raramente. Perché? Sbagliato. L’ascolto illumina il Giudice perché consente di fotografare dalla viva voce del minore la situazione familiare e risponde a un diritto dei bambini e dei ragazzi, che non devono essere invisibili nelle aule giudiziarie. Devono essere indicati con il loro nome, ricordando che non si tratta di “minori” ma di persone di minore età, titolari di diritti. Ormai peraltro il legislatore ha reso obbligatorio l’ascolto dei minori ultra dodicenni (art. 336 bis codice civile). Nelle consulenze tecniche le donne sono spesso definite “alienate, simbiotiche, fragili”. E a questo giudizio consegue una scelta drammatica: denunciare, con il rischio di vedersi allontanare i figli, o sopportare... Prima delle valutazioni psicologiche, affidate alle CTU, occorre che il Giudice esamini i fatti, anche avvalendosi dei suoi poteri di ufficio, a tutela dei figli minori, e lo faccia con tempestività, pur con le difficoltà derivanti dal numero dei procedimenti, perché la vittima deve sentire che le istituzioni sono dalla sua parte e che denunciare, far emergere la violenza, parlarne, è la scelta vincente, per sé stessa e come modello educativo per i figli. Il giudice può delegare la comprensione di una vicenda alla consulenza tecnica. Ma questi professionisti possono offrire un punto di vista parziale? Si tratta di profili distinti. Il consulente tecnico, nei giudizi di affidamento dei figli, ha il compito di valutare, nei suoi risvolti psicologici, le competenze genitoriali, ma il compito di accertare la sussistenza dei fatti di violenza, allegati negli atti, è un compito del Giudice, e non può essere ovviamente delegato. Veniamo al tema della formazione e della specializzazione di tutti gli operatori della giustizia. A che punto siamo? Sono positiva. Dal 2017 ad oggi vi è maggiore consapevolezza in ordine al tema della violenza, grazie alle iniziative in campo, ai corsi di formazione della Scuola Superiore della magistratura, dell’avvocatura, alle tante iniziative del privato sociale e delle associazioni che lavorano dalla parte delle vittime, all’opera di sensibilizzazione portata avanti dalla Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, alle iniziative degli uffici giudiziari che hanno individuato buone prassi per migliorare la comunicazione tra penale e civile e tra famiglia e minori tentando di superare la frammentarietà e duplicazione degli interventi. Cultura, buone prassi, buone norme. Cosa serve di più alla giustizia? Serve un cambio di passo culturale che parta dai più piccoli, dalle scuole, la cultura del rispetto nei confronti dell’altro deve essere la cultura dominante. La giustizia interviene sempre in un secondo momento, riflette i cambiamenti culturali, intercetta le spinte riformatrici che impongono un cambio di passo. È quello che si sta verificando adesso. È il momento della speranza e del cambiamento. “È sbagliato dire che solo un matto possa commettere delitti atroci” di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 16 maggio 2022 La criminologa Isabella Merzagora: “C’è una parte malvagia in ciascuno di noi, inquieta che l’assassino non sia riconoscibile. Il prima passo per chi uccide? Ammetterlo”. Alessandro Patelli, 20 anni, l’8 agosto 2021 accoltella Marwen Tayari, per un banale diverbio. Hamedi El Makkaoui, 24 anni, il 14 aprile 2022 massacra di martellate il papà della sua ex fidanzata Anselmo Campa, al culmine di una lite per un’automobile. Giovani con un lavoro, una famiglia solida, nessun precedente, che dal nulla hanno ucciso. Isabella Merzagora è professore ordinario di Criminologia alla Statale di Milano e, tra l’altro, perito in diversi casi giudiziari, come quello di Benno Neumair. L’abbiamo incontrata. Allora, forzando, tutti potrebbero uccidere? “Se partiamo dal presupposto che non ci sia una anormalità palese in chi uccide, allora tutti possono, nel senso che non hanno la pelle verde e le antenne. Ma abbiamo un panorama italiano con meno di 300 omicidi l’anno. Quindi non è che tutti possono, è che pochissimi lo fanno. Già ridimensioniamo e cambiamo prospettiva”. Restringendo, si può uccidere pur a fronte di un’apparente normalità psichica, sociale, economica? “Abbiamo dei precedenti illustri. Maso, 40 anni fa. Erika e Omar, 20 anni fa. Benno Neumair, appunto, più recentemente. Sono sempre stati i giovani adulti ad uccidere di più. Se si intende che non dobbiamo necessariamente cercare delle deprivazioni economiche e ambientali in chi uccide, è vero”. Spiazza e inquieta... “Ci fa vedere un po’ il male in una diversa prospettiva, perché purtroppo è una potenzialità nostra. Ma, ripeto, stiamo parlando di numeri assoluti e tassi di omicidio che così bassi non sono mai stati. Questo consola. Invece, è chiaro che non poter riconoscere e collocare socialmente ed economicamente i potenziali assassini generi una certa inquietudine”. Questi due ragazzi non sono stati in grado di dare il giusto peso a un’offesa o a frustrazioni? Sono fragili, o è una spiegazione comoda? “L’omicidio, chiamiamolo “gratuito”, ha dei precedenti, persino letterari. Ma un episodio che, visto da fuori, può sembrare banale, vissuto da un’altra persona potrebbe anche aver evocato qualcosa. Cosa non lo sappiamo, bisognerebbe parlare con loro. Se poi ci si chiede se una persona che ammazza ha qualche problema, direi di sì. Non vuol dire necessariamente una malattia o una incapacità mentale; dico che non sarà di certo un modello di equilibrio e armonia”. Se si esclude l’incapacità mentale, in quel momento uccidere è comunque una scelta? Avevano alternative... “Dipende. Diverso è l’omicidio programmato, non arrivo ad utilizzare il termine giuridico premeditato, che non mi pare sia in questi due casi, dall’omicidio d’impeto. Dipende anche dall’arma che viene utilizzata. Le armi sono sempre un guaio, e se hai un’arma con te una scelta l’hai già compiuta. Le armi da fuoco sono le più pericolose, perché se spari colpisci e non hai la sensazione di farlo”. In questi casi sono stati utilizzati un coltello e un martello, implicano una violazione del corpo che anche l’assassino percepisce. Su due ragazzi che non erano mai stati violenti che impatto può avere? “Questo non lo so. È giusto l’interesse per l’autore, ma chiediamoci l’impatto che tutto questo ha sui familiari delle vittime. Immaginiamo come si sentirà la figlia della seconda vittima rimasta orfana a causa di un ragazzo a cui lei ha voluto bene”. Dove è il confine tra la rabbia e la violenza? Perché non si sono controllati e altri lo avrebbero fatto? “Sapessi questo, avrei preso il Nobel per la criminologia. Sono tantissimi i motivi. Perché, per esempio, le donne uccidono meno? Siamo meno propense alla violenza. Ci sono motivi psicologici, sociali, culturali, magari anche psicopatologici. Troppi per poterne indicare solo alcuni”. Si abusa del termine raptus? “Lasciamo stare il raptus che non esiste. Si chiama discontrollo. Ci deve essere una base di vulnerabilità, che non vuol dire essere malato di mente”. Il passo successivo, anche come strategia difensiva, è chiedere il riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere... “Che qualche volta c’è, ma non è così automatica. Il comportamento violento e anomalo è una cosa, la malattia mentale è un’altra, l’incapacità di intendere e volere è un’altra cosa ancora. Anche una persona malata di mente può essere capace di intendere e volere. Quando sentiamo di un fatto violento, atroce, inusuale, non dobbiamo commettere l’errore di dire “solo un matto può fare cose del genere”. C’è una parte malvagia in tutti noi? “C’è così come c’è una parte forse eroica in ciascuno di noi. L’idea “quella è una cosa da matti, l’ha fatta un matto; io non sono matto, quelle cose non le faccio” è un sillogismo claudicante che serve a rassicurarci. Si commettono cose atroci anche senza essere matti. Abbiamo visto gente, non dico normale perché normale non significa nulla, non matta commettere cose atroci. E viceversa, tanti malati di mente comportarsi con mansuetudine, caso mai essere vittime”. Ragazzi come questi potrebbero uccidere ancora o, segnati, non lo ripeteranno? “Dipende da persona a persona. Bisogna conoscerli. Esiste però il trattamento criminologico, che non è la psicoterapia. Lo facciamo con i partner abusanti, per esempio, si può cercare di fare in modo che non lo ripetano. Non so se lo rifaranno o no, so che se nessuno spiega loro che non andava fatto e nessuno va a vedere perché l’hanno fatto, allora forse succederà ancora. Non si tratta di curarli, ma di risocializzarli”. Il loro futuro dipenderà molto dalle strutture e dalle persone che li seguiranno.. “In teoria i criminologi ci sono anche in carcere, benché siano molto pochi, così come gli operatori in carcere sono comunque pochi”. Il loro primo passo? “La responsabilizzazione. Rendersi conto di quello che hanno fatto. Non raccontarti storie, prendi atto di quello che hai commesso”. Le famiglie delle vittime vanno messe al primo posto, quelle degli assassini come possono uscirne? “Capisco la loro angoscia perché si sentiranno in colpa senza, forse, bisognerebbe conoscerli meglio, averne nessuna. È una tragedia che colpisce due famiglie per intero”. Falcone è stato prima deriso e poi ucciso, mentre le mafie si erano già prese il nord di Attilio Bolzoni e Giovanni Tizian Il Domani, 16 maggio 2022 Fuori è già buio, lo squillo di un telefono viola il silenzio nella stanza. Giovanni Falcone, direttore generale degli Affari penali del ministero della Giustizia, trattiene il fiato. È da dieci lunghi anni che aspetta questo momento. “Abbiamo vinto”, dice una voce. È quella di Vito D’Ambrosio, uno dei tre pubblici ministeri che hanno sostenuto la pubblica accusa in Cassazione. I testimoni presenti nella stanza raccontano di un sorriso che sembra una smorfia, di uno sguardo coperto da un velo di inquietudine. Una testimone è Liliana Ferraro, che è la vice di Falcone. Poi c’è il giovane magistrato Giannicola Sinisi. E con loro c’è anche Pietro Grasso, il giudice a latere del primo dibattimento celebrato nell’aula bunker di Palermo. Alle sei di sera del 30 gennaio 1992 il maxi processo è finito. E, per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra siciliana è sconfitta. I capi hanno perso la faccia davanti al loro popolo: avevano promesso e non hanno mantenuto. Ergastoli, condanne, la sentenza non riconosce solo l’esistenza della mafia ma anche la sua struttura unitaria e il suo governo, la Cupola. Non era mai accaduto prima, per un secolo c’erano stati solo proscioglimenti e assoluzioni, boss sempre liberi e impuniti. Fine dell’impunità - “Abbiamo vinto”, ripete Giovanni Falcone, senza troppa convinzione, mentre qualcuno fa salire dal bar una bottiglia di champagne. È calda, si brinda lo stesso. Nella stanza entra Livia Pomodoro, il capo di gabinetto del ministro Claudio Martelli. La prima telefonata è per il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna. La seconda per Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che giù a Palermo si è inventato il pool per indagare sui morti e sui soldi di un’organizzazione criminale che per tutti era invincibile. La terza telefonata è per Paolo Borsellino, l’amico palermitano di Giovanni Falcone. Poi il direttore degli Affari penali scompare nell’ascensore che scende dal quarto piano del palazzo piacentiniano di via Arenula, Liliana Ferraro lo rincorre e gli chiede: “Giovanni, c’è qualcosa che non va?”