Un laboratorio di scrittura contro l’immutabilità del carcere di Giacomo Papi Il Foglio, 12 maggio 2022 Separazione e contrapposizione, come sempre. Ma una nuova lingua è possibile. Nell’ufficio del direttore del carcere di San Vittore è appeso un meraviglioso disegno a matita che occupa un’intera parete. È composto solo di fogli A4 incollati da cerotti di carta dell’infermeria. Al centro c’è il carcere visto dall’alto, “a volo d’uccello”, sui lati gli ambienti, le celle, le docce, i raggi, la cappella e la camera mortuaria. Ogni dettaglio è disegnato con cura, precisione e sapienza, a matita e acquarello grigio e marrone. È l’opera di qualcuno che è rimasto molti anni in prigione. Nella parte superiore del disegno - che per un attimo compare nel film “Il generale Della Rovere” di Vittorio De Sica” del 1959 - si legge: “Carcere giudiziario San Vittore. Prospetto planimetrico eseguito dal detenuto M.R. offerto al Direttore Superiore Comm. Dott. Gino Borgioli. Milano, Ferragosto 1950”. Oggi San Vittore è diventato una “Casa circondariale”, ospita cioè detenuti di passaggio o in attesa di giudizio, eppure appare identico ad allora, come nel dipinto del detenuto M.R. Il carcere si fonda sull’immutabilità. Dice Cosima Buccoliero, ex direttrice del carcere di Opera a Milano, il più grande d’Italia, nel bel libro “Senza sbarre” scritto con Serena Uccello e appena pubblicato da Einaudi: “E invece oggi il carcere è un’istituzione che esiste e persiste sempre con le medesime caratteristiche: la separazione e la contrapposizione. La contrapposizione tra custodi e custoditi, la contrapposizione anche tra gli stessi detenuti. L’emarginazione, la separazione e l’impermeabilità rispetto al mondo esterno”. Il carcere è uno spazio fuori dal tempo, che espelle la storia e perfino la cronaca, per illudersi di non poter più essere lambito dal mondo. Negare il tempo, però, significa negare la possibilità del cambiamento, significa disinnescare l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sono stato a San Vittore per un laboratorio intitolato “40 dì e 40 nott” organizzato per il centenario di Giorgio Strehler e tenuto da Davide Carnevali per il Piccolo Teatro, me per il Laboratorio Formentini della Fondazione Mondadori e Antonella Minetto ed Elvio Schiocchet per Biblioteche in Rete del Comune. Per un mese abbiamo lavorato con Josephine, Rita, Sorayda, Barbara, Lucia, Giovanna, Patrizia, Maria, Carmen, Michele, Roy, Popa e Vincenzo, che il 29 aprile hanno letto al pubblico i loro testi nella Rotonda, dove confluiscono i raggi. Ma nonostante gli sforzi del direttore Giacinto Siciliano e della vicedirettrice Elisabetta Palù, e dei precedenti Gloria Manzelli e Luigi Pagano, e il lavoro e la disponibilità degli agenti, per tutto il corso mi sono chiesto se il carcere abbia un senso e perché non sia stato abolito, come gli zoo. Secondo Filippo Giordano, Carlo Salvato ed Edoardo Sangiovanni di Bocconi e Lumsa, autori di “Il carcere”, il 68 per cento di chi sconta la pena in prigione torna a commettere reati contro i119 per cento di chi ha accesso a misure alternative, e ogni detenuto costa 154 euro al giorno, di cui 6,37 per il mantenimento e appena 0,35 per la “rieducazione” (parola che sarebbe bello sostituire con “educazione”, “formazione” o “istruzione”). Il carcere, cioè, è una gigantesca e costosissima macchina che funziona a uso quasi esclusivo dei più poveri, di chi non possiede nemmeno le parole per immaginare di uscire. Se non può essere abolito, forse bisognerebbe investire in lettura e scrittura, perché la violenza è una lingua che spesso sostituisce le parole. È quello che hanno scritto le donne con cui abbiamo lavorato: “Raccontarsi è liberazione”, “fa sentire il calore dell’uguaglianza”, “estrania dal posto in cui ci si trova e fa sentire la storia del momento e non la tua”. È quello che ha scritto Michele a sé stesso da libero: “Ti ricordi le sbarre? Ti ricordi le brande? Ti ricordi il carrello, quando arrivava la spesa? Ti ricordi come ti mancava la vita? L’odore del lavasecco di tuo padre. L’odore dell’asse da stiro di tua madre. L’odore delle galline di tuo nonno. Ti ricordi l’odore dell’erba bagnata del parco dove andavi all’asilo? L’odore dell’aria quando sta per piovere? L’odore dell’asfalto dopo la pioggia? E quello dell’ospedale quando è nato tuo fratello. L’odore fastidioso della saliva di tuo padre sul fazzoletto con cui ti puliva la faccia. Ma il profumo che ami di più, che amo di più, è quello che esce dalla borsa di mia mamma dove una volta si era rotta un’intera boccetta di profumo. Porto ancora in tasca il fazzoletto di stoffa che mi ha dato al primo colloquio”. È quello che dice Cosima Buccoliero nel finale di “Senza sbarre”: “Chi entra in una struttura penitenziaria deve imparare a ridare un nome alle cose, deve impadronirsi di una nuova lingua”. Imparare a raccontare, in fondo, significa capire che ogni storia può essere cambiata, anche la propria. Invocare nuove carceri vuol dire invocare l’inferno di Francesca Sabella Il Riformista, 12 maggio 2022 Quando pensiamo alle carceri, pensiamo inevitabilmente a grandi contenitori che tengono il “male” lontano da noi e dalle nostre case. Carcere è sinonimo di sicurezza: entra chi ha sbagliato, si getta la chiave e amen. Si getta, insieme con la chiave, gran parte dei diritti dell’uomo, di un’idea di società che riabilita e include nuovamente chi ha sbagliato, si getta anche l’idea di un’istituzione che deve rieducare e non punire. Tutti sappiamo benissimo cosa sono le carceri oggi: sono l’inferno in terra. Quando parliamo di carceri meno affollate, più dignitose, più umane parliamo di un’illusione. È un’illusione riformista quella di voler umanizzare l’inumano. Non abbiamo centrato il punto del discorso, ci giriamo intorno: il punto non è migliorare le carceri, il punto è che vanno abolite. Perché sono una fucina di male che genera male. È questo il punto. Eppure, ancora oggi c’è chi sostiene, in nome del sovraffollamento dei penitenziari, di dover aprire carceri dismessi ormai da tempo. La politica lo dice oggi che è morto un detenuto in circostanze ancora da chiarire. “I dati presentati dal garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello rappresentano una realtà sempre più preoccupante, che vede nel sovraffollamento il problema maggiore” - ha spiegato la deputata salernitana del Movimento 5 Stelle Anna Bilotti a seguito della presentazione di un’interrogazione parlamentare indirizzata al ministro della Giustizia - L’Osservatorio regionale sulla detenzione, infatti, quantifica in 6747 il numero dei detenuti nei 15 istituti della Campania, ben 971 in più della capienza e 320 in più rispetto all’anno precedente”. Poi il solito ritornello, prima di arrivare alla soluzione delle soluzioni. “La situazione sanitaria degli istituti penitenziari è allarmante - ha proseguito Bilotti - il sovraffollamento, i disagi psicologici, le lunghe attese per le visite mediche, prassi burocratiche complesse e trasferimenti che impegnano risorse umane e mezzi, l’assenza di figure professionali con formazione specifica. I dati sugli atti di autolesionismo, sugli scioperi della fame o della sete, sulle infrazioni disciplinari, sui suicidi e i tentativi di suicidio illustrati in questi giorni impongono una riflessione in primo luogo sull’edilizia carceraria”. Ecco la soluzione. “La chiusura nel recente passato di strutture sull’intero territorio nazionale non solo ha privato interi territori di importanti presidi come quello nel Vallo di Diano di Sala Consilina - ha spiegato la grillina - ma alla luce della fotografia attuale si è rivelata una scelta quantomeno rivedibile per le condizioni della popolazione carceraria. Per questo - ha concluso - ho chiesto al ministro della giustizia una riflessione su un tema che oramai non può essere più rimandato”. Non abbiamo capito niente, la storia non ci ha insegnato niente. Il carcere è l’appendice, come diceva Marco Pannella, è lo strumento con il quale pensiamo di governare il male. E così l’unica soluzione possibile appare quella di creare nuovi inferni nel quale gettare chi sbaglia. E nelle stesse ore nelle quali la deputata pentastellata lanciava la sua proposta, a Salerno un detenuto è morto. Sì, morto. Sapete perché? Perché non doveva vivere dietro quattro sbarre in una condizione disumana. È morto perché era affetto da problemi psichiatrici, è deceduto nell’ospedale della città dove era stato accompagnato dopo essersi reso protagonista di un’aggressione con un coltello rudimentale ai danni di un agente della Polizia Penitenziaria. Lo rende noto l’Unione dei Sindacati di Polizia Penitenziaria (Uspp). “Ci sono troppi detenuti psichiatrici all’interno delle carceri, - sostengono Del Sorbo e Giuseppe Moretti, presidente dell’Uspp - lo abbiamo già denunciato al ministro, nell’ultima manifestazione di protesta a Roma. Quest’ultimo episodio di Salerno dimostra - aggiungono i due sindacalisti - che la chiusura degli Opg ha destabilizzato il circuito penitenziario ordinario. Pochi sono gli strumenti di sostegno per questi soggetti che andrebbero presi in carico dalla sanità regionale. Invece - sottolineano - rimangono in carcere”. Appunto, cosa ci faceva in carcere una persona affetta da patologie psichiche? Aveva bisogno di cure, non di sbarre. Nel frattempo, la procura di Salerno ha aperto un fascicolo per fare luce sulla morte del detenuto. Solo ieri su queste colonne avevamo scritto della necessità di non aprire nuove Rems ma di potenziare i dipartimenti di salute mentale, per far sì che chi ha commesso un reato, ma soffre di disturbi psichici possa essere curato non attraverso una pena detentiva, in una cella che non poche volte si trasforma in una tomba. E ancora invochiamo più carceri, ancora invochiamo l’inumano. “Seconda Chance”, trovare lavoro ai detenuti: la scommessa (vinta) di una giornalista di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 12 maggio 2022 Lei è Flavia Filippi, cronista giudiziaria di La7. Il suo progetto si chiama “Seconda Chance” e si propone di rendere più operativa la Legge Smuraglia del 2000 che offre agevolazioni a chi assume detenuti. “Se riesco a farli incontrare la diffidenza svanisce”. “Entro nei ristoranti, nei bar, nei centri sportivi, contatto le aziende, i commercianti. La maggior parte nemmeno mi risponde. Quando riesco a parlargli, ne convinco uno su 50. Ma se riesco a prenderli per mano per portarli con me in carcere, sento che è fatta. A quel punto non è mai successo che dicano di no. Al contrario: se ne volevano uno, ne prendono due”. Flavia Filippi è un fiume in piena. Da quando ha lanciato il suo progetto “Seconda Chance”, si dedica anima e corpo a un’idea meravigliosa, compatibilmente con il suo lavoro di cronista giudiziaria a La7. Idea banale e spettacolare, dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato, sfruttare la buona volontà del legislatore, che ha previsto in alcuni casi il lavoro all’esterno, e sfondare il muro di gomma della burocrazia pubblica e della diffidenza privata. Riassumendo: la Legge Smuraglia del 2000 offre sgravi fiscali e contributivi a chi assume detenuti. Se assunti, anche a tempo determinato, escono dal carcere di giorno per lavorare e tornano di notte. Guadagnano. Si rifanno una vita. Si reinseriscono nella società. Si preparano a tornare a vivere. Sedici mesi fa, mentre noi ci lamentavamo per il lockdown e lanciavamo alti lai sull’inutilità della vita moderna e su quanto eravamo sfortunati a non potere andare a cena fuori, Flavia cercava il garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni - “la regina delle carceri della Capitale, mia musa ispiratrice” - ed elaborava la sua idea. “La stimavo da sempre e mi sono sempre interessata al mondo penitenziario. Ho chiesto a Gabriella: cosa posso fare per aiutare?”. A proposito, quand’è l’ultima volta che l’abbiamo chiesto noi? Comunque, la Stramaccioni introduce Flavia al provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise. E comincia la collaborazione, soprattutto con il nuovo complesso di Rebibbia (1450 detenuti), guidato da Rosella Santoro, e con il carcere di Velletri e non solo. Funziona così: “Mettiamo che un ristoratore voglia assumere un aiuto cuoco per tre mesi o un anno usando la Legge Smuraglia per gli sgravi. Io mando la visura camerale della società a Rebibbia, per le verifiche. Si fanno accertamenti sulla serietà dell’azienda. Poi, con il carcere organizziamo un appuntamento. Io, l’ispettore Cinzia Silvano e gli educatori coordinati da Giuseppina Boi facciamo i colloqui con i detenuti selezionati a seconda delle esigenze dell’imprenditore”. Per quali reati sono detenuti i candidati? “Non ci sono preclusioni. Possono essere semplici ladri o narcotrafficanti o condannati per altro. L’imprenditore al momento del colloquio non conosce il reato, in modo che non ne sia influenzato. Solo alla fine, si apre il computer e viene raccontata la storia giudiziaria del candidato”. A quel punto, dopo qualche ora o qualche giorno di riflessione, l’imprenditore (non solo ristoratori, ma anche agricoli, edili, grafici) sceglie la persona o le persone che ritiene idonee (alcuni ne hanno scelti anche sei). E invia una richiesta di assunzione. La decisione finale è del Tribunale di sorveglianza. Se c’è il via libera, vengono stabiliti i percorsi che dovrà fare il detenuto e accordata la permanenza fuori per gli orari concordati con il datore di lavoro. L’imprenditore stipula un contratto con l’amministrazione penitenziaria. Viene tracciato il percorso che il detenuto dovrà fare con i mezzi pubblici, gli viene assegnato un cellulare per la reperibilità, che deve essere consegnato ogni sera, quando il detenuto torna al padiglione Venere del reparto G8 di Rebibbia, che ospita le persone che lavorano all’esterno. La Filippi ha cominciato in sordina, poi ha dato un po’ di risonanza sui social ed è stata travolta dalle richieste. Gli esempi virtuosi sono a decine. A Roma e nel Lazio sono molti i ristoranti che hanno stanno assumendo detenuti: Le Serre by Vivi Bistrot, Porto (sei locali), Fassi Casa del Freddo, gruppo Palombini, Mediterraneo Al Maxi, Argileto a Monti, l’Antica pizzeria da Michele. E poi i centri sportivi Empire e Babel, il parco nazionale del Circeo, il centro grafico Pioda Imaging, Botw che organizza eventi e concerti. “La svolta è arrivata - racconta Flavia - quando l’Istituto superiore di Sanità, grazie al direttore generale Andrea Piccioli, ha assunto tre detenuti, con pene anche pesanti. Stanno in falegnameria ma svolgono anche tante altre attività. In queste settimane riparano la sirena che diede l’allarme prima del bombardamento di San Lorenzo del 1943”. Poi è stata una piccola, silenziosa, valanga. E tra i tanti che hanno aderito a Seconda Chance ci sono Terna, Cnr, Croce Rossa, Associazione nazionale costruttori edili, Anbi Lazio, Orienta Agenzia per il lavoro. Molti imprenditori, anche di fuori regioni, stanno contattando Flavia. Tra chi fa più