La lezione infinita del mio maestro Valerio Onida di Marta Cartabia La Repubblica, 15 maggio 2022 L’ex presidente della Corte Costituzionale è morto all’età di 86 anni: la titolare del dicastero della Giustizia, che fu sua allieva alla Statale di Milano, lo ricorda così. Chiunque lo abbia sentito parlare ricorda anzitutto il suo pensiero limpido e la sua intelligenza velocissima e vivacissima. Valerio Onida - professore universitario, avvocato, giudice e presidente della corte costituzionale - era così: districava con immediatezza ogni nodo giuridico e andava dritto all’essenziale. Attraverso i suoi occhi e attraverso le sue parole tutto diventava semplice. Chiunque si sia cimentato in una discussione con lui ne usciva segnato dalla sua abilità argomentativa, dalla logica ferrea, dalla tenacia, dalla convinzione, dalla passione con cui sosteneva il suo pensiero. Segnato dalla lotta, come Giacobbe nella Bibbia. Chiunque abbia lavorato con lui, conosce bene la sua tempra: instancabile, infaticabile, sempre all’opera. Fino all’ultimo, fino a che le forze glielo hanno consentito. Un fuoriclasse, in una generazione di costituzionalisti di straordinaria statura. Un fuoriclasse che portava la sua grandezza con una semplicità disarmante e che rifuggiva ogni forma di ostentazione, appariscenza, retorica, formalismo. Per me Valerio Onida è stato - ed è! -anzitutto un maestro. Un maestro non convenzionale. Incontrato quasi per caso in un’aula universitaria a metà degli anni 80, il professor Onida mi ha conquistato di schianto per l’originalità del suo insegnamento e per la sua inusuale disponibilità. Insegnava un corso sperimentale di “giustizia costituzionale”. Ci radunava intorno a un tavolo, in una saletta dell’Università Statale di Milano, in via Festa del Perdono. Leggevamo e discutevamo per ore le sentenze della Corte costituzionale, sforando sempre la finestra di tempo che ci era concessa dall’orario ufficiale. Discutevamo - se si può dir così - da pari a pari. Prendeva sul serio ogni nostra osservazione. La valorizzava, la confutava, la correggeva, la corroborava. Eravamo una dozzina di studenti, in anni in cui le aule di giurisprudenza erano gremite di centinaia di studenti e i professori erano lontani, distanti in tutti sensi. Non lui, però. Non Valerio Onida. Insegnava con modalità che avrei poi visto - alcuni anni più tardi - nelle università anglosassoni. Il suo era un metodo naturalmente socratico, in un contesto in cui tutti insegnavano ex cathedra. L’incontro con Valerio Onida nelle aule universitarie fu l’incontro con “una tempra eccezionale di maestro” capace di “riscaldare col suo fuoco la materia sorda”, come scriveva Piero Calamandrei nelle sue riflessioni sull’università. Nella sua umanità, nel suo modo di essere, di insegnare e di lavorare ho trovato sempre piena corrispondenza con l’impeto ideale che mi ha mossa agli inizi verso gli studi giuridici: una vera passione per la giustizia, di là e attraverso i tecnicismi della professione. Un maestro non convenzionale, con un pensiero non convenzionale, sempre all’avanguardia, sempre aperto, sempre pronto a misurarsi con le sfide della storia, sempre creativo e audace. La giustizia costituzionale, l’integrazione europea, la dimensione internazionale dei diritti umani, il carcere, la giustizia riparativa sono alcune delle direzioni del suo variegato impegno verso cui anche io ho avuto il privilegio di dirigere i miei passi, tenendo dietro “coi piedi a le sue orme” (Pg XII 116). Il lavoro accademico con lui non era mai semplicemente fine a se stesso. La sua raffinatissima riflessione scientifica e la sua dedizione alla formazione dei più giovani - nell’università e nella scuola della magistratura, che così fortemente ha voluto e realizzato - sono stati sempre accompagnati ad un ardente impegno civico. Ai suoi numerosissimi allievi - e allieve, tante allieve - ha insegnato ad essere così: lavorare sodo con gli studi e con l’insegnamento, senza mai sottrarsi all’impegno nelle istituzioni e nel dibattito pubblico, per diffondere e difende i valori della Costituzione. La sua “scuola accademica” è vasta e variegata. Come ogni vero maestro, più che legare o assimilare a sé, Valerio Onida aveva la capacità di far fiorire la personalità dei suoi allievi. Sospingeva sempre ciascuno a seguir la propria stella. Di ciascuno amava l’originalità, l’irripetibilità, la libertà di pensiero e di stile. Come originali, irripetibili, liberi sono i suoi cinque figli. Invero, ci sentiamo un po’ tutti suoi figli. Valerio, per un singolare segno del destino, ti sei congedato da noi in un giorno per me particolare. Una coincidenza, certo, nulla più. Ma una coincidenza che non può non farmi pensare alla paternità. Un maestro, un padre. Mi mancherai, ci mancherai. Ci hai testimoniato valori che durano nel tempo, Valerio. E nulla ci priverà - come diceva Dante al suo maestro Brunetto Latini, de “La cara e buona immagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / mi insegnavate come l’uom s’etterna”. Addio a Valerio Onida, costituzionalista garante degli ultimi di Pier Luigi Petrillo Il Domani, 15 maggio 2022 È scomparso Valerio Onida, uno dei più nobili costituzionalisti e intellettuali italiani, strenuo difensore dei diritti degli ultimi. Divenuto professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Milano a quarantasette anni, Onida è stato colui che più di tutti ha interpretato il suo ruolo accademico come un impegno civico, caratterizzato dal dovere etico di aiutare gli altri, specialmente i più deboli, a capire la portata dei propri diritti e dei propri doveri. Eletto giudice della Corte costituzionale, nel gennaio 1996, e divenuto poi, nel settembre 2004, presidente della Corte stessa, Onida ha avuto il gravoso compito, tra gli altri, di mettere ordine all’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, quella che ha ridisegnato, nel 2001, le competenze tra lo stato e le regioni. Quale giudice delle leggi, Onida - relatore di 290 sentenze - ha cercato di dare un senso a quella riforma contraddittoria e potenzialmente lesiva del principio fondamentale dell’unità e unitarietà della Repubblica fissato dall’articolo 5 della Costituzione, introducendo concetti che sono divenuti pietre miliari nella giurisprudenza. Concluso l’impegno in Corte, ha investito tutto sé stesso in un progetto di volontariato presso lo sportello giuridico del carcere di Milano Bollate, aiutando i detenuti a scrivere i ricorsi alla Corte europea dei diritti umani, dando così voce a chi quella voce non sapeva di avere per far valere i propri diritti. Come ha ricordato il collega Marco Ruotolo qualche anno fa, per Onida il carcere era il luogo della legalità perché la legalità, spiegava Onida, “è la cifra quotidiana del vivere in una situazione di detenzione, molto più di quanto non avvenga in una vita libera, in cui si esercita per lo più una libertà di fatto”. Contro la riforma Renzi-Boschi - Dal 2009 al 2012 presidente dell’associazione dei costituzionalisti italiani, Onida si è opposto con forza al tentativo di revisione della Costituzione promosso dal Governo Renzi-Boschi, sottolineando la natura eversiva di quelle modifiche anche per i suoi effetti dirompenti sul ruolo del Parlamento. Ma Onida non era un talebano della Costituzione, uno di quelli che si oppone sempre e comunque a chiunque provi a “toccare” la legge fondamentale. All’opposto, Onida era consapevole della necessità di “manutenere” il testo costituzionale così da renderla ogni giorno corpo vivo tra i cittadini. Anche per questo aveva manifestato il suo favore alla riduzione del numero dei parlamentari, sottolineando come non fosse la quantità di deputati e senatori a generare un Parlamento efficace ma la qualità dei suoi componenti. Con lo stesso approccio pragmatico e idealista al tempo stesso, Onida aveva accettato, due anni fa, la proposta dell’ex Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, di presiedere una commissione governativa per inserire la tutela ambientale tra i principi fondamentali della Costituzione. Onida era perfettamente consapevole dell’effetto simbolico di tale modifica, avendo lui stesso, come professore e come giudice, da tempo affermato il principio dell’ambiente come “interesse pubblico di valore costituzionale primario e assoluto”. E tuttavia volle lo stesso presiedere quella commissione e dar via ai lavori che hanno poi portato alla modifica degli articoli 8 e 41 della Costituzione perché, sottolineava, la Costituzione è prima di tutto strumento educativo delle nuove generazioni e guida dei decisori pubblici del futuro. Senza partito - Difficilmente etichettabile con un partito di appartenenza, Valerio Onida apparteneva a quella schiera di giuristi che pur contribuendo alla crescita politica del paese, erano rimasti sempre liberi nel loro modo di pensare, rifuggendo ogni tipo di classificazione. Una schiera di giuristi, come Gustavo Zagrebelsky, Augusto Barbera, Giuliano Amato, che non hanno mai concepito il proprio mestiere come quello di un classico professore universitario che tiene lezione, fa gli esami e poi vive la propria vita facendosi i fatti suoi, percependo, all’opposto, il dovere - prima di tutto morale - di aiutare le istituzioni e le comunità a comprendere i valori costituzionali e ad assicurarne la piena attuazione. È naturale, quindi, che la scomparsa di Valerio Onida generi commozione e tristezza. Ma come spesso accade con i maestri, il suo pensiero e i suoi valori restano - nei saggi scientifici come nei comportamenti - insegnamento vivo per chiunque crede che la nostra Costituzione non sia solo una materia di esame all’università ma la radice del nostro futuro. Addio a Onida, maestro coraggioso. Dall’aula al volontariato in carcere di Simona Ballatore Il Giorno, 15 maggio 2022 Il ricordo di Marilisa D’Amico: “Innamorata del Diritto costituzionale grazie a lui. Per me è stato come un padre”. Lo ha conosciuto tra i banchi di via Festa del Perdono, nel corso di Diritto costituzionale: era il 1983. Il professore Valerio Onida era appena arrivato alla Statale e lei, Marilisa D’Amico, era una studentessa di Giurisprudenza preparata e curiosa: alla fine del percorso scelse di laurearsi proprio con lui, con una tesi coraggiosa sulle “decisioni manipolative in materia penale”. Da allora Onida è sempre stato presente: maestro, consigliere, bussola - anche quando la pensavano in modo diametralmente opposto - nonché suo testimone di nozze. Oggi Marilisa D’Amico insegna la sua stessa materia all’Università degli Studi di Milano, dove è anche prorettrice con delega alla Legalità e alla Parità dei Diritti. Il primo ricordo? “Sui banchi dell’ateneo. Era appena arrivato e aveva inaugurato un corso di Giustizia costituzionale molto innovativo per l’epoca, basato sui casi pratici. Da lì ho iniziato a seguirlo come allieva”. Com’era il prof Onida? “Incredibile. Dava spazio soprattutto ai giovani, stava ad ascoltare più le loro idee di quelle dei colleghi più anziani. Poteva stare ore e ore a parlare con gli studenti e aveva un’attenzione particolare soprattutto verso chi era più in difficoltà, aiutava tutti. E incoraggiava tantissimo le tesi innovative. Lo ricordo anche nei primi libri che ho scritto. Mi sono appassionata al Diritto costituzionale grazie a lui”. Poi da allieva è diventata collega... “I primi anni in cui lavoravo in università avevo iniziato a lavorare un po’ anche in un suo studio di Milano, molto importante è bello. Anche professionalmente i suoi insegnamenti sono stati fondamentali. Una cosa mi ha sempre colpito di lui: anche quando aveva pochissimo tempo, trovava comunque il modo di dedicarsi alle persone che aveva davanti. Una dote molto bella e difficile da emulare. E in ogni tratto della sua esperienza professionale emergeva la sua genialità, accompagnata sempre a un’umanità molto profonda”. Qual è il segno più importante che ha lasciato, a suo parere, da presidente della Corte Costituzionale? “Si è distinto per le pronunce molto innovative che lasciavano spazio all’interpretazione conforme alla Costituzione. Ricordo alcune sentenze in tema di ordinamento carcerario, per esempio. Finito il mandato, ha fatto anche il volontario a Bollate per aiutare i detenuti a difendersi, in relazione ai loro diritti, che aveva riconosciuto quando era alla Corte Costituzionale. E poi ricordo le due decisioni sull’articolo 68 e sul nesso funzionale tra quello che uno dice alla Camera e fuori, per porre un freno all’abuso dell’insindacabilità da parte dei parlamentari. Come pure la sentenza che apre la strada del riconoscimento delle azioni a sostegno delle donne in materia elettorale, nel 2003”. Era professore emerito della Statale: non ha mai lasciato la sua università? “Ha partecipato fino all’ultimo a convegni e seminari, sempre con la stessa voglia di parlare e confrontarsi che aveva quando ha cominciato a insegnare. Era rimasto legato alla sua università e anche alla città. Ricordo la sua candidatura a sindaco di Milano nel 2010, ma anche il suo sostegno quando sono stata eletta consigliera comunale io. Era molto orgoglioso del regolamento per le società partecipate che ho fatto con Pisapia sindaco, incentrato sul principio della trasparenza, delle pari opportunità e del merito nelle scelte del Comune. Un regolamento scritto sulla base di uno studio e col supporto proprio di Onida”. Non siete stati sempre dalla stessa parte però. “Ci siamo trovati su fronti proprio opposti. Ricordo il referendum costituzionale del 2016: io ero per il sì, lui era per il no (Onida aveva presentato anche ricorso al Tribunale civile di Milano per chiedere di sollevare l’eccezione di legittimità costituzionale, ndr). Ma mi sono sempre sentita libera di fare le mie scelte, come tutti i suoi allievi. E credo che anche questo sia merito suo e sia positivo per un’università: ha creato una scuola di pensiero, non un gruppo chiuso e autoreferenziale”. L’ultimo ricordo dell’amico Valerio... “Con le persone attorno era affettuosissimo e rigoroso. Se non era d’accordo non faceva finta di niente e in certi momenti era anche severo. Con me ha sempre capito quando ero in difficoltà e avevo bisogno di un sostegno. L’ho scelto anche come testimone di nozze. Per me è stato quasi un padre”. Albamonte: “Csm, riforma subdola: procure torneranno porti delle nebbie” di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2022 “È una riforma subdola: le procure torneranno porti delle nebbie e non per compiacenza della magistratura rispetto alla politica, come negli anni Settanta, ma per timore”. Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), oggi pm a Roma e segretario di Area, non ha dubbi sull’importanza di protestare contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, partorita dal governo dei “migliori”. Albamonte, l’Anm ha indetto per domani uno sciopero di 24 ore. Quale messaggio volete dare alla politica? Lo sciopero è stato scelto perché la riforma è stata completamente snaturata dagli emendamenti presentati in Commissione giustizia e che contengono passaggi che mortificano la magistratura. Lo sciopero ha la finalità di creare maggiore attenzione su questi temi, non solo in prospettiva di un ripensamento da parte della politica, ma soprattutto perché i cittadini si rendano conto di ciò che sta accadendo: ossia che al Senato si sta votando una riforma che condizionerà i magistrati nella loro capacità di indagare e giudicare in modo sereno ed equo. Quali sono i punti maggiormente critici di questa riforma? Innanzitutto l’effettiva separazioni delle funzioni: si è sempre detto che per realizzarla bisognava cambiare la Costituzione, adesso con una serie di norme che realizzano lo stesso effetto, lo si fa con legge ordinaria. C’è poi la questione del fascicolo della performance: è un modo di misurare la bravura dei magistrati in relazione al fatto che le proprie decisioni siano confermate nei gradi successivi del giudizio. Il ruolo dei magistrati è anche quello di adeguare le leggi alle evoluzioni della società e non sempre questo meccanismo porta a un immediato allineamento dei giudici di Cassazione: a volte c’è bisogno di anni affinché la Suprema Corte, o la Consulta, arrivi a dei principi emersi nel corso delle indagini, ma magari smentiti dalle sentenze successive. La riforma ora dovrà essere votata al Senato. Ci sono ancora margini di intervento? Se il passaggio al Senato non è solo formale, sì. Le cose però potrebbero anche peggiorare, perché nel nostro Paese ci sono, soprattutto nel centrodestra, forze politiche che stanno approfittando di questo momento per regolare vecchi conti con la magistratura. Oltre lo sciopero avete in programma altre iniziative? Bisogna agire a livello locale, organizzare momenti di dibattito nei singoli tribunali. Hanno votato a favore dello sciopero 1081 magistrati. Si torna alle proteste dei tempi di Berlusconi? Con la pandemia e la guerra in corso sicuramente l’attenzione è focalizzata su altri problemi. Forse non è un caso che una serie di misure vengano prese in un momento di disattenzione generale. Come giudica il comportamento della ministra della Giustizia Cartabia sulla riforma? È stato raggiunto un equilibrio su norme non direttamente incostituzionali ma che incidono sullo svolgimento del nostro lavoro. Per evitare il peggio hanno accettato il male. Il 12 giugno si votano i referendum promossi da Lega e Radicali. Quali insidie nascondono? Contengono temi che vengono contrabbandati come attinenti alla magistratura, ma sono prettamente politici. La norma sull’abolizione della custodia cautelare nell’ipotesi del pericolo di reiterazione del reato preclude la possibilità di applicare la misura cautelare a quei reati non violenti. Il che vuol dire non arrestare più i colletti bianchi, i politici, gli imprenditori. Si propone anche di abrogare la legge Severino. La legge Severino ha impedito che persone colpite da condanne potessero iniziare o proseguire l’attività politica. Questo quesito vuole salvare gli amministratori locali e i politici nazionali. Sono questioni che i cittadini devono conoscere. Per questo abbiamo aderito a un “Comitato per il no” costituito da alcuni magistrati come Domenico Gallo e Armando Spataro, con lo scopo di sensibilizzare su questi quesiti. Toghe in sciopero. “Con la riforma danni e pericoli non efficienza” di Gianluca Rotondi Corriere della Sera, 15 maggio 2022 Scalabrini (Anm) e le ragioni della protesta. Non uno sciopero