. Lui risponde: “No, no, stavo solo pensando a cosa può accadere ora, credo che ci sarà inevitabilmente una reazione”. L’altra mafia silente - Mancano 114 giorni al 23 maggio. L’anno prima, il 1991, si era chiuso malamente. Ed era iniziato anche peggio. D’estate poi, il 9 agosto, i sicari avevano assassinato Antonino Scopelliti, il magistrato che avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa in Cassazione contro la Cupola. Era in vacanza nella sua Calabria, lo hanno aspettato su una stradina fra villa San Giovanni e Campo calabro. In Italia, in quel 1991, più di settecento erano stati gli omicidi riconducibili alle mafie, un primato spaventoso. Praticamente quasi il doppio di tutti i delitti, quattrocento novanta, avvenuti dal 1969 al 1985 per mano di terroristi neri e rossi. Turbolenze nel grande crimine e regolamenti di conti nei selvaggi territori meridionali. Come in Calabria, culla di una mafia chiamata ‘ndrangheta scambiata per troppo tempo per una banda di pastori barbari e che invece sarebbe diventata l’organizzazione criminale più potente del terzo millennio. L’errore che ha contribuito a fare delle cosche calabresi un potere senza limiti fu considerarla una mafietta, buona solo a compiere rapimenti e rinchiudere i prigionieri nelle buche scavate sulle montagne dell’Aspromonte. Senza capire, o facendo finta di non capire, che sequestrava uomini e donne e bambini ma contemporaneamente dialogava con apparati dello stato, condizionava la politica locale, gestiva il traffico di droga soppiantando anno dopo anno i narcos siciliani. E lo faceva attraverso le sue ramificazioni nel nord Italia e all’estero. In Lombardia, per esempio, la ‘ndrangheta lavorava fianco a fianco con Cosa nostra e la camorra. Collaboratori di giustizia affidabili, ma solo in anni recenti, hanno ricordato ai magistrati antimafia di Reggio Calabria l’esistenza di un organismo chiamato “consorzio”: una struttura di governo composta da mafiosi calabresi, siciliani e campani, per gestire gli affari e il territorio lombardo e poi in tutte le regioni settentrionali. Milano polveriera - Questa loggia criminale era attiva fin dai tempi in cui a Milano spadroneggiava un certo Vittorio Mangano, ufficialmente stalliere presso la villa ad Arcore di Silvio Berlusconi all’epoca solo uno dei più famosi industriali del paese. Mangano, tuttavia, era tutt’altro che un guardiano di cavalli: era un narcotrafficante della mafia siciliana e referente delle cosche palermitane a Milano. Ed è proprio con Mangano che Marcello Dell’Utri tratterà per salvaguardare gli interessi economici di Berlusconi, Mangano scelto come “sponda” da Stefano Bontate e Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi, capi di Cosa Nostra. L’eroe Mangano, così esaltato dal Cavaliere e da Dell’Utri, per aver rispettato la regola del silenzio davanti ai pubblici ministeri curiosi di conoscere quei rapporti con Berlusconi e con il suo consigliere, che da lì a qualche anno prenderanno in mano il governo dell’Italia. Milano al pari di Palermo e Reggio Calabria era una polveriera pronta a esplodere. Un vecchio pentito disse a Falcone: “Dottore, qui la chiamate mafia, a Milano la chiamano corruzione”. Quattro mesi prima dell’attentato del 23 maggio l’inchiesta Mani Pulite iniziava a macinare indagati: il 17 febbraio 1992 è il giorno dell’arresto di Mario Chiesa, il primo “mariuolo” che provoca una slavina di avvisi di garanzia fino ad arrivare al capo dei socialisti Bettino Craxi. Le bombe, le mazzette, i morti ammazzati: eventi che accompagnano e, in alcuni casi, conducono alla fine della prima Repubblica. Falcone l’emarginato - È tutto sottosopra nel 1992. Il verdetto che condanna i boss cancella stereotipi e scavalca le cattive abitudini di una magistratura giudicante che non vuole mai “vedere” la mafia. Anche in appello il maxi processo è stato indebolito, smontato, snaturato. Adesso però è il trionfo del giudice istruttore Giovanni Falcone. Sono passati dieci anni dall’uccisione dell’onorevole Pio La Torre e del generale prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, dieci anni dalla legge sull’associazione mafiosa approvata dopo quei due delitti eccellenti, sono passati dieci anni da quando un dossier ha dato origine al maxi processo: il rapporto giudiziario “Michele Greco + 161”, Michele Greco il “papa” della mafia palermitana è il burattino in mano ai Corleonesi di Totò Riina più la crema del crimine nella provincia di Palermo. Sulla scrivania di Falcone arriva nel luglio del 1982, l’estate della grande mattanza, i morti ammazzati solo in città sfondano quota cento. È la mappa di Cosa nostra aggiornata. Giovanni Falcone ci lavora sino al 1985 (con i giudici Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello) e poi costruisce quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è il maxi processo. Anni di passione e di tormento. Indaga e intanto uccidono il consigliere istruttore Rocco Chinnici, indaga e intanto uccidono i poliziotti Ninni Cassarà e Beppe Montana che sono gli investigatori a lui più vicini. Nel tribunale di Palermo è solo. È solo in Sicilia, solo in Italia. Un giudice troppo diverso per piacere a una magistratura pacifica e paladuta, troppo audace il suo “riformismo rivoluzionario” in un paese che sopravvive sulle convenienze e sui ricatti. È temuto e adulato dalla politica, denigrato, guardato con sospetto. Lo chiamano “lo zar dell’antimafia”, lo accusano di fare “lo sceriffo”, la stampa locale (Il Giornale di Sicilia) lo attacca ogni mattina in prima pagina, è umiliato, deriso. Si candida a consigliere istruttore e gli preferiscono un anziano collega - Antonino Meli - che nulla sa di mafia, si fa il suo nome per diventare alto commissario contro il crimine organizzato e scelgono un magistrato - Domenico Sica - famoso perché apre inchieste che non arrivano mai alla fine, si mette in gioco per andare al Consiglio superiore della magistraura e lo bocciano, sta per diventare procuratore nazionale e lo fermano pure lì. Sempre più emarginato, sempre più esposto, prima provano a delegittimarlo con lettere anonime e poi tentano di farlo saltare in aria il 21 giugno del 1989 fra gli scogli della borgata dell’Addaura. Seviziato dalla sua corporazione, amatissimo e odiatissimo nella sua Palermo, il ministro della Giustizia Claudio Martelli lo vuole a Roma come direttore degli Affari penali. Alla fine del febbraio del 1991 comincia una nuova esistenza lontano, ma solo apparentemente, dalla Sicilia. Una seconda vita, a Roma - L’ultima indagine che firma è quella sui cosiddetti delitti politici, le uccisioni del presidente della regione Piersanti Mattarella, dell’onoreviole Pio La Torre, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina. Non avrebbe voluto farlo, avrebbe preferito indagare di più sulla morte di Pio La Torre collegandola con l’organizzazione segreta Gladio ma il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco non glielo permette. Un’altra mortificazione. E alla fine, a malincuore, per senso del dovere, mette il suo nome sotto quelle carte. Sono i pensieri che scivolano nella mente di Giovanni Falcone quando, la sera della sentenza di Cassazione del maxi processo, squilla il telefono al ministero. È la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Ancora non sa che a Roma ci sono sei mafiosi saliti da Palermo apposta per lui. Sono lì da da qualche settimana. Controllano i suoi movimenti davanti a via Arenula, lo cercano nei ristoranti fra l’isola Tiberina e Campo de’ Fiori, si preparano a ucciderlo. L’ordine viene da Totò Riina che, intuito l’incerto esito del maxi processo in Cassazione, invia una squadra di sicari nella capitale. “Dobbiamo rompere le corna a qualcuno”, sibila il capo dei capi davanti a tutti i boss della Cupola alludendo agli amici che non lo hanno garantito, primo fra tutti Salvo Lima, l’uomo politico più potente della Sicilia, vicino ai mafiosi e vicino anche a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica. E aggiunge ai suoi Riina: “Loro hanno fatto la Superprocura noi faremo la SuperCosa”. Quei sei sicari spediti a Roma sono alle dipendenze solo della SuperCosa. Ma perché Totò Riina è così sicuro che al maxi-processo ci saranno condanne di massa? Perché il giudice Falcone da quando è a Roma ha fatto più danni che a Palermo. Hanno tirato tutti un sospiro di sollievo quando il giudice se n’è andato dalla Sicilia, non hanno capito però che era più pericoloso là, nella capitale, alla direzione degli Affari penali. In undici mesi, quelli che vanno dal febbraio 1991 al gennaio 1992, predispone un “pacchetto antimafia” che poi i ministri della Giustizia Claudio Martelli e dell’Interno Vincenzo Scotti spingono all’estremo e costringono il capo del governo Andreotti a firmare. È il paradosso italiano. L’uomo politico più compromesso con la mafia, nella decima legislatura, approva le leggi più severe in materia antimafia della nostra Repubblica. Scherzi del destino. Ma Giovanni Falcone, da direttore degli Affari penali, fa anche altro. E di decisivo. Ordina un monitoraggio su 12.500 provvedimenti emessi dalla prima sezione della Cassazione, quella presieduta da Corrado Carnevale, un magistrato che è conosciuto come “l’ammazzasentenze”, uno che ha invalidato quasi cinquecento verdetti di processi di mafia e terrorismo, uno che sbeffeggia Falcone a ogni occasione, uno che aspetta il maxi processo per distruggerlo e distruggere il giudice che l’ha creato. Ma agli Affari penali decidono una “rotazione” dei presidenti della prima sezione della Suprema corte: il giudice Carnevale è fuori gioco, Falcone segnato. Eppure l’ex giudice istruttore palermitano pensa di essere al sicuro a Roma, passeggia sul Lungotevere senza scorta, incontra qualche amico in trattoria, si sente libero. Sa che prima o poi lo uccideranno, ma che lo uccideranno a Palermo. “Deve morire a Palermo” - Poi arriva il 12 marzo, l’esecuzione di Salvo Lima. Il giudice si precipita in Sicilia e avverte: “Da questo momento può succedere di tutto”. Mentre in Sicilia la mafia di Riina chiudeva i conti con i “traditori” e si preparava a eliminare i nemici, i clan fuori dai territori del mezzogiorno gestivano commesse milionarie. La camorra si stava inserendo nei primi lavori dell’alta velocità, sulla tratta Napoli-Roma, sulla Salerno-Reggio Calabria ogni cantiere doveva trasformarsi in un’entrata sicura per la ‘ndrangheta. Da Roma a Torino cominciano a emergere le prime collusioni tra cosche e politici di luoghi, a detta dei negazionisti del crimine, immuni dall’infiltrazione mafiosa. E già, dall’infiltrazione, ma non dal radicamento che è cosa diversa e più profonda, vuol dire diventare parte integrante della società e del mercato: le mafie lo erano in Emilia, Liguria, Piemonte, Lombardia, fin dagli anni Settanta. Ma non interessava a nessuno. Non faceva notizia, a