Sono 24 i suicidi da inizio anno, l’ultimo a Foggia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2022 Secondo la redazione di Ristretti Orizzonti, siamo a 23 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Ma arriviamo a 24 con l’ultimo suicidio avvenuto al carcere di Foggia. Si tratta del secondo, nell’istituto stesso, nel giro di due settimane. Il detenuto avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. Secondo il documento sulla prevenzione del suicidio in carcere realizzato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è spesso una delle cause più comuni di morte in carcere. Per capire meglio la dimensione del problema, ancora una volta bisogna ricorrere al XVIII rapporto di Antigone che parte dai dati dell’anno scorso. Seppur in leggero calo rispetto all’anno precedente, nel 2021 il numero di suicidi in carcere rimane molto alto. Secondo i dati pubblicati dal Dap, sono state 57 le persone detenute ad essersi tolte la vita. Se questo numero viene messo in relazione con le persone mediamente presenti negli istituti di pena nel corso dell’anno otteniamo il tasso di suicidi, ossia il principale indicatore per analizzare l’ampiezza del fenomeno. Nel 2021, a fronte di una presenza media di 53.758 detenuti, tale tasso si attesta a 10,6 casi di suicidi ogni 10.000 persone detenute. Guardando all’andamento del dato nell’ultimo decennio, Antigone osserva come nei due anni passati il tasso di suicidi in carcere sia particolarmente alto. Purtroppo tale crescita sembra confermarsi anche nel 2022, essendo, come riportato, già numerosi i casi di suicidi avvenuti nei primi mesi dell’anno. Secondo i dati del Dap, nel 2021 sono decedute 148 persone detenute. Come visto, 57 sono le persone che si sono tolte la vita mentre le restanti 91 sono generalmente indicate come morti avvenute per cause naturali. I casi di suicidi sono pertanto pari al 38,5% dei decessi totali. L’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) ha reso noto come i detenuti - se considerati come gruppo - abbiano tassi di suicidio più elevati rispetto alla comunità in quanto non solo all’interno degli istituti di pena vi è un numero maggiore di comportamenti suicidari, ma gli individui che subiscono il regime di detenzione presentano frequenti pensieri e comportamenti suicidari durante tutto il corso della loro vita. Antigone osserva che le ragioni per cui in carcere i suicidi sono molto più frequenti, sono probabilmente dovute alla più densa presenza di gruppi vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. Oltre a fattori personali, numerosi possono essere gli elementi esterni che contribuiscono ad acuire situazioni di pregressa sofferenza soprattutto in un ambiente complesso come quello carcerario. Per questo motivo, tra le proposte di riforma del regolamento penitenziario presentate a dicembre 2021, Antigone sostiene la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato. A tal fine, come propone Antigone, il regolamento dovrebbe prevedere in primis una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate e in qualsiasi momento. Grande attenzione va posta al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società. Oltre alle fasi iniziali e conclusive dei periodi di detenzione, particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute e internate si trovano separate dal resto della popolazione detenuta perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone. Ai sucidi, si aggiungono i casi di autolesionismo: costituiscono un importante elemento per raccontare il clima all’interno di un istituto penitenziario, oltre che le caratteristiche della sua popolazione detenuta e delle risorse disponibili. Dalle informazioni raccolte tramite le visite effettuate da Antigone nel corso del 2021, emerge una media di 19,9 casi di autolesionismo registrati in un anno ogni 100 persone detenute. Se la scarcerazione diventa una seconda pena di Gabriele D’Angelo L’Essenziale, 14 maggio 2022 Poco prima di salutarlo, i compagni di cella lo avevano avvisato: “Tu non hai idea. Fuori troverai un muro, la non libertà”. “Non ci volevo credere, ma avevano ragione”. La “seconda pena”, come la chiama lui, Santo la sta scontando a Castelvetrano, in provincia di Trapani, dove è nato e cresciuto. È tornato a casa nell’ottobre del 2019, dopo sette anni in cella tra il carcere di Palermo e quello di massima sicurezza di Badu e Carros in Sardegna. Una volta fuori lo stato lo ha lasciato solo. “Il reinserimento sociale non c’è. Ho chiesto e cercato ogni tipo di lavoro, anche il più umile”, dice all’Essenziale. Ma per un ex detenuto di 60 anni è molto difficile farsi assumere, specie in Sicilia, dove il lavoro è poco per chiunque. Solo qualche settimana fa, con l’aiuto dell’associazione Yairaiha Onlus, Santo ha trovato un impiego a Trapani: “Per fortuna avevo mia madre, mia moglie, due figlie e una casa ad aspettarmi, altrimenti in questi tre anni non avrei avuto di che vivere. Ma chi non è fortunato come me, come fa?”. Fa come Nicola Lovaglio, 46 anni, più della metà trascorsi tra carceri minorili, prigioni e istituti psichiatrici di tutta Italia. Un’infanzia difficile e quasi trent’anni di detenzione hanno segnato il corpo pieno di tatuaggi, ma le cicatrici più profonde sono nella sua testa. Dal carcere è uscito con diverse patologie psichiatriche (disturbo borderline e bipolare, schizofrenia, comportamenti aggressivi), che riesce a tenere a bada solo assumendo ogni giorno dei farmaci. È entrato e uscito di prigione 22 volte, l’ultima dalla casa circondariale di San Gimignano (Siena), a inizio 2021. Oggi vive da solo in un appartamento in affitto e le sue giornate si ripetono identiche da più di un anno, come se fosse ancora dentro. “Mi alzo, vado al centro d’igiene mentale o al servizio per le tossicodipendenze (Sert) a ritirare la terapia, mangio, mi alleno e torno a casa. Non ho un soldo, non conosco nessuno, vivo chiuso in casa. Sono di nuovo un detenuto”, racconta. Oltre alla pensione d’invalidità civile, che gli è stata assegnata per via dei suoi problemi psichici, dallo stato non è arrivato alcun aiuto: “Ma quale reinserimento! Mi hanno abbandonato in mezzo alla strada in un mondo completamente diverso da quello che avevo lasciato. Certo, ho fatto tanti errori nella mia vita, ma ho anche pagato quel che dovevo pagare. Perché non possiamo rimettere la palla al centro e ricominciare da zero?”. I consigli di aiuto sociale - Santo e Nicola sono solo alcuni dei tanti ex detenuti che una volta fuori faticano a reinserirsi nella società. Lo stato dovrebbe prepararli alla libertà, ma molto spesso questo percorso manca. Lo sa bene anche Gianfranco De Gesu, a capo della direzione generale dei detenuti e del trattamento del dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), che il 18 marzo ha inviato ai direttori di tutte le carceri italiane una circolare che aveva come oggetto proprio il “trattamento dei dimittendi”, le persone prossime alla liberazione. Dopo aver ricordato come “la cura delle dimissioni sia un tassello fondamentale per il percorso di inclusione sociale del detenuto”, De Gesu elenca una serie di provvedimenti ed enti pubblici che dovrebbero occuparsene. Tra questi vengono menzionati anche i consigli di aiuto sociale, a cui si raccomanda di comunicare la data d’uscita del detenuto “con almeno tre mesi di anticipo”. “Peccato che questi organi, di fatto, non esistano più”, fa notare all’Essenziale Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino. Introdotti dalla legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, i consigli di aiuto sociale dovevano essere una cerniera tra carcere e mondo esterno. Tra i loro compiti c’era quello di favorire l’aumento delle visite negli ultimi mesi di carcere, aiutare i detenuti a riallacciare i rapporti con le loro famiglie, offrire corsi di avviamento professionale, trovare ai detenuti lavori dignitosi e utili al reinserimento nella società. Ma la legge è rimasta inapplicata, e quasi mezzo secolo dopo l’unico consiglio sociale ancora in funzione in Italia è quello di Palermo, che solo pochi mesi fa ha ripreso le sue attività sotto la guida del magistrato Antonio Balsamo. “Il consiglio non si riuniva da almeno vent’anni. Nemmeno io sapevo che esistesse”, racconta all’Essenziale. Oltre ai consigli di aiuto sociale, ad accompagnare i detenuti verso il reinserimento dovrebbe essere anche la cassa delle ammende. Istituita durante il ventennio fascista, è finanziata da due fondi: il fondo patrimonio, che raccoglie le somme derivanti dalle sanzioni pecuniarie disposte dal giudice, dalla vendita dei manufatti realizzati dai detenuti e dei corpi di reato non reclamati; e il fondo deposito, che conta sui soldi delle cauzioni ordinate dai magistrati e gli averi che non sono stati chiesti indietro da chi esce dal carcere. Le risorse raccolte servono a finanziare progetti di reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, internati o persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Ma i reclusi che vengono davvero coinvolti in questi percorsi sono una minoranza. Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato dalla stessa cassa delle ammende, al 15 gennaio solo 3.000 dei 9.000 destinatari individuati erano stati inseriti nel Programma nazionale per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale, che offre percorsi di formazione e reinserimento lavorativo per i detenuti ed è il più importante dei quattro programmi nazionali finanziati dalla cassa e dalle regioni. Gli altri tre riguardano le misure alternative alla detenzione, il lavoro penitenziario professionalizzante e l’assistenza alle vittime di reato. Ma in totale coinvolgono appena altri 900 detenuti. “Il problema c’è, è innegabile”, ammette Sonia Specchia, segretaria generale della cassa delle ammende. Per risolverlo, spiega, andrebbe migliorata la comunicazione tra i diversi soggetti pubblici che hanno il compito di dare concretezza ai progetti di reinserimento, che sono gli enti locali (regioni, comuni e aziende sanitarie), gli uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uepe), i provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria (Prap) e i centri per la giustizia minorile. Una selva di uffici e burocrazia di cui detenuti ed ex detenuti sanno poco o niente, e in cui molti progetti per il loro reinserimento finiscono per perdersi. “Quello che possiamo fare noi”, dice Specchia, “è comunicare che la persona sta uscendo e ha seguito un percorso, ma poi la presa in carico la fa il territorio. E qui spesso manca l’organizzazione. Dobbiamo migliorarla per aumentare l’efficacia e l’efficienza dei nostri programmi. Perché un maggior reinserimento sociale dei detenuti significa anche maggior sicurezza, per tutti”. Misure fondamentali - Tra i vari programmi della cassa delle ammende ce n’è uno che punta a favorire l’accesso alle misure alternative al carcere, cioè la liberazione anticipata, la semilibertà (la possibilità per il detenuto di trascorrere parte della sua giornata fuori dal carcere), la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali o a un datore di lavoro privato. Secondo il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, il ricorso alle misure alternative è fondamentale per favorire un reinserimento graduale nella società. Ma alcuni dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mostrano che questi strumenti vengono utilizzati ancora molto poco. “Il 22 aprile”, spiega Palma, “nelle carceri italiane c’erano 1.252 persone condannate a una pena inferiore a un anno, 2.398 da uno a due anni, 3.837 da tre a quattro anni. Che ci fanno ancora lì? Dove sono le misure alternative di cui ci riempiamo tanto la bocca?”