fatica ci sono le grandi aziende, le multinazionali. “Ma forse è perché non ho un contatto diretto. Spesso mi tocca partire dal centralino e passano mesi prima che riesca a sedermi di fronte alla persona giusta. Quando però ci arrivo so che ho buone possibilità di convincerle”. E chi ha detto no? “Mi sono riproposta di non parlarne. Ho tratto insegnamento da una signora del mio quartiere che continua a mettere piantine per abbellire la zona e continuano a rubargliele. Lei le ricompra e dice a tutti: forza Balduina, che sei bellissima. Ecco, questa nobiltà d’animo mi ha fatto pensare che bisognerebbe sempre fare così”. Ci sarà sempre chi pensa sia ingiusto aiutare chi delinque. Chi sfodera il solito argomento penoso: non c’è lavoro per la gente per bene e facciamo lavorare i detenuti? A parte il fatto che di lavoratori ne servono anche molti (vedi crisi per cuochi e camerieri), il tasso di recidiva di chi lavora si abbassa drasticamente, insieme al tasso di sovraffollamento (intollerabilmente alto, in Italia). Alla società conviene recuperare alla vita civile chi ne è stato escluso: economicamente e moralmente. “Non siamo noi a dover giudicare - spiega Filippi - Ci sono persone che hanno sbagliato, stanno pagando per il loro errore e sono pronte a ricominciare. Persone che sono in carcere da innocenti. Brave persone finite in una storia più grande di loro”. E se, una volta assunti, tornano a delinquere? “Guardi, una volta uno mi ha detto: il nostro è un ristorante di classe e perbene, non vogliamo criminali. Poi mi hanno raccontato di avere assunto una ragazza, non detenuta. Pochi mesi dopo l’hanno sorpresa che rubava i soldi dalla cassa”. E noi come possiamo fare per aiutare? Proviamo a parlarne, intanto. Le liste di attesa per i colloqui tra aziende e detenute cominciano ad allungarsi, gli educatori, gli agenti di polizia penitenziaria e i magistrati di sorveglianza sono impegnati al massimo. In Italia, talvolta, fatta la norma, ci si mette a posto la coscienza e non la si applica. La Smuraglia è una grande legge, ma servono due condizioni perché venga applicata pienamente. La prima è la disponibilità degli imprenditori (e a quello provvedono la Filippi e gli altri volontari in tutta Italia, in carenza di organi dello Stato). La seconda sono le risorse pubbliche, in termini di agenti, educatori e magistrati. L’amministrazione ce la mette tutta ed è encomiabile lo sforzo che sta facendo. Se tutto funzionasse al massimo delle possibilità, il risultato avrebbe un impatto positivo enorme, di gran lunga superiore all’esborso economico. È più importante dare una giustizia di qualità che smaltire fascicoli di Claudio Castelli Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2022 L’ordinamento giudiziario è materia sconosciuta e scivolosa: troppi parlano per luoghi comuni e sulla base di vulgate false, senza conoscere l’attuale quadro normativo e spesso senza avere mai messo piede in un Palazzo di giustizia. Il quadro è davvero preoccupante se a questo si unisce un dibattito che spesso si ha la sensazione che parta più dalle sparate propagandistiche dei vari protagonisti che dalle norme contenute nel disegno di legge. Il primo limite dell’attuale disegno di legge deriva dalla sua genesi: elaborato dal vecchio Guardasigilli, rivisto tenendo conto molto parzialmente del prodotto della Commissione Luciani, arrivato a una proposta che aveva un suo equilibrio e razionalità, poi stravolta e alterata dalle necessità di mediazioni e interventi, spesso a gamba tesa, delle varie forze politiche della composita maggioranza di Governo. Il frutto è un brutto collage in cui non si riconosce più un’anima e una direzione chiara, salvo l’intenzione di ridimensionare la magistratura, quando non addirittura esplicite intenzioni di rivalsa. Ma vi sono alcuni filoni sotterranei relativi all’organizzazione degli uffici che avverto come preoccupanti e per nulla moderni. Sembra evidente da molte norme (il fascicolo delle performance, la ristrutturazione del programma di gestione, le norme su direttivi e semi-direttivi) che si vogliano iniezioni di una sorta di aziendalismo che nelle intenzioni dovrebbe garantire maggiore efficienza al sistema. Intenzioni ovviamente apprezzabili che, però, vengono perseguite con sistemi di stampo fordista ormai superati da decenni, oltre che del tutto inadeguati alla specificità giudiziaria. Le due linee sotterranee che permeano molte norme sono da un lato di ottenere risultati con una gerarchizzazione degli uffici giudiziari, peraltro accompagnata da una larvata sfiducia nei confronti dei dirigenti, e dall’altro di governare la magistratura con la minaccia delle sanzioni disciplinari. Più norme vanno in tale direzione: l’introduzione di 5 nuovi illeciti disciplinari e l’estensione di altri 8 ipotesi disciplinari già esistenti; l’ampliamento dei poteri dei capi degli uffici, sorretto da norme disciplinari; e un rapporto per la valutazione di professionalità con voto (discreto, buono, ottimo) in cui è essenziale il rapporto del dirigente; un programma di gestione non più calibrato sull’ufficio, ma sulla sezione e sul singolo, anche qui accompagnato da rimedi disciplinari. Una visione sbagliata, superata a livello organizzativo da decenni, che oltretutto non fa i conti né con la specificità del prodotto giudiziario, né con le esperienze di innovazione giudiziaria sperimentate positivamente e con ottimi risultati negli ultimi anni in molti uffici. L’idea sottostante è che a livello giudiziario i problemi siano solo di tempi e quantità come se il prodotto sentenze fosse seriale e omogeneo. Definire una controversia civile o un processo penale è cosa diversa da produrre automobili, avendo complessità e specificità del tutto particolari. Quanto viene richiesto non è lo, smaltimento di fascicoli, ma dare una risposta di giustizia di qualità. Per fare ciò non occorre solo strutturare l’organizzazione, adattandola a tipologia degli affari e del rito, ma puntare sulla partecipazione e il coinvolgimento, dato che l’esperienza ci insegna che laddove scelte e obiettivi sono condivisi si hanno i migliori risultati. Risultati che in questi anni nel settore giudiziario in molti casi sono stati raggiunti come ci insegna la sperimentazione prima e la diffusione poi del Processo civile telematico, le innovazioni realizzate in molti uffici, il progetto interregionale/transnazionale “Diffusione di best practices”, la non indifferente quota di uffici che già oggi hanno tempi e pendenze di livello europeo. Il ruolo dei dirigenti (senza dimenticare l’apporto essenziale dei dirigenti amministrativi) è fondamentale, ma il loro ruolo è forte e fecondo non se è espressione di puro potere gerarchico, ma se è autorevole, punto di riferimento e di “aiuto” a magistrati, personale e avvocati. Il mero comando e l’autoritarismo non risolvono nulla, specie se si avverte come da qualche norma del d.d.l., una velata sfiducia nel loro ruolo. Non è positivo lo stravolgimento del programma di gestione, strumento che in questi anni si è dimostrando preziosissimo, imponendo trasparenza su quanto si aveva in “magazzino” oltre che agire per obiettivi. Passare dall’attuale quadro relativo a risultati dell’intero ufficio, a un livello di sezione odi singolo magistrato, il tutto condito da possibili sanzioni disciplinari in caso di mancata collaborazione o mancato raggiungimento degli obiettivi, burocratizza il tutto, spingendo a perseguire non le soluzioni più giuste, ma quelle più facili e comode. Non è positiva una falsa meritocrazia con giudizi (pagelle) differenziate per capacità organizzativa (nulla sembrano contare la preparazione scientifica e la bontà dei provvedimenti): abbiamo bisogno di tanti bravi magistrati idonei e adeguati e non di valorizzare qualche eccellenza. Per non parlare che ciò porta a una sorta di classifica che incrementa un deleterio carrierismo e arrivismo che a parole quasi tutti vogliono combattere. Puntare sulla gerarchizzazione e sulla paura del disciplinare è una direzione semplice e facile, ma darà solo risultati negativi: una giustizia difensiva, un produttivismo senza qualità, una dirigenza tanto autoritaria, quanto in realtà debole. Il messaggio culturale sottostante che accompagna queste norme, con un’enfatizzazione dei lati peggiori, è ancora più intimorente e negativo. Scelte che appaiono incomprensibili a fronte della fase estremamente particolare che viviamo. Con il Pnrr l’Italia si è presa l’impegno di ridurre radicalmente arretrato e tempi. Un impegno da far tremare i polsi che potrebbe essere raggiunto solo coinvolgendo e supportando gli uffici giudiziari, i magistrati togati e onorari. E la risposta avuta sulla realizzazione dell’Ufficio per il processo da parte degli uffici giudiziari, è stata seria e generosa, pur in assenza di un valido coordinamento. Pensare di avere risultati con politiche di rivalsa è del tutto impossibile. La realtà è che si sta mettendo a rischio l’intero progetto del Pnrr sulla giustizia. Un punto su cui una riflessione sarebbe probabilmente opportuna e necessaria. Csm, tempi stretti sulla riforma. Si rischia che vada in aula dopo i referendum di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2022 Sempre più probabile che si voti per il nuovo Consiglio con la vecchia legge. Dopo gli show di Ferri alla Camera, a palazzo Madama Italia viva chiede l’audizione del procuratore aggiunto di Roma Racanelli, protagonista di lunghe intercettazioni con Palamara, ma salvato in extremis al Csm dal trasferimento d’ufficio. Sono ore d’allarme, al Senato, per la riforma del Csm. Con due certezze, e un probabile rischio. I tecnici hanno messo in chiaro che sarà impossibile mettere la fiducia, perché ne risulterebbe un testo formalmente differente da quello della Camera, che non rispetterebbe la regola sovrana della “doppia conforme”, cioè due letture esattamente identiche anche nelle virgole nei due rami del Parlamento. Forti di questo, Lega e Italia viva stanno facendo di tutto per allungare i tempi, e per il voto finale andare oltre il 12 giugno, quando saranno votati i cinque referendum sulla giustizia, lo stesso giorno delle elezioni amministrative. Ha detto ieri Andrea Ostellari - leghista, presidente della commissione Giustizia del Senato e autonominatosi relatore della riforma del Csm - partecipando a una conferenza stampa alla Camera per vantare i meriti dei referendum: “Anche per il ruolo che ricopro, sto cercando di capire cosa c’è nella riforma del Csm, e se è da migliorare”. Tant’è che la commissione Giustizia l’ha presa alla lontana, ignorando gli appelli della ministra della Giustizia Marta Cartabia a fare presto. Da ieri sera sono in corso le audizioni, per lo più di esponenti del mondo della giustizia che hanno già, e più volte, espresso le loro opinioni sulla riforma, come i vertici dell’Anm, Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro, e ancora Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita del Csm. Ma la vera novità l’ha proposta e incassata Italia viva. Dopo gli show di Cosimo Maria Ferri alla Camera, ecco che Giuseppe Cucca di Iv chiede che sia ascoltato il procuratore aggiunto di Roma Angelantonio Racanelli - Antonello per gli amici -. E cioè proprio l’uomo di Ferri giunto al vertice della corrente di Magistratura indipendente come segretario, ma soprattutto amico strettissimo di Luca Palamara, tant’è che per le dozzine e dozzine di quotidiane intercettazioni l’anno scorso ha rischiato di essere trasferito d’ufficio. Ma a giugno lo stesso Csm lo ha salvato lasciandolo al suo posto. Ed eccolo adesso - lui, un grande esperto di correnti - a parlare della riforma anti-correnti. Proprio come Ferri alla Camera. Questa è la riforma delle contraddizioni. Che rischia pure di risolversi in una beffa. Perché le manovre dilatorie di Lega e Italia viva - da cui si sta sottraendo però Forza Italia - potrebbero produrre un bizzarro risultato. Il nuovo Csm potrebbe essere eletto con la vecchia legge, per la semplice ragione che la nuova rischia di non essere approvata in tempo. A dirlo espressamente in commissione ieri è stato il senatore di Leu Piero Grasso: “Ma voi volete che il Csm sia eletto con la vecchia o con la nuova legge?”. Una domanda retorica fino a un certo punto, visti i singolari tentativi di spingere il più avanti possibile i lavori della commissione. Con le audizioni che si terranno pure oggi - sarà sentita anche Gabriella Palmieri Sandulli, al vertice dell’Avvocatura dello Stato - e con un termine per gli emendamenti che slitterebbe addirittura al 23 maggio o anche oltre. Una data che rende di fatto impossibile portare in aula la riforma entro la fine del mese. Cartabia aveva posto il 20 maggio come ultima data utile. Tenendo conto che per il 16 le toghe hanno indetto lo sciopero. Ma tant’è. Gli appelli di Cartabia sembrano cadere nel vuoto. La fiducia è ormai tecnicamente un’arma spuntata. Ma soprattutto è troppo ghiotta la partita di arrivare al voto dei cinque referendum sulla giustizia con la riforma al palo. Anche se, stando a un sondaggista di esperienza come Renato Mannheimer, solo il 30% degli italiani, ma forse anche meno, saprebbe dell’esistenza dei cinque referendum. Se la riforma del Csm dovesse slittare dopo il 12 giugno, anche un semplice incidente d’aula, senza la fiducia, potrebbe travolgerla. A quel punto non resterebbe che eleggere il nuovo Csm con la vecchia legge. Perché un decreto del presidente della Repubblica per prorogare l’attuale Consiglio sarebbe incostituzionale. E il presidente Sergio Mattarella non sarebbe disposto a correre il rischio di firmarne uno del genere. La ragione è semplice: il Csm è stato prorogato in passato ma per una ragione obiettiva, in quanto il Parlamento non aveva eletto i componenti laici. Ma in questo caso, all’inizio di luglio, si può tranquillamente votare per i nuovi togati con la legge in vigore. Certo, sarebbe un vero smacco politico. Il caso Palamara è del 2019, Mattarella ha moltiplicato i suoi inviti a cambiare le regole, ma le nuove regole tardano ad arrivare. Ieri solo Grasso ha esposto i suoi dubbi sulla legge, mentre gli altri hanno rinviato l’intervento alla prossima settimana, dopo le audizioni. Grasso ha bocciato il fascicolo per ogni toga perché quando si parla di eventuali “anomalie” nei processi trattati si usa un termine troppo vago. Quando alla riduzione a un solo passaggio da giudice a pm e viceversa, Grasso porta la sua esperienza personale, è stato sia giudice (nel maxi processo a Cosa nostra) che procuratore di Palermo e capo della Dna, e può dire che “i passaggi arricchiscono”. Vede un rischio per l’autonomia della magistratura anche nel piano organizzativo delle procure sottoposto alle osservazioni del ministro della Giustizia. Un obbligo che, unito al Parlamento che detta le priorità dell’azione penale, rischia di mettere in pericolo l’indipendenza dei giudici. E Grasso contesta anche il via libera ai parlamentari eleggibili al Csm, visto che la Costituzione