In prigione è finita pure la Costituzione di Veronica di Benedetto Montaccini The Post Internazionale, 13 maggio 2022 Carinola, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo e il letto. Quello che si legge nella relazione annuale dell’associazione Antigone sullo stato delle carceri sembra un dettaglio, invece non lo è. Dà la misura di cosa sia realmente il carcere e di quanto i bisogni elementari e i diritti fondamentali siano ancora mortificati e non tutelati. Immaginate la mortificazione della dignità quando si è costretti a mangiare e dormire nello stesso luogo in cui c’è water o toilette alla turca, quindi a vista. Come si può uscire migliori da posti del genere? Come si può parlare di rieducazione e rispetto della Costituzione? In Campania nello scorso anno si sono contati sei suicidi in cella su 57 a livello nazionale. Dopo l’istituto penitenziario di Pavia c’è quello di Avellino tra le carceri in cui sono avvenuti più casi di suicidio, tanto per tenere la lente puntata sulla situazione in Campania. L’Organizzazione mondiale della sanità ha accertato che il suicidio è una delle cause più comuni di morte all’interno delle carceri. Secondo statistiche recenti, i casi di suicidio nella popolazione detenuta sono di oltre 13 volte superiori a quelli registrati nella popolazione libera. Accanto a fattori personali, le cause sono da ricercarsi nel fatto che in carcere è più densa la presenza di gruppi vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. Quando si esce da questo quadro problematico, il tasso di recidiva è da record. Il 70 per cento degli ex-detenuti torna a delinquere. Solo 1 su 10 esce rieducato dal carcere, questo perché se per il 79 per cento dei reati non viene trovato il colpevole si considera che quest’ultimo con molta probabilità non sarà uno incensurato ma per la maggior parte delle volte sarà qualcuno che è già stato in carcere. Secondo Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, questi dati possono essere interpretati anche in un altro modo: “Quando si parla di recidiva lo si fa sempre per mostrare quanto sia stata inutile l’azione fatta all’interno del carcere. Ma va anche detto quanto è respingente la non azione al di fuori del carcere. La verità è che finché stanno dentro c’è ancora una qualche attenzione per i detenuti. Ma poi, una volta dimessi, per lo Stato non esistono più”. Come è successo per Giuseppe, 55 anni, 22 trascorsi in una cella del carcere Opera di Milano. Quando è uscito, nel dicembre 2019, non aveva né una casa, né un lavoro. La sua storia l’ha raccontata nella puntata del 23 settembre della trasmissione Radio Carcere, in onda su Radio Radicale: “Dormiamo nei sacchi a pelo sotto ai porticati, mangiamo alla mensa dei poveri, ci laviamo nelle docce comunali. Questa è la vita che facciamo. Veniamo abbandonati a noi stessi, sbattuti in libertà in un mondo completamente diverso da quello in cui vivevamo prima di entrare in carcere. E io ho ancora paura della libertà. Cammino per strada e ho paura, vado in metropolitana e ho paura, entro in un bar o in un negozio e ho paura. Ora capisco quelli che si buttano sotto a un treno o tornano a delinquere per passare l’inverno al caldo in cella. Se fuori è così, tanto vale starsene dentro”. Tutto questo costituisce anche un peso enorme sui bilanci statali che potrebbe essere fronteggiato riducendo anche solo dell’i per cento grazie al lavoro. Ma sono ancora troppo pochi i detenuti con un impiego. Dall’ultima relazione del Parlamento sul lavoro in carcere emerge che al 31 dicembre 2019 su 60.769 detenuti lavorano in 18.070, cioè il 29,7 per cento. Una percentuale misera che tra l’altro è aggravata dalla collocazione geografica delle carceri che offrono possibilità lavorative, concentrati tutti tra Milano, Padova, a Torino o a Roma, con pochissime altre eccezioni. Ad accompagnare i detenuti verso il reinserimento dovrebbero essere i Consigli di aiuto sociale e la Cassa delle ammende. Quest’ultimo strumento è stato istituito durante il ventennio fascista e finanziato da due fondi: il fondo patrimonio, che raccoglie le somme derivanti dalle sanzioni pecuniarie disposte dal giudice, dalla vendita dei manufatti realizzati dai detenuti e dei corpi di reato non reclamati; e il fondo deposito, che conta sui soldi delle cauzioni ordinate dai magistrati e gli averi che non sono stati chiesti indietro da chi esce dal carcere. Le risorse raccolte servono a finanziare progetti di reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, internati o persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Ma i reclusi che vengono davvero coinvolti in questi percorsi sono una minoranza. Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato dalla stessa Cassa delle ammende, al 15 gennaio solo 3.000 dei 9.000 destinatari individuati erano stati inseriti nel Programma nazionale per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale, che offre percorsi di formazione e reinserimento lavorativo per i detenuti ed è il più importante dei quattro programmi nazionali finanziati dalla cassa e dalle regioni. Gli altri tre riguardano le misure alternative alla detenzione, il lavoro penitenziario professionalizzante e l’assistenza alle vittime di reato. Ma in totale coinvolgono appena altri 900 detenuti. In pratica, scontata la condanna, per gli ex detenuti il reinserimento nella società può diventare molto difficile. Si ritrovano abbandonati dallo Stato, senza alternative e per di più in un mondo molto diverso da quello che avevano lasciato. Altro che rieducare: il carcere porta i condannati a tornare a delinquere di Luigi Manconi e Federica Resta The Post Internazionale, 13 maggio 2022 Ecco perché questo modello ha fallito. Paradossalmente, il criterio meno utilizzato nel dibattito pubblico per valutare il ruolo svolto dal carcere nelle società contemporanee è quello della sua efficacia. Nell’epoca del primato della performance, in cui tutto (e in particolare i servizi pubblici) viene misurato in termini di efficacia non ci si interroga, mai o quasi, sull’idoneità del carcere a perseguire lo scopo. Scopo che, per altro, è imposto a ogni pena dalla nostra Carta costituzionale: la rieducazione del condannato, sullo sfondo della tutela della sicurezza dei cittadini. E, invece, nulla più del carcere meriterebbe un’analisi in termini di utilità, se si considera che tra chi sconta la pena in una cella il tasso di recidiva è pari a circa il 68%, a fronte di circa il 20 tra le persone che accedono a misure alternative alla detenzione. Dunque, nonostante l’inidoneità del carcere a garantire la sicurezza dei cittadini riducendo, anzitutto, la tendenza a reiterare il reato, esso rappresenta, ancora oggi, l’istituzione centrale del sistema penale, cui il legislatore ricorre prioritariamente, riducendo spesso la questione sociale a questione penale e quella della violazione della dignità dei detenuti a questione di edilizia penitenziaria. Il diritto penale, esteso a dismisura nel nostro ordinamento, anche per reati privi di offensività a terzi, è così diventato, da Magna Charta del reo, risorsa politica straordinaria, alimentando quell’ipertrofia sanzionatoria di cui il sovraffollamento penitenziario è una delle espressioni forse più tragiche. E l’intollerabilità del carcere (in particolare) in Italia, oggi, è ormai riconosciuta e sancita dalla stessa legge, che sembra averne preso atto quasi come di una condizione inevitabile. Significativo, in tal senso, che dal 2014 si sia introdotto uno specifico rimedio risarcitorio in favore di detenuti e internati risultati vittime di trattamenti, appunto, inumani o degradanti. Benché l’uso simbolico del carcere non sia prerogativa esclusiva del nostro Paese, non in tutti gli ordinamenti esso ha l’indiscussa centralità che ha da noi. Confronto con l’estero - Si pensi, ad esempio, che se in Italia la maggioranza dei condannati sconta la pena in carcere (55%), in Germania ciò avviene solo nel 28% dei casi, nel 30 in Francia, nel 36 in Inghilterra e Galles. E che uno degli indici di recidiva più basso d’Europa (30-40% nei primi tre anni) è realizzato in Svezia, grazie soprattutto al lavoro all’esterno e al ricorso a pene non carcerarie. In Gran Bretagna e in alcuni Stati americani le attività rieducative sono state recentemente valorizzate addirittura attraverso i social impact bond, ovvero progetti d’investimento sociale basati sulla raccolta di fondi privati per programmi di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, con una remunerazione del capitale di rischio proporzionale al perseguimento del fine del reinserimento sociale. Nel 2017 sono stati comunicati i risultati della prima iniziativa inglese di questo tipo, il Peterborough Social Impact Bond, avviato nel 2010: il rischio di recidiva si è ridotto del 9% rispetto a un gruppo di controllo nazionale. Quella detentiva, insomma, è una pena inefficace rispetto al fine che dovrebbe perseguire (impedire la recidiva, riducendo il tasso complessivo di criminalità) e, anzi, spesso può divenire persino criminogena, non offrendo al condannato soluzioni di vita diverse dal tornare a delinquere. È quanto abbiamo argomentato nel libro “Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”, scritto dagli autori di questo articolo e da Valentina Calderone e Stefano Anastasia, per l’editore Chiarelettere, in libreria tra qualche settimana. Il carcere, dunque, non solo non è utile ma è addirittura dannoso per la sicurezza delle relazioni sociali. Quest’ultima “è più insidiata che garantita”, come scrisse lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel 2013, in un messaggio alle Camere: il carcere è una “realtà non giustificabile in nome della sicurezza”. E questo, non tanto e non solo per le caratteristiche contingenti del sistema penitenziario italiano, ma per la stessa natura di un’istituzione totale che si fonda, ineludibilmente, su un ossimoro: risocializzare desocializzando, responsabilizzare infantilizzando (si pensi alla “domandina” che veicola ogni richiesta del detenuto, dalla più minuta alla più rilevante), riducendolo in uno stato di minorità, in balia delle altrui decisioni, in un processo di spoliazione della persona non solo da ogni diritto, ma anche da ogni altro dovere che non sia la sola e indiscussa obbedienza. È dunque il caso di chiedersi se non sia strutturalmente incompatibile con la finalità rieducativa un’istituzione, come il carcere, che si riproduce deresponsabilizzando il condannato, separandolo da quel contesto sociale in cui dovrebbe essere reinserito e degradando quella soggettività che dovrebbe evolvere tanto da condividere principi opposti rispetto a quelli che l’hanno indotta a delinquere. Non è, forse, l’esatto opposto della risocializzazione la reclusione in luoghi definiti “se-cretae”, separati cioè dal resto del mondo, oltre che sottratti a ogni tipo di tutela e controllo esterno? “È del tutto illusorio pensare ad una risocializzazione attuata senza o contro l’intervento diretto e concreto dei consociati, o almeno della grande maggioranza di essi e degli enti locali”, scriveva Giancarlo Zappa nel 1984, cogliendo il punto di forza delle community sanctions, che nei Paesi anglosassoni hanno dato ottima prova di sé. Non solo così come appare oggi (il contenitore della marginalità sociale e del disagio psichico) ma come strutturalmente è, il carcere non garantisce nessuno. Le vittime restano sempre più sullo sfondo (dal processo all’esecuzione); la sicurezza collettiva non ne trae vantaggio; il condannato, quand’anche non acuisca, in quel degrado, la sua avversione alla legalità, ne esce deresponsabilizzato e incapace di intraprendere un sia pur minimo percorso di reinserimento sociale. Se la detenzione è essenzialmente spoliazione (di libertà, di affetti, di relazioni, di possibilità), essa non può tuttavia degenerare in un processo di reificazione, contrario a quel “senso di umanità” e a quella tensione rieducativa imposta dalla Costituzione, che rifiuta ogni visione deterministica in favore di un’irrinunciabile scommessa razionale sull’uomo. Un processo di spoliazione incapace di produrre reinserimento sociale del detenuto, adesione ai principi della convivenza civile e, quindi, di garantire la sicurezza collettiva impedendo o almeno riducendo la recidiva. Per questo il carcere va sostituito non solo nei fatti ma anche “sulla carta”, valorizzando la funzione rieducativa che deve permeare di sé l’intera vicenda penale: nel suo “contenuto ontologico, l’accompagna(..) da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (Corte costituzionale, sentenza 313/90). Il decalogo - La finalità rieducativa deve connotare, così, non solo le modalità di esecuzione della pena irrogata (che devono favorire il più possibile il reinserimento sociale), ma anche la scelta della sanzione da parte del giudice (che deve ricorrere a quella limitativa della libertà solo ove ogni altra prevista dalla legge sia inadeguata) e via via, a ritroso, la stessa definizione legislativa della tipologia di sanzioni previste per i vari reati, privilegiando il più possibile quelle che diano la possibilità concreta di poter rifiutare, consapevolmente e responsabilmente, l’illegalità. Ed ecco allora un ragionevole decalogo per un progressivo superamento del carcere, con la maggiore sicurezza per tutti che ne conseguirà: 1) depenalizzare, salvo per le violazioni più gravi di diritti e interessi fondamentali, tutto ciò che è possibile; 2) cancellare la “pena di morte occulta” (come Papa Bergoglio ha definito l’ergastolo) e ridurre le pene detentive; 3) diversificare il sistema delle pene, rendendo il carcere un’extrema ratio cui ricorrere solo nei casi di eccezionale gravità; 4) concentrare il processo penale su fatti realmente meritevoli di sanzione, anche attribuendo la capacità di estinguere il reato ad azioni (riparative, risarcitorie, ecc.) prestate dall’imputato in favore della vittima o della collettività, estendendo ulteriormente le previsioni in questo senso della “riforma Cartabia”; 5) ammettere la custodia cautelare solo in presenza di spiccata pericolosità dell’imputato, imponendo negli altri casi misure non detentive, di natura interdittiva, prescrittiva, pecuniaria; 6) potenziare al massimo le alternative al carcere, così da offrire a ogni detenuto una reale opportunità di reinserimento sociale; 7) garantire l’effettività dei diritti fondamentali dei detenuti e superare il “carcere duro” e i vari circuiti penitenziari differenziati; 8) umanizzare il carcere per quanto riguarda i luoghi e le funzioni che sopravviveranno alla sua abolizione; 9) mai più bimbi e minori in carcere: per questo alle madri di bambini sotto i 10 anni vanno riconosciuti sempre la sospensione dell’esecuzione della pena, l’assegnazione a case-famiglia e istituti analoghi; 10) garantire che nei confronti degli autori di reato affetti da disagio psichico, le misure di sicurezza detentive abbiano contenuto realmente riabilitativo. Dovremmo, in altri termini, promuovere sanzioni che, più e meglio di quelle detentive, responsabilizzino il condannato, gli consentano di porre rimedio alle conseguenze del reato (così soddisfacendo anche le esigenze della vittima) e di acquisire consapevolezza e rispetto per i principi fondativi di una società democratica. Dovremmo, insomma, iniziare a pensare - come scriveva Angela Davis - il “reato” come un “torto” e il “reo” come un debitore, il cui dovere umano e giuridico sia assumersi l’onere della riparazione e del rispetto delle regole che si è data la comunità. (A. Davis, “Aboliamo le prigioni”, Minimum Fax, 2022). È forse questo quel “qualcosa di meglio del diritto penale” (e certamente del carcere) cui alludeva Gustav Radbruch, nel bel saggio sull’ingiustizia legale. Che potrebbe oggi, benissimo, dare il titolo a una riflessione sul senso della pena e dell’istituzione penitenziaria. Il sistema carcerario italiano non è tutto da buttare: Bollate e Nisida sono modelli di successo di Veronica di Benedetto Montaccini The Post Internazionale, 13 maggio 2022 Al carcere la Costituzione assegna il compito di riabilitare e reinserire il reo in società. Perché ciò avvenga però i suoi spazi devono riempirsi di attività formative, lavorative e d’altro tipo. Quando ciò non avviene, oltre all’art. 27 della Costituzione, vengono violati i diritti individuali di cui ogni persona privata della libertà è detentrice. Così come li si violano quando le dimensioni e le condizioni di quegli spazi non rispettano i criteri basici di dignità. La situazione nelle carceri italiane è drammatica e non sembra esserci all’orizzonte un bagliore di cambiamento. Esistono però degli istituti detentivi in cui sembra che le cose possano andare diversamente. In cui il percorso di riabilitazione può compiersi. Si tratta di luoghi in cui si lavora per ridare dignità al detenuto e che permettono il pensiero di un’altra vita possibile. Il penitenziario di Bollate - Tra questi c’è il centro penitenziario di Bollate. In questa casa circondariale milanese - inaugurata nel dicembre del 2000 come Istituto a custodia attenuata per detenuti comune - il fine rieducativo della pena incontra l’imprenditoria e l’informazione. “In galera” è il nome del ristorante che nasce da un’idea di Silvia Polleri e che fa del carcere di Bollate un esempio virtuoso, “un modello da estendere a tutte le carceri d’Italia”, come disse Laura Boldrini durante una sua visita nel 2017. Perfetta incarnazione del finalismo rieducativo, è il primo ristorante mai aperto dietro le sbarre in Italia, in un contesto all’avanguardia dove da anni si rieduca praticando varie attività che vanno dalla musica alla cura dell’orto, dalla cura dei cavalli alla gestione della biblioteca. Il ristorante nasce per offrire ai detenuti, regolarmente assunti, la possibilità di apprendere la cultura del lavoro attraverso un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione che li mette in rapporto con il mercato. Il personale è formato completamente da carcerati e il menù comprende qualche piatto che ricorda ironicamente il tema della prigione come il risotto “evaso”. Ma non è tutto. Bollate ha dato vita anche a due progetti per raccontare la detenzione dall’interno: Carte Bollate, un bimensile diretto da Susanna Ripamonti dove una redazione mobile di 15-20 detenuti raccoglie idee, proposte, editoriali e cronaca da dietro le sbarre; e Tele Radio Reporter, laboratorio radiofonico che esiste da una quindicina di anni. “Il giornalismo - ci spiega il responsabile del progetto Tele Radio Reporter - diventa uno strumento di catarsi per i detenuti. Un modo per esprimersi e vedere un futuro, per vedersi da una prospettiva diversa, per immaginare una nuova vita. E con il microfono in mano si aprono, si ripensano e iniziano a percepire il tempo libero non come una tortura, ma come un momento importante per cambiare”. Progetti di reinserimento lavorativo e sociale, dimostrazione di come negli istituti penitenziari debbano valere non solo l’articolo 27 ma tutti i singoli principi statuiti dalla Costituzione, compreso il primo secondo cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il carcere minorile flegreo - Sull’isola di Nisida, un piccolo atollo appartenente all’arcipelago delle isole Flegree, sorge l’omonimo carcere minorile. Qui la vita scorre lontana dal contesto urbano, vuoi anche per la posizione sui cui sorge l’istituto: è difficilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. In macchina, dalla stazione di Napoli, ci si arriva in circa 40 minuti. L’isola e l’area che la attornia sono di rara bellezza, tanto che da anni si pianifica un trasferimento dell’istituto per far posto a impianti turistici. La struttura è composta da vari fabbricati, dislocati in una zona verde e a picco sul mare. Uno di questi ospita gli uffici della direzione e del personale amministrativo. In altri si trovano i reparti detentivi per ragazzi e ragazze. Al di fuori delle mura di cinta vi è poi la palazzina per i ragazzi in articolo 21, coloro che lavorano all’esterno e che si gestiscono in maniera più autonoma. Questa sezione può ospitare non più di sei ragazzi essendo composta da due camere grandi da tre posti ognuna. Oltre alle camere di pernottamento la sezione è composta da spazi per le lavorazioni e laboratori artigianali. Come riporta anche l’Associazione Antigone, “le celle sono ampie e luminose. I bagni sono in buone condizioni, ristrutturati di recente e acqua calda e riscaldamento sono sempre disponibili. Nelle stanze ci sono una tv, degli armadi e dei comodini. Le celle sono dotate anche dello spioncino che permette agli agenti di controllare. In un’ulteriore palazzina si svolgono le attività didattiche. Al suo interno si trova la biblioteca dell’istituto. È presente un teatro, voluto a suo tempo da Eduardo De Filippo, che però è chiuso per inagibilità. In ultimo, l’istituto comprende anche un edificio ulteriore, che ospita il Centro studi sulla devianza minorile, in origine animato da alcuni esperti in materia che svolgevano attività di ricerca e di analisi. Oggi, per mancanza di fondi, il centro ospita solo due studiosi”. “Nisida è un carcere molto trasparente dove i giovani detenuti svolgono diverse attività, specialmente nella ristorazione: pizzeria, rosticceria, pasticceria. Ma anche ceramica e giardinaggio”. A raccontarlo è Pietro loia, garante dei detenuti del Comune di Napoli, che spesso ha avuto modo di visitare l’istituto. “Da come ho potuto appurare è un carcere all’avanguardia. Su 10 detenuti che escono da Nisida, 7 si salvano”. Per un periodo di circa 4-5 anni l’istituto ha ospitato ragazzi con i quali era più difficile instaurare forme di dialogo e dare avvio a percorsi risocializzanti. Si trattava della cosiddetta generazione della “paranza”. Da circa un paio di anni questi ragazzi hanno lasciato l’istituto per fine pena o per essere trasferiti in istituti per adulti. “I ragazzi della “paranza” se vorranno potranno fare un percorso”, prosegue loia. “In nessun carcere c’è un percorso obbligatorio, è una libera scelta. Deve essere un cambio di mentalità. Attualmente a Nisida vanno ragazzi con reati gravi ma forse con una maggiore propensione al cambiamento. Di recente ho visitato la struttura e ho incontrato un ragazzo che era tornato solo per trovare il direttore. È uscito quattro anni fa, si è sposato e oggi lavora. Questo è ciò a cui bisogna puntare”. “Il carcere italiano è fuori da ogni legalità, il 41bis è una tortura democratica” di Luca Telese The Post Internazionale, 13 maggio 2022 Intervista a Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ribattezzata “la madrina delle carceri”. “Più che un soprannome è una medaglia. Sono i detenuti che mi chiamano così, oppure “Zia Rita”. Vanno bene entrambi: io non ho figli, ed è come se molti di loro, per me, lo fossero”. Perché ancora un referendum radicale sul carcere, ancora sulla custodia cautelare? “Perché dopo mezzo secolo abbiamo vinto tante battaglie, abbiamo costretto ad accorciare i termini della custodia, ma quell’abuso giuridico è ancora lì. E va abrogato”. Non esiste la reiterazione del reato? “Quasi mai. Questa valutazione viene usata, in combinazione con le altre, come strumento per infliggere una pena indebita: il carcere per chi non è condannato”. Lei vuol dire che i magistrati sono sadici? “Non necessariamente. Ma è molto comodo sbattere uno dentro per farlo parlare”. Non ha paura che dicano: i radicali aiuteranno i colpevoli a farla franca? “Per nulla. Noi siamo quelli che difendono i diritti di tutti, e in particolar modo di chi, accusato ingiustamente, si vede imposto il carcere preventivo. Ci sono mille ingiuste detenzioni all’anno”. Mi faccia un esempio. “Le basti sapere che molte persone fanno il 41-bis per anni in custodia cautelare. Per anni. Le pare possibile?”