per protestare ma per richiamare l’attenzione sulle “pericolose storture” della riforma Cartabia sul Csm e sull’ordinamento giudiziario. Così l’Anm inquadra l’astensione di domani dei magistrati. “Prevediamo un’adesione vicina al cento per cento a Forlì e Parma, non lontana a Bologna e Ferrara. C’è anche un tema generazionale, gli uffici con magistrati più anziani sono più refrattari allo sciopero per un maggiore disincanto mentre i più giovani desiderano mostrare un senso di ribellione verso pratiche che ci hanno ferito. Un buon segnale”, rileva Nicola Scalabrini, pm a Bologna e presidente della giunta regionale dell’Anm. Tra le ragioni dello sciopero c’è la radicale contestazione degli obiettivi della riforma in discussione in Parlamento. Sostenete che non accorcerà di un giorno la durata dei processi ma cambierà in peggio la figura del magistrato. In che modo? “C’è un tema di spirito e di merito. Non è una riforma che mira a far funzionare la giustizia. Siamo parte delle istituzioni, non possiamo consentire di essere considerati da chi ha il dovere di fare le norme come un sistema contro il quale bisogna operare. Si vogliono gerarchizzare ulteriormente gli uffici giudiziari e rendere il magistrato più attento a numeri e statistiche che a fare giustizia. Avremo pm sempre più timorosi nell’affrontare inchieste e processi dall’esito non scontato”. La riforma arriva dopo lo scandalo delle nomine e il caso Palamara che ha generato una profonda crisi di credibilità della magistratura. Di qui la revisione del sistema elettorale del Csm... “L’unico sistema per garantire rappresentanza è il proporzionale con collegi piccoli in cui possa emergere chi ha lavorato sodo a dispetto di chi è spinto da una forza in grado di organizzare il consenso. Questa riforma in realtà rischia di mortificare il pluralismo nella magistratura. Lo scandalo Palamara rivela che ci sono tanti, troppi magistrati che avevano e hanno l’ambizione sfrenata del carrierismo. Questa riforma costruisce una magistratura che ha solo dei capi ed esaspera quell’ambizione. Non cura il sintomo, lo aggrava”. Se c’era l’intenzione di cambiare perché vi siete opposti al sorteggio? “Le correnti devono privarsi ed essere private della volontà di incidere veicolando il consenso. Il sorteggio è la negazione della capacità di un corpo di amministrarsi da solo. Dopo lo scandalo, il Csm ha cambiato rotta. Il punto di forza del metodo Palamara era dividere le nomine degli uffici più importanti a seconda della rappresentanza della forza che si aveva all’interno del Consiglio”. Le cosidette nomine a pacchetto che la riforma ha cancellato prevedendo il criterio cronologico. Sarete d’accordo almeno su questo? “Esatto, ma il Consiglio lo sta già facendo. Ha fatto benissimo la riforma a prevederlo di nuovo e con forza. La critica è principalmente al sistema elettorale. Siamo un corpo che si deve auto amministrare, pensare che questo debba passare dal lancio della monetina è l’abdicazione ad ogni idea di amministrazione politica governata dalle idee e non dalla sorte”. Un altro punto molto contestato è il fascicolo delle performance... “Ci verranno date pagelle sulla base della produttività, così mentre in ogni scienza aziendale si introduce il criterio del lavoro per obiettivi e qualità, noi invece andiamo in un’altra direzione. Si danno giudizi sul prodotto ma non sulla qualità e il peso di quel prodotto. Secondo il legislatore ciò dovrebbe portare a una maggiore efficienza del sistema ma così non sarà. Si affianca poi a questo tema quello sensibilissimo della gerarchia degli uffici giudiziari. Se un dirigente può minacciare un disciplinare se non si raggiungono gli standard di produttività che lui ha imposto si disegna una magistratura piramidale in cui il magistrato non è più sottoposto solo alla legge”. Lo scandalo Palamara rivela che troppi magistrati sono spinti dal carrierismo ma la riforma non risolve il tema delle nomine, semmai lo aggrava. C’è poi il tema della separazione delle funzioni, vi accusano di farne un totem visto che già ora le percentuali di passaggio sono marginali... “Le alte percentuali di assoluzioni sono il sintomo che il sistema funziona e che non c’è nessun appiattimento del giudice sul pm. È una provocazione. Di fatto la riforma Castelli ha già introdotto la separazione delle funzioni perché ha bloccato il passaggio. Invece crediamo rappresenti un arricchimento. Il magistrato prende le decisioni sulla base del proprio convincimento di fatto e di diritto non sulla base dei rapporti di amicizia con tizio o caio. Il vero intento della riforma è preparare alla separazione delle carriere, che va avversata perché stacca il pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione”. Vi contestano di voler difendere rendite di posizione. Il presidente dell’Unione Camere penali sostiene che con lo sciopero volete esercitare un potere d’interdizione nei confronti di governo e parlamento... “Crediamo che sia in gioco l’assetto voluto dal costituente per la magistratura. Non è uno sciopero per difendere prerogative di status. Che non cambieranno con la riforma. Stiamo dicendo a chi governa e ai cittadini che vogliamo essere ascoltati. L’obiezione delle camere penali fa sorridere visto che si astengono dalle udienze ogni tre per due”. Pisciotta: “Le pagelle ai magistrati non rispettano la Costituzione” di Conchita Sannino La Repubblica, 15 maggio 2022 Il pm di Nola: “Noi stiamo combattendo per i valori su cui si fonda una magistratura rigorosa ed autonoma” Sostituto procuratore Luca Pisciotta, pm a Nola, 40 anni. Lei perché aderisce allo sciopero? “Perché la riforma Cartabia, unilateralmente proposta dal mondo politico, per alcuni profili incide in maniera irreversibile sull’assetto costituzionale della magistratura. In poche parole: gerarchizzare gli uffici, aprire il fascicolo della performance, separare le carriere non migliorerà né la qualità né la produttività”. Chiariamolo subito, lei appartiene a qualche corrente? “No, coordino la sottosezione Anm di Nola, ma non sono iscritto ad alcuna corrente; proprio come altri, da sud a nord, da Nola a Busto Arstizio, con cui abbiamo partecipato ai lavori di Roma. Con i colleghi Francesco Vicino e Patrizia Mucciacito, ad esempio, abbiamo promosso vari incontri e tanti hanno partecipato perché non c’era il sospetto che le correnti dessero un orientamento”. Non si chiede come sarà valutato il vostro sciopero dal cittadino, che magari sperimenta da anni lentezza e farraginosità del sistema? “Noi comprendiamo le istanze e l’amarezza del cittadino. Ma questi problemi dipendono, in massima parte, dalla scarsità delle risorse, dall’inadeguatezza delle piante organiche, dal fatto che quasi tutti gli uffici sono sotto organico. Ed hanno così ragione i cittadini che abbiamo proposto, non da ora, una seria depenalizzazione, nel penale, e una semplificazione, nel civile”. Andiamo sui punti: quella che chiamate “gerarchizzazione” non è solo tendere a maggiore efficienza? “Assolutamente no. Perché se la fai a parità di risorse, è un’illusione; qui siamo nella prosecuzione delle leggi Castelli-Mastella. In fondo è lì che si è piantato il primo mattoncino per verticalizzare gli uffici giudiziari”. La novità che proprio non vi va giù è il fascicolo del magistrato, la “pagella” sui vostri processi... “Ecco: il parametro scelto, che misura la tenuta dei provvedimenti nei vari gradi del giudizio, suscita preoccupazioni. E poi non sembra conforme al dettato costituzionale”. Una violazione alla Costituzione o un atto di lesa maestà? “No, è il contrario. Il fascicolo della performance induce il magistrato a curare il suo interesse particolare: la tenuta dei suoi provvedimenti e basta. Così, ad esempio, nei procedimenti sui reati dei colletti bianchi, penso alla corruzione o al peculato, potremmo avere tante archiviazioni in più”. Poche adesioni, ad oggi. Se lo sciopero sarà un flop, l’Anm reggerà al boomerang? “Ciascuno si assumerà le sue responsabilità. Mi auguro che ciascuno pensi bene, se aderire o non aderire. Stiamo combattendo per quei valori su cui abbiamo giurato”. Ma sul fronte rigenerazione interna, tuttavia, non sembra abbiate aperto un cantiere con analoga forza... “Il problema esiste. Ed è il cammino più importante da fare. Ma esprimere un dissenso, forte, è parte di questo processo. Perché in questo caso lo si fa non per accomodarsi a cena, o per interesse dei singoli. Ma in ossequio alla Carta, e con la schiena dritta”. Palamara: “Lo sciopero dei giudici? Molti si sentono lontani” di Luca Fazzo Il Giornale, 15 maggio 2022 L’ex presidente dell’Anm scettico sulla partecipazione. E sulla riforma: “Resterà lo strapotere delle correnti”. Il silenzio quasi totale sui referendum sulla giustizia non è un caso, dice Luca Palamara: “Se ne parla poco - dice l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati - per impedire una partecipazione attiva dei cittadini su temi che invece per l’opinione pubblica sono cruciali. I referendum potrebbero essere la leva per spingere la politica a intervenire su problemi come la separazione delle carriere o l’ingiusta detenzione, o per capire come viene davvero esercitata la giustizia in questo paese. È per impedire che questi nodi vengano affrontati che si è scelto di parlare il meno possibile dei referendum”. Intanto l’Anm chiama allo sciopero per domani i magistrati contro la riforma della giustizia del ministro Cartabia. Che adesione si aspetta? “É difficile fare previsioni, i magistrati vanno convinti uno per uno. La cosa certa è che molti di loro si sentono lontani dalle tematiche agitate dall’Anm, e che la magistratura è divisa come non mai. Tanti magistrati non si ritrovano più nei sistemi tradizionali, hanno capito i guasti del sistema e non ci stanno più ad essere omologati ad esso”. L’Anm dipinge la riforma Cartabia come un mostro anticostituzionale. Non è così? “No, e lo sanno tutti. Pensiamo solo alle novità sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Se l’obiettivo era riportare alla normalità i rapporti tra politica e magistratura è chiaro che non è questa riforma a poterlo raggiungere”. L’Anm contesta i sistemi di valutazione dei magistrati, parla di “pagelle”... “L’idea che il lavoro di un magistrato non possa essere soggetto ad alcun tipo di valutazione è inaccettabile per qualunque cittadino normale. Certo, senza intaccare autonomia e indipendenza”. Eppure la Cartabia era partita bene, poi ha annacquato tutto strada facendo. Perché la politica ha così paura della reazione delle toghe? “Alla fine scatta l’istinto di non invadere il campo altrui, anche perché la reazione possono essere indagini della magistratura che a loro volta attacchino la politica. Così si sceglie la strada della composizione bonaria, dell’accordo. Ma intanto i problemi non vengono affrontati”. C’è finalmente un limite al passaggio dei giudici in politica... “I problemi sono altri. La gente avrebbe il diritto di sapere come accade, in base a quali criteri, che un magistrato venga scelto da un ministro per un incarico politico ben retribuito. L’attuale presidente dell’Anm era il capo di gabinetto del ministro Orlando e adesso sciopera contro il governo di cui Orlando fa parte. Secondo me lo fa solo per far vedere ai suoi iscritti che ha fatto qualcosa”. Però il prossimo Csm verrà eletto con un sistema diverso... “Non cambierà niente. Anche le prossime elezioni saranno dominate dal sistema delle correnti, saranno le correnti a decidere chi farà parte del prossimo Consiglio superiore. Che non si voglia cambiare niente lo dimostrano anche le ultime nomine, dominate anche esse da logiche correntizie. Senza nulla togliere al valore di Giovanni Melillo, è chiaro che la sua nomina alla Procura nazionale antimafia ha sacrificato chi del sistema non faceva parte come Nicola Gratteri. Il sistema non cambia, le correnti si accordano e il resto del Csm si accoda. Solo il sorteggio può spezzare lo strapotere delle correnti”. L’Anm dice che è incostituzionale... “La linea dell’Anm finora è stata di nascondere sotto la polvere quanto è accaduto in questi anni. Perché tanti magistrati che hanno partecipato alle nomine non raccontano la verità su come si sono rapportati con la politica? Sarebbe l’unico modo per girare pagina, invece stanno tutti zitti. In una intervista al Giornale Edmondo Bruti Liberati ha definito penosa la vicenda dell’Hotel Champagne. Se volessi essere rude gli direi che era penosa la sua visita al Csm per chiederci di non confermare il suo vice Alfredo Robledo. Tutto è penoso a seconda dei punti di vista”. Perché non si sta parla abbastanza dei referendum sulla giustizia di Paolo Molinari agi.it, 15 maggio 2022 È l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, a denunciare il “silenzio” informativo sulla chiamata alle urne dei quesiti programmati nell’election day del 12 giugno: “Il sistema dell’informazione sin qui non ha fatto abbastanza ma parlerei di una certa approssimazione dalla parte della politica”. “Se ne parla davvero poco, meglio non se ne parla proprio anche perché sono stati ‘fatti fuori’ i tre quesiti più popolari, quelli su fine vita, cannabis e responsabilità civile dei magistrati che avrebbero portato la gente a votare. Realisticamente mi pare davvero difficile che a spingere alle urne sia la voglia di pronunciarsi sull’abrogazione del decreto Severino o sulla riforma del Csm”. L’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, denuncia all’AGI il “silenzio” informativo sui referendum sulla giustizia programmati nell’election day del 12 giugno. “Non credo che dietro ci sia un ‘disegno’ - spiega Caiazza - le ragioni sono complesse: sicuramente il sistema dell’informazione sin qui non ha fatto abbastanza, e mi riferisco naturalmente in primis al servizio pubblico e radiotelevisivo, che ha il dovere di comunicare su certi temi. Ma non aiuta, anzi, nemmeno il modo in cui sono stati concepiti i quesiti: a noi, ad esempio, nessuno ha chiesto niente laddove invece avremmo potuto dare suggerimenti utili. Parlerei di una certa approssimazione dalla parte della politica”. “Noi - conclude il presidente dei penalisti - abbiamo dato indicazioni per il sì e speriamo nel raggiungimento del quorum, ma ripeto che la decisione della Consulta di bocciare i quesiti più popolari alla fine rischia di avere conseguenze”. Quello indetto dall’Anm per lunedì prossimo “è uno sciopero corporativo: in sostanza, la magistratura non accetta l’idea che si metta mano alla sua organizzazione ordinamentale senza che le norme vengano scritte e dettate dalla magistratura stessa”, spiega ancora Caiazza. “Le toghe sono in buona fede, intendiamoci, ma in nome di un malinteso senso di autonomia e indipendenza non vogliono che il Parlamento faccia il suo lavoro, non concepiscono che a decidere in materia di giustizia siano quanti sono deputati istituzionalmente a farlo”. Per il presidente dei penalisti, anche la riforma Cartabia è “blanda” e “lacunosa” ma ha il merito di “provare a sciogliere nodi importanti, diversi dalla riforma del sistema elettorale del Csm che di per sé non cambia niente. I temi chiave sono due: primo, la responsabilità professionale dei giudici. Il fatto che abbia un minimo di ricadute sulle loro carriere è una cosa di una banalità assoluta eppure fa impazzire le toghe: anche perchè ad oggi le verifiche previste si sono rivelate finte e di fatto si progredisce automaticamente. Secondo, i magistrati fuori ruolo, distaccati preso l’esecutivo. Il solo pensiero che si possano introdurre dei paletti effettivi li destabilizza, e non è un caso che non ne parlino proprio”. Il referendum è l’unico strumento per riformare davvero la giustizia di Nicola Porro Il Giornale, 15 maggio 2022 Non possiamo fare finta di nulla e lasciare passare anche questa tornata referendaria sulla giustizia con un nulla di fatto. La guerra ha comprensibilmente stravolto l’agenda e la priorità dell’informazione. Difficile non occuparsi dell’invasione russa e dei morti per la guerra in corso nel cuore dell’Europa. Ma la riforma della giustizia è la guerra, se ci si permette il ruvido accostamento, dei nostri ultimi trent’anni. Dal 1992 ad oggi una parte della magistratura ha pensalo che il Paese dovesse essere riformato per via giudiziaria. Non che la cosa non fosse nel dna di una certa magistratura politicizzata negli anni precedenti, ma la differenza era che allora la politica aveva un ruolo e un peso. Oggi continua ad esser annichilita, schiacciata dal gesto di un procuratore. Su queste colonne un ex presidente del Consiglio di sinistra, Matteo Renzi, a cui hanno indagato tutta la famiglia e gran parte della sua corte, racconta come il sindaco Lucano sia stato protetto grazie ai suoi rapporti con una parte della magistratura di sinistra. Il capo della Lega al contrario è sotto processo per sequestro di persona, anche per il voto del partito di Renzi, e chi si azzarda a testimoniare in sua difesa, come è successo nei giorni scorsi, viene “intimidito”, dice la difesa. Il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, è stato maciullato da un’inchiesta, durata il tempo della pandemia, e poi prosciolto perché il fatto non sussiste. Si dirà: la giustizia ha fatto il suo corso. Un corno. Se Fontana, allora al centro del cratere del Covid nel mondo, non avesse avuto la pellaccia dura, e non avesse resistito, oggi sarebbe solo un ex presidente. Certo, innocente, ma ex. Quanti sindaci, politici, amministratori pubblici hanno avuto la vita rovinata da processi che si sono conclusi con un niente di fatto. Jonella, Paolo e Giulia Ligresti hanno perso tutto, compresa la libertà e sono stati assolti. Il giorno in cui Jonella, la più grande delle sorelle, è stata condotta in carcere a Cagliari, ha avuto la fortuna di avere uno dei due figli maggiorenni, altrimenti le avrebbero tolto anche loro. Prima Cagliari, poi Torino, poi San Vittore e poi dopo circa sei mesi, domiciliari e poi assolta da tutto. Al funerale del padre, Salvatore, non c’era il bel mondo (con l’eccezione del solo Diego della Valle) che si era dileguato. Gente senza, attributi, lacchè, ma anche la paura di mettersi contro all’unico potere che in Italia non ha limiti: quello delle procure. Quando i politici smetteranno di usare le inchieste per i loro comodi elettorali e capiranno che un Paese non si governa con le manette, ebbene quel giorno avremo fatto un grande passo avanti e chiuso questa guerra trentennale. I referendum sono la nostra