parla solo di “professori e avvocati”. Ma tant’è. I dubbi ci sono. La legge non è la migliore possibile. Ma anche per Grasso sarebbe una beffa vedere il prossimo Csm eletto con la legge bocciata per manifesto correntismo. Toghe in ordine sparso verso lo sciopero: c’è chi teme che l’adesione non superi il 50 per cento di Valentina Stella Il Dubbio, 12 maggio 2022 Intanto Cartabia ricorda ai magistrati: “Attenti, formazione decisiva per attuare le riforme”. Oggi vogliamo porci due domande: come procedono le iniziative pubbliche dell’Anm in vista dello sciopero indetto per il 16 maggio contro la riforma del Csm, e quale percentuale di adesione sarebbe considerata un successo. Partiamo dalle informazioni disponibili. Il 30 aprile l’Assemblea generale dell’Anm ha approvato una mozione che prevede, tra l’altro, di organizzare prima del 16 manifestazioni, assemblee permanenti e incontri durante i quali dialogare con cittadini, avvocatura e amministratori locali per spiegare le criticità della riforma in discussione al Senato. Si prevede anche di predisporre “nel più breve tempo possibile, anche tramite le commissioni di studio, brevi schede informative che spieghino i punti rilevanti della riforma e le conseguenze dannose per i cittadini e la giurisdizione”. Abbiamo chiesto all’Anm una panoramica su cosa sia stato effettivamente concretizzato: la risposta è che tutto è affidato alle giunte locali. Abbiamo appreso solo di una assemblea pubblica che si terrà oggi nelle Marche aperta a tutti i cittadini oltre agli altri operatori della giustizia, in primis gli avvocati. È dunque complicato misurare l’intensità delle iniziative se persino a Roma non hanno il polso della situazione. E questo dovrebbe costituire un elemento di riflessione per la giunta nazionale in vista dello sciopero: come si fa a rivendicare la propria forza e compattezza associativa nei confronti di una riforma ritenuta punitiva per i magistrati se non si sa cosa accade sul territorio, considerando anche che solo l’11% degli iscritti all’Anm ha votato favorevolmente per l’astensione? Sorge il dubbio che forse ci si è nascosti dietro le iniziative pubbliche, ma che in realtà l’unico obiettivo è fare pressione sul Parlamento, benché tale chiave di lettura sia stata smentita dal presidente Anm Giuseppe Santalucia. Anche perché, come ci hanno riferito diversi magistrati, è davvero complicato far passare all’opinione pubblica un messaggio alla base del quale ci sono tecnicismi normativi molto complessi. Cosi come è arduo organizzare eventi, visto che i magistrati sono spesso in udienza. Resta il fatto che a pochi giorni dalla data fatidica, si ha l’impressione di un impatto mediatico e pubblico modesto. Se da questo punto di vista ci sono carenze, l’Anm dovrebbe dunque auspicare una massiccia adesione allo sciopero. Vediamo come è andata negli anni precedenti. Nel luglio 2010, quando le toghe scioperavano contro la manovra economica, la percentuale si attestò tra l’ 80 e l’ 85%, tanto che l’allora presidente dell’Anm Luca Palamara parlò entusiasta di “sciopero pienamente riuscito: la grande partecipazione dimostra la fondatezza delle ragioni della protesta contro disposizioni inique e irrazionali”. Nel 2004, all’astensione proclamata contro la riforma Castelli aderì il 90% delle toghe. Al vertice dell’Anm c’era Edmondo Bruti Liberati che commentò: “L’adesione è stata larghissima, il che vuol dire che i magistrati valutano negativamente questa riforma”. Quindi lunedì non si può andare sotto soglie del genere: eppure più di un magistrato, riservatamente, dice di temere che non si arrivi neppure al 50%. Chissà se Santalucia potrà cantare vittoria con lo stesso tono dei predecessori. Nell’attesa, un confronto particolare è in corso nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, che sulla riforma del Csm ha inserito fra gli auditi diversi esponenti della stessa Anm: da Santalucia all’ex vicepresidente Giancarlo Dominijanni all’ex segretario di “Mi” Antonello Racanelli, ai quali si contrappone l’avvocato della giunta Ucpi Rinaldo Romanelli. E intanto la guardasigilli Marta Cartabia ieri, all’inaugurazione della nuova sede della Scuola superiore della magistratura a Roma, ha quasi dato l’impressione di voler richiamare le toghe alla sfida dell’efficienza, implicita nella stessa riforma del Csm, quando ha sottolineato che “sarà indispensabile un’intensa attività di aggiornamento per tutti i magistrati in vista dell’entrata in vigore delle riforme”. Sempre ieri Cartabia ha rivolto un saluto ai componenti di uno dei gruppi di lavoro istituiti presso l’Ufficio legislativo del ministero per l’attuazione della riforma penale: “La fase attuativa di una delega è particolarmente rilevante”, ha detto la ministra. Come previsto, si sono chiusi i lavori di 5 dei 6 gruppi istituiti a via Arenula, mentre finirà a giugno il compito della commissione sul penale telematico. Dopo una fase di coordinamento dei testi, il legislativo della Giustizia predisporrà la bozza di decreto. Sciopero delle toghe, così l’Anm minaccia l’indipendenza della magistratura di Eduardo Savarese Il Riformista, 12 maggio 2022 Chi, come me, è entrato in magistratura negli anni del Governo Berlusconi 2001-2006, è cresciuto nel dogma - dunque nell’asserzione indiscutibile, perché vera e da accettare a priori - dell’unità associativa dei magistrati italiani: uniti, in quegli anni, contro gli attentati alla legalità e ai presidi costituzionali dello status del magistrato. Unità che non impedì (o forse agevolò) il percorso della riforma Castelli/Mastella (a cavallo, infatti, dei Governi Berlusconi e Prodi) che quei presidi ha pesantemente insidiato. I dogmi, però, vanno bene nelle religioni in cui decidi di credere, in fondo si tratta di acquisire la felicità o l’eternità. Nella vita politica secolare vanno rifuggiti con determinazione. L’unità associativa (della magistratura come di ogni altra associazione) è talvolta un bene. Talvolta, no. Un bene quando, di fronte a riforme legislative frutto di scelte politiche di un governo, è chiaramente identificabile un fattore capace di attentare allo Stato costituzionale di diritto. Un male, quando un fattore di tale specie è molto lontano dall’essere chiaramente leggibile. L’Anm ancora una volta sta invocando l’unità associativa, il fattore-nemico stavolta è la riforma (vocabolo forse eccessivo) varata dal Governo in carica, e ha indetto per il 16 maggio uno sciopero. Ma questa riforma è un fattore che attenta allo Stato costituzionale di diritto - nella parte che riguarda l’assetto dell’ordinamento giudiziario e dell’organo di autogoverno - secondo modalità agevolmente additabili senza ambiguità? Io penso di no. La riforma, piuttosto, lascia insoddisfatti in tanti, magistrati e non, sotto due prospettive speculari: 1) vuole convincere che la meritocrazia entri in magistratura, con la pagella e misure simili, che si riveleranno largamente inutili; 2) lascia irrisolto il problema dei problemi: ma cos’è accaduto veramente con l’Hotel Champagne e come porvi rimedio in vista della (anche solo parziale) liberazione della magistratura dai pesanti meccanismi politico-associativi che la tengono in ostaggio? A lasciare delusi, allora, è il livello di conoscenza scarsissimo che la politica (con poche eccezioni) continua ad avere, colpevolmente, della magistratura italiana, della sua storia, dei suoi reali problemi, tenendo a mente che la giustizia non è fatta solo di alcune Procure cardine (Milano, Roma, Napoli). Quelle due prospettive speculari possono essere allargate: per un verso, la giustizia deve diventare efficiente, ma non può diventarlo burocratizzando il giudice (vi risultano aree burocratizzate che brillino per efficienza e spirito d’iniziativa nella risoluzione dei problemi, a partire dal deposito di una dichiarazione anticipata di trattamento fino alla gestione di una pratica di riscatto pensionistico?); per un altro verso, la magistratura vive, non solo in Italia (pensate alle vicende polacche degli ultimi anni), un mastodontico problema di forme effettive e idonee di rappresentatività. Si tratta di prospettive che attengono all’unica cosa che conta, negli Stati di diritto, tanto più se dotati di una carta costituzionale com’è per l’Italia: che esista un giudice indipendente e imparziale. E allora: la riforma Cartabia non deve farci stracciare le vesti, tantomeno ai miei occhi giustifica uno sciopero. Ma sbaglia, e gravemente, nelle due prospettive di cui sopra: accentua la burocratizzazione e non aiuta a garantire alla magistratura un’elezione dei membri del proprio organo di autogoverno che lo tolga dal calcagno schiacciante delle correnti e lo restituisca all’ordine giudiziario disegnato dalla Costituzione. Questo deve essere chiaro ed è sacrosanto diritto della magistratura, come la Corte europea dei diritti dell’uomo insegna nella sua vasta giurisprudenza, dirlo a chiare lettere. Se tutto questo ha un minimo di fondamento, vi chiederei ora di avere un occhio un po’ più misericorde nei confronti dei magistrati italiani, almeno della cd. “base associativa”: essi vorrebbero far capire che la riforma non serve, anzi è dannosa, e però hanno un organo associativo, pur composto di molte persone di buona volontà, che continua a radicare la propria legittimazione su meccanismi di acquisizione del consenso che, al fondo, si sono rivelati malati, hanno inquinato il funzionamento del Csm, ogni giorno - anche se blandamente (ma a volte pesantemente) - rischiano di minare, e spesso minano, l’indipendenza del singolo magistrato, e sto parlando non dell’indipendenza dal potere politico, ma di quella del singolo magistrato rispetto alla magistratura, ai capi, ai direttivi, ai consiglieri del Csm e così via. La situazione, per molti magistrati, è frustrante. Ed anche da ciò è nato il documento (che anche io ho sottoscritto pur essendo fuoriuscito due anni fa dall’Anm) “né con Cartabia né con l’Anm”: perché se lo sciopero deve essere il simulacro della difesa di facciata di un’indipendenza che ogni giorno rischia di essere minata dagli stessi meccanismi che sovraintendono all’associazione che quello sciopero proclama, allora non puoi e non vuoi scioperare. Perché ti senti preso in giro due volte. E ti senti pure profondamente solo. Il cittadino ha bisogno di un giudice indipendente e imparziale. Anche solo il sospetto che, a causa del funzionamento dell’organo di autogoverno e degli assetti dell’ordinamento giudiziario, questo potrebbe non accadere (e quanto emerse dopo l’Hotel Champagne qualche sospetto sistemico l’ha seminato dentro e fuori la magistratura, no?), quel sospetto deve essere rimosso. Ecco perché la riforma Cartabia non costituisce un attentato non ambiguamente identificabile all’indipendenza del magistrato: perché essa mi pare soltanto l’appendice minore, che si salda alla riforma Castelli/Mastella, di un più vasto attentato che è andato crescendo in trent’anni, anche e soprattutto a causa di connivenze gravissime tra potere politico e rappresentanza associativa della magistratura medesima, per il quale nessuno ha battuto ciglio, rispetto al quale nessuno oggi ha il coraggio di porre un reale rimedio. Non puoi scioperare per la pagliuzza, quando per la trave sei rimasto zitto per anni e anni. Concludiamo da dove siamo partiti: probabilmente questo è il momento storico della dis-unità associativa, della dissociazione nazionale dei magistrati italiani, della crepa - dolorosa, perché in qualsiasi organo associativo tale sarebbe - che è necessario aprire nel dogma. Qualcosa si sta muovendo, forse: rotture del silenzio un tempo compatto, voci di libertà, rivendicazione del ruolo non certo salvifico, ma rilevantissimo, del magistrato indipendente e imparziale nel nostro Stato costituzionale di diritto dentro l’Unione europea e dentro la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Il sistema giustizia? Fallito: i referendum sono l’ultima occasione” di Simona Musco Il Dubbio, 12 maggio 2022 Dal comitato per il Sì l’appello per la consultazione del 12 giugno: “Assurdo boicottare il voto, solo così faremo la rivoluzione”. “Gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su una questione molto semplice: vi va bene la giustizia penale che abbiamo o volete una rivoluzione copernicana? Se sono contenti di questo sistema penale e procedurale, che è completamente fallito, allora possono anche disinteressarsi a questo referendum. Ma se invece pensano che ci sia la necessità di un cambiamento radicale, che non potrà essere quello del minimo sindacale della pur valida ministra Cartabia, allora questa è la buona occasione - e temo l’ultima - per dare un forte messaggio di dissenso e anche di capacità costruttiva”. È questo l’appello al voto di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia e presidente del comitato per il Sì al Referendum, lanciato ieri alla Camera nel corso di una conferenza stampa sull’iniziativa “Sì per la libertà, Sì per la giustizia”. Un appello al quale hanno preso parte non solo i membri del comitato, ma anche i parlamentari di quasi tutti gli schieramenti politici: Roberto Calderoli (Lega), Lucia Annibali (Iv), Enrico Costa (Azione), Matilde Siracusano (FI), Irene Testa (Radicali), Federico Mollicone (FdI), Andrea Ostellari (Lega), Jacopo Morrone (Lega), Enza Bruno Bossio (Pd), Giusi Bartolozzi (Misto) e Guido Crosetto, tutti convinti che la riforma partorita dal parlamento da sola non basti a risolvere le storture della giustizia. Nordio ha evidenziato tutte le contraddizioni di un sistema che “poggia su tre pilastri che sono diventati incompatibili”: da un lato un codice penale “fascista”, firmato da Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III, “perfettamente compatibile con la Costituzione nata dalla resistenza”, dall’altro un codice di procedura penale “firmato da una medaglia d’oro della resistenza, il professore Vassalli”, ma “demolito continuativamente dalla Corte costituzionale”. Un “pasticcio” che “ha prodotto tutta quella serie di negatività per la quale i cittadini hanno perduto fiducia nella giustizia”. Il 12 giugno gli italiani saranno dunque chiamati a votare sulla riforma del Csm, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere dei magistrati, i limiti alla custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino. Per questo secondo il leghista e vicepresidente del Senato Roberto Calderoli “saranno madri e padri costituente sulla riforma della giustizia”. Con la possibilità di mettere mano a quello che per Nordio è “il paradosso per cui si entra in prigione facilmente prima del processo e si esce altrettanto facilmente dopo la condanna definitiva quando si è dei colpevoli conclamati”, al potere “immenso” in mano ai pm, che possono anche far cadere governi e alle porte girevoli tra pm e giudici. Mentre le riforme, ha sottolineato l’ex magistrato, sono finalizzate principalmente all’ottenimento degli aiuti europei. Il referendum sarebbe perciò “l’unico strumento a disposizione per