. Non dovrebbe accadere. “Ma accade. E io queste persone, quando entro nelle carceri, le trovo tutte”. Un regime durissimo. “In isolamento per 22 ore al giorno. Come si fa a non impazzire?”. Sulle 24 di una intera giornata. “Esatto. Tutta la vita, di fatto. Le uniche due ore fuori dalla cella - per chi è in quel regime - sono: un’ora d’aria, che fai con altri tre al 41-bis, e una di socialità con altri due al 41-bis!”. È un regime pensato, e giustificato, con l’esigenza di impedire i contatti dei boss mafiosi con l’esterno. “Primo: se sei in custodia cautelare, non sei condannato in via definita, quindi non puoi essere considerato “mafioso”. Secondo? “Se non puoi vedere nemmeno i tuoi parenti, non è prevenzione: è una “tortura democratica”. Noi radicali la chiamiamo così”. “Tortura” è una parola durissima. “Senza una sentenza che ti dichiari colpevole? Sa perché uso la parola “tortura”? Nel carcere di Badu ‘e Carros (a Nuoro, ndr) non hanno neanche la luce naturale in cella”. Ma questo non è previsto dal regime del 41-bis. “Però l’ho visto io, due giorni fa. Oltre alle grate, oltre alle sbarre, ci sono le “gelosie”. Prego? “Le “gelosie” davanti alle finestre delle celle: paratie metalliche con copertura a scaletta. Una ulteriore barriera verso la luce. E sa cosa accade poi?”. Lo posso immaginare. “I detenuti perdono la vista: cosa c’entra questo con la giustificazione che non devi far passare messaggi all’esterno?”. Lei sostiene da anni che questo carcere sia inutile. Provi a spiegare perché. “Il carcere italiano è fuori da ogni legalità costituzionale. Poi è criminogeno, perché forma i futuri delinquenti, invece che recuperarli alla vita civile”. Esiste in tutto il mondo… “Ma in pochi Paesi democratici è folle e privo di senso come le racconterò tra breve”. E questo - ammesso che sia vero - perché? “Perché a nessuno importa di cambiarlo. È un vecchio arnese che ha dimostrato la sua inefficacia sull’unica missione che dovrebbe assolvere: quella rieducativa”. Da quando i radicali si sono divisi, dell’enorme eredità politica pannelliana, Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, si è presa la parte più scomoda: la battaglia a difesa dei dimenticati. Un impegno svolto senza dubbio in maniera disinteressata, perché il suo partito non esprime più candidature da anni. In ogni caso il lavoro in carcere non regala consenso, ma comporta molte rogne. Come ha fatto a visitare i detenuti al 41-bis, visto che non è più deputata? “Ecco, almeno una cosa positiva posso dirla”. Cioè? “Questo è un merito del nuovo direttore del Dap, Carlo Renoldi: ci ha promesso che ci avrebbe dato questa possibilità e ha mantenuto la parola”. Sembra stupita. “No, sono riconoscente: nel mondo del carcere queste due condizioni - insieme, per giunta - non si verificano mai”. La prima volta di Rita Bernardini in una cella? “Nel secolo scorso”. Come? “Come si poteva fare allora: ero una giovane militante radicale, entravo come “assistente del deputato” Marco Pannella”. Fu uno choc? “Non ricorro alla retorica della “prima volta”. Il carcere stupisce e ferisce anche al quarantesimo anno che lo vedi: odori, voci, sofferenza”. Com’era entrare con Pannella? “Come giocare nel Napoli con Maradona. Ogni volta che Marco tornava dietro le sbarre partiva un’ovazione: “Mar-co! Mar-co!”. Perché era di casa? “Conosceva tutti. Aveva fatto qualcosa per tutti. Nelle carceri c’era sempre Radio Radicale accesa. E tanti che si iscrivevano”. Perché proprio voi? Ogni parlamentare può andare in carcere. “Sì, dal 1975, con la nascita della legge sull’ordinamento carcerario. Ma per noi era diverso”. In che modo? “Molti, tra gli altri partiti, andavano “dentro” per una singola battaglia, magari nobilissima. Altri per visitare qualcuno. Noi andavamo per tutti. Colpevoli, innocenti, belli o brutti. Per me è ancora questa la battaglia”. Un carcere dove sei stata di più? “Teramo. Con Marco era una visita periodica, come casa sua. Anzi. Credo che sia stato più tempo in carcere che dai suoi”. Lei stava per diventare Garante dei detenuti in Abruzzo. Sarebbe stato interessante. “Era un’idea di Marco, ci teneva. Prima tutti felici, poi mi hanno tenuto fuori con la scusa che sono una… “pregiudicata”. Spieghiamolo meglio: condannata per le sue battaglie di disobbedienza civile. “Guardi, al singolare: curiosamente ho avuto decine e decine di processi, ma una sola condanna trascritta nel casellario giudiziario mi ha tenuto fuori”. Che fa, si lamenta? “No, come Marco penso che un radicale, senza processi, non ha curriculum”. E allora cosa? (Ride). “Mi sono stupita di tutte le assoluzioni. Ho trovato magistrati garantisti”. Ma quella condanna la ricorda? “Sì, ma la più bella è un’altra”. Cosa aveva fatto? (Ride). “Ho messo un pacchetto di hashish in mano a Caselli”. Battaglia antiproibizionista: ma perché proprio lui? È sempre stato a favore. “Vero, ma con lui faceva più notizia. E infatti fu così. Le ho detto, è la scuola di Marco…”. Era impossibile non condannarla: c’era pure la scorta. “Accadde così: Caselli non è mai voluto venire a testimoniare contro di me”. Geniale. “Allora io ho rinunciato anche alla difesa”. Oddio. Ma perché? “Spirito di contraddizione pannelliano, gliel’ho detto! Condanna inevitabile”. Altri regalini a Caselli? “Sempre quel giorno, un libro del Cora, il nostro coordinamento sulle droghe, con la foto di Al Capone”. Mi immagino la faccia di Caselli “Fu molto cortese: “Non lo posso aprire io”, era per via della scorta”. La percentuale dei detenuti in attesa di giudizio cala… “Perché abbiamo fatto l’inferno. Era al 50%, ora è al 30%. Ma sono ancora troppi”. Facciamo cinque esempi facili per spiegare a chi non sa nulla del carcere cosa non funziona. “Tutto. Partiamo dalla mitica “domandina”. Ovvero dalla richiesta scritta che ogni carcerato deve fare per avere qualsiasi cosa, anche un rotolo di carta igienica… “La battuta più divertente è che per poter fare una “domandina” bisogna fare una “domandina”. Il dramma è che spesso è davvero così”. Spieghiamo perché andrebbe cancellata… “Le hanno cambiato nome, ma è una pratica medievale. Non ha una vera utilità: serve solo a far sentire il peso insostenibile della burocrazia carceraria anche per comprare un dentifricio. Che senso ha?”. E non è finita… “Molti non sanno che le celle sono piene di analfabeti. Quindi doppia condanna: se non sai scrivere non puoi avere”. Ci sono gli scrivani… “Esatto come gli scribi dell’antico Egitto. Una follia”. Altro esempio… “Al 41-bis ci sono persino delle afflizioni ridicole. Lo sa della calcolatrice?”. No, cosa? “Un detenuto, per studiare statistica aveva bisogno della calcolatrice che ha le funzioni complesse, le radici quadrate eccetera”. La calcolatrice scientifica? “Esatto. Per l’amministrazione carceraria non la puoi avere”. Ma perché? “Anche lei cerca un senso. Ma la prima regola è proprio il nonsenso. Certo non si evade con la radice quadrata!”. E lei che ha fatto? “Ho rotto le scatole. E alla fine mi hanno risposto: “Gliela diamo”. Ma se non c’eravamo noi?”. Me ne dica un’altra… “Questa è clamorosa. Al 41-bis di Viterbo hanno vietato ad un detenuto il libro della ministra Cartabia!”. Ma perché? “Questa è una perla. Il detenuto aveva sentito che era un libro sulla redimibilità di qualsiasi persona”. Capisco l’interesse… “Il Tribunale di sorveglianza glielo ha negato scrivendo - nero su bianco! - che quella lettura avrebbe accresciuto il suo prestigio nei confronti degli altri detenuti aumentando la sua capacità criminale!”. Ah ah ah… Non ci credo… “Sa in quante carceri si può telefonare “fuori” un solo giorno a settimana a un’ora definita?”. Senza senso… “Se quel determinato giorno, a quell’ora, tua moglie lavora, perdi il turno”. Ricordo un padre, a Rebibbia: il figlio ebbe un incidente di motorino il martedì, e dovette aspettare fino al lunedì successivo per chiedere notizie… “Le racconto altre due storie surreali: un detenuto di alta sicurezza in carrozzella è stato mandato al carcere di Oristano, dal carcere di Saluzzo, in Piemonte, perché lì c’è un centro clinico dove poteva fare terapia”. Ha senso… “Peccato che fosse chiuso! La fisioterapia non l’ha mai fatta”. C’è di peggio? “Un detenuto trasferito dalla Lombardia a Catanzaro perché lì poteva fare idrochinesi-terapia”. La riabilitazione in piscina? “Esatto. Ma la piscina non sarà mai aperta, perché non può avere l’agibilità”. Davvero kafkiana, anche questa… “C’è una definizione splendida dei detenuti”. Ricordiamola… ““Il carcere è quel luogo dove il facile diventa impossibile attraverso l’inutile”. Non c’è da aggiungere altro: radiocarcere docet”. “Da magistrato ho capito che il carcere non serve a niente” di Enrico Mingori The Post Internazionale, 13 maggio 2022 Gherardo Colombo, 76 anni, brianzolo, è stato uno dei più conosciuti magistrati dell’Italia repubblicana. Ha seguito inchieste che hanno fatto la storia del nostro Paese, dalla P2 a Mani Pulite. Ma nel 2007 si è tolto per sempre la toga, quattordici anni prima dell’età di pensionamento: “Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia”, spiegò. Nel 2011 ha scritto un libro dal titolo dirompente: “Perché il carcere non serve a nulla”. Poi ha firmato la prefazione di un altro libro, scritto da Luigi Manconi, che ci va ancora più pesante: “Abolire il carcere”. È un modo per liberarsi dal peso di tutte le persone che, da magistrato, ha fatto mettere in prigione? “No. Semplicemente, attraverso l’esperienza che ho vissuto da magistrato, a un certo punto sono arrivato alla conclusione che il carcere non serve a niente”. Si riferisce al carcere in generale o al carcere così com’è oggi in Italia? “Al carcere in generale”. E l’alternativa quale sarebbe? “Chi è pericoloso deve stare in un luogo dove sono rispettati tutti i suoi diritti che non confliggono con la sicurezza della cittadinanza. E deve starci solo finché permane la sua pericolosità”. E questo luogo in cosa sarebbe diverso da un carcere? “Nel fatto che non vi si sconta una pena, ma si previene l’esercizio della pericolosità. E che sono garantiti tutti i diritti che non confliggono con la sicurezza della collettività. Diritti che, invece, in carcere non sono garantiti”. Può essere più preciso? Pensa a un luogo senza sbarre? “Vada su Internet e cerchi le immagini delle carceri norvegesi. Ce n’è uno che è panottico come quello di San Vittore, ma non c’è paragone per come è attrezzato all’interno… Altri, come quello di Halden, ospitano qualcosa come 400 detenuti su una superficie di 157mila metri quadrati”. Le nostre carceri violano la Costituzione? “L’articolo 27 dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Sicuramente non corrisponde al senso di umanità far rimanere, per un minimo di 12 ore al giorno, quattro persone in una cella di 12 metri quadrati con due letti a castello per parte e con un corridoietto - chiamarlo bagno sarebbe fargli un complimento - in cui si trovano un wc o una turca e un lavandino che serve anche per fare da mangiare. Per non dire di tutto il resto”. Cos’altro? “Igiene, tutela della salute, istruzione, relazioni con il mondo esterno, affettività”. Intende dire che ai detenuti dovrebbe essere concesso di avere rapporti sessuali? “Intendo il diritto di avere rapporti intimi con il proprio partner. L’Italia confina con Francia, Svizzera, Austria e Slovenia: in Francia, Svizzera e Austria il diritto all’affettività esiste, in Slovenia non so, da noi no”. Lei non concepisce il carcere come punizione... “La punizione, ammesso e non concesso che educhi a qualcosa, serve ad educare a obbedire. Ma l’obbedienza e la democrazia non stanno bene insieme: in democrazia le regole si osservano per condivisione, non per obbedienza. La risposta alla trasgressione deve essere un percorso attraverso il quale si arriva a condividere l’idea che agli altri non si fa del male”. Obiezione: la sua teoria è perfetta in un mondo ideale, ma nella realtà ci si può trovare davanti a persone che non hanno tutta questa disponibilità a cambiare... “Se sono soggetti pericolosi, devono stare da un’altra parte, dove però sono tutelati tutti i loro diritti che non confliggono con la sicurezza delle altre persone. Ma se non sono soggetti pericolosi, allora non si capisce perché non dovrebbero essere riammessi alla collettività”. Lei ha dichiarato: “Credevo nel carcere, ma poi in 33 anni di professione ho cambiato idea: la pena non serve a dissuadere dal commettere reati”. Quand’è avvenuta la conversione? “Non sono stato folgorato sulla via di Damasco. È arrivata attraverso esperienze personali, attraverso la conoscenza di persone, la lettura di libri e così via… Questo cambiamento profondo ha cominciato a manifestarsi più o meno verso la fine del 2000”. Cosa è accaduto quell’anno? “Ho un ricordo precisissimo di una discussione animata che ho avuto con Adolfo Ceretti, uno dei padri della giustizia riparativa in Italia, durante un convegno delle Nazioni Unite a Vienna. Allora ero ancora dell’idea che il carcere servisse, per quanto anche prima per me fosse una sofferenza mettere in prigione le persone. Dopo il 2000, le esperienze professionali, insieme a letture ed incontri di persone che la pensavano diversamente, mi hanno portato a cambiare idea”. Sempre lei ha raccontato: “Ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio. Per fortuna il tribunale non l’ha inflitto. Oggi, se facessi ancora quel mestiere, un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale”... “In alcuni Paesi non c’è l’ergastolo. In Norvegia Andres Breivik, l’autore della strage di Utoya, è stato condannato a 21 anni di reclusione. Scontata quella pena, si verificherà se è ancora pericoloso e, se lo sarà, non verrà rilasciato”. Contrario anche all’ergastolo ostativo per i mafiosi? “Se per me è incostituzionale l’ergastolo tout court, a maggior ragione lo è quello ostativo”. Ma l’ergastolo ostativo è una peculiarità che risponde a un’altra peculiarità che abbiamo in Italia: la mafia... “Se c’è una persona la cui pericolosità impone di limitarne i contatti con l’esterno, allora quei contatti vanno limitati. Ma per quella persona lì, non per tutte le persone che hanno commesso quello stesso reato. Va considerata la singola persona”. Lei ha fatto parte del pool di Mani Pulite. A distanza di trent’anni, pensa che abbiate esagerato con la carcerazione preventiva? “Nei primi due anni abbiamo chiesto complessivamente circa un migliaio di ordinanze di custodia cautelare in carcere. Per le poche che sono state rifiutate, quando noi ritenevamo che fosse essenziale la custodia cautelare, abbiamo fatto ricorso in Cassazione: la Cassazione ci ha dato ragione. Significa che in tutti quei casi i requisiti previsti dalla legge sussistevano”. Quindi nessun eccesso? “Consideri che, solo a Milano, in quei due anni le persone entrate in carcere per altri reati saranno state almeno 9mila. Capisce le proporzioni? E i reati che noi contestavamo erano di una gravità eccezionale, si parlava di somme di denaro altissime per corrompere funzionari pubblici, per ottenere appalti… Sicuramente avremo commesso qualche errore, ma io guardandomi indietro non ne vedo. Vorrei ricordare che esistono regole sulla base delle quali applicare la custodia in carcere”. Sull’inutilità del carcere qualche suo collega non sarà d’accordo con lei... “Credo siano tanti, soprattutto se si occupano di penale. Se condividessero, avrebbero il problema di prendere decisioni conseguenti”. Ne ha mai discusso col collega Davigo? “Ci ho scritto un libro insieme”. Intitolato “La tua giustizia non è la mia”. Cosa pensa delle sue posizioni? Eccesso di giustizialismo? (Ride). “Non mi faccia litigare con Davigo… Lui pensa che si educhi attraverso la punizione, io invece penso che la punizione non serve a niente. Siamo su posizioni molto diverse”. La riforma Cartabia va nella giusta direzione? “Data la situazione politica, è assolutamente il meglio che si poteva fare”. Come voterà ai referendum sulla giustizia? “Devo ancora pensarci”. Anche sul quesito che riguarda la custodia cautelare? “Sinceramente non è che l’abbia capito fino in fondo”. Si propone di eliminare dai requisiti la reiterazione del reato... “Immagino che proprio fra coloro che vorrebbero eliminare quel requisito ci sarebbe qualcuno che poi si lamenterebbe dei borseggi in metropolitana”. La Consulta non ha invece ammesso il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati... “Il tema è serio, dovrei pensarci. Sono dell’idea che la responsabilità civile dei magistrati sia troppo poco agita. Lo dico anche sulla base della mia esperienza in Cassazione”. Gli ultimi due anni in magistratura li ha trascorsi al Palazzaccio... “Avevamo anche il compito di decidere sugli indennizzi per ingiusta detenzione. Ci trovammo a doverci pronunciare su alcuni casi che facevano davvero impressione. Ecco, che per casi come quelli nessuno sia responsabile secondo me non va bene”. “Le carceri sono palestre del crimine”: parla De Fazio, segretario della Uil-Pa Polizia penitenziaria di Lara Tomasetta The Post Internazionale, 13 maggio 2022 In cella circolano armi, telefonini e stupefacenti. I detenuti girano per i corridoi e ogni giorno si contano aggressioni agli agenti della penitenziaria. I sindacati accusano: “Questo carcere non rieduca”. Ma la ministra Cartabia non ha fatto nulla. E il Covid ha peggiorato le cose. Le carceri italiane come palestre del crimine: questo è ciò che pensa Gennarino De Fazio, Segretario generale del sindacato Uilpa della Polizia penitenziaria, dovendo tracciare un quadro della situazione negli istituti penitenziari italiani. Un’immagine sconfortante i cui problemi vanno ricercati prima di tutto nel sovraffollamento e nell’endemica mancanza di personale. La stessa ministra della Giustizia Marta Cartabia ha specificato che “su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329”. Una percentuale di sovraffollamento che arriva al 114 per cento e che “esaspera i rapporti tra detenuti”. Un problema che rende molto più difficile il lavoro degli operatori a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Nonostante questo, i numeri dei detenuti continuano ad aumentare e all’orizzonte non ci sono concrete soluzioni alternative al sistema vigente. Il carcere può avere una funzione educativa o riabilitativa? “Assolutamente no, neanche si avvicina a un qualcosa del genere, neanche ha la tendenza a rispondere all’art. 27 del dettato costituzionale rispetto alla finalità della pena. Tutto ciò, facendo salve pochissime eccezioni che non fanno altro che confermare la regola. Che poi serva come contenitore del disagio e come una discarica attraverso la quale si allontanano dalla società determinati tipi di elementi che possono essere tossicodipendenti, malati mentali, quello è un altro discorso, ma è qualcosa di diverso rispetto a quello che vorrebbe la Costituzione. Le carceri oggi sono la palestra del crimine, nel senso che specialmente dopo la condanna della Cedu all’Italia di qualche anno fa per trattamento inumano e degradante dovuto al sovraffollamento (che si sta ripresentando) per aggirare l’ostacolo si è fatto ricorso a un modello carcerario denominato sorveglianza dinamica, che però è stato pensato in un modo ma attuato in un altro. Quella che doveva essere una sorveglianza organizzata in un certo modo, anche mediante il ripensamento dell’organizzazione strutturale degli edifici e anche attraverso implementazione di nuove tecnologie, si è tradotta di fatto in un’apertura indiscriminata delle celle, cui ha fatto da contraltare una riduzione dell’organico della Polizia penitenziaria dovuta anche ai tagli della legge Madia. Per cui, di fatto, sono state aperte le celle dei detenuti indiscriminatamente, al di là di una vera selezione, senza una vera attività che li impegnasse nel tempo libero, senza alcuna sorveglianza. Questo ha prodotto dei traffici interni di sostanze stupefacenti, telefonini e armi, come abbiamo visto con la sparatoria di Frosinone. L’attuale procuratore antimafia Melillo dichiarò tempo fa in Commissione Antimafia che per quanti telefonini circolano nelle carceri neanche si procede più col sequestro. Questo è il quadro. Un sistema di questo tipo non può rieducare”. La riforma della Giustizia può cambiare qualcosa? “La riforma pensata dalla ministra Cartabia non incide in alcun modo sulle carceri, né direttamente né indirettamente. Con il venir meno della “prescrizione” non può che aumentare il sovraffollamento. Il Pnrr prevede solo 8 nuovi padiglioni, praticamente nulla, specie in una situazione di deficit organico di 18mila unità. Al corpo di Polizia penitenziaria, infatti, secondo uno studio fatto dall’amministrazione penitenziaria, rispetto all’organico presente oggi di 36mila unità, ne servirebbero ancora 18mila. Nell’ultima legge di Bilancio la ministra Cartabia ha dichiarato al question time che sono previste per tutte le forze di Polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria) 2.300 assunzioni spalmate in 10 anni, cioè fino al 2032. Di cosa stiamo parlando? Significa 50 assunzioni per corpo di polizia. Oltre che aprire i padiglioni si dovrebbe dire cosa si vuole fare lì dentro e con quale organico”. L’espressione “palestra del crimine” in che modo si evidenzia nella giornata tipo del detenuto e del poliziotto? “Non c’è una distinzione all’interno di quelli che dovrebbero essere i circuiti penitenziari richiamati dall’ordinamento, vi è un’assegnazione del tutto promiscua dei detenuti: nell’ambito di alta sicurezza, media sicurezza, 41 bis si trovano indiscriminatamente il delinquente, il tossicodipendente, il malato di mente, quello condannato con sentenza definitiva. Questo genera anche il proselitismo. La giornata tipo si svolge in questo modo: le celle dei detenuti vengono aperte a una certa ora, diciamo intorno alle 9 e poi vengono richiuse la sera, in tutto questo periodo o vanno a passeggio, o stazionano nelle sezioni aperte con scarsa sorveglianza, con una unità di polizia penitenziaria che deve controllare a volte centinaia di persone, spesso anche su piani diversi. Questa è la giornata tipo per il detenuto e di rimando per il poliziotto che spesso viene fatto oggetto di aggressione dai detenuti. Le aggressioni gravi sono 3 al giorno. Come sindacato abbiamo avviato una procedura di accesso civico per conoscere quante fossero state le aggressioni ad opera dei detenuti nel corso del 2021. Quante fossero state le sostanze stupefacenti sequestrate e quanti telefonini, armi. Rispondendo a questa procedura è stato detto che questi dati non possono essere forniti per motivi di sicurezza pubblica, perché potrebbero favorire rivolte da parte dei detenuti. Ossia, da quei dati emerge evidentemente una vulnerabilità del sistema e certificarla significherebbe far comprendere ai detenuti che possono fare come vogliono perché il sistema non è in grado di arginarli. Ma le aggressioni alla Polizia penitenziaria sono infortuni sul lavoro, non possono essere secretati”. Il caso