. Spesso vengono autorizzate solo grazie all’intervento dei garanti regionali e comunali dei detenuti o delle associazioni di volontariato. E in alcuni casi non bastano ad assicurare il reinserimento. Giovanni, che per ragioni di sicurezza chiede di tenere riservato il cognome, ha passato quasi undici dei suoi 38 anni nelle carceri di Poggioreale, Secondigliano, Larino di Campobasso, Benevento, Sulmona, Monza e Alessandria. Poi ha deciso di collaborare con la giustizia e ora sta scontando gli ultimi sei anni di pena ai domiciliari. Ad aprile del 2018 lo stato lo ha inserito nel programma protezione testimoni e lo ha aiutato a trovare la casa dove vive con la moglie e le due figlie di 16 e 14 anni. Poi, più nulla. “Mi sono ritrovato a non poter neanche pagare il condominio”, racconta. “Ero disoccupato, percepivamo solo un sussidio di 500 euro al mese per la disabilità grave di una delle mie bambine. Non sapevamo come andare avanti”. Nel 2020 Giovanni è uscito dal programma di protezione e si è messo in cerca di un lavoro con cui mantenere la famiglia. Lo ha trovato pochi mesi dopo, ma solo grazie alla Caritas: “Mi hanno segnalato un tirocinio al banco alimentare, dove poi sono stato assunto e lavoro ancora oggi. Se non mi avessero aiutato loro probabilmente sarei ancora disoccupato, perché una volta fuori lo stato ti abbandona. Se non sei forte e non hai nessuno che possa aiutarti sei con le spalle al muro, puoi solo tornare a commettere reati”. Anche Antonio Falcone la pensa allo stesso modo. Ha 28 anni ed è originario di Pollena Trocchia, piccolo comune a pochi chilometri da Napoli. Ha trascorso tredici mesi dietro le sbarre a Poggioreale e Aversa, per alcuni reati minori. Poi ha conosciuto Pietro Ioia, il garante dei detenuti di Napoli, che lo ha aiutato a trovare un lavoro e ha ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Ora ripara motociclette in una piccola officina. “Sono uscito il 4 febbraio”, racconta, “e il 5 ero già al lavoro. Ma se non ci fosse stato zio Pietro (come lo chiama lui, nda) avrei dovuto farmi altri 32 mesi di carcere. Sono molto fortunato, tanti ragazzi come me non hanno questa possibilità”. Falcone ricorda bene il giorno in cui è uscito di prigione: “È una sensazione che non si può spiegare, bisogna viverla. Per un ex detenuto l’impatto con la libertà è molto forte, fa male. Il lavoro è l’unico modo per gestirlo e riuscire a farcela. Se quando esci resti solo e disoccupato, è molto probabile che tornerai a delinquere”. I numeri del fallimento - I dati sulla recidiva sono forse gli unici utili a valutare l’operato dello stato per il reinserimento dei detenuti, e sono tutt’altro che positivi. Secondo le statistiche fornite dal dipartimento di amministrazione penitenziaria, oltre 25mila persone detenute al 31 dicembre erano già state in carcere almeno una volta, 18.341 fino a quattro volte, 5.649 da cinque a nove, 1.560 oltre dieci. Spesso, insomma, il percorso di reinserimento non c’è stato o non ha funzionato, e il detenuto alla fine è tornato dietro le sbarre. Secondo Mauro Palma questi dati possono essere interpretati anche in un altro modo: “Quando si parla di recidiva lo si fa sempre per mostrare quanto sia stata inutile l’azione fatta all’interno del carcere. Ma va anche detto quanto è respingente la non azione al di fuori del carcere. La verità è che finché stanno dentro c’è ancora una qualche attenzione per i detenuti. Ma poi, una volta dimessi, per lo stato non esistono più”. Come Giuseppe, 55 anni, 22 trascorsi in una cella del carcere Opera di Milano. Quando è uscito, nel dicembre 2019, non aveva una casa, un lavoro e persino un documento. La carta d’identità l’ha avuta solo nel maggio 2021, quasi un anno e mezzo dopo, con la residenza fittizia all’indirizzo messo a disposizione dal comune di Milano, visto che viveva ancora per strada, come tanti altri ex detenuti in tutta Italia. La sua storia l’ha raccontata nella puntata del 23 settembre della trasmissione Radio Carcere, in onda su Radio Radicale: “Dormiamo nei sacchi a pelo sotto ai porticati, mangiamo alla mensa dei poveri, ci laviamo nelle docce comunali. Questa è la vita che facciamo. Veniamo abbandonati a noi stessi, sbattuti in libertà in un mondo completamente diverso da quello in cui vivevamo prima di entrare in carcere. E io ho ancora paura della libertà. Cammino per strada e ho paura, vado in metropolitana e ho paura, entro in un bar o in un negozio e ho paura. Ora capisco quelli che si buttano sotto a un treno o tornano a delinquere per passare l’inverno al caldo in cella. Se fuori è così, tanto vale starsene dentro”. Chi va “rieducato” è la società stessa, prima che i detenuti di Rosaria Manconi* Il Riformista, 14 maggio 2022 Detenuti non si nasce, si diventa dopo avere elaborato la separazione dal mondo, dagli affetti, dalle relazioni e inizia la costruzione, dolorosa, della nuova identità che, per non andare in frantumi, dovrà adattarsi a una diversa dimensione e convivere e sopravvivere sino al momento in cui, forse, presto o tardi, le porte si riapriranno per tornare in libertà. Nel frattempo, prevede la legge e la Costituzione, il sistema penitenziario ha il dovere di assicurare quei percorsi tesi a restaurare il legame sociale interrotto con la commissione del reato e favorire il graduale reinserimento nella comunità attraverso un processo di autodeterminazione e responsabilizzazione che permetta al detenuto di riappropriarsi della vita. Senonché le cronache e le statistiche ci rimandano storie di recidiva e di smarrimento. Come quella dell’ex detenuto della Casa circondariale di Gazzi, a Messina, che in piena notte ha bussato al carcere chiedendo di essere accolto perché “spaventato dal mondo esterno”. Voleva tornare in cella: solo lì avrebbe potuto soddisfare i suoi bisogni primari: mangiare, dormire, lavarsi. Fuori non aveva trovato ospitalità e tantomeno lavoro. Una storia triste certo, ma che rappresenta il fallimento della società così detta civile, totalmente impreparata a ri-accogliere i suoi cittadini. Una storia di ordinaria disperazione che coinvolge la stragrande maggioranza dei detenuti, in particolare quelli che erano già poveri ed emarginati prima di finire in carcere. Spesso abbandonati dalle famiglie, privi di occupazione e di punti di riferimento, preferiscono la carcerazione a una libertà che non offre nulla. Quando il detenuto esce dal carcere dopo un lungo periodo di detenzione non è più capace di vivere all’esterno. Talvolta non conosce neppure il valore del denaro e non è in grado di svolgere le più elementari attività. L’uscita dal carcere è, per i più, stordimento, paura, incapacità di orientarsi all’interno di spazi troppo ampi rispetto ai quattro metri della cella. Nella casa di reclusione di Oristano/Massama il tratto di maggiore sofferenza attiene proprio all’assenza di un percorso trattamentale sorretto da progettualità, iniziative culturali e formative e da quelle attività in grado di vincere la condizione di ozio forzato, annichilimento e solitudine in cui vengono costretti i detenuti. La distanza ideale e fisica con la comunità, la mancanza di rapporti con le Associazioni e le istituzioni che operano nel territorio - delle quali percepiscono l’indifferenza se non il fastidio - viene percepita come frustrazione di ogni possibile prospettiva di inclusione. Eppure il coinvolgimento del territorio nell’attuazione di diritti sarebbe il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale. Non assistenzialismo, ma impegno che è anche controllo in grado di accrescere e favorire la sicurezza. L’alternativa è quella di lasciare i detenuti nella loro condizione di isolamento e rassegnazione, abbandonarli alle loro esistenze sospese, al sovraffollamento strutturale, alla promiscuità, alla mancanza di intimità, ma soprattutto alla perdita di ogni speranza di recupero. Ed è proprio l’assenza di questa prospettiva, la mancanza di un senso della vita, l’inutilità del trascorrere del tempo la causa principale della maggior numero di suicidi e di atti di autolesionismo. Da qui l’urgenza di un’azione combinata fra comunità e struttura carceraria che consenta - in una sinergia fra Enti, Associazioni laiche e religiose, Istituzioni e singoli cittadini - di accompagnare il detenuto che ha scontato la sua pena nel cammino di recupero alla vita aiutandolo a orientarsi in una nuova realtà. Alla quale è del tutto impreparato per quel processo di infantilizzazione e regressione a cui viene sottoposto durante la vita inframuraria e che lo rende incapace di muoversi all’interno di spazi e condizioni sensoriali, lavorative, affettive oramai sconosciute. Solo con la partecipazione attiva della collettività ai progetti di reinserimento sociale sarà possibile realizzare la pienezza dei diritti della popolazione detenuta e la limitazione del ricorso al carcere. Un importante e non più rinviabile operazione culturale a cui tutti siamo chiamati in una prospettiva di “rieducazione” della società stessa e di formazione di una coscienza civica. *Presidente della Camera penale di Oristano Condannati alla distanza: famiglie “interrotte” tra carcere e Covid di Anna Ditta tpi.it, 14 maggio 2022 La pandemia ha portato allo stop dei colloqui in presenza, sostituiti per mesi dalle videochiamate. Ora che gli incontri sono ripresi, non va cancellato quanto di buono è stato fatto negli ultimi mesi. Le testimonianze dei familiari di due detenuti. “Uno dei primi video-colloqui che ho avuto con mio padre è stato di sera, e quella è stata la prima volta che ho potuto augurargli la buonanotte. Per quanto possa sembrare una banalità, dire “buonanotte papà” è stato qualcosa di particolare per me”. Eva Ruà ha trent’anni, e suo padre ha trascorso in carcere gli ultimi 28. Per lei, che vive in Calabria, andare a trovare di frequente il padre, detenuto a Parma, era impossibile. Per questo, le videochiamate con WhatsApp introdotte per sostituire i colloqui in presenza in epoca Covid sono state “qualcosa di rivoluzionario”. “In tutta la mia vita”, racconta Eva a TPI, “il colloquio ha sempre significato partire, muovermi fisicamente. Inoltre è sempre stato qualcosa di formale, perché si tratta comunque di un istituto penitenziario. A causa della pandemia - ma anche grazie ad essa, mi viene da dire - c’è stata la possibilità di interagire in modo molto più familiare”. Il padre di Eva, in carcere dal 1994, è sottoposto a ergastolo ostativo, ovvero senza la possibilità di sconti di pena. Un destino - quello di non vedere mai il padre fuori dal carcere - difficile da accettare per una figlia. “Io e mio papà siamo abituati allo stare lontani, perché dopo 28 anni ti abitui anche quasi a non avere il contatto fisico”, prosegue la ragazza. “Certo, niente può sostituire un abbraccio, ma con questi colloqui “virtuali”, è come se lui potesse far parte un po’ della mia vita, della mia casa. Ho potuto far vedere a papà la mia stanza, il nostro cane, che non aveva mai visto, e altre scene di vita quotidiana in casa. Inoltre ha potuto vedere sua madre, mia nonna, che ormai è molto malata e che aveva visto l’ultima volta 10 anni fa”. L’arrivo della pandemia di Covid in Italia, a marzo 2020, ha provocato scontri, violenze, incendi, devastazioni ed evasioni di massa in diverse carceri italiane. Tra il 7 e il 10 marzo sono morti 13 detenuti, mentre decine di detenuti e agenti sono stati feriti. All’indomani di questa tragedia, il governo si è mosso per consentire lo svolgimento di colloqui a distanza con mezzi tecnologici, come racconta a TPI Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che dal 1991 lavora alla promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. “La gestione dei colloqui per i detenuti non è stata uniforme sull’intero territorio nazionale, perché le indicazioni venivano recepite in maniera diversa dai singoli istituti”, precisa Marietti. “All’inizio c’è stata una chiusura netta e improvvisa, che sostanzialmente ha portato anche a quel momento drammatico iniziale, ci sono state rivolte in 49 carceri, i morti e tutto ciò che sappiamo”. Per i detenuti e per le loro famiglie è stata una separazione improvvisa e netta. In alcuni casi da un giorno all’altro è stato di colpo difficile avere notizie gli uni degli altri. “Ad Antigone eravamo subissati di telefonate, mail e messaggi social di persone che ci chiedevano aiuto per avere informazioni. Si rincorrevano anche voci di notizie false o amplificate sulla presenza del virus in alcune strutture. Questo è stato il momento più drammatico”. In seguito, il governo si è organizzato per consentire i colloqui a distanza. “Già a marzo 2020 sono stati acquistati 16mila smartphone, che sono stati distribuiti nelle carceri”, dice Marietti. “Sono iniziate le videochiamate con WhatsApp, con i numeri già autorizzati per le telefonate, e la situazione si è un po’ calmata da questo punto di vista. Poi ci sono state varie fasi e moltissime circolari, che hanno riguardato anche i colloqui, in base all’andamento del contagio”. A giugno 2021, con un’apposita nota, il Dap ha dettato le linee guida per il graduale ripristino dei colloqui in presenza, grazie a strumenti come vaccinazioni e green pass. Parlarsi di persona - A scegliere di riprendere gli incontri in presenza non appena possibile è stata Carla (nome di fantasia), moglie di un detenuto che a ottobre 2021 è stato trasferito dal carcere di Torino a quello di Augusta, in Sicilia. “Prima del Covid andavo una volta al mese a Torino per il colloquio, facevo le 3 o 4 ore prestabilite, e tornavo a casa”, racconta la donna, che vive a Catania con le due figlie. “Da marzo fino ad agosto 2020 non abbiamo avuto nessun colloquio in presenza, si facevano semplicemente delle videochiamate di 20 minuti a settimana. Per attivare questo sistema a Torino c’è voluto un po’ di tempo, perché dovevano attrezzarsi. All’inizio le facevamo via Skype, ma non funzionava bene. Poi con WhatsApp ci siamo riusciti. Le videochiamate però erano più brevi del colloquio, che durava 50 minuti”. Il marito di Carla, che ha un figlio disabile avuto da una precedente relazione, è stato trasferito nel carcere di