differenza dei sequestri di persona, una garanzia per cronisti e direttori di giornale che alimentavano il racconto stereotipato del sud. Giovanni Falcone sa perfettamente che la mafia sta alzando il tiro. Vuole colpire in alto. E non solo lui. Vuole colpire la politica che in Italia ha voltato le spalle a Cosa nostra. Il marzo del 1992 annuncia la primavera e l’estate di sangue che verrà. Quattro giorni prima dell’omicidio di Lima - l’8 di marzo - il capo della polizia Vincenzo Parisi trasmette un telegramma, destinatari i comandanti generali dei carabinieri e della finanza, i direttori dei servizi segreti, i questori e i prefetti italiani. Invita a vigilare su possibili attentati, ricorda le minacce appena ricevute dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti e dai ministri Calogero Mannino e Carlo Vizzini. L’allarme è innescato da una lettera inviata ai giudici di Bologna da un detenuto coinvolto nei depistaggi sulla strage alla stazione, si chiama Elio Ciolini, racconta di un piano di destabilizzazione da parte delle destre europee e cita un summit a Zagabria. Qualche giorno dopo l’uccisione di Lima questo Ciolini torna a scrivere ai giudici di Bologna, insiste sull’apertura di una campagna stragista e sul rischio che corre “il futuro presidente della Repubblica” Giulio Andreotti. Il capo della polizia lancia un altro allarme. Ma Andreotti liquida Ciolini come “un pataccaro”. Intanto a Palermo tornano i sei sicari della SuperCosa. Totò Riina li fa rientrare. Il giudice Falcone deve morire ma non a Roma: deve morire a Palermo. E non “sparato”: deve morire in un altro modo. I boss di Cosa nostra si preparano al massacro. C’è Giovanni Brusca che è il figlio di Bernardo, l’amico più fidato dello “zio Totò”. C’è Pietro Rampulla, un artificiere, metà mafioso e metà fascista di Ordine nuovo. Ci sono i Ganci della Noce, c’è Totò Cancemi di Porta Nuova, c’è Salvatore Biondino, c’è Leoluca Bagarella. E tanti altri ancora. Trovano le micce e i radiocomandi, cominciano a fare le prove di velocità sul sentiero che corre parallelo all’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi scende verso Palermo, cercano su una collina il punto migliore di osservazione, individuano il canale sotto il manto stradale dove piazzare l’esplosivo. Provano e riprovano. E aspettano. A Roma intanto non riescono ad eleggere il nuovo presidente della Repubblica, quindici scrutini e quindici fumate nere. Mancano ventiquattro ore al 23 maggio. Una piccola agenzia giornalistica, “Repubblica”, vicina al deputato Vittorio Sbardella della corrente andreottiana della Democrazia cristiana, avvisa di “un botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario” che potrebbe influire sulla scelta del nuovo capo dello stato. Premonizioni. Il giorno dopo Giovanni Falcone salta in aria. Sono trascorsi trent’anni, c’è da scommettere che una cosa non mancherà durante le commemorazioni: l’ipocrisia del potere. Luigi Calabresi mezzo secolo dopo, il dovere della memoria di Antonio Carioti Corriere della Sera, 16 maggio 2022 Martedì 17 un incontro al Teatro Gerolamo con la vedova e i figli del commissario assassinato nel 1972. Intervengono anche la ministra Marta Cartabia e Paolo Mieli. Lo uccisero a Milano sotto casa sua, a colpi di pistola, il 17 maggio 1972, cinquant’anni fa. L’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi fece seguito a una violenta campagna di stampa contro la vittima, accusata di essere responsabile per la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana. Negli attacchi a Calabresi si distinse soprattutto il giornale “Lotta continua”, organo dell’omonimo gruppo della sinistra extraparlamentare. E proprio a Lotta continua appartenevano coloro che, dopo un lungo e controverso iter giudiziario cominciato nel 1988, sono stati condannati per il delitto in seguito alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Marino: Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. A questa vicenda è dedicato l’incontro intitolato “Luigi Calabresi e il senso di questi cinquant’anni”, che si tiene a Milano martedì 17 maggio alle ore 18.30 presso il Teatro Gerolamo (piazza Cesare Beccaria, 8), con ingresso a inviti. Racconteranno la loro drammatica esperienza di vita la vedova del commissario, Gemma Capra, che ha appena pubblicato il libro autobiografico La crepa e la luce (Mondadori), e i figli Mario (giornalista e scrittore, già direttore della “Stampa” e della “Repubblica”), Paolo e Luigi. Sono previsti anche interventi della ministra della Giustizia Marta Cartabia e di Paolo Mieli, storico ed editorialista del “Corriere”. La presenza di quest’ultimo è particolarmente significativa perché nel 1971 fu tra i firmatari, molto numerosi e illustri, di un appello comparso sul settimanale “L’Espresso” contenente espressioni molto dure nei riguardi del commissario Calabresi. Un gesto del quale a più riprese Mieli ha detto che si vergogna di averlo compiuto. La serata, che sarà animata dalle letture di Luca Zingaretti e dalle musiche di Manù Bandettini, rievocherà un momento tragico della nostra storia, i primi terribili passi degli anni di piombo, ma nello spirito pacato, improntato al perdono, che è stato sempre proprio della famiglia Calabresi, nonostante la situazione difficile in cui si trovò la signora Gemma a 25 anni, sola con due figli piccoli e un terzo in arrivo. A questo proposito vale la pena di ricordare i suoi due incontri con Licia Pinelli, vedova di Giuseppe, in un clima sereno di reciproco rispetto. Torino. Studenti in carcere per l’assalto all’Unione industriali, le mamme in piazza di Carlotta Rocci La Repubblica, 16 maggio 2022 In corteo con i giovani dei collettivi per chiederne il rilascio: tre sono in cella, quattro agli arresti a casa. Un paio hanno ormai i capelli bianchi, hanno già manifestato davanti al carcere di Torino, in valle di Susa, e ieri, anche in piazza Castello. Difendevano Dana Lauriola, militante di Askatasuna e del movimento No Tav, di recente libera dopo aver scontato due anni di reclusione, e poi il lungo elenco dei militanti a cui anni di indagini della digos di Torino e di inchieste della procura hanno inflitto misure cautelari più o meno restrittive. Si firmano “Mamme in piazza per la libertà del dissenso” e ieri hanno sfilato dietro ai ragazzi dei collettivi e del movimento studentesco nel corteo di solidarietà per i giovani colpiti da 11 misure cautelari dopo gli scontri davanti all’Unione Industriali del 18 febbraio scorso, l’ultimo corteo studentesco contro l’alternanza scuola lavoro del febbraio caldo delle scuole torinesi indetto dopo la manifestazione del 28 gennaio di piazza Albarello, finita negli scontri. Per tutti l’accusa è resistenza, tre sono finiti in carcere, quattro ai domiciliari. I giovani sfilano e ripetono quello che avevano già detto il pomeriggio stesso degli arresti in una conferenza stampa davanti a liceo Gioberti. Le mamme chiudono il corteo di ieri sera, partito da piazza Solferino, fino a quando non arriva in una piazza Castello piena di turisti. A quel punto prendono la parola leggendo un comunicato. “Emiliano, Francesco, Jacopo, sono detenuti da giovedì in carcere - dicono - questo non significa che siano stati giudicati colpevoli, sono innocenti fino alla sentenza. Questa forma di punizione anticipata viene assegnata ad alcuni, qui a Torino, con una frequenza inspiegabile e intollerabile. Questi arresti fanno seguito a settimane di repressione delle piazze degli studenti. Noi diciamo basta. Noi madri siamo e saremo sempre qui”. Parlano le mamme, e non perché i figli non siano maggiorenni o assistiti da un legale. Parlano le mamme che si sentono le madri di tutti i militanti finiti nei guai, un po’ - e con le giuste proporzioni - come le mamme del Leoncavallo, storico centro sociale milanese sgomberato negli anni 90. Parla Irene: “Io sono la mamma di Emiliano, ma quando sono entrata in questo gruppo anni fa, non l’ho fatto perché mio figlio avesse problemi con la giustizia, ma perché mi ritrovavo in quello che dicevano. Oggi parliamo per i nostri figli biologici e anche per gli altri”. Il figlio è in carcere accusato di aver colpito i carabinieri con almeno 50 colpi la mattina del 18 febbraio, è un esponente del centro sociale Askatasuna, nessuna condanna ma diversi precedenti di polizia - si legge nell’ordinanza della sua misura cautelare per i fatti di febbraio. Il giovane era in piazza, con lo spezzone sociale anche il Primo maggio. La mamma lo dice: “ Io credo nella non violenza, mio figlio è cresciuto con i miei ideali e con quello che gli ho insegnato, non rinnego niente anche se so che questo potrebbe averlo dov’ è ora “. Nei filmati che la Digos ha consegnato in procura il figlio si vede mentre colpisce i carabinieri. “Non condanno lui e nemmeno gli altri ragazzi. A tutti loro è stata stravolta la vita, l’alternanza scuola - lavoro è un abominio “ Padova. I magistrati in sciopero a Padova incontrano i cittadini di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 16 maggio 2022 Anm annuncia l’astensione sui problemi della giustizia e invita i padovani in aula d’Assise per un confronto. Per la prima volta i magistrati invitano i cittadini a “casa loro”, in tribunale, per spiegare i problemi della giustizia. E con essi il motivo per cui, per un giorno, non faranno udienze. È l’iniziativa, del tutto inedita, dell’Anm (Associazione Nazionale Magistrati) che lunedì alle 11, nell’aula della Corte d’Assise del Palazzo di Giustizia, spiegheranno ai padovani le ragioni della protesta e avranno con loro un confronto aperto sui problemi della giustizia. “Non è stata una decisione presa a cuor leggero, tanto che, responsabilmente, è stata proclamata una sola giornata di astensione e il codice di autoregolamentazione verrà interpretato in modo da garantire la celebrazione del maggior numero possibile di processi, con il minor disagio possibile per gli utenti del servizio giustizia, oltre a garantire ovviamente lo svolgimento delle attività urgenti e indifferibili”, si legge sulla comunicazione dell’Anm, firmata dal giudice Mariella Fino. “Non si tratta di un’iniziativa contro i cittadini né di una protesta per tutelare i nostri interessi. L’iniziativa è stata assunta per essere ascoltati, far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno, per affermare un’idea della magistratura che non è solo nostra, ma è quella contenuta nella nostra costituzione”. La magistratura con l’astensione vuole “denunciare pubblicamente che la riforma in discussione al parlamento non accorcerà di un giorno la durata dei processi, ma cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la costituzione”. “Riteniamo che così com’è oggi formulata la riforma pone dei concreti problemi di compatibilità con il quadro normativo di riferimento sovranazionale e anche per tale ragione ci vediamo costretti ad adottare le necessarie iniziative di tutela”, si legge sempre nella proclamazione dell’astensione firmata dall’Associazione Nazionale Magistrati. Un confronto aperto su questi temi si terrà domani nel Palazzo di Giustizia di Padova, aula Corte d’Assise, piano ammezzato. “Invitiamo i cittadini, le