di S.M. Capua Vetere è uno di quelli che resta nella storia. Di recente c’è stato il rinvio a giudizio di 107 persone. Come analizzate la situazione? “Da subito abbiamo detto che quello che è avvenuto è gravissimo e che chi ha sbagliato deve pagare, ma riteniamo che non sia un problema di mele marce ma di un sistema che non funziona. E non è più un caso isolato, su tutto il territorio italiano abbiamo diversi procedimenti penali che ipotizzano il reato di tortura: Torino, San Gimignano, Firenze, Monza. Per cui è evidente che c’è un sistema patologico. S.M.C.V. non nasce per caso, se si continua a non arginare le aggressioni ai danni degli agenti, se si continua a non arginare i traffici di droga, di armi, di telefoni interni alle carceri si alimenta un sistema che genera violenza, da una parte e dall’altra. E alla fine ci può essere la reazione inconsulta che non può essere giustificata in nessuno modo, ma che va messa in conto. È evidente che a S.M.C.V. sono successe molte cose tutte insieme che evidenziano l’inefficienza organizzativa. Si è parlato di linea di comando che non funziona, ma io chiedo qual è la linea di comando. A me pare che ognuno si alza e fa come vuole”. Sembra che non si voglia fermare questa escalation e che la Polizia penitenziaria covi disagio. “Dal suo insediamento, non c’è un solo atto della ministra Cartabia che afferisca al carcere. Il sottosegretario Sisto parla sempre di interventi mirati, non ne abbiamo visto uno. Intanto ci sono delle indagini in corso per cui si ipotizza che in passato i concorsi stessi per l’assunzione di personale siano stati inquinati per assumere unità indicate dalla criminalità organizzata. Si continua a lavorare senza programmazione ma in emergenza, si è rinunciato a fare formazione, né aggiornamenti professionali. I poliziotti vengono abbandonati a loro stessi. Da un lato ci sono le regole, dall’altro c’è l’organizzazione penitenziaria che le calpesta metodicamente. Abbiamo agenti appena assunti nelle scuole ai quali spieghiamo che ci sono delle regole come la divisa, poi però non gliela si dà”. Quanto guadagna un agente di Polizia penitenziaria? “Lo stipendio di un agente appena assunto si aggira sui 1.500 euro per 36 ore settimanali”. Il Covid quanto ha peggiorato la situazione? “Ha inciso tantissimo, lo dimostrano le rivolte nei vari istituti nel marzo del 2020 con 13 morti. Certamente l’aver reso più difficoltose le attività che davano comunque risposta all’esigenza di impegnare il tempo dei detenuti ha peggiorato la situazione, si è registrato un aumento oltre che dei suicidi anche delle malattie di ordine psichiatrico. Sia a carico dei detenuti che del personale. Si teme che la situazione in autunno possa di nuovo precipitare”. Cinquant’anni di amnistie e indulti. Ma i problemi restano irrisolti di Enrico Mingori The Post Internazionale, 13 maggio 2022 Inefficaci le misure adottate dalla politica. Lo dicono i numeri. Lo scorso gennaio la Corte europea per i diritti umani ha condannato l’Italia per il trattamento riservato a un detenuto con problemi psichiatrici, costretto alla reclusione in un carcere ordinario nonostante più tribunali ne avessero ordinato il trasferimento in un centro di cura: le autorità non sono state in grado di trovargli un’alternativa. Ma questo è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di sentenze europee che hanno bocciato il nostro sistema penitenziario, in primis a causa del sovraffollamento delle carceri. Se, come diceva Voltaire, “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, allora l’Italia non può ancora dirsi un Paese civile. Cinquant’anni di interventi legislativi - spesso emergenziali - non sono riusciti a realizzare pienamente quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Ancora oggi le persone recluse sono il 15% in più dei posti disponibili, e il tasso di suicidi dentro le carceri è di 13 volte più alto che all’esterno. Spendere soldi pubblici per migliorare le condizioni di vita dei detenuti non porta voti, e così - anziché allestire finalmente spazi adeguati e dignitosi per chi è recluso in carcere - la politica ha preferito limitarsi a provvedimenti di indulto e amnistia o a qualche timida depenalizzazione. E poca efficacia hanno avuto anche le misure per il reinserimento nella società dei detenuti, se è vero che il 62% degli attuali detenuti è recidivo. Ma qualcosa si muove. Alla fine dello scorso anno la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla ministra Cartabia e presieduta dal professor Marco Ruotolo, ha depositato una relazione che suggerisce 8 linee guida di intervento e 35 azioni amministrative. A cominciare da “uno stanziamento straordinario per l’adeguamento delle stanze e dei servizi igienici”, fino alla formazione del personale penitenziario, all’impiego di nuove tecnologie e alla “equiparazione del lavoro dei detenuti al lavoro delle persone libere”. La Conferenza Stato-Regioni punta al reinserimento: i dati sono un disastro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2022 “Linee di indirizzo per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio- lavorativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale”, sancito in Conferenza unificata e in Conferenza Stato-regioni del 28 aprile l’accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il governo e le regioni, l’attuazione di programmi di reinserimento per detenuti. Tali programmi consistono nell’attivazione di percorsi di inclusione lavorativa, di istruzione e di formazione-lavoro, anche prevedendo indennità a favore dei soggetti che li intraprendono, programmi di assistenza alle persone sottoposte a provvedimenti limitativi della libertà personale emanati dall’autorità giudiziaria, programmi di reinserimento sociale di tossicodipendenti, assuntori abituali di sostanze psicotrope o alcoliche, soggetti con disagio psichico, seguiti dai servizi socio-sanitari. Destinatari dei programmi sono i soggetti condannati in esecuzione penale, persone ammesse a sanzioni penali sostitutive, indagati o imputati con provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova, persone sottoposte a misure di sicurezza e, minorenni indagati e in misura cautelare. L’accordo prevede la stesura di appositi piani di azione e cabine di regia regionali, quest’ultime costituite dai direttori e dagli assessori regionali competenti, dal Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, dal direttore dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, dal direttore del Centro per la giustizia minorile, da un referente dell’Anci regionale o dal Consiglio delle autonomie locali. Alla cabina di regia, tra gli altri, sono invitati a partecipare il garante regionale dei detenuti e il garante comunale, ove presente. Nella stessa occasione è stato sancito l’accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali, sulla proposta del Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria concernente l’istituzione di strutture comunitarie sperimentali di tipo socio- sanitario a elevata integrazione sanitaria rivolte a minori e giovani adulti con disagio psichico e/ o abuso di sostanze. Il lavoro è uno dei pilastri del trattamento penitenziario. Ci viene in aiuto il XVIII rapporto di Antigone attraverso le analisi dei dati. Al 30 giugno 2021 sappiamo che i detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria erano 15.827 e Antigone può facilmente calcolare, usando come riferimento il budget per il 2021, che il loro costo lordo mensile si approssima a 621,4 euro. Questa copertura finanziaria - viene sottolineato nel rapporto - rende palpabile la problematica che in diversi istituti ci è stata rappresentata sull’impossibilità di garantire un lavoro a tutti i detenuti che ne avrebbero diritto e bisogno. Da questa situazione discendono due conseguenze: sia la rotazione periodica dei detenuti su lavori - come quelli domestici - per i quali non è prevista un’alta professionalità; e dall’altra anche la prassi più volte denunciataci di retribuire i detenuti per meno ore rispetto a quelle realmente lavorate. Al 30 giugno 2021 il numero complessivo di lavorazioni presenti negli istituti di pena era di 254 delle quali 244 erano quelle attive. Di queste 115 erano quelle gestite dall’amministrazione penitenziaria. In totale i posti di lavoro garantiti da queste lavorazioni erano 1.742 a fronte di un numero di posti potenziale di 2.142. Le tipologie di lavorazioni più diffuse sono: vivaio/ serra/ tenimenti agricolo/ allevamento (34 su 35 in attività delle quali 26 gestite dall’amministrazione), sartoria/ calzetteria/ maglieria con 31 lavorazioni attive e 24 di queste gestite dall’amministrazione, la lavanderia con tutte le 24 postazioni attive la metà delle quali gestite dall’amministrazione penitenziaria, pasticceria/ panificio/ pizzeria con 22 lavorazioni attive su 23 di cui 20 gestite da un’azienda/ cooperativa esterna, e ancora l’assemblaggio/ riparazione di componenti vari con 21 attività attive su 21, la stragrande maggioranza delle quali di cooperative/ aziende esterne. I detenuti occupati in ambito agricolo erano 304 di cui 129 nelle 4 colonie. Passando ai detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, Antigone rivela che al 30 giugno 2021 questi erano 2.130, rappresentando il 3,9% sul totale dei detenuti. Tra questi i semiliberi erano 677, le persone in articolo 21 erano invece 506, mentre lavoravano in istituto per imprese 160 detenuti e 777 detenuti lavoravano per cooperative. Alle imprese e società cooperative che assumono detenuti e internati sono destinati dalla c. d. legge ex Smuraglia gli sgravi fiscali e le varie agevolazioni previste anche dal bilancio. Nel 2020 il consuntivo del Ministero della Giustizia riporta a 10 milioni gli euro destinati per questi sgravi e agevolazioni. Facendo dei rapidi calcoli per ciascuno dei 2.130 detenuti sono stati stanziati circa 4.695 euro di sgravi e agevolazioni fiscali. E la formazione professionale? Un disastro. Antigone denuncia che l’offerta degli ultimi 25 anni si è ridotta in maniera significativa. Se nel 1996 riusciva a coinvolgere l’8,34% dei detenuti presenti, già dal 2016 non si riesce a raggiungere il 3% della popolazione reclusa. Il carcere non vale la pena e costa sempre di più, ma il 60% delle spese è per polizia e magistrati di Viviana Lanza Il Riformista, 13 maggio 2022 Lo Stato spende 164 euro al giorno per ogni detenuto. Il carcere non consente alcuna sicurezza sociale. Pensare che chiudere nelle strutture penitenziarie chi è accusato di reati possa rendere la comunità più sicura è soltanto un’illusione. Fior di studi hanno dimostrato che la recidiva è bassa tra coloro che hanno scontato una condanna con misure alternative ed è invece alta (anche fino al 70%) tra coloro che hanno vissuto la reclusione in carcere fine a se stessa, con pochi e sporadici percorsi di rieducazione. Basterebbero questi numeri, e gli esempi di sistemi penitenziari europei come quelli della Norvegia o della Spagna, per rendersi conto che il nostro sistema carcere è fallito. Eppure questo “fallimento” ci costa ogni anno milioni di euro. E ogni anno sempre di più. Per il 2022 la bozza del bilancio del Ministero della Giustizia aumenta di 124,4 milioni di euro i fondi a disposizione per l’Amministrazione penitenziaria, che passano da 3,1 a 3,2 miliardi. Nell’annuale rapporto sulle carceri l’Associazione Antigone affronta, tra gli altri, il tema dei costi del sistema penitenziario, un argomento sul quale nei dibattiti pubblici e politici si tende molto spesso a sorvolare. Leggendo, invece, i dati nel dettaglio ogni facile entusiasmo, di quelli su cui la politica punta quando ha interesse a fare colpo sull’opinione pubblica, si spegne. Più fondi per le carceri non significa affatto più investimenti per rendere finalmente le carceri un luogo più umano (e sarebbe pure ora, visto che l’Italia è stata condannata dall’Europa per il trattamento inumano e degradante dei suoi istituti di pena). Più euro per l’amministrazione penitenziaria non si tradurranno in maniera proporzionale in iniziative per fare più manutenzione delle strutture fatiscenti e per potenziare le attività di reinserimento?. Non è detto. Quel che è certo è che la spesa giornaliera per detenuto è in aumento rispetto agli anni scorsi: ammontava a 128,28 euro nel 2017 ed è salita a 164,33 euro nel 2022. Il carcere, quindi, costa alla collettività sempre di più, ma per non svolgere la sua funzione sociale e costituzionale. Assurdo, no? Di questi 3,2 miliardi che il Ministero mette in campo, 2 (quindi più del 60%) sono destinati al corpo di polizia penitenziaria. Cioè si continua ad investire sulla repressione, sulla reclusione finalizzata a se stessa. In particolare si investe anche su personale amministrativo e magistrati (quasi 30 milioni, +14,5% secondo i dati del report Antigone). Ora, è vero che ci sono nuove assunzioni di personale da fare ma perché far diminuire i fondi dedicati alla manutenzione ordinaria degli immobili e prevedere un incremento dei fondi per l’edilizia penitenziaria (passati da 127, 3 milioni del 2021 ai 203 milioni del 2022, sicuramente anche grazie al Pnrr ma per costruire qualche nuovo padiglione)? E ancora, perché far diminuire di quasi 6 milioni (-1,8%) il capitolo dedicato all’accoglienza, al trattamento penitenziario e di reinserimento delle persone sottoposte a misure giudiziarie, come emerge dal report di Antigone? A fronte di due milioni in più alla voce “Spese di ogni genere” riguardanti la rieducazione dei detenuti e quattro milioni per generiche “Altre spese” relative a mantenimento e assistenza dei detenuti, si trovano 15 milioni in meno destinati alla riqualificazione di impianti e attrezzature per le lavorazioni penitenziarie all’interno degli istituti di pena. “Una diminuzione che desta qualche preoccupazione”, commenta Antigone. Forse sui bilanci relativi alla giustizia in generale, e su quelli relativi al sistema penitenziario in particolare, bisognerebbe fare delle riflessioni in più. Basti pensare che la spesa legata ai ricorsi dei detenuti per le condizioni di detenzione in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel 2020 è stata di 617,5 milioni. Che le somme per i risarcimenti per ingiusta detenzione nei casi di errori giudiziari ammontano a 50 milioni di euro mentre le somme per la riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo, quindi per le lungaggini processuali, ammontano a 64 milioni di euro. Soldi della malagiustizia che gravano sulle tasche della comunità. soldi che potrebbero essere spesi per rendere tutto migliore. Anche le carceri. “Il mondo fuori mi fa paura. Vi prego, riportatemi in cella” di Rosaria Manconi* Il Riformista, 13 maggio 2022 La storia dell’ex detenuto, che ha bussato alle porte del carcere di Messina chiedendo di essere riaccolto, testimonia il fallimento di un sistema che dovrebbe tendere alla risocializzazione. Detenuti non si nasce, si diventa dopo avere elaborato la separazione dal mondo, dagli affetti, dalle relazioni e inizia la costruzione, dolorosa, della nuova identità che, per non andare in frantumi, dovrà adattarsi a una diversa dimensione e convivere e sopravvivere sino al momento in cui, forse, presto o tardi, le porte si riapriranno per tornare in libertà. Nel frattempo, prevede la legge e la Costituzione, il sistema penitenziario ha il dovere di assicurare quei percorsi tesi a restaurare il legame sociale interrotto con la commissione del reato e favorire il graduale reinserimento nella comunità attraverso un processo di autodeterminazione e responsabilizzazione che permetta al detenuto di riappropriarsi della vita. Senonché le cronache e le statistiche ci rimandano storie di recidiva e di smarrimento. Come quella dell’ex detenuto della Casa circondariale di Gazzi, a Messina, che in piena notte ha bussato al carcere chiedendo di essere accolto perché “spaventato dal mondo esterno”. Voleva tornare in cella: solo lì avrebbe potuto soddisfare i suoi bisogni primari: mangiare, dormire, lavarsi. Fuori non aveva trovato ospitalità e tantomeno lavoro. Una storia triste certo, ma che rappresenta il fallimento della società così detta civile, totalmente impreparata a ri-accogliere i suoi cittadini. Una storia di ordinaria disperazione che coinvolge la stragrande maggioranza dei detenuti, in particolare quelli che erano già poveri ed emarginati prima di finire in carcere. Spesso abbandonati dalle famiglie, privi di occupazione e di punti di riferimento, preferiscono la carcerazione a una libertà che non offre nulla. Quando il detenuto esce dal carcere dopo un lungo periodo di detenzione non è più capace di vivere all’esterno. Talvolta non conosce neppure il valore del denaro e non è in grado di svolgere le più elementari attività. L’uscita dal carcere è, per i più, stordimento, paura, incapacità di orientarsi all’interno di spazi troppo ampi rispetto ai quattro metri della cella. Nella casa di reclusione di Oristano Massama il tratto di maggiore sofferenza attiene proprio all’assenza di un percorso trattamentale sorretto da progettualità, iniziative culturali e formative e da quelle attività in grado di vincere la condizione di ozio forzato, annichilimento e solitudine in cui vengono costretti i detenuti. La distanza ideale e fisica con la comunità, la mancanza di rapporti con le Associazioni e le istituzioni che operano nel territorio - delle quali percepiscono l’indifferenza se non il fastidio - viene percepita come frustrazione di ogni possibile prospettiva di inclusione. Eppure il coinvolgimento del territorio nell’attuazione di diritti sarebbe il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale. Non assistenzialismo, ma impegno che è anche controllo in grado di accrescere e favorire la sicurezza. L’alternativa è quella di lasciare i detenuti nella loro condizione di isolamento e rassegnazione, abbandonarli alle loro esistenze sospese, al sovraffollamento strutturale, alla promiscuità, alla mancanza di intimità, ma soprattutto alla perdita di ogni speranza di recupero. Ed è proprio l’assenza di questa prospettiva, la mancanza di un senso della vita, l’inutilità del trascorrere del tempo la causa principale della maggior numero di suicidi e di atti di autolesionismo. Da qui l’urgenza di un’azione combinata fra comunità e struttura carceraria che consenta - in una sinergia fra Enti, Associazioni laiche e religiose, Istituzioni e singoli cittadini - di accompagnare il detenuto che ha scontato la sua pena nel cammino di recupero alla vita aiutandolo a orientarsi in una nuova realtà. Alla quale è del tutto impreparato per quel processo di infantilizzazione e regressione a cui viene sottoposto durante la vita inframuraria e che lo rende incapace di muoversi all’interno di spazi e condizioni sensoriali, lavorative, affettive oramai sconosciute. Solo con la partecipazione attiva della collettività ai progetti di reinserimento sociale sarà possibile realizzare la pienezza dei diritti della popolazione detenuta e la limitazione del ricorso al carcere. Un importante e non più rinviabile operazione culturale a cui tutti siamo chiamati in una prospettiva di “rieducazione” della società stessa e di formazione di una coscienza civica. *Presidente della Camera penale di Oristano Csm, riforma a rilento. Il 23 maggio il termine per gli emendamenti di Simona Musco Il Dubbio, 13 maggio 2022 Sarà probabilmente il 23 maggio l’ultimo giorno utile per la presentazione degli emendamenti alla riforma del Csm in Commissione Giustizia al Senato. Timing che, dunque, allunga i tempi previsti, andando ben oltre la data del 20 maggio, indicata inizialmente come dead line per l’approvazione finale. A stabilirlo, mercoledì, la conferenza dei capigruppo, dopo le tensioni registrate a Palazzo Madama per quello che sembrava un dilatarsi eccessivo dei tempi. Un problema evidenziato soprattutto dai senatori dem Franco Mirabelli e Anna Rossomando, che hanno chiesto chiarimenti sui tempi di approvazione e di trattazione del disegno di legge. La vicepresidente del Senato, in particolare, ha biasimato il “continuo slittamento dei tempi della trattazione: la prassi di rinviare gli interventi in discussione generale”, ha sottolineato, “finisce con il produrre effetti dilatori sul termine degli emendamenti”, motivo per cui insistito nel richiedere una fissazione del termine al più presto. Da qui la decisione di proporre il 23 come data, che ora sarà sottoposta alla ratifica della Commissione al termine della discussione generale, che avrà luogo presumibilmente martedì prossimo. In Commissione, intanto, sono andate in scena le prime audizioni sulla riforma. E tra gli auditi c’è stato anche il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che ha ribadito le ragioni del dissenso, sottolineando, in particolare, la contrarietà al fascicolo delle valutazioni. “Ci si dice che i magistrati non vogliono essere valutati - ha sottolineato -. Tutt’altro: noi vogliamo essere valutati, vogliamo però che le valutazioni siano rispondenti ai principi del rispetto della garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza valutative del magistrato. Il fascicolo c’è già, lo si vuole implementare: benissimo. Ma cosa si mette dentro questo fascicolo? Non si comprende. Probabilmente tutta la produzione annuale di un magistrato. Si finirà per mettere tutto per non leggere nulla. E questo secondo noi è un pericolo: vogliamo valutazioni serie e bisogna selezionare il materiale rilevante”. Mercoledì il sindacato delle toghe ha diffuso una nuova nota, chiarendo che la riforma “mette in discussione lo spirito del titolo IV della Costituzione, replicando per i tribunali gli errori di gerarchizzazione già commessi per le procure e confinando giudici e pubblici ministeri in due mondi separati e non comunicanti”. Una “logica aziendalistica” che mira “a un lento degrado antropologico della figura del magistrato, solleticato nelle sue più recondite inclinazioni impiegatizie”. La giornata di protesta, come noto, è già stata fissata per il 16 maggio, giorno in cui le toghe che aderiranno allo sciopero si asterranno dalle udienze. E in quel giorno, l’Anm di Roma e del Lazio ha indetto un’assemblea per spiegare le ragioni della protesta, aperta a magistrati, avvocati, giornalisti ed esponenti delle categorie della società civile. A dare manforte all’Anm anche L’Associazione nazionale magistrati amministrativi e l’Associazione magistrati della Corte dei Conti, che pur non essendo toccati dalla riforma condividono “le perplessità espresse dai colleghi”. La riforma, si legge in una nota trasmessa al sottosegretario Francesco Paolo Sisto, alla ministra Marta Cartabia e a Santalucia, rischierebbe di “ledere la garanzia costituzionale dei cittadini al buon funzionamento della giustizia”, affermano le rispettive presidenti, Gia Serlenga e Paola Briguori. Secondo cui “l’avanzamento dei magistrati slegato da criteri strettamente automatici ha già dato risultati abnormi negli anni passati; volerlo oggi ancorare anche al tasso di riforma delle decisioni adottate rischia di compromettere la libertà di convincimento e l’indipendenza del singolo magistrato, favorendo una pericolosa spinta alla verticalizzazione dell’intero plesso, senza apportare una reale utilità al funzionamento del sistema se l’obiettivo è - e non può essere diverso - garantire il cittadino”. Lo sciopero delle toghe