arma. Gozi: “Riforma della giustizia solo con i referendum” di Dario Martini Il Tempo, 15 maggio 2022 L’eurodeputato: “È l’occasione di intervenire davvero su separazione delle funzioni e custodia cautelare”. “Il silenzio scandaloso sui referendum sulla giustizia dimostra la sudditanza di gran parte della politica e dei media nei confronti dei magistrati”. Sandro Gozi non riesce a capacitarsi dell’assenza di un vero dibattito pubblico sulle ragioni del sì e quelle del no. Eppure, si vota tra neanche un mese, il 12 giugno. L’ europarlamentare di Renew Europe è stato eletto in Francia, ma ha sempre uno sguardo molto attento su ciò che accade in Italia, e non risparmia critiche a quella che definisce “la corporazione dell’Anm” che continua ad influenzare la politica. Onorevole, perché la ritiene una corporazione? “Lo sciopero di lunedì 16 maggio è il più grottesco che si sia mai visto. Soprattutto perché la riforma della giustizia all’esame del Parlamento è innocua. I magistrati fanno finta di essere sotto attacco. Fanno finta di essere indignati. È tutta tattica. Questa è una riforma che non incide. Mi pare che le ambizioni iniziali si siano molto abbassate. Solo sull’accelerazione del processo civile si sono fatti passi avanti. Ma quello era un elemento imprescindibile per avere i fondi del Pnrr. Sull’elezione del Csm, invece, non è stato fatto quasi nulla, perché non viene limitato il peso delle correnti”. Uno dei quesiti referendari affronta proprio questo tema... “Non capisco l’Anm quando dice che il Parlamento non è legittimato ad intervenire sulla materia. In realtà, lo è molto di più dei magistrati. La giustizia non è un loro monopolio. Appartiene al popolo, appartiene a tutti. E siccome il Parlamento ha fatto poco, ben venga la parola ai cittadini”. I referendum sono stati proposti dal partito Radicale e dalla Lega. Le altre forze politiche non sembrano molto interessate. Come mai? “È proprio la sudditanza di cui parlavo. Non capisco chi è per il no, come il Pd, o chi è in parte per il sì e in parte per il no, come FdI. Non hanno interesse a spiegare le loro posizioni agli elettori? Enrico Letta ha fatto uno scivolone enorme quando ha detto che i referendum sono un modo di “buttare la palla in tribuna”. Ma come? Sono previsti dalla Costituzione. È meglio far finta di palleggiare in Parlamento? I cittadini vogliono fare gol. Anche Giorgia Meloni non l’ho mai sentita parlare dei referendum. Quando il presidente Mattarella, nel discorso d’insediamento del secondo mandato, ha messo la giustizia al primo posto, tutti i parlamentari si sono sperticati in applausi. Era facile prevedere cosa sarebbe accaduto”. Cosa? “Se lo sono subito dimenticato”. Se questa è la situazione, crede sia possibile raggiungere il quorum? Penso di sì. Ma bisogna iniziare a parlarne. Ho sentito un sondaggio per cui gli italiani che andranno a votare ai referendum sono il 30%. Bisogna aprire il dibattito, poter ascoltare tutti i pareri, i favorevoli e i contrari. Invece, ogni settimana abbiamo 150mila ore di talk show sulla guerra in Ucraina e nulla sulla giustizia”. Quali sono, a suo avviso, i quesiti più importanti? “Quello sulla separazione delle funzioni e quello sulla custodia cautelare. Per quanto riguarda il primo, è innegabile che i poteri di accusa e difesa siano squilibrati a danno della difesa. I magistrati pensano di essere dei sacerdoti, ma in realtà sono dei funzionari. Dovrebbero ricordarselo”. E sulla custodia cautelare? “È innegabile che ogni anno ci siano troppi abusi. Quando degli innocenti vanno in carcere l’impatto familiare e di reputazione è devastante. Attenzione, ci sono tanti magistrati che fanno un ottimo lavoro. Ma ce ne sono altri che seguono una logica diversa. Dicono: “Pazienza se qualche innocente sta in carcere se ciò ci permette di prendere i colpevoli”. Ecco, questo modo di ragionare è il contrario della democrazia liberale”. Il sangue e la memoria. A 50 anni dall’omicidio Calabresi di Carlo Bonini La Repubblica, 15 maggio 2022 “La mattina di mercoledì 17 maggio 1972, verso le ore 9:15, davanti alla sua abitazione sita in Milano in via Cherubini numero 6 il dottor Luigi Calabresi, commissario capo di Polizia di stato, addetto all’ufficio politico della Questura di Milano, uscito dall’andito del palazzo, attraversava il marciapiede e si avviava verso lo spartitraffico posto al centro della strada. Ma a metà circa del percorso veniva raggiunto da un individuo a piedi, armato di rivoltella che, al momento dell’apertura della portiera, gli esplodeva contro due colpi, uno alla nuca uno alla schiena, che provocavano la morte pochi minuti dopo l’immediato trasporto all’ospedale”. 17 maggio 1972. Sono passati cinquant’anni dall’omicidio del commissario Luigi Calabresi. È cambiato il colore delle immagini televisive, la foggia dei nostri abiti, sono cambiate le automobili e persino il modo di chiamare le cose. È cambiata l’Italia, è cambiato il mondo, passato da una dimensione analogica a quella digitale. Eppure, siamo ancora lì. A quel maggio ‘72. Perché se c’è una caratteristica, tra le altre, che l’omicidio Calabresi ha avuto è quella di non essere diventato mai Storia. Ma di essere rimasto sempre cronaca. È stato il primo omicidio politico di un’Italia che entrava in un tempo nuovo. Che archiviava per sempre la Seconda guerra mondiale e gli anni della ricostruzione e del boom economico per conoscere quelli dell’autunno caldo operaio e del terrorismo e della lotta armata. L’omicidio Calabresi è stato il primo assassinio di una stagione in cui non si colpivano più le idee ma le vite delle persone, nella loro dimensione privata e pubblica. Cominciava il lungo trentennio in cui sarebbero stati uccisi magistrati, sindacalisti, politici, carabinieri e poliziotti, e che si sarebbe concluso nel 2002, con l’omicidio del professor Marco Biagi, per mano di quello che restava delle Brigate Rosse. L’omicidio Calabresi è stato un crimine spacciato per atto di “giustizia proletaria”, come all’epoca gridarono in molti, con gli occhi gonfi di dolore e rabbia per la morte di un altro innocente, l’anarchico Giuseppe Pinelli, volato giù dalla stanza del commissario Calabresi nella questura di Milano ma in assenza, lo dicono le sentenze, dello stesso Calabresi. Al contrario, a cinquant’anni di distanza, l’omicidio di quel giovane commissario di polizia romano, colto e gentile, appare per quel che è stato: il seme della lotta armata. “Gigi esce alle 9:10 circa”. Milano, 17 maggio 1972 - Si sono appena salutati, il commissario Calabresi e la moglie Gemma Capra. Il funzionario dell’Ufficio Politico è in leggero ritardo rispetto al solito. La signora Gemma annota l’orario sull’agenda, come fa in modo inquietante da qualche giorno. “Gigi rientra presto finalmente!”, ha scritto la sera del 15 maggio, sottolineando l’ultima parola. Ombre e cattivi pensieri, negli ultimi tempi, si sono moltiplicati. “Gigi rientra alle 22 con cioccolatini e caramelle, è stato da Baratta. Giochiamo tutti a nasconderci”. Giorno 16, ultima immagine familiare felice. La porta si chiude. La biro della signora Gemma riempie mezza riga di agenda accanto al numero 17. Sono le 9.10. Il commissario Calabresi attraversa il cortile del moderno condominio di via Cherubini 6. Saluta con la mano, passando accanto alla guardiola del portinaio di turno Salvatore Zecchini, che ricambia con un cenno della testa e torna a smistare la posta. La Fiat 500 blu del funzionario è parcheggiata sul marciapiede di fronte al palazzo e per raggiungerla Calabresi deve attraversare la strada, un attimo prima che scatti il verde all’incrocio con corso Vercelli. La prima auto che arriva alla sua sinistra è una Fiat 125 blu. Dalla seconda, un’Alfa Romeo 2000, il testimone Pietro Pappini, vede la guidatrice (“mi è sembrata di corporatura robusta”, dirà) inchiodare. Il passeggero, un uomo sulla trentina in giacca blu e maglione scuro a collo alto, scende e gli passa davanti al parabrezza. Mentre le due auto riprendono la marcia, il killer raggiunge Calabresi alle spalle, estrae una pistola e lo centra con due colpi alla schiena e alla nuca. L’arma è “a tamburo e a canna lunga”, metterà a verbale il giovane Luciano Gnappi, che si è appena messo al volante della sua Giulia e segue con gli occhi quel ragazzo “alto circa un metro e 85” tornare a piedi verso la Fiat 125 e la sua autista. La signora Inge Meyer Marion, che sta facendo compere al vicino negozio di casalinghi, incrocia per un attimo lo sguardo del sicario. Sa descriverlo quel tanto che basta perché gli specialisti della Scientifica riescano a schizzarne un ritratto. Poi un photo-fit, incollando tratti somatici a mo’ di collage. L’auto degli assassini accelera verso via Mario Pagano ma urta col parafango la Simca 1500 del grande invalido Giuseppe Musicco, che ha appena svoltato. Non si ferma. Anzi schizza via a destra e percorre la stretta via Rasori. Svolta in via Ariosto e l’abbandona col motore acceso, la marcia in folle, i fili dell’accensione in bella vista, davanti alla filiale della Banca Popolare di Novara. La coppia viene vista salire su una vecchia Alfa marrone e sparisce. La teste Adelia Del Piva fissa nei suoi ricordi la chioma di lei: “Capelli lunghi fino alle spalle e biondi, di un biondo caldo”. Altri segni particolari: casacca e pantaloni attillati neri, camicetta rossa, guanti da guida, borsa nera a tracolla. La Fiat 125 risulta rubata la notte prima al signor Gian Antonio De Ferrari e alla moglie Anna Gabardini e gli oggetti a bordo sono dei vecchi proprietari. Tranne due, un paio di occhiali da sole femminili e un ombrello da viaggio venduto qualche giorno prima alla vicina Standa di via Trivulzio, che il testimone Ezio Cereda ha visto in mano al killer. La commessa Graziella Martone, interrogata da una leggenda della Questura come Ferdinando Oscuri (il maresciallo che aveva incastrato le tute blu di via Osoppo e ha da poco arrestato un giovane gangster di nome Renato Vallanzasca), ricorda l’acquirente come biondo dal ciuffo rossiccio, orecchie a sventola, accento straniero e una ventiquattr’ore in mano. Il commissario Calabresi è crollato sull’asfalto tra la sua 500 e una Opel Kadett bianca. La corsa dell’ambulanza è disperata, arriva già morto all’ospedale San Carlo. La foto del suo corpo, steso su un lettino al pronto soccorso, viene sbattuta sulle prime pagine dei quotidiani del pomeriggio: la sensibilità del tempo è questa. Via Cherubini è già piena di volanti quando arriva il questore Ferruccio Allitto Bonanno, sconvolto. C’è il capo dell’Ufficio Politico, Antonino Allegra, il procuratore capo Enrico De Peppo, alti ufficiali dei carabinieri, uomini dei servizi, cronisti, fotografi. Ad alcuni vengono sequestrati i rullini. Attorno alla pozza di sangue girano decine di curiosi e la prima ricerca dei bossoli va a vuoto. Salteranno fuori nei giorni successivi, consegnati alla polizia da alcuni passanti: un calibro 38 special trovato a 40 metri dal luogo dello sparo, e un 7,65 accanto al chiosco di fiori all’incrocio con corso Vercelli. Due anziane residenti, Elma Maffini e Rosalia Gotti, diranno nelle ore successive agli investigatori di aver notato, accanto all’uscio del condominio dove viveva il commissario, un giovane che leggiucchiava il Corriere della Sera e ogni tanto dava uno sguardo in giro. La scena dell’omicidio non regala altri dettagli. Un uomo solo. Milano, 1970-1971 - Luigi Calabresi, 34 anni, romano (la famiglia gestiva una fiaschetteria in via Panisperna), maturità classica al San Leone Magno, solida fede cattolica, laurea in Giurisprudenza alla Sapienza con tesi su Cosa Nostra, atletico e amante dei maglioni a collo alto sotto la giacca, arriva a Milano alla vigilia del Sessantotto col compito più difficile: curare la sinistra extraparlamentare per conto dell’Ufficio Politico, la Digos di allora. Quando muore, meno di un lustro dopo, è il poliziotto più famoso d’Italia ma dal versante sbagliato: il più odiato, insultato, esposto. Calabresi è solo. Da giovane funzionario che aveva partecipato al primo sgombero della Cattolica, occupata dall’embrione del Movimento Studentesco di Mario Capanna, capace di mantenere garbo e dialogo in tutte le manifestazioni più calde, è diventato un “assassino”, come gridano troppi cortei e troppi muri da piazza Fontana in poi. Ha provato a rispondere con le querele, ma la Questura e il Ministero lo hanno mandato avanti senza supporto. E nelle aule, da accusatore di chi lo ha infamato, è diventato accusato. I processi sono tumulti. Non ha scorta. Non porta la pistola. È un bersaglio mobile. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non so come potrei resistere... confessa a Gianpaolo Pansa della Stampa poco dopo la scoperta del cadavere di Giangiacomo Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate. Era stato lui a riconoscere il cadavere dell’editore miliardario e rivoluzionario, nel marzo 1972. A ben vedere, l’inizio della fine del commissario Calabresi aveva la data di un anniversario della Liberazione: 25 aprile 1969. Giorno di chiusura della Fiera Campionaria a Milano. Giorno di bombe. Per le quali la Questura milanese arresta in pochissimi giorni un pugno di giovani anarchici (Paolo Braschi, Paolo Faccioli) e i loro presunti mandanti (i coniugi Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni), ipotizzando un livello superiore: Feltrinelli, appunto, vicino di casa e amico dei Corradini, fornitore dell’alibi che dovrebbe scagionare i due esecutori e il loro presunto complice, Piero Della Savia. I ragazzi confessano ma poi ritrattano, accusando proprio Calabresi e i suoi uomini - e ben prima della strage alla Banca dell’Agricoltura - di aver estorto quelle ammissioni. Per puntellare quelle accuse, Calabresi si avvarrà dei verbali di una teste, una professoressa di francese, gran fornitrice di teoremi ma parca di riscontri: Rosemma Zublena. I giudici credono a Calabresi e alla polizia. Ci credono i giornali. Poi, arriva il 12 dicembre. Il giorno della strage nella filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. La bomba travolge le vite di 17 innocenti in piazza Fontana e cambia il corso della storia politica del nostro Paese. Tre ordigni esplodono contemporaneamente a Roma e mietono altre vittime. La caccia ai colpevoli è frenetica. Calabresi va al circolo anarchico Scaldasole e vi trova due anarchici: Sergio Ardau e Giuseppe Pinelli. Il primo lo carica sulla Fiat 850 di servizio e comincia a chiedergli di Pietro Valpreda. Al secondo, dice di seguirlo in Questura sul suo Benelli. Si conoscono, il commissario e il 41enne ferroviere, si incrociano quando il primo viene a chiedere l’autorizzazione per i cortei, si sono scambiati libri. “C’è un giovane alla questura, è intelligente, ci si può parlare...”, raccontava a casa Pinelli alla moglie Licia Rognini. L’anarchico finisce tra i fermati, il commissario incrocia i cronisti. Due, Remo Lugli della Stampa e Giuseppe Columba del Messaggero, raccolgono la sua prima lettura della strage: “È l’opera di estremisti, ma estremisti di sinistra, su questo non possiamo avere dubbi: anarchici, cinesi, operaisti”. Il questore Marcello Guida, già direttore del confino fascista di Ventotene, è costretto a smentirlo pubblicamente. La sera del 15 dicembre, Pinelli è in Questura. Dove viene interrogato, nella sua stanza, dal commissario Calabresi. Guardato a vista da almeno quattro sottufficiali di polizia e da un tenente dei carabinieri, Pinelli precipita al suolo, si schianta su un’aiuola, muore dopo brevissima agonia. Nella notte, Guida e Calabresi insieme ad Allegra ricevono i cronisti. La versione ufficiale è quella del suicidio del ferroviere, inchiodato alle sue responsabilità da stragista, un tuffo nel vuoto come autodafé. Non ci crede nessuno. Dall’indomani, Calabresi è indagato per omicidio. La prima inchiesta lo scagiona e così fanno i testimoni che dicono che al momento della caduta, il commissario non fosse nemmeno nella stanza. Tutti, tranne uno: Valitutti, che lo ripete da cinquant’anni, lo mise a verbale con i magistrati inquirenti, lo ripeté al processo contro Lotta Continua. Ma nessun magistrato ha trovato riscontri alla sua versione. È il passaggio più controverso della vicenda Pinelli: il commissario sostenne di aver terminato l’interrogatorio e di aver percorso il corridoio che portava alla stanza del suo capo Allegra, col verbale in mano. Versione confermata dai poliziotti e dai carabinieri presenti. Non dall’anarchico. Agli occhi di molti intellettuali e tutti gli extraparlamentari, Calabresi, specchiato uomo di Stato, diventa un nemico del popolo, un “torturatore”, come sosterrà un famigerato e firmatissimo appello pubblicato dall’Espresso. Bersaglio su cui i feroci articoli e le ferocissime vignette di Lotta Continua infieriscono, su cui piovono accuse (esperto karateka, emissario della Cia) inverosimili che devono contribuire a un character assassination, un assassinio della personalità, prodromo della sua eliminazione fisica. Dai processi a chi lo ha diffamato e agli anarchici che ha mandato in galera, emergono tutte le storture di quelle prime indagini. È dunque un uomo a pezzi quello che torna sotto inchiesta per omicidio, questa volta ad opera di due magistrati “democratici” come Gerardo D’Ambrosio e Luigi Bianchi d’Espinosa. “Mi ha fatto pena”, ricorderà Licia Rognini in un’intervista a Giuseppe D’Avanzo “non trovavo giusto che si aggredisse il capro espiatorio”. Il 17 maggio 1972, la donna che non ha avuto paura nel querelare un questore e i suoi collaboratori, prima nella storia repubblicana, è sconvolta. “In quel momento - dirà - ho capito che non avrei avuto più la verità che stavo cercando”. In via Cherubini, un’altra vedova in attesa del terzo figlio riceve la notizia ferale. “Gemma, ricordalo”, era stata una delle ultime confidenze del commissario, menti di destra, manovali di sinistra. Calabresi aveva ripensato piazza Fontana. Forse voleva dimostrarlo. Ma quell’uomo “disarmato e con le mani in croce” (così lo ricorda Enzo Tortora sulla Nazione), “bersaglio di molti odi” (questo è Indro Montanelli sul Corriere), non può più. A sinistra della sinistra si sollevano i pugni chiusi per “un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”, come esulta Lotta Continua. Un brindisi macchiato di sangue. L’indagine sbagliata. Milano, 1971-1992 - L’omicidio Calabresi resta mistero insoluto per sedici lunghi anni, pieni di errori ed omissioni, ad esser