cambiare qualcosa”, ha evidenziato dal tesoriere del Comitato, Andrea Pruiti Ciarello, l’inizio della rivoluzione tanto attesa. Proprio per tale motivo, ha sottolineato Bartolomeo Romano, giurista e vicepresidente del Comitato, servono cinque sì: “Restituiamo la voce ai cittadini, perché questa è l’anima della democrazia - ha affermato. Ma prima di andare a votare serve che l’opinione pubblica sia informata e in questo è indispensabile il contributo di tutte le forze politiche, di qualsiasi coloritura, perché la giustizia, purtroppo o per fortuna, nel bene e nel male, ci coinvolge tutti e tutti abbiamo il diritto e dovere di occuparcene”. Il primo aiuto concreto in tal senso è arrivato da Fratelli d’Italia, che pur sostenendo solo due quesiti referendari - quello sulla separazione delle funzioni e sul voto degli avvocati nei consigli giudiziari ha annunciato un’iniziativa contro lo “scandalo” del mancato accesso all’informazione. “In quanto membro della Commissione di vigilanza Rai - ha dichiarato Mollicone - presenterò un question time per chiedere che si parli del referendum anche nei talk show di prima e seconda serata”. Ma non solo, “si potrebbe anche sfruttare le amministrative per creare un volano alla partecipazione al voto”. La Giustizia, ha sottolineato il costituzionalista e consigliere del Comitato, Giovanni Guzzetta, non riguarda la pretesa della politica di tagliare le unghie alla magistratura o la pretesa della magistratura di fare pagare i conti alla politica, bensì “milioni di persone” estranee a tali ambienti. “La giustizia non funziona per tante ragioni”, ha sottolineato, ma in parte anche per colpa della “chiusura corporativa” delle toghe. La soluzione viene dagli stessi Costituenti: applicare il sistema misto del Csm anche ai consigli giudiziari. E a chi sostiene che i quesiti referendari rappresentino una minaccia alla Costituzione Guzzetta ha risposto in modo chiaro: “Non è accettabile che qualcuno si scagli contro il referendum assumendo che siano una minaccia per i valori costituzionali - ha sottolineato -. Questo non perché lo dico io, ma perché lo ha detto la Corte Costituzionale nel momento in cui li ha ammessi al voto popolare. Quindi confrontiamoci quanto ci pare, ma per favore non invochiamo la Costituzione solo per coprire la debolezza delle nostre argomentazioni”. Dalla politica non è mancato il sostegno al referendum, specie dalle forze di centrodestra, che hanno anche sottolineato le lacune della riforma Cartabia. Il cui merito, ha affermato Siracusano, è stato però quello di cancellare alcuni “obbrobri”, come il “fine processo mai”. Il referendum sarà dunque “un passaggio chiave” e “l’evidente tentativo di boicottaggio è direttamente proporzionale al tentativo di condizionamento dell’Associazione nazionale magistrati sul governo e sul Parlamento. I referendum devono essere lo sciopero dei cittadini contro quella parte di magistratura che ha disonorato e mortificato il lavoro della magistratura migliore”. Caro alla Lega è soprattutto il quesito sulla separazione delle funzioni, di cui “Giovanni Falcone parlava già nel 1989”, ha sottolineato Morrone. “Ad oggi la riforma Cartabia fa un timido passo in avanti e, secondo il nostro punto di vista, per avere un giudice terzo e imparziale e indipendente è necessaria una separazione seria delle carriere”. La scommessa, ha sottolineato Costa, è coinvolgere i cittadini nell’urgenza della modifica del sistema giustizia. “Di posizioni conservatrici ce ne sono tante - ha aggiunto - sono quelle che vedremo lunedì con lo sciopero dell’Anm”, che vuole “mantenere tutto intatto”. Sciopero, ha aggiunto Bartolozzi, che appartiene in primo luogo “alle correnti”, perché la maggior parte della magistratura italiana “vuole una riforma vera”, che non è “quella che questo Parlamento ha licenziato”. Proprio per questo l’appuntamento del 12 giugno è “epocale, per quella riforma che il Paese attende da troppo tempo e che non è più rinviabile”. Un sì ai quesiti referendari è un no agli abusi dei pm di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 12 maggio 2022 Processi infiniti, innocenti rinchiusi in carcere, giudici e pubblici ministeri allineati, eccessi della custodia cautelare: al di là dello scontro politica-magistratura, questo voto dà ai cittadini il diritto di avere più diritti. Per rispetto del lettore ho il dovere di un’avvertenza che è anche una confessione: sostengo i referendum sulla giustizia. Avvertenza d’obbligo perché le considerazioni che farò sono per definizione “di parte”. Sono una presa di posizione che non rientra nelle valutazioni tecniche di un tecnico, ma nelle valutazioni di opportunità politica. E voglio evitare il rischio che spesso i tecnici, più o meno dolosamente corrono (seconda avvertenza al lettore) di giustificare le valutazioni di opportunità adducendo ragioni oggettive, presentate come conseguenze quasi automatiche dal sapere scientifico. In questo caso il sapere del costituzionalista. Nel caso dei referendum in questione mi basta la convinzione che le opzioni in gioco sono perfettamente conformi alla Costituzione, non determinano cioè, malgrado qualcuno pensi e dica il contrario (terza avvertenza al lettore), nessun attentato alla nostra Carta fondamentale. Che siano conformi alla Costituzione non sono io a dirlo, ma lo dimostrano gli argomenti utilizzati dalla Corte costituzionale, un paio di mesi fa, per dichiarare l’ammissibilità delle proposte referendarie. Basta leggere le sentenze, per chi ne avesse voglia. Aggiungo che nel caso dei referendum, e di questi in particolare, anche per il momento storico in cui cade la consultazione, ancor prima del merito e delle valutazioni che se ne possono fare, è in gioco una questione forse persino più importante. Come si sa il referendum richiede un quorum di validità molto alto. Se non va a votare la metà degli italiani (circa 33 milioni) il referendum non è valido. Indipendentemente dal fatto che chi ha votato si sia espresso per il sì o per il no. Negli ultimi 25 anni, su 28 referendum abrogativi, come gli attuali, solo tre hanno raggiunto il quorum. La dimensione di questo fenomeno non può essere attribuita solo al disinteresse specifico sui temi referendari, ma ha tante cause (checché se ne dica: quarta avvertenza). Certamente una di queste è l’andamento del fenomeno dell’astensione. Che non colpisce solo i referendum, ma tutti i tipi di elezione. I nostri costituenti erano stati ottimisti. Avevano sottovalutato questo fenomeno. Pensavano che i cittadini avrebbero partecipato di più. E certamente non avevano pensato che una delle tecniche utilizzate da chi è per il “NO” a un referendum sarebbe stata quella di sfruttare il tesoretto dell’astensionismo generalizzato per sommare ad esso la propria contrarietà. E, anziché dire no a viso aperto, rifugiarsi anche loro nell’astensione. Non parlare di un referendum, dimostrarsi distratti aumenta la probabilità che all’astensionismo naturale e all’astensionismo interessato dei contrari si aggiunga un terzo astensionismo indotto. Quello di chi non sa che ci sarà un referendum. E ciascuno di noi sicuramente può pensare a propri conoscenti o amici che di questi come di altri referendum assolutamente non sanno nulla. Il quarto tipo di astensionismo è quello di chi rivendica di non essere sufficientemente competente per esprimersi con cognizione di causa. È un argomento da rispettare. Perché indica, quando è sincero, un grande rispetto per la cosa pubblica. Ma è un argomento pericoloso. Perché da qui a teorizzare la democrazia dei sapienti il passo è breve. E se la democrazia è cosa dei sapienti, perché consentire a tutti di votare? Nella teoria politica liberale, invece, il problema della conoscenza non è ignorato, ma risolto in modo da renderlo compatibile con l’ideale democratico, che vuole che nessuno sia escluso dal potere di decidere in ragione della propria incompetenza (vera o presunta). Conoscere per deliberare, scriveva Einaudi. E sui temi del referendum conoscere è possibile, purché si venga informati del fatto che ci sarà da deliberare, il 12 giugno, ed è dunque utile conoscere, farsi un’opinione. Conoscere è possibile perché dietro ai quesiti referendari ci sono questioni molto chiare, che implicano scelte di altissimo valore politico. Scelte che incidono sulla nostra vita concreta. Una delle peggiori conseguenze dello scontro tra politica e magistratura in questi anni è stato il diffondersi dell’idea che le questioni della giustizia riguardino solo la pretesa della politica di mettere la museruola ai magistrati o quella dei magistrati di volerla farla pagare ai politici. Uno scontro di potere, insomma. Due banalizzazioni (che certamente hanno del vero), ma che hanno avuto l’effetto di far pensare che i problemi di cui si parla non riguardino il cittadino comune. Purtroppo gli esempi di cattivo funzionamento della giustizia, quali che ne siano le cause, si abbattono inesorabilmente sui cittadini che, per un motivo o per l’altro, vengano in contatto con essa. Si tratti di processi che durano un’infinità e finiscono, così, per mortificare le ragioni di chi ha ragione o di casi (tre all’anno dicono le statistiche) di persone che finiscono in carcere da innocenti, perché solo molti anni dopo un processo stabilirà la loro innocenza. La lista è lunga. Interrogarsi sulla separazione delle funzioni tra pubblico ministero e giudice, sulle norme che rafforzano il potere delle correnti, sul modo in cui la valutazione dei magistrati avviene, sulle regole della custodia cautelare o sul perché l’effetto afflittivo di una sanzione amministrativa, che determina la decadenza o la sospensione da un pubblico ufficio, non debba essere prevista da una norma penale, com’è sempre avvenuto, con tutte le garanzie che la Costituzione assicura, ma essere piuttosto imposta da una legge che può anche avere applicazione retroattiva, sono alcune questioni cruciali per la giustizia e per i cittadini. E di questo si occupano i referendum. Contrastare le quattro forme di astensionismo di cui ho parlato non è solo interesse di chi sostiene il “SÌ”, ma anche di chi, semplicemente, crede che valga ancora la pena di conoscere e deliberare. Se è così, ancor prima del quorum, l’obiettivo dev’essere quello di informare. Lo può fare chiunque, alzando il telefono, postando su un social o mettendo sulla giacca una coccarda che susciti curiosità. A chi può, spetta fare anche di più. E ci auguriamo che lo faccia. Riflessioni a margine del referendum sulla Legge Severino di Tito Lucrezio Rizzo L’Opinione, 12 maggio 2022 Come è noto è stata fissata al 12 giugno 2022 la data del referendum abrogativo della Legge Severino. Prima del voto, crediamo utile fornire alcune doverose delucidazioni a carattere giuridico, per consentire agli elettori una scelta libera e consapevole, non meramente emotiva o demagogicamente orientata. È generalmente noto che, se un comportamento è ritenuto riprovevole o contrastante con i valori assunti come essenziali dalla collettività, il Legislatore lo configura come reato, poiché ne consegue l’efficacia deterrente che suole riconoscersi ai massimi livelli nella sanzione penale. Se, viceversa, il comportamento non desta particolare allarme sociale, può apparire sufficiente la sanzione amministrativa, ferma restando - ovviamente - l’eventualità di una contestuale responsabilità civile e/o disciplinare. Circoscrivendo il discorso alla relazione tra sanzione penale e sanzione amministrativa, ricordiamo che a seguito della “depenalizzazione” di vari reati minori, venuta incontro all’evoluzione del comune sentire ed alla necessità di perseguire con maggiore celerità ed efficacia i crimini più pericolosi per l’ordinato vivere civile, alcuni illeciti da tempo non costituiscono più reato. La tutela dell’individuo contro l’onnipotenza dello Stato, risale alla Magna Charta Libertatum del 1215 e, più specificamente in campo criminale, ha trovato alta espressione nel principio del Nullum crimen, nulla poena sine lege, elaborato in Germania dal fondatore della scienza moderna del diritto penale, Anselmo Feuerbach (1775-1833). Il Codice Rocco, tuttora vigente, mantenne nella formulazione degli articoli 1 e 2 del Codice penale princìpi in parte analoghi a quelli contenuti dallo Statuto albertino, così recitando: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza, se non nei casi previsti dalla legge”. Tutto ciò premesso serve a evidenziare alcune macroscopiche incongruenze dovute all’incompleta applicazione del principio del favor rei, paradossalmente proprio a quelle sanzioni amministrative che già di per sé sono intrinsecamente rivelatrici di una politica di minor rigore punitivo, rispetto alle “sorelle maggiori” operanti in materia penale. Una prima innovazione venne introdotta dalla Legge n. 689 del 24 novembre 1981, che in sede di riordino del sistema penale, provvide ad introdurre il principio di legalità anche per le sanzioni amministrative, disponendo all’articolo 1: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative, si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”. Per un’incomprensibile “svista”, il Legislatore ha purtroppo preso in considerazione solo l’aspetto della irretroattività di una nuova norma incriminatrice, tralasciando quello altrettanto rilevante di una nuova norma che abroghi o riduca la portata di una sanzione amministrativa già esistente. Si verifica così un effetto paradosso: se un dato comportamento, già configurato come reato, in virtù di una legge penale successiva più favorevole, cessa dall’essere tale, viene meno la correlata pena; se, viceversa, il medesimo comportamento sin dall’origine, o in seguito a depenalizzazione per il suo minore disvalore sociale viene configurato come illecito amministrativo, detto comportamento dovrà continuare - incredibilmente - a essere perseguito. A tal riguardo, una materia assai controversa, maggiormente nota al vasto pubblico più per le polemiche politiche che ne sono derivate, che per la “peculiarità” del suo singolare impianto tecnico-giuridico, è la richiamata Legge Severino. L’articolo 1 della stessa sancisce - perfettamente in linea con i principi generali del diritto penale - che non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per associazione a delinquere, associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, reati con finalità di terrorismo; per reati contro la Pubblica amministrazione, quali peculato, corruzione, concussione; o, in ultimo, per reati dolosi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni. Il “cambio di registro” rispetto alle norme di riferimento concernenti il Parlamento nazionale, avviene con l’articolo 8 in tema di sospensione e decadenza di diritto per incandidabilità per le cariche regionali, e al successivo articolo 11 per gli amministratori locali, in quanto nelle more processuali dell’accertamento definitivo dei reati indicati all’articolo 7, tutti gli appartenenti a dette categorie restano sospesi in