Augusta a ottobre 2020. “Mio marito non ha visto il figlio per due anni e mezzo, ha avuto di nuovo l’occasione di poterlo vedere proprio grazie alle videochiamate. Da quando è qui in Sicilia, invece, la situazione per noi si è normalizzata. Ora andiamo a trovarlo perché è solo a mezz’ora di strada. Facciamo i colloqui in presenza, con mascherina e vetro divisorio”. Carla racconta che il magistrato aveva già dato da tempo il via libera al trasferimento del marito, proprio per la presenza di un figlio disabile. “Siamo rimasti bloccati perché il Dap non lo eseguiva. Dopo due anni e mezzo di istanze finalmente lo hanno trasferito qui. Non siamo i soli ad avere questo problema, ci sono tanti altri casi”. Carcere e nuove tecnologie - “Nel carcere di Parma sono stati molto pronti e disponibili ad attivare il servizio di videochiamate”, racconta Eva. “Le videochiamate durano come i colloqui, all’incirca 60 minuti, e si aggiungono alle telefonate classiche di 10 minuti, che ci sono sempre state e continuano ad esserci. Per noi che non possiamo andare a trovare mio padre tutte le settimane, questo ci consente di avere un rapporto più “quotidiano”. Per chi, come me, è stato privato del tempo insieme, è importantissimo”. Se prima della pandemia nel 40 per cento degli istituti penitenziari più della metà dei detenuti svolgevano colloqui in presenza, secondo il XVIII Rapporto dell’Associazione Antigone, pubblicato lo scorso 28 aprile, il dato è sceso al 22 per cento nel 2021. In media, nel 67 per cento degli istituti visitati da Antigone nel corso dell’anno, più della metà dei presenti faceva videochiamate con i familiari, con una durata media che nella maggior parte dei casi era superiore ai 30 minuti. Solo il 39 per cento degli istituti organizzava colloqui sia il sabato che la domenica, mentre il 13 per cento non ne teneva né il sabato né la domenica. Nel 29 per cento degli istituti visitati, inoltre, non si svolgevano mai colloqui il pomeriggio. In questi casi, per incontrare un proprio familiare, chi lavorava doveva rinunciare al lavoro o alla scuola. “Ovviamente per noi il colloquio in presenza è sempre da preferire, perché è una vicinanza che non si può sostituire. Ma l’alternativa del colloquio a distanza è un’ottima cosa, basti pensare agli stranieri che hanno le famiglie lontane”, dice la coordinatrice nazionale di Antigone. “Noi speriamo che questa pratica rimanga e che mai si elimini quel poco di buono che la pandemia ha portato in carcere, che sicuramente è l’uso delle nuove tecnologie per una serie di attività, inclusa la didattica. Al tempo stesso ci auguriamo che ciò non diventi un modo per sostituire l’attività in presenza, cosa che può sembrare più facile ed economica. Semmai tutto ciò si deve andare ad aggiungere. Chiediamo inoltre che il detenuto possa scegliere se imputare la videochiamata a colloquio o a telefonata. Per il momento esistono solo circolari amministrative e i minuti della videochiamata vengono sottratti a quelli del colloquio in presenza. Ma chi ha la famiglia che va a trovarlo regolarmente dovrebbe poter scegliere di videochiamare i parenti, anziché telefonargli”. Csm, niente fiducia al Senato: forse voto dopo i referendum di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2022 I tecnici a Cartabia: la richiesta di sostegno al governo farebbe tornare il testo alla Camera. L’ok finale alla riforma slitta a metà giugno. La riforma del Csm, approvata in prima lettura alla Camera il 27 aprile, dopo settimane di trattative e litigi tra i partiti di maggioranza, è bloccata al Senato e con ogni probabilità diventerà legge dopo il referendum sulla Giustizia del 12 giugno. Con un ulteriore rischio che preoccupa la ministra della Giustizia, Marta Cartabia: se i tempi di approvazione slittassero ancora a lungo, il prossimo Consiglio Superiore della Magistratura potrebbe essere eletto con le vecchie regole. Se così fosse, sarebbe una sconfitta politica per il presidente del Consiglio Mario Draghi e per la Guardasigilli che si sono impegnati pubblicamente a eleggere il prossimo Csm con il nuovo sistema elettorale che dovrebbe ridurre il potere delle correnti. Lo slittamento dei tempi di approvazione della riforma non è dovuto solo alla richiesta di modifica da parte del centrodestra e di Italia Viva. La ministra Cartabia nei giorni scorsi aveva valutato la possibilità di mettere il voto di fiducia sul disegno di legge e quindi evitare che, in caso di modifica, il testo dovesse tornare alla Camera per la terza lettura. I tecnici del Senato però le hanno fatto sapere che questo non è possibile per un motivo tecnico: un maxi-emendamento con fiducia farebbe comunque tornare la legge alla Camera rinviando l’approvazione perché i due testi risulterebbero formalmente diversi. L’unica soluzione sarebbe votare la fiducia articolo per articolo (sono 43) ma i tempi si allungherebbero lo stesso. Un problema tecnico, che diventa anche politico. Perché il centrodestra e i renziani stanno approfittando di questo stop per allungare i tempi della riforma in commissione Giustizia e approvarla dopo i referendum del 12 giugno. Cartabia aveva chiesto l’approdo in aula il 20 maggio, mentre mercoledì la conferenza dei capigruppo ufficializzerà la nuova data per la presentazione degli emendamenti: il 23 maggio. Per approvare la riforma entro inizio giugno servirebbe un accordo politico di maggioranza che impedisca a Lega, Forza Italia e Italia Viva di presentare emendamenti e di votare quelli dell’opposizione. Una prospettiva irrealistica: questi partiti, tutti schierati per il “sì”, hanno annunciato di voler modificare la riforma. Inoltre a Lega, Forza Italia e Italia Viva conviene rinviare tutto a dopo il referendum: nel caso in cui i quesiti non passassero a causa del mancato raggiungimento del quorum, potrebbero provare a far rientrare i temi referendari nella riforma sotto forma di emendamenti. Martedì se ne parlerà in una riunione di maggioranza al Senato. “Votare la legge prima del referendum è molto complicato”, conferma un esponente di maggioranza che si occupa del dossier a Palazzo Madama. Per questo, il rischio è che il nuovo Csm venga eletto con le vecchie regole: la consiliatura scade il 23 settembre e le elezioni dovrebbero tenersi a luglio. Per rispettare i tempi però la riforma dovrebbe essere approvata entro maggio anche per ridisegnare i collegi elettorali. Il ministero della Giustizia esclude, al momento, che il Csm venga eletto con le vecchie regole. Fonti parlamentari invece sostengono che le elezioni del nuovo organo potrebbero tenersi anche a settembre, quando scadrà il mandato. A un mese dal referendum, invece, si inizia a muovere anche la Rai. Giovedì la televisione pubblica ha comunicato il calendario dei dibattiti in vista della consultazione del 12 giugno. Da lunedì fino al 10 giugno, la Rai organizzerà 45 dibattiti (nove per ogni quesito) che troveranno spazio in palinsesto tra il primo pomeriggio e la tarda serata in cui si scontreranno le ragioni del “sì” e del “no”. A leggere il calendario colpisce la quasi assenza di Lega e Partito Radicale che, per non aver depositato le 500 mila firme in Cassazione lasciando che a farlo fossero nove consigli regionali, dovranno lasciare il posto a un esponente di Lombardia, Sicilia, Veneto, Piemonte, Liguria, Umbria, Basilicata, Sardegna e Friuli-Venezia Giulia. Consiglieri regionali sconosciuti, quindi, dovranno confrontarsi con parlamentari ed esponenti di peso dei partiti. Esponenti leghisti saranno presenti solo in 5 dibattiti, lo stesso il Partito Radicale. Inoltre Fratelli d’Italia si troverà nella posizione di fare campagna per il “sì” su tre quesiti (separazione delle carriere, valutazione dei magistrati ed elezione del Csm) e per il “no” sull’abolizione della legge Severino e lo svuotamento della custodia cautelare. Un altro motivo di tensione in una coalizione già allo stremo. Sciopero delle toghe a rischio flop. “Chi aderisce punta solo a non rompere il fronte” di Simona Musco Il Dubbio, 14 maggio 2022 Da Nord a Sud si moltiplicano anche tra i big della magistratura le voci contrarie all’astensione proclamata dall’Anm per lunedì. “Temo non funzionerà”. Le voci delle toghe da nord a sud si rincorrono e nessuno vuole esporsi più di tanto. Ma l’aria che tira è chiara: in pochi credono che lo sciopero proclamato per lunedì dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma del Csm possa avere percentuali tali da poter essere definito un successo. Anzi, il timore (o l’auspicio, a seconda dei casi) è proprio quello opposto: che tutto possa ridursi ad un flop. E ciò non solo per la disaffezione alle logiche associazionistiche generate dall’affaire Palamara: dietro le strategie che regolano adesioni e defezioni, oltre all’ideologia, c’è anche il prossimo rinnovo del Csm, per il quale le correnti - riforma o meno - giocheranno come sempre un ruolo di primo piano. E proprio per tale motivo, anche nella scelta di aderire o meno allo sciopero giocherà un ruolo, almeno in parte, la logica correntizia. L’ultimo ad esporsi pubblicamente, ieri, è stato il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, ex segretario generale di Magistratura indipendente. “Pur avendo un giudizio critico sulla riforma Cartabia, che considero inutile perché non incide sulle degenerazioni del correntismo e dannosa perché mette a rischio il disegno costituzionale della magistratura senza migliorare l’efficienza del sistema giustizia - ha dichiarato -, non aderirò allo sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati perché lo reputo inopportuno ed inutile”. Il magistrato romano non ha voluto dire di più rispetto alla sua posizione. Ma le voci, all’interno della procura di Roma, si moltiplicano di ora in ora. Se da un lato la protesta sembra aver fatto presa sui sostituti più giovani, alcuni anche molto noti come il pm Giovanni Musarò, dall’altro c’è chi raccogliendo confidenze davanti alla macchinetta del caffè arriva a ipotizzare che tra coloro che andranno regolarmente in ufficio lunedì ci saranno anche altri aggiunti, “gente esposta dal punto di vista mediatico”, tra i quali Paolo Ielo e Rodolfo Maria Sabelli. Quest’ultimo, che è anche un ex presidente dell’Anm, non conferma né smentisce: dalla fine del suo mandato, infatti, ha sempre evitato di intervenire su temi associativi. Ma sarebbe il secondo ex numero uno del sindacato delle toghe a mancare l’appuntamento con la protesta, dopo l’outing di Pasquale Grasso, che ha reso pubblica la sua decisione di non aderire definendo “poco utile” e anzi “dannoso” lo sciopero contro una riforma che comunque considera “pessima”.Il clima è teso. Le giunte distrettuali, nel tentativo di compattare la base, hanno organizzato nella giornata di lunedì diversi dibattiti sul tema. Da Catanzaro a Roma, passando per Reggio Calabria e fino a Milano, i membri dell’Anm si sono divisi il compito di discutere della riforma ora ferma al Senato, coinvolgendo anche i membri dell’avvocatura. Ma anche questo, agli occhi di alcuni, appare come un segnale di debolezza. “Credo che lo sciopero non avrà un grande successo - dichiara una toga di primo piano della magistratura italiana -. Negli ultimi giorni ho visto una chiamata alle armi da parte di alcuni gruppi organizzati, che evidentemente temono un flop e stanno facendo un richiamo all’unità associativa. Questo dimostra un timore di fondo, ma è difficile fare previsioni. Però appare un azzardo una protesta del genere in un momento come questo, in cui c’è un’opinione pubblica non favorevole nei nostri confronti. Non credo che si raggiungeranno le percentuali della protesta contro la legge Castelli”. Negli uffici principali del Paese le toghe hanno deciso di riflettere fino all’ultimo secondo. “Al momento il dato sembrerebbe essere alquanto basso - spiega un alto dirigente di una delle principali procure italiane -. E risultano anche contrasti tra colleghi che prima si sono schierati e poi sono entrati in conflitto con il proprio gruppo. Ciò che è pacifico è che non c’è unità e in molti scioperano con il solo scopo di non rompere il fronte. Non mi pare ci sia grande condivisione dello strumento, pur magari condividendo le ragioni. Tutti sono convinti che in alcuni punti la riforma sia totalmente sbagliata, ma lo sciopero in un momento come questo lascia perplessi molti magistrati”. Ad esporsi maggiormente sono i magistrati “dissidenti” di “Articolo 101” eletti al Comitato direttivo centrale dell’Anm, che in un documento hanno ribadito “la loro netta e assoluta contrarietà alla riforma” del Csm, che “avrebbe richiesto ben altre forme e modalità di protesta. Ci pare che altrettanta contrarietà - sottolineano - non emerga dalla posizione delle correnti, che, dopo essersi dette contrarie a parole, nei fatti hanno poi indetto una protesta tardiva, blanda e non adeguatamente pubblicizzata”. Lo sciopero di lunedì, dunque, agli occhi dei 101 “sembra