rischia il flop: i vertici dell’Anm tremano di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 maggio 2022 Lo sciopero dei magistrati previsto per lunedì rischia di rivelarsi un clamoroso fallimento. C’è aria di flop nell’aria, e a confermarlo è anche la decisione presa a sorpresa mercoledì dalla giunta dell’Associazione nazionale magistrati di rivolgere un appello ai propri iscritti: “Noi siamo per lo sciopero!”, recita il documento, prima di ribadire le ragioni alla base dell’astensione e soprattutto invitare i magistrati ad aderire alla mobilitazione: “Nel rispetto delle sensibilità di ciascuno, dobbiamo testimoniare il ‘NO’ a questa riforma e abbiamo in questo, soprattutto oggi, un dovere di unità, dando orgogliosamente seguito alla volontà assembleare. Sì allo sciopero come gesto di solidarietà collettiva, come atto di coraggio in nome degli ideali in cui crediamo”. Una chiamata alle armi, che denota una preoccupazione palpabile nella dirigenza dell’Anm, presieduta da Giuseppe Santalucia: una parte consistente della magistratura appare intenzionata a non partecipare all’astensione del 16 maggio contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm, ancora in discussione in Parlamento. L’iniziativa rischia di rivelarsi un boomerang devastante per i vertici del sindacato delle toghe. Nel 2010 l’ultimo sciopero indetto dall’Anm, quello contro la manovra economica del governo Berlusconi, registrò un’adesione tra 1’80 e 1’85 per cento. Anche i quattro scioperi proclamati tra il 2002 e il 2005 contro la riforma dell’ordinamento giudiziario targata Castelli registrarono tassi di adesione molto elevati (alcuni addirittura oltre il 90 per cento). Questa volta, invece, ci sono magistrati che, in via riservata, rivelano il timore che si possa non arrivare neanche alla soglia del 50 per cento. In altre parole, una toga su due potrebbe presentarsi in ufficio per lavorare, contro le indicazioni dell’Anm. Si tratterebbe di un esito disastroso per i vertici dell’associazione, che a quel punto sarebbero costretti a prendere atto della distanza abissale che li divide dalla base e quindi a dimettersi. Le voci raccolte dal Foglio dagli uffici giudiziari sparsi per il paese sembrano confermare lo scarso entusiasmo della magistratura di fronte allo sciopero. C’è chi critica il momento scelto per l’iniziativa, con il testo di riforma ancora sotto l’esame del Senato. C’è chi concorda con le parole espresse a questo giornale dall’ex presidente dell’Anm, Pasquale Grasso: “Dovremmo scioperare per una riforma tutto sommato di bandiera, che concretamente non porterà nulla di positivo al paese ma neppure sconquasserà la magistratura, quando siamo ai minimi storici di credibilità? Non sono per niente d’accordo”. C’è chi rifiuta la logica di scioperare “turandosi il naso” per non far apparire l’Anm divisa all’esterno. C’è chi rivela di aver già programmato riunioni in ufficio per lunedì e di aver ricevuto dalla maggioranza dei propri colleghi la conferma della loro presenza. C’è chi riferisce che anche altri ex prestigiosi presidenti dell’Anm sarebbero intenzionati a non aderire allo sciopero proclamato dai loro successori. Mentre un giudice milanese arriva persino a vagheggiare un passo indietro in extremis dell’Anm sulla mobilitazione (scelta che, piuttosto che permettere ai dirigenti di salvare la faccia, trasformerebbe la vicenda in farsa). Ad ogni modo, dovesse scioperare anche soltanto la metà degli ottomila magistrati italiani, nella giornata di lunedì si registrerà un rallentamento significativo della già letargica macchina giudiziaria (sono esclusi ovviamente i processi urgenti, ad esempio quelli che coinvolgono detenuti). Uno scenario che, visti gli arretrati prodotti nelle aule di giustizia dalla lunga emergenza pandemica e le tensioni ora determinate dalla guerra in Ucraina sul piano politico ed economico, il paese si sarebbe potuto risparmiare. Referendum, Piepoli e Mannheimer: “Gli italiani brancolano nel buio e non voteranno” di Alessandra Parisi Secolo d’Italia, 13 maggio 2022 Sarà una débâcle annunciata. La partecipazione popolare ai referendum in materia di giustizia (che si terranno il prossimo 12 giugno) sarà ai minimi storici. Il termometro in vista dell’appuntamento con le urne viene da Nicola Piepoli. Che sottolinea come gli italiani “ne sono a conoscenza marginalmente e non andranno a votare”. “I referendum costeranno tra i 500 e i 700 milioni di euro. Un’ottima creazione di Pil. Gli italiani non andranno a votare. I quesiti saranno nulli”. Non usa giri di parole il noto sondaggista che, all’Adnkronos, annuncia le sue nere previsioni. Denunciando il relativo spreco di soldi pubblici. Sui 5 referendum abrogativi in materia di giustizia (elezione del Csm, separazione delle carriere dei magistrati, incandidabilità dei politici condannati, custodia cautelare e consigli giudiziari) il presidente dell’Istituto di rilevazioni statistiche Piepoli, non ha molti dubbi. “I referendum sono un modo per far girare soldi, sono un’ottima fonte di spesa”, dice. “Ci sarà una bassa percentuale degli elettori che si recheranno alle urne. Ma tra allestimento dei seggi, costi per schede elettorali e trasferimento delle stesse, si spenderanno centinaia di milioni di euro che sono fatturato prodotto per il Paese”. Una bocciatura totale senza appelli. Lo strumento referendario, su una materia così specifica e tecnica, non ha molte chance di ‘vittoria’. Non è molto diverso il giudizio di Renato Mannheimer. “Alcuni recenti sondaggi hanno mostrato che solo il 30% degli italiani è a conoscenza dei referendum abrogativi in tema di giustizia. Ed è perfino una cifra esagerata. Perché in quella percentuale va considerata la quota di chi, malgrado non ne sia affatto a conoscenza, dichiara invece di esserne al corrente”. Così il sondaggista in merito aui quesiti, promossi da Lega e Radicali. “A meno di una campagna elettorale molto intensa e forse inaspettata, gli italiani non andranno a votare”, aggiunge Mannheimer. “Là dove si svolgono le amministrative, ci sarà probabilmente una bassa affluenza tipica delle comunali. Ma là dove non si terranno, l’assenza di notorietà e anche la difficoltà di comprensione dei quesiti per quei pochi che ne sono al corrente porteranno a una affluenza ancora più bassa”. Referendum, il fronte del No: asse Pd-M5S di Valentina Stella Il Dubbio, 13 maggio 2022 Il magistrato che presiede il Comitato per il Sì ai referendum aveva detto: “La precondizione perché i cittadini si esprimano è che si abbatta quel muro di silenzio che sino ad ora c’è stato sulla campagna referendaria”. Ebbene, sembra che in molti li abbiano letti e ascoltati, perché i partiti hanno ufficialmente schierato le truppe sui due fronti, e rotto questo maledetto silenzio. Lo si evince chiaramente leggendo il calendario delle Tribune di confronto organizzate da Rai Parlamento in questi trenta giorni che ci separano dall’appuntamento del 12 giugno, quando gli italiani saranno chiamati alle urne per le Amministrative e, appunto, per i referendum. Proprio ieri la Rai, tramite un comunicato, ha reso noti i dettagli: “45 confronti tv su tutte e tre le reti generaliste, altrettanti spazi radiofonici e 20 contenitori per i messaggi autogestiti. Due appuntamenti pomeridiani al giorno dal 16 maggio al 10 giugno, 5 anche serali nelle ultime due settimane”. A esprimere le posizioni del Sì e del No saranno rappresentanti delle Regioni che hanno promosso i referendum, i vari Comitati e le forze politiche, secondo criteri e regole stabiliti dalla Commissione parlamentare di Vigilanza. Le Regioni le conosciamo e sono: Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto. Sono quelle che hanno permesso a Matteo Salvini, con le loro ordinanze di sostegno ai referendum, di non consegnare le firme in Cassazione. Riguardo ai partiti, vediamo la maggioranza di governo spaccata. Sul fronte del Sì troviamo ovviamente la Lega insieme a Forza Italia e Italia Viva, mentre sul fronte del No, ecco Partito democratico e Movimento 5 Stelle. Dall’opposizione, Fratelli d’Italia sosterrà il Sì su 3 quesiti: candidature Csm, separazione funzioni e diritto di voto dei laici (avvocati e universitari) nei Consigli giudiziari, mentre farà campagna per il No in merito agli altri due. Dunque Salvini non è riuscito a convincere Giorgia Meloni ad appoggiare anche quello sulla custodia cautelare, che non piace neanche tanto ai suoi, e il referendum sulla legge Severino. Tuttavia il deputato di FdI Federico Mollicone ha annunciato, durante la conferenza stampa organizzata dal Comitato per il Sì, che, in quanto membro della Vigilanza Rai, presenterà “un question time per chiedere che si parli del referendum anche nei talk show di prima e seconda serata”. Insomma, almeno un ulteriore impegno sul piano del metodo. Il gruppo Misto, alla Camera e al Senato, si divide invece tra favorevoli e contrari, Coraggio Italia interverrà per difendere solo quelli su carcere preventivo, separazione funzioni, voto dei laici. Il Pd, per sostenere le ragioni del No manderà sulle reti pubbliche due big: Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del partito, e il deputato della commissione Giustizia Walter Verini. Il messaggio che lanceranno sarà quello del No, non quello dell’astensionismo, per rispetto dello strumento referendario, come più volte ribadito. Va ricordato che tra i dem non tutti sono sulla posizione ufficiale. Una piccola fronda composta da Enza Bruno Bossio, Stefano Ceccanti, Fausto Raciti, Goffredo Bettini, Giorgio Gori, Gianni Pittella, Massimo Smeriglio, Luciano Pizzetti è favorevole totalmente o parzialmente al pacchetto referendario. Le tribune con l’Ocf - Tra le realtà extrapartito che si metteranno in gioco, nei dibattiti televisivi, a sostegno del Sì c’è, come è noto, anche l’Organismo congressuale forense, che ha ottenuto un notevole riconoscimento politico per il fatto stesso di essere ammesso nelle tribune referendarie, sia dalla Vigilanza Rai che, per le private, dall’Agcom. Ocf parteciperà, in particolare, a tre confronti programmati su Rai Due il 23, 24 e 26 maggio (alle 18.20), riservati rispettivamente ai quesiti su Severino, carriere e custodia cautelare. L’Organismo dell’avvocatura sarà poi su Rai Tre (alle 15.20) il 26 maggio per la tribuna sulle candidature al Csm e il 10 giugno, ultimo giorno di campagna, per il dibattito sul diritto di voto nei Consigli giudiziari. Coincidenza fortunata: le date dei confronti sono state individuate dalla Vigilanza per sorteggio, ed è importante che gli avvocati siano coinvolti nella tribuna che li riguarda direttamente proprio a ridosso del voto. Non è finita qui, perché Ocf interverrà su Rai Tre anche con i videomessaggi negli spazi autogestiti, mentre sono già pronte le interviste ai rappresentanti dell’Organismo su Sky e Tv8. In pochi sono già informati - Tutto questa panoramica cosa ci dice? Secondo il sondaggista Renato Mannheimer “meno del 30% degli italiani è a conoscenza dei quesiti sulla giustizia. Ed è perfino una cifra esagerata: la percentuale include anche chi, malgrado non ne sia affatto a conoscenza, dichiara invece di esserne al corrente”. Quindi Lega e Partito radicale sanno benissimo che la strada per il quorum è in salita ripida: ma questo schieramento dei partiti sul No può solo giovare allo scopo, ravvivando il dibattito e stimolando le coscienze. Nella più famosa delle sue Prediche inutili Luigi Einaudi poneva una domanda tuttora fondamentale: “Come si può deliberare senza conoscere?”. È quindi auspicabile che i cittadini spronati dall’informazione che verrà da tribune Rai, tv private - e, si spera, da tutta la stampa oltre che dai social di tutti i partiti - ritrovino l’impulso alla partecipazione diretta che forse hanno perso quando la Consulta ha bocciato i quesiti ‘portagente’: quelli su responsabilità dei magistrati, eutanasia e cannabis. Referendum, Musolino: “I problemi non si risolvono con un istituto così tranciante” di Gisella Ruccia Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2022 Si avvicina il 12 giugno, giorno in cui si voterà sui 5 referendum abrogativi relativi alla giustizia. Su tre dei quesiti referendari promossi dalla Lega e dai Radicali ha espresso la sua posizione Stefano Musolino, sostituto procuratore della Repubblica a Reggio Calabria e segretario di Magistratura Democratica. Ospite del Tg Plus di Cusano Italia Tv, il magistrato smonta, in primis, il quesito sulla custodia cautelare, misura di cui, a detta dei promotori del referendum, si fa abuso in Italia: “Le statistiche non dicono affatto questo. E, in ogni caso, se questo fosse il problema, un quesito siffatto non ridurrebbe l’uso della carcerazione preventiva, ma la anestetizzerebbe in maniera totale. Purtroppo la cronaca è piena di femminicidi in questo periodo e di vari crimini frutto di condotte seriali, che - continua - non potrebbero essere più contenuti con una custodia cautelare, se venisse eliminato il pericolo di reiterazione del reato. Se allora c’è un’esigenza di questo tipo, non può essere curata attraverso un referendum che è un istituto tranciante. Credo che eliminare completamente il reato di reiterazione metta seriamente a rischio la sicurezza di tantissime persone. Spero che il Comitato del Sì dica una cosa ragionevole a riguardo”. Critico il giudizio di Musolino anche sul quesito referendario relativo alla separazione delle carriere, la cui ratio, secondo i promotori, sarebbe quella di contrastare il passaggio del magistrato dalle funzioni giudicanti a quelle inquirenti, “perché sarebbe capitato anche nel corso dello stesso processo”. “Questa è una sciocchezza - commenta il magistrato - Non esiste che una parte passi da pm a giudice nello stesso processo. Raccontare un’altra versione dei fatti per acquisire consenso è proprio folle. In più, quello che in questo quesito non si considera è che un pm inserito nell’ordinamento giudiziario garantisce meglio i diritti di tutti a partire dalle indagini preliminari. L’obiettivo del pm non è sconfiggere l’indagato, ma fare una indagine il più completa possibile per arrivare a una sentenza che tenga conto di tutti gli elementi raccolti intorno a quella fattispecie di reato. Togliendo il pm dalla giurisdizione, invece, lo si schiaccia nella prospettiva della polizia giudiziaria, nel senso che il pm si trasforma in una sorta di avvocato della polizia giudiziaria, con una drastica riduzione dei diritti dei cittadini e delle parti coinvolte nel processo”. Anche il quesito sulla legge Severino trova la contrarietà del magistrato, che con un sorriso rassegnato osserva: “Effettivamente abbiamo un problema reale che è stato creato dalla politica: il Parlamento, in un momento in cui si è sentito particolarmente debole, ha pensato di affidare alla giustizia il compito di stabilire chi fosse degno e indegno di fare politica. La legge Severino obiettivamente, consentendo a una sentenza di primo grado di poter determinare le sorti di un amministratore pubblico, ha in sé un vulnus serio ai diritti delle persone che sono state elette, perché una eventuale inidoneità dovrebbe essere valutata soltanto dopo che la sentenza è passata in giudicato. Il punto - sottolinea - è che l’intervento referendario vuole abrogare non solo questo, che io riconosco come problema, ma tutta la disciplina e quindi anche quella che regola l’ineleggibilità di persone condannate per reati gravissimi: terrorismo, mafia, estorsione aggravata, corruzione, concussione. E questo vale per tutti, cioè non solo per quelli condannati in primo grado ma addirittura per i condannati con sentenza passata in giudicato per gravissimi reati”. Musolini ribadisce: “Ancora una volta l’istituto referendario non si mostra idoneo a distinguere con la giusta discrezione e attenzione quello che va tolto perché non va e quello che va mantenuto perché è efficiente. Con questi quesiti referendari si mira a togliere tutto e, quindi, ad esempio, a Reggio Calabria, dove vivo, potremmo avere come candidato sindaco un boss della ‘ndrangheta già condannato per via definitiva. Non mi sembra un gran risultato”. Nino Di Matteo. Una certa idea di giustizia di Luigi Manconi* La Repubblica, 13 maggio 2022 Uno dei pm più famosi d’Italia e un politico da sempre schierato per il garantismo. Dialogano su ergastolo ostativo, pentiti, boss. Senza essere (quasi) mai d’accordo. Tra Nino Di Matteo e me corre uno spazio di dissenso talmente profondo che capita di chiedermi: ma perché mai siamo ancora qui a cercare di intenderci? Quel dissenso si concentra su una questione che, per lui, rappresenta la vita e la professione e un motivo di perenne angoscia. Per me, una passione civile e politica: la giustizia. Sul tema il procuratore Di Matteo e io fatichiamo a trovare anche solo il più esile punto di condivisione. Eppure almeno uno, lo scopriamo proprio intorno al più radicale dei temi, così sintetizzabile: c’è redenzione per il mafioso? Il suo autorevole collega, Giancarlo Caselli, in un’intervista radiofonica ha affermato che “il mafioso resta sempre mafioso”, dal momento che “chi come i mafiosi, ontologicamente non si pente, non ha nessuna intenzione di reinserirsi nella società”. Lei, che condivide con Caselli la fede religiosa, sottoscrive il giudizio sul mafioso che resta sempre mafioso? “Io penso che il mafioso può redimersi e cambiare vita. Anche se non è mio mestiere indagare sulla coscienza del mafioso, talvolta, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a qualcosa di molto simile a un ravvedimento morale. Ma penso anche che la premessa ineludibile sia la rottura esplicita e ben visibile del legame associativo”. Questo significa giustificare l’ergastolo ostativo, ovvero il mancato accesso ai benefici e alla liberazione condizionale, qualora non vi sia collaborazione con i magistrati... “In teoria il mafioso può cambiare anche se non ha prestato collaborazione, ma nella realtà, l’unico vero modo di recidere il vincolo criminale è una presa di posizione pubblica che lo renda inaffidabile agli occhi degli associati”. Sono quasi 1.500 i detenuti in ergastolo ostativo, ovvero destinati a restare in carcere fino alla morte. E mi sembra illegittimo far dipendere il giudizio su ciò che la Costituzione chiama “rieducazione del condannato” da un atto tassativo quale la collaborazione. È evidente, infatti, che il mafioso potrebbe non avere nulla da riferire o correre un rischio troppo alto per sé e i familiari qualora lo facesse; o, ancora, la sua testimonianza potrebbe non aggiungere alcunché a quanto già acquisito... “Ma io continuo a pensare che se non recide il vincolo con un’esplicita scelta di campo, è alto il rischio che possa rimanere per sempre legato alla criminalità”. Dopo che la Consulta ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’ergastolo ostativo, il Parlamento sta elaborando una soluzione di compromesso, a mio avviso negativa. Quasi per riscattare quella che era apparsa a molti una sconfitta del cosiddetto fronte Antimafia. E qui vale la pena fare un ripasso. A sfogliare Wikiquote - l’archivio delle citazioni dell’enciclopedia on-line - alla voce “sconfitta” si trovano frasi celebri, in prevalenza assai mediocri. Ma, poi, ecco una citazione di Alberto Moravia: “La sconfitta non rende ingiusta una causa”. Semplice, no? Questa sembra essere l’autocoscienza di Di Matteo, quando riflettiamo su quella che appare a me - e a molti - una vera e propria débâcle: la sentenza della Corte d’Assise d’Appello del 23 settembre 2021 che ha ribaltato il verdetto di primo grado del processo detto della “trattativa Stato-Mafia”. Quel giorno gli telefonai, mentre lo pensavo assediato dai dodici uomini della scorta, una moltitudine di giornalisti e una schiera di colleghi. Alla fine, rispose e io: “Ricorda la lezione Zen: comunque vada, deve rimanere sereno”. La premessa implicita era che la sentenza sarebbe stata accolta in maniera totalmente diversa da lui e da me: se lui ne avesse gioito io me ne sarei rammaricato. E viceversa. Poi, si sa come è andata e ho immaginato Di Matteo che, nel momento del massimo sconforto, pensa ai suoi “giorni felici”. Così mi viene di chiedergli di quelle tante cittadinanze onorarie ricevute... “Tra quelle che ho accolto direttamente, partecipando alle cerimonie e quelle che mi sono state comunicate, ne ho contate una trentina. Ricordo la prima, presso il consiglio comunale di Modena: alta intensità emotiva, gran folla, importanti momenti di solidarietà in una fase particolare della mia vita, quando venne scoperto quel carico di tritolo destinato alla mia persona. Ma non mi sono mai sentito né una celebrità né un leader, bensì un semplice magistrato apprezzato da una parte significativa dell’opinione pubblica, in particolare quella più giovane”. Ma rispetto a tutto ciò, cosa si prova quando una sentenza mette radicalmente in discussione il suo lavoro e ne certifica quello che, in termini mediatici, possiamo chiamare un fallimento? “È difficile credermi, ma non ho vissuto la sentenza di assoluzione come un fallimento e prima non avevo sentito come un mio personale successo le condanne del tribunale. Certo, ho condotto quella inchiesta con molta partecipazione e ho provato soddisfazione nel contribuire a far emergere responsabilità e crimini, anche istituzionali, connessi alle stragi mafiose del 1992-’93. D’altra parte, neppure la sentenza di appello ha messo in discussione molti dei fatti accertati dalla Procura, nonostante l’assoluzione di Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno”. E prima ancora quella di Mannino... “Voglio dire che, a esempio, la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi del Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale - anche in relazione alla lunga latitanza di Bernardo Provenzano - bensì che quelle condotte non costituirebbero reato. Vale lo stesso per altri passaggi importanti della lunga storia di quegli anni. Dalla mancata perquisizione del covo di Riina, ai colloqui informali con Vito Ciancimino”. Vado diritto al punto: e se tutta quella attività che lei ha ritenuto criminale non fosse altro che una spericolata iniziativa politica, non solo possibile, ma addirittura necessaria perché motivata dalla sacrosanta esigenza di fermare l’attacco stragista? “Io ho sostenuto che gli imputati “istituzionali” non avessero agito perché collusi con Cosa Nostra, bensì per una non dichiarata (e pertanto giuridicamente inaccettabile) ragion di Stato. E qui nasce il problema: la politica che si sporca le mani deve dichiarare apertamente questa motivazione. Oppure, se non lo ha anticipato, quando il pm si trova a indagare, gli deve opporre il segreto di Stato. Se, invece, la presunta ragion di Stato è occultata, si presta ad abusi assai pericolosi”. Uno degli argomenti addotti per dimostrare l’intesa tra Cosa Nostra e le istituzioni è quello dei benefici che i mafiosi avrebbero ricevuto in materia di regime di 41 bis. Da qui l’accusa a quel gran galantuomo di Giovanni Conso che, da ministro della Giustizia, avrebbe declassificato centinaia di detenuti sottraendoli al regime speciale. Posso affermare che, di quelle centinaia di detenuti declassificati, appena 23, per alcuni 18, erano siciliani, e dunque l’interesse di Cosa Nostra per quell’operazione sarebbe stato assai scarso. La declassificazione, insomma, è stato un fatto fisiologico... “Il dato del conseguimento o