autorità, gli avvocati e le loro rappresentanze, il personale delle cancellerie e le loro rappresentanze sindacali, i giornalisti e gli esponenti del mondo universitario, a un pubblico dibattito”, la dichiarazione dei magistrati. Piacenza. Parte il progetto “Le Novate al lavoro” ilnuovogiornale.it, 16 maggio 2022 “Le Novate al lavoro”: è questo il logo che campeggia all’interno della casa circondariale di Piacenza per l’avvio del progetto “Work calls you”. Un’area della struttura diretta da Maria Gabriella Lusi ospiterà un call center nell’ambito della telefonia, gestito in una prima fase da dieci detenuti, destinati poi a diventare trenta. L’inaugurazione è avvenuta il 13 maggio alla presenza delle autorità e dei rappresentanti di diverse organizzazioni di solidarietà impegnate nel mondo carcerario. La nascita del progetto - Il progetto è nato grazie all’intervento di GFI Group di Montevarchi, con a capo il cav. Roberto Vasarri, già attiva in questo campo nel carcere di Castelfranco Emilia e a breve anche a Reggio Emilia. “La nostra prima società - ha detto Vasarri - è nata il 13 maggio 1991. Questo giorno segna perciò un anniversario molto significativo per noi. Ciò che accade a Piacenza è un grande esempio di sinergia”. Al varo del progetto erano presenti, fra gli altri, Massimo Parisi, direttore generale del personale e risorse del dipartimento di amministrazione penitenziaria, il prefetto Daniela Lupo, il sindaco di Piacenza Patrizia Barbieri, il procuratore Grazia Pradella e il presidente del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza Corrado Sforza Fogliani. La direttrice Lusi ha ripercorso i passaggi che hanno condotto all’avvio del progetto “Work calls you”, sottolineando la grande collaborazione del personale penitenziario e dei detenuti, anche nei momenti difficili vissuti nei mesi duri della pandemia nella primavera 2020. Il nostro obiettivo nella cura di questi nuovi spazi - ha detto - è migliorare, insieme all’ambiente che ci accoglie ogni giorno, anche la qualità di vita dei detenuti e del personale. Il Vescovo: il lavoro dà dignità alle persone - Il vescovo mons. Adriano Cevolotto era accompagnato dal cappellano del carcere don Adamo Affri e dal direttore della Caritas Mario Idda, realtà da anni impegnata alle Novate. Questa opportunità di lavoro - ha detto mons. Cevolotto prima di benedire i locali - è un passaggio importante per ridare dignità alle persone e per riconsegnarle in modo nuovo a se stesse e alla vita. Come diocesi siamo e saremo presenti con iniziative di solidarietà per favorire il reinserimento sociale di chi oggi è detenuto. Parisi: il rapporto tra il carcere e il territorio - Il carcere senza il territorio - ha detto Massimo Parisi - non ha alcuna possibilità di riuscita; vive, infatti, delle relazioni interne ed esterne che costruisce, a partire dal rapporto tra personale e detenuti. Quando visito una struttura penitenziaria, sono solito osservare lo sguardo dei detenuti per rendermi subito conto di come stanno effettivamente vivendo. Lo Stato nel 2021 ha investito per promuovere nelle carceri italiane nuove attività di volontariato, formative e sportive, ma dare fondi non basta, occorre creare sinergie con il territorio, come sta avvenendo a Piacenza. L’inaugurazione si è conclusa con un concerto dei Silver Horses e con un aperitivo a cura dell’Istituto alberghiero del Campus Raineri Marcora. Milano. Cinque buoni motivi per assumere un detenuto del carcere di Bollate primamilanoovest.it, 16 maggio 2022 Un video ironico e riflessivo per mettere in discussione i luoghi comuni. “Ecco perché assumere un detenuto”: questo è l’esordio del video. Ci sono cinque motivi di cui tener conto, secondo la cooperativa, per dare lavoro al carcerato: “La sveglia del tuo dipendente potrebbe non suonare, mentre un carcerato viene tutti i giorni buttato giù dalla branda. Il tuo dipendente, poi, potrebbe fare tardi a causa del traffico, mentre il carcerato è già sul posto di lavoro. Il tuo dipendente potrebbe prendersi pause troppo lunghe, mentre il carcerato mangia solo pane e acqua. Il tuo dipendente potrebbe commettere un reato e finire in carcere. Un carcerato è già in carcere, può solo continuare a lavorare”. E poi l’ultimo immancabile motivo: “Contrariamente agli stereotipi, un carcerato è un dipendente affidabile. Pensi che anche questa sia una battuta?”. Il termine della commessa - Si sta avvicinando il termine del contratto con la compagnia WindTre e la cooperativa bee.4 sta cercando nuove aziende con cui collaborare: “La commessa terminerà il prossimo 30 giugno e non sarà possibile un’ulteriore proroga - ha spiegato il socio Marco Girardello - I lavoratori che si dedicano al servizio di call center sono 75. Non si tratta di promozione di contratti, loro sono qualificati e formati per l’assistenza ai clienti”. La cooperativa sta cominciando a ricollocare i dipendenti, ma non è facile: “Da dicembre già 30 di loro si stanno dedicando ad altre mansioni. È un peccato, però, perdere la professionalità acquisita. Non è perché si lavora in carcere devono essere scarsamente qualificati, noi abbiamo un vero capitale che andiamo a formare”. Una missione - Per questo, è arrivata l’idea di creare il video: “Abbiamo deciso di partire con un tono scherzoso per mettere in discussione i luoghi comuni - ha continuato - Poi, però, a parlare sono le aziende che hanno collaborato con noi, ci sono proprio le loro testimonianze, non sono attori, ma clienti che hanno voluto generare un impatto sociale senza rinunciare alla qualità del lavoro”. Una missione, quella del carcere di Bollate, che ricalca quella della cooperativa bee.4: “È proprio questa la sfida - ha concluso Girardello - Questo è un carcere che non si accontenta. I detenuti stessi si mettono in discussione e il lavoro che svolgono qui è spendibile tranquillamente anche al di fuori”. Varese. Era finito in carcere, ora aiuta le persone disabili: la scelta di Khalid di Khalid Boudlal Corriere della Sera, 16 maggio 2022 L’arrivo dal Marocco a 14 anni, l’impatto col crimine, la svolta. “Decisivo è stato l’incontro con persone che hanno creduto in me”. La detenzione trasformata in “percorso”, storia in prima persona. Mi chiamo Khalid, ho 38 anni, sono di origini marocchine, vivo in Italia da molto tempo. Scrivo in fretta e mi scuso, tra poco devo uscire e alle otto bisogna che io sia già operativo sul furgone. Altre mattine, quando il furgone è impegnato, uso la macchina e faccio più viaggi. Sono fortunato perché ho la patente marocchina e non potevano ritirarmela, a molti altri con storie simila alla mia viene tolta. Ho sei persone con disabilità di vario tipo che mi aspettano ogni giorno: la mattina vado a prenderle a casa, le accompagno ai centri diurni che frequentano, al pomeriggio faccio il giro opposto. Non per tutte in realtà, alcune le riportano a casa i familiari, o altri operatori. In mezzo, nella parte centrale della giornata, come ogni anno a partire da questa stagione e fino a novembre mi cambio divisa e indosso quella da operatore del verde per occuparmi dei giardini del Comune qui a Cassano Magnago, in provincia di Varese. Traguardo - È qui infatti che si trova la comunità Emmanuel in cui vivo attualmente. E in cui dovrò stare ancora per un po’. Non molto in verità, diciamo che ormai vedo il traguardo. Ma arrivarci è stata una strada lunga e avrei molte persone da ringraziare per questa seconda vita che oggi è la mia. Per carità, mi ci sono impegnato anche io. Ci volevano tutte e due le cose: non ce l’avrei fatta senza di loro, non ce l’avrei fatta senza di me. Sono arrivato in Italia quando di anni ne avevo quattordici. Ho cominciato quasi da subito a spacciare e a mettermi nei guai. Per molto tempo ho vissuto in un mondo fatto di situazioni e persone irregolari, di nascondigli, di paura di essere arrestato. Cosa che infatti a un certo punto è successa. E all’inizio, quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo e pensavo cosa metterci dentro, le prime immagini che mi sono tornate in mente dopo tanti anni sono quelle del mio impatto col carcere. Un mondo di restrizioni e di sofferenza che ora mi sembra lontano, ma che ricordo molto bene. Non è di questo che voglio parlare però. Voglio parlare di quel che è venuto dopo e che mi ha fatto arrivare qui. Voglio dire una cosa che ho capito solo in seguito, guardandola a ritroso, e cioè che il carcere mi ha fatto incontrare persone che forse fuori non avrei mai incontrato. O magari sì, chi lo sa. Ma io le ho incontrate là, a San Vittore, nel reparto La Nave. E quella per me è stata la svolta. Una équipe di psicologhe, operatrici e operatori, volontari. Persone che hanno creduto in me, mi hanno ascoltato, aiutato non solo a tirarmi su nei momenti difficili ma soprattutto a capire cosa volevo fare della mia vita. In quel reparto ho imparato a scrivere articoli per il mensile che costruivamo ogni mercoledì, ho cantato in un coro. A San Vittore ho incontrato papa Francesco che ha pranzato seduto tra noi e ha diviso la sua cotoletta con me, che tra l’altro sono musulmano. Ho conosciuto Marta Cartabia, quando non era ancora ministra ed era venuta a trovarci. E così un po’ per volta, insieme, e questa parola la ripeto, insieme, perché nulla si può fare senza aiuto di qualcuno da una parte e volontà personale dall’altra, mi sono ritrovato dentro un percorso. Non facile, per niente. Un percorso di accettazione, comprensione, e poi stravolgimento totale di quelli che erano i miei abituali comportamenti di prima. Non sono “io” a essere cambiato, io sono sempre me stesso. Ma sono cambiate le cose che mi piacciono, che faccio, che penso. E il percorso è proseguito fuori, quando mi è stato proposto di andare avanti sulla strada della cura e del reinserimento attraverso una comunità, quella che mi ha accettato e in cui mi trovo tuttora. Pazienza e obiettivi precisi, questa è la via. E ora ho un lavoro, amicizie sane. Porto la mia testimonianza nelle scuole per evitare che altri ragazzi facciano gli stessi errori che avevo fatto io alla loro età. Certo, il timore di ricadere è sempre presente: esserci passato mi ha insegnato che la debolezza è sempre in agguato. Mai dare per scontato niente. Ma so anche di essere più forte, determinato, soprattutto consapevole di potere chiedere aiuto e che saperlo chiedere nei momenti difficili della vita è la prova di forza più grande che puoi dare. Ah, dimenticavo la cosa più importante. Gioco a calcio nella squadra del San Carlo. Quest’anno per la prima volta non sono stato capocannoniere e questo un po’ mi brucia... ma siamo arrivati secondi, comunque promossi. E l’ultimo mese, giocato in pieno Ramadan, è stato durissimo: arrivare a fine partita e non poter neanche bere... ma è un esercizio di volontà anche quello. Tutto serve. Mantova. Nell’orto segreto nascono frutta e verdura: detenuti-agricoltori nel carcere di Roberto Bo Gazzetta di Mantova, 16 maggio 2022 Il 28 e 29 maggio porte aperte al pubblico per visite guidate. La direttrice del penitenziario: “Un’attività terapeutica e risocializzante”. Frutta e verdura coltivata nell’orto più segreto e inaccessibile di