generosi. Frutto di un’indagine inquinata alla radice da pregiudizi e approssimazione, compresi l’identikit e il photo-fit diramati incautamente all’indomani del delitto. Saranno fonte di decine di segnalazioni anonime, tutte da verificare e senza sbocchi, che intaseranno l’accidentato lavoro di investigatori già emotivamente messi a dura prova. E le incursioni dei due Servizi, militare (Sid) e civile (Affari Riservati), solleveranno soltanto polvere. A cominciare dagli emissari del Viminale, che suggerivano di controllare i movimenti dell’extraparlamentare Renato Mannheimer, futuro stimato sondaggista. O la segnalazione che il controspionaggio fece pervenire ai carabinieri e che sollevava sospetti sull’anarchico Joe Fallisi, autore della Ballata del Pinelli. Non c’entravano nulla, evidentemente, con l’omicidio Calabresi. Come Angelo Fascetti, Claudio Gallo e Umberto Macoratti, ex compagni di Pietro Valpreda nel circolo 22 Marzo, tenuti d’occhio per un po’ dalla questura romana. Era estraneo Gianfranco Bertoli, l’ambiguo anarchico su cui Calabresi aveva già indagato e che pure tornerà a Milano da un kibbutz israeliano, il 17 maggio 1973, a compiere la strage alla Questura nel primo anniversario dell’omicidio del commissario. A vuoto i testi oculari saranno chiamati per visionare la sua foto e quelle di una decina di brigatisti: Renato Curcio, Alberto Franceschini, Mario Moretti, Paolo Maurizio Ferrari, Piero Morlacchi e la moglie Heidi Peutsch, Anna Maria Bianchi, Maria Carla Brioschi. Qualcuno azzardò una pista internazionale: Monica Ertl, la giustiziera del console boliviano Quintanilla (il boia del Che), ucciso ad Amburgo con una pistola appartenente a Feltrinelli; l’anarchico francese Jean-Pierre Dutueil; Holger Meins, militante della Baader-Meinhof; ma anche Christian Kerbler, il killer dei due terroristi altoatesini Luis Amplatz e Georg Klotz; il trafficante d’armi tedesco Christian Karl Ring; o la presunta spia italo-americana Leo Joseph Pagnotta. Tutti buchi nell’acqua. Due vere piste, entrambe rosse, furono battute fin da subito. Una nasceva da un biglietto scritto a mano dal commissario, il 3 novembre 1971: aveva notato due giovani, sotto casa, mentre appuntavano il suo numero di targa, e una breve indagine lo aveva portato ai nomi degli extraparlamentari Gianni Zambarbieri e Luigi Sangermano. Subito interrogati, i due spiegano che quel giorno erano in strada a scioperare, che il funzionario lo avevano incrociato per caso, e comunque hanno un alibi. L’altra pista piove in mano ai carabinieri da un rivolo dell’inchiesta sugli agganci del defunto Feltrinelli con la galassia che sogna la rivoluzione. Intercettando la sede di Lotta Continua, apprendono in diretta dell’arrivo dalla Germania del militante Angiolino Tullo, due giorni prima dell’omicidio, per poi ripartire subito dopo. Un pool speciale, composto da due alti funzionari di polizia e carabinieri e dalla superspia Silvano Russomanno, parte per Francoforte ma non trova Tullo. Dopo una settimana di ricerche a vuoto, il giovane si presenta spontaneamente in tribunale. Spiega, chiarisce la sua estraneità, saluta e se ne va. Tutto qui? Dopo altre settimane di appostamenti a vuoto, di biglietti anonimi e farneticanti, di suggestioni giornalistiche come quella - Calabresi a Trieste tre giorni prima di essere ammazzato, a indagare su oscuri traffici di armi - che Massimo Fini lancia sull’Avanti, la pista sull’omicidio si colora di nero. Succede a fine settembre 1972, quando alla frontiera di Como viene fermata un’auto zeppa di armi. A bordo ci sono l’attrice tedesca Gudrun Kiess, il neofascista Luciano Bruno Stefàno e il suo camerata Gianni Nardi. Diversi testimoni vedono in quest’ultimo l’uomo dell’ombrello e della pistola. Per due anni sarà questo trio al centro della vicenda, scarcerati ma poi di nuovo ricercati dopo le rivelazioni dell’infermiera Luigina Ginepro che dalla Kiess, in cella, a suo dire, avrebbe avuto conferma della partecipazione all’omicidio. Nel 1974 arriva pure un mandato di cattura ma intanto i tre si danno latitanti, e senza riscontri la pista cade. Non decolla nemmeno la ripresa del filone che voleva il commissario sulle piste dei trafficanti d’armi tra la Germania, il Nord-Est e l’Adriatico. Anche qui c’è un nome tedesco, Olaf Kruger, e una pista solida come la carta velina su cui vengono battuti i rapporti. Sgocciolano via gli anni Settanta e la verità sui sicari di Luigi Calabresi si allontana. Da destra arrivano nuove voci, nuovi sentito dire. Ermanno Buzzi, detenuto per la strage di Piazza della Loggia, accusa nel 1976 il suo accusatore Ugo Bonati senza un solo riscontro e con un’attendibilità troppo bassa per poter dar seguito. E così avverrà, negli anni Ottanta, per le dichiarazioni di alcuni pentiti dell’universo nero come Aldo Tisei, che torna a parlare del gruppo di Nardi, e Giorgio Farina, che attribuisce l’agguato all’area di Potere Operaio. A sinistra puntano pure le dichiarazioni di tre esponenti di punta del pentitismo rosso. Roberto Sandalo, Michele Viscardi e Sergio Martinelli, fuoriusciti da Lotta Continua e poi da Prima Linea, puntano il dito su alcuni loro ex compagni, componenti del vecchio servizio d’ordine di Lc che si stava trasformando in struttura illegale e clandestina. Spiegano di aver saputo che tra gli esecutori materiali, con l’avallo dei vertici dell’organizzazione, ci sarebbe stato Marco Fossati, individuato su un libro fotografico del reporter Uliano Lucas. E che a fornire la base ai sicari sarebbe stato Franco Gavazzeni, musicista e docente universitario bergamasco di buona famiglia. La nuova indagine dura un anno tra accertamenti e intercettazioni, tutte a vuoto. Gli accusati ne escono puliti. Ma la traccia tornerà buona in seguito. Arresti. Milano, 28 luglio 1988 - L’estate era calda. Negli occhi gli italiani avevano la delusione dell’eliminazione in semifinale degli Europei contro l’Unione Sovietica (ma anche il gol di Marco Van Basten in finale, quel tiro al volo che è diventato poi arte), nelle orecchie “Andamento Lento” di Tullio de Piscopo. Era un’estate di divertimento, Gianni De Michelis era vicepresidente del Consiglio, l’Italia era un paese ormai pacificato e si divideva su argomenti minori: quelle, per esempio, erano le settimane della discussione sulla legge Ferri, con il limite di velocità in autostrada. Erano passate da poco le nove del 28 luglio del 1988 quando le agenzie di stampa e le radio diedero una notizia che arrivava dal passato. Quattro persone erano state arrestate per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. “In televisione cominciarono a trasmettere le immagini in bianco e nero dell’omicidio e sembravano arrivare da un altro tempo: sembrava una storia del Risorgimento, così lontana da quell’Italia della fine degli anni ‘80”, ricorda Raffaele Liucci, storico, che da anni sta studiando tutti gli atti processuali di questa storia per un libro che sarà pronto tra qualche tempo. “E invece l’omicidio Calabresi era tornato nella cronaca del Paese”. La procura di Milano aveva ordinato l’arresto di quattro persone: Adriano Sofri, il vecchio leader di Lotta Continua diventato nel frattempo uno stimato opinionista e giornalista. Di lui gli amici ricordavano spesso di quella volta - era il marzo 1963 - che incrociò Palmiro Togliatti a Pisa, dove Sofri aveva studiato alla Normale. Dopo uno scambio di battute, Togliatti disse a quel giovane studente: “Devi ancora crescere, provaci tu a fare la rivoluzione”. E Sofri rispose: “Ci proverò, ci proverò”. Quando lo arrestarono, Sofri scriveva importanti reportage da tutto il mondo, era professore all’Accademia di Belle Arti a Firenze e non aveva perso nemmeno un grammo del suo carisma. Il suo nome non era il solo scritto nel mandato di cattura firmato dai giudici milanesi Ferdinando Pomarici e Antonio Lombardi. C’erano due vecchi amici di Lotta Continua, il gruppo che si era sciolto già da 12 anni: Giorgio Pietrostefani, dirigente politico nella vita precedente, lavorava da tempo come importante dirigente di aziende di stato e al momento dell’arresto era un quadro delle Officine Reggiane. E Ovidio Bompressi, che in Lotta Continua era un semplice militante, e nella vita vendeva libri a Massa, la sua città. Sofri, Bompressi e Pietrostefani. I loro nomi erano stati fatti a carabinieri e magistrati da Leonardo Marino, un altro ex di Lotta Continua. Di lui ricordavano: “Viveva in adorazione di Adriano”. Poi si erano persi di vista: Marino era finito a vendere Coca Cola e crepes con un furgone agli “spiaggioni” di Bocca di Magra, tra la Toscana e la Liguria, uno dei posti preferiti da Indro Montanelli. Marino era il pentito. “Leonardo Marino si presentò spontaneamente alla stazione dei Carabinieri di Ameglia, poi al Comando di Sarzana e quindi di Milano offrendo dettagliate dichiarazioni sulle attività delittuose commesse quale aderente alla struttura illegale di Lotta Continua sino a oltre l’omicidio Calabresi. Il movimento era retto da due organismi: Il Comitato nazionale e l’esecutivo politico, ristretto a una decina di persone tra cui Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Si era deciso di creare a Torino una struttura parallela del servizio d’ordine con compiti para militari. A deciderlo era stato Adriano Sofri. A Torino erano arrivati Pietrostefani e un tale “Enrico”, Ovidio Bompressi. Nell’autunno del ‘71 “Enrico” gli aveva riferito che l’esecutivo politico stava prendendo in considerazione l’eliminazione del commissario Calabresi, ritenuto responsabile della morte dell’anarchico Pinelli, decisione presa anche per contrastare l’emorragia degli aderenti più militaristi di Lotta Continua passati alle Brigate rosse allora emergenti, e gli aveva proposto di partecipare all’attentato come autista. Nella primavera del ‘72 sempre l’“Enrico” gli aveva annunciato l’imminente esecuzione del progetto. Di questa decisione delle modalità di esecuzione gli aveva parlato anche Pietrostefani che non aveva precisato i nomi dei membri dell’Esecutivo favorevoli al progetto, ma aveva confermato che tra questi vi era anche Sofri. Il 13 maggio del 1972 aveva incontrato Sofri per avere la conferma di tale decisione. L’incontro vi era stato in occasione del comizio tenuto a Pisa da Sofri per commemorare la morte dello studente Serantini, avvenuta il 7 maggio in seguito a un intervento della Polizia. Alla fine del comizio di Sofri egli lo aveva avvicinato (in un primo tempo Marino indicava anche Pietrostefani la cui presenza, peraltro, andava a “dissolversi” in successive versioni) e dopo una breve sosta in un bar si erano appartati per strada per un breve colloquio. Nel corso del dialogo gli era stata confermata la decisione dell’attentato e gli erano state impartite direttive di carattere generale, ossia che in caso di arresto egli avrebbe dovuto dichiarare di aver agito per iniziativa personale. E che gli sarebbe stata garantita sia l’assistenza finanziaria sia legale. Il 16 maggio l’azione non aveva avuto luogo perché la mancanza della vettura del commissario Calabresi, là dove era solitamente parcheggiata, aveva fatto ritenere che lo stesso non avesse pernottato a casa o fosse uscito prima del solito. Il 17 maggio era stata realizzata l’impresa omicidiaria”. Corte di Cassazione, 22 gennaio 1997 - Marino racconta di essere stato lui a guidare la Fiat 125 cui scese il killer di Luigi Calabresi, Ovidio Bompressi. A ordinare l’omicidio del commissario Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. È il 28 luglio del 1988 che inizia la seconda parte della storia dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi. Quello del processo più lungo della storia del nostro Paese. Il processo. Venezia, 24 gennaio 2000 - Se c’è un fatto, più di ogni altro, in grado di spiegare quanto l’omicidio Calabresi sia stato uno spartiacque nella storia del nostro Paese, quel fatto è il processo ai suoi responsabili. La sua durata. Venti sentenze in diciassette anni. E, per giunta, una coda giudiziaria non ancora conclusa. Il 28 giugno del 1989, il giudice istruttore Antonio Lombardi, su richiesta del pm Ferdinando Pomarici, rinviò a giudizio i quattro imputati. Il 2 maggio del 1990 si chiuse il processo di primo grado, a Milano: Sofri, Bompressi e Pietrostefani vennero condannati a 22 anni di reclusione e Marino, con gli sconti previsti dalla legge sui pentiti, a 11. Il 12 luglio del 1991 l’Appello confermò. Il 23 ottobre del 1992 la Cassazione, invece, annullò: molte prove, a partire dalla 125 usata dagli assassini erano andate distrutte (mancato pagamento del bollo, l’assurda spiegazione), e troppe contraddizioni inficiavano le dichiarazioni di Marino, scrissero gli ermellini. Il fascicolo tornò così a Milano, in appello, in un palazzo di giustizia così diverso da quello che il commissario Calabresi conosceva. Era scoppiata Tangentopoli, Cagliari e Gardini si erano suicidati da qualche mese, era appena cominciato il processo a Cusani. La Corte di Appello, il 21 dicembre del 1993, dichiarò innocenti i tre imputati. Ad alcuni sembrò la fine. Ma invece fu un nuovo inizio. A decidere l’assoluzione furono i giudici popolari, a maggioranza. Ma i giudici togati nello scrivere le motivazioni non nascosero le loro perplessità su quella decisione. È quella che i tecnici definiscono una “sentenza suicida”, una motivazione scritta cioè appositamente perché possa essere cassata. E così, come previsto da molti, a ottobre del 1994 quell’assoluzione venne annullata dalla Cassazione per incongruenza delle motivazioni. Cominciò così un settimo grado di giudizio, ancora davanti alla Corte di Appello di Milano. Novembre del 1995, giudizio ancora ribaltato, mantenute le pene a 22 anni di carcere, con l’aggiunta della prescrizione per il reato di Marino. A gennaio del 1997 la Cassazione confermò: il 24, Adriano Sofri e Ovidio Bompressi entrano in carcere a Pisa, il 29 si costituì Pietrostefani. Ma a dicembre viene presentata un’istanza di revisione. Sostenute da un imponente movimento di opinione, certo dell’innocenza di Sofri e degli altri, le difese portarono davanti ai magistrati nuove prove, dal diario dell’ex moglie del pentito a perizie balistiche di parte, in grado secondo i legali dei tre ex di Lotta Continua di riaprire e ribaltare il processo. A marzo del 1998, la richiesta venne bocciata dalla Corte di appello di Milano, a ottobre la Cassazione invece l’accolse. E l’11 novembre il Parlamento approvò una legge sulla revisione dei processi che permise di spostare la nuova decisione sul processo da Milano a Brescia. A marzo la Corte di Appello della città lombarda negò per due volte la revisione. Ma a tra aprile e maggio la Cassazione, e siamo alla 14esima sentenza, accolse il ricorso dei legali e invitò i magistrati di Appello, questa volta di Venezia, a rivalutare il tutto. È il gennaio del 2000 quando, dopo aver accolto la richiesta di revisione, i giudici Silvio Giorgio, Umberto Zampetti e Antonio De Nicolo mettono la parola fine. La Corte di Appello di Venezia conferma le condanne con una sentenza di 483 pagine. I giudici sostengono che le nuove prove prodotte non cambiano lo stato delle cose, che esiste una “attendibilità intrinseca” nelle dichiarazioni Marino - nonostante le “correzioni e le contraddizioni” - e che dunque la sentenza di condanna è corretta. I togati non possono, però, non valutare che intanto il mondo è cambiato. Quegli uomini che si erano trovati a giudicare erano delle persone diverse rispetto a trent’anni prima. La Lotta Continua che parlava di Calabresi come “il marine dalla finestra facile” era restata soltanto nei ricordi dei nostalgici e in qualche canzone. Il Sofri che scriveva che “l’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse, anche se questo non può indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”, aveva chiesto scusa, pentendosi di quelle parole, pur continuando a dichiararsi innocente dalle accuse sull’omicidio. “Un’infamia” aveva etichettato “la campagna di istigazione e di linciaggio condotta contro il commissario Calabresi” da Lotta Continua. Gli anni di piombo erano sepolti da un po’. “Il caso Sofri ha due peculiarità assolute”, avevano così scritto i giudici di Venezia. I ventotto anni passati dalla condanna all’omicidio e “il totale inserimento del condannato nella società civile” avevano determinato “un effetto distorsivo della pena obiettivamente svincolata da ogni esigenza d’emenda e di recupero del condannato alla società”. “Ma i fatti restano fatti”, dice oggi Armando Spataro, allora pm della procura di Milano, che pure mai si occupò del caso Calabresi. “E i fatti sono la sola bussola dalla quale devono farsi orientare i magistrati: in quel momento storico, come magistratura, restammo abbastanza schifati dalle polemiche politiche esterne, da chi premeva e ci chiedeva in qualche modo di non fare il nostro mestiere. Ma il bravo magistrato - e tanti colleghi che si sono occupati del caso Calabresi lo erano, anzi direi straordinari - è quello che sa apprezzare la solitudine. Perché è sinonimo di serenità”. Spataro considera un maestro e un fratello maggiore Fernando Pomarici, il pm che raccolse e credette per primo alla versione di Marino. Pomarici ha oggi la voce sottile. Ma non ha alcun dubbio. Tutto quello che accadde attorno - le manifestazioni a favore degli imputati, gli scioperi della fame, le polemiche, le leggi ad hoc, i colpi di scena - furono vissuti da lui e dai suoi colleghi “con grande indifferenza”. Nel senso che non potevano e non dovevano contare. “I fatti restano fatti”. Licia Pinelli e Gemma Calabresi si incontrano al Quirinale per la prima volta il 9 maggio 2009, alla presenza del presidente Giorgio Napolitano. “È stata una giornata intensa”, le parole di Gemma Calabresi al termine dell’incontro iniziato con una stretta di mano tra le due donne. “Fingiamo che non siano passati tutti questi anni”, il saluto della signora Pinelli. Oggi - Dopo la sentenza di Venezia sia la corte di Strasburgo che la Corte di appello di Milano hanno negato una riapertura del processo. Le condanne a 22 anni per i tre imputati sono rimaste tali. Dopo aver scontato parte della pena, Ovidio Bompressi è stato graziato il 31 maggio del 2006 dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Era ed è gravemente malato. Adriano Sofri è un uomo libero da 10 anni, dopo aver scontato una detenzione di 15 anni, gli ultimi sei dei quali passati ai domiciliari. Beneficio goduto anche per motivi di salute. Non ha mai avanzato richiesta di grazia. Dopo una breve detenzione, Giorgio Pietrostefani è invece fuggito in Francia tra il 1999 e il 2000, prima che la corte d’Appello di Venezia dicesse l’ultimo no alla revisione. È malato e la Francia per anni ha negato la sua estradizione. Il 28 aprile del 2021 è stato però arrestato a Parigi su richiesta dell’Italia insieme ad altri 6 ex terroristi. Da allora è in libertà vigilata. Prima del suo arresto, Mario Calabresi, giornalista, che è stato cronista e direttore di questo giornale, lo ha voluto incontrare a Parigi qualche tempo fa. Sua madre, Gemma, la vedova del commissario Calabresi, gli ha affidato un messaggio: “Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita”. Il 18 maggio, davanti alla Corte di Appello di Parigi, si terrà una nuova udienza per decidere sull’estradizione in Italia di Giorgio Pietrostefani. Saranno passati 50 anni e un giorno dall’omicidio di Luigi Calabresi. Mario Calabresi, un omicidio e la Storia di un Paese di Miguel Gotor* La Repubblica, 15 maggio 2022 “Questi cinquant’anni non sono passati invano ed è davvero il tempo di lasciare questi anni alla Storia e alla memoria privata”. Con queste parole Mario Calabresi ha concluso lo scorso 9 maggio alla Camera dei deputati il ricordo di suo padre Luigi, ucciso da un commando della struttura clandestina di Lotta continua il 17 maggio 1972. Ma se un ventenne di oggi, che non ha esperienza né memoria di quei fatti, volesse capire per quale ragione quell’omicidio è importante nella storia d’Italia gli si potrebbe rispondere che ci sono almeno tre buoni motivi. Anzitutto è il primo omicidio politico degli anni Settanta e ha segnato l’inizio del terrorismo di sinistra in Italia. Se si vuole ricercare un’analogia nella storia nazionale bisogna risalire all’eliminazione del filosofo Giovanni Gentile nell’aprile 1944: anch’esso un atto di “giustizialismo armato” di cui la manovalanza e la matrice sono state accertate, al prezzo di un lacerante contrasto all’interno del movimento resistenziale, ma sono rimasti oscuri i mandanti e le loro effettive intenzioni. L’assassinio di Calabresi è stato assai precoce nella storia della lotta armata. Se si segue la sequenza temporale delle diverse azioni emergono alcuni dati inequivocabili: i militanti del filone movimentista cominciarono per primi a sparare, con l’obiettivo di ferire e di uccidere, tra il 1971 e il 1973, quando le Brigate rosse si limitavano ancora a rapine, sequestri lampo e incendi di autovetture. I brigatisti iniziarono ad ammazzare in modo pianificato soltanto dal giugno 1976 in poi (con l’omicidio del magistrato Francesco Coco e della sua scorta). Lo stesso avvenne con Prima linea, sempre nel 1976, quando accolsero tra le loro file i reduci di Lotta continua intenzionati a dedicarsi alla lotta armata. Tuttavia, una volta sconfitte e incarcerate, le Brigate rosse si assunsero la responsabilità di tutta la storia della lotta armata, compreso quella dal 1971 al 1975. Nel compiere una simile operazione trovarono il prevedibile e interessato sostegno di quei settori del “Partito armato” e dei loro fiancheggiatori che, altrimenti, avrebbero rischiato di dovere rispondere, anche sul terreno penale, delle azioni compiute dal 1971 in poi, tra cui il delitto Calabresi che in tanti sapevano essere stato compiuto dalla struttura clandestina di Lotta continua guidata da Giorgio Pietrostefani. Costoro, invece, ebbero gioco facile a minimizzare le proprie responsabilità, a confondere le acque e a dichiarare, mediante accorte campagne di stampa, ordite da ex compagni di lotta che nel frattempo avevano occupato importanti posizioni nel mondo del giornalismo, che le Brigate rosse erano finite con il rapimento e la morte di Aldo Moro, quando in realtà, proprio da allora, aumentarono in maniera esponenziale il loro potenziale di fuoco per almeno un triennio. I brigatisti stessi finirono per accettare di buon grado questa valutazione distorta dei fatti: lo fecero per orgoglio rivoluzionario, a parziale risarcimento ideologico della disfatta subita e con il comprensibile obiettivo di uscire il prima possibile dal carcere, a condizione di sposare questa lettura edulcorata e parziale degli eventi. In secondo luogo, il delitto Calabresi è importante perché grazie alla qualità dell’impegno editoriale del figlio Mario e della moglie Gemma esso ha restituito per primo voce e dignità alle vittime troppo spesso dimenticate. Si è così avviato un discorso pubblico su quella stagione che sino a quel momento era troppo squilibrato a favore della memorialistica dei protagonisti della lotta armata intrisa di un sentimento di nostalgia, di un narcisismo autoreferenziale e di un atteggiamento omertoso il più delle volte stucchevoli, eppure guardati con una certa accondiscendenza da una parte dell’opinione pubblica. Infine, il delitto Calabresi è significativo poiché, essendo direttamente collegato alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta a pochi giorni dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, ha rivelato gli intrecci perversi di un’Italia oscura che ha scontato a lungo il tema di una mancata defascistizzazione dei propri apparati di sicurezza. Lo stesso Calabresi, all’indomani della morte di Pinelli, trattenuto illegalmente nella Questura di Milano, fu esposto alle calunnie di una feroce campagna di stampa, in particolare del giornale Lotta Continua perché i suoi più scaltri e anziani colleghi, professionalmente cresciuti sotto il regime, lo lasciarono con il cerino in mano. A questo proposito il fondatore delle Brigate rosse Renato Curcio, che per una volta parlava come capo del “partito armato” in Italia, ha dichiarato nel 1993 che “Ci sono tante storie di questo Paese che vengono taciute, che non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio, come piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in un certo modo e che, per ventura della vita, nessuno può dire come sono veramente andate... C’è stata una sorta di complicità tra noi e i poteri che impediscono a noi e ai poteri dire come è veramente andata”. Una formula criptica e reticente, ma al fondo indulgente e autoassolutoria, nella quale tutti i superstiti di questa tragica storia, per la loro quota parte di responsabilità, e da qualsiasi lato della barricata avessero militato, si sarebbero potuti riconoscere “per ventura della vita”. E già, proprio così, tutti, tranne i morti. Smontare sul piano storiografico l’ambiguità di questa impalcatura ideologica non soltanto giustifica l’importanza del delitto Calabresi, ma anche la necessità di coltivare gli studi sugli anni Settanta per comprendere l’Italia di oggi. *Storico e assessore alla cultura di Roma Il coraggio di guardare nel buio di Benedetta Tobagi La Repubblica, 15 maggio 2022 Eravamo in piedi, in silenzio, nel cortile della Questura di Milano in via Fatebenefratelli, con una trentina di studenti dell’ultimo anno delle superiori, punto d’arrivo di una camminata nel centro di Milano. Dai luoghi dell’autunno caldo del ‘69 a piazza Fontana, a piazza del Duomo, dove 300mila persone si stiparono per i funerali delle vittime, mentre i depistaggi prendevano la rincorsa, con la bomba inesplosa della Banca Commerciale fatta “brillare” e la forzatura nel riconoscimento di un tassista che inchioda l’anarchico Valpreda nel ruolo di mostro. Infine, quel cortile, ai piedi della finestra da cui Pinelli precipitò, illegalmente trattenuto e ingiustamente calunniato - perché non c’entrava nulla con quella bomba messa dai terroristi neri. E accanto al busto del commissario Luigi Calabresi, assassinato tre anni dopo da chi lo riteneva colpevole di quella morte. Nel silenzio, un tonfo improvviso. Era solo un piccione che aveva fatto cadere qualcosa da un davanzale, ma in quel luogo così denso di storia e di dolore, ci ha colpito come uno schiaffo. Allora ho pensato che per trasmettere ai ragazzi una memoria della violenza e dei terrorismi che abbia un qualche significato, a mezzo secolo e oltre di distanza dai fatti, la prima cosa essenziale è avere il coraggio di stare. Star fermi con loro davanti al cratere buio dell’intrico di torti del Novecento. Senza scappare, senza riempirli di parole retoriche. Illuminare i diversi lati della storia, i punti di frattura. Aiutarli a sentire il peso - umano e politico - dell’ingiustizia, della mancata verità e poi della morte violenta inflitta da chi ha preteso di scavalcare la legge e autoproclamarsi “giustiziere”. Vedere la loro incredulità, il loro stupore: ma è successo davvero? stare a sentire i loro pensieri, le domande, le emozioni che affiorano. Così, insieme, diventa possibile deporre certe schegge di memoria acuminate, ancora roventi, sul grande tavolo comune costruito attraverso la ricostruzione storica, un tavolo che poggia sulle gambe solide della Costituzione che regola il nostro vivere insieme, e anche quando viene violata e abusata resta lì. Il tavolo a cui tanti, prima di loro, hanno fatto lo sforzo di restare seduti, anche se costava loro moltissimo. Vedo come i ragazzi ascoltano un uomo di ottant’anni che racconta cos’ha significato vedere il padre fatto a pezzi da una bomba e poi attendere giustizia, invano, per decenni. La domanda più frequente: “ma come fa a credere ancora nello Stato?”. Nel Paese dell’antipolitica è una domanda nient’affatto banale. Rispondere con sincerità è difficile. Ciò che rende feconda la trasmissione della memoria, credo, è innanzitutto, lo sforzo di essere fedeli alla verità, e alla complessità, dei fatti. Ragionare sul carico di rabbia e di dolore che si portano dietro le diverse esperienze, senza farsene risucchiare, per imparare come fare le cose diversamente. Il mondo è cambiato, ma lo è poi così tanto? Senza appiattire il presente sul passato, ci storie così forti e così dense da non perdere mai il loro significato esemplare. Piazza Fontana parla dei meccanismi perversi del potere. A partire dalla storia di Stefano Cucchi gli studenti riescono a connettersi in modo profondo con lo sdegno per la morte senza giustizia di Pinelli. La feroce campagna diffamatoria contro Calabresi fa riflettere sui meccanismi perversi della character assassination e sulla “logica del nemico”, da cui alla fine, in modo diverso, escono tutti annientati. E poi rimanere in silenzio, nel cortile della questura, perché diventare adulti e cittadini responsabili è sempre un’impresa difficile, ma passa anche da lì. Bologna. Un altro detenuto trovato morto. “Il terzo in pochi mesi alla Dozza” di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 15 maggio 2022 Un altro detenuto morto. Nello stesso padiglione, allo stesso piano, nella stessa sezione. “La sezione A del secondo piano giudiziario è un luogo dimenticato. La maggior parte dei detenuti fa un uso ludico dei farmaci, c’è assoluta povertà e non ci sono progettualità sociali o educative. Un refugium peccatorum, in tutti i sensi”, così il Sinappe, che racconta di questa terza morte in pochi mesi tra le mura della Dozza. Bojan Taoufik, marocchino di 40 anni, è stato trovato senza vita ieri mattina nel suo letto. I compagni di cella hanno dato l’allarme alla penitenziaria, ma per l’uomo non c’era già più nulla da fare. Come per Adil Ammani, marocchino di 31 anni, trovato senza vita a marzo scorso, e come per Fateh Daas, algerino di 42 anni, morto invece a novembre, la prima ipotesi è quella di un malore. Adesso, però dovrà essere l’autopsia a chiarire se dovuto a cause naturali o legato all’assunzione di sostanze o farmaci mischiati con il distillato alcolico che gli stessi detenuti producono, clandestinamente, in carcere. “Questa terza morte in carcere non può passare nel silenzio. Al secondo piano del giudiziario c’è un problema di gravissimo disagio, che deve essere affrontato - dice il Sinappe -. Non può essere solo la polizia penitenziaria a farsi carico dei problemi di queste persone, la maggior parte con gravi dipendenze incompatibili con il regime carcerario. O quantomeno con la situazione in questo momento in essere alla Dozza, col personale all’osso e con i più poveri, perché nella sezione A i detenuti sono gli ultimi degli ultimi, lasciati a se stessi” Reggio Calabria. “Adotta uno scrittore”: i detenuti incontrano Daniele Mencarelli ildispaccio.it, 15 maggio 2022 Le attività del Cpia Stretto Tirreno-Ionio presso la Casa Circondariale “G. Panzera” di Reggio Calabria si sono arricchite, nei giorni scorsi, dell’importante contributo dello scrittore Daniele Mencarelli, che ha incontrato i detenuti frequentanti i percorsi scolastici. L’iniziativa, denominata “Adotta uno scrittore” e arrivata quest’anno alla sua XX edizione, è promossa dal Salone del Libro di Torino e dalla Fondazione Con Il Sud e ha già portato centinaia di scrittori a contatto con gli studenti di ogni ordine e grado degli istituti scolastici di tutta la geografia nazionale. Quest’anno, grazie alla collaborazione con il CPIA Stretto Tirreno-Ionio, diretto dal Dott. Gaetano Marciano, l’iniziativa ha coinvolto nuovamente il nostro territorio e gli studenti del CPIA delle sedi carcerarie: dopo l’incontro tenutosi nel 2021 con gli studenti dei corsi del CPIA presso il carcere di Locri, con lo scrittore e rapper Francesco “Kento” Carlo, questa è stata la volta di oltre trenta studenti ristretti presso il Carcere di San Pietro di Reggio Calabria, che per due giorni, il 10 e l’11 maggio scorsi, hanno potuto incontrare l’autore romano Daniele Mencarelli, già vincitore del Premio Strega giovani 2020, e discutere con lui attorno al suo romanzo Sempre tornare, edito da Mondadori nel 2021. I due giorni di incontro hanno fortemente motivato gli studenti che nelle settimane precedenti all’iniziativa hanno avuto occasione di leggere l’ultima opera di Mencarelli grazie all’invio gratuito di una copia ciascuno. Il grande interesse per il romanzo e i suoi contenuti, pulsanti di vita e di inquietudine per scoprirne il verso autentico, per la grande disponibilità al confronto e all’incontro mostrata dall’autore e il suo approccio diretto e pieno di genuina curiosità per l’altro, si è trasformato in un’occasione per un fitto dialogo sulla condizione carceraria, sulle diverse scelte di vita, sulle speranze e le aspirazioni a una vita migliore e a un pieno reinserimento nella società: un percorso desiderato che, tuttavia, affronta numerosi ostacoli. Il Dirigente scolastico Gaetano Marciano, nell’esprimere viva soddisfazione per la riuscita dell’evento ha voluto sottolineare, in un messaggio rivolto agli allievi, che l’arricchimento che l’incontro con lo scrittore ha certamente rappresentato per essi è stato allo stesso tempo un arricchimento per lo scrittore stesso e tutti i docenti del CPIA, i quali hanno potuto conoscere tante preziose storie di vita, e ha posto l’accento sul fondamentale concetto di libertà e sulle tante prigioni, non solo fisiche, ma soprattutto del cuore, che gli uomini sperimentano dentro, ma anche fuori dal carcere: la lettura, in questo senso, diviene uno strumento essenziale per disfarsi di queste costrizioni perché conduce a pensare, progettare, amare. L’edizione 2022 del progetto “Adotta uno scrittore” vivrà un ulteriore, importante momento il prossimo 23 maggio a Torino, dove si riuniranno, come atto conclusivo, tutti i rappresentanti delle scuole italiane coinvolte, assieme ai diversi scrittori che le hanno visitate. Tuttavia, come ogni esperienza autentica, quella appena svoltasi a Reggio Calabria non si concluderà con l’evento di Torino, ma ha già prodotto idee per il futuro che, grazie alla disponibilità di Daniele Mencarelli e del corpo docente del CPIA Stretto Tirreno-Ionio, coinvolgeranno nuovamente gli studenti ristretti presso il carcere di San Pietro nei prossimi mesi. Potenza. Carcere e rigenerazione, “Extra Moenia” alla fase di progettazione partecipata basnews.it, 15 maggio 2022 Presso l’ex Biblioteca Provinciale, dal 16 maggio la cittadinanza protagonista dell’ideazione di elementi di arredo per valorizzare un’area contigua alla Casa Circondariale di Potenza. Prosegue presso l’ex Biblioteca Provinciale, in via Maestri del Lavoro a Potenza, il progetto di rigenerazione urbana “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale”, vincitore dell’avviso pubblico Creative Living Lab - 3 edizione promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, ideato da Compagnia teatrale Petra insieme alla Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza e a Officine Officinali APS e con il patrocinio del Comune di Potenza. A partire dal 16 maggio è previsto lo svolgimento dei workshop di comunità con cittadini, associazioni e studenti, destinati alla progettazione partecipata degli elementi di arredo e di fruizione che saranno collocati nello spazio oggetto dell’intervento di rigenerazione: una striscia verde incolta di circa 800 mq che lambisce le mura de carcere di Potenza, a ridosso del quartiere limitrofo di Rione Betlemme. I workshop saranno coordinati dagli architetti progettisti Giorgia Botonico e Lia Teresa Zanda, dall’illuminotecnico e scenotecnico teatrale Angelo Piccinni e dagli operatori della Casa Circondariale di Potenza. La progettazione degli elementi sarà pensata con l’obiettivo di recuperare materiali di scarto e inutilizzati in possesso della Casa Circondariale. Per la fase di progettazione con i cittadini, Extra Moenia si avvarrà anche della collaborazione del laboratorio di design partecipativo Open Design School, progetto pilastro ed eredità di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, che metterà a disposizione i suoi sistemi modulari e flessibili, ma anche know-how e soluzioni su processi partecipativi, allestimento dello spazio pubblico, interventi di rigenerazione urbana, sviluppati in sei anni di attività da professionisti locali, nazionali e internazionali insieme alla comunità. Gli schizzi e i disegni prodotti nei workshop di comunità verranno successivamente trasformati materialmente in manufatti, nel corso di un laboratorio di autocostruzione che costituirà la fase finale del progetto, per il quale è prevista una festa aperta a tutta la cittadinanza, in programma il 16 giugno all’interno dello spazio rigenerato. La prima fase di creazione del progetto ha visto lo svolgimento dei laboratori di comunità con la formatrice teatrale Antonella Iallorenzi e il tecnologo alimentare Daniele Gioia. Gli incontri sono serviti per individuare i possibili utilizzi del luogo oggetto dell’intervento e immaginare le diverse modalità di gestione utili a offrire servizi all’intera comunità: teatro all’aperto, luogo di attesa dei familiari dei detenuti, parco giochi, mercato di quartiere, punto vendita delle produzioni della Casa Circondariale - oli essenziali, ortaggi, funghi, miele, olio, ecc. - nell’ambito della Rete Lucana per l’Economia Carceraria denominata “Prison Farm”, di cui la Casa Circondariale di Potenza è capofila. I workshop di comunità si svolgeranno nei giorni 16-17-18 maggio e 24-25-26 maggio, dalle ore 15 alle 20 presso l’ex Biblioteca Provinciale. Le iscrizioni sono ancora possibili inviando un’e-mail di richiesta informazioni all’indirizzo progettipetra@gmail.com. Storia del giudice che si internò in un Opg per vedere come vivevano i reclusi di Enrico Bellavia L’Espresso, 15 maggio 2022 “Matricola zero zero uno”, di Nicola Graziano e Nicola Baldieri. Nel 2014 il magistrato Nicola Graziano è andato in incognito per tre giorni nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. “Non immaginavo che tre giorni potessero essere un’eternità”. Ha raccontato il magistrato Dino Petralia, ex capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che quando vinse il concorso, il suocero, avvocato penalista, gli disse che “per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere”. Nicola Graziano, magistrato del tribunale di Napoli, che vive ad Aversa dove ha sede l’Ospedale psichiatrico giudiziario, lo ha fatto per davvero. Nel 2014, si è immerso per tre giorni in incognito nell’inferno dell’ex Opg, internato volontario tra i detenuti malati e in esaurimento nervoso. Insieme con il fotoreporter Nicola Baldieri ha realizzato un documento tanto drammatico quanto intriso di profondissima umanità. “Matricola zero zero uno”, si intitola (Giapeto Editori). La postfazione è di Franco Corleone. Quando Graziano intraprende il viaggio è il momento in cui gli Opg stanno per cedere il posto alle Rems con le attese tradite che L’Espresso ha documentato. Scrive: “Nella vita sono un giudice ma per 72 ore sono un uomo che le difficoltà della vita e della mente hanno condotto qua dentro. Non immaginavo che tre giorni potessero essere un’eternità”. La spinta a valicare il portone di Aversa è in una domanda: “Ma lì ci vive la follia?”