meno dei benefici ai fini del reato è irrilevante. E ricordo che tra i 334 detenuti non più sottoposti al 41bis, c’erano capi della ‘ndrangheta calabrese e gli appartenenti a Cosa Nostra erano una trentina, alcuni di alto livello criminale”. Mi permetto di insistere: i siciliani erano 18 o 23. E, in ogni caso, il ragionamento non cambia... “Il segnale fu importante, io non sostengo che Cosa Nostra abbia ottenuto allora tutto ciò che voleva: e, se fossi davvero cattivo, direi che lo sta ottenendo ora. Diciamo che il punto non era la realizzazione degli obiettivi, ma la trasmissione della minaccia”. Un altro tema controverso: il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Penso che lo scopo dell’azione penale sia esclusivamente quello di accertare fatti rilevanti sotto il profilo criminale. Indubbiamente, anche la conoscenza del contesto in cui si commette il reato è importante. Ma l’aver trasformato l’analisi di un ambiente in una fattispecie penale - il concorso esterno in associazione mafiosa - mi sembra un errore gravissimo... “È indubbio che lo scopo dell’azione penale debba essere quello di provare reati. Ma è altrettanto indubbio che alcuni delitti sono espressione di sistemi criminali più complessi. È ovvio che si debba partire dal contrasto all’area militare di Cosa Nostra, e questo da Falcone in poi è stato fatto. Ma il problema è che quella tipologia di criminalità, specie in Sicilia, si è nutrita di rapporti stretti con il potere e di un vastissimo sistema di solidarietà. Se così non fosse stato, Cosa Nostra non avrebbe avuto la forza di uccidere decine di magistrati, sacerdoti, funzionari pubblici, ufficiali di polizia e carabinieri, esponenti politici”. Ma così si rischia che il reato di concorso esterno finisca col colpire atteggiamenti che, se pure deprecabili, come la simpatia o la sudditanza psicologica verso la mafia, non costituiscono comunque fattispecie penale... “Sono in totale disaccordo. Il concorso esterno è l’applicazione, in termini addirittura scolastici, dei principi generali in tema di concorso nel reato. Vale anche per la rapina: c’è il rapinatore e c’è chi ha dato le informazioni utili”. Ma, così, possono diventare reati anche una serie di atteggiamentiche, al più, configurano una mancata estraneità... No, non è così. La storia della mafia insegna che non ci sono solo gli affiliati, ma molti altri soggetti che, in forme assai diverse, possono contribuire agli scopi dell’associazione stessa”. Ma, per spiegare quell’“esterno”, si devono abbandonare la materialità e la determinatezza del reato e ricorrere alla sociologia e alla letteratura. “La tranquillizzo. Le sentenze non colpiscono mai il fenomeno di semplice omertà, ma sempre il contributo del non affiliato all’associazione, che deve essere reale e intenzionale. Ne è conferma il fatto che il titolo del reato è “concorso in associazione mafiosa”, mentre il termine “esterno” è solo un’aggiunta giornalistica”. Eppure vi si ricorre anche nelle motivazioni delle sentenze. Ma su questo, tra noi, ogni intesa è impossibile. Andiamo oltre, lei ha appena superato i sessant’anni. Quale è il suo principale rimpianto? “Se oggi iniziassi la carriera di pm, per evitarmi guai e pericoli, mi limiterei a svolgerla con un approccio esclusivamente burocratico”. Non ci credo proprio. Queste parole non corrispondono né alla sua indole né al suo pensiero. Come procuratore lei ha ottenuto il massimo, fino all’elezione al Csm, comportandosi in modo non opportunistico. E lo dico pensando non a quello che viene definito il suo coraggio. Vede, a mio avviso, il suo valore non consiste tanto nel mettere a repentaglio la vita, piuttosto nella sua professionalità di investigatore, paziente e tenace, anche quando le capita di sbagliare. Come avrà capito, non mi piace affatto la retorica sacrificale... “Nemmeno a me. E spero di essere apprezzato per il mio lavoro e non per la condizione in cui sono costretto a vivere, che certo non è facile. Tutto è molto complicato, ma non è mica la fine del mondo”. Qui il procuratore mostra un notevole understatement, ma è un dato innegabile che l’originaria scelta professionale nasce sotto il segno della tragedia: “Ero ancora all’Università quando uccisero Rocco Chinnici ed ero appena entrato in magistratura quando vennero trucidati Falcone e Borsellino”. E la sua vita e il suo mestiere continuano in un’atmosfera sempre attraversata dalla minaccia. Forse questo spiega la mia irresistibile simpatia per un uomo di cui non riesco a condividere, in materia di giustizia, nemmeno una parola: ovvero il fatto che in un’esistenza così profondamente connotata dall’immanenza della morte, possa trovare spazio la complessità di un carattere forte, eppure capace di ironia. Come quando - nella trattoria da Candido, serviti dallo scrittore-cameriere Sandro Bonvissuto, davanti al celebre polpettone - fa l’imitazione di Joe Pesci nel film Irishman. (E gli uomini della scorta sono così riservati che nessuno si accorge di loro). *Ha collaborato Marica Fantauzzi Ha ricucito il Sudafrica, non chiamatela giustizia soft di Patrizia Patrizi* Il Riformista, 13 maggio 2022 In Italia la giustizia riparativa è oggetto di pregiudizi. Ma anche da noi esistono esperienze importanti. Iniziamo da una storia che ispira. Eletto presidente del Sudafrica, Nelson Mandela affronta la transizione dal regime dell’apartheid alla democrazia, con una scelta coraggiosa quanto strategica, ispirata a principi di pace e solidarietà: la Commissione per la verità e la riconciliazione, istituita nel 1995. La Commissione lavorò con il mandato di raccogliere le testimonianze di vittime e carnefici dei crimini politici commessi negli anni dell’apartheid, per realizzare un processo di pacificazione fondato sulla rinuncia alla vendetta, a combattere la violenza con altra violenza. Ricostruire le verità, consentire alle vittime di essere ascoltate, sostenerle nella narrazione della propria storia di abusi subiti e del dolore, supportarle nella riconquista della dignità violata, sollecitare i colpevoli a testimoniare: questo il lavoro svolto dalla commissione. Un esempio potente di giustizia riparativa, altri, provenienti da culture distanti dalla nostra, possono aiutarci a definire il senso di una giustizia talora considerata nel nostro Paese come “giustizia soft”, inadatta a rispondere alla violenza, pensata soprattutto a favore di chi ha commesso il crimine, per crimini minori o commessi da minorenni; irrispettosa di chi l’ha subito. Visioni pregiudiziali, nonostante anche in Italia esistano testimonianze ed esperienze importanti, perché la restorative justice si pone come pensiero e pratiche di accoglienza e cura delle persone, delle relazioni, delle comunità sociali: tutte in sofferenza a causa del crimine, tutte con un bisogno di riparazione del danno, di ricostruzione del senso di fiducia minato, di ricomposizione dei conflitti per risanare ferite delle persone e fratture del tessuto sociale. Per comprenderne significato, portata e benefici per le parti coinvolte, H. Zehr, uno dei suoi padri fondatori, propone la metafora del “cambiare le lenti”. Proviamo a cambiarle, per accogliere la riforma del processo penale senza che pregiudizi incidano sulla sua attuazione. La visione della restorative justice sposta l’accento dal comportamento agito (che la giustizia penale deve valutare in termini di attribuzione di responsabilità e conseguente risposta=ottica reattiva) a ciò che ne è conseguito (che la giustizia riparativa può affrontare a partire dai bisogni della vittima conseguenti al danno e in termini di responsabilità dell’autore, nell’accezione dell’inglese accountability, del rendere conto=ottica pro-attiva). Per la giustizia riparativa, quindi, la centratura non è sull’autore del reato ma sul danno, con il libero e volontario coinvolgimento dei protagonisti: la persona danneggiata, chi di quel danno è responsabile, la comunità, tutti con bisogni e interessi che il danno ha generato. I bisogni della vittima: di informazione, non giudiziaria ma rispetto a ciò che è successo (spesso informazioni che possiede solo chi ha commesso il fatto); di raccontare la verità personale dell’accaduto, di raccontarla anche più volte per accertarsi che chi l’ha danneggiata conosca le conseguenze che ha prodotto; di riprendere il controllo sulla propria vita; di avere una riparazione. I bisogni di chi ha commesso il fatto: principalmente quei bisogni di responsabilità rispetto alle conseguenze per altri della propria azione, che nel sistema giudiziario vengono paradossalmente scoraggiati perché è lo stesso impianto accusatorio a far prevalere difesa di sé e autogiustificazione; supporto in direzione del cambiamento e reintegrazione nella comunità. I bisogni della comunità, che deve tutelare le sue componenti e sé stessa come insieme, ripristinare fiducia nei legami, prendersi cura della persona che ha subito, di quella responsabile, di tutte le parti che hanno interesse a riequilibrare e sostenere relazionalità positive. Bisogni, quindi, di tutti i protagonisti, perché il reato e le sue conseguenze non sono esclusivamente un problema giudiziario di chi l’ha commesso, né un problema che la vittima deve affrontare nella solitudine degli effetti sulla sua vita. Così come le responsabilità non possono essere considerate/ attivate adeguatamente se non includendo tutte le parti portatrici di interesse. Fondamentale, in tutti i processi riparativi, è la funzione svolta dal facilitatore/facilitatrice, una figura terza, imparziale ed equiprossima alle parti, che ne agevoli l’incontro, la reciprocità dell’ascolto, l’intesa comune e l’accordo per disfare l’ingiustizia. Non ci riferiamo esclusivamente alla mediazione che costituisce solo una, probabilmente quella più conosciuta nel nostro Paese, delle possibili pratiche riparative. Molti altri programmi sono possibili, alcuni inclusivi della comunità, come ad esempio le Family Group Conferences e i gruppi allargati alla cittadinanza. Elementi fondamentali sono il rispetto della dignità umana, solidarietà e responsabilità, verità attraverso il dialogo, l’orientamento rigenerativo rispetto alle sofferenze, ai danni e alle loro conseguenze, la volontarietà della partecipazione. *Ordinaria di Psicologia sociale e giuridica, Università di Sassari Avete scaricato Rita, non vi riconosco più! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 maggio 2022 Su richiesta del prefetto di Roma Rita Bernardini è stata messa alla porta dalla Fondazione Marco Pannella, perché ha subito una condanna a due mesi di carcere per disobbedienza civile. Follia! Se Pannella fosse vivo avreste cacciato anche lui. Di recente si è costituita la fondazione Marco Pannella. Per me, vecchio radicale, è cosa molto bella. Purtroppo ciò che è avvenuto nella composizione del consiglio di amministrazione di quella fondazione è davvero meno bello. Nell’atto costitutivo della fondazione il consiglio di amministrazione era formato da tre persone: Maurizio Turco, segretario del partito radicale, Rita Bernardini e Aurelio Candido. Il prefetto di Roma ha fatto sapere che l’On. Rita Bernardini non poteva far parte di quel consiglio perché gravata da una condanna penale a due mesi e 25 giorni (con la condizionale) per aver ceduto gratuitamente hascisc in Piazza San Carlo in una manifestazione pubblica con Marco Pannella e il gruppo dirigente radicale. Un dichiarato atto di disobbedienza civile non violenta. La decisione della prefettura non era motivata con riferimento ad una specifica previsione di legge ma su un orientamento in materia della prefettura stessa (come lo stesso Prefetto ha spiegato alla Bernardini). Gli altri due componenti del CDA per varie ragioni hanno recepito senza fare obiezioni la richiesta del Prefetto. Hanno quindi estromesso l’On. Bernardini dal consiglio di amministrazione della fondazione Pannella e nominato un altro soggetto al suo posto. La vicenda è al contempo surreale e incomprensibile. Surreale perché anche Pannella era stato condannato per lo stesso reato della Bernardini e quindi, se ancora vivo, non potrebbe neppure Lui far parte della fondazione che porta il suo nome. Incomprensibile se si considera che la decisione di espellere la Bernardini è stata assunta, senza opporre alcuna resistenza al volere prefettizio, col voto del segretario del Partito radicale in evidente contrasto con lo stesso DNA del partito radicale che tra i sui assunti di base ha anche quello della disobbedienza civile pacifica che implica anche la prospettiva di accettare condanne penali in nome del proprio impegno politico (per altro, nel caso della Bernardini, una condanna di soli due mesi e 25 giorni senza detenzione). Per questa ragione l’anno prossimo non rinnoverò la tessera del partito radicale che detengo da oltre 30 anni, sempre che l’assurda ingiustizia non venga sanata. Devolverò il mio contributo a organizzazioni radicali i cui responsabili hanno una maggiore caratura radicale e cioè quella presieduta da Rita Bernardini (Nessuno tocchi caino) e quella di Marco Cappato (Associazione Luca Coscioni). Due postille. La prima. Di recente l’On. Bernardini ha subito un nuovo processo per un analogo reato per cui era stata condannata anni fa. Questa volta non solo è stata assolta, ma nella sentenza il giudice ha anche lodato il suo impegno civile. Il lettore non si meravigli. Sono fenomeni alquanto frequenti che certamente non contribuiscono a conferire autorevolezza alla funzione giudiziaria. La seconda. Già in passato l’On. Bernardini era stata esclusa da una nomina a causa della stessa condanna indicata dal prefetto di Roma. È avvenuto quando il suo nome era stato proposto come garante delle carceri della regione Abruzzo. Nessuno più competente e impegnata di lei per la protezione dei diritti dei detenuti (prolungati e ripetuti sono stati i suoi digiuni, anche insieme a Pannella, per migliorare le loro disastrose condizioni di vita). In quel caso ad opporsi non fu il Prefetto di Roma ma la componete grillina del Consiglio regionale. Davvero una strana accoppiata. Lo spaccio di droghe è automaticamente aggravato se avviene nel parcheggio dell’ospedale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2022 È sufficiente che la condotta si svolga in prossimità del luogo considerato “sensibile”. Chi cede droga ai clienti nel parcheggio dell’ospedale commette spaccio aggravato anche se l’offerta o la cessione non si è consumata nei confronti della specifica categoria di soggetti che la legge tutela in quanto considerati maggiormente vulnerabili se esposti alla possibilità del consumo di stupefacenti. Così la Cassazione, con la sentenza n. 18523/2022, ha respinto il ricorso del condannato che contestava di aver utilizzato il parcheggio dell’ospedale solo per comodità e non al fine di cedere sostanze stupefacenti alle persone che per ragioni di salute o di lavoro siano provenienti proprio dal nosocomio. L’aggravante del reato di spaccio - perché commesso all’interno o in prossimità di luoghi “sensibili” come scuole od ospedali - scatta senza bisogno che la cessione sia stata concretamente realizzata nei confronti dei soggetti fragili che la norma intende proteggere. Infatti, l’aggravante prevista alla lettera g) dell’articolo 80 del testo unico degli stupefacenti è una disposizione che punisce la situazione di pericolo realizzata da chi spaccia in prossimità dei luoghi elencati (caserme, ospedali, scuole, di ogni ordine o grado, comunità giovanili, carceri o strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti). Si tratta di un’aggravante specifica che è legata alla circostanza che la condotta illecita sia stata tenuta in prossimità di uno di tali luoghi che il Legislatore ha individuato come sensibili. Il ricorso dell’imputato straniero contestava anche l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio nazionale. Lamentava la mancata presa in considerazione che la sua famiglia dimorasse in Italia. La Cassazione conferma, invece, la legittimità del giudizio di merito in quanto è stato effettuato il doveroso bilanciamento tra il rispetto della vita familiare e il pericolo della reiterazione del reato. Pericolo compiutamente argomentato in base agli specifici precedenti penali del ricorrente e alla loro continuità nel tempo. Da cui si deriva la smaccata propensione alla commissione di reati e quindi la sussistenza del presupposto della pericolosità sociale del soggetto. Padova. “Mi hanno derubato”. Incendia la sua cella, detenuto 30enne gravissimo di Serena De Salvador Il Gazzettino, 13 maggio 2022 L’uomo ha appiccato il fuoco al materasso, probabilmente con lo scaldavivande. Avvolto dal fumo e ustionato è stato tirato fuori dai poliziotti penitenziari, che hanno messo in salvo anche diversi altri carcerati. Ha protestato sostenendo di aver subito un furto, finendo per appiccare un incendio all’interno di una cella della Casa circondariale Due Palazzi. Un detenuto tunisino di circa trent’anni è così rimasto gravemente ustionato in varie parti del corpo, mentre tre agenti della polizia penitenziaria intervenuti per salvare gli altri 14 carcerati presenti hanno patito un’intossicazione a causa dei fumi. Oltre alle quattro persone trasferite all’ospedale, dove il trentenne si trova tutt’ora ricoverato in Rianimazione, il reparto dove si trova la cella andata a fuoco è stato evacuato e chiuso per essere ripristinato. I danni ammontano a decine di migliaia di euro. Il Due Palazzi torna dunque a essere teatro di rimostranze ed episodi violenti e i sindacati della polizia penitenziaria tornano a insorgere chiedendo a gran voce provvedimenti urgenti. L’episodio risale alla sera di mercoledì e si è verificato nella Casa circondariale, ossia la parte del Due Palazzi che ospita chi è in carcere in attesa di giudizio o che deve scontare pene inferiori a cinque anni. A creare l’allarme è stata l’attivazione dell’impianto antincendio del piano rialzato, dove si trovano alcune celle. In una di queste gli agenti accorsi per controllare hanno trovato un detenuto ormai avvolto dal fumo. L’uomo pochi istanti prima era riuscito ad appiccare il fuoco al materasso, ad alcune coperte ad altre suppellettili usando, con tutta probabilità, il fornelletto scaldavivande in dotazione. I materiali incendiati hanno sprigionato un intenso fumo che in breve tempo ha fatto perdere i sensi al tunisino, che si è quindi anche procurato profonde bruciature. Gli agenti si sono precipitati all’interno per estrarlo, restando anch’essi intossicati. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco che hanno quindi domato le fiamme, mentre il fumo risalendo ha invaso anche parte dei piani superiori. Pesanti le conseguenze sulla struttura: la cella è andata distrutta, l’ala del piano rialzato è stata temporaneamente chiusa per essere ripristinata e il calore ha danneggiato le putrelle del solaio. Dopo la visita all’ospedale i tre agenti intossicati sono stati dimessi e si stanno ora riprendendo, ma hanno prognosi di una decina di giorni. Peggio è andata invece al trentenne, ricoverato in condizioni critiche sia per l’intossicazione che per le ustioni. “Gli agenti della penitenziaria si sono infilati nella cella piena di fumo e fiamme strappando alla morte al detenuto che ha appiccato - il rogo spiega Leonardo Angiulli, segretario dell’Unione sindacati polizia penitenziaria (Uspp) per il Triveneto -. Il loro intervento è stato decisivo anche per mettere in salvo gli altri carcerati e per limitare i danni del fuoco in attesa dei pompieri. Tutto a rischio della loro stessa incolumità”. “A quei colleghi non può che andare tutta la nostra vicinanza, insieme a un augurio di rimettersi presto e completamente” fa eco il sindacato Sinappe. Le due sigle sono poi concordi su un tema: “La situazione nelle carceri italiane è sempre più drammatica, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il ministro della Giustizia devono intervenire subito”. Ancona. Telemedicina per gli istituti penitenziari: un progetto pilota nel carcere di Montacuto anconatoday.it, 13 maggio 2022 Incontro del Garante Giancarlo Giulianelli con il direttore generale di Asur Marche, Nadia Storti, per fare il punto della situazione e individuare le tappe del percorso da mettere in atto. Si parte con la ricognizione tecnica per il cablaggio della rete telematica. Telemedicina per gli istituti penitenziari al centro dell’incontro tra il Garante dei diritti, Giancarlo Giulianelli, e il direttore generale di Asur Marche, Nadia Storti. Una possibilità d’intervento più volte evidenziata dallo stesso Garante e recentemente riproposta anche al tavolo dell’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria. “Nel confronto con il direttore di Asur Marche - fa presente Giulianelli - abbiamo vagliato la situazione complessiva, convenendo sul fatto che la telemedicina può sicuramente rappresentare una valida risposta alle problematiche sanitarie degli istituti sia sul versante dell’immediatezza, sia per sopperire alla carenza di personale medico, anche di tipo specialistico”. Nei prossimi giorni sarà avviata una ricognizione tecnica, soprattutto per quanto riguarda il cablaggio della rete telematica, con l’obiettivo di attivare un primo progetto pilota presso la Casa circondariale di Montacuto. “E’ un percorso - specifica il Garante - che comprensibilmente va messo in atto con gradualità ed attraverso tutte le verifiche del caso. In futuro potrà anche essere affiancato da altre progettualità su cui stiamo lavorando”. Intanto prosegue la periodica azione di monitoraggio messa in atto dall’Autorità di garanzia negli istituti penitenziari marchigiani. Nuovi colloqui con i detenuti presso la Casa circondariale di Montacuto e visite anche nelle sezioni dell’alta sicurezza. Tra i problemi affrontati, in primo piano ancora quelli che riguardano alcuni aspetti della sfera sanitaria. A Fermo, invece, il Garante ha avuto modo di affrontare la questione delle attività trattamentali e la possibilità di avviare alcuni corsi per i detenuti. Visita anche alla Casa di reclusione di Barcaglione. Ferrara. Focus sul carcere, tra film e spettacoli teatrali Il Resto del Carlino, 13 maggio 2022 Un convegno, la proiezione di un film e uno spettacolo teatrale. Questi tre momenti, tutti racchiusi in un’unica giornata - quella di oggi - sono pronti a fornire una luce diversa sulla condizione delle persone detenute in carcere. Il progetto, organizzato a più mani (da Teatro Nucleo, Aics e compagnia Stabile Assai Roma) e intitolato ‘Teatro come palcoscenico dell’uguaglianza’, consta come detto di tre diverse iniziative. Si comincia alle 10.30, nella sala consiliare del Comune, con il convegno nazionale incentrato sul tema del teatro sociale e della drammaturgia penitenziaria, con un approfondimento sul ruolo della comunità nella giustizia riparativa. Alle 15.30, poi, ci si sposta alla Sala Estense per la proiezione del film ‘Album di famiglia’, scritto e interpretato dai detenuti del carcere di Ferrara. Concluderà la prima edizione dell’iniziativa alle 17.30 sempre alla Sala Estense, la rappresentazione teatrale ‘Anime prigioniere’, curata dalla già citata compagnia Stabile Assai; al termine di quest’ultimo spettacolo, si terrà poi un dibattito tra pubblico, autori e attori protagonisti. “Il teatro - ha precisato Cristina Coletti, assessore alle Politiche sociali - va visto come opportunità di