Mantova. E per il momento solo per consumo interno, poi si vedrà. Lo hanno voluto ironicamente chiamare “Orto al fresco” e i prodotti che nascono dalla terra sono frutto del lavoro dei detenuti della casa circondariale di Mantova di via Poma. L’orto, ricavato all’interno della struttura, aprirà eccezionalmente le porte al pubblico di Interno Verde, il festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città e che quest’anno si terrà sabato 28 e domenica 29 maggio. Un appuntamento decisamente inusuale, organizzato grazie alla preziosa collaborazione della casa circondariale e della polizia penitenziaria. Una visita guidata permetterà ai mantovani di scoprire la natura che cresce all’ombra delle torrette di guardia e del filo spinato, curata e coltivata grazie a un progetto educativo di notevole impatto e significato. “Interno Verde già dalla prima edizione ha cercato di favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, lo sviluppo di una socialità spontanea e vicina, in un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione - racconta Licia Vignotto, coordinatrice della manifestazione -. In un momento in cui purtroppo gli istituti penitenziari italiani vengono citate dai mass media soprattutto per le criticità di cui si fanno carico, l’apertura straordinaria dell’orto di via Poma crediamo rappresenti non solo un’importante occasione formativa per le persone che avranno occasione di partecipare, tanto per i detenuti quanto per i visitatori, ma anche un importante segnale per la comunità”. La coltivazione è stata avviata lo scorso anno dopo i corsi di formazione finanziati dalla Regione e coordinati dal consorzio Solco e dalla cooperativa Hortus. Affianca e accompagna l’attività l’esperienza di Bonini Garden. “Il lavoro nell’orto offre ai detenuti un setting privilegiato rispetto al lavoro interno perché diversa è per loro l’esperienza sensoriale - spiega il direttore, Metella Romana Pasquini Peruzzi -. Vivere, sebbene per solo alcune ore della giornata, in una condizione di maggiore libertà e respiro lavorando la terra e vedendo il frutto del proprio lavoro ha anche un importante valore sotto l’aspetto terapeutico e risocializzante, fermo restando che attraverso questa attività i ragazzi hanno la possibilità di acquisire competenze spendibili all’esterno”. La coltivazione avviene sotto la sorveglianza della polizia penitenziaria e al momento i prodotti sono destinati solo alla cucina interna, anche se la direttrice non esclude un futuro verso un mercato esterno. La visita - disponibile solo su prenotazione, massimo 20 persone - si terrà il 28 e il 29 maggio alle 10. All’interno della struttura i responsabili del settore educativo, assieme ad alcuni detenuti impegnati nella coltivazione di frutta e verdura, spiegheranno la nascita e lo sviluppo del progetto. Per partecipare è necessario essere maggiorenni, non avere familiari detenuti, non avere carichi penali pendenti. La prenotazione deve essere inviata tramite mail entro mercoledì 18 maggio all’indirizzo info@internoverde.it, allegando la scansione del proprio documento di identità. Per informazioni: 339 1524410. Interno Verde è patrocinato da Comune e Provincia di Mantova e dalle associazioni Italiana Architettura del Paesaggio, Nazionale Pubblici Giardini e Parchi e Giardini d’Italia. Massa Carrara. “Carcere: quartiere della città”, ecco la vita dietro le sbarre La Nazione, 16 maggio 2022 Via al concorso fotografico: la quotidianità raccontata attraverso gli scatti. Mission dell’iniziativa è avvicinare la comunità esterna a quella dei reclusi. La quotidianità dei detenuti immortalata dai fotografi apuani. Il progetto fa parte della storica formula ‘Carcere: quartiere della città’, divenuto per la Casa di reclusione il leitmotiv di tante occasioni di incontro tra la comunità esterna e quella reclusa, grazie anche alla volontà della direttrice Maria Cristina Bigi. Il concorso fotografico “Sono c(x)attivo”, a cura del direttore artistico Giuseppe Capozzolo “Joh” favorisce un ulteriore approccio costruttivo della “città” con il suo “quartiere” attraverso delle riprese fotografiche effettuate durante lo svolgimento delle disparate attività cui è impegnata la comunità detenuta, sul fronte dell’istruzione personale, della libertà religiosa, delle iniziative culturali, ricreative e sportive. L’iniziativa ha dunque coinvolto fotografi amatoriali e professionisti, grazie anche alla collaborazione con il Club fotografico apuano e alla partecipazione di alcuni soci e del presidente Ennio Biggi. Il centro commerciale MareMonti Carrefour si è reso partner del progetto tramite l’allestimento di una mostra fotografica delle opere selezionate. “Siamo orgogliosi di poter ospitare un’iniziativa di tale portata e valenza sociale” dichiarano Giovanni Baron Toaldo, direttore del centro commerciale Maremonti e Francesco Nocca, direttrice dell’Ipermercato Carrefour. La dinamica del Contest ha visto una fase iniziale a gennaio con il reclutamento dei fotografi tramite i canali social del centro commerciale. Dal 3 al 9 maggio è stato poi effettuato lo svolgimento della sessione fotografica nella casa di reclusione, ben coordinato dalla Polizia penitenziaria. A seguito di un’accurata selezione delle fotografie scattate, è in corso in questi giorni l’allestimento della mostra su supporti fisici e digitali, che sarà visitabile fino a domenica 29. E’ stato infine indetto un contest con la finalità di coinvolgere i clienti del centro: votando le foto ritenute più impattanti, tramite apposito form per la votazione sia off- line, disponibile al punto accoglienza della mostra gestito dalla referente della ludoteca della casa di reclusione Mariagiovanna Guerra, on-line sul canale fb del centro. La prigione e la piazza di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 16 maggio 2022 La cosa più sconfortante, occupandosi di carcere e delle persone che vi sono sigillate dentro, è rendersi conto di quanto sia grande l’indifferenza. Quando non la ferocia, aizzata spesso a uso e consumo delle convenienze politiche del momento. E quanto è più facile voltare lo sguardo da un’altra parte, non sapendo, o preferendo non sapere, che la violazione dei più elementari diritti umani nelle carceri è cosa quotidiana. Convinti che quanto di terribile possa essere la carcerazione è roba che tocca “altri”. I cattivi, gli indegni, i miserabili che non vogliamo vedere in giro, a inquietare lo scorrere delle nostre esistenze. Eppure, siamo convinti che se le persone davvero sapessero, se davvero vedessero, se potessero confrontarsi con la verità bruciante di storie altre, con i propri dubbi e paure, anche, qualcosa in molti cambierebbe. Così, ragionando di questo, con Sandra Berardi, fondatrice dell’associazione Yairahia, che si occupa di diritti dei detenuti, ci siamo dette, o meglio, l’idea prima è stata sua, che mi ha detto: ma perché, invece di andare a portare testimonianze e discuterne, come normalmente si fa, in contesti in cui si è, in linea di massima, già tutti d’accordo, per una volta non provare a uscire dai dibattiti fra gli addetti ai lavori e portare il carcere in piazza? Già, portare la discussione sul carcere nelle strade, fra la gente, con i racconti, i libri, i dossier, le testimonianze dirette… per restituire la parola agli esclusi, alle loro voci che troppo spesso si infrangono sulle mura di “un’istituzione totale che ha storicamente fallito la sua missione”. Così è nata l’idea della mostra-mercato, di libri dal e sul carcere, “La prigione e la piazza”, promossa dalle associazioni Yairaiha Onlus e Napoli Monitor. E che subito ha trovato l’adesione e la collaborazione di La Partita, dell’Ex Caserma liberata di Bari, del Comitato verità e giustizia per i morti del S.Anna di Modena, di Economia Carceraria, dell’Associazione Bianca Guidetti Serra, degli editori Strade Bianche di Stampa Alternativa e Sensibili alle Foglie, di Nuvola Rossa, e del Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif. Una mostra-mercato che fra la primavera e l’autunno girerà l’Italia. Le regioni del Centro- Sud, per ora. Ma già il calendario potrebbe allungarsi, già altre sono le piazze che offrono il loro spazio. E sarà l’occasione di incontri/dibattiti per approfondire tanti aspetti della questione carceraria. Dall’ergastolo, ai regimi differenziati, alla salute, alla violenza in carcere, al pensiero abolizionista… E ora si parte. Questa settimana appuntamento il 13 e il 14, a partire dalle 16 di venerdì, a Napoli, a Piazza del Gesù Nuovo, tanto per cominciare, nel cuore della città che per prima ci accoglie. E saranno parole come pietre, con le testimonianze di persone che il carcere l’hanno visto da vicino, come Sandra Berardi, che molte prigioni ha ispezionato al seguito dell’ex deputata europea Eleonora Forenza, o Nicoletta Dosio, volto storico del movimento No Tav, che il carcere l’ha vissuto sulla sua pelle. Parole come pietre con, fra gli altri, il Comitato verità e giustizia per i morti del carcere sant’Anna di Modena. Perché se qua fuori noi ce ne siamo dimenticati, ci sono morti che ancora aspettano la giustizia di un briciolo di verità… se, con l’esplosione della pandemia di covid, “al disinteresse generale nei confronti dell’umanità reclusa si è aggiunta una narrazione tossica da parte dei media che hanno raccontato in maniera pregiudiziale le rivolte del marzo 2020, tacendo perlopiù la disastrosa non-gestione dell’emergenza pandemica nelle carceri, e ignorando gli scandali dei pestaggi e dei quattordici detenuti morti in circostanze dubbie durante le rivolte”. La luna / questa notte / riempie il cielo / riversa sulla terra / la sua luce bianca / illumina / ogni angolo / penetra nelle grotte/ senza parlare / visita i luoghi / dove vivono le ombre/ col volto di uomini / che odorano di grotta / di muschio. Uomini che odorano di grotta. È una poesia di Giovanna Farina, che ha subito quarant’anni di detenzione, che ci fa intuire qualcosa dell’odore del carcere, indimenticabile, per chi ne sia stato anche solo una volta sfiorato. Quell’odore… proveremo a portarlo un po’ in giro, sulle strade della gente libera, che possa esserne toccata. Che non è cosa poi così impossibile. “Non sapevo, non ne avevo idea…”, mi ha avvicinato una volta stupito, al termine di un incontro sull’ergastolo, un uomo che teneva per mano il suo ragazzino. E quasi mi ringraziava, e voleva saperne di più e di più… Ecco, basta questo, per uscire dallo sconforto, e provarci ancora, in luoghi aperti, dove le parole siano libere di raggiungere chiunque. Dunque, si parte da Napoli, per poi, di piazza in piazza, far sentire la voce degli ergastolani ostativi (quelli del fine pena mai ma proprio mai), raccontare che significa essere ammalati in carcere, e come in carcere ci si ammala, interrogare e interrogarci sul senso di una pena insensata come la reclusione in luoghi di segregazione sociale e di isolamento fisico, sempre più lontani dai perimetri urbani delle città e dal loro tessuto sociale. Quali alternative è possibile pensare, o meglio, abbiamo il dovere di pensare. Perché è proprio vero, come ricorda Elvio Fassone nel suo bellissimo