fatto apposta per tener buoni gli iscritti all’Anm, senza però disturbare troppo la classe politica nel corso dell’iter di approvazione. La cosa non stupisce, dal momento che tale riforma rafforza il correntismo ed accentua quella gerarchizzazione che del correntismo rappresenta per l’appunto la causa”. Proprio in ragione di tale ambiguità - si legge in una nota - alcuni di noi hanno ritenuto di non aderire allo sciopero, mentre altri vi parteciperanno. Sono infatti emersi da un lato l’esigenza di non avallare il collateralismo fra le correnti e la classe politica, che richiederebbe una netta presa di distanza da un deliberato frutto dei soliti accordi fra correnti, dall’altro quello di manifestare comunque anche all’esterno tale dissenso. Tutti, però abbiamo la consapevolezza della gravità del problema e della assoluta necessità di una ben più profonda ed incisiva azione sindacale di contrasto al progetto di legge, della quale l’associazione di categoria dovrebbe farsi portabandiera” Con lo sciopero, noi magistrati difendiamo l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione di Mariarosaria Savaglio Il Domani, 14 maggio 2022 Se non si presta attenzione per tempo a tale restringimento, si corre il rischio che un giorno si arrivi al soffocamento di quelli che sono i principi cardine per il buon funzionamento della giurisdizione a garanzia e tutela del cittadino. Tale rischio, in uno Stato con una democrazia matura, non si può assolutamente correre, anche perché in assoluta controtendenza rispetto all’evoluzione del modello europeo del potere giudiziario. Non è scelta di corporazione - L’opposizione alla riforma viene propagandata come una scelta corporativistica, se non illegittima. Nel migliore dei casi come una scelta inopportuna, richiamando le non poche patologie che affliggono la giustizia. Queste valutazioni non possono essere condivise perché è indubbio il pieno diritto, costituzionalmente garantito, anche dei magistrati di scioperare. Si tratta, inoltre di una decisione adottata non senza sofferenza in seguito ad ampie valutazioni effettuate in assemblea, dove si sono confrontate le diverse visioni. Oggi è principio acquisito che il potere giudiziario è un potere diffuso, che ogni giudice decide secondo la propria coscienza nel rispetto della legge e questo a garanzia delle parti più deboli del processo. Non è sempre stato così. Prima che si affermasse il modello di giurisdizione disegnato dalla Costituzione, grazie soprattutto alle battaglie portate avanti dall’Anm e dalla magistratura associata, la concezione burocratica della giurisdizione era dominante e si accettava che vi fosse una magistratura alta e una magistratura bassa. Una concezione che portava con sé un evidente conformismo della giurisprudenza, la quale non era capace di andare incontro ai mutamenti della società che anche legislatore non sempre è in grado di cogliere tempestivamente. La salvaguardia della giurisdizione - La concezione della giurisdizione come potere diffuso ed orizzontale ha quindi rafforzato le garanzie delle parti, soprattutto quelle più deboli, e assicurato la vitalità della giurisprudenza. La riforma, con l’introduzione di nuovi ed evanescenti illeciti disciplinari, l’esportazione del modello gerarchico anche negli uffici giudicanti, la separazione di fatto delle carriere tra pm e giudici, rischia di riportare indietro la magistratura di decenni. Scegliere oggi di protestare vuol dire, quindi, non accettare che vengano compiuti passi indietro verso la naturale tutela di un’eguaglianza sostanziale dei cittadini e non condividere che si proceda verso una giustizia da esercitare in maniera difensiva e conformista. Le riforme occorrono, certo, ma occorre, prima di tutto, che si tratti di riforme coerenti con gli obiettivi proclamati di una migliore gestione della macchina giustizia e che non ne comportino lo snaturamento. La proclamazione dello sciopero, infine, è stata una scelta della base dei magistrati che si è espressa in una assemblea nazionale aperta a tutti gli iscritti, decisione legata alla necessità di far sentire la propria voce in un dibattito inquinato da rivendicazioni che nulla hanno a che fare con l’efficienza della giustizia, ma sembrano più manifestare un senso di rivalsa a discapito di autonomia e indipendenza che invece sono la garanzia di una giustizia equa e a servizio del cittadino. “Sciopero delle toghe inopportuno, basta guerre”. Parla Sisto di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 maggio 2022 Per il sottosegretario alla Giustizia, intervistato dal Foglio, lo sciopero proclamato per lunedì dall’Associazione nazionale magistrati è “legittimo dal punto di vista sindacale, ma costituzionalmente inopportuno”: “Abbiamo ascoltato l’Anm sette volte, ma le leggi alla fine le fa il Parlamento”. “Considero lo sciopero dei magistrati legittimo dal punto di vista sindacale, ma costituzionalmente inopportuno, perché protestare contro una legge, per giunta ancora in discussione in Parlamento, urta contro uno dei principi fondanti della separazione dei poteri”. Lo dichiara al Foglio il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a proposito dello sciopero proclamato per lunedì dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e il sistema elettorale del Csm. “Trovo infondate, e per certi versi anche ingrate, vista l’ampia disponibilità mostrata dal governo, le lamentele mosse dalla magistratura circa la mancata partecipazione all’elaborazione del testo di riforma - aggiunge Sisto - Abbiamo ascoltato l’Anm sette volte, ne abbiamo recepito, con spirito collaborativo, molti rilievi. Peraltro i magistrati hanno ottenuto risultati non da poco: è saltato il sorteggio per l’elezione del Csm, poi il sorteggio temperato, poi ancora il sorteggio dei collegi, non si è intervenuti sulla responsabilità civile, con smussamento di spigoli e, talvolta, di semplici angoli. Non mi sembra che ci si possa ragionevolmente lamentare. Si tratta di un provvedimento, per metodo e merito, equilibrato. Nel procedimento formativo ognuno partecipa e avanza le proprie proposte, ma alla fine spetta al Parlamento, e solo al Parlamento, scrivere le leggi. Non all’Anm, così come a nessun altro sindacato”. Importanti esponenti dell’Anm, tuttavia, sostengono che la riforma prevede misure anticostituzionali. “Mi sembra azzardato - replica Sisto - sollevare una ‘eccezione di costituzionalità’ rispetto a una riforma voluta da una ministra già presidente della Corte costituzionale. Senza dimenticare il lungo e approfondito dibattito parlamentare di cui è stato oggetto il testo, con numerosi interventi autorevoli e, al tempo, pragmatici. Ognuno ha potuto dire la sua e alla fine si è arrivati a una mediazione. Più di questo non si può chiedere. Il Parlamento ascolta, elabora e poi decide. Si chiama democrazia parlamentare”. Il sottosegretario alla Giustizia aggiunge di non condividere gli allarmi lanciati dall’Anm sulle conseguenze prodotte dalla riforma: “Penso che il cittadino abbia il diritto di sapere se un magistrato, dopo nove anni dall’immissione in servizio, svolge il ruolo di accusatore o di giudice. Mi sembra una conquista di civiltà oltre che di buon senso, così come sempre sostenuto da Forza Italia e dal presidente Berlusconi. Stesso discorso sulle porte girevoli: trovo normale che se un magistrato si espone politicamente non possa più tornare a esercitare le funzioni, nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e terzietà. Sul fascicolo di valutazione della professionalità dei magistrati: il principio esisteva già, si è trattato soltanto di dargli effettività e possibilità di attuazione”. Come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, è anche per queste ragioni, cioè per lo scarso carattere di “rottura” della riforma, che in fondo lo sciopero delle toghe rischia di rivelarsi un fallimento, con un’adesione da parte dei magistrati molto bassa. “E’ affidato alla coscienza di ciascuno, come in tutti i sindacati, partecipare o meno alle manifestazioni di astensione”, dichiara Sisto. L’astensione provocherà qualche rallentamento della macchina giudiziaria? “Sarà sinceramente un paradosso per un Parlamento che, con le riforme del processo penale e di quello civile, e con quella strutturale dell’ordinamento giudiziario, cerca di fare viaggiare il treno della giustizia più velocemente…”. “Il momento delle guerre è finito - conclude Sisto - C’è bisogno della migliore magistratura, della migliore avvocatura e della migliore politica perché lavorino nell’interesse del cittadino, in consapevole sinergia e in modo responsabile. Il paese non si può permettere ulteriori situazioni dolorose, se non devastanti, come quelle che abbiamo vissuto fino a qualche tempo fa. È un periodo che dobbiamo necessariamente e fattivamente considerare chiuso”. Lo sciopero dei “giudici etici” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 maggio 2022 Dunque lo sciopero dei magistrati ci sarà. Vedremo se davvero ci sarà la stessa massiccia adesione dei bei tempi in cui si protestava contro il nemico numero uno, Silvio Berlusconi. Incomprensibile, questa chiamata alle armi da parte dell’Anm, nei confronti di una riforma, voluta dalla ministra Cartabia, che prima di tutto non esiste, perché è stata approvata da un solo ramo del Parlamento. E poi perché introduce solo piccoli e timidissimi cambiamenti. Sembra quasi una questione di principio, quindi politica. Dunque lo sciopero dei magistrati ci sarà, fra due giorni, in un bel lunedì che si appoggia con facilità al weekend (visto che è improvvisamente scoppiata l’estate) , secondo una certa tradizione dei sindacati quando non si sentono sicuri dell’adesione. Anche se in genere questi preferiscono il venerdì, come del resto anche gli studenti. Vedremo se davvero ci sarà la stessa massiccia adesione dei bei tempi in cui si protestava contro il nemico numero uno, Silvio Berlusconi. Incomprensibile, questa chiamata alle armi da parte del sindacato delle toghe, nei confronti di una riforma, voluta dalla ministra Cartabia, che prima di tutto non esiste, perché è stata approvata da un solo ramo del Parlamento. E poi perché introduce solo piccoli e timidissimi cambiamenti, sia sul Csm che sull’ordinamento giudiziario. Sembra quasi una questione di principio, quindi politica, quella agitata in queste ultime settimane dai vertici dell’Anm, ma anche dal Csm e da una serie di magistrati molto ascoltati dai quotidiani che vivono in simbiosi con le Procure. Già, proprio l’intoccabile Partito delle procure, proprio la difesa di quel pm battagliero, così potente e irresponsabile nel nostro ordinamento come non è in nessun altro Paese al mondo, è al centro della protesta. Non certo per l’ingarbugliata riforma del sistema elettorale del Csm, i magistrati scendono in piazza, visto che l’unica vera svolta sarebbe stata determinata da quel sorteggio che non hanno voluto neanche il Governo e la gran parte dei partiti. Ma due sono i punti fondamentali di lamentela. Il primo riguarda la riduzione a uno dei passaggi tra la funzione requirente e quella giudicante. L’ altro è il fascicolo delle performance, che finalmente dovrebbe mettere in luce non solo la produttività, cioè la quantità di provvedimenti adottati da ogni magistrato, ma soprattutto la qualità dell’attività giurisdizionale. Non tanto per dare una bocciatura a chi ha condannato in primo grado imputati che poi sono stati assolti in appello. Ma soprattutto per mettere in luce quel che ormai si sta disvelando quasi ogni giorno, con la grancassa su iniziative che paiono da subito come Grandi: grande blitz, grande inchiesta, grande nomignolo, grande numero di imputati e arrestati, grande dispendio di forze e denaro per intercettazioni. E poi finiscono in nulla, magari dopo anni e anni, con imprese e famiglie andate all’aria, beni confiscati di società ormai fallite, persone distrutte dal carcere e dalla pubblica gogna. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, da Milano fino alla Calabria e alla Sicilia, passando per Roma e la vana ricerca di “Mafia Capitale” piuttosto che “‘Ndrangheta Capitale”. E nessuno ne risponde mai, visto che ogni anno lo Stato deve risarcire le ingiuste detenzioni. Ma la pervicacia pare cucita addosso alle toghe, qualunque ruolo svolgano, perché la casta prevale sempre. Non demorde l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, pensionato molto vivace, che quando non è intervistato scrive direttamente su diversi quotidiani. È molto sicuro di sé un altro ex procuratore “antimafia”, Nino Di Matteo, oggi membro del Csm di prossima scadenza, che in una lunga e interessante chiacchierata con il sociologo Luigi Manconi su Repubblica, non cede un millimetro di territorio conquistato negli ultimi trent’anni. Anche se su almeno due punti finisce per confermare quanto meno la necessità di un’analisi precisa sui metodi di indagine e di costruzione dei processi, in particolare nelle Regioni del sud e in nome dell’Antimafia militante. La prima questione è quella di un pm combattente che si presenta armi in pugno sotto l’ombrello del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (in contrasto palese con il sistema processuale di tipo accusatorio), che finisce con il privilegiare il fenomeno e il contesto rispetto al singolo fatto criminoso. È in questo tipo di cultura che nasce anche la giurisprudenza sul “concorso esterno in associazione mafiosa”. Di Matteo tiene il punto: “È indubbio che lo scopo dell’azione penale debba essere quello di provare i reati. Ma è altrettanto indubbio che alcuni delitti sono espressione di sistemi criminali più complessi”. Ma insomma, resta il fatto che tutto il castello accusatorio, costruito nel corso di anni e anni, che ha portato al processo “Trattativa tra Stato e mafia” è crollato miseramente. E anche se il consigliere Di Matteo, che fu accanito accusatore in quel processo, dice di non sentirsi sconfitto, crediamo sia diritto dei cittadini, nel cui nome si dovrebbe fare giustizia, guardare nel suo fascicolo per sapere come e perché siano stati sperperati tanti soldi e accusati tanti innocenti. Anche perché, e veniamo al secondo punto inquietante dell’intervista, ci pare che l’ex proquella curatore, quasi con noncuranza, quasi fosse normale, dice che “la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi dei Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale…”. Quindi, se non abbiamo capito male, le “condotte anomale” dei vertici dei carabinieri avrebbero giustificato anni di indagini, carcere e carriere distrutte anche se non erano reati, come ha stabilito una sentenza definitiva? Dottor Di Matteo, le dice niente il nome di Calogero Mannino? Qualcuno gli ha almeno chiesto scusa? L’altra bestia nera della riforma Cartabia è di una parziale separazione delle funzioni tra pm e giudici. Un altro affronto che le toghe vogliono cancellare con la manifestazione di lunedi prossimo. Il loro ritornello di sempre è quello della “cultura della giurisdizione”, quella dell’imparzialità che è imposta ai giudici e che apparterrebbe, secondo la vulgata dell’Anm, anche ai pubblici ministeri. A parte il fatto che nessuno è in grado di citare casi in cui il pm abbia raccolto anche le prove in favore dell’accusato, vogliamo citare qualche esempio? Vogliamo parlare del processo Enel o di Mafia Capitale, piuttosto che del già citato “Trattativa”? Proprio in quest’ultimo, visto che lo stesso pm Di Matteo parla di “condotte anomale” dei dirigenti del Ros, non sarebbe stato suo divere cercare anche qualche indizio della loro innocenza, qualche spiegazione, invece di andare diritto sull’ipotesi che quei comportamenti fossero reati? Non possiamo pensare che separando le carriere, o almeno le funzioni come previsto dal referendum che andremo a votare il 12 giugno, o in subordine almeno quanto previsto dalla piccola riforma Cartabia, la situazione potrebbe essere peggiore di così. Ve lo immaginate un procuratore “antimafia” che va alla ricerca di indizi o prove che possano scagionare Marcello Dell’Utri dal suo impegno “esterno” a sostegno di Cosa Nostra? O un sostituto dell’ufficio del procuratore Gratteri che si dia da fare in favore di Giancarlo Pittelli? Chiamata alle armi, dunque. Anche un po’ traballante, però, se il Presidente Giuseppe Santalucia e il direttivo del sindacato hanno sentito il bisogno di fare un appello all’unità della categoria nell’astensione dal lavoro. Cosa che in politica - e qui siamo in un contesto politico significa debolezza e poca sicurezza sul risultato dell’iniziativa. Lunedi vedremo, qualche mormorio di dissenso si è già fatto sentire. Referendum. Il 12 giugno si vota anche sulla custodia cautelare in carcere linkoristano.it, 14 maggio 2022 “Ogni anno troppi errori giudiziari”. L’appello di Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Non solo le elezioni amministrative, che porteranno alle urne i residenti di Oristano e di altri 18 centri della provincia: il 12 giugno gli elettori saranno chiamati a esprimersi anche su cinque referendum abrogativi a tema giustizia. Uno di questi è sulla limitazione della custodia cautelare. In sostanza si chiede agli elettori se sia giusto o meno di ridurre la lista dei reati per i quali è consentito il ricorso alle misure cautelari in carcere. “Ogni anno 1.000 persone devono essere risarcite dallo Stato perché sono state rinchiuse in carcere in custodia cautelare senza averne alcun titolo”, ha detto l’ex parlamentare Rita Bernardini, nei giorni scorsi a Oristano per una visita alla casa di reclusione di Massama e per un convegno sul rapporto tra carcere e società, ospitato nelle sale del Museo Diocesano Arborense. “La privazione della libertà per una persona che non è colpevole è qualcosa di insopportabile”, ha detto ancora Bernardini, storica esponente del Partito Radicale e presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. “Lo Stato deve essere più attento quando fa i processi e quando sbatte in galera le persone”. Referendum. “Così cambieremo la custodia cautelare” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 14 maggio 2022 Costa (Azione) spiega perché votare sì ai referendum sulla giustizia. “Far perdere a un innocente la libertà è inaccettabile. E nessuno paga”. Non ha dubbi il deputato e vicesegretario di Azione, Enrico Costa, sulle ragioni per cui votare sì ai cinque quesiti referendari sulla giustizia, promossi da Lega e Partito radicale, su cui gli italiani si esprimeranno tra meno di un mese. Onorevole Costa, quali sono le motivazioni a sostegno del sì? “I temi posti dai referendum, al di là del merito, sono essenziali e non possono essere elusi dal dibattito politico. Penso alla custodia cautelare: oggi, in molti casi, la restrizione della libertà personale avviene soltanto con un atto meramente burocratico. La custodia cautelare troppo spesso viene usata con leggerezza e con finalità diverse rispetto a quelle previste dal legislatore”. Perché, finora, c’è stata tutta questa timidezza? “Nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontare la questione in modo compiuto. La custodia cautelare è considerata una sorta di anticipazione di una pena, che non si sa se e quando verrà comminata, sia perché i processi sono lunghi sia perché alla fine, spesso, c’è un verdetto di assoluzione. Oggi, la vera sentenza è rappresentata dall’indagine, dall’impostazione accusatoria. Non c’è la percezione che le cose possano ribaltarsi. E nessuno paga. Far perdere ad una persona innocente la libertà personale, penso sia di quanto più illiberale ci possa essere nel nostro Paese. Per me, il tema della custodia cautelare è fondamentale perché genera un cortocircuito mediatico- giudiziario difficile da cancellare nel caso di una eventuale assoluzione”. C’è, poi, la separazione delle funzioni... “Se il giudice terzo ed imparziale si confonde con l’avvocato dell’accusa, è evidente che siamo in presenza di uno sbilanciamento”. Altra questione oggetto dei quesiti referendari è quella relativa alla legge Severino… “La legge Severino, e lo ha detto la stessa Paola Severino in una intervista, può essere migliorata. Pensiamo a quanti sindaci, condannati in primo grado, sono stati sospesi per essere assolti nei gradi successivi quando la sospensione aveva avuto effetto. Quando questi sindaci vengono assolti, purtroppo sono spesso ex sindaci. Il referendum interviene con una tecnica abrogativa drastica, ma il tema lo pone”. Spazio, inoltre, nei quesiti alla presenza degli avvocati nei consigli giudiziari per la valutazione della professionalità dei magistrati… “E un argomento a me tanto caro. Oltre ad una valutazione cosiddetta domestica da parte dei magistrati, ci deve essere infatti una voce terza che analizza le carte e dà un giudizio”. Sulla giustizia, dopodomani, lunedì 16 maggio, si svolgerà una conferenza stampa alla Camera… “Insieme all’altro vicesegretario di Azione, Andrea Mazziotti, e a Riccardo Magi, in concomitanza con lo sciopero dei magistrati contro la riforma della guardasigilli, Marta Cartabia, presenteremo un decalogo, dieci punti in cui dimostriamo che la protesta dell’Anm è sbagliata e non ha argomenti. Mai mi sarei aspettato che le mie proposte sarebbero diventate alla base dell’agitazione dei magistrati. Ho colto, quindi, nel segno”. “Non diremo mai alla gente di andarsene al mare, ma sui 5 quesiti il nostro No resta” di Errico Novi Il Dubbio, 14 maggio 2022 Walter Verini ha fede nella dialettica. Nella dialettica parlamentare che ha prodotto “le riforme del processo e ora il ddl sul Csm, approvato alla Camera”. Ma il tesoriere del Pd e deputato della commissione Giustizia crede anche in una dialettica che veda “la magistratura e la stessa avvocatura protagoniste in modo costruttivo della nuova giustizia, di una grande fase di innovazione”. E visto che, dice, “ricostruire la giustizia è opera da realizzare nei luoghi appropriati”, è convinto che “non sia il referendum lo strumento per cambiare davvero. Ecco perché il mio partito ha scelto di schierarsi per il No ai 5 quesiti del 12 giugno. D’altra parte, non è nostra abitudine invitare la gente ad andarsene al mare”. Ed ecco perché, onorevole Verini, parteciperete, come il M5S, anche alle tribune referendarie in tv, anziché disertarle e tifare comodamente per l’astensione. Scelta che vi fa onore... Parto da un presupposto. Si tratta di referendum strumentali, che non sembrano avere consistenza, nel merito. E un po’ lo dimostra anche il modo in cui ci si è arrivati: non con una raccolta firme ma in virtù delle delibere di 9 Regioni governate dalle destre. Noi siamo convinti che la soluzione per migliorare la giustizia non venga da una proposta abrogativa. Ma ripeto: non è nostra abitudine invitare le persone ad andare a mare. Poi saranno i cittadini a decidere cosa fare. E perché vi schierate per il No in tutti i quesiti? Non ne salvate nessuno? Esprimeremo innanzitutto due No decisi nel merito: sul quesito relativo alla legge Severino e su quello in materia di misure cautelari. Nel primo caso, è molto semplice: la Severino va sicuramente cambiata, ma non abrogata del tutto, come avverrebbe con la vittoria del Sì. In quel caso, scomparirebbero anche le norme che, per esempio, impediscono a un condannato per mafia di candidarsi una volta scontata la pena, magari nello stesso contesto territoriale in cui aveva fatto parte di una cosca e con il rischio che ripristini i vecchi legami. Mi pare vi sia già troppa penetrazione delle mafie in tanti territori, perché si possa correre un simile rischio. Tutt’altra cosa è tutelare i sindaci perbene ed evitare che scattino l’incandidabilità o la sospensione per una condanna in primo grado. Obiettivo sacrosanto, ma alle Camere le proposte che lo perseguono viaggiano lentissime... Noi del Pd, con Parrini al Senato e Ceccanti alla Camera, abbiamo presentato leggi per eliminare proprio quegli effetti paradossali della disciplina. Le si calendarizzi, anziché fare ostruzionismo. E senza referendum come si contrasta l’abuso della custodia cautelare? Ci sono sicuramente troppe persone che scontano misure cautelari in carcere laddove potrebbero farlo al più ai domiciliari. Ma eliminare del tutto il presupposto della possibile reiterazione del reato per tutte le misure, non solo detentive, non risolverebbe davvero quel ricorso eccessivo: semplicemente impedirebbe di applicare misure assolutamente necessarie per reati come lo stalking, dal braccialetto elettronico al divieto di avvicinamento. Le riforme si fanno in Parlamento, non con colpi d’accetta sbrigativi. Non sempre il Parlamento sa essere concreto... Eppure sono state approvate le riforme di entrambi i processi, e ora, alla Camera, anche quella dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Che contiene, per completare il quadro dei referendum, norme con cui vengono ampiamente superati gli altri quesiti. Dall’eliminazione delle firme per le candidature dei togati, al voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, che grazie all’emendamento proposto dal Pd viene introdotto, nella riforma Cartabia, in modo da spersonalizzare la scelta e trasformarla in una pronuncia dell’intera avvocatura. Riguardo alla separazione delle funzioni, sappiamo che dai 4 cambi previsti finora si è arrivati all’unico passaggio stabilito in seguito alla sintesi tra i partiti. Un punto di caduta più che sufficiente, direi, tenuto conto di quanto pochi siano, nella realtà, i cambi da pm a giudice: 121 nel quadriennio 2016- 2020, 30 l’anno, quasi tutti chiesti da giovani magistrati che pur di avvicinarsi a casa hanno accettato una funzione diversa. E ricordiamoci che anche avvocati come Franco Coppi ritengono importante favorire, anche con l’osmosi fra requirente e giudicante, la cultura della giurisdizione. Ma i referendum non andrebbero apprezzati a prescindere quali opportunità