cambiamento, di condivisione e di reinserimento sociale dei detenuti. Si tratta di valori non scontati e questa tipologia di spettacolo diventa un valido strumento di crescita anche sotto il punto di vista umano”. Monza. Lucia, da senzatetto ad Angelo della strada di Barbara Apicella Il Giorno, 13 maggio 2022 Era finita a dormire sulle panchine dopo una brutta vicenda di separazione. Ora guida un’associazione. “Solo chi ha vissuto sulla propria pelle il dramma della strada sa che cosa significa svegliarsi su una panchina, non avere i soldi per comprarsi un panino, né un luogo dover lavarsi e cambiarsi. Eppure io quando sulla strada ritorno mi sento a casa”. A parlare è Lucia Troilo, 50 anni, fondatrice dell’associazione Angeli della Strada che ha sede a Varedo in via Bellini 31. Il sodalizio aiuta le persone senzatetto, le famiglie in difficoltà, gli ex detenuti che scontata la pena fanno fatica a trovare un posto di lavoro per ricominciare a vivere onestamente. Lucia la strada l’ha conosciuta e vissuta: una brutta separazione alle spalle, con due bimbi seguiti dagli assistenti sociali e lei che, dall’oggi al domani, si è trovata in mezzo alla strada. Un’esperienza tra gli ultimi durata quatto anni e mezzo. “Non è facile, soprattutto per una donna. Non è facile svegliarsi dall’oggi al domani e non avere un tetto sulla testa, vivere sotto i ponti, vivere ai margini della società”. Vivere in un mondo dove, alcune volte, per una coperta o per un pezzo di pane si rischia di finire in ospedale, o ancor peggio morire. Ma Lucia aveva (e ha) una grande determinazione e sprone per non arrendersi. “I miei figli sono stati la forza che mi ha permesso di andare avanti onestamente anche in mezzo alla strada. Non è stato facile, sono stati anni di grandi sacrifici. Di notte avevo trovato un lavoro: andavo a fare le pulizie in una palestra e in un negozio. Piano piano ho messo via i soldi e sono riuscita a prendere in affitto una casa”. Si emoziona Lucia quando ricorda quel momento: poter avere nuovamente un tetto sopra la testa, un bagno tutto suo, una cucina dove poter tornare a cenare. Ma la strada Lucia non l’ha mai dimenticata e ha deciso di dedicare la sua vita agli ultimi dando vita all’associazione Angeli della Strada. “Ho deciso di dare una mano a chi si trova in quella drammatica situazione. Nel nostro magazzino di via Bellini raccogliamo vestiti e cibo da destinare alle famiglie che stanno attraversando un momento di difficoltà e ai senzatetto. Inoltre da anni portiamo avanti anche il progetto della raccolta dei tappi di plastica. I proventi che ricaviamo dalla vendita alle aziende specializzate nel riciclo ci permettono di regalare buoni spesa alle nostre famiglie”. Ma Lucia è andata oltre. Il vero riscatto avviene quando la persona è indipendente, quando trova un lavoro. “Cerchiamo di dare una seconda opportunità agli ex detenuti e a chi si trova in seria difficoltà. Con l’associazione organizziamo anche attività di traslochi e di svuota cantine, permettendo alle persone di guadagnare onestamente e di rimettersi nel mondo del lavoro”. Potere aiutare chi sta attraversando un momento di crisi per Lucia è diventata una missione di vita. Tanto che, appena può, partecipa anche con altre associazioni alle uscite serali dai senzatetto (soprattutto alla stazione centrale di Milano) a consegnare aiuti e soprattutto a donare un sorriso. “Quando li guardo negli occhi so quello che stanno pensando e attraversando perché io l’ho vissuto. Ho conosciuto la fame, l’attesa di ricevere un panino e un succo di frutta. Tutto viene spazzolato in pochi secondi e poi un sorriso per dire grazie a uno sconosciuto che, senza nulla volere in cambio, ci ha teso la sua mano”. Per il teatro in ogni carcere la voce di Raffaele Bruno di Gianfranco Falcone L’Espresso, 13 maggio 2022 Intervista a Raffaele Bruno, artista e deputato, promotore della legge Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari. È una legge importante, sostenuta anche attraverso la petizione “Per il teatro in ogni carcere”. Perché hai deciso che teatro e arte dovevano entrare in carcere? A un certo punto della mia vita si è accesa in me la passione per l’arte, che è stata salvifica. Ha dato proprio senso al mio vivere. A un certo punto mi sono reso conto che praticando l’arte, in particolar modo la scrittura e il teatro, mi sentivo pienamente vivo. Così ho fatto un primo percorso in questo lavoro, però mancava un pezzo. Sentivo dentro di me che ancora non avevo centrato l’obiettivo. Questo passaggio è avvenuto, ed è stato proprio illuminante e rivoluzionario per me, quando ho incontrato la realtà carceraria. Fare questa esperienza mi ha fatto capire, toccandolo con mano, vivendolo e sentendolo, che il senso dell’arte si compie quando raggiunge le persone vicine al dolore, le persone che generalmente non riescono ad essere raggiunte dall’arte, ad avere l’opportunità di praticarla, viverla, vederla. Sentire che l’artista ha la possibilità, la responsabilità, di accompagnare con il suo artigianato le persone in un percorso evolutivo, mi ha fatto proprio centrare il senso della mia vocazione. Ho sentito che in questo agire mi sentivo pienamente io. Per questo ho fatto tante esperienze, laboratori, spettacoli, ho scritto un libro, ho pubblicato due CD. Sempre centrati sul racconto e incontro con i detenuti. Come si intitolano questi lavori? Il libro si intitola Delirio creativo, è una raccolta testi. Delirio creativo è anche il nome del collettivo teatrale da me fondato. Dei CD ti dico l’ultimo perché è proprio centrato sull’argomento carcere. Si chiama Fragili anime guerriere, Raffaele Bruno e delirio creativo. È un diario di bordo di tutte le storie che abbiamo incontrato in questo percorso finalizzato all’idea di portare il teatro ai margini della società, margini che sono sia fisici che dell’anima. Nel tempo abbiamo fatto laboratori con pazienti psichiatrici, con detenuti. Abbiamo fatto eventi anche con associazioni che si occupavano di clochard. Però l’incontro con il carcere è stato l’evento chiave. Perché nel carcere tutte le contraddizioni e i contrasti della società diventano più evidenti, più forti. E c’è tanta verità. Quindi, inizialmente ti sei occupato dei fragili della società, dei marginali... La sensazione di crescita che mi dava il praticare l’arte ad un certo punto mi fece chiedere “Perché poi questa cosa deve essere appannaggio solo di chi vuole farla come mestiere?”. È così bella che sarebbe giusto portarla a tutti. Soprattutto portarla a chi non può scegliere se farla o no. Da qui è nata la mia intuizione di provare a raggiungere tutti. Tu hai diverse anime e stai percorrendo diverse strade. Sei anche un deputato del Parlamento italiano. Come arrivi alla politica? Io non ho mai fatto politica di partito. Politica è un termine complesso, la si fa in tanti modi. È accaduto che a un certo punto il Movimento 5 Stelle, conoscendo quello che facevo, mi ha proposto di provare a portare la mia esperienza nelle istituzioni. Quindi, mi è stata offerta una candidatura, che poi ha portato a una elezione. Io ho preso estremamente sul serio questa opportunità. In precedenza avevo fatto una sintesi fra la mia anima artistica e la mia eticità, io sono un credente, un cristiano evangelico. In seguito all’elezione ho provato a fare una nuova sintesi che includesse tutte le mie anime, quella artistica, quella etica e la vocazione che voleva portare l’arte tra gli esclusi, obbedendo a una responsabilità istituzionale. Ancora prima di mettere mano alla penna e scrivere una legge, che è una materia per me nuova, ho cercato di capire meglio le cose. Così ho fatto un tour, “utilizzando” l’opportunità istituzionale per raggiungere quanti più carceri possibile. Per avere un’idea quanto più compiuta della situazione. Ho fatto appello agli artisti che stimavo e conoscevo. Abbiamo messo insieme un collettivo che si chiama “Gli ultimi saranno” https://gliultimisaranno.it con cui abbiamo fatto due canzoni inedite che parlano di carcere per sensibilizzare sul tema. Il collettivo è formato da Maurizio Capone che è il leader del gruppo Capone & BungtBangt, i cui musicisti suonano strumenti di riciclo. Trasformano la spazzatura in strumenti musicali. Maurizio Capone è proprio un pioniere in questo. Attraverso di lui passa un messaggio molto forte perché fa vedere come quello che viene considerato spazzatura, che viene considerato marginalità nella società può diventare prezioso, può essere trasformato in poesia. Poi ci sono Massimo De Vita e Carla Grimaldi dei Blindur, Enzo Colursi in arte Luk, Alessandro Freschi, Federica Palo. Che cosa portavate in scena? Il nostro era un repertorio ad assetto variabile. Avevamo una scaletta molto flessibile, fatta di pezzi che abbiamo composto man mano che abbiamo fatto il tour. Pensandoli in funzione dell’incontro che avremmo fatto in carcere. Siamo andati in più di 20 carceri, e abbiamo fatto circa una trentina di incontri. Contattavamo telefonicamente i responsabili dei laboratori artistici attivi nel carcere che intendevamo visitare, chiedevamo di far preparare dei pezzi agli allievi - detenuti che frequentavano quei laboratori. Perché l’obiettivo era proprio quello di mettere in evidenza e rendere possibile il lavoro degli artisti - detenuti. È proprio in questa direzione che va la proposta di legge di promozione e sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari. Se erano laboratori di musica chiedevamo pezzi musicali, se erano laboratori teatrali chiedevamo pezzi teatrali, e così via. Davamo alcune coordinate come ad esempio la durata. Arrivavamo lì, un’ora prima di entrare in scena, ci coordinavamo un attimo e inserivamo le loro performance nelle nostre. La nostra performance la chiamiamo Rito di Improvvisazione Artistica. È un format che stiamo sperimentando da una ventina d’anni. È un rito che realizziamo nelle carceri dove allo stesso microfono si esibiscono gli artisti del collettivo insieme ai detenuti. A volte si esibisce anche il personale carcerario. Questo è il percorso che prelude alla legge ed è nato con la mia elezione a deputato. Abbiamo vissuto esperienze di una potenza straordinaria e di una commozione unica. Siamo tutti molto cresciuti. Abbiamo visto veramente delle esperienze indimenticabili. Abbiamo sperimentato come la comunità carceraria, con le sue criticità, quando si scalda attorno al fuoco dell’arte vede veramente nuove possibilità, e vede concretamente che siamo tutti dalla stessa parte. Tutti i ruoli dentro si sentono complici quando si fa insieme qualcosa teso alla bellezza, allo stare bene, alla reciproca consolazione. A che punto è l’iter della legge? Sono stati presentati gli emendamenti. L’augurio è che possa essere calendarizzate quanto prima in aula. Questa legge prevede dei finanziamenti? Prevede un fondo e ci sono tre punti principali. Uno è la creazione di un osservatorio e di un tavolo tecnico per coordinare e monitorare questo mondo molto articolato del teatro e dell’arte in carcere. Poi si prevede di individuare e di mettere a punto un luogo in ogni carcere affinché si possa fare teatro. Quindi c’è un fondo specifico di 2 milioni di euro per pagare i professionisti che fanno teatro in carcere e le attività legate ad esso, come promuovere e organizzare spettacoli, piuttosto che comprare scenografie e tutto quello che serve. Nella legge c’è tutto. Ho provato a metterci dentro tutto. Oltre ad armonizzare qualcosa che già esiste si vuole rendere possibile una rivoluzione culturale. Si vuole far sì che una persona che viene momentaneamente reclusa, possa avere la possibilità di incontrare l’arte. Oggi con questa legge chi finisce in carcere ha la certezza di poter scegliere un percorso teatrale. E attraverso il teatro può avere la possibilità di conoscere se stesso ed evolversi. Mi sembra che nel vostro tour voi abbiate incontrato anche la carcerazione femminile, che rappresenta solo il 4% del totale dei detenuti. Com’è andato questo incontro? Quali difficoltà avete incontrato? Come siete riusciti a lavorare con le donne in carcere? Il 16 maggio noi torniamo al carcere femminile di Pozzuoli a fare uno spettacolo. Ci sarà pure il sottosegretario alla giustizia Anna Macina. C’è l’attrice del nostro collettivo Federica Palo che è molto preparata. Ha fatto un laboratorio teatrale nel carcere di Salerno nella sezione femminile per più di un anno. Ha lavorato a stretto contatto con le donne. Poi ne abbiamo fatto un altro a Regina Coeli. Ti dico solo questa cosa rispetto alle donne che forse è la cosa che colpisce prima la mia emotività e il mio spirito di compassione. Il fatto è che le donne a differenza degli uomini sono anche madri. il fatto di essere madri tra quelle mura è precluso. Questo rappresenta una ferita molto molto grande, che loro si portano dentro in maniera più profonda rispetto a un uomo. Il curare la propria femminilità è reso difficile e anche questa è una parte importante dell’essere donna. Anche la cura dell’abbigliamento subisce limitazioni. Stiamo parlando di cose molto sottili, di sfumature, ma possono essere essenziali perché si sommano. Tu come artista stavi decollando. Nel 2009 vinci il premio Alberto Sordi e nel 2015 il premio Walter Chiari... Questi sono legati alla mia prima fase più di teatro comico. Erano monologhi con dentro dei temi sociali. Decollare è una parola grossa, perché comunque non ho mai avuto una notorietà. Ero un onesto lavoratore dello spettacolo. Mi piace molto la tua umiltà. Ti ringrazio per questo... È la verità. (Lo dice in modo timido sottovoce). Mi parli un po’ di più del tuo collettivo? Voi avete iniziato la campagna a “Il teatro in ogni carcere”. Che cosa fate per promuovere questa campagna? Avete fatto due canzoni e poi? In una di queste canzoni c’è Cosimo Rega il protagonista del film Cesare deve morire dei Fratelli Taviani... Noi stiamo tentando di consolidare una rete tra le tante realtà che ci sono. Quindi, proviamo a realizzare incontri. Sul nostro canale YouTube ci sono una serie di rubriche che facemmo durante il lockdown, che abbiamo chiamato Scintille. Sono interviste a una serie di realtà, con l’intento enciclopedico di mettere in rete il racconto di queste tantissime esperienze che ci sono. Quindi avete contatti anche con il festival di Armando Punzo che viene organizzato ogni anno nel carcere di Volterra? Noi con Armando ci siamo conosciuti, incontrati. E poi c’è anche il coordinamento Teatro Carcere, un’altra rete è molto grande che organizza un festival che si chiama Destini Incrociati. Sono una cinquantina di realtà. Loro hanno fatto un protocollo con il ministero. Si chiamano Coordinamento Nazionale Teatro Carcere. L’ultimo studio che è stato fatto, lo trovi sul sito giustizia.it, evidenzia che i detenuti che fanno un percorso di laboratorio teatrale in carcere hanno un calo del tasso di recidiva dal 65% di media nazionale al 6%. Basterebbe già solo questo dato per fare urgentemente una legge come quella che abbiamo proposto. Non è soltanto una legge necessaria, ma è anche urgente. Questa legge oltre a permettere ai detenuti di fare un percorso evolutivo e quindi di uscire dal carcere totalmente cambiati e trasformati, crea più armonia in carcere. Si distendono proprio le tensioni. Questa cosa l’ho vista, l’ho toccata con mano. La legge si pone il problema di far diventare i 158 carceri italiani anche luoghi in cui si praticano l’arte e la cultura, in cui la gente può andare a fruire dell’arte. Quindi tu li immagini come luoghi aperti al territorio? Assolutamente sì. Perché bisogna capire bene se ce lo siamo dimenticato, che il carcere ci riguarda. Il carcere è una parte della società che esiste. Dentro ci sono esseri umani, persone che attraverso una serie di responsabilità, di eventi, stanno pagando delle conseguenze. Sono lì. Ma lo scopo principale è quello di accompagnarli in un percorso evolutivo. Quindi, il fatto che loro escano trasformati ci riguarda tutti. Perché queste persone reimmesse nella società possono diventare non solo cittadini che non commettono più reati ma anche risorse, e in alcuni casi anche maestri. Affinché le persone che hanno abitato, visitato il buio, possono raccontarcelo. Questa cosa è preziosa perché ci mettono in guardia sulla possibilità che un essere umano ha comunque di commettere il male. Stefano Anastasia ricordava che in Italia almeno la metà dei 56.700 detenuti attualmente reclusi appartiene a quella che lui definisce “detenzione sociale”. Si tratta di povera gente che non ha nulla e non saprebbe dove andare se fatta uscire. Non si tratta di veri e propri “delinquenti”. Quindi diventa ancora più pressante dare a queste persone una speranza, un lavoro, degli sbocchi... Sì. Tra l’altro nella legge c’è un’ottica lavorativa. Perché si parla del teatro a 360°. Io ho scelto la formula Teatro perché intendo il teatro come contenitore delle arti. Per cui dentro ci sta tutto: musica, scenografia, pittura, danza, tutto. Il teatro è un contenitore omnicomprensivo. E questi sono mestieri. Assolutamente. Concordo. Infatti Armando Punzo sosteneva che questa legge è una legge ben fatta, che merita di essere sostenuta. Ben venga se si riesce a dare speranza, vita, diritti, a chi è marginalizzato... Gli incontri che facciamo in carcere ci aiutano a sospendere il giudizio, le etichette. A capire che abbiamo davanti solo esseri umani e basta. Ti racconto un episodio. Poco giorni prima che scoppiasse il primo lockdown siamo riusciti a fare una cosa senza precedenti nella storia di Montecitorio. Praticamente sono venuti dieci carceri, tra le carceri che avevamo incontrato. Dico dieci carceri nel senso che sono venuti poliziotti, educatori, detenuti, direttrici e direttori, del minorile, del femminile, del maschile. Abbiamo fatto un evento dove era particolarmente straniante la prospettiva della sospensione del giudizio. Perché allo stesso microfono vedevi l’artista, poi vedevi il detenuto, la direttrice, il presidente della Camera, vedevi il ministro dell’Istruzione che si alternavano. Per un attimo stavamo veramente tutti quanti insieme, lì in quel luogo dell’istituzione. C’erano le persone recluse che parlavano a quell’uditorio, pieno di rappresentanti delle istituzioni in silenzio ad ascoltare. Persone che normalmente devono chiedere il permesso per parlare erano lì per esprimersi, emozionare ed emozionarci. Quel momento è stato di una bellezza indimenticabile. “Ramona e Giulietta”, in scena lo spettacolo nato in carcere di Maria Antonia Fama collettiva.it, 13 maggio 2022 Mercoledì 18 maggio allo Spazio Rossellini, la prima romana della tragicommedia interpretata dalle attrici detenute della casa circondariale femminile di Rebibbia. L’intervista a Francesca Tricarico, autrice e regista. “Ramona e Giulietta” è la riscrittura tragicomica del classico shakespeariano, allestito all’interno della Casa Circondariale Femminile di Roma Rebibbia. Una storia d’amore e di rabbia, che parla delle carceri e delle sue privazioni, a cominciare dall’affettività negata. Mercoledì 18 maggio lo spettacolo andrà in scena a Roma, per una prima serale presso lo Spazio Rossellini, con il sostegno delle Officine di Teatro Sociale della Regione Lazio, della Fondazione Severino e della Fondazione Cinema per Roma. Scritto e diretto dalla regista Francesca Tricarico con le attrici detenute che hanno aderito al progetto “Le Donne del Muro Alto”, Ramona e Giulietta è interpretato dalle stesse attrici, che oggi continuano a portarlo in scena da donne libere o semilibere, ammesse alle misure alternative alla detenzione. Le “Donne del Muro Alto” è un progetto d’inclusione sociale e lavorativa attraverso il teatro, che offre alle donne detenute una prospettiva nuova per affrontare il proprio presente detentivo, ma anche di immaginare un futuro da persone libere. Francesca Tricarico, nel lavoro che fate con le detenute c’è sempre, all’inizio, una fase di riscrittura dei tesi scelti. Come avviene il processo di scelta e perché questa volta avete selezionato il grande classico shakespeariano? É interessante capire se partite dalle “urgenze comunicative” delle donne per andare incontro al testo scelto o viceversa... Questa è una domanda che mi piace molto. Io parto dalle urgenze del gruppo con cui sto lavorando, quindi c’è una prima fase di ascolto e di esercizio teatrale, per capire quello che il gruppo in quel dato momento ha necessità di esprimere e di raccontare. Poi cerco un testo che vi si adatti, che contenga quei temi, anche se apparentemente lontani e da qui partire per un lavoro di trasformazione e di riscrittura. Ad esempio lo spettacolo che stiamo ora portando in scena all’esterno è stato scritto e allestito nel femminile di Rebibbia in un periodo in cui lavorare nelle sezioni comuni era davvero complesso, c’era una grande rabbia tra loro, litigavano continuamente, molto più del solito. Il carcere non è ma il paese dei balocchi, ma quel tipo di rabbia era diversa e non riuscivo davvero a capire cosa stesse accadendo. Ho pertanto deciso di indagare attraverso il nostro training teatrale questo sentimento, ho così scoperto che l’anno prima proprio a Rebibbia Femminile che era stata celebrata la prima unione civile tra due donne all’interno di un carcere femminile italiano. Questo evento aveva diviso la popolazione detenuta in due fazioni, tra chi lo considerava un passo importante e chi una vergogna. É nata ad esempio così l’idea di riscrivere “Romeo e Giulietta”. Il teatro dà l’opportunità grandiosa di lavorare su temi anche spinosi, senza la paura di esprimersi liberamente, tutto viene giustificato dal raggiungimento di un obiettivo comune, l’andare in scena. E così è stato anche lì dove ho chiesto alle mie donne nella fase di riscrittura di non avere paura di esprimere anche le opinioni più scomode, necessarie per arrivare a un testo che davvero le rappresentasse, che fosse realmente lo strumento per portare la loro voce fuori. In questo lavoro abbiamo sdoganato tanti tabù, e compreso che la rabbia non veniva da chi amava chi, ma dalla frustrazione per chi non ha la propria compagnia o il proprio compagno in carcere di non potersi vivere la sessualità e prima ancora l’affettività. Ci siamo chieste tutte insieme, e oggi continuiamo a chiederlo al pubblico, cosa accade quando un uomo o una donna viene privato dell’affettività, cosa resta? Il teatro è sempre un acceleratore di emozioni. A questo proposito, il 18 maggio per la prima volta andrete in scena fuori dalle mura dell’istituto. Che sensazioni ci sono, nel gruppo, rispetto a questa cosa? Come viene vissuta? State facendo un lavoro di preparazione anche su questo? Voglio precisare che questa è la nostra prima serale romana, ma lo spettacolo lo abbiamo portato all’esterno già la scorsa estate. Abbiamo, io e le attrici detenute, riscritto tutte le scene di “Romeo e Giulietta” immaginandolo in carcere, ed è lì che è stato portato in scena la prima volta, trasformando tutti i personaggi in donne. È poi arrivata la pandemia e sono state bloccate per molti mesi le attività negli istituti penitenziari. È stato doloroso ricevere le loro lettere, sentire l’isolamento che stavano vivendo, ancora di più sentivano l’esigenza di portare fuori la loro voce anche se sembrava essere impossibile. Alcune di loro nel mentre erano uscite ammesse alle misure alternative alla detenzione o in libertà e chiedevano di