. E l’unica risposta possibile appare “immedesimarsi e confrontarsi”. In definitiva è questa la molla di un’esperienza limite fatta di incontri e di storie. Di solitudini, di dolore e di emozioni. E di un pugile che spacca tutto ma non chiude occhio senza il suo peluche. Un altro carcere è possibile: l’esempio di Bollate di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2022 “Senza sbarre, storia di un carcere aperto”, di Cosima Buccoliero e Serena Uccello. È un libro bello e importante quello scritto da Cosima Buccoliero, già direttrice del carcere di Bollate, insieme a Serena Uccello, giornalista del Sole 24 Ore attenta cronista del lato oscuro dell’economia e delle storie di chi si spende in forme di resistenza. Bello e importante perché testimonia di un altro modo di vivere, prima che di pensare, l’istituzione totale per eccellenza, il carcere. A suo modo anche un libro necessario nelle settimane in cui è riconosciuto il reato di tortura per i fatti verificatisi a Santa Maria Capua Vetere, per le violenze inflitte ai detenuti da chi rappresentava lo Stato. E tuttavia un altro carcere è possibile. A rappresentarlo è anche una figura come quella di Buccoliero che, all’esperienza nell’amministrazione penitenziaria al ministero della Giustizia ha affiancato e privilegiato quella “sul campo”, in ruoli direttivi negli istituti di pena, da Cagliari a Milano. E allora il racconto ha il taglio anche esistenziale di chi vive, per scelta o perché vi si trova ristretto, in un corpo unico e diverso. Già, perché alla fine il carcere è sia un mondo a parte, con regole e ritmi propri, ma anche un linguaggio differente e poi odori, spazi, rumori unici, sia un mosaico umano che si intriga in dinamiche e relazioni e a volte si contraddice (i detenuti certo, ma anche le guardie carcerarie, gli operatori, i volontari). Bollate e la narrazione di quello che lì è tuttora in atto diventano esemplari, con la dichiarata volontà di dimostrare che non si tratta di qualcosa di unico e mai riproducibile. Ma perché sia esperienza diffusa serve un ingrediente che Buccoliero richiama, consapevole del suo paradosso, l’entusiasmo; l’entusiasmo di chi vive sotto la spinta di due energie quella “di noi carcerieri che vogliamo dimostrare che è tempo di archiviare questa parola e l’energia dei carcerati, che vogliono dimostrare di essere qualcosa”. Di questa duplice energia, dei suoi obiettivi di (ri)costruzione di condizioni vivibili in un contesto di grande fragilità, il libro attesta successi e sconfitte con dovizia di esempi (la cella singola per gli ergastolani, “perché così stanno meglio”), senza edulcorare, nella consapevolezza che il carcere è un luogo violento perché la coercizione crea violenza, che c’è e resta, si ammette, anche nel migliore dei contesti. Ma Buccoliero, nella difficoltà a far coesistere la dimensione di chi è giudicata sulla sicurezza ma vorrebbe piuttosto esserlo anche sulla rieducazione, mette sul tavolo anche i nodi irrisolti del nostro ordinamento penitenziario, grande assente (per ora?) nella stagione delle riforme. Due per tutti: l’impossibilità di trattamenti personalizzati - non c’è oggi distinzione tra chi sconta piccole condanne e chi è detenuto per molti anni, - e il ruolo ibrido (poliziotti o educatori?) attribuito alla polizia penitenziaria. “Non tutti sanno”. Nel pianeta ignoto della vita in carcere di Giuseppe Petrocchi Avvenire, 15 maggio 2022 Pubblichiamo ampi stralci della prefazione del cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo de L’Aquila, al libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” (Libreria Editrice Vaticana), curato da suor Emma Zordan, da anni volontaria nel penitenziario romano. Il carcere per molti è un “pianeta sconosciuto”, ma abitato da persone concrete. Esistono le mura che delimitano l’area della detenzione, ma esistono anche le barriere del pregiudizio, che segnano le dimensioni dell’esclusione. Proprio un detenuto ha scritto che il carcere è un cosmo invisibile e “i suoi abitanti appartengono al mondo degli ultimi” (G.R.). La persona non coincide con il male che ha compiuto. Dal punto di vista morale, nessuno può essere rinchiuso irreversibilmente nell’errore “già fatto”: Dio lascia sempre, nel corso della vita, vie aperte al cambiamento e alla conversione. Ogni esistenza umana, perciò, è sempre spalancata sugli orizzonti illimitati della speranza. I detenuti si raccontano con franchezza “disarmata”: “riflessioni scritte senza “mentirsi addosso” (G.M.). I brani da loro composti sono “aree” popolate da ricordi e da considerazioni, che sembrano “distillate” attraverso un lungo e spesso penoso itinerario autocritico: si coglie, sotto ogni riga, una sofferenza pervasiva che, in alcuni casi, raggiunge indici di drammaticità. Si deve varcare il confine dell’indifferenza e della estraneità, così come è fondamentale lasciarsi alle spalle la soglia del sospetto e delle interpretazioni distorsive. Bisogna, inoltre, attivare una disponibilità incondizionata alla verità, motivando evangelicamente la vicinanza partecipe: questo “deposito” di esperienze, infatti, merita di essere avvicinato con lo sguardo “samaritano”. Per “capire”, infatti, occorre “sapere”, e per “sapere” - in modo autentico - è importante mobilitare sia la mente che il cuore. Conoscere, specie quando si tratta di visitare il mondo “interiore” di altri, non è un’impresa solo intellettuale, poiché se manca la luce dell’amore, gli occhi della ragione restano al buio. Va sottolineato che l’incontro autentico con l’altro non solo svela il suo volto, ma ci consente pure di entrare in contatto più profondo con noi stessi, specie in riferimento a quegli aspetti della nostra personalità che resterebbero “mimetizzati”, se non ci fosse il confronto con un “tu” a renderceli manifesti. Per questo la comunicazione, quando è condivisa, diventa reciproca “scoperta” delle soggettività che entrano in rapporto, e crea vincoli di amicizia. Chi legge le pagine di questo libro, con intelligenza altruista e leale “empatia”, si trova di fronte a sorprese “positive” e stimolanti. Emergono voci che chiedono solo di essere ascoltate. Riporto, a titolo esemplificativo, alcuni passaggi del libro, che ci regalano motivi per un serio esame di coscienza, sul piano della fede e dell’impegno civico! “Davvero non tutti sanno com’è la vita in carcere! Molti pensano che noi siamo solo degli scarti umani e che dovremmo marcire qui dentro. Insomma, cari lettori, la vita in carcere non è vita, ma un calvario [..] Da Rebibbia, un uomo che spera di rinascere, vi saluta” (C.C.). Commuove il tono con cui si ammettono gli errori fatti, ma anche la manifestazione di un intenso desiderio di riscatto. “Passo il mio tempo stando con lo sguardo alla finestra della mia cella, ammiro i gabbiani che volano liberi come avrei potuto fare pure io, invece mi trovo qua chiuso e senza quelle ali della libertà, senza un cielo dove poter volare, soltanto mura avvolgenti e immense che distruggono ogni fantasia di volare, facendomi ritrarre quelle ali solo sognate. So che per ora sarà così, avendo scelto il cielo sbagliato in cui sperimentare il mio volo. Ora capisco che toccherà soltanto a me combattere, se voglio tornare a volare in un cielo limpido” (A.R.). La lettura di queste pagine ci aiuti a maturare la convinzione che è meglio porgere una mano amica (capace di offrire un aiuto adeguato) verso chi ha sbagliato, piuttosto che limitarsi a puntare il dito “contro”: nella certezza, suscitata dalla Parola di Dio, che, nella doverosa lotta contro il male, solo la forza del bene è capace di vittoria. I malati psichiatrici in Italia stanno aumentando, ma lo Stato li ha abbandonati di Gloria Riva L’Espresso, 15 maggio 2022 Il numero di pazienti cresce anche a causa delle conseguenze di lockdown e pandemia, soprattutto tra i bambini. Ma quelli che riescono a ricevere un’assistenza all’altezza sono sempre di meno. “Non un solo euro del Pnrr andrà alla salute mentale” denunciano i medici. “Rifiutare il cibo a otto anni significa non voler più crescere. È drammatico”. Alberto Zanobini apre a L’Espresso le porte del reparto di neuropsichiatria infantile del Meyer di Firenze, l’ospedale pediatrico che dirige. Spiega che dopo la pandemia i casi di bimbi con disturbi mentali sono in allarmante aumento. L’Espresso torna a parlare del disagio mentale e di un sistema nazionale che scricchiola, all’indomani dell’inchiesta che ha svelato la presenza di pazienti psichiatrici nelle carceri italiane. Al Meyer ci sono bimbi affetti da anoressia, altri hanno tentato il suicidio: “Stiamo cercando di raddoppiare i posti letto. Ci riusciremo entro il prossimo anno. Ma non basta per affrontare l’emergenza”, racconta il primario, che continua: “L’accesso al reparto di neuropsichiatria pediatrica è passato da una media di 250 bambini l’anno ai 562 casi del 2021. E nei primi mesi del 2022 c’è stato un ulteriore aumento. Non si era mai registrata un’accelerazione tanto importante di ricoveri per tentati suicidi e autolesionismo, che sta mettendo a dura prova i dipartimenti infantili di tutta Italia”, dice Zanobini, che è anche presidente dell’Associazione ospedali pediatrici italiani. Il professore lancia un appello affinché il governo si occupi del malessere dei più piccoli, prima di compromettere il futuro di un’intera generazione, perché se il disturbo mentale non viene curato ai primi sintomi, può provocare gravi conseguenze. “Non un soldo del Pnrr, il piano di ripresa e resilienza, è destinato alla salute mentale, un grave errore di sottovalutazione, perché questa rischia di diventare una pandemia ben più dannosa del covid”. Anche l’Osservatorio nazionale sui farmaci dice che il consumo di psicofarmaci nei bambini è aumentato dell’11 per cento, perché il più delle volte le medicine sono l’unico mezzo a disposizione degli specialisti per affrontare la malattia. Va così a causa della cronica carenza di specialisti - psichiatri, psicologi, educatori ed infermieri: non potendo offrire un sostegno psichico e sociale, la soluzione è un farmaco. “Sempre più spesso non possiamo dimettere i piccoli pazienti perché non sappiamo dove inviarli. Le famiglie non sono pronte ad affrontare da sole la malattia, i centri territoriali di cura sono sovraccaricati. Quindi si rimandano le dimissioni, aggravando la situazione”, spiega il direttore del Meyer. La fragilità mentale dei minorenni è la punta più acuta del generale dissesto del sistema di cura e assistenza della salute mentale italiana. Lo testimonia il dossier “Domanda di salute mentale e capacità di risposta dei Dipartimenti di salute mentale” di Fabrizio Starace, direttore del dipartimento di salute mentale di Modena e presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, secondo cui solo il 55 per cento del bisogno di cura dei cittadini viene soddisfatto, perché il personale in servizio è di gran lunga inferiore alla richiesta di assistenza. E la restante parte? “Per una visita psichiatrica i pazienti attendono anche un anno”, dice Cristina Ardigò, presidente dell’associazione Aiutiamoli, centro di ascolto e aiuto di persone con disagio psichico, che arriva dove il pubblico ha battuto in ritirata. “Giusto ieri una madre in ansia ci ha contattato perché la figlia sta manifestando gravi problemi comportamentali. Ha raccontato di non poterla lasciare sola, perché teme azioni improprie, e di non sapere a chi rivolgersi”, racconta Ardigò, che riceve una media di tre nuove richieste di aiuto a settimana. Francesca Moccia di Cittadinanzattiva conferma: “Con sempre maggior frequenza le famiglie lamentano il peso dell’assistenza che ricade tutto sulle loro spalle, con conseguenze negative economiche, sociali e lavorative. I dati del nostro Rapporto annuale sulla sanità, presentato il 5 maggio, dicono che un paziente su quattro denuncia difficoltà di accesso alle cure pubbliche. Inoltre quasi un cittadino su quattro lamenta la scarsa qualità dell’assistenza fornita nei dipartimenti e centri di salute mentale, per ridotte ore di assistenza, per numero e frequenza di incontri, per una cura quasi sempre affidata esclusivamente alla terapia farmacologica. Il bonus psicologo è un palliativo: nei servizi pubblici ci sono soltanto cinquemila psicologi e a supplire alle carenze del servizio sanitario sono i pazienti e le loro famiglie. Nel frattempo, come conferma il nuovo Rapporto Bes dell’Istat, negli ultimi due anni è raddoppiata la percentuale di adolescenti con problemi di salute mentale. E nei servizi pubblici manca personale, risorse, formazione”. Eppure il modello italiano di cura è un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo grazie alla Legge 180, entrata in vigore nel 1978 e ispirata allo psichiatra Franco Basaglia, secondo cui il paziente psichiatrico è un malato come tutti gli altri, con uguali diritti e doveri di un qualunque cittadino. Grazie a Basaglia sono stati chiusi i manicomi e i pazienti affidati alle cure della rete sanitaria territoriale. Il punto di riferimento è il locale Centro di Salute Mentale, dove un team di psicologi, psichiatri, infermieri ed educatori offre l’assistenza necessaria e indirizza il paziente verso i servizi più adeguati: alle strutture semi residenziali o alle residenze terapeutiche e socio-riabilitative, oppure ai day hospital e agli Spdc, cioè i reparti di psichiatria degli ospedali. L’obiettivo è ridurre l’uso di psicofarmaci a favore delle terapie psico sociali e del progressivo reinserimento nella società. “Questo eccellente modello ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, garantendo una capillarità di servizi sul territorio e una riduzione dei ricoveri ospedalieri”, racconta lo psichiatra Francesco Starace, che continua: “Si tratta di un grande capitale che negli ultimi quindici anni ha subìto un progressivo depauperamento di risorse e personale a causa dei tagli ai sistemi regionali, che hanno toccato soprattutto l’area della salute mentale. Parallelamente c’è stata una crescita del bisogno di cure”, racconta Starace, che snocciola i numeri del dissesto: “Nel primo anno della pandemia centomila italiani hanno rinunciato alle cure e si sono registrate 2,5 milioni di prestazioni in meno. Il personale dipendente, composto da 28.807 professionisti, è ben al di sotto dello standard minimo: avremmo necessità di oltre il 40 per cento in più di forza lavoro”. Alla Salute Mentale spetterebbe il cinque per cento del fondo del Servizio Sanitario Nazionale, ma al contrario solo il 2,9 per cento delle risorse viene destinato al disagio mentale. Attilio Monguzzi è un padre che da vent’anni convive con il male psichiatrico del figlio: “Vent’anni fa pensavo che i livelli di assistenza fossero scadenti. Oggi mi rendo conto che all’epoca i servizi erano accettabili, se paragonati al deserto attuale. L’emergenza è totale e il problema più grosso è il passaggio dalla neuropsichiatria infantile alla psichiatria per adulti: lì le famiglie precipitano nel vuoto. E comincia il calvario”. Spesso, nella fascia d’età più giovane, le diagnosi sono doppie o triple. “Significa che a un lieve ritardo si aggiunge un disturbo mentale e l’abuso di sostanze, che i centri di salute mentale non sanno affrontare. E dopo la prima visita psichiatrica, non succede più nulla, perché i Centri di cura sono già al completo. Così la famiglia viene lasciata sola”, spiega Monguzzi, che ha fondato l’associazione lombarda Giulia e Matteo per aiutare le famiglie. In particolare ha avviato un corso di auto mutuo aiuto: “È l’unico appiglio per i genitori, chiamati a gestire situazioni complesse, con ragazzi che entrano ed escono dagli ospedali, unico presidio ancora funzionante, ma che si limita a curare la crisi acuta: rientrata l’emergenza i ragazzi vengono rimandati a casa, senza un percorso, senza una terapia, con scarse visite a domicilio finché non sopraggiunge la crisi successiva”. L’unica soluzione è rivolgersi a centri di cura privati, le Rsa specializzate nell’infermità mentale: “In alcune regioni, come Lombardia, Lazio e Calabria, i manicomi sono stati sostituiti dalle case di cura, per chi se le può permettere”, racconta Andrea Filippi, psichiatra del Policlinico Umberto