per rilanciare una partecipazione attiva dei cittadini alla politica della giustizia? A me sembra una consultazione strumentale, nata con questa cifra fin dalle delibere regionali che l’hanno consentita. Nei fatti non mi pare ci sia questa valenza. I cittadini si riconciliano con la giustizia a partire dai tempi ragionevoli dei processi e da uffici giudiziari che funzionano. Al di là degli schieramenti per il Sì e per il No, cosa pensa dell’inedita presenza dell’Organismo congressuale forense nelle tribune referendarie? È un fatto positivo: l’avvocatura è una componente essenziale della giurisdizione. È importante che sia la magistratura che il mondo forense, attraverso tutte le sue componenti, partecipino al dibattito. Ma ne posso prendere spunto per un’osservazione a latere sulla presenza politica delle toghe? Faccia pure... In Parlamento, a fronte di 141 avvocati, ci sono 3 magistrati, poi c’è stato Emiliano e infine il caso Maresca: davvero era così vitale intervenire sulle cosiddette porte girevoli o se n’è parlato in modo eccessivo? Dietro lo sciopero Anm c’è anche il bisogno dei magistrati di capire fino a che punto la politica vuole spingersi nel ridefinire gli equilibri? Allora: in alcuni settori della politica vedo ancora la tentazione di regolare i conti, di non chiudere la guerra dei trent’anni sulla giustizia. Servono le riforme, non scelte che perpetuano il conflitto, anche perché la sensazione stessa che si voglia procedere in questa seconda direzione potrebbe provocare reazioni sbagliate nella magistratura. Ciò detto, a me sembra che la magistratura abbia perso un’importante occasione di essere essa stessa promotrice di riforme, protagonista di quell’autorigenerazione evocata dal presidente Sergio Mattarella sia al Csm che in Parlamerto. Dal caso Palamara, che è solo un epifenomeno, si poteva cogliere l’opportunità di affermare, ad esempio, che vanno difese le correnti ma spazzato via il correntismo. Invece le toghe hanno preferito indossare l’elmetto, e sottovalutato il fatto che, anche grazie al Pd, sono state tenute fuori dalla riforma ipotesi pericolose, come la responsabilità diretta, o mortificanti, come il sorteggio. Se davvero si intravedono rischi di compromettere l’autonomia dei giudici, si accetta di contribuire alla discussione, nei limiti della separazione dei poteri. Con lo sguardo in avanti e in modo da restituire davvero smalto all’Anm. Onorevole, per chiudere sul referendum: cosa pensa degli esponenti dem che hanno scelto di sostenere, del tutto o in parte, il Sì ai quesiti? Semplice: la nostra linea, il nostro orientamento, sono chiari, su tutte e 5 le proposte abrogative. Erano stati esposti nella relazione di Enrico Letta in direzione nazionale. Dopodiché, se c’è qualcuno che la pensa diversamente, e che assume una posizione individuale, noi non siamo una caserma. Non avete pronte epurazioni, insomma... Direi proprio di no, né scomuniche né epurazioni. Il Pd che dice “no” sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 maggio 2022 Un conto sono i dubbi sui referendum, un conto è accodarsi al Movimento 5 Stelle. “Quieta non movere” è una tattica ribassista per togliere visibilità ai referendum che ha sempre funzionato, meglio degli sconsiderati inviti ad andare al mare. Il prossimo 12 giugno si voterà per i cinque quesiti sulla giustizia promossi dalla Lega e dai Radicali - misure cautelari, separazione delle funzioni dei magistrati, elezione del Csm, consigli giudiziari, incandidabilità dei politici (legge Severino) - e la strategia del silenziatore, questa volta, risulta utile persino a chi li ha promossi senza troppa convinzione, come la Lega che sconta le perplessità in materia di garantismo del suo elettorato. Così la macchina dell’informazione, comprese le “tribune” televisive, sta partendo in sordina, mentre per i giornali continua a fare più notizia lo sciopero dell’Anm contro la riforma Cartabia. In questo silenzio per nulla surreale spicca però la posizione del Partito democratico, che già nei mesi scorsi aveva ufficializzato la sua posizione critica, fatta di tre “nì” (meglio attendere le riforme in corso d’opera in Parlamento) e una “netta contrarietà su custodia cautelare e legge Severino”, dunque due no squillanti proprio sui due referendum in cui il tema garantista è più evidente. Il Pd ha prenotato gli spazi d’intervento all’AgCom, e manderà i propri esponenti in tv: a sostenere le ragioni del no. Assieme al Movimento cinque stelle, grande oppositore di tutte le riforme in tema di giustizia. Scelta criticabile, anche pensando che nel campo del partito di Enrico Letta esiste una pattuglia scelta che ha invece sempre sostenuto i referendum come strumento utile a sbloccare il sistema inceppato della giustizia, da Stefano Ceccanti a Goffredo Bettini a Giorgio Gori, che hanno auspicato un diverso impegno del Pd. Allinearsi alle posizioni dei Cinque stelle, magari anche per una convenienza politica assai dubbia, e allinearsi alle posizioni più conservatrici della magistratura, per il riflesso condizionato di un antico retaggio culturale, non pare una strategia adatta a un partito che si candida a guidare un cambiamento del paese. Se la violenza domestica è invisibile anche in tribunale di Giulia Merlo Il Domani, 14 maggio 2022 La commissione sul femminicidio ha approvato una relazione che indaga come la violenza domestica viene valutata nei procedimenti di separazione e di affidamento dei figli. Il risultato è che si tratta di un fenomeno quasi invisibile per il nostro sistema giudiziario: nel 96 per cento dei casi di separazione con figli in cui sono presenti segnali dii violenza domestica, i tribunali ordinari non acquisiscono questi atti e non ne tengono conto per decidere sull’affido. Per questo è necessario “intervenire sulle procedure, assicurando che la violenza sia sempre indagata dalle magistrature civili e minorili e che i minori siano sempre ascoltati dai magistrati”, ma soprattutto per introdurre “una formazione specifica sulla violenza di genere”, spiega la presidente della commissione, Valeria Valente. Nei tribunali spesso la violenza domestica non viene riconosciuta, oppure viene sottovalutata. Questo fenomeno, che si definisce di “vittimizzazione secondaria”, è una giustizia negata - perchè non riconosciuta - a chi già ha subito violenza, in particolare le donne. A farlo emergere è la relazione “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”, stata approvata all’unanimità il 20 aprile 2022 dalla commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e presentata alla presenza del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, e della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Vittimizzazione secondaria - La vittimizzazione secondaria è il termine tecnico con cui si definisce, secondo la Raccomandazione del Consiglio d’Europa, “la vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”. Ovvero, tutti i casi in cui le autorità chiamate a reprimere la violenza non la riconoscano oppure la sottovalutino, non adottando nei confronti della vittima le necessarie tutele. Questo fenomeno è particolarmente grave nel caso di violenze domestiche, quindi legate al contesto familiare, soprattutto nel caso in cui poi segua una separazione della coppia e sia necessario decidere dell’affido dei figli. Per la prima volta è stata fatta una analisi statistica, in cui si ricostruisce il percorso della violenza su donne e minori, indagando in particolare i dati dei procedimenti civili di separazione giudiziale di coppie con figli e dei procedimenti sulla responsabilità genitoriale presso il tribunale per i minorenni. Il risultato è che la dimensione penale della violenza e quella civile della separazione spesso non sono vasi comunicanti, così che le valutazioni in merito all’affido dei figli vengono prese senza tenere in considerazione il contesto di I dati - La commissione ha lavorato su un campione statistico di 569 fascicoli civili, rappresentativi dei 2089 iscritti al ruolo nel trimestre marzo-maggio 2017. Per quanto riguarda i procedimenti davanti ai tribunali per i minorenni, il campione statistico ha riguardato 620 fascicoli, rappresentativi dei 1452 iscritti al ruolo nel mese di marzo 2017. Il risultato è che il 34,7 per cento delle cause giudiziali di separazione con affido di figli minori presenta indicazioni di violenza domestica con denunce, certificati o altri atti e nell’87 per cento dei casi a subirle sono le donne. Nel 18,7 per cento dei casi, la violenza riguarda invece direttamente i figli e in gran parte a perpetrarla sono i padri (13,6 per cento contro il 4,5 per cento delle madri) e dati analoghi, con percentuali di poco superiori, sono emersi anche dai procedimenti minorili. Il dato fatto emergere dalla commissione, però, è quasi invisibile per il nostro sistema giudiziario: nel 96 per cento dei casi di separazione con figli in cui sono presenti segnali dii violenza domestica, i tribunali ordinari non acquisiscono questi atti e non ne tengono conto per decidere sull’affido. Per quanto riguarda i tribunali dei minori, nel 54 per cento dei casi di violenza domestica l’affidamento dei minori è dato solo alla madre, ma anche con incontri liberi con il padre violento. Le conseguenze - Il risultato è eclatante perchè mostra come nei tribunali italiani non sia garantito il rispetto della Convenzione di Istanbul secondo cui, nei procedimenti di affidamento dei figli, “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione”. Nella relazione vengono elencate le cause, che hanno “profonde radici culturali” nei pregiudizi, anche inconsapevoli, e negli stereotipi di genere che sono alla base della violenza domestica, con possibile tendenza a colpevolizzare la vittima. Con un esito: spesso la violenza non viene percepita e quindi non entra nelle cause civili di separazione o nei procedimenti davanti al tribunale per i minorenni. O, peggio, viene derubricata a mero conflitto familiare, perchè non ne viene compresa la portata. A dimostrazione di come gli stessi operatori del diritto spesso non vedano la violenza oppure non la approfondiscano è che nel 57,3 per cento dei casi, nelle verbalizzazioni dell’udienza presidenziale civile, sono presenti solo generici richiami, senza approfondimenti sulle condotte di violenza domestica. Addirittura nel 95,9 per cento dei casi i giudici, pur in presenza di allegazioni di violenza e di notizie relative all’esistenza di procedimenti penali, non hanno ritenuto di acquisire d’ufficio i relativi atti. Solo nel 15,6 per cento dei casi i giudici hanno approfondito le allegazioni di violenza presenti tra gli atti del fascicolo. Anche in presenza di documenti o atti di procedimenti penali da cui emergano presumibili violenze domestiche, nell’ordinanza presidenziale nel 57,9 per cento dei casi non si fa riferimento né a violenza né a conflitto, solo nel 21,1 per cento dei casi si fa riferimento alla violenza e nel 18,6 per cento dei casi ci si riferisce al conflitto in famiglia, in un’evidente confusione lessicale con importanti ricadute giuridiche. L’interesse del minore - La commissione ha identificato alcune tra le cause di questo fenomeno, indicandole come criticità su cui intervenire a livello legislativo. Primo tra tutte, nella maggior parte dei casi i bambini soggetti dell’affido non vengono ascoltati in tribunale (69 per cento) e, anche quando questo avviene, non è il giudice a parlare direttamente col minore per rendersi conto della situazione ma l’ascolto viene delegato a tecnici o a servizi sociali (nell’85,4 per cento dei casi). Dunque, la violenza domestica e in particolare la violenza maschile contro provvedimenti che dispongono l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, senza distinguere i casi in cui ci sia un genitore violento e una genitrice vittima di violenza. “I risultati di questa inchiesta dicono con chiarezza che nei procedimenti di separazione e affido il superiore interesse del minore, ovvero il diritto dei bambini a una vita serena e libera dalla violenza, soccombe a fronte di una interpretazione del principio della bigenitorialità interpretato come diritto del padre a frequentare il proprio figlio o la propria figlia sempre e comunque. Anche quando l’uomo è un maltrattante e la violenza da lui esercitata contro la moglie o contro i figli stessi è documentata”, spiega a Domani Valeria Valente, presidente della commissione sul femminicidio che ha licenziato la relazione. Per questo l’esito della commissione è quello di chiedere al parlamento un intervento legislativo per intervenire “da un lato sulle procedure, assicurando che la violenza sia sempre indagata dalle magistrature civili e minorili e che i minori siano sempre ascoltati dai magistrati”, ma soprattutto per introdurre “una formazione specifica sulla violenza di genere per tutti coloro che intervengono nei procedimenti di separazione e affido, magistrati, CTU, avvocati, per riconoscere il fenomeno e non occultarlo dietro un apparente conflitto che nasconde la violenza subita da tante donne e mamme”. È morto Valerio Onida, scomparso a 86 anni l’ex presidente della Corte costituzionale ansa.it, 14 maggio 2022 Si è spento a 86 anni un “maestro” del diritto costituzionale. Valerio Onida, ex presidente della Consulta, professore emerito all’Università degli Studi di Milano, è morto oggi, come comunicato dal figlio Francesco. “Ciao papa, grazie di tutto”, ha scritto il figlio su Facebook, postando una foto del padre. Nato a Milano il 30 marzo 1936, aveva compiuto 86 anni due mesi fa. Professore di diritto costituzionale alla Statale di Milano, è stato giudice costituzionale dal 1996 e presidente della Consulta dal settembre 2004 al gennaio 2005. Campania. 700 detenuti stranieri, ma si assumono mediatori che non conoscono le lingue di Viviana Lanza Il Riformista, 14 maggio 2022 Quanti paradossi nel sistema carcere, un sistema sempre più in fallimento. Uno, per esempio, che la dice lunga su tutto il resto, è quello dei mediatori. Il mediatore culturale è per definizione un professionista bilingue che si occupa di favorire l’interazione e il dialogo tra individui di lingue e culture diverse. Deve quindi facilitare la comunicazione tra cittadini di origini e culture differenti. All’interno di una struttura penitenziaria il suo ruolo è quello di promuovere l’inclusione e facilitare il dialogo tra i detenuti stranieri e anche tra questi e l’istituzione carcere. Bene. Allora perché tra gli assunti ci sono mediatori che non parlano una seconda lingua? Eccolo il paradosso, uno dei tanti che spinge il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello a denunciare il caso nel corso di un convegno organizzato dalla Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Marco Campora, e chiedere sostegno nella battaglia per i diritti più elementari. Come il diritto di un detenuto straniero a essere messo nelle condizioni di poter comprendere quello che gli viene comunicato all’interno del carcere. Non siamo mica a Guantanamo. Eppure come si fa se c’è carenza di personale in grado di parlare una seconda lingua? “In Italia il 33 per cento dei detenuti è straniero, in Lombardia addirittura la metà più uno, sono tutti immigrati - spiega il garante campano -. Si fa un concorso per mediatori culturali senza verificare se parlano almeno due lingue, francese e inglese. In Campania abbiamo 700 immigrati, sono arrivati cinque mediatori culturali ma non linguistici, per cui nessuno conosce una seconda lingua. Possibile?”. E non è finita. Ascoltare il garante intervenire al convegno e snocciolare i dati sui tanti paradossi del sistema penitenziario, dà la misura di quanto il carcere sia un fallimento. “Tra l’anno scorso e due anni fa nemmeno dieci persone, tra consiglieri regionali e deputati, sono entrati in carcere - dice Ciambriello - C’è venuto l’ex ministro della Giustizia Bonafede e non è cambiato niente, è venuto di recente il sottosegretario alla Giustizia Macina, e dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere la ministra Cartabia e il premier Draghi, ma non basta entrare in un istituto, fare un percorso guidato e fine. Perché se uno va ci deve mettere il coraggio. Io - aggiunge - c’ero anche a Santa Maria Capua Vetere quando sono venuti ministro e premier ma fino a questo momento non abbiamo visto niente. Tra il dire e il fare ci deve essere il coraggio, e finora non c’è stato”. Chi dovrebbe davvero vigilare sulle condizioni dei detenuti? “Chi finisce in carcere viene giudicato in primo grado, in appello e in Cassazione da magistrati - ricorda Ciambriello - ma poi dovrebbe incontrare i veri garanti, i cavalieri dell’utopia costituzionale, cioè i magistrati di Sorveglianza. Il 90 per cento di loro non incontra i detenuti”, tuona il garante segnalando un altro vuoto, un altro paradosso del sistema penitenziario. Non l’ultimo. “In Italia in questo momento ci sono sedici donne con figli in carcere, nove sono con i loro bambini nell’istituto a custodia attenuata di Lauro. Per tutte queste donne tre anni fa furono costruite cinque carceri, due mai inaugurate. Io sono contrario alla costruzione di nuove carceri, adesso hanno deciso di realizzare un ulteriore reparto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si tratta di decisioni legate a una concezione ancora carcerocentrica”. Parliamo di minori. “Si contano 261 ragazzi e giovani adulti negli istituti per minorenni, di questi solo una trentina hanno meno di diciotto anni. Sapete in quanti istituti? - chiede Ciambriello parlando al convegno dei penalisti napoletani - Diciassette prigioni”. Conti che non tornano e tassi di recidiva sempre alti. “Basta mettere a capo del Dap un magistrato che è solo anticamorra, antimafia, anti ‘ndrangheta, anti tutto - conclude Ciambriello -. Il carcere è un’azienda in fallimento, serve un capo con capacità manageriali”. Salerno. Detenuto morto dopo lite, indagati due poliziotti penitenziari di Petronilla Carillo Il Mattino, 14 maggio 2022 Concorso in omicidio preterintenzionale. È questo il titolo di reato per il quale i due agenti della polizia penitenziaria, coinvolti della lite con il detenuto poi deceduto per infarto, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Salerno. Un atto dovuto per consentire anche a loro di nominare dei tecnici per gli accertamenti medici irrepetibili, ovvero per l’autopsia sul corpo di Vittorio Fruttaldo il 36enne di Aversa morto martedì dopo una colluttazione con gli agenti, andati nella sua cella, nella sesta sezione, per recuperare gli oggetti personali del suo ex compagno trasferito. I due agenti, ricordiamo, hanno riportato uno dieci giorni di prognosi, l’altro ventuno. Sulla questione interviene ora il Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Emilio Fattorello, segretario nazionale, è dispiaciuto soprattutto perché, dice, “i colleghi ora saranno sottoposti ad un processo mediatico mentre la loro unica colpa è quella di essersi trovati in quella cella in quel momento”. Fattorello ammette di essere “indignato” anche per la fuga di notizie: “Il garante Ciambriello aveva l’informazione dell’indagine prima di tutti, anche degli stessi indagati”. Quindi: “Volevamo tanto che ci sbagliassimo, alle sospette dichiarazioni del Garante di complimenti verso il direttore della casa circondariale di Salerno in seguito ai fatti drammatici dell’altro giorno, giunge ora la notizia di due avvisi di garanzia”. e incalza: “Qualcuno dirà: è un atto dovuto. Ma noi ci domandiamo: questi atti dovuti, ricadono sempre sui poveri cristi, ultimi anelli di una lunga catena? Come al solito abbiamo fiducia nella magistratura ma le domande non mancano: se si parla di detenuto psichiatrico, perché era dimesso dalla articolazione mentale della stessa casa circondariale? Perché era alla sesta sezione? Aveva o no provvedimenti di grande-grandissima sorveglianza come previsto? Era stato preso in carico da una equipe di esperti? Perché, come risulta, è stato spostato in continuazione nei vari reparti dell’istituto? Ecco che come al solito se la colpa ricade sui “fessi” di turno ossia i poliziotti, fatalmente, in servizio”. Sempre il segretario nazionale del Sappe qualche giorno prima dell’incidente ha inviato una nota in carcere, a Fuorni, proprio per puntare l’attenzione sulla assistenza sanitaria ai detenuti. Vittorio Fruttaldo, il detenuto deceduto per infarto e per il quale la procura ha disposto un esame autoptico, doveva espiare un ultimo residuo di pena per lesioni personali e rapina. Era in carcere perché, ufficialmente, ritenuto un senza fissa dimora. Ed era malato. Aveva problemi di tipo psichiatrico tanto che, proprio quel giorno, il suo compagno di cella aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento perché non riusciva più a tollerare le sue condizioni e il suo modo di fare. Secondo quanto riferito dalle autorità del carcere, pare che da tempo si rifiutava anche di parlare con il suo avvocato difensore. In passato era stato ricoverato nella sezione psichiatrica del carcere di Fuorni ma da qualche tempo si trovava nella sesta sezione ordinaria piantonato. Quando gli agenti sono entrati per prendere gli effetti personali dell’altro detenuto trasferito di cella, c’è stata una lite con colluttazione: gli agenti sono rimasti feriti e lui è deceduto per infarto. Le riprese delle telecamere di sicurezza riprendono soltanto l’ingresso degli agenti in cella. Tutto, dunque, è da ricostruzione e un importante contributo sarà dato proprio dall’autopsia. Napoli. Processo “Cella zero”, prescrizione sempre più vicina di Viviana Lanza Il Riformista, 14 maggio 2022 Dieci anni di indagini e processo non saranno sufficienti per avere una risposta dalla giustizia. Cosa realmente accadeva nella famigerata cella zero del carcere di Poggioreale rischia di rimanere per sempre in bilico tra due verità: quella dei detenuti che denunciarono le umiliazioni, le botte e le punizioni subite in quella stanza al piano terra del più grande penitenziario di Napoli e d’Italia e quella degli agenti accusati di aver commesso quelle violenze che hanno negato ogni cosa. Si rischia di non avere alcuna verità processuale, nessuna risposta dalla giustizia se non quella del tipo: ci dispiace, il processo è durato troppo, i reati sono prescritti. Sì, per ora tre su cinque sono prescritti. Che le lungaggini eccessive del dibattimento potessero affossare questo processo era evidente già dallo scorso anno. Inizialmente era sembrato che si potesse imprimere un’accelerazione per vincere la corsa contro il tempo. Illusione. Più della metà dei reati al centro del processo, e relativi ai presunti maltrattamenti denunciati da quattro ex detenuti del carcere di Poggioreale nel lontano 2012-2014, sono prescritti. Forse alcuni degli imputati potrebbero fare richiesta di rinuncia alla prescrizione sperando in una assoluzione nel merito: sostengono di non aver commesso abusi né lesioni. In ogni caso la prescrizione piomberà come una pietra tombale sul processo. E sulla verità. Dodici gli agenti della polizia penitenziaria imputati, cinque gli episodi oggetto delle accuse: si va dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute al reato di maltrattamenti. Tutto, stando alla denuncia di quattro ex detenuti, sarebbe avvenuto nella cella zero, la stanza più temuta del carcere di Poggioreale. Un locale spoglio e grigio, senza arredi, con un letto ancorato al pavimento con delle viti, nessun lenzuolo, nessuna coperta. Si finiva lì se si osava rispondere a qualche agente della penitenziaria, se si usavano sguardi o parole di troppo. “Era il metodo Poggioreale”, racconta chi ha vissuto il carcere di Poggioreale più di dieci anni fa. La stessa definizione - il metodo Poggioreale - che alcuni degli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, accusati della mattanza del 6 aprile 2020, evocano commentando l’aggressione di massa compiuta ai danni dei detenuti del reparto Nilo del carcere sammaritano. Sta di fatto che “Cella zero” è stato il primo processo che ha puntato un faro su quel che accade nel chiuso di un istituto di pena. Quando dieci anni fa, dopo le prime denunce, fu avviata l’inchiesta l’argomento carcere era un tabù vero e proprio, nessuna particolare attenzione politica, nessuna indignazione collettiva. Non fecero clamore le dichiarazioni degli ex detenuti, il racconto delle notti da incubo vissute quando la “squadretta” di agenti piombava nella cella a regolare i conti della giornata. I passi pesanti rompevano il silenzio della notte, le mazze di ferro battute contro le sbarre della cella annunciavano il detenuto su cui si sarebbe abbattuta la punizione. In genere, secondo il racconto di ex reclusi, la scelta ricadeva su chi nella giornata aveva avuto da ridire su qualcosa, aveva avuto un battibecco con qualche agente o tra detenuti, aveva fatto un commento di troppo o alzato i toni. Una volta entrati nella cella zero si era costretti a spogliarsi, a fare flessioni con le mani appoggiate al muro della stanza, incassare schiaffi, calci e pugni tra un insulto e un altro, in un caso botte sulla testa con un mazzo di chiavi, per poi restare in isolamento fino a quando i lividi non fossero andati via. Era l’1 giugno 2017 quando i pm, sollecitati ad indagare dalla denuncia dell’allora garante dei detenuti, chiusero le indagini preliminari con una richiesta di rinvio a giudizio a carico di dodici agenti allora in servizio nel carcere di Poggioreale. A dicembre di quello stesso il giudice dell’udienza preliminare accolse la richiesta e fissò il processo. Da allora dibattimento è in corso. E la prescrizione ora incombe sui reati. Fine. Palermo. Gli notificano l’arresto per corruzione, si suicida buttandosi dalla finestra di Salvo Palazzolo La Repubblica, 14 maggio 2022 Marcello Miraglia, 60 anni, funzionario della Città Metropolitana di Palermo, era già pronto per lasciare l’abitazione verso il carcere di Pagliarelli, ha chiesto di andare in bagno, un finanziere l’ha accompagnato, e all’improvviso è successo l’irreparabile: l’uomo ha aperto la finestra e si è lanciato dal sesto piano. Il militare ha cercato di bloccarlo, si è anche ferito a una mano, adesso è al pronto soccorso. La tragedia si è consumata all’alba, a Bagheria. La procura di Termini Imerese ha già disposto la restituzione della salma alla famiglia. L’inchiesta che coinvolge Miraglia, condotta dalla procura di Palermo, riguarda un giro di mazzette che sarebbero state pagate da alcuni imprenditori che operano nel settore dello smaltimento dei rifiuti per ottenere le necessarie autorizzazioni ambientali. Un’indagine con una decina di indagati, nata dalla denuncia di un imprenditore. Miraglia era uno dei funzionari più conosciuti della Città Metropolitana di Palermo, rivestiva da anni la qualifica di istruttore specialista tecnico del Servizio rifiuti urbani e tributo speciale, un ufficio strategico per i controlli in materia ambientale. Nell’inchiesta è coinvolta anche la moglie del funzionario, a cui è stato notificato un divieto di dimora a Palermo: Maria Letizia Pollaccia deve difendersi dall’accusa di ricettazione, le viene contestato di avere gestito i soldi del marito. Provvedimenti di obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria sono scattati per otto imprenditori, le intercettazioni fatte dal nucleo di polizia economico finanziaria hanno svelato che pagavano pure loro le tangenti. In banconote (da 1.000 a 5.000 euro, in totale 15000 le mazzette accertate), il funzionario avrebbe preteso anche bottiglie di vino pregiato, lavori a casa e sull’auto. Gli imprenditori indagati sono Vincenzo Casesa (titolare di fatto dell’omonima ditta che si occupa di riciclaggio di rottami metallici), Paolo Venticinque (legale rappresentante della “Costruzioni Lavori Generali s.r.l.” di Termini Imerese, impegnata del recupero e riciclaggio di rifiuti solidi), Antonino Costanza (amministratore di fatto della Costanza srl di Termini, che si occupa della demolizione di carcasse), Francesco Claudino (rappresentante legale della “Sicilia recuperi srl”, che svolge lavori edili), Maria Rosaria Scalia, collaboratrice di Claudino, Rosario Di Fede (titolare di fatto della ditta della madre, “Autodemolizione Aquila”, che fa riciclaggio di rottami metallici), Antonino Prainito (referente della “Sicilbitumi srl” e Salvatore Montalto (amministratore di fatto del “Centro demolizioni Palermo”). Piacenza. Alle Novate si inaugura il Polo lavorazioni di Marco Belli gnewsonline.it, 14 maggio 2022 Si chiama “Le Novate al lavoro”, dal nome della strada che porta all’istituto penitenziario. E il suo logo racconta, graficamente, la volontà di tutto il carcere, del personale che vi opera così come della popolazione reclusa, di interconnettersi con la società e il territorio che lo ospita. È il Polo dedicato alle lavorazioni che è stato inaugurato questa mattina nella Casa Circondariale “San Lazzaro” di Piacenza. Un’area dell’istituto recentemente riqualificata grazie a un intervento di circa 30 mila euro, di cui la metà messa a disposizione dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nell’ambito dei fondi stanziati per gli spazi trattamentali e le attività lavorative in carcere. “Abbiamo fortemente voluto chiamarla così per esprimere sia lo spirito del work in progress che connota la dimensione operativa dell’organizzazione, sia la centralità del lavoro dei detenuti quale strumento di rieducazione e reinserimento sociale”, sottolinea con orgoglio la direttrice Maria Gabriella Lusi. Il Polo ospita al suo interno il nuovissimo call center del progetto “Work calls you”, attrezzato per ospitare 30 postazioni di lavoro. Si inizia con 10 detenuti che, dopo una accurata selezione svolta dall’equipe trattamentale e uno specifico percorso formativo, sono stati assunti da GFI Group, azienda che opera nel mercato delle telecomunicazioni e dell’IT. Alla cerimonia del taglio del nastro sono intervenuti, fra gli altri, il Direttore generale del personale e delle risorse del Dap Massimo Parisi, il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per l’Emilia Romagna e le Marche Gloria Manzelli, rappresentanti delle massime autorità locali e delle imprese del territorio. A breve le opportunità di lavoro professionalizzante nel carcere emiliano saranno ulteriormente ampliate grazie all’apertura del laboratorio dedicato alle trasformazioni agroalimentari. L’iniziativa si avvarrà della collaborazione della cooperativa Orto Botanico che si occupa già della coltivazione di fragole, sia in campo che in serra, che di altri ortaggi secondo metodologie all’avanguardia. Sei detenuti saranno a breve formati per poi essere assunti e lavorare alla trasformazione dei prodotti della terra in marmellate e conserve confezionate. Viterbo. Rose che sprigionano: attività artigianali per l’integrazione sociale garantedetenutilazio.it, 14 maggio 2022 Nove detenuti sono impegnati nel secondo laboratorio di lavorazioni tessili del Centro Studi Santa Rosa. Dopo il corso di formazione per volontari operanti negli istituti di pena, tenutosi in doppia modalità (in presenza e online) nei mesi di dicembre e gennaio, è ripreso per la seconda volta con le persone detenute nella casa circondariale di Viterbo il progetto Rose che sprigionano, attività artigianali per l’integrazione sociale attuato dal Centro Studi Santa Rosa (finanziato lo scorso anno dalla Regione Lazio con Dgr 829/2020). Questa volta l’attività interessa nove detenuti dell’Alta sicurezza ai quali quattro suore novizie e cinque volontari dell’associazione che impartiscono gli antichi saperi sulle lavorazioni artigianali tessili che possano garantire un accesso al mondo del lavoro, partendo dalle conoscenze e dalle pratiche che si svolgevano all’interno delle mura della clausura monastica. Proprio in tali luoghi, infatti, si realizzavano fiori di stoffa e reliquiari con tecniche che utilizzavano materiali di tipo diverso (carta, stoffa, legno, ecc.), di cui rimangono nel monastero di Santa Rosa di Viterbo numerose attestazioni tra manufatti e materie prime che consentono di comprendere le metodologie di produzione adottate. L’attenzione del laboratorio che si propone è focalizzata alla realizzazione di rose di stoffa. Esse potranno essere prodotte all’interno del carcere, utilizzando le tecniche antiche, per poi essere inserite nel circuito della produzione di oggetti devozionali legati al culto di santa Rosa, della finitura di abiti di sartoria e di complementi d’arredo. La rosa evoca la Santa viterbese, ma è anche simbolo di bellezza, cioè del motore che attiva quei processi che stimolano le qualità dell’essere umano che si gratifica attraverso il lavoro. Il laboratorio ha come scopo quello di arricchire la formazione personale del detenuto attraverso percorsi esperienziali con valenza socioculturale; ma anche quello di favorire la libera espressione del detenuto, coinvolgendolo in un’attività di studio e ricerca. Verona. Con il Progetto Esodo 10 anni di reinclusione sociale. Aiutate 3.550 persone agensir.it, 14 maggio 2022 Reinclusione sociale e lavorativa delle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna. Questa la mission del Progetto Esodo che, a 10 anni dall’avvio, attraverso un convegno ospitato questa mattina al Teatro Ristori di Verona e realizzato in collaborazione con Caritas Italiana e Fondazione Cariverona, ha voluto tracciare un bilancio delle attività fin qui svolte, gettare uno sguardo alle prospettive legate all’innovazione, al fare rete e alla sostenibilità del progetto stesso e presentare un modello operativo a disposizione di chiunque volesse adottarlo in altre realtà impegnate in questo settore. Il numero complessivo dei destinatari di interventi di inclusione sociale e lavorativa e? di 3.550 persone, così suddivise: 1.671 per il territorio della diocesi di Vicenza, 1.536 per quello della diocesi di Verona e 343 per Belluno-Feltre. Ad essi vanno aggiunti i primi interventi avviati a partire dal 2021 nelle altre due diocesi coinvolte, ossia 6 nel territorio veneziano e 1 nel territorio di Vittorio Veneto. I beneficiari sono nel 91% dei casi uomini e per il 9% donne; nel 47% dei casi si è trattato di italiani, per il 32% di persone provenienti da altri Paesi Ue e per il 21% da Paesi extra Ue. L’età media delle persone raggiunte e? di circa 40 anni sia per i maschi sia per le femmine. Le azioni di accoglienza residenziale in totale sono state 965 per un ammontare di 132.421 giornate di presenza nelle residenzialità. Ne hanno beneficiato 430 persone singole, pertanto la presenza media di ogni persona e? stata di 308 giorni. I percorsi di formazione professionalizzante sono stati complessivamente 2.223 ed hanno coinvolto 1.008 persone singole. 218 di queste hanno effettuato successivamente anche un percorso di inserimento lavorativo. Al termine del percorso 60 persone avevano un contratto di lavoro. I percorsi di inserimento lavorativo sono stati complessivamente 1.774 ed hanno coinvolto complessivamente 1.003 persone. 245 persone al termine del percorso di inserimento lavorativo avevano ottenuto almeno 1 contratto di lavoro. Taglio degli aiuti umanitari: è crisi sanitaria nel nord-ovest della Siria di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 maggio 2022 Negli ultimi dieci mesi, la riduzione di oltre il 40 per cento degli aiuti umanitari di natura sanitaria, conseguenza del taglio complessivo dell’assistenza internazionale alla Siria, ha aggravato la già profonda crisi nel nord-ovest del paese, che resta sotto il controllo del gruppo armato di opposizione denominato Hay’at Tahrir al Sham. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), alla fine del 2021 era stato garantito solo il 25 per cento dei fondi richiesti per il sistema sanitario siriano. La diminuzione delle risorse a disposizione ha messo in ginocchio gli ospedali e le altre strutture sanitarie. Il dipartimento della Sanità della provincia di Idlib ha reso noto che 10 dei 50 ospedali della zona, compresi quelli pediatrici, hanno terminato i fondi a disposizione per il 2022. Il risultato è che oltre tre milioni di persone (che nel 90 per cento sono sfollati interni, provenienti da altre zone di conflitto) non hanno accesso a servizi sanitari e cure mediche. Il tutto, dopo due anni di pandemia. Chi può, e comprensibilmente sono ben pochi in uno stato distrutto da oltre dieci anni di conflitto e in una regione dove - è bene sottolinearlo ancora una volta - si sono riversati quasi tre milioni di sfollati, ricorre ai servizi di sanità privata, distanti e costosissimi. Martedì, al termine della sesta Conferenza di Bruxelles sul sostegno al futuro della Siria e della regione, organizzata dall’Unione europea, la comunità internazionale si è impegnata a fornire quasi 6,4 miliardi di euro di aiuti in favore della popolazione siriana e degli stati confinanti con la Siria che ospitano rifugiati. Yemen. 3mila donne nelle prigioni Houthi futuroquotidiano.com, 14 maggio 2022 Appello Usa per porre fine alle pratiche scorrette e a rispettare i diritti dei detenuti. Un centro per i diritti umani ha rivelato che 3.000 donne detenute nella prigione centrale della capitale yemenita, Sana’a, che è sotto il controllo della milizia Houthi, sono state oggetto di gravi violazioni e viene impedito loro di ricevere visite e comunicazioni con le loro famiglie, parenti e avvocati. L’American Center for Justice (ACJ) ha dichiarato, in una nota, giovedì 12 maggio, di aver ricevuto un appello dall’interno del Dipartimento centrale della capitale, Sana’a, in merito al rifiuto delle visite e di consentire comunicazioni con le famiglie, parenti e avvocati da parte degli Houthi ai danni delle detenute. Ha sottolineato che ai detenuti è vietato incontrarsi con le organizzazioni e gli organismi che visitano il carcere, per vedere le condizioni di tutti in generale e delle detenute in particolare, e ricevono anche minacce di punizione o addirittura di reclusione. I detenuti sono oggetto di maltrattamenti simili alla schiavitù, come si legge nella lettera appello, e sono soggetti alle pene più severe e non legalmente giustificate. Ha anche sottolineato che sono oggetto di diffamazione, in quanto le loro famiglie ricevono notizie errate su di loro per spingerle ad abbandonare le figlie e a smettere di sostenerle o addirittura di visitarle, e questo è già successo a diverse famiglie mentre le madri sono state private dei loro figli. Umm al-Karar, la direttrice degli Houthi della sezione delle detenute donne, da quando ha assunto questa posizione, ha adottato una serie di misure arbitrarie contro le detenute, incluso quello di impedire loro di usare il telefono per comunicare con i loro parenti o avvocati tranne una volta alla settimana per un periodo di soli cinque minuti.