fare qualcosa per loro e le compagne ancora recluse. É nata così l’idea di continuare all’esterno e il magistrato di sorveglianza ci ha concesso i permessi. Ho riunito le donne che avevano lavorato al testo quando erano ancora recluse e lo abbiamo riallestito per andare in scena fuori. Lo spettacolo è rimasto lo stesso ma abbiamo apportato dei cambiamenti per qualcosa era cambiato nel frattempo, ad esempio oggi il finale è dedicato all’attesa. L’attesa di uscire quando si è dentro, l’attesa di ritrovare un proprio ruolo, posto in famiglia, nel mondo del lavoro, come donna dopo un’esperienza detentiva. Di scardinare, dentro come fuori, lo stigma legato alla detenzione e in particolare a quella femminile. La società ha molta più difficoltà ad accettare una donna che è stata reclusa rispetto a un uomo, come se per una donna ancora oggi non fosse possibile sbagliare. Probabilmente la fase più delicata del lavoro fuori è stata prepararsi ad affrontare il pubblico da donne libere o semilibere con uno spettacolo che dichiara che le interpreti sono attrici ex detenute. Sono state determinate fin dall’inizio, hanno scelto di metterci la faccia, per loro e le loro compagne ancora recluse, perché se per prime loro provano vergogna del loro passato come può la società fuori accoglierle? Questo si sono domandate e per questo hanno scelto di continuare il teatro anche fuori, un’attività che le supporta accompagnandole in un’inclusione lavorativa e sociale. Non è semplice per loro e le loro famiglie, ma sentono di doverlo e volerlo fare, ammiro la forza e il coraggio che hanno. Il teatro in carcere è per le detenute una delle poche occasioni di contatto con il mondo esterno. Può, nella vostra esperienza, diventare anche un’occasione lavorativa per il dopo, o quanto meno un ponte lanciato verso il mondo del lavoro una volta uscite, sia da un punto di vista psicologico che sociale? Questo progetto nasce proprio con la volontà di accompagnarle nella fase più difficile per chi ha vissuto un’esperienza detentiva, il ritorno alla società civile, che troppo spesso non è pronta ad accoglierle. Per assurdo, in carcere vivono tutte le difficoltà che quell’esperienza comporta, ma c’è una sorta di cuscinetto che le protegge da alcuni problemi. Quando escono, se non hanno una famiglia che le accoglie, una casa, un lavoro, è difficile non perdersi. Ho iniziato a sentire sempre di di più la necessità di comprendere e fare qualcosa per il dopo carcere negli anni ascoltando le paure delle donne in uscita, la gioia mista al dolore per l’assenza di un posto dove tornare, una casa o una famiglia. Questo progetto fuori vuole essere innanzitutto un luogo e uno spazio per acquisire competenze sempre nuove da utilizzare in ambito teatrale ma non solo. Una produzione teatrale non ha bisogno solo di attori, vuole essere quindi una formazione dal punto di vista attoriale ma anche degli aspetti organizzativi e del lavoro delle maestranze. Un lavoro, infatti tutte le attrici della compagnia vengono pagate per l’attività attoriale. Il teatro come lavoro In un momento in cui non sono mai abbastanza le battaglie necessarie affinché le attività culturali vengano riconosciute come un lavoro. Alcune delle mie attrici hanno ricevuto proprio il loro primo compenso lavorativo fuori proprio attraverso quest’attività. Uno strumento per abbattere lo stigma sociale su cui stiamo lavorando anche attraverso l’incontro con i giovani nelle scuole e in particolar modo con gli studenti del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre - i futuri educatori che andranno a lavorare nelle carceri. Particolarmente forte è stato l’ultimo incontro che abbiamo fatto nell’istituto “Acquaroni” di Tor Bella Monaca, dove tra gli studenti che hanno ascoltato le nostre attrici ex detenute c’erano i figli di signore ancora recluse a Rebibbia. Come lei sottolineava, intorno alla figura del detenuto (e alla detenzione in generale) c’è uno stigma sociale che queste persone si portano addosso per tutta la vita, e che ha una sua specifica declinazione al femminile: la figura ancestrale della donna madre che non può sbagliare e che, se lo fa, è Medea. Il teatro in carcere non aiuta solo chi sta dentro, ma anche chi sta fuori... Sono sempre più convinta che il teatro in carcere faccia bene al teatro fuori, alla società esterna. Noi lavoriamo con cinque, dieci, venti detenute, ma il lavoro che possiamo fare con la società fuori è molto più grande. Il carcere è una lente d’ingrandimento sulla società. Quello che accade lì dentro, le dinamiche relazionali, la burocrazia etc., non è altro che quello che accade fuori solo che all’ennesima potenza, concentrato in un ambiente ristretto e costretto. La rabbia che viene dall’affettività negata, raccontata in “Ramona e Giulietta”, per una personale frustrazione, è così diversa dalla rabbia che incontriamo quotidianamente nella vita di tutti i giorni? Penso agli episodi violenti nelle manifestazioni contro le famiglie arcobaleno, da dove nasce la necessità di mostrare il proprio disaccordo in modo violento? ll teatro ci offre l’opportunità di scoprire che non esiste un noi e un loro, ma solo storie di uomini e donne. Ecco perché non amo a teatro la narrazione del meticoloso e morboso elenco dei reati, che si possono leggere tranquillamente online, ma il racconto di ciò che ci accomuna nel nostro essere donne o uomini al fine di porci sempre domande nuove per crescere in carcere e fuori. Infine, tornate in scena - e tornate a fare teatro in carcere - dopo la faticosa pausa imposta dalla pandemia. Un dramma doppio, che ha reso le vostre attrici doppiamente prigioniere. Che effetti ha avuto su di loro questo isolamento ancora più forte determinato dal virus? State facendo o farete un lavoro specifico anche su questo? Il lavoro che sto facendo ora con le mie attrici ex detenute risente degli effetti della pandemia legati al passaggio per alcune di loro dal carcere alla casa famiglia, ai domiciliari ad esempio, mentre il lavoro realizzato a dicembre scorso nel carcere femminile di Rebibbia è stato dedicato al racconto dell’emergenza sanitaria vissuta in carcere, dalle sanificazioni alle video chiamate, utilizzando a pretesto la storia di una buffa faraona nell’orto di Rebibbia e della regina Didone. Per assurdo dentro hanno affrontato il Covid molto meglio di noi. Per quanto per loro sia stato dolorosissimo l’isolamento -nessuna attività, nessun familiare, solo video chiamate - le detenute che ho incontrato hanno accettato le restrizioni con la consapevolezza della necessità del momento nonostante la paura per l’impreparazione nella gestione di un evento del genere fuori e dentro le carceri. All’esterno stavamo impazzendo per le restrizioni e comunque potevamo stare al telefono, al cellulare, internet eccetera, loro no, avevano solo pochi minuti a settimana di videochiamate, non ricordo se 10 o 20 minuti a settimana. La tribuna cinica della televisione di Massimo Recalcati La Stampa, 13 maggio 2022 La diagnosi di Pasolini sulla televisione nell’Italia degli anni Sessanta-Settanta era severa: asservita al nuovo tecno-fascismo, operava uniformando conformisticamente le coscienze al “sistema dei consumi”. Una nuova religione - quella pagana e permissiva del consumo compulsivo - trovava in essa il suo megafono ideologico. I vari talk show che hanno oggi monopolizzato il dibattito politico nel nostro paese rivelano il carattere datato di questa diagnosi. Al centro adesso non è più il bavaglio del dissenso, ma la meschinità cinica dell’audience. Anche su grandi temi come quelli della pandemia e della guerra si è imposta la tendenza a subordinare l’importanza dei contenuti alla macchina commerciale. Perché nel tempo della pandemia veniva dato uno spazio sproporzionato a una sparuta minoranza di no-vax? Non mi riferisco alle legittime critiche nei confronti delle misure sanitarie approvate dal governo, ma alle tesi che sostenevano l’esistenza di complotti improbabili o alla sottovalutazione irresponsabile della minaccia del virus. E perché oggi, unico esempio in Occidente, la nostra televisione offre così facilmente la sua tribuna a opinionisti apertamente filo-putiniani, anti-occidentali o a giornalisti militanti del regime di Putin, quando non addirittura ai suoi più eminenti rappresentanti politici? Davvero sarebbe in gioco la difesa del pluralismo? Davvero il contraddittorio in questi casi sarebbe al servizio della libertà di opinione? La risposta mi pare più semplice e ripugnante: funziona in termini di share. Non importa se a parlare del Covid venivano invitati giornalisti, attori, cantanti, comici in declino o professori, tutti in cerca spasmodica di visibilità mediatica, a farneticare, senza competenze adeguate, sulla pandemia, sulla validità della vaccinazione, sulle proprietà clinico-terapeutiche del vaccino, ecc. In quel modo è avvenuta la codificazione di un metodo che si sta riproponendo sul tema della guerra in forma integrale: sono le stesse facce che sostenevano le più improbabili tesi sulla pandemia e sui retroscena complottisti - con qualche aggiunta francamente farsesca - a girovagare sugli schermi televisivi teorizzando in funzione filo-russa e anti-Nato. La constatazione cinica è la stessa: funziona. Il meccanismo del conflitto agonico tra tesi contrapposte sollecita un’attrazione irresistibile. In termini psicoanalitici si tratta di una proiezione inconscia dell’aggressività degli spettatori. E’ in piccolo quello che accade in grande con la guerra. Esiste una torbida attrazione umana per lo scontro, la violenza, il conflitto, la lotta a morte, la contrapposizione bellica. L’aspetto preoccupante è che sempre più la nostra televisione si presta ad alimentare questa logica primitiva facendo molto spesso scivolare dietro le quinte i contenuti del dibattito. Ma essa non dovrebbe informare, favorire la formazione delle libere opinioni, dibattere. “E’ proprio quello che intendiamo strenuamente difendere!”, rispondono allarmati i conduttori dei talk-show invocando il conflitto delle interpretazioni come anima della democrazia di cui la televisione dovrebbe garantire l’esercizio, pena il ripristino autoritario e inaccettabile della censura. Dunque, secondo questo ragionamento, sarebbe corretto invitare a un dibattito sulla pedofilia un pedofilo praticante? Sulla Shoah uno storico negazionista? Sul futuro del nostro sistema solare un terrapiattista? Non si vede qui il confine che deve differenziare un dibattito democratico dalla mera propaganda ideologica? Consentire l’affermazione televisiva che il Covid è solo una invenzione delle grandi case farmaceutiche o che l’Ucraina è un paese nazista non significa avvalorare il conflitto delle interpretazioni, ma dare credito a mere falsificazioni ideologiche. Non si vede la differenza? Impedirne la visibilità mediatica sarebbe una forma di censura o il presidio della soglia simbolica che distingue le diverse interpretazioni dagli slogan della propaganda. Di fatto quello che sta accadendo è che nel nome del contrasto nei confronti del pensiero unico, del mainstream, ecc, si attribuisce autorevolezza e competenza a personaggi che solo l’apparizione televisiva abilita nel ruolo autorevole di opinionisti. Per questa ragione la presa di parola anche per pochi secondi in talk show sempre più affollati e caotici, con ritmi di pensiero twitter, risulta vitale e da costoro perseguita con autentico spirito di abnegazione (sic!). Questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, invece, dare credito a giornalisti russi di regime o a sostenitori occidentali della tesi putiniana che l’Ucraina è un paese nazista che deve essere denazificato, espone quella tribuna a diventare essa stesso strumento letale di propaganda. Accadrebbe lo stesso se essa fosse affidata a un pedagogo pedofilo. Sebbene l’audience ne guadagni, naturalmente. Per il Copasir in televisione è in corso una guerra ibrida di Daniela Preziosi Il Domani, 13 maggio 2022 Non ci sono spie “attenzionate” dai nostri servizi segreti dentro la tv pubblica, non c’è un’attività “occhiuta” che potrebbe ricordare, per dirla con ironia, una storia di Le Carré o, per dirla più seriamente, un’inquisizione alla McCarthy. Il tema che il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ieri ha messo in luce con l’audizione dell’amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, è più generale. È in atto un fenomeno di infowar, viene direttamente dal Cremlino e supporta la guerra di invasione contro l’Ucraina. I media, pubblici e privati, debbono dunque avere una capacità di lettura di questo fenomeno. Poi ciascuno si regolerà come crede. Questo almeno è quello che si riesce a ricostruire sull’incontro di ieri. Incontro secretato, come sempre. Il presidente Adolfo Urso (FdI), che pure negli scorsi giorni ha rilasciato molte “spiegazioni” sull’attività in cui è impegnato il Copasir, ieri ha riferito che l’audizione di Fuortes, “come quelle già svolte nei giorni scorsi con i direttori dell’Aise (l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, ndr) e dell’Aisi (quella la sicurezza interna, ndr) si inquadra all’interno dell’approfondimento che il Comitato sta conducendo sulla ingerenza e sulla attività di disinformazione messe in campo da attori statuali, alla luce di un fenomeno reso ancor più preoccupante dopo l’invasione della Russia in Ucraina”. Il confronto, secondo Urso, “si è rivelato proficuo, fornendo utili indicazioni al fine di preservare la libertà, l’autonomia editoriale e informativa e il pluralismo da qualsiasi forma di condizionamento e di accrescere il livello di resilienza dell’intero sistema paese”. Il ciclo di audizioni si è reso necessario, spiega Enrico Borghi (componente Pd del Comitato), anche rispondendo agli attacchi ricevuti: “La nostra competenza si attiva nel momento in cui sul nostro tavolo arrivano degli atti da parte del sistema dei servizi segreti. Abbiamo avuto dei rilievi ufficiali in documenti ufficiali, oltreché classificati, di questo tipo di attività. Dunque non potevamo non muoverci”. “Il Copasir non si occupa né intende occuparsi di palinsesti, programmi tv o scelta degli ospiti”, insiste Elio Vito (FI), “ma intende rappresentare non una preoccupazione bensì una realtà, denunciata più volte dai nostri organismi della sicurezza, dallo stesso Copasir nelle relazioni al parlamento e dalle autorità europee”. Fin qui le questioni di metodo. È scontato, dunque, che l’attività di scelta degli ospiti e degli esperti - come negli altri media - rientri nell’autonomia della Rai, in una catena che va dagli autori ai conduttori su fino ai direttori di testata (e non arriva all’ad). Ed è scontato che in questo ambito il Copasir non entri. Ma il Copasir non può esimersi dal trasmettere quello che a sua volta i servizi segreti gli hanno trasmesso. Che, nella sostanza, mettono in guardia sul fatto che in quella attività squisitamente giornalistica ci si possa imbattere in un’attività di guerra ibrida pianificata quotidianamente e direttamente da Mosca, che si sostanzia in disinformazione, ingerenza, influenza, fake news, attacchi cibernetici, come è successo ad alcuni siti istituzionali mercoledì scorso. Il passaggio chiave, il salto di qualità di questi mesi, sta nel fatto che si tratterebbe di una modalità funzionale al supporto della guerra russa in Ucraina. Un’attività che secondo i servizi sarebbe condotta incoraggiando la critica alle sanzioni contro Mosca, all’attività della Nato, al posizionamento dei governi occidentali. Qui il terreno si fa scivoloso, difficile da disintrecciare dalla libertà di espressione. Un problema consegnato ieri a Fuortes. Lo stesso che mercoledì prossimo sarà consegnato a Giacomo Lasorella, presidente dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Per quello che riguarda la Rai, ci sono la libertà del giornalista, l’autonomia dell’azienda e il contratto di servizio. Il Copasir non chiede censure (non può, grazie al cielo) ma di garantire l’accesso alla libera informazione, criterio in base al quale la Commissione europea ha preso la controversa decisione di chiudere Russia Today e Sputnik, “armi nell’ecosistema di manipolazione del Cremlino” secondo Josep Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera Ue. Non sono state date dunque informazioni precise su soggetti determinati, che non ci sono. Di fatto tutto resta consegnato alla professionalità e alla sensibilità dei professionisti. L’ad Rai sarebbe stato reso consapevole che nell’attività editoriale normale il servizio pubblico, oggi più di ieri, si può imbattere in un tentativo di disinformazione. Un esempio sono le ospitate di Nadana Fridrikhson, giornalista della tv Zvezda, di proprietà del ministero della Difesa russo. Non sta al Copasir stabilire che non si può fare. Il punto è avere gli strumenti per avventurarsi in quella sottile linea d’ombra fra informazione e propaganda. La deontologia professionale già sarebbe un potente antidoto alle fake news. Insieme alla sacrosanta correzione di qualche format: non a caso all’ultima audizione della Vigilanza Rai Fuortes ha annunciato l’intenzione di cambiare formula dei talk di informazione. Scatenando la polemica sul programma Cartabianca di Bianca Berlinguer, difesa da tutte le forze politiche, tranne il Pd ma per ragioni di format, appunto, ritenuto inadeguato. Per il momento la Vigilanza non ha trovato un accordo sulle linee guida sugli ospiti delle trasmissioni informative Rai. M5s accusa il presidente Alberto Barachini di usare criteri o “ampiamente scontati” o tendenti a rasentare “l’ingerenza della politica” nell’informazione. Secondo i documenti che solo il Copasir ha potuto visionare, ci sarebbe un altro livello di disinformazione, più subdolo, e dunque ancora più scivoloso: ci possono essere soggetti non necessariamente riconducibili all’infowar, reclutati anche inconsapevolmente, o “risvegliati” in questo contesto. Il Copasir sarebbe stato unanime nei toni dell’audizione, al netto del silenzio della Lega. C’è anche un corollario alla recente attività del Copasir: cambiare la legge sui servizi segreti. Nel 2007, la data dell’ultima riforma, non c’erano i social. E, tanto per fare un altro delicatissimo esempio, la legge preclude il contatto con chi è iscritto all’Ordine dei giornalisti, mentre in altri paesi i servizi fanno della disinformazione un elemento centrale della loro attività. Altro tema a rischio di cantonate e pulsioni di reclutamento, insomma di clamorosi scivoloni. Il governo italiano pronto a fornire artiglieria pesante all’Ucraina di Gianluca Di Feo La Repubblica, 13 maggio 2022 Due equipaggiamenti dovrebbero essere nella lista delle consegne a Kiev: i cannoni FH70 (con gittata superiore ai 20 chilometri) e i fuoristrada blindati Lince dell’Iveco, in grado di resistere alle mine. Il nuovo pacchetto di aiuti militari italiani all’Ucraina non è stato ancora definito e la selezione dei materiali viene portata avanti nel massimo segreto. Ma due equipaggiamenti sembrano sicuramente destinati a entrare nella lista delle prossime consegne a Kiev. Il primo sono i pezzi di artiglieria in calibro 155 millimetri, quelli che molti Paesi della Nato stanno rapidamente trasferendo al fronte per contrastare la potenza delle batterie russe. L’Italia dovrebbe fornire i cannoni FH70, dotati di un motore che permette piccoli spostamenti. Si tratta di sistemi concepiti negli anni Settanta ma ancora molto validi. Sono lunghi dodici metri, hanno una gittata superiore a venti chilometri e ogni proiettile contiene dieci chili di esplosivo. L’esercito ne ha inizialmente acquistati 160 e diverse decine sono state messe in riserva: possono essere spediti subito in Ucraina. L’altro mezzo selezionato dovrebbe essere il Lince, il fuoristrada blindato dell’Iveco in grado di resistere alle mine. Un veicolo utilizzato anche dalle forze russe e di cui gli ucraini hanno catturato diversi esemplari. Anche in questo caso, le scorte dell’Esercito permettono una cessione rapida. Diversa la situazione dei sistemi per guerra elettronica e dei droni da ricognizione che Kiev chiede a tutti i governi occidentali. Leonardo ne produce diversi modelli ma attualmente la difesa italiana ne possiede pochissimi. L’ipotesi è che vengano commissionati dall’Ucraina alla fabbrica, con un normale contratto. Lo stesso potrebbe accadere con i droni da ricognizione Falco, che in passato Leonardo ha noleggiato ai contingenti militari dell’Onu, e con altri modelli di velivoli teleguidati più piccoli realizzati da aziende italiane. Perché la morte non sia più irrimediabile pena di Mario Marazziti Avvenire, 13 maggio 2022 Era una tiepida giornata romana esattamente vent’anni fa, il 13 maggio 2002, quando a Sant’Egidio 23 organizzazioni piccolissime o internazionali come Amnesty International, Fidh, Penal Reforme International, Sant’Egidio hanno firmato il certificato di nascita della Coalizione mondiale contro la pena di morte. Con 11 co-fondatori demmo vita al primo Consiglio esecutivo. Nessuno Tocchi Caino, una delle 7 organizzazioni italiane, scelse presto una strada autonoma. I francesi erano 6, tre gli americani, due inglesi, altri venivano dal Belgio, dall’Uzbekistan, da Giappone e Germania. Era la concretizzazione di uno dei punti-chiave della Dichiarazione finale del primo Congresso mondiale contro la pena capitale che si era tenuto a Strasburgo nell’estate 2001, per iniziativa dei francesi di Ecpm, sostenuti dal pioniere dell’abolizione della ghigliottina in Francia, Robert Badinter. I promotori, Ecpm, che non avevano ancora un reseau internazionale, chiesero aiuto ad altri, come Amnesty, Sant’Egidio, Fidh per radunare associazioni e attivisti dei diritti umani che operavano in ordine sparso. Divisi tra “abolizionisti” e chi, anche su scala locale, cercavano di fermare le esecuzioni. “Abolizione” e “Moratoria” sembravano due mondi, perché era diffusa la convinzione che lavorare a una moratoria fosse troppo poco e, in fondo, non implicasse un rifiuto assoluto della pena capitale. Ma alla fine era stato votato un documento che includeva anche la moratoria come “un passo verso l’abolizione”. E questo è diventato anche il Dna della Coalizione mondiale. Se a maggioranza non fosse stata accettata anche la battaglia per una moratoria universale - sostenuta soprattutto dagli “italiani” Nessuno Tocchi Caino e Sant’Egidio, ma condivisa anche da Amnesty International, la Coalizione si sarebbe trovata presto fuori da quella che è diventata un’accelerazione, e che nel 2007 - dopo l’orrore dell’impiccagione di Saddam - ha portato all’approvazione della prima Risoluzione per una moratoria universale dall’Assemblea Generale dell’Onu: 103 voti a favore, quando i Paesi abolizionisti a quella data erano 91. Il movimento non era ancora un movimento, ma un sogno. La Wcadp, la Coalizione, ha contribuito a questo, come mostrano le oltre 150 organizzazioni che la compongono oggi, con una rappresentatività planetaria e non più, come agli inizi, soprattutto franco-italiana ed europea, con un’esile rappresentanza americana e asiatica. Intanto, il mondo è cambiato, e la pena di morte, per la prima volta nella storia, è vicina a essere bandita dalla coscienza ufficiale del mondo, come la tortura e la schiavitù. Siamo davvero dentro una svolta della storia, perché la pena di morte, che accompagna l’umanità da cinquemila anni, dagli antichi egizi, dal Codice di Hammurabi, dalla Legge del taglione, per la prima volta è scomparsa da gran parte del mondo. Nel 1975 erano ancora solo 16 i Paesi che l’avevano abolita. Oggi sono 144, per legge o di fatto, e nel 2020 solo 20 Paesi l’hanno utilizzata davvero. Quando nasceva la Wcadp i Paesi abolizionisti erano 73, sono quasi raddoppiati in vent’anni. Gli ultimi a unirsi sono stati il Ciad e il Kazakhstan. Ma vanno anche aggiunti 10 Stati americani, dal New Jersey alla Virginia, che l’hanno abolita in 15 anni, e tre che hanno dichiarato una moratoria governativa, come la California che ha chiuso il braccio della morte. Quest’anno Ohio e Utah devono decidere su un progetto di abolizione che è portato avanti da un largo gruppo di senatori e deputati bipartisan. L’unico documento internazionale vincolante, che bandisce la pena di morte, il cosiddetto Secondo protocollo opzionale della Convenzione sui diritti civili e politici, nel 2002 era stata ratificata da 47 Paesi. Oggi da 90. Nel frattempo è nata, il 10 ottobre di ogni anno, la Giornata Mondiale - ed europea - contro la pena di morte. Nel 2002 fu celebrata il 30 novembre, appoggiandosi al network delle Città per la Vita. Oggi due mobilitazioni planetarie contribuiscono a rafforzare le iniziative abolizioniste anche nel Sud del mondo. Una è più rivolta alle istituzioni, e l’altra guarda più alla società civile. Da Roma sono cresciute le Conferenze internazionali dei ministri della Giustizia, che mettono a valore l’esperienza maturata dalla Comunità di Sant’Egidio nelle mediazioni per la pace, e hanno aiutato a maturare l’abolizione in diversi Paesi africani o asiatici, come la Mongolia. Non sembra più impossibile che possa entrare presto nell’archivio della storia una pena che è sempre “inammissibile”, come ha sintetizzato, per il mondo, Papa Francesco. Russia. Memorial, la ong chiusa da Putin 5 giorni dopo la guerra di Viviana Mazza Corriere della Sera, 13 maggio 2022 “Lo Stato vuole controllare come ricordiamo il passato”. Segej Bondarenko ha documentato e insegnato la storia dello stalinismo e spiega perché ricercatori come lui agli occhi del Cremlino sono pericolosi. “Volevamo raccontare come i gulag fossero un’idea statale. Ma lo Stato è tutto in Russia” Sergej Bondarenko, classe ‘85, è uno dei più attivi storici di Memorial, la Ong russa nata durante la Perestrojka per documentare i gulag e le vittime dello stalinismo, raccogliendo volti, nomi, storie e scavando negli archivi appena furono aperti. Memorial è stata chiusa il 28 febbraio scorso, cinque giorni dopo l’invasione dell’Ucraina. Sembra strano che storici, archivisti, bibliotecari siano visti come “pericolosi”? Ciò testimonia come il Cremlino combatta una guerra contro la memoria parallelamente a quella che combatte sul campo. Lo scorso marzo, Bondarenko e i colleghi rimasero per 15 ore davanti agli uffici della loro organizzazione, occupati da personale in borghese dell’Fsb e del centro “anti-estremisti”. Quando il personale di Memorial riuscì ad entrare, nelle prime ore del mattino, trovò cinque o sei “Z” scritte sulle porte e le pareti. “Quegli agenti erano in 8 o 9, forse si annoiavano, nell’attesa che arrivassero gli specialisti per entrare nei nostri computer…”. Ora Bondarenko si è rifugiato a Berlino e sarà ospite del festival vicino/lontano il 12 maggio in Italia, in un incontro realizzato in collaborazione con l’Associazione Friuli Storia, ma vorrebbe tornare in Russia per continuare il suo lavoro. “Sono uno storico, ho studiato nell’università di Mosca e ho lavorato per Memorial per 12 anni. In molti diversi ruoli. Ho iniziato nel programma per bambini, in 2000-3000 ci mandavano i loro temi di Storia e noi ne selezionavamo 50-60 che venivano a discuterne con noi. Ho iniziato come insegnante, quindi, ho proseguito come editor del sito di Memorial e poi mi sono occupato di idee per nuove mostre, ho lavorato a testi storici e agli archivi, ovvero il nostro “Libro della Memoria di Mosca”, che consiste nella ricerca dei file delle persone che furono perseguitate ai tempi di Stalin, perché al momento conosciamo solo il 20-30% delle storie, per il resto sappiamo solo i nomi ma non cosa è successo loro davvero”. È vero che lo Stato russo più che negare gli eventi (in realtà non nega completamente nemmeno i gulag) vuole controllare la Storia, per poterla marginalizzare se pericolosa, ed eventualmente costruire storie alternative che neutralizzino gli “effetti” non voluti? “Penso che questa analisi del rapporto tra lo Stato e la memoria sia corretta. Non è che Putin e il governo russo dicono che i gulag non sono mai esistiti. Il punto è il monopolio dello Stato, vogliono dirci come ricordare, qual è la narrazione. Per esempio, il 29 ottobre è il giorno in cui ricordiamo i nomi di fronte alla Lubjanka, un evento pubblico (la restituzione dei nomi, un evento in cui i cittadini comuni leggono i nomi delle vittime dello stalinismo, ndr) e abbiamo avuto negli ultimi anni alcuni problemi, non solo dovuti al Covid ma anche al fatto che lo facciamo a 100-200 dal vecchio Kgb (ora Fsb). Da cinque o sei anni, lo Stato ha creato la sua Giornata della Memoria, che non si celebra vicino alla Lubjanka ma ad un altro monumento...” Un monumento dedicato alle vittime ma in modo più vago? “Più ampio… non mi fraintendete, è una buona cosa che l’abbiano fatto. Lo stesso Putin ha tenuto un discorso all’inaugurazione e ha usato le parole giuste, ma è indicativo che le autorità abbiano detto che è questo il luogo dove andare e che abbiano creato anche un loro museo statale del gulag. Per Memorial la cosa importante era dire che le purghe erano non un errore, ma un programma statale, erano basate sull’idea statale di eliminare le persone che hanno idee politiche diverse. Va capito questo per capire tutto il resto. E vanno ricordate le persone, con volti, nomi e storie. Insomma, abbiamo sempre avuto sensazione che le autorità prendessero il nostro lavoro e lo usassero secondo le priorità statali, ma non potevamo immaginare che sarebbe finita così. Per quanto mi riguarda, solo a febbraio mi è stato chiaro che avrebbero chiuso Memorial. E non avrei mai immaginato che cinque giorni dopo sarebbe scoppiata la guerra”. È negli anni Novanta che siete stati spinti all’opposizione? “Nella nostra cerchia c’è un grosso dibattito su questo punto: quand’è stato il momento in cui è cambiata la situazione? Durante la Perestrojka tutti gli archivi furono aperti, tutti gli attivisti che fondarono Memorial parteciparono al processo della loro apertura, inclusi Arsenij Roginskij o Nikita Petrov. Ma già durante gli anni di Eltsin c’era l’idea che ci si dovesse fermare da qualche parte, che non si dovesse andare più a fondo, semplicemente perché bisogna avere qualcosa su cui costruire. I fondatori di Memorial erano combattenti per la libertà, ma nei primi anni 90 pensarono di aver vinto e immaginarono che ciò che restava da fare era creare progetti educativi, come musei e archivi. Negli anni di Putin, però, anno dopo anno, le cose cambiarono. Tra il 2008 e il 2010 ce ne siamo resi conto davvero”. Memorial è composto da una associazione che si occupa della Storia e da un centro per i diritti umani. In che modo queste due parti sono legate? “Sin dall’inizio, c’era l’idea che non si possa lavorare sul passato senza farlo anche nel presente, se ti trovi davanti fenomeni come la nuova guerra in Cecenia e problemi di diritti umani devi fare qualcosa. È incredibile però oggi quanto poco i giudici e i procuratori prestino attenzione alla differenza tra le due organizzazioni di Memorial, che pure rientrano sotto leggi e protocolli diversi. Hanno detto che avrebbero chiuso Memorial e per loro è stato facile”. È una coincidenza che la guerra sia iniziata proprio mentre Memorial veniva chiuso? “Non credo. Sin dall’inizio ci siamo chiesti quale fosse esattamente l’obiettivo, penso che capiremo le ragioni più avanti. Non posso dire che Memorial sia stato chiuso per via della guerra in Ucraina. Passo dopo passo hanno chiuso tutte le Ong, tutte le organizzazioni della stampa indipendente, in pratica era una questione di tempo. Ma quando lo hanno deciso, è avvenuto molto rapidamente, in un paio di mesi era finita”. L’immagine di Stalin torna ad essere glorificata oggi in Russia? “Bisogna fare una precisazione importante: non posso dire che questo sia uno Stalin reale. Lo stesso Putin, nel suo problematico discorso storico, non lo glorifica affatto. Tutto questo è iniziato prima di Putin, ai tempi di Breznev, quando Stalin era un simbolo dello Stato stesso. L’idea di Stalin e l’idea dello Stato sono sempre state grandi e pompose, ma astratte. Ma non è la figura storica che conta, Stalin è l’immagine dello Stato vittorioso, della vittoria stessa. E adesso è finita. Abbiamo vissuto l’ultimo 9 maggio del nostro tempo”. In che senso? “In Russia, quando diciamo che qualcuno era un eroe della guerra, o parliamo di “prima” o “dopo la Guerra”, ci riferiamo sempre della Grande Guerra Patriottica, anche se abbiamo avuto la guerra in Afghanistan, la guerra in Cecenia e molti conflitti regionali, però pensiamo sempre a quella Guerra con la G maiuscola. Adesso invece abbiamo una guerra che annulla in qualche modo tutte le cose buone della Grande Guerra Patriottica. Anche per le persone più scettiche e di sinistra, per quanto problematica la Grande Guerra Patriottica era qualcosa di molto importante. Ma ora, anche se Putin perdesse il potere l’anno prossimo o quello dopo, questa giornata come parte della Grande Storia russa è finita”. Il presente della guerra ha cambiato la memoria del passato? “Non solo la memoria, ma il suo senso. Il senso che eravamo nel giusto, che eravamo vittoriosi perché il nostro obiettivo più grande. Il nostro orgoglio più grande era di aver vinto contro il fascismo…” Gli archivi di Memorial sono in pericolo adesso? “Gli archivi stessi sono in salvo, abbiamo archivi digitali, libri, attivisti, non perderemo queste cose. Spero che abbiamo realizzato delle cose che non possono essere cambiate, ma la domanda è: se e quando la situazione politica cambierà, possiamo fare qualcosa per rivitalizzare il lavoro pubblico di Memorial? Avremo ancora un’organizzazione? Non sono sicuro di avere una risposta. Per ora non esistiamo come organizzazione come due o tre mesi fa, ma siamo le stesse persone, partecipo agli stessi incontri via zoom, non sono a Mosca ma ho la mia versione digitale degli archivi. Come gruppo per un paio di anni avremo lavoro da fare, ma quel che resta da vedere è come funzionerà l’organizzazione”. Quando parla di cambiamento politico in Russia, cosa immagina? “È davvero difficile per me immaginare quanto a lungo continuerà questa situazione. È difficile predire come le cose possano cambiare in meglio. Prego che la Russia come Stato perda questa guerra. Un mese e mezzo fa speravo che l’Occidente potesse vendere a Putin una idea di accordo di pace che lui a sua volta potesse vendere al pubblico russo come una sua vittoria, ma ora non riesco più a immaginare come ciò sia possibile. Forse ci sarà una guerra civile in Russia oppure la guerra in Ucraina continuerà per anni”. Fino a che punto la società russa ha elaborato la memoria del passato? I russi credono a Putin oppure no? “La mia impressione è che la maggior parte delle persone conoscano più o meno la Storia della loro famiglia. In Russia è difficile immaginare che la tua famiglia - se prendi in considerazione gli ultimi cento anni - non abbia legami con le purghe e le repressioni dell’era Stalin o che non abbia perso qualcuno nella Grande Guerra Patriottica. In molti casi sono vere entrambe le cose. Ma quel che conta è l’interpretazione degli eventi, come sono connessi o meno. La battaglia principale che continua tuttora riguarda una domanda: possiamo separare noi stessi dallo Stato e dire che la nostra memoria come popolo consiste nel ricordare che lo Stato ha ucciso una grossa parte della società? Possiamo ricordare il passato così? Questa è la domanda principale. Molte persone non hanno smesso di credere a Putin e non sono contro la guerra. Pensano a sangue freddo che non possono farci nulla e quindi preferiscono ignorare queste cose. È come dire: so che nella mia famiglia mio padre o mio nonno sono stati uccisi dallo Stato, ma cosa posso fare? Ormai sono morti, e so che lo Stato è più forte. Se ricordi, puoi cercare di capire, tramandare la storia ai tuoi figli. Ma per molte persone resta dominante questo senso di impossibilità di agire, questa mancanza di comunicazione sociale. Lo Stato è tutto in Russia”. Palestina. Nella Jenin senza tregua è stata uccisa la giornalista Shireen Abu Akleh di Davide Lerner Il Domani, 13 maggio 2022 La cinquantatreenne giornalista americano-palestinese Shireen Abu Akleh del network qatarino Al Jazeera è rimasta uccisa mercoledì all’alba nella cittadina palestinese di Jenin durante un’incursione dell’esercito israeliano. La televisione di Doha ha immediatamente accusato i soldati dello stato ebraico di aver fatto fuoco sulla cronista specializzata nella copertura dei territori palestinesi definendolo un “caso lampante di omicidio”. “Le forze di occupazione israeliane hanno assassinato a sangue freddo la corrispondente dalla Palestina di Al Jazeera Shireen Abu Akleh”, ha dichiarato la rete in un comunicato, aggiungendo che come si vede nei materiali video “indossava una veste che la identificava chiaramente come giornalista”. In un briefing confidenziale su Zoom poche ore dopo l’episodio, fonti dell’Idf hanno fatto sapere di non aver ricostruito con certezza la dinamica dell’incidente, criticando la controparte palestinese per aver rifiutato una commissione d’inchiesta coordinata. E hanno virato sul contesto, ricordando come circa il 50 per cento dei terroristi coinvolti nell’ondata di attentati in corso in Israele provengano proprio da Jenin. Ricostruzioni opposte - Da parte sua il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato su Twitter che “secondo i primi elementi che abbiamo in mano, c’è una possibilità non trascurabile che la giornalista sia stata colpita dagli uomini armati palestinesi”. Lo scrive malgrado i colleghi di Abu Akleh presenti sul posto affermino che in quella fase non c’erano sparatorie contro gli israeliani. Il premier sostiene invece che i guerriglieri di Jenin facessero fuoco in modo “scombinato, impreciso e caotico”, mentre le forze israeliane rispondevano in modo “il più possibile preciso e responsabile”. I vertici dell’esercito si sono mantenuti prudenti, ma sui canali social l’unità dell’Idf deputata alla comunicazione, che da diversi anni fa propaganda in diverse lingue sulle piattaforme (spesso con toni poco ufficiali), ha diffuso un video per accusare i palestinesi. Si vede un militante che spara mentre qualcuno parla di un soldato rimasto a terra - secondo la ricostruzione, non essendoci vittime fra i soldati israeliani, sarebbe la prova che i guerriglieri avevano colpito la giornalista. Ma B’Tselem, una Ong israeliana, ha immediatamente mostrato come le immagini non abbiano nulla a che vedere con la morte di Abu Akleh, avvenuta a centinaia di metri di centro abitato di distanza. L’escalation - L’episodio ha suscitato un’ondata di indignazione sia da parte palestinese sia da parte degli attori internazionali. Il Qatar, che non ha normalizzato i rapporti con Israele ma intrattiene relazioni di fatto compreso l’accredito dei giornalisti di Al Jazeera presso le autorità israeliane, ha addirittura parlato di “terrorismo di stato”. Il contesto è un’escalation di violenze che dura da più di un mese e mezzo, e che ha attirato l’attenzione in particolare su Jenin e sull’annesso campo profughi. Dalla seconda metà di marzo è iniziata la peggiore ondata di attentati nelle città israeliane all’interno della linea verde dal 2015-2016. Ad oggi 19 israeliani sono rimasti uccisi in 7 diversi episodi di violenza: da sparatorie a sangue freddo nei centri abitati, compresa Tel Aviv, fino all’attentato di Elad la scorsa settimana in cui due palestinesi si sono messi a colpire passanti all’impazzata con coltelli e asce, uccidendo tre persone. Ordinaria amministrazione - Lo scorso mese ci sono state anche forti tensioni a Gerusalemme. La crescita esponenziale di visitatori israeliani al Monte del tempio/Spianata delle moschee negli ultimi anni ha dato àdito a teorie palestinesi secondo cui lo stato ebraico avrebbe in animo di alterare lo status quo del sito sacro sia per gli ebrei sia per i musulmani. Malgrado l’assenza di prove concrete in questo senso, tanto è bastato per scatenare duri scontri fra fedeli e forze israeliane nel periodo in cui coincidevano la Pasqua ebraica e la festività islamica del Ramadan. Ma sono prevalentemente gli attacchi - che risultano essere iniziative individuali spontanee prive di una regia coordinata - ad aver scatenato la reazione dell’esercito israeliano nei territori. E siccome come detto parecchi attentatori provenivano dalla zona di Jenin, la città è diventata il bersaglio principale delle rappresaglie. È utile ricordare che l’operazione durante la quale è rimasta uccisa la giornalista di Al Jazeera Shireen è ordinaria amministrazione nella Cisgiordania occupata. Se non fosse rimasta tragicamente colpita la corrispondente di un importante network internazionale, in pochi avrebbero avuto notizia del raid. Negli accordi di Oslo Israele aveva accettato di cedere la gestione della sicurezza nelle zone classificate come “Area A” - fondamentalmente tutti i principali centri abitati - all’Autorità Palestinese, ma di fatto invece ha continuato a fare incursioni, con o senza coordinamento con le autorità di Ramallah, ogniqualvolta lo ritenesse necessario. Jenin e la zona circostante rappresentano l’area A più grande della Cisgiordania. I precedenti - La cittadina e il suo campo profughi - che come quasi tutti i campi palestinesi risale al 1948 e dunque è costruito e si presenta alla stregua di un quartiere svantaggiato - erano destinazione di shopping per tanti arabo-israeliani che approfittavano dei prezzi più bassi rispetto all’interno della linea verde. Ma con l’ondata di attentatori provenienti dalla zona Israele ha chiuso a questo tipo di turismo a scopo punitivo, oltre a provvedere alla demolizione delle case dei terroristi secondo il controverso protocollo militare. Da diverso tempo Jenin era diventata una fonte di forti preoccupazioni non solo per gli apparati di sicurezza israeliani, ma anche per quelli palestinesi che non osano più penetrare nella zona vista come bastione dei militanti di Hamas, Jihad islamica e altri gruppi estremisti. Dopo un attentato suicida che aveva ucciso 28 israeliani durante la cena pasquale del 2002 a Netanya, a nord di Tel Aviv, il 3 aprile dello stesso anno il governo a guida Ariel Sharon aveva lanciato la più sanguinosa offensiva della seconda intifada. L’operazione aveva come obiettivo proprio il campo profughi della cittadina, popolato da palestinesi prevalentemente originari di Haifa, e noto negli ambienti militari israeliani come “il nido dei serpenti” proprio per il numero di attentatori suicidi. Dopo la resa degli ultimi 35 militanti il giovedì 11 aprile successivo, secondo la giornalista di guerra “Marie Colvin”, la famosa inviata di guerra inglese poi rimasta uccisa in Siria, per due giorni gli israeliani impedirono ai giornalisti di entrare nel campo. Poi divenne evidente l’enormità del bagno di sangue nella battaglia che lo stesso esercito israeliano definì “la guerriglia urbana più dura degli ultimi trent’anni”. Resistenza culturale - Il campo è anche sede di un noto polo culturale nella Cisgiordania settentrionale, il “Jenin Freedom Theatre”. Fondato da Juliano Mer Khamis, un artista ebreo-israeliano per parte di madre e cristiano arabo-israeliano per parte di padre, il teatro fondato nel 2006 ha avuto un successo internazionale per la sua promozione di una resistenza “culturale” all’occupazione israeliana. Mer Khamis, che aveva servito nell’esercito israeliano per poi divenire un radicale attivista filo-palestinese, è stato ucciso da dei sicari di fronte al teatro nel 2011, in un delitto che ad oggi rimane senza colpevoli comprovati. Il rischio è che finisca così anche per la giornalista Abu Akleh. Afghanistan. Le donne sfidano i talebani: “No al burqa, non saremo prigioniere”. di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 13 maggio 2022 “Pane, lavoro, libertà”, “il burqa non è il nostro hijab”. Hanno del coraggio da vendere le donne afghane che, nei giorni scorsi, sono scese in piazza a Kabul armate di cartelli per protestare contro la disposizione che le obbligherebbe ad uscire di casa coperte dalla testa ai piedi. “Vogliamo vivere come esseri viventi, non come prigioniere in un angolo della casa, non vogliamo essere tenute chiuse mentre i nostri mariti vanno a mendicare il cibo” ha detto una di loro, Saira Sama Alimyar. Martedì scorso la protesta è iniziata in piazza Ansari ed è arrivata davanti al ministero dell’Interno dove è stata dispersa con la forza dai talebani che hanno fatto a pezzi i cartelli e impedito ai giornalisti presenti di raccontarla. “Ci hanno sequestrato i cellulari e volevano portarci dentro il palazzo per farci confessare i nostri crimini” ha raccontato Zhulia Parsi. Nella capitale, comunque, l’ultimo editto del leader supremo dell’Afghanistan e capo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, per ora non è stato preso molto sul serio e sono poche le donne che girano per le strade indossando il copricapo che ti obbliga a vedere il mondo attraverso una grata e impedisce la visuale di lato. È una ribellione forte che coinvolge anche gli uomini perché è previsto che siano loro a pagare le conseguenze dell’”insubordinazione femminile”, persino con il carcere. A Kabul un venditore di burqa ha detto alla Reuters che nei giorni successivi al provvedimento i prezzi degli indumenti erano saliti del 30% per poi diminuire nuovamente visto che non c’era stato l’incremento della domanda che ci si aspettava. “La maggior parte delle donne preferisce comprare un hijab, piuttosto che burqa. Questa è l’ultima cosa che sceglierebbero le afghane” ha detto il negoziante. Il decreto di Akhundzada ordina anche alle donne di “stare a casa” se non hanno un lavoro importante ma questa è solo l’ultima di una serie di restrizioni imposte dal regime dei nuovi talebani che hanno preso il potere lo scorso 15 agosto. Il governo, formato naturalmente da soli uomini, ha abolito il ministero degli Affari femminili e lo ha sostituito con quello del Vizio e della Virtù, ha impedito alle ragazze di andare a scuola e vietato alle cittadine quasi tutti i lavori, ha imposto che le donne viaggino per lunghi tragitti solo accompagnate. Per citare solo alcuni dei provvedimenti. A non essere sorprese da questo salto indietro di 20 anni sono le attiviste per i diritti umani che avevano messo in guardia la comunità internazionale dalle false promesse e rassicurazioni dei talebani. “Noi siamo dottoresse, facciamo operazioni chirurgiche, dobbiamo lavarci le mani fino al gomito - hanno spiegato due mediche alla Reuters - coprirci la faccia e indossare abiti larghi interferirebbe con il nostro lavoro”. Di una cosa le afghane sono consapevoli: non sarà l’Occidente a salvarle dal baratro. La resistenza è nelle loro mani e in quella degli uomini che vorranno stare al loro fianco.