Fine pena ora: “Per toccare il male basta allungare la mano; per toccare il bene serve uno sguardo speciale”. “Io Combatto”, libro-verità sui tossicodipendenti in carcere di Alessandro Ventimiglia La Discussione, 16 maggio 2022 “Giacomo è un ragazzo di 27 anni, con la passione per il pugilato e per il rap. Non è un criminale ma un ragazzo con disturbi di personalità, che appena tocca la droga va fuori di testa. A mio figlio continuo a dire “combatti e sali sul podio della vita”. Sono le parole di mamma Loretta Rossi Stuart che nel libro “Io combatto” racconta il rocambolesco e spesso feroce rapporto tra lei e il figlio Giacomo, nato libero ma diventato suo malgrado, schiavo delle droghe. Strumenti carcerari inadeguati - Talvolta, la forza e l’amore imprescindibile di una madre sono le uniche armi per salvare la vita di un figlio. Loretta, attrice, coreografa e autrice, svela attraverso questa testimonianza, la sua complessa missione di madre e quella di un inaspettato impegno sociale, che si scontra con l’inadeguatezza degli strumenti sanitari, legislativi e istituzionali cui si rivolge per tentare di recuperare una vita allo sbando, riuscendo a mettere sotto i riflettori emergenze scottanti. “Il nostro è un grido per i tanti Giacomo che troviamo nelle carceri. Parliamo di 98 detenuti che aspettano di essere curati in luoghi idonei, e complessivamente 715 in lista d’attesa per entrare in Rems - spiega la Rossi Stuart - Non si può chiudere in carcere una persona che è stata riconosciuta come incapace di intendere e di volere, quella persona deve essere curata con la dignità che spetta a ogni essere umano”. I pazienti psichiatrici non possono essere curati in carcere - La Rossi Stuart da anni lotta per difendere i diritti del figlio, ottenendo un riconoscimento da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cui è seguita la recente sentenza della Corte Costituzionale che impone una regolamentazione delle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. L’argomento è complesso e sembra distante da tutti noi ma, così come è accaduto a lei, può capire a chiunque di ritrovarsi improvvisamente ad avere un confronto con realtà molto dure: la dipendenza da sostanze stupefacenti, un figlio con fragilità psichiche, le comunità che in casi di persone “a doppia diagnosi” si rivelano inadeguate. Infine, il carcere spesso costretto a detenere pazienti psichiatrici, senza le necessarie cure. Un libro perché la società diventi più civile e umana - Una vera storia d’amore e di guerra narrata tra le pagine di un libro-diario, dove traspare tutto il bene del mondo che Loretta spera sempre possa bastare a liberare il “suo” ragazzo interrotto, dall’imminente catastrofe che li ha travolti senza troppa compassione. “Io, combatto” vuole illuminare, se possibile, il cammino incerto di tante madri, papà, ragazzi. L’autrice si mette a nudo, sospinta dal desiderio di superare lo stigma e trasformare una dura prova, per lei e per suo figlio, in una prospettiva di crescita e sviluppo della società civile. È un viaggio interminabile tra ricoveri in psichiatria, fughe da comunità, la porta carraia di Rebibbia, ultima spiaggia di un inferno dantesco dove Loretta ha continuato e continua a “tenere per mano” il figlio senza mai mollare la presa. L’amore in gabbia di Francesca Tricarico e Maria Corbi De Feo La Stampa, 16 maggio 2022 Cara Maria, vorrei condividere con te un sogno che si avvera dopo nove anni. Finalmente con la mia compagnia di attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione, di cui sono la regista, il 18 maggio fuori dalle mura carcerarie porteremo in scena Ramona e Giulietta, per la nostra prima serale romana presso lo Spazio Rossellini. Più che uno spettacolo, una spremuta di vita che abbiamo scritto e allestito nella Casa Circondariale Femminile di Rebibbia con le stesse attrici, allora recluse, che oggi lo interpretano all’esterno complice la pandemia. Sì, la pandemia, un momento complesso per tutti e ancor di più per gli istituti penitenziari che hanno dovuto interrompere per mesi le attività, per noi è stata un’occasione. Non potendo entrare in carcere per l’emergenza sanitaria, ma continuando a desiderare di portare lontano la voce delle mie donne, ho chiesto al magistrato di sorveglianza la possibilità di lavorare fuori con chi nel mentre era uscita alle misure alternative alla detenzione o in libertà, trasformando questo progetto in un vero percorso di inclusione lavorativa oltre che sociale. Non solo ha accettato, ci ha addirittura dato un permesso per andare in scena fuori Regione. Ramona e Giulietta è per noi particolarmente importante perché racconta e si interroga sull’affettività negata prima di tutto in carcere ma non solo. È la storia vera dell’amore tra due donne nato in carcere; e dei disordini che questo sentimento ha creato tra le altre detenute nelle sezioni. Il carcere non è mai il paese dei balocchi ma quell’anno lavorare è stato davvero complicato, c’era una rabbia e una violenza tra le ragazze che non avevo mai visto prima. Ho scoperto poco dopo che l’unione civile tra queste due donne, la prima celebrata in Italia in un carcere femminile, aveva diviso le detenute in due fazioni: favorevoli e contrarie. Così ho deciso di dedicare il laboratorio teatrale proprio alla ricerca dell’origine di questa rabbia e divisione, e non ho potuto non pensare subito a Romeo e Giulietta di Shakespeare. Un unico gruppo di lavoro, contrarie e favorevoli insieme, per riscrivere l’opera adattandola alla nostra storia. Come solo il teatro sa fare, avendo un obiettivo più grande di qualsiasi paura o contrasto, l’andare in scena, sono nati importanti momenti di scambio vero e scrittura in cui le partecipanti al lavoro si sono espresse liberamente. Insieme siamo arrivate a comprendere che la rabbia nei confronti di chi si ama all’interno del carcere, in realtà, deriva dalla frustrazione della privazione. Chi ha il compagno o la compagna fuori non può viversi la sessualità in carcere come invece avviene negli altri paesi europei, ma prima ancora della sessualità, non si può vivere l’affettività. E che cosa diventa un uomo o una donna quando viene privato della propria affettività? La rabbia non derivava dalla disapprovazione dell’altro ma da una mancanza propria. E così ancora una volta il carcere è stato un’occasione importante per riflettere sul fuori, attraverso la lente d’ingrandimento sull’uomo e sulla società che rappresenta. Non è un caso che questo spettacolo sia nato in un periodo in cui all’esterno erano forti e numerose le manifestazioni contro le famiglie arcobaleno, e che nonostante sia stato scritto qualche anno fa in carcere continua a essere attuale. Siamo felici che sia proprio Ramona e Giulietta il nostro primo lavoro in scena fuori le mura carcerarie per portare la nostra voce a un pubblico sempre più ampio e diversificato. Le mie attrici hanno scelto di continuare questo viaggio, di metterci la faccia, di non negare l’esperienza vissuta, perché abbattere lo stigma sociale legato all’esperienza detentiva, ancor di più quella femminile, è importante anche se a volte doloroso soprattutto nell’incontro con i giovani. Ma se proviamo vergogna noi per l’esperienza vissuta, come è possibile che la società la accetti? Da questa domanda è nata la decisione di continuare e oggi sta diventando un vero lavoro; dovevamo fare una sola replica che si è trasformata in una tournée, dalla festa del Cinema di Roma, ai teatri alle piazze ma mai in una serale. Questa sarà la nostra prima replica serale fuori dal carcere per chiederci insieme agli spettatori cosa diventa una donna o un uomo se privato dell’affettività? Risponde Maria Corbi De Feo Grazie Francesca di questa tua bella lettera. E il 18 maggio sarò allo Spazio Rossellini di Roma per vedere il vostro lavoro. Il carcere è un tema che mi coinvolge molto. Perché la “cattività” di una persona è uno stato innaturale che porta solo male. A tutti non solo a chi deve scontare la pena. La nostra Costituzione, articolo 27, dice chiaro e tondo che la pena deve tendere ala rieducazione, all’inserimento nella società. Quindi il carcere dovrebbe essere un’esperienza “positiva” da cui uscire migliori. Ma nelle nostre carceri, anche se non in tutte, le condizioni di vita sono inumane. Non solo per gli spazi, il sovraffollamento, ma anche per le dinamiche negative che si instaurano quando si è privati della libertà personale, e anche della dignità e della affettività. L’alto tasso di recidiva in cui incappano gli ex detenuti, superiore spesso al 70%, dimostra che le sbarre riescono solo a perseguire e non a rieducare. Un uomo allontanato dalla socialità e privato dell’affettività perde il valore della sua vita. E diventerà probabilmente peggiore. Oggi tira un vento che non mi piace per niente. Sempre più persone pronunciano la frase: “metterli dentro e buttare la chiave”. In spregio alle garanzie ma anche all’umanità. La voglia di vendetta, di punizione, supera non solo la capacità di perdono (strano in un paese cattolico!) e l’umanità ma anche il buon senso. Sarà una banalità ma più che le sbarre è l’amore a cambiare le persone. Scrivo di guerra per non dimenticare il mio (e il nostro) passato di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 16 maggio 2022 La Milano degli Anni 50, le mobilitazioni del ‘68, il terrorismo. E poi il conflitto del Kippur, l’Afghanistan, la Siria, la Libia, l’Ucraina. L’inviato del Corriere racconta pezzi di Storia intrecciandoli con la propria storia personale. Per rispondere a una domanda. Che senso ha cercare sempre la prima linea? Per oltre quarant’anni ho raccontato guerre. Ho studiato su libri e pubblicazioni che ne parlano; ne ho seguito le cronache; ho intervistato politici, strateghi e generali coinvolti. Soprattutto ho cercato di vederle in diretta, senza veline: dure, spietate, distruttive, caratterizzate molto più da violenze e soprusi che non da atti di generosità o solidarietà. Sono vissuto a lungo nei conflitti, trascorrendo interminabili stagioni tra i soldati, spesso al fronte, più ancora con le popolazioni colpite, negli ospedali, assieme ai profughi, cercando di comprendere le loro ragioni, spiegarle, immedesimarmi. Tutto ciò mentre in Europa si magnificava questo periodo come uno dei più pacifici nella storia del nostro continente. Il che è vero, specie se lo raffrontiamo con la catena di orrori che segna la prima metà del Novecento; tuttavia, ho sempre continuato a pensare che la guerra abbia segnato la formazione della mia generazione e che persista incombente alle nostre porte: dunque non poteva e non può essere ignorata, né tanto meno rimossa. La guerra è parte integrante delle vicende umane, anche i periodi più tranquilli ne sono condizionati e, in fondo, minacciati. Come ha ben sottolineato Margaret MacMillan, storica d’origine canadese docente all’università di Oxford, nel suo libro War. Come la guerra ha plasmato gli uomini (Rizzoli, 2021): “La guerra non è un’aberrazione, bensì rappresenta lo stato normale delle cose. Se non capiamo quanto è interconnessa con la società perdiamo una dimensione importante della storia... Non a caso ne abbiamo paura, eppure ne siamo anche affascinati...”