una sorta di limbo, a far data già dalla prima sentenza di condanna, ancorché impugnabile. La Corte Costituzionale, con sentenza 20 ottobre 2015, n. 236, dichiarò costituzionalmente legittima la “Sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità” ivi prevista per una condanna (non definitiva) per determinati delitti contro la Pubblica amministrazione. Andava infatti considerata - secondo il ragionamento della Consulta - l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un “inquinamento” dell’amministrazione e per garantire la “credibilità” dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che poteva rischiare di essere incrinato “dall’ombra” gravante su di essa, a causa dell’accusa da cui era colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa operava. Così come la condanna irrevocabile poteva giustificare la decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la condanna non definitiva poteva far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si doveva concludere che la scelta operata dal Legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non avesse superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, secondo la Consulta. Non possiamo esimerci dal notare, che ove anche si accettasse la natura di provvedimento cautelare per quello della sospensione dalla carica di amministratore locale, permangono due macroscopici rilievi critici: 1) l’indegnità morale evocata dalla Consulta, così come dal Consiglio di Stato, dovrebbe vieppiù essere ostativa per i membri del Parlamento nazionale, come di quello europeo, essendo essi latori di istanze collettive di livello ben più alto rispetto a quelle di cui sono espressivi gli amministratori degli enti territoriali; 2) la misura cautelare, nel caso di specie, sarebbe comunque anomala, in quanto non prevista tra quelle contemplate nell’elenco contenuto nella parte prima, libro quarto, del Codice di procedura penale, con doveroso carattere di tassatività e di esaustività. In ultimo, con sentenza n. 36 del 23 gennaio 2019 la Corte costituzionale, nuovamente chiamata ad esprimersi in merito su alcuni profili di costituzionalità della Legge Severino dal Tribunale di Lecce, si è spinta a dichiarare legittima la sospensione di diritto degli amministratori locali, anche in caso di condanne non definitive antecedenti all’elezione! Secondo l’alto consesso, tale condanna non era preclusiva alla preliminare candidatura, ma - ove eletto l’interessato - alla titolarità della carica in parola. In parole povere il significato di quest’ultima sentenza è il seguente: Ti puoi candidare, ma poi se vieni eletto, sarai sospeso! Nella consolidata civiltà del suffragio universale, basta oggi la denunzia capziosa di un avversario politico per avviare un procedimento penale, onde rovinare la reputazione di un candidato alle elezioni amministrative, fintantoché il processo penale non si concluda con l’assoluzione. Ma l’assoluzione - con i tempi dei processi - potrebbe arrivare “a futura memoria”. La legge in discorso sarà sottoposta a referendum abrogativo, con tutte le incognite del caso, dovute all’alto tasso di astensionismo da parte di elettori sempre meno motivati a rendersi protagonisti attivi della democrazia, preferendo sterili critiche da bar dello sport. “Ai miei clienti innocenti dico: se tutto va bene sei rovinato” di Angela Stella Il Riformista, 12 maggio 2022 Il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei: “Chi viene assolto è vittima di errore giudiziario, perché ha subito un processo ingiustamente e avrà la vita distrutta anche se non è andato in carcere”. “Questo è il disvelamento di come si esercita il terribile potere di accusa in Italia, dove, per fortuna, esiste ancora un giudice, immigrato da Berlino”. Così lei e i suoi colleghi Francesco Marenghi e Fabio Pisillo avete commentato la sentenza. Cosa intendevate dire? Il potere di accusa, come ha sostenuto il grande magistrato francese Antoine Garapon, è “anomico e terribile”. Esso sfugge alle maglie della legalità proprio mentre è alla ricerca della legalità. Il potere di accusa può muovere da qualsiasi impulso. Il nostro codice dice che il pm procede alla ricerca della notizia di reato, non la riceve soltanto. In questa attività comincia a sviluppare i poteri di accusa che si rivolgono in mille direzioni - interrogatori, perquisizioni, sequestri - per diventare sempre più invasivo. Ad un certo punto la notizia deve essere pubblicata sul giornale: basta una perquisizione, atto non soggetto a divieto di pubblicazione, specialmente se compiuta alle prime luci dell’alba, col fragore di molte auto a sirene lanciate che si precipitano sotto la casa del malcapitato, e il gioco è fatto. L’indagato viene sbattuto sui giornali e la sua reputazione viene rovinata. Così il potere di accusa si è manifestato in forma devastante. Ma questo potere si giustifica invocando che è la legge che impone di perseguire ogni reato. Però poi c’è il vaglio del Gip... Sulla figura del Gip si potrebbe scrivere un romanzo non a lieto fine. Si prospetta una garanzia tanto lussureggiante quanto inconsistente. Ovviamente ci sono giudici impeccabili e pm scrupolosi. Ad esempio Carlo Nordio: quando faceva il pm poteva essere un modello per chiunque. Per questo non ha fatto carriera: gode di una stima che non è proporzionata alla dimensione professionale che un uomo come lui avrebbe dovuto assumere. Quindi le eccezioni ci sono, ma è il sistema che alla fine prevale. Ricordo un episodio lontano. Prego... Era appena entrato in vigore il Codice Vassalli che sembrava lasciare poco spazio al pm. Mi trovai ad un convegno sul lago di Garda, durante il quale molti magistrati lamentavano queste restrizioni alle funzioni del pm. Un alto magistrato, mio carissimo amico, mi disse: “Tullio, i miei colleghi non hanno capito nulla, non hanno capito che questo è in realtà il codice dei pubblici ministeri”. Da allora miriade di processi, grandi o piccoli che siano stati, hanno testimoniato di come ci si debba inorridire nel vedere come quel potere dell’accusa sia stato esercitato. Avete anche aggiunto: “L’avvocato Mussari non è più quel che era quando questa vicenda è iniziata, e nessuno gli restituirà nulla. Su questo, forse, dovremmo tutti riflettere”... L’avvocato Mussari impersona plasticamente e drammaticamente la figura del soggetto a cui io mi riferisco con una massima che sono solito ripetere ai miei assistiti innocenti, i quali versano in situazioni processuali prevedibilmente lunghe, logoranti, devastanti con una prospettiva secondo me certa di uscirne, ma dopo molti anni di patimenti: “Se tutto va bene lei è rovinato”. Questo si realizza in Italia: dopo essere stati stritolati nel tritacarne giudiziario se ne esce annullati, senza alcuna consistenza, con una vita distrutta insieme ai rapporti familiari e professionali. Io ho una casistica per tutte le cose che affermo: la moglie ti abbandona, i figli ti rifiutano, un mio cliente è persino diventato barbone prima di essere assolto. Chi si assume la responsabilità di questo? Nessuno. A fronte di questo immenso potere non esiste alcuna responsabilità. Tra l’altro il nostro è un Paese che miniaturizza l’idea di errore giudiziario. Esso è considerato tale solo quando produce una condanna ingiusta rispetto alla quale c’è da risarcire una detenzione. Ma a mio parere siamo in presenza di un errore giudiziario ogni volta che si subisce un processo per poi essere assolto. I cittadini dovrebbero essere tenuti indenni, quantomeno sul piano delle conseguenze economiche. L’imputato dovrebbe essere immediatamente risarcito, perché sottoposto ingiustamente a processo. Anche se non sarò andato in carcere, la mia vita è stata rovinata. E nessuno neanche chiede scusa. A proposito di responsabilità, l’Anm non condivide affatto la parte di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in cui si prevede di valutare il magistrato anche in base agli esiti... Constato che esiste una massima eterna: chi ha un potere su cui non grava una corrispondente responsabilità non è mai disposto ad accettarla, perché significherebbe rinunciare a una fetta di quel potere e alla serenità di non dover render conto delle proprie azioni. Invece potere e responsabilità dovrebbero andare a braccetto, essere due facce della stessa medaglia. Altrimenti quel potere si trasforma in una sovranità assoluta. Soprattutto quando quel potere può privare della libertà personale... In questo caso la tecnica per deresponsabilizzarsi è ripartire il potere. Ad esempio, il pm sosterrà che ha fatto la richiesta di arresto, ma è il giudice che ha poi spedito la persona in galera. L’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”) alla luce di quello che ci siamo detti fino ad ora va riletto così: L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale. L’Anm lunedì prossimo sciopera, anche per questa questione del fascicolo di valutazione. Che pensa? Lo sciopero è considerato un diritto intoccabile. In realtà il nostro sistema contempla ancora uno sciopero illegittimo. L’articolo 504 cp stabiliva che quando lo sciopero è commesso con lo scopo di costringere l’Autorità a dare o ad omettere un provvedimento, ovvero con lo scopo di influire sulle deliberazioni di essa, si applica una certa pena. La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale nel 1983. La sentenza 165 la dichiarò costituzionalmente illegittima, salvando però l’ipotesi che lo sciopero sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale, ovvero ad impedire od ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare. E allora mi chiedo: l’Anm non intende forse influenzare l’attività parlamentare? Non sta chiedendo appunto che il Parlamento cambi indirizzo? Non è forse il tentativo di ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare? Ovviamente sono consapevole che per applicare l’articolo 504, nella forma residua dopo il vaglio costituzionale, ci vogliono magistrati, e cioè quegli stessi magistrati pronti a scioperare. Ultima domanda: cosa ne pensa della decisione della Corte Costituzionale di rinviare la decisione sull’ergastolo ostativo? In Italia la regola numero uno è quella del rinvio, la panacea di tutti i mali. Invece la Corte costituzionale, riconoscendo che la norma era illegittima, avrebbe dovuto subito dichiararne l’incostituzionalità. E il Governo avrebbe potuto intervenire con un decreto legge per dettare una disciplina costituzionalmente corretta. La soluzione c’era. Il sistema ha invece partorito questa situazione paradossale per cui l’incostituzionalità resta sospesa: non riesco proprio a capirlo. Lo stupore mi ha colto fin dalla vicenda Cappato (tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ndr): sono rimasto esterrefatto nel leggere del rinvio anche in quel caso. E poi, come sappiamo, il Parlamento non ha fatto nulla. E così accadrà in questo caso. L’8 novembre non credo proprio che avremo una legge approvata in via definitiva. Nessuno se ne vorrà assumere la responsabilità, soprattutto a ridosso delle elezioni. Delega penale, chiusi 5 (su 6) gruppi di lavoro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2022 Cartabia: “Grande attenzione alla fase di attuazione”. “La fase di attuazione di una delega legislativa è particolarmente rilevante; è nella scrittura dei decreti legislativi il lavoro più delicato da compiere con particolare attenzione, perché è lì che gli orientamenti vengono definiti in tutta la loro portata e concretezza”. Si sono chiusi martedì 10 maggio, nel rispetto dei tempi previsti, i lavori di cinque dei sei gruppi di lavoro istituiti presso il Ministero della Giustizia per l’attuazione della legge delega di riforma della giustizia penale. Mentre è attesa per giugno la conclusione dei lavori di un sesto gruppo, di più recente costituzione, in tema di processo penale telematico e di ufficio per il processo penale. “Una delega - ha commentato la Ministra Marta Cartabia - contiene già un principio di normazione, ma sappiamo quanto sia nell’opera di scrittura e cesellatura dei decreti legislativi il lavoro più delicato da compiere con particolare attenzione, perché è lì che gli orientamenti vengono definiti in tutta la loro portata e concretezza”. La Ministra ha infatti voluto salutare personalmente “a conferma - si legge in una nota - della rilevanza e della personale attenzione rivolta alla fase di attuazione della delega”, i componenti di uno dei gruppi di lavoro, quello della riforma del sistema sanzionatorio penale, coordinato da Gian Luigi Gatta, professore ordinario di diritto penale nell’Università degli Studi di Milano e Consigliere della Ministra della Giustizia. Il gruppo si è occupato anche di una riforma organica delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, che valorizza l’esecuzione della pena attraverso misure di comunità che meglio si prestano al reinserimento sociale del condannato e a ridurre i tassi di recidiva. “A conferma di quanto io creda nella pluralità delle pene, ulteriori e diverse dal carcere, in risposta al reato, c’è il grande investimento - ricorda la Guardasigilli - per l’aumento dell’organico degli uffici di esecuzione penale esterna”. La riforma del sistema sanzionatorio prevede infatti rilevanti interventi anche in tema di pena pecuniaria, di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di procedibilità a querela e di estinzione delle contravvenzioni per adempimento di prescrizioni della pubblica autorità. Dopo un coordinamento interno, i tecnici dell’Ufficio legislativo predisporranno sulla base dei lavori dei gruppi una bozza di schema di decreto legislativo che, su proposta della Ministra Cartabia, sarà poi presentato al Consiglio dei Ministri. Valente (Pd): “La mia battaglia contro la vittimizzazione secondaria” di Simona Musco Il Dubbio, 12 maggio 2022 “Il tema della violenza contro la donna, nei processi civili, finisce per non essere preso in considerazione. E questo, principalmente, sulla base di una vittimizzazione secondaria, sul piano procedurale e processuale, che diventa decisiva nella valutazione di merito del giudice”. A spiegarlo è Valeria Valente, senatrice del Pd e presidente della Commissione Femminicidio, che domani, al Senato, presenterà la relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale. Un fenomeno purtroppo invisibile, che finisce per falsare i dati sulla violenza e sugli affidi, con conseguenze spesso devastanti sul futuro delle donne e dei minori. Senatrice, può spiegarci l’importanza di questa relazione? È stata una delle più impegnative per la Commissione e ha richiesto un lavoro di quasi due anni. Molto spesso si parla di violenza sulle donne con quasi istintiva, naturale attenzione solo alla dimensione del penale. Ma c’è anche una dimensione civilistica, con conseguenze importanti in termini di comprensione e conoscenza del fenomeno. E forse quella che è conosciuta meno, indagata meno, affrontata di meno rischia di essere quella con un maggiore e drammatico impatto sulla vita delle