I di Roma e responsabile sindacale della Cgil, che continua: “In queste Rsa le persone con disagio mentale vengono ricoverate per lunghi periodi sotto la sorveglianza di un medico e tre infermieri ogni quaranta pazienti”, racconta lo psichiatra che al Policlinico si trova spesso a curare le crisi acute dei pazienti: “Una volta dimessi non c’è modo di proseguire un percorso di cura, perché sui territori mancano i servizi”. Per chi se lo può permettere c’è il privato convenzionato: vuol dire che generalmente la Regione copre metà della retta in Rsa, che complessivamente si aggira attorno ai 2.500 euro. Per chi non se lo può permettere, c’è solo il sacrificio della famiglia, sperando che la situazione non precipiti. Un italiano su 60 ha un’arma. Ma il Viminale non mostra i dati di Stefano Iannaccone Il Domani, 15 maggio 2022 Nulla a che vedere con gli Usa dove si contano 120 armi ogni cento persone. Ma i numeri del nostro paese sono parziali, e mancano le misure per negare le licenze ai soggetti con problemi mentali. L’Italia ha il suo piccolo arsenale di armi domestico, pistole e fucili legittimamente detenuti in milioni di case. La corsa alle licenze durante gli anni della propaganda sulla legittima difesa si è arrestata e sicuramente i numeri italiani non sono paragonabili a quelli di altri paesi, come gli Stati Uniti. I dati della Polizia di stato, che sono gli unici in circolazione, parlano comunque di 1.222.537 persone (circa una su 60) che possiedono una regolare licenza, da quella della caccia alla difesa personale, passando per il tiro sportivo. Il Viminale, invece, non pubblica i numeri ufficiali. Queste armi non sono teoriche: sparano e possono causare vittime. Lo sanno bene negli Stati Uniti. Nei soli primi quattro mesi del 2022, secondo il database di Gun Violence Archive ci sono stati 4.567 i morti per arma da fuoco e 8.328 i feriti. In circolazione ci sono 393 milioni di armi in possesso di civili, con una media di 120 armi ogni cento cittadini. Più pistole e fucili che persone. Una corsa che non si è fermata. Nel 2020 i registri dell’Fbi riportano che sono state legalmente acquistate 40 milioni di armi. Numeri imparagonabili con quelli italiani. Mentre, in Europa, il Flemish Peace Institute stima che 25 milioni di cittadini abbiano in possesso almeno un’arma, per un totale di 80 milioni di armi. Il rapporto è quindi di quasi 16 armi ogni cento persone. La Serbia ha un rapporto di 39 armi su cento e sorprende - ma non troppo - che ai vertici ci sia la Finlandia (32,4 ogni cento), Paese con grande tradizione di caccia. Il caso italiano - In Italia i numeri sono molto più bassi, ma tenendo conto delle restrizioni legislative rimangono rilevanti. Nel 2021, secondo i dati dell’Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere) di Brescia, ci sono stati almeno 46 morti, tra omicidi, suicidi e incidenti, causate da armi da fuoco legalmente detenute. Quasi uno a settimana. Tra queste ci sono state fatti di cronaca che hanno attirato l’attenzione mediatica, come la strage di Ardea del giugno scorso, quando il 34enne Andrea Pignani ha compiuto un triplice omicidio, uccidendo i piccoli David e Daniel Fusinato, di cinque e dieci anni. Nell’elenco c’è anche l’episodio di luglio, quando a Voghera l’assessore leghista, Massimo Adriatici, uccise un uomo di 39 anni. “Negli ultimi tre anni a fronte di una media di dieci omicidi all’anno relativi a furti e rapine e di 20 omicidi di tipo mafioso (dati Istat, ndr), il database di Opal riporta almeno 40 omicidi avvenuti con armi regolarmente detenute”, dice Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio. “Si tratta in gran parte di omicidi in ambito familiare e relazionale. Numerosi sono anche i femminicidi”, aggiunge. Le lacune del ministero - I numeri italiani assumono ulteriore senso di fronte al fatto che il ministero dell’Interno non ha mai diffuso il numero esatto di armi che circolano, in maniera legale, in tutto il paese. Il database della Polizia, infatti, raccoglie solo le notizie reperibili sui giornali. La mappatura sul numero reale di armi in circolazione resta quindi impossibile, considerando che con una licenza si possono avere fino a quindici armamenti (prima erano nove), tre comuni e dodici per tiro sportivo, grazie al decreto varato durante i primi mesi del governo gialloverde di Giuseppe Conte. “Continuano a mancare i dati relativi alle licenze per detenzione di armi attraverso il “nulla osta” (altra modalità per detenere un’arma, ndr) e proprio la mancanza di questi dati non permette di sapere quanti italiani hanno effettivamente una licenza per armi”, spiega ancora Giorgio Beretta, analista dell’Opal. La condizione psichica - Dietro alle statistiche si celano anche drammi personali. “Dodici anni fa, purtroppo, sono stati protagonisti mio marito Luca Ceragioli e il suo collega Jan Hilmer”, racconta Gabriella Neri, fondatrice dell’associazione Ognivolta, impegnata contro la diffusione delle armi. “Un’arma legalmente detenuta da chi, per uno stato di alterazione psichica, la usa contro altri e contro sé stesso, generando tragedie che devastano intere famiglie e collettività. Quello della patologia psichiatrica e possesso di un’arma è un binomio che deve essere assolutamente spezzato”. Non esiste, infatti, un sistema per incrociare le informazioni sullo stato di salute mentale e il possesso di armi. “Da quasi 12 anni stiamo aspettando l’attuazione di una norma che prevede lo scambio informatizzato fra Servizio sanitario nazionale e gli uffici delle forze dell’ordine, con lo scopo di prevenire rilasci di licenze per porto d’armi a soggetti psichicamente non idonei”. I numeri italiani - Rispetto al 2021 c’è stata una flessione di circa 44mila licenze di porto d’armi non rinnovate, probabilmente a causa del colpo di coda della pandemia. Del milione e 222mila licenze, la maggior parte è relativa a quella per la caccia, 631.304. Questo tipo di licenza è in calo costante da molti anni: nel 2018 ce n’erano 686.953, nel 2019 circa 671mila. Diverso l’andamento per le licenze di tiro sportivo, calate al livello più basso nell’ultimo quadriennio: sono 543.805, facendo segnare -39mila in confronto allo scorso anno. Ma sostanzialmente si rimane sui livelli del 2019. Più residuale, poi, il dato sulle licenze per difesa personale, possedute da dodicimila italiani. Al centro di questa forte disparità c’è la modalità di ottenimento della licenza: per caccia e tiro sportivo, se ne occupa la questura di competenza con un iter più semplice, mentre per la difesa personale occorre produrre una documentazione più ampia, valutata dal prefetto. “Ci vorrebbero non solo maggiori controlli sui legali detentori di armi, ma un’ampia revisione in senso più restrittivo delle norme sul possesso di armi”, dice Beretta. La lingua biforcuta della guerra di Marco Revelli Il Manifesto, 15 maggio 2022 Conflitto ucraino. Siamo all’ambiguità delle proposte. A chi è rivolto il “cessate il fuoco” di Austin: a Putin o anche a Zelensky? Intanto il conflitto cambia natura, ma anche l’Italia invia armi pesanti. Finalmente alcune verità da qualcuno di noi ripetute fin dall’inizio di questa maledetta guerra ma a lungo segregate dietro il muro di propaganda bellica, iniziano faticosamente a filtrare persino nei Palazzi della politica. E cioè che la pace (non più parola proibita) è desiderabile hic et nunc e da perseguire come obiettivo prioritario sul terreno della diplomazia. Che la guerra, tanto più se si trasforma in “guerra d’attrito” come sta avvenendo, fa male a entrambe i contendenti e andrebbe fermata quanto prima. Che fa male anche, e in misura crescente, all’Europa, la quale non ha gli stessi interessi degli Stati Uniti, che quella guerra vorrebbero prolungarla, ma al contrario ne paga pesantemente il prezzo, in termini economici, politici e geopolitici, come ha fatto capire esplicitamente Macron e più timidamente (molto più timidamente) Draghi. E poi quello che sanno tutti fin dall’inizio ma non si poteva neppure accennare, e cioè che la tragedia ucraina potrebbe - anzi dovrebbe - essere fermata attraverso un colloquio diretto tra Biden e Putin (la fatidica telefonata evocata o invocata da Draghi) perché si tratta in realtà, dietro la velleità neocoloniale della Russia, di un confronto “di potenza”, o “tra potenze” che va oltre l’Ucraina. E che è tanto più pericoloso in quanto si tratta di potenze deboli, in declino (una già declinata, la Russia, l’altra declinante, gli Usa), atterrite dal rischio dell’impotenza e per questo incapaci di cedere qualcosa (quel di più di concessione all’altro per permettergli una via d’uscita nel compromesso). Sono verità sfigurate dall’ambiguità. Segnate dall’ambivalenza, come accade in tempi di decadenza. A cominciare da quelle tre parole, pronunciate dal segretario alla Difesa americano Lloyd Austin al termine del colloquio di un’ora col suo parigrado russo Sergey Shoigu, e oggi unico piolo a cui appendere le residue speranze di tregua nel massacro: “Cessate il fuoco”. Che in italiano suona insieme come sostantivo (uno stato di fatto auspicato) e come voce verbale, un imperativo presente, indirizzato a chi? All’interlocutore diretto russo, Shoigu e dietro a lui Putin, che suonerebbe come minaccia da Signore a subalterno? All’alleato ucraino Zelensky, come intimazione a rispettare un limite che la comunità internazionale non è disposta a lasciar spostare all’infinito, fino al bordo dell’abisso? A entrambi, sapendo tuttavia che nessuno dei due è nella condizione di cedere neppure un millimetro all’altro, pena la proclamazione di una sconfitta senza rimedio: non Putin, che dopo il prezzo imposto al proprio paese con la guerra, ovvero lanciando il sasso e provocando il bagno di sangue che abbiamo sotto gli occhi, non può ritirare la mano (magari restituendo anche la Crimea). Ma nemmeno Zelensky, che dopo le montagne di retorica nazionalista con cui è stato alimentato dall’intero Occidente a reti unificate, rischierebbe di essere travolto da quella stessa ondata se solo si arrischiasse a negoziare una “vittoria mutuata”, probabilmente da parte di quelle stesse milizie armate fino ai denti delle nostre armi. Così quella voce che viene dal cuore dell’amministrazione americana resta doppia, lingua biforcuta, contraddetta d’altra parte dai fatti, che parlano di altri 40 miliardi di dollari in aiuti e soprattutto in armi a chi dovrebbe cessare il fuoco, affermando una compattezza tra le due sponde dell’Atlantico che non c’è. Così come lingua biforcuta appare quella del Presidente del Consiglio italiano, che da una parte afferma che “le persone pensano che cosa possiamo fare per portare la pace” (e a ognuno viene in mente, finalmente, la diplomazia) ma poi, dall’altra, emana un ennesimo decreto per spedire sul campo di battaglia nuove “armi pesanti” (sic!). E ci chiede di credergli sulla parola quando dice che nel colloquio col leader massimo del nostro Occidente ha perorato la causa urgente della trattativa ed è stato ascoltato, ma lo dice da solo, nella conferenza stampa all’ambasciata italiana (nemmeno un briefing congiunto gli è stato concesso) mentre nel comunicato finale di tutto ciò non vi è traccia, e si parla solo di come il “nostro” abbia contribuito a unire Europa e Stati Uniti all’ombra della Nato in un tripudio di amorosi sensi. Abbiamo così la misura di quanto utile alla causa della nostra democrazia, anzi necessario, sarebbe stato un passaggio parlamentare che affidasse al nostro capo del governo un messaggio chiaro, non equivoco, autorevole per la fonte di provenienza, da consegnare all’alleato reticente. Tutto questo avviene nel pieno di un travolgente processo di decostruzione di tutti i dispositivi di intermediazione e di garanzia contro i rischi di una perdita di controllo dei conflitti pazientemente costruiti nei decenni della guerra fredda, per impedire che essa diventasse “calda”. Canali sottili, telefoni rossi, “zone cuscinetto”, accordi macro-regionali di dosaggio degli armamenti, fasce di neutralità, a cominciare da quei paesi simbolo come la Svezia e la Finlandia. Attenta elaborazione diplomatico-istituzionale di un’architettura complessa a supporto della sopravvivenza del pianeta, per neutralizzare la terrificante potenza distruttiva delle armi (atomiche) e le ricorrenti folate di pazzia degli uomini. Tutto questo in pochi anni, poi in pochi mesi, infine in poche settimane è stato lacerato, con una furia impressionante e un cupio dissolvi incomprensibile, fino a oggi, a quest’ultimo passaggio con la corsa degli ultimi due paesi neutrali sotto l’ombrello dell’Alleanza atlantica. Autogol di Putin, certo, che ha lavorato alla propria peggior condizione. Ma pessima notizia per chiunque trepidi per la sorte del pianeta, con la possibile ri-nuclearizzazione di quel residuo braccio di mar Baltico rimasto fino ad oggi “neutrale”. Svedesi e finlandesi si sentiranno più sicuri. Ma il mondo lo sarà sempre di meno. Nella Guantánamo polacca dove muore l’accoglienza di Lorenzo Di Stasi Il Domani, 15 maggio 2022 C’è un anno di nascita assegnato in serie: è il 2003, così da far risultare maggiorenne anche chi non lo è. Ci sono spazi così soffocanti da non rispettare nessuno standard di civiltà, nessuna privacy, manca l’acqua e anche i dottori. Questa è la vita dentro W?drzyn. Il centro di detenzione per migranti è una vera e propria prigione e qui chi cerca protezione in Ue finisce spogliato della sua storia e dei suoi diritti. Questa è la sorte che la Polonia ha riservato a migranti e rifugiati arrestati al confine con la Bielorussia. Mentre Varsavia apre le porte agli ucraini in fuga, continua a tenere in trappola gli altri migranti. I minorenni che fuggivano dall’Afghanistan dopo la presa dei talebani si ritrovano insultati dalle guardie. Agli eurodeputati, e non solo, è rifiutato l’accesso. Le scelte sono del governo polacco ma fondi e complicità sono europei. Con l’invasione russa, molti ucraini sono scappati dal loro paese e sono stati immediatamente accolti da tutti gli stati membri dell’Unione europea. Profughi di nazionalità diversa, invece, non hanno ricevuto lo stesso trattamento. Migliaia di migranti e richiedenti asilo provenienti dal medio oriente sono arrivati al confine bielorusso già a partire dal luglio 2021, quando Alexander Lukashenko ha minacciato di “inondare” l’Ue con flussi migratori di massa e di usare i rifugiati come arma verso Bruxelles, che aveva imposto sanzioni verso la Bielorussia. Con l’intenzione di raggiungere la Polonia e ottenere protezione internazionale in Europa, molti di questi migranti sono stati bloccati nelle zone di confine per settimane, sia a causa delle “politiche di respingimento” messe in atto dalla polizia di frontiera polacca, sia per la coercizione delle autorità bielorusse nel volerli spingere nuovamente all’interno dell’avamposto dell’Europa orientale. Tra le autorità di Lukashenko, le agenzie turistiche che promuovevano nei paesi del medio oriente tour con visti turistici in Bielorussia, e i trafficanti di esseri umani che diffondevano disinformazione su quanto fosse facile entrare in Europa, i migranti sono caduti nella trappola. Le autorità polacche hanno preferito trasformare il confine con la Bielorussia in un’altra “giungla di migranti”. In prigione - “Sono arrivato in Polonia dall’Azerbaigian il 9 settembre 2021 attraverso il confine bielorusso. Quattro di noi hanno cercato di entrare in Polonia, ma le guardie di frontiera hanno preso tutti i miei amici e li hanno respinti. Hanno deciso, invece, di arrestarmi, portandomi nel campo di W?drzyn”. Abdulrahman Saeed Qaid Mahyoub è un rifugiato yemenita di 29 anni che attualmente vive all’interno del più grande campo di detenzione militare polacco fuori dalla città di W?drzyn, a circa 50 chilometri dal confine tedesco. Eretto nel settembre 2021 e gestito dall’agenzia polacca di sicurezza di frontiera Stra? Graniczna, è completamente tagliato fuori dal mondo esterno. È chiuso verso l’interno agli stranieri, ai giornalisti, agli avvocati e alle organizzazioni umanitarie, che non possono entrare senza un’autorizzazione del ministero della Difesa polacco, e verso l’esterno ai migranti reclusi, che non possono uscire. Lo stesso sito ufficiale creato dalla Guardia di frontiera polacca per raccogliere informazioni e fare domanda di visita a uno dei migranti all’interno del campo è confusionario e poco aggiornato. La struttura, soprannominata “la Guantanamo polacca”, ospita attualmente 321 migranti, di cui 200 con cittadinanza irachena. Sono solo alcuni dei 1.150 migranti detenuti nei campi finanziati dall’Ue in tutto il paese, di cui 540 sono ora ospiti di sei strutture di detenzione preesistenti e destinate alle famiglie, e 610 nei tre centri costruiti a seguito dell’emergenza migratoria sviluppatasi al confine polacco-bielorusso, come quello di Krosno, Odrza?skie e, appunto, W?drzyn. Come criminali - La giornalista tedesca Nancy Waldmann è riuscita ad avvicinarsi alla struttura di W?drzyn a piedi, camminando attraverso i boschi. “I migranti non hanno accesso al mondo esterno”, ci racconta descrivendo le abitazioni interne al campo serrate dietro un’alta recinzione di filo spinato. “Le condizioni sono pessime: le persone sono ammassate in piccole stanze, non hanno assistenza medica o legale, e la mancanza di una lingua comune tra migranti e guardie rende il tutto ancora più difficile da gestire”. Il 25 novembre 2021, i migranti all’interno di W?drzyn hanno innescato una rivolta, chiedendo libertà o condizioni migliori. Quella che era iniziata come una protesta pacifica, ricorda Omar, si è trasformata poi in un assalto incontrollato dei migranti alle strutture. Secondo il dipartimento di polizia regionale di Lubuska, questi ultimi “hanno cercato di sfondare la recinzione, dato fuoco a vari oggetti, lanciato sedie e distrutto telecamere a circuito chiuso”. W?drzyn ospita migranti provenienti principalmente dall’Iraq, dalla Siria e dall’Afghanistan, che vengono trattenuti in attesa di essere rimpatriati o eventualmente rilasciati per poter raggiungere la loro prossima destinazione. Ma, nel frattempo, cosa succede loro? “Non abbiamo mai ricevuto violenza diretta dalle guardie carcerarie, ma ci trattano come criminali”, dice Abdulrahman, che ha deciso di lasciare lo Yemen in cerca di una vita migliore, lasciando moglie e figlia in Arabia Saudita. “Abbiamo continuamente problemi con l’acqua corrente: non ce n’è abbastanza per fare la doccia o semplicemente per averne un po’ potabile”. Per i bisogni medici di base, c’è una sola infermiera di emergenza, “non basta per tutti”. Nonostante “continuassero a promettere di farci visitare da un medico settimanalmente”, per curare specifiche allergie o infezioni dovute alle “disastrose condizioni di vita che siamo quotidianamente costretti ad affrontare”, le guardie “non ci hanno mai dato una possibilità effettiva di scrivere anche solo una richiesta formale di supporto medico”. Impossibilitato a incontrarci di persona, vista l’impraticabilità per i giornalisti stranieri di entrare nel campo, Abdulrahman racconta al telefono l’acutizzarsi di problemi di vista nelle ultime settimane. Non potendo accedere alle cure, nei suoi quattro mesi di permanenza le condizioni dei suoi occhi “continuano a peggiorare”. I tentativi di suicidio - Dello Yemen è anche Omar Sheikh Zaid, studente fuggito dalla guerra nel suo paese; proprio come il suo connazionale Abdulrahman, è entrato in Polonia dalla Bielorussia. “Vivere qui sta influenzando la vita futura e l’attuale salute mentale di ognuno di noi”. Non c’è struttura sportiva, opportunità di istruzione o attività all’interno della struttura militare di detenzione. “Le guardie raramente distribuiscono vestiti o articoli per l’igiene personale”, racconta; bisogna sperare che siano spediti dall’esterno, e poi tempi infiniti per riceverli. “Non esiste privacy, solo tende per separare chi fa la doccia; c’è una sola lavatrice per oltre 120 persone nel mio blocco, e le stanze” con quattro letti a castello “sono di 12 metri quadrati”, troppo affollate: poco è l’ossigeno per respirare. “Non ci viene data nessuna informazione sui nostri casi specifici di richiesta di asilo”. La negligenza delle guardie nel costringere a vivere in uno “spazio condiviso anche con criminali ceceni” ha spinto “alcuni di noi a tentare la strada del suicidio”. I detenuti hanno limitate possibilità di comunicare con il mondo esterno: “Ognuno di noi può usare internet solo un’ora ogni due giorni”; in tutto il campo, le guardie “hanno messo a disposizione solo quattro vecchi computer”. Abdulrahman e Omar vorrebbero essere considerati rifugiati politici ma vengono trattati come criminali, chiedono trattamenti umani ma sono trasformati in animali, cercano “giustizia e libertà” in un’Europa di fratellanza ma ritrovano solo “prigione e discriminazione”. Cambiare vita per cambiare le cose - Non c’è solo chi è nel centro di W?drzyn ma anche chi è rilasciato dalle guardie di confine in mezzo al nulla, spesso a una piccola stazione di un villaggio vicino, dove il treno viaggia solo in due direzioni: Berlino o Varsavia. Joanna Liddane è un’attivista sociale che dà sostegno quotidiano ai migranti: cibo, alloggio di emergenza, contatti utili per l’assistenza medica o legale. La sua vita normale lavorativa di restauratrice è cambiata a partire da novembre 2021, quando ha iniziato a fare la volontaria con Partia Zieloni, il partito dei Verdi polacco nella regione di Lubusz. “Sono stata nel centro di W?drzyn quattro volte, nessuno sa niente del futuro di queste persone, nemmeno i loro avvocati, quando ne hanno uno”. L’aiuto di Joanna è necessario in ogni momento, ma il suo è un impegno che stanca: “Devo lavorare fino all’una o alle cinque del pomeriggio, ho bisogno di guadagnare i soldi per la mia vita quotidiana, ma devo anche pensare ai detenuti, gli ultimi della società”. Per lei, guidare ogni giorno almeno un’ora delle strade di campagna fino al villaggio è diventata la “nuova normalità”. La volontaria ha notato un forte cambiamento di approccio da parte della sua comunità: “molti amici continuano a passare dall’attivismo ambientale e animalista a quello umanitario”, raccogliendo sim-card per aiutare i rifugiati a rimanere in contatto con le loro famiglie. “Pensate che lasciare le persone in mezzo al nulla sia umano?”, chiede Joanna rivolgendosi al suo governo che la lascia sola e “favorisce la violazione dei diritti umani”. Chi è nel campo di W?drzyn è abbandonato a sé stesso, non può interagire con il mondo esterno: i telefoni personali sono confiscati, nessun traduttore è a disposizione se c’è bisogno di parlare con le autorità. Pochissime persone possono accedere al centro: serve un’autorizzazione formale della guardia di frontiera polacca e del ministero della Difesa polacco, dato che l’intera area è una zona militare. Due giorni è il periodo di attesa, ma può arrivare fino a 7 per visitatori provenienti dagli altri stati membri europei. I giornalisti non hanno questo diritto: potrebbero visitare il campo solo come privati cittadini. Tra i pochi che visitano frequentemente i migranti c’è Maria, psicologa polacca, specializzata nel trattamento del Disturbo post traumatico da stress (Ptsd). Vive a Berlino e attraversa il confine tedesco-polacco ogni tre giorni per offrire il suo sostegno alle persone bloccate nel campo. La zona buia - Durante la nostra visita a Berlino, ci racconta che il supporto psicologico è completamente trascurato: “Molte di queste persone sono detenute illegalmente dopo aver già subito torture o violenze durante il loro viaggio verso l’Europa. Molti sono gravemente malati e non dovrebbero nemmeno essere lì”. Chi gestisce la struttura “probabilmente non è neppure consapevole di quanto sia dura perché è anche sopraffatto dal lavoro”. La mancanza di coscienza pervade ogni aspetto della vita all’interno del campo. Maria fa l’esempio della procedura per identificare l’età degli uomini all’arrivo: “A chi non ha il passaporto viene attribuita come data di nascita il primo gennaio 2003. Ho notato che c’erano troppe persone con questa data di nascita sul documento. Non poteva essere possibile: non tutti erano maggiorenni”. Tomasz Anisko, deputato polacco, ha cercato fin dall’inizio di garantire il rispetto dei diritti dei migranti ed è entrato nel campo. “Le condizioni sono peggiori di qualsiasi altra prigione in Polonia. Le persone sono tenute lì per svariati mesi senza conoscere la propria situazione legale, lo stato della loro domanda d’asilo, cosa sta succedendo, né per quanto tempo saranno trattenute”. Non ricevono alcuna informazione. Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Polonia ha ricevuto milioni di rifugiati dalla confinante Ucraina. Ciò non ha cambiato l’orientamento del governo polacco verso gli altri migranti extraeuropei in cerca di protezione. “L’ideologia del governo verso i rifugiati in generale, e quelli provenienti da paesi musulmani in particolare, si vede anche da qui”, dice il deputato Anisko. “Le testimonianze di ciò che sta accadendo devono essere conservate: arriverà il momento in cui il governo Morawiecki sarà ritenuto responsabile delle sue azioni”. Non esistere per l’Europa - “Solo il 5 novembre, dopo due mesi dal mio ingresso a W?drzyn, ho potuto iniziare il processo di richiesta di protezione internazionale”, racconta Abdulrahman, yemenita. “Ci sono riuscito quando ho ricevuto il supporto di un avvocato, e non è stato certo il campo a fornirmelo. Ho insistito per raggiungere Nomada”. Si tratta di una ong polacca basata a Breslavia che fornisce consulenza gratuita sulla documentazione necessaria per avere il permesso di soggiorno in Polonia nella intricata burocrazia polacca. Abdulrahman ha iniziato il suo “conto alla rovescia di 6 mesi verso la libertà” quando le autorità polacche hanno finalmente preso le sue impronte digitali. Quanto ai due mesi passati a W?drzyn prima di questo momento, lui e gli altri migranti ignari della loro situazione giuridica non sono mai legalmente esistiti né per la Polonia né per l’Europa. Secondo la legge polacca, infatti, una persona che ha fatto domanda di asilo può essere detenuta per un periodo massimo di sei mesi in attesa dei risultati della sua domanda. Marta Górczy?ska, avvocato per i diritti umani del Migration Research Hub, dice che “quando viene avviata la procedura di rimpatrio - cioè quando la decisione di asilo è negativa e a una persona viene rifiutata la protezione internazionale - il periodo può essere esteso fino a 24 mesi in totale”. La ombudsman (mediatrice civica) polacca Hanna Machi?ska nel suo rapporto del 24 gennaio 2022 scrive: “Il centro sorvegliato per gli stranieri a W?drzyn non soddisfa le garanzie di base per contrastare il trattamento inumano e degradante delle persone private della libertà”. Il problema più grande e persistente nel campo è la sovrappopolazione. “Lo standard di 2 metri quadrati per persona è inaccettabile”. Nei penitenziari europei lo standard è di 4 metri quadrati. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha da ridire sullo standard polacco, che non offre uno spazio vitale soddisfacente. “Le condizioni attuali sono inaccettabili alla luce degli standard minimi per la protezione dei diritti degli stranieri”. Gli eurodeputati - Le critiche arrivano anche dall’interno dell’Unione europea. Erik Marquardt e Sergey Lagodinsky, europarlamentari tedeschi dei Verdi che erano stati invitati insieme alla co-presidente del gruppo Ska Keller da Anisko a entrare nella struttura di W?drzyn, hanno visto la loro richiesta di visita del centro rigettata da parte del governo polacco. “Finora non siamo riusciti a ottenere il permesso di entrare nel campo”, riferisce Lagodinsky, preoccupato per la “mancanza di standard legali e umanitari” nella struttura militare polacca. “Non è accettabile che i rifugiati siano detenuti nei campi polacchi e che né i parlamentari europei, né i deputati polacchi, né i giornalisti abbiano il permesso di entrare e farsi un’idea della situazione”, dice a sua volta Erik Marquardt: rimarca la necessità per la Polonia di “garantire la trasparenza e il rispetto dei diritti umani a tutti coloro che cercano protezione” indipendentemente dal paese di provenienza. Gli europarlamentari chiedono alle autorità polacche di “concedere presto accesso al campo, la situazione non è degna di uno stato Ue dove dovrebbe vigere lo stato di diritto”. Il Libano va alle urne, ma al cambiamento non crede nessuno di Davide Lerner Il Domani, 15 maggio 2022 Il Libano domenica vota per un nuovo parlamento, che a sua volta sarà chiamato ad eleggere un nuovo presidente dopo la scadenza del mandato di Aoun a fine ottobre. Nelle strade di Beirut però c’è sfiducia verso il rinnovo istituzionale. Le parti politiche si sono confrontate sul destino del braccio armato del potente partito sciita Hezbollah, ma tutti sanno che Nasrallah non ha nessuna intenzione di smantellarlo a favore dell’esercito nazionale. Lo scorso mese i dati sull’impoverimento della popolazione hanno avuto un tragico riscontro quando una nave con oltre 60 migranti diretti in Italia è affondata al largo di Tripoli. E si teme un nuovo tracollo economico dopo le elezioni. Sfrecciando nella notte lungo viale Ruhollah Khomeini, che dall’aeroporto porta nel cuore della capitale Beirut attraversando la roccaforte sciita di Dahieh, senza elettricità i lampioni lasciano la strada al buio. I murales del gran generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso dagli Usa, rimangono nascosti nell’ombra. Ogni venti metri c’è una gigantografia del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, una presenza molto più martellante che in tempi normali: domenica in Libano è tempo di elezioni. Oltrepassando i bivi per i campi profughi di Bourj el-Barajneh e di Chatila, luogo di uno dei peggiori massacri della guerra civile esattamente 40 anni fa, torna in mente la minoranza che, un po’ per scelta e un po’ per discriminazione, dopo tre quarti di secolo in questo paese ancora una volta non parteciperà al voto: centinaia di migliaia di palestinesi. Poi lambendo il quartiere armeno di Bourj Hammoud si entra ad Achrafieh, il bastione cristiano della capitale: sui muri le scritte in stampatello: “Iran out”, fuori l’Iran, l’appello di chi vorrebbe allinearsi al campo occidentale. A “Rue D’Armenie” un benzinaio rimasto accartocciato dopo l’esplosione del porto, che fece oltre 200 morti e danni incalcolabili con lo scoppio di 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio il 4 agosto 2020, quasi due anni più tardi rimane in rovina. Tanti dei libanesi che si preparano a intingere il dito nell’inchiostro dopo il voto - una delle misure anti frode in campo, sono dispiegati anche decine di osservatori dell’Unione europea e proibite le motociclette considerate mezzo preferito degli intimidatori - vivono le elezioni senza grandi aspettative. Sull’onda delle proteste dell’ottobre 2019, quando la piazza si ribellò contro l’eterna oligarchia dei leader dei gruppi confessionali, e nel pieno della crisi economica più profonda nella storia del paese, qualcuno sperava nell’emergere di una realtà politica che rappresentasse il movimento anti sistema. “Non cambierà molto dopo il voto, noi libanesi siamo troppo pigri”, dice però Georges Haddad, attivista del partito alternativo Cittadini e cittadine in uno stato, durante un evento nell’albergo Serenade del quartiere di Hamra a Beirut. Haddad produce lampade al neon alla moda con la scritta “thaura” (rivolta) ma il suo atelier è stato distrutto dall’esplosione del porto, un evento a cui ora dedica un pezzo speciale. “Almeno noi proponiamo qualcosa per il lungo termine, come il superamento del sistema confessionale”, dice. In Libano ogni distretto ha un numero di seggi pre assegnati su base comunitaria: può capitare che un musulmano sunnita con poche centinaia di voti passi davanti a un cristiano maronita che ne ha migliaia, semplicemente perché in quella circoscrizione il terzo o quarto seggio disponibile deve essere per forza sunnita. Ma per prima cosa c’è uno spareggio fra diverse liste e il fatto che quelle “del cambiamento” si siano presentate in modo frammentario, diminuisce le chances di avere nuovi volti fra i deputati. Rimane il vecchio scontro fra i pro Hezbollah - la cosiddetta coalizione dell’8 marzo - e il campo del 14 marzo, orfano del leader sunnita Saad Hariri. Malgrado le rigidità sistemiche riducano le chances di grandi cambiamenti, alla vigilia delle elezioni è infuriato il dibattito su Hezbollah, il partito sciita dotato di un potente braccio militare. Gli antagonisti si sono espressi a favore dello smantellamento del suo esercito parallelo, che vivono come un affronto alla sovranità nazionale. Ma si tratta di una diatriba perlopiù retorica: nessuno crede davvero Nasrallah possa compiere passi in questa direzione, tanto più che conta su un arsenale molto più rifornito di quello dello stesso esercito nazionale. “Le armi rappresentano qualcosa di molto più importante, è un confronto sul colore di questo paese e sulla sua collocazione nella regione”, dice Heiko Wimmen, analista tedesco di stanza a Beirut per il think tank International Crisis Group (Icg). “Vogliamo davvero fare parte del campo iraniano insieme alla Siria, in conflitto perenne con Stati Uniti, Golfo, Israele, pagando il prezzo che questo comporta?”, chiede seduto nel popolare bar Kale a Ras Beirut. Per Wimmen il dibattito è anche funzionale a creare un’atmosfera di pericolo, mobilitando i gruppi confessionali e sviando l’attenzione dallo sfacelo economico causato dai leader. Un possibile nuovo tracollo - La notizia dello scorso mese di una disponibilità di massima del Fondo monetario internazionale a sborsare tre miliardi di dollari per provare a traghettare il Libano oltre la sua grave crisi economica non basta a provocare ottimismo. Nella capitale si teme anzi una nuova svalutazione della lira libanese dopo il voto (fra il 2019 e inizio 2022 la moneta ha perso oltre il 90 per cento del proprio valore rispetto al dollaro). Il governo in carica ha mantenuto la lira più o meno stabile da metà gennaio, pompando dollari nel sistema attraverso la Banca centrale, ma è una politica molto cara destinata a finire dopo le elezioni. Nel frattempo i numeri delle organizzazioni internazionali che parlano di tre quarti dei libanesi ormai sotto la soglia di povertà trovano riscontri nel mondo reale. Lo scorso mese un barcone di emigranti, fra cui molti libanesi, è affondato poco dopo aver lasciato la città costiera di Tripoli, una delle più svantaggiate del Mediterraneo. Su un’imbarcazione abilitata a trasportare 12 persone, i trafficanti avevano fatto salire a bordo alla volta dell’Italia fra 60 e 70 disperati. Fra gli annegati c’erano anche tante vittime della crisi. Sfida per la presidenza - Guidando verso Batroun, la graziosa cittadina di villeggiatura marittima a nord di Beirut, sulla corsia opposta si vedono centinaia di macchine con le bandiere delle “Forze libanesi”, il partito cristiano guidato dall’ex signore della guerra Samir Geagea, riversarsi strombazzando verso Beirut. All’ingresso di Batroun, che ha continuato a svilupparsi durante la crisi con nuovi alberghi e locali spuntati attorno alle antiche chiesette maronite, campeggiano invece le gigantografie di Gebran Bassil. È il loro avversario nel campo cristiano: il suo Movimento patriottico libero è alleato di maggioranza degli sciiti di Hezbollah. Bassil è uno dei protagonisti della corsa alla presidenza. Il parlamento che viene eletto domenica, infatti, sarà chiamato a scegliere il nuovo capo dello stato a fine ottobre quando Michel Aoun, suo suocero, terminerà il proprio mandato. Bassil tiene a presentare Batroun, da cui proviene, come il proprio biglietto da visita, ma i libanesi lo considerano piuttosto un campione di corruzione. Le sue chances di ottenere il sostegno di due terzi dei deputati, necessario per l’elezione, sono dunque scarsi. Il rischio è che la formazione del nuovo governo e la scelta del presidente rimangano incagliate in uno stallo di trattative prolungate, ostacolando le riforme richieste dal Fondo monetario per soccorrere il paese. Fra queste c’è la spinosa questione del settore pubblico: si tratterebbe di sfoltire il numero di dipendenti dello stato, circa 350mila libanesi secondo le stime. Ma la verità è che nessuno conosce la cifra reale, come nessuno sa quante riserve straniere rimangano ancora nelle disponibilità della Banca centrale per tamponare la svalutazione. Torna in mente un detto che girava a Beirut all’epoca della sanguinosa guerra civile: “A Beirut non c’è la verità, ci sono solo delle versioni”. Anche sul fronte dell’inchiesta sull’esplosione del porto, le famiglie delle vittime si trovano sommerse di narrazioni contrastanti. Con poco da aspettarsi dalla commissione di inchiesta, e nulla da augurarsi con le elezioni.