. (...) I conflitti armati sono orribili, fomentano odio, cattiveria e disperazione; creano devastazione e morte. Per di più, in genere, risulta molto difficile arginarli. L’abitudine a premere il grilletto diventa vizio: è più semplice perseverare che non smettere. L’idea della possibilità di uccidere o rimanere uccisi s’incista nelle mentalità collettive, il ricorso alla violenza cessa di essere un tabù e assurge alla categoria di eventualità contemplata. Alla fine di un conflitto ne sorgono sovente di nuovi, subdoli, carsici, intricati, magari più sanguinosi e deleteri del precedente. Gli esseri umani concentrano intelligenza, energie e sentimenti per fini distruttivi, oppure per salvare sé stessi e i propri cari. Uno spreco assurdo. Ma allora che cosa mi ha spinto, già dagli anni Settanta del secolo scorso, a dedicare il mio lavoro di giornalista e la mia stessa esistenza (a costo sovente di metterla a rischio) al racconto dei conflitti? Se cerco i motivi, mi accorgo che devo partire dalle origini, dalla mia famiglia, dai primi anni di scuola sino all’università. E ritrovo elementi collettivi che coinvolgono in maniera più o meno diretta le attuali popolazioni europee. Uno di questi è il modo di rapportarsi con la violenza e con la morte. Lessico familiare e valori di riferimento - Sono temi strettamente correlati al tempo di guerra, tornati di tanto in tanto di attualità anche durante la lunga fase di pace seguita al 1945. Ho capito presto, da giornalista, quanto i miei valori di riferimento fossero fondati sui racconti familiari delle due guerre mondiali e poi rielaborati negli anni dei movimenti studenteschi. Mentre scrivevo questo libro mi sono anche reso conto che sono trascorsi due decenni dagli attentati alle Torri Gemelle, circa quattro dal mio primo reportage di guerra nel Libano invaso dagli israeliani e circa mezzo secolo dalle lotte cui partecipai come studente. Sono periodi più lunghi che non quelli che separavano la mia data di nascita dalla fine dei conflitti mondiali, che da adolescente mi sembravano preistoria, sebbene tanto attorno a noi parlasse ancora di essi. Infatti non mi stupisco quando, recandomi nelle scuole per tenere conferenze, incontro studenti che non hanno mai sentito parlare di Yasser Arafat, o non hanno idea di cosa avvenne al tempo della Guerra del Golfo nel 1991. Personaggi e fatti che ho seguito da reporter, e che restano nella mia memoria come pietre miliari della contemporaneità, sono per le nuove generazioni parte di una storia che non appartiene al loro vissuto. Eppure ha contribuito a formarlo e va dunque ricordata, perché conoscerla aiuta a comprendere chi siamo. Distratti e inconsapevoli - Il mio è un lungo viaggio, dall’Italia cosparsa dalle macerie dei conflitti mondiali alle mobilitazioni del ‘68 e alle violenze degli “anni di piombo”, dall’Israele segnato dal conflitto del Kippur conosciuto da ragazzo sino ai fronti più caldi tra il Medio Oriente e l’Afghanistan, al terrorismo, alle repressioni di brutali regimi dittatoriali, al precipitare di Siria e Libia nel caos dopo le “primavere arabe”. Distratti e inconsapevoli, sovente pensiamo (ci illudiamo) di essere ormai immuni dai conflitti, come se il caos della battaglia non ci riguardasse più e fosse appannaggio d’altri. Ma la guerra, con le sue distruzioni e stragi, sta nel nostro Dna e nel mondo attorno a noi. Se non la riconosciamo, se non la rileggiamo per quello che è stata, cogliendone le tracce nel contemporaneo, rischiamo seriamente di tornare a esserne vittime: oggi più che mai, con lo svanire degli equilibri sorti dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in un mondo sempre più multipolare, dove il caos dei variegati interessi affievolisce il ruolo dell’Onu e mina la speranza di poter risolvere pacificamente i conflitti. La consapevolezza del valore della democrazia - Dove cresce il senso di incertezza e di fragilità, e s’indebolisce la consapevolezza del valore della democrazia. Da giornalista, assisto al braccio di ferro sempre più serrato tra Paesi liberi e totalitarismi, tra governi eletti che garantiscono il dibattito, la critica, l’indipendenza dei media (perfino l’imporsi confuso e chiassoso dei social) e invece le nomenklature intolleranti che dominano con la forza, gli assassinii mirati degli oppositori, l’ingiustizia e il sopruso. La guerra è alle nostre porte, ma non sappiamo che fare. Ci manca una cultura della difesa attiva dei nostri interessi. Appare evidente in Libia, in Siria, nel confronto con Egitto e Turchia, ma anche di fronte al braccio di ferro tra Washington e Pechino, alla politica espansionistica russa. Gli Usa non si batteranno più al nostro posto - Le maggiori crisi internazionali vedono un’Europa imbelle, passiva, impotente. Gli Stati Uniti non si batteranno più al nostro posto, o sono sempre meno disposti a farlo. Più rapidamente lo capiremo e prima impareremo a difenderci da soli, se non vogliamo essere sopraffatti. Questo, anche questo, ci hanno insegnato gli ucraini aggrediti da Vladimir Putin. Sono alcune tra le riflessioni che motivano il mio racconto, ambientato tra le crisi belliche del Novecento e del nuovo Millennio, compresa quella “guerra” di cui si parlò allo scoppio della pandemia del Coronavirus, quando l’incubo della morte collettiva fece irruzione nelle nostre case col diffondersi del Covid-19. Ritengo che quello sia stato un parallelo fuorviante. Mi pare anzi che proprio la poca familiarità con la guerra, la mancanza di esperienze dirette con i suoi orrori, ci induca a nominarla a sproposito. Detto in altro modo: credo che la rimozione dei conflitti, l’aver dimenticato il nostro passato, ci abbia portato a non saper più dare il giusto nome alle cose. Illusi di vivere una pace che non c’è - Vediamo la guerra dove non c’è, così come (più spesso) ci illudiamo di vivere una pace che tale non è; non sapendo riconoscere e comprendere l’una e l’altra, ci lasciamo guidare dai timori del momento, incapaci di tracciare una genealogia degli eventi. Invece, capire da dove veniamo può aiutarci a ritrovare, con il senso del presente, anche i valori e le passioni che ci possono orientare. Da ragazzino fui grato a coloro che mi raccontavano gli eventi che avevano vissuto in prima persona. Anche per questo ho avvertito l’urgenza di narrare a mia volta. Il mio lavoro mi ha garantito negli anni una serie di palcoscenici unici nel loro genere: rievocare, testimoniare, ricordare fanno parte del processo di passaggio da una generazione all’altra e mi piacerebbe potervi contribuire. Giornata contro l’omofobia, la destra attacca la circolare per le scuole: “Ideologia gender” di Agnese Ananasso La Repubblica, 16 maggio 2022 La replica: “Scandalosa è la discriminazione”. In occasione del 17 maggio il ministro dell’Istruzione Bianchi invita gli istituti a organizzare iniziative per la sensibilizzazione dei diritti Lgbt. Ma la Lega e Fratelli d’Italia protestano. M5s: “Si strumentalizza un provvedimento in linea con i principi costituzionali”. Il 17 maggio si celebra Giornata internazionale contro l’omofobia la bifobia e la transfobia e il ministero dell’Istruzione ha inviato a tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado una circolare per “creare occasioni di approfondimento con i propri studenti sui temi legati alle discriminazioni, al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Un provvedimento che ha fatto andare su tutte le furie Fratelli d’Italia, che ha colto al balzo l’occasione per sollevare un polverone e ribadire la propria contrarietà a qualsiasi iniziativa che, secondo il partito della Meloni, promuove “l’ideologia gender”. “Sconcertante la circolare del ministero dell’Istruzione guidato da Patrizio Bianchi con la quale si invitano le scuole di ogni ordine e grado a celebrare il prossimo 17 maggio la ‘Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia’. Un tentativo inaccettabile di far rientrare dalla finestra quello che il Parlamento italiano ha fatto uscire dalla porta: il ddl Zan”. Lo dichiarano i deputati di Fratelli d’Italia Paola Frassinetti ed Ella Bucalo, responsabili del dipartimento Istruzione e della Scuola di FdI, e la senatrice Isabella Rauti, responsabile dipartimento Pari Opportunità, Famiglia e valori non negoziabili. “Fratelli d’Italia presenterà immediatamente interrogazioni alla Camera e al Senato chiedendo al ministro Bianchi di ritirare questa circolare con la quale si vorrebbero spalancare le porte delle scuole all’ideologia gender. Inoltre invitiamo le famiglie a prestare attenzione e a pretendere che qualsiasi iniziativa proposta dagli istituti scolastici preveda il consenso preventivo informato dei genitori”, aggiungono le parlamentari. A cavalcare la protesta politica non mancano gli esponenti della Lega. “Un conto è combattere e condannare giustamente ogni tipo di discriminazione; un altro è fare propaganda di genere attraverso attivisti Lgbt ideologizzati cari a Pd e M5s”, scrive su Facebook il sottosegretario all’istruzione Rossano Sasso, esponente della Lega (...). Se Pd e M5s vogliono imporre il ddl Zan, devono farlo votare in Parlamento e non sponsorizzarlo negli uffici del ministero. Esiste il consenso informato e bisogna avere rispetto dei genitori e del patto educativo di corresponsabilità, così come bisogna avere rispetto dell’art. 29 della Costituzione”. Ma c’è chi risponde, sempre a colpi di post, alla Destra. “L’unico vero scandalo è chi vorrebbe insegnare invece la discriminazione ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze, chi vorrebbe deturpare la loro naturale propensione all’apertura verso il mondo e alla sua meravigliosa varietà con un concetto gerarchico di essere umano, dove alcuni sono meno umani degli altri, e quindi non possono godere degli stessi diritti”. Scrive su Facebook la senatrice Alessandra Maiorino, coordinatrice del comitato per le politiche di genere e per i diritti civili del M5s. “E’ osceno che protestino verso questa iniziativa del ministero, che si fonda, come ricorda la stessa circolare, sull’articolo 3 della nostra Costituzione”. Dello stesso tenore il messaggio della sottosegretaria all’istruzione Barbara Floridia, senatrice M5S: “È triste assistere alle strumentazioni della Lega e dei giornali di destra, che in queste ore gridano allo scandalo per una circolare del ministero dell’Istruzione che invita le scuole a creare occasioni di approfondimento in ogni scuola di ogni ordine e grado. Sono centinaia nel nostro Paese le aggressioni e le violenze a sfondo omofobo, molte delle quali avvengono purtroppo in ambiente scolastico. Anche per questo la scuola ha il dovere di lottare contro l’isolamento e contribuire a un dibattito lucido e consapevole tra gli studenti. La posta in gioco è seria, le conseguenze dell’omofobia e della transfobia sono note: emarginazione, insuccesso o abbandono scolastico, fino a comportamenti autolesionisti o addirittura suicidi. Da parte mia piena sintonia con la circolare del ministero dell’Istruzione e pieno appoggio a tutte le scuole che metteranno in campo iniziative e attività a sostegno