donne vittime di violenza. Da che punto di vista? Innanzitutto perché molto spesso le donne che subiscono violenza, prima ancora di arrivare alla consapevolezza della denuncia - accade solo nel 15% dei casi, mentre il 64% delle donne non ne parla nemmeno con un amico - arrivano alla volontà di separarsi dall’uomo violento e quindi avviano un procedimento civile di separazione. O almeno ci provano. Il tema della violenza trova uno spazio nella dimensione civilistica del fenomeno? Indagando sul fenomeno abbiamo compreso che non solo la violenza non viene minimamente letta, ma che ciò rischia di essere presupposto per un’ulteriore vittimizzazione della donna che ha subito violenza. La violenza non viene verbalizzata: non è possibile che questa parola non compaia quasi mai e che venga utilizzata la parola conflitto come sinonimo. Sono due cose profondamente diverse. Sul fronte processuale, la donna viene molto spesso ascoltata in presenza dell’uomo - sia in sede di separazione civile sia in sede di procedimenti relativi alla responsabilità genitoriale - anche dopo aver fatto allegazioni di violenza, cosa che, stando alla nostra indagine, accade nel 34% dei casi. Ed è evidente che, avendo di fronte chi le ha esercitato violenza, sarà condizionata nel racconto. Inoltre, nel 95% dei casi non vengono richiesti ulteriori atti dal giudice, non vengono utilizzate tutte le procedure richieste, ad esempio viene trovata comunque una conciliazione e il minore non viene ascoltato direttamente in maniera separata. La violenza, insomma, non viene indagata e quindi, sostanzialmente, non viene considerata. E, cosa ancora più grave, non viene considerata come un fattore di cui tenere conto anche nell’adozione dei provvedimenti successivi, ad esempio quello relativo all’affido dei minori, finendo per favorire il principio di bigenitorialità a scapito dell’interesse del minore. E si finisce per colpevolizzare la donna se il bambino rifiuta di vedere il padre violento. Questo poi falsa anche i dati relativi agli affidi? Certo. L’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, che per noi è un faro nella lotta alla violenza, ci dice che ogni volta che ci troviamo di fronte a un uomo violento vanno messi in sicurezza madre e minore. Se noi leggessimo la violenza e applicassimo la Convenzione non ci potremmo mai trovare di fronte al caso di un minore affidato ad un padre violento o a entrambi i genitori, in casa famiglia o agli assistenti sociali con lo scopo di ricostruire il “sano” rapporto sia con la madre sia con il padre. Credo sia giusto che i bambini mantengano un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, ma non è un assunto che può stare al di sopra dell’interesse concreto del minore. Lo diciamo da tempo, lo dice il Grevio, la Convenzione di Istanbul - che è legge dello Stato - e, da ultimo, la Cassazione: se c’è violenza, il bambino deve essere tenuto a distanza dal padre, è un obbligo, non ci sono margini di valutazione di opportunità. E la Cassazione, nelle ultime due pronunce, si spinge oltre, dicendoci che il superiore interesse del minore prevale anche sulla bigenitorialità, che non deve essere letta come un diritto dei genitori, ma come un interesse del minore. E interesse del minore è soprattutto la sua sicurezza. Perché c’è così tanta difficoltà a riconoscere la violenza, anche in un’aula di tribunale? Ci sono due ragioni: la prima è che manca una specializzazione adeguata. I giudici civili hanno sempre ritenuto la violenza appannaggio del penale e c’è poco dialogo con i colleghi di quell’ambito. Molto poco si chiede di assumere gli atti dal penale, nonostante il Codice rosso e qualche norma ulteriore nella riforma del processo civile. Si sottovaluta il tema. Stessa cosa nel minorile, dove alberga anche un’altra convinzione: ci sentiamo molto spesso dire che se l’uomo è violento solo nei confronti della madre può comunque essere un buon padre. Ed è una convinzione di carattere culturale, che noi non condividiamo, tant’è che ho presentato un disegno di legge in questo senso. La seconda è una questione culturale: i pregiudizi, gli stereotipi, il modo in cui si legge la dinamica della relazione di coppia, la suddivisione in ruoli. Ma c’è anche un altro fattore: spesso il giudice delega la comprensione di una vicenda alla consulenza tecnica e le relazioni di psicologi e assistenti sociali diventano l’unico elemento sul quale costruiscono la pronuncia finale. Ma questi professionisti possono offrire il punto di vista solo su alcuni aspetti, mentre il giudice deve accertare i fatti e questa attività non può essere limitata solo a una perizia. Bisogna svolgere attività di accertamento. Alcune modifiche sono già state ottenute con la riforma del processo civile, ma manca ancora qualcosa. E sono convinta che si possa chiedere anche al giudice civile una sorta di accertamento incidentale temporaneo della violenza, veloce e rapido, ma precondizione di un atteggiamento diverso nella procedura. La vittimizzazione secondaria però c’è anche fuori dalle aule del tribunale. Come si abbatte? Mi sono interrogata tante volte. Inasprire le pene porta consenso ai politici, ma non risolve il problema, altrimenti i dati della violenza non sarebbero quelli che sono. Le agenzie educative possono fare sicuramente molto di più: le università, ad esempio, devono istituire delle ore curriculari dedicate alla lettura della violenza. Ma il tema è di una società intera. Quando si sono combattute le mafie del 1992 c’è stata un’assunzione di responsabilità della collettività, che si è schierata a favore delle vittime e contro i mafiosi. Dovrebbe accadere lo stesso anche adesso: schierarsi a favore delle donne e contro gli autori di violenza. Ma ancora oggi oltre la metà degli italiani pensa che una donna che subisce violenza se la sia cercata, in qualche modo. Per questo io direi che, oltre ad aiutare di più e meglio i centri antiviolenza, che hanno sempre poche risorse, è necessario fare campagne di sensibilizzazione che facciano capire che oggi una delle principali cause di morte per donne in una certa fascia d’età è essere nate donne. E non è accettabile. Dopo ben 43 anni di carcere, l’Italia liberi Vincenzo Vinciguerra di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2022 Ho una proposta indecente. Una richiesta impossibile. Una sfida insopportabile. Lo Stato liberi Vincenzo Vinciguerra. È in carcere da 43 anni, dopo aver confessato di essere l’autore della strage di Peteano, in cui il 31 maggio 1972 morirono tre carabinieri. Ha volontariamente scelto l’ergastolo, rifiutando - unico detenuto in Italia - ogni beneficio carcerario, ogni alleggerimento di pena. È forse l’italiano che da maggior tempo sta in carcere, con la prospettiva, scelta liberamente, di uscirne solo da morto. Valerio Fioravanti, condannato in via definitiva per la strage di Bologna, ha accumulato, anche per altri reati, otto ergastoli, ma arrestato nel 1981, dal 2009 è in libertà. Francesca Mambro, sua complice stragista alla stazione, di ergastoli ne ha accumulati addirittura nove, ma è libera dal 2013. Mario Tuti, ergastolano dal 1975 per aver ucciso due agenti di polizia e poi per l’assassinio in carcere di Ermanno Buzzi, è in semilibertà dal 2004. Vinciguerra no. Resta chiuso nella sua cella di Opera e non chiede nulla a uno Stato in cui dice di non credere. Non è un “pentito”: ha ammesso le sue responsabilità, ma accusando gli apparati di Stato della Guerra fredda di essere i registi della strategia delle stragi e rifiutando la loro protezione. Chi voglia conoscere la sua storia, unica e terribile, può ora leggere il libro di Paolo Morando, “L’ergastolano”, da oggi in libreria edito da Laterza. Lo Stato ha ancora la possibilità di mostrare le virtù civili della democrazia: restituendogli la libertà. Una grazia speciale del presidente della Repubblica, unilaterale, senza contropartite, senza condizioni: per riconoscere la coerenza di un uomo che ha raccontato tutto ciò che ha fatto e ha spiegato tutto ciò che ha capito, in molti suoi libri e in innumerevoli deposizioni in tutti i processi per strage a cui è stato chiamato. Così, il 6 luglio 2000 al processo per Piazza Fontana, ha spiegato la sua scelta di consegnarsi allo Stato: “Io mi sono costituito a questo Stato non ovviamente con volontà di resa, ma semplicemente perché non ritenevo di potere fare ancora il latitante con Avanguardia Nazionale, ritrovandomi nella mia libertà di azione. Capisco che è difficile capire che esiste una libertà in carcere, le vostre carceri poi… Potevo fare il latitante in Argentina, in Spagna, però avrei dovuto restare in Avanguardia Nazionale: costituendomi, ho ritrovato invece la mia libertà di azione”. Così ha spiegato, per averla conosciuta dall’interno, la destra eversiva italiana: “La mia tesi è semplice”, ha detto nella sua ultima deposizione, il 28 gennaio 2022 al processo Bellini per la strage di Bologna, “io affermo che l’estrema destra italiana formata dopo la fine della guerra, dal 1948-1949 è stata cooptata nei servizi di sicurezza dello Stato per via della sua volontà e capacità di combattere il comunismo. Questa coincidenza di propositi e di fini tra lo Stato con i suoi partiti anticomunisti, dalla Dc al Pli fino al Partito monarchico, e gli apparati militari di sicurezza ha fatto sì che si sia creato un rapporto simbiotico che è continuato fino a tutti gli anni Settanta. Per questo nego che sia mai esistita un’eversione nera, cioè un attacco allo Stato da parte dell’estrema destra: casomai c’è stato un intervento dell’estrema destra in operazioni clandestine e occulte che comunque dovevano favorire una democrazia autoritaria. Un intervento quindi a favore dello Stato, non contro di esso, perché in Italia non c’è episodio di strage in cui l’estrema destra non sia coinvolta. La logica delle stragi è una sola e i collegamenti tra gli imputati e i servizi segreti sono provati, da Piazza Fontana in avanti. La strage di Bologna è un evento in continuità con le precedenti, non un caso a parte”. Anche l’Italia ha avuto il suo battaglione Azov. Se quella storia ora è finita, tenerlo in cella è ormai un’onta per lo Stato democratico: liberate Vinciguerra. Conferenze stampa show con foto e video degli arrestati, il Garante privacy sanziona le Questure di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2022 No alla diffusione di foto lesive della dignità delle persone. Applicate sanzioni per 110mila euro al Ministero dell’interno per due casi. No alla divulgazione da parte delle Questure nel corso di conferenze stampa, di immagini e video di persone arrestate o detenute, in quanto lesive della loro dignità, senza che la divulgazione sia giustificata da necessità di giustizia o di polizia. Il Garante privacy ha sanzionato per complessivi 110mila euro il Ministero dell’interno per la diffusione di video ed immagini da parte di due Questure. Nel primo episodio, il video, pubblicato su alcuni siti internet e testate giornalistiche mostrava i volti in primo piano e i nominativi di otto persone arrestate e le immagini dei momenti in cui venivano condotte (in questo caso, con il volto coperto) dagli agenti di polizia nelle auto di servizio. Il video, liberamente visibile per oltre 5 anni sul profilo Facebook di una Questura, era stato rimosso dopo l’intervento dell’Autorità. Nell’irrogare la sanzione di 60mila euro per questo episodio il Garante ha ritenuto che - alla luce della normativa nazionale ed europea, e della giurisprudenza della Corte di Cassazione e della CEDU - le immagini, per le caratteristiche dell’inquadratura e la presenza del logo della Polizia di Stato, fossero nella sostanza assimilabili alle foto segnaletiche, pur non avendo i numeri in sovrimpressione. La diffusione delle foto segnaletiche - sottolinea l’Autorità - è consentita solo se ricorrono fini di giustizia e di polizia o motivi di interesse pubblico. Nel corso dell’istruttoria invece non è emersa alcuna necessità di divulgare le immagini in questione, in aggiunta alle altre informazioni fornite alla stampa. “In altri termini - si legge nel provvedimento -, le immagini in esame sono state diffuse dal Ministero in violazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali ed in modo lesivo della dignità delle persone interessate, anche in considerazione dello stato di soggezione degli stessi e del lungo periodo trascorso dal momento dell’arresto al momento in cui, su istanza dell’Autorità, le immagini sono state rimosse dal titolare”. La Questura è così incorsa in un trattamento non necessario, eccedente e lesivo della dignità della persona, che deve essere tutelata in ogni situazione, specialmente, come sottolineato dalla Suprema Corte, quando si trovi in una situazione di momentanea inferiorità e, ad esempio, sia ripresa in uno stato di soggezione (posizione forzata del soggetto, ritratto in primo piano senza il suo consenso, situazione obiettivamente umiliante). Nel secondo caso, un’altra Questura ha divulgato alla stampa, sempre senza che ve ne fosse alcuna necessità, le generalità e l’immagine in primo piano di una persona già in carcere per dare la notizia di un ulteriore provvedimento restrittivo emesso nei suoi confronti. Il Garante ha ritenuto illecita anche questa divulgazione di dati personali e ha applicato al Ministero una sanzione pecuniaria di 50mila euro. “Deve tenersi conto - scrive il Garante nel provvedimento - che il medesimo interessato si trovava già in stato di detenzione e che la finalità indicata dal Ministero appare, per la sua genericità, inidonea a giustificare una diffusione di immagini di tale natura, senza alcuna considerazione per le cennate esigenze di tutela della dignità, della sfera privata e di protezione dei dati personali, chiaramente presidiate dalla Corte EDU e dalla Suprema Corte di Cassazione”. “In altri termini - conclude - le immagini in esame sono state diffuse dal Ministero in violazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali ed in modo lesivo della dignità della persona interessata, anche in considerazione dello stato di soggezione dell’interessato. Foggia. Detenuto si impicca in cella, nel carcere è secondo suicidio in 15 giorni foggiatoday.it, 12 maggio 2022 Un altro suicidio nel carcere di Foggia, dove un detenuto di origini baresi di 62 anni, nella casa circondariale per maltrattamenti in famiglia, si è tolto la vita nella sua stanza, impiccandosi. Ne dà notizia il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, ricordando tristemente che l’ultimo episodio simile risale ad appena due settimane fa. Il sindacato ha ricordato ancora una volta come lo scarso numero di agenti rispetto all’ingente quantità di detenuti non sia sufficiente a sorvegliare tutti adeguatamente, ed è in crescita il numero di suicidi, aggressioni, pestaggi. Firenze. Inps condannata a pagare Naspi a detenuto dopo cessata prestazione svolta in carcere primafirenze.it, 12 maggio 2022 La sentenza è un passo verso il riconoscimento delle prestazioni assistenziali ai lavoratori in regime di restrizione. La Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze con la collaborazione dell’Associazione L’Altro Diritto - Centro di ricerca su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni- ha patrocinato, per il tramite dell’Avvocato Maria Gabriella Del Rosso, alcune cause avverso l’Inps per far riconoscere ai detenuti il diritto alla Naspi per il periodo di inattività involontaria durante la restrizione, ottenendo piena vittoria da parte del Giudice di merito del Tribunale di Firenze. Tale importante sentenza costituisce un ulteriore passo verso il riconoscimento delle prestazioni assistenziali, diritti costituzionalmente garantiti, ai lavoratori in regime di restrizione. Dichiarazione di Elena Aiazzi della Segreteria della Segreteria Cgil di Firenze. “Esprimiamo grande soddisfazione per questa sentenza anche grazie al lavoro del nostro Ufficio Vertenze ed al Patronato. Come affermato più volte nei principi espressi dalla Corte Costituzionale ai quali si ispira il nostro Ordinamento Giudiziario, il lavoro carcerario deve avere natura rieducativa e non afflittiva e la relativa organizzazione e regole giuridiche devono riflettere le normali condizioni del lavoro libero. Per noi lo Stato deve essere da esempio verso coloro che devono riacquisire la condizione di cittadino libero rispettoso delle leggi. Il lavoro carcerario e l’acquisizione delle relative competenze è fondamentale per agevolarne il reinserimento sociale. Come prevede la nostra Costituzione il lavoro deve essere tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni ed in questo caso deve consentire al lavoratore ristretto di ottenere mezzi adeguati alle sue esigenze pur in condizione di restrizione” “Questa decisione restituisce piena dignità al lavoro delle persone detenute, le quali, pur versando i contributi come tutti i lavoratori, si vedono negato il diritto alla Naspi dall’Inps. Da un lato l’ente previdenziale incassa i contributi assicurativi, dall’altro si rifiuta di elargire le relative prestazioni. Ci auguriamo che a partire da questa decisione, l’Inps e l’amministrazione penitenziaria prendano atto che si tratta di una pratica iniqua e discriminatoria. È tempo di adeguarsi alle norme e ai principi generali in materia di lavoro che, come ricordato dal giudice del lavoro, impongono di trattare il lavoro penitenziario con pari dignità”. A tale proposito come ‘L’Altro Diritto’, CGIL Firenze e CGIL Nazionale, il prossimo 20 maggio presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, si terrà un’iniziativa seminariale volta ad approfondire le forme giuridiche del contratto di lavoro sempre nell’ottica di restituire dignità e trasparenza al lavoro carcerario Verbania. L’Ora dello sport, raccolta fondi per una nuova palestra nella Casa circondariale ossolanews.it, 12 maggio 2022 “L’Ora dello sport” è il titolo della cena di raccolta fondi che ha l’obiettivo di realizzare una nuova palestra e un’area attrezzata all’interno della Casa Circondariale di Verbania. Si svolgerà il 19 maggio a partire dalle 19 al ristorante sociale Gattabuia. Ospite della serata sarà il pugile Ivan Zucco che, insieme alla direttrice Stefania Mussio, introdurrà la serata con una breve testimonianza sul valore dello sport, in particolare all’interno del contesto carcerario. La serata sarà accompagnata dalla musica di un quartetto di professionisti del jazz che interpreteranno famosi brani tratti dall’American Songbook: Claudio Wally Allifrinchini al sax tenore, Simone Daclon al pianoforte, Roberto Piccolo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria. L’iniziativa nasce dalla sinergia tra l’Associazione Alternativa A, la Direzione dell’Istituto di Pena, la Cooperativa Il Sogno e la Sindaca di Verbania, gli Assessorati allo Sport ed alle Politiche Sociali della Città di Verbania e vede il sostegno e la collaborazione di Fondazione Comunitaria del VCO e della Garante per i diritti dei detenuti. L’Associazione, nata nel 1982 per costruire un’alternativa alla condizione di emarginazione di persone fragili, ad oggi promuove sul territorio progetti mirati alla riabilitazione ma anche alla cura ed alla prevenzione del disagio sociale, nonché alla promozione di una cultura di inclusione e partecipazione solidale. Ritenendo lo sport un potente strumento di benessere psicofisico, ha raccolto l’invito della locale Casa Circondariale di ampliare l’offerta di attività educative al proprio interno: è nata così l’idea di poter collaborare alla realizzazione di spazi attrezzati dove le persone detenute possano praticare attività fisica e possibilmente sotto la guida di volontari che possano guidarne l’allenamento. La cena prevede un menù indiano ed una donazione minima di 25 euro. L’invito è aperto a tutti ma i posti sono limitati. Per prenotazioni 0323 556090 o 346 6129920, entro e non oltre lunedì 16 maggio. Ferrara. Giornata nazionale sulle iniziative d’arte con la popolazione detenuta estense.com, 12 maggio 2022 Si terrà a Ferrara l’iniziativa di “Teatro come palcoscenico dell’uguaglianza”, la prima “Giornata di incontri, testimonianze, proiezioni e spettacoli sul teatro come strumento di crescita per la popolazione detenuta” in programma per venerdì 13 maggio a partire dalle 10.30 nella Sala Consiliare del Comune di Ferrara. Gli eventi, organizzati con il patrocinio del Comune di Ferrara e della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara e con il contributo dell’assessorato comunale alle Politiche Sociali, sono stati presentati nella residenza municipale a cura dell’associazione di promozione sociale Aics Comitato Provinciale di Ferrara, del Teatro Nucleo Ferrara e della Compagnia Stabile Assai Roma. All’incontro sono intervenuti gli assessori comunali alle Politiche sociali Cristina Coletti e alla Cultura Marco Gulinelli, la presidente e il rappresentante dell’Associazione Italiana Cultura Sport (Aics) Cinzia Morelli e Amedeo Vancini, il responsabile nazionale sociale Terzo Settore Associazione Italiana Cultura Sport (Aics) Franco Ferioli e il regista e cofondatore Teatro Nucleo Ferrara Horacio Czertok. “Un’iniziativa di grande valore per il nostro territorio - ha sottolineato l’assessore Cristina Coletti - dove il teatro va visto come opportunità di cambiamento, di condivisione e di reinserimento sociale dei detenuti. Si tratta di valori non scontati, dove il teatro diventa valido strumento di crescita da un punto di vista umano e sociale. Un mezzo che con le iniziative di venerdì 13 maggio potrà essere conosciuto e approfondito sia attraverso il convegno nazionale dedicato al ruolo della comunità nella giustizia riparativa, sia attraverso i due momenti di condivisione del film scritto e interpretato dai detenuti della casa circondariale di Ferrara e dalla rappresentazione teatrale che verrà messa in scena con la partecipazione degli ex detenuti”. “Il teatro è il sogno dell’uguaglianza - ha fatto notare l’assessore Marco Gulinelli - dove la rappresentazione spinge il cuore di ognuno di noi a conoscerci e a capire ciò che siamo. Un momento assolutamente importante questo che Ferrara si appresta ad ospitare, dove l’impiego dell’immaginazione degli attori detenuti svolge un ruolo partecipe e catarchico nell’attuazione del percorso per la ricostruzione della persona. La bellezza dell’etica si sposa con l’estetica e coinvoge lo spettatore in quella maniera che solo l’arte riesce a realizzare. La cultura è il luogo comune per sentirsi liberi e, attraverso di essa, per i detenuti che sono naufragati in una situazione di rischio c’è una possibilità di mediazione dove il pregiudizio muore”. Il regista e cofondatore Teatro Nucleo Ferrara Horacio Czertok venerdì parlerà dell’impegno di Teatro Nucleo nelle attività di Teatro in Carcere, nel Convegno “Il Valore del Teatro Sociale e della Drammaturgia Penitenziaria - il ruolo della comunità nella giustizia riparativa”. Interverranno il poeta, attore ex detenuto Edmond Deidda; il deputato e presidente di Aics Nazionale Bruno Molea; il presidente del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna Paolo Billi; l’attrice e pedagogista Tamara Boccia; il regista teatrale della compagnia Stabile Assai Antonio Turco con un contributo del direttore Teatro Comunale di Ferrara Moni Ovadia. Sarà possibile seguire l’evento anche dalla diretta streaming a cura dell’Ufficio Stampa del Teatro Comunale al link: https://www.youtube.com/user/consigliocomunalefe Seguirà, alle 15.30, nella Sala Estense (piazza del Municipio 14, Ferarra) la proiezione del film “Album di Famiglia”. Il film, scritto e interpretato dai detenuti della Casa Circondariale C. Satta di Ferrara, tratto dall’Amleto di William Shakespeare, è il risultato delle attività in carcere portate avanti, anche in periodo pandemico, da Horacio Czertok e Marco Luciano di Teatro Nucleo. La regia è di Marco Luciano, a presentarlo interverranno la direttrice della Casa Circondariale C.Satta Ferrara Maria Nicoletta Toscani; il regista, cofondatore Teatro Nucleo Ferrara Horacio Czertok; il regista Teatro Nucleo Ferrara Marco Luciano. L’ingresso è libero e entrambi gli eventi sono aperti a tutta la cittadinanza. Pavia. “Difendiamo i diritti dei detenuti”. Ritorna il ciclo Cinema e giustizia di Giacomo Aricò La Provincia Pavese, 12 maggio 2022 I diritti dei detenuti vanno difesi. È questo il tema della quarta edizione di “Cinema e Giustizia”, la mini-rassegna formativa-cinematografica che si terrà al Movieplanet di San Martino Siccomario da oggi al 25 maggio, sempre il mercoledì sera che prevede la partecipazione di ospiti illustri come l’ex magistrato Gherardo Colombo, l’ex provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia Luigi Pagano e la direttrice del carcere di Pavia, Stefania D’Agostino. L’iniziativa, organizzata dalla Camera Penale e dall’Ordine degli avvocati di Pavia, prevede tre incontri incentrati sulle carceri affrontati attraverso la proiezione di tre pellicole di alto livello precedute dagli interventi di ospiti illustri. I tre eventi, aperti a tutti, non solo agli operatori del diritto, prenderanno il via stasera con “Ariaferma”, il film diretto da Leonardo Di Costanzo con protagonisti Silvio Orlando (che per questa interpretazione ha recentemente vinto il David di Donatello come Miglior Attore) e Toni Servillo che risponderà alla prima tematica proposta dalla rassegna, ovvero “Trattamento penitenziario e strumenti di difesa dei diritti dei detenuti”. Il film è ambientato in un vecchio carcere ottocentesco dove, per problemi burocratici, rimangono bloccati una dozzina di detenuti in attesa di essere trasferiti in nuove destinazioni. È in questa atmosfera sospesa che si riusciranno a intravedere nuove forme di relazioni. La pellicola - che propone una riflessione sulla colpa, sulla pena e sullo scandalo della prigionia - sarà introdotta dagli interventi del dottor Luigi Pagano, ex provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia, e dell’avvocatessa del Foro di Milano Maria Teresa Zampogna. A moderarli sarà l’avvocatessa Mariarosa Carisano. Tra gli ospiti ci sarà anche la direttrice del carcere di Pavia, la dottoressa Stefania D’Agostino che documenterà la realtà pavese carceraria. “Mi auguro che la rassegna possa accendere un faro di luce sul mondo carcerario - spiega Eleonora Grossi, avvocatessa penalista del Foro di Pavia, nel direttivo della Camera Penale di Pavia con delega specifica alle carceri - Un mondo che troppo spesso dà fastidio e viene lasciato in ombra, come se i detenuti fossero gli ultimi su questa terra e che invece qui vogliamo risaltare”. Ad affiancare la Grossi nella realizzazione di “Cinema e Giustizia” è stato l’avvocato penalista di Pavia Marcello Caruso, non solo un autorevole esperto in materia penale ma anche un grande cinefilo: “Questa quarta edizione - racconta Caruso - vuole rimettere al centro dell’attenzione i diritti dei detenuti che vanno preservati e mantenuti integri in nome del patto sociale che deve esserci tra un Paese democratico e i suoi cittadini”. “Avevamo il forte desiderio di riprendere questa esperienza interrotta bruscamente nella primavera del 2020, quando tutto era già pronto, dall’epidemia mondiale - spiega Luigi Riganti, curatore della rassegna insieme a Cristina Francese e Marco Mariani - Abbiamo deciso di trattare il complesso tema del trattamento penitenziario del detenuto con una scelta di film molto coordinata e ragionata e anche la scelta dei relatori è di altissimo livello”. Milano. Dignità oltre le sbarre con il teatro di Salvatore Striano di Laura Frassine e Odoardo Maggioni ilbullone.org, 12 maggio 2022 “Scommetto che in una città di 67mila abitanti, dove ci sono 100 suicidi all’anno, qualsiasi tipo di istituzione farebbe delle ricerche. Questo è il paese-carcere che viene visto ancora come una discarica sociale”. Incontriamo Salvatore Striano, detto Sasà, all’abbazia di Mirasole. Tira un vento forte, mangiamo qualcosa insieme prima di entrare a Opera per vedere Ariaferma. Salvatore tiene banco raccontandoci le sue vite. Parla di cinema, di teatro, di carcere e di redenzione. Ha iniziato la sua carriera da attore fuori dal carcere, recitando in Gomorra, poi è stato protagonista di Cesare deve morire, dei fratelli Taviani, Orso d’oro al festival di Berlino nel 2012. Recita attivamente da sedici anni in film e produzioni televisive e uno dei suoi ultimi ruoli è stato in Ariaferma, girato in un carcere abbandonato, durante il primo lockdown. “La recitazione è arrivata per caso. Un detenuto ergastolano - che per molti sono i peggiori esseri umani, ma che in carcere talvolta diventano uomini saggi -, riuscì a tirarmi fuori da un momento molto difficile. Lui mi aveva proposto un laboratorio teatrale: lo mandai a fanculo perché non avevo voglia di interpretare una donna. Ma pur di abbandonare quella chiavica di uomo che ero, decisi di prendere la migliore medicina che esista per l’anima: il teatro”. La sua esperienza con il lato terapeutico del teatro è stata una via di fuga fondamentale per la sua rinascita. “Il teatro ti permette di uscire dal tuo io. La prima fase è quella in cui ti senti ridicolo. Poi quando trovi l’altro, il personaggio, ti liberi. Capisci di essere tante vite, tante persone. Se ci penso bene, ho iniziato a recitare di fronte a mia madre quando facevo disastri, poi in questura, poi in carcere”. Le sue parole sono un fiume di ricordi, aneddoti e riflessioni: “Il palcoscenico ti mette su un piedistallo e ti permette di confrontarti con te stesso veramente. Il teatro non ha gerarchie: vince chi è più bravo non chi è più violento, chi è più boss. Quando il mio insegnante di teatro mi disse che ero bravo ma che non potevo fare questo mestiere, mi ferì moltissimo: andai dall’insegnante di italiano del carcere e le dissi che mi doveva insegnare a leggere e a scrivere. Mi servivano per il teatro”. A chi pensa che i suoi ruoli siano relegati a quello di delinquente, risponde che è un modo ottuso di