della lotta contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia”. Le panchine Lgbt, è buio a Nord Est di Assia Neumann Dayan La Stampa, 16 maggio 2022 È in atto un conflitto a Nord Est che vede coinvolti due sindaci, due Comuni, due fazioni politiche opposte: al centro dello scontro le panchine arcobaleno. Domani sarà la giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia; se la città di Este piange, la sinistra di certo non ride. La panchina dello scandalo da Este, con sindaco di sinistra, si colora pochi chilometri più in là, a Ospedaletto Euganeo, governata invece dal centrodestra: è proprio vero che a volte la realtà supera l’immaginazione. Il sindaco di Este Matteo Pajola, eletto con lista civica e sostenuto da sinistra e Pd, ha parlato di “sensibilità diverse”, ha detto che queste “sono tematiche importanti e che vanno condivise, è giusto prima sottoporre la questione a tutti i consiglieri comunali”. Ci sono consiglieri comunali che fanno parte dalla lobby del monocolore? Consiglieri esponenti di punta del movimento dark? Ci sono editorialisti di Vogue nel Comune di Este contrari alle righe orizzontali perché ingrassano, anche fossero solo nelle panchine? Chi può prendere in considerazione solo l’idea che una panchina arcobaleno a qualcuno possa non andar bene? E se anche fosse, tanto meglio, usiamo pure tutto il bonus facciate rimasto per dipingere panche, panchette e panchine; che si indignino pure. In Italia ce ne sono moltissime, l’anno scorso in questo periodo solo a Milano se ne aggiungevano 13 a quelle già esistenti. Il sindaco di Ospedaletto Euganeo, Giacomo Scapin, si è messo a dipingere in prima persona la panchina a favore di camera e a favor di unanimi consensi. Anche altri due Comuni hanno detto di voler dare ospitalità alle panchine, Granze e Solesino. Nessuno direbbe che l’oggetto “panchina a strisce colorate” possa essere divisivo, e invece ricordiamo tutti quando nel novembre 2021 Elio Vito, deputato di Forza Italia, propose di dipingere con i sette colori una panchina a Montecitorio, in aggiunta a quella dipinta di rosso per la lotta al femminicidio. La risposta di Federico Mollicone di Fratelli d’Italia non si fece attendere: “Caro Elio, con il massimo rispetto per te e la tua proposta, io proporrei in aggiunta, una panchina “azzurra e rosa” per la difesa degli eterosessuali - sia maschi che femmine - maggioranza silenziosa oramai, sempre più discriminata. Fammi sapere cosa ne pensi. Con immutata stima”. Forse era una mail situazionista, forse un pezzo di avanspettacolo, perché non si capisce bene nel mondo di Mollicone dove siano tutti questi eterosessuali discriminati, umiliati e offesi per colpa della loro sessualità; fatto sta che è sempre la panchina - così innocua, così carina, così divisiva - a dare il via a inaspettate contestazioni. Pensiamo anche, ad esempio, alle panchine anti-homeless, all’architettura crudele, al decoro disumano. Ma il simbolo è fatto apposta: se non fosse oggetto di contestazione non sarebbe funzionale, sarebbe un cerchio vuoto. Le prese di posizione becere servono esattamente a questo: a esaltare per distacco le buone idee. Il sindaco Pajola ha detto che sarebbe meglio badare più alla sostanza che non ai simboli, cosa certamente condivisibile e un po’ benaltrista, ma senza simboli come ci rendiamo conto che stiamo facendo qualcosa di buono? Anche colorare una panchina, a volte, può essere rivoluzionario. Iran. Giro di vite sugli intellettuali nell’indifferenza dell’Occidente di Farian Sabahi Corriere della Sera, 16 maggio 2022 Entro il 21 maggio sarà portato al patibolo il ricercatore Djalali mentre in carcere finiscono registi e giornalisti che hanno contatti con l’estero. Mentre l’opinione pubblica europea è totalmente assorbita dall’aggressione russa all’Ucraina e dalle conseguenze dell’aumento del prezzo dei carburanti, la magistratura iraniana ha annunciato che procederà con l’esecuzione del ricercatore Ahmad Reza Djalali entro il 21 maggio e procede con una serie di arresti. La notte del 9 maggio Firuzeh Khorovani e la sua collega Mina Keshavarz sono state prelevate nelle loro abitazioni di Teheran. Il giorno dopo gli agenti sono entrati nella casa di un’altra regista, di etnia curda. Di lei non sappiamo il nome: la famiglia preferisce che si tenga un profilo basso perché le pressioni dei media potrebbero renderne più difficile il rilascio. Troppo spesso le autorità della Repubblica islamica hanno suggerito alle famiglie delle persone arrestate di tacere, affinché la notizia non trapelasse all’estero. Di fatto, il silenzio dei famigliari non è però mai servito ad accorciare le detenzioni. Il copione è sempre lo stesso. Gli intellettuali iraniani sono abituati a un certo margine di manovra. Qualche critica al regime l’hanno sempre mossa. Giornaliste, scrittrici, registe sono abituate a indossare il velo, obbligatorio in patria, e a toglierlo all’estero. Si sono sempre comportate così, ed è quasi sempre andata bene. Poi, all’improvviso, la linea rossa si sposta, senza preavviso. E loro se ne accorgono quando è troppo tardi. I servizi segreti irrompono in casa, la notte. Perquisiscono l’appartamento, sequestrano computer, telefoni cellulari, carta d’identità e passaporto. Ti bendano e ti portano via. Destinazione sconosciuta, anche se è ovvio che l’arresto è politicamente motivato: hai avuto rapporti con un Paese straniero, hai presentato i tuoi libri e i tuoi film. Potresti essere accusata di spionaggio. Quindi di certo finirai nel famigerato carcere di Evin, a Teheran nord. Declino le mie frasi al femminile, ma lo stesso copione vale per gli uomini. Qualche giorno fa è successo proprio così a Firouzeh Khosrovani, che sui giornali italiani ha spesso scritto. Le è stata concessa una telefonata ai famigliari per comunicare che sarebbe finita nella sezione 209 del carcere di Evin destinata ai prigionieri politici. Laureata all’Accademia di Brera a Milano, master in giornalismo a Teheran, parla un ottimo italiano. Suo è il bel cortometraggio Rough Cut sui manichini dai seni amputati in Iran, metafora di un regime ossessionato dal corpo femminile. E suo è il lungometraggio Radiograph of a Family che nel 2020 ha vinto il premio best feature all’Amsterdam International Documentary Film Festival e che Firouzeh ha portato lo scorso marzo in Italia. Un racconto intimo, struggente, in cui la protagonista offre allo spettatore uno spaccato del proprio mondo: il padre laico studente a Ginevra; la madre musulmana praticante che con la Rivoluzione del 1979 trova un suo ruolo e diventa integralista. In mezzo, la piccola Firouzeh. Con Firouzeh Khosrovani ci eravamo conosciute a Teheran nel maggio 1997, proprio quando il riformatore Muhammad Khatami era stato eletto alla presidenza della Repubblica islamica durante il movimento di protesta Onda Verde del 2009, era stata fermata con altri registi che si erano recati nel cimitero Behesht-e Zahra della capitale iraniana per posare fiori sulle tombe di coloro che avevano protestato per i brogli che avevano portato alla rielezione, per un secondo mandato, del presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad. Ad essere arrestate in questi giorni sono state anche Mina Keshavarz, Parisa Anvari e Reyhaneh Taravati. Donne in prima linea. Classe 1984, Mina ha realizzato sei documentari e nel 2019 un suo lavoro era stato accettato al Festival internazionale di Berlino. Secondo il sito IranWire, tutti gli arresti sono stati emessi a seguito di mandati del tribunale di Shahid Moghaddas, vicino alla prigione di Evin. Un modo per intimidire gli intellettuali in un Paese dove da anni la gente comune protesta sempre più spesso contro il carovita, anche perché nei quattro anni con Donald Trump alla Casa Bianca il rial (la valuta locale iraniana) ha perso l’80 percento del suo valore. I sussidi di Stato non bastano più, e forse potrebbero essere eliminati. I generi alimentari costano sempre di più perché l’Iran si rifornisce di grano in Ucraina e in Russia, e con la guerra tutto è più difficile. Forse queste donne sono solo pedine, merce di scambio. Un modo per fare pressione sull’Europa, che conosce le loro opere e le stima. Mentre Bruxelles pensa solo alla guerra e quindi trascura la ripresa dei negoziati per l’accordo nucleare. Un accordo indispensabile per alleggerire le sanzioni internazionali sull’Iran e quindi per far ripartire l’economia della Repubblica islamica. Medio Oriente. Cariche ai funerali di Shirin, Abu Aqla Accuse a Israele di Davide Frattini Corriere della Sera, 16 maggio 2022 Scontri al corteo funebre della reporter di Al Jazeera uccisa a Jenin. Condanna di Casa Bianca e Unione europea. La polizia smuove la folla a colpi di bastoni, gli uomini che portano la bara ondeggiano, uno di loro si accascia, il feretro rischia di cadere. Shireen Nasri Abu Aqla, la giornalista di Al Jazeera uccisa a Jenin mercoledì, è ormai un simbolo politico. Gli arabi la celebrano come la “voce della Palestina”, in migliaia si sono presentati a Gerusalemme per la cerimonia. Accusano gli israeliani di averla ammazzata durante gli scontri nella città della Cisgiordania, mentre un’indagine interna all’esercito per ora sostiene di non poter stabilire chi l’abbia colpita: gli ufficiali spiegano che in quel momento era in corso una sparatoria tra i miliziani e i soldati, chiedono di poter analizzare il proiettile recuperato dai palestinesi durante l’autopsia. Adesso gli agenti provano a spiegare di essere intervenuti in tenuta anti-sommossa contro i lanci di pietre e gli slogan nazionalisti. Restano le immagini convulse, le scene che hanno stravolto un momento di raccoglimento nel dolore. La Casa Bianca, attraverso la portavoce Jen Psaki, condanna l’incursione “contro una processione che avrebbe dovuto essere accompagnata dalla calma”. Josep Borrell, Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea, dice di essere “sconvolto per l’uso sproporzionato della forza e il comportamento irrispettoso delle truppe israeliane”. Shireen è stata omaggiata giovedì nel palazzo della Muqata a Ramallah dal presidente Abu Mazen, il funerale di ieri a Gerusalemme Est - dove viveva, aveva anche la nazionalità americana - è diventato il più grande dai tempi del corteo che ha seguito nel 2001 il feretro di Faisal Husseini, leader palestinese e discendente di una delle famiglie musulmane più importanti della città. La bara con il corpo della reporter che lavorava per il canale di proprietà del Qatar è stata trasportata dall’ospedale verso una chiesa - Shireen era cristiana - e la polizia è intervenuta quando i partecipanti - urlavano “daremo il nostro sangue per te” - avrebbero tentato di deviare dal percorso concordato. Gli agenti hanno anche strappato decine di bandiere palestinesi. L’esercito ieri è intervenuto a Jenin per arrestare un capo della Jihad Islamica, i vicoli di nuovo trasformati in zona di guerra come nel giorno in cui è morta Shireen. La città - lo era anche durante la seconda intifada - è considerata il centro in Cisgiordania da dove è alimentata l’ondata di attentati che sta colpendo Israele dalla fine di marzo, i morti sono già diciassette.