confondere la realtà e la capacità di vivere un personaggio, tanto che ora è contento di interpretare un commissario di polizia. Il suo riscatto, tuttavia, non passa solo dai successi, ma anche dal riconoscimento del suo cambiamento. “La più grande vittoria è quando torno a casa, ai quartieri spagnoli, e i figli dei miei nemici mi dicono che sono un grande uomo, che i loro padri non hanno capito nu’ cazzo”. Gli chiedo come è stato rientrare a Rebibbia dopo dieci anni: “Quando sono tornato a Rebibbia per girare Cesare Deve Morire, ho guardato verso l’alto, verso i miei genitori, e ho detto loro che stavo entrando da uomo libero, che potevo insegnare una strada nuova a chi stava dentro, che non ero più uno scarabocchio”. Ora Salvatore continua a entrare nelle carceri per raccontare la sua storia: “Ogni volta che esco dal carcere sto malissimo, perché so che dentro c’è gente che ha capito e che vorrei portare fuori con me”. E il discorso vira sulla condizione del sistema carcerario italiano, fra aneddoti divertenti e strazianti, fra piccole rivalse e pugni nello stomaco. “Le carceri non sono sovraffollate, sono sovraffollate di criminali. Le carceri sono deserte, ci sarebbe più bisogno di volontari, di assistenti sociali e di meno guardie. Più sorveglianza scatena più violenza. Un carcere positivo ti rende cosciente dei tuoi errori”. La sensazione è che l’aria in mezzo a quel vento cominci a mancare: inizio a sentire dalle sue parole l’oppressione e il distacco. “Quando ero in carcere a Madrid si stava tutti insieme: non eravamo divisi in bracci come qui. In Spagna, una volta al mese puoi stare in intimità con la persona che ami. Qui invece, devi nascondere le lettere che puntualmente ti perquisiscono pensando che ci sia scritto chissà cosa. Nel carcere ci si ammala: quando sono uscito mi sono separato da mia moglie perché non riuscivo più a essere toccato da nessuno, odiavo l’intimità. Anche i sensi sono affaticati, dopo dieci anni che senti gli stessi odori, che vedi gli stessi colori, il tuo cervello non riesce a sostenere tutti gli stimoli che la realtà ti fornisce”. Prendiamo un caffè, fumiamo una sigaretta e poi ci spostiamo al carcere di Opera per guardare il film di Leonardo Di Costanzo insieme ai detenuti. Lasciamo nostri oggetti personali in macchina. Ci ritirano i cellulari. Ci consegnano un pass. Aspettiamo una guardia che ci accompagna al teatro. Entriamo a film già iniziato. La stanza è buia, ma si percepisce comunque il confine: da un lato i detenuti e dall’altro “gli altri”. Di colpo tutto acquisisce, e insieme perde, senso: l’aria è ferma per davvero. Il film continua, ma tutto intorno a noi si ferma. Per un momento perdo la percezione di quello che sto vivendo: siamo seduti nel teatro di un carcere a guardare un film che parla di un carcere. Guardiamo la proiezione e poi ci guardiamo intorno. Guardiamo gli attori che mettono in scena uno sciopero della fame e poi guardiamo i detenuti, seduti affianco a noi. Provo a riconoscere i loro volti, ma non riesco a vederli, provo ad immaginarmi le loro storie, ma non le conosco, siamo nella stessa stanza ma siamo anche così lontani. Uno sguardo umano e pertinente sul carcere di Francesco Giordano Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2022 Il territorio è quello del Carcere - Seconda Casa di Reclusione di Bollate situato alla periferia di Milano, in Via Belgioioso 120 ad un paio di chilometri dall’Ospedale Sacco, al confine della città che poi si allunga verso isolati e desolati paesini. Luoghi cresciuti a vista d’occhio, con abitazioni sorte senza autorizzazioni, senza alcuna programmazione. La Casa di Reclusione di Bollate viene inaugurata nel dicembre del 2000 come Istituto a custodia attenuata per detenuti comuni (secondo il disposto dell’art. 115 del dpr 231\2000). L’idea iniziale della Direzione era, ed in parte è, quella di un luogo fortemente educativo e rieducativo. A mio avviso affermo che in parte lo è ancora, nonostante in questi oltre 10 anni la popolazione detenuta sia aumentata notevolmente e di conseguenza sia impossibile fare un lavoro sulla persona; impossibile anche perché mentre la popolazione detenuta è aumentata notevolmente non è stato così anche per educatori, psicologi e assistenti sociali. Vi è anche una nutrita e forte presenza di volontari, ma che certo non può sopperire ad altre figure professionali necessarie a raggiungere quell’obbiettivo che anche la Costituzione prevede. Questo il luogo dove è stato pensato e scritto il libro “Educazione in carcere. Sguardi sulla complessità” edizioni Franco Angeli, anno 2021, curato e scritto da Roberto Bezzi e Francesca Oggionni, oltre ad altri vari contributi. In oltre 200 pagine ben 15 autori ed autrici disegnano un panorama completo di questa istituzione sempre più presente nella nostra società, nelle nostre città. Suddiviso in 12 capitoli sviluppa ed evidenzia tutti gli aspetti entro cui è immerso il complesso universo carcerario, cercando di portare alla luce molti aspetti che spesso, se non sempre, vengono accomunati facendo perdere ogni loro specificità. Una visione diversa sul carcere come ad esempio non sia composto da uomini e donne, ma da giovani, adulti e anziani, sia maschile, femminile e non solo. Nel libro si parla dei detenuti anche come risorsa educativa e non unicamente come persone da rieducare. Infine un libro che mette in evidenza quanto il carcere sia presente non solo nei luoghi dove è posto, ma dentro le coscienze di ognuno di noi, di tutti. Sarebbe stato utile affrontare anche il ruolo degli agenti di custodia, anche in questo caso uomini e donne, giovani ed anziani, ma forse sarebbero stati necessari altri dodici capitoli. Un libro che mi auguro possano leggere educatori, assistenti sociali, medici psicologi, psichiatri, ma anche cittadini “normali” dal nord al sud, isole comprese. Bambini maltrattati, se in Italia a pagare l’alto costo della pandemia sono loro La Repubblica, 12 maggio 2022 La Fondazione Cesvi illustra “Crescere al Sicuro”, quinta edizione dell’indicatore regionale sui soprusi verso l’infanzia in Italia, quest’anno, arricchita da un focus sulla sicurezza dell’infanzia durante la pandemia. È allarme nel Mezzogiorno mentre l’Emilia-Romagna riconquista il primato di regioni più virtuosa nel fronteggiare il maltrattamento infantile. Tra i giovanissimi c’è il boom di accessi nei pronto soccorso per tentati suicidi, depressione e disturbi del comportamento alimentare. In crescita i reati contro i minori. In aumento anche la violenza domestica sulle donne. Insomma, oltre due anni di pandemia hanno lasciato cicatrici evidenti e in alcuni casi indelebili sul corpo ancora ferito del Paese. A pagare il tributo più alto sono stati i più vulnerabili, a cominciare da bambini e adolescenti. È preoccupante il quadro che emerge dall’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia, curato dalla Fondazione Cesvi, che nell’edizione di quest’anno dedica un focus particolare all’impatto, che la pandemia ha prodotto sulla sicurezza dei più piccoli. Aumentati tutti i fattori di rischio. “La pandemia - spiega Gloria Zavatta, presidente della Fondazione - ha aumentato in modo drammatico tutti i fattori di rischio che sono alla base del maltrattamento all’infanzia, agendo in molti casi da detonatore in situazioni di disagio pregresso: povertà e disoccupazione, deterioramento della salute mentale, isolamento e contrazione delle relazioni sociali”. Presentato oggi, in occasione di un incontro online moderato da Cristina Parodi, ambasciatrice di Cesvi, con la partecipazione della ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, l’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia - curato da Giovanna Badalassi e Federica Gentile - analizza la vulnerabilità dei bambini nelle singole regioni italiane, attraverso l’analisi dei fattori di rischio presenti sul territorio e della capacità delle amministrazioni locali di prevenire e contrastare il fenomeno tramite i servizi offerti. I 64 indicatori dell’analisi. Il risultato è una graduatoria basata su 64 indicatori classificati rispetto a sei diverse capacità che rappresentano la struttura portante dell’Indice: capacità di cura di sé e degli altri, di vivere una vita sana, di vivere una vita sicura, di acquisire conoscenza e sapere, di lavorare e di accesso a risorse e servizi. “Il lavoro di Cesvi - ha commentato la ministra per la Famiglia e le pari opportunità Elena Bonetti - è un contributo importante a quell’azione collettiva che è necessario mettere in campo per prevenire qualsiasi forma di violenza contro i bambini e le bambine, proteggere le vittime di abusi e promuovere percorsi di cura. C’è bisogno infatti di un intervento strutturale affinché i servizi sul territorio siano uniformi a livello nazionale. Allo stesso modo è importante promuovere la conoscenza e il monitoraggio del fenomeno attraverso la raccolta sistematica dei dati”. Il fardello di dolore degli ex bambini maltrattati. Il maltrattamento all’infanzia rimane un problema particolarmente grave e pervasivo in seno alla società che produce conseguenze drammatiche sulla salute dei maltrattati nel breve e nel lungo termine, sul loro equilibrio psico-fisico e, più in generale, su tutta la comunità. Gli ex bambini maltrattati diventano adulti che vivono con un pesante fardello di dolore che spesso scaricano sui propri figli, generando un circuito vizioso di trasmissione intergenerazionale, che solo un intervento esterno può interrompere. La violenza contro i minori è quindi un fenomeno sistemico che non può essere ricondotto esclusivamente a dinamiche relazionali familiari ma che rappresenta un grave problema di salute pubblica, prima, durante e dopo la pandemia e che richiede un approccio globale. L’effetto della pandemia sui minori. Frutto delle interviste condotte con operatori dei servizi sul territorio (sanità, scuola, giustizia), il focus La sicurezza dell’infanzia durante la pandemia Covid restituisce un’immagine allarmante sullo stato di salute, fisica e mentale, di giovani e giovanissimi. Il boom di accessi nei pronto soccorso per disturbi neuropsichiatrici è il segno più tangibile di un malessere diffuso. Basti pensare che solo nel primo anno di pandemia, la Società italiana di pediatria ha registrato un incremento degli ingressi di oltre l’80%. Ideazione suicidaria, depressione e disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia) le cause principali. Un deterioramento dello stato di salute, in particolare tra gli adolescenti, certificato dall’Istat: nel secondo anno di pandemia, l’indice di salute mentale cala decisamente nella fascia 14-19 anni mentre raddoppia il numero degli adolescenti che si dichiarano insoddisfatti. Una tendenza confermata anche dall’aumento dei reati perpetrati su bambini e adolescenti durante la pandemia. Secondo i dati della polizia criminale, i maltrattamenti contro familiari e conviventi minori registrano un più 11% nel 2020. Nel primo anno di lockdown crescono in modo esponenziale anche i reati di pedopornografia e adescamento online (+77%). Violenza domestica e violenza assistita. In aumento anche la violenza sulle donne. I dati raccolti dal numero antiviolenza e stalking 1522 evidenziano un forte incremento delle chiamate durante la prima fase del lockdown. Il luogo dove più frequentemente si consuma la violenza è la casa della vittima. All’aumento delle segnalazioni non è corrisposta tuttavia una crescita delle denunce. Le forze di polizia hanno registrato un forte calo delle denunce per maltrattamenti, stalking e violenza sessuale, conseguenza diretta del confinamento in casa e dunque del maggior controllo esercitato dal partner convivente. La violenza che si consuma nel chiuso delle mura domestiche può tradursi in violenza assistita dai minori. Secondo le stime dell’Istat, circa il 50% dei figli assiste alla violenza, mentre il 10% la subisce. Il quadro nazionale. L’Indice fornisce anche quest’anno l’immagine di un’Italia a due velocità: si conferma l’elevata criticità del Sud Italia che resta al di sotto della media nazionale pur registrando timidi miglioramenti. Le ultime quattro posizioni dell’Indice sono occupate, come nell’edizione precedente, da Campania (20°) Sicilia (19°), Calabria (18°) e Puglia (17°). I piccoli progressi osservati in qualche indicatore o capacità non hanno ancora raggiunto una portata tale da variare la loro situazione complessiva. Le regioni presentano, infatti, importanti criticità complessive di sistema, sottolineando così l’urgenza di piani di intervento strutturali di medio-lungo termine che agiscano contemporaneamente sia sui fattori di rischio che sul complesso del sistema dei servizi. La classifica delle regioni italiane. In questa quinta edizione l’Emilia-Romagna torna a essere la regione con la migliore capacità di fronteggiare il maltrattamento ai minori, in una sintesi finale tra fattori di rischio e servizi (solo nel 2021 ha ceduto il primato al Trentino-Alto Adige). Seguono Trentino-Alto Adige (2°), Veneto (3°), Friuli-Venezia Giulia (4°), Toscana (5°) e Liguria (6°), che si confermano tra le prime posizioni. Quest’anno sono otto le regioni “a elevata criticità”. Ovvero quei territori nei quali, a fronte di elevate problematiche ambientali, rappresentate da fattori di rischio elevati, non corrisponde una reazione del sistema dei servizi: Campania, Sicilia, Calabria, Puglia, Molise, Basilicata, Abruzzo e Marche. Tra le regioni “virtuose” - con bassi fattori di rischio e un buon livello di servizi sul territorio - troviamo otto delle nove regioni già presenti nell’edizione 2021 dell’Indice: Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Toscana, Valle d’Aosta, Umbria. Il Piemonte, inserito lo scorso anno tra le regioni “virtuose”, quest’anno entra, insieme alla Sardegna, nel cluster delle regioni “reattive”, ovvero che rispondono alle elevate criticità nei fattori di rischio con servizi al di sopra della media nazionale. Tra le regioni “stabili”si trovano il Lazio e, come ogni anno, la Lombardia. Urgente un intervento strutturale. È evidente come la pandemia abbia messo sotto pressione servizi sul territorio già carenti, rendendo non più procrastinabile un piano di interventi strutturale. Intervenire proattivamente per rinforzare la resilienza di persone e famiglie, curare e formare i curanti è quindi sempre più urgente, così come investire in un capitale sociale sempre più solidale e includente. In quest’ottica si potranno modificare in modo strutturale i comportamenti umani e promuovere politiche specifiche e mirate a cogliere le ricadute indirette sul maltrattamento all’infanzia. “Azioni sistemiche e di medio-lungo periodo”. “Ribadiamo la necessità di azioni sistemiche e di medio-lungo periodo per le politiche di prevenzione e contrasto al maltrattamento - aggiunge Zavatta - è fondamentale agire tanto sui fattori di rischio quanto sul complesso del sistema dei servizi per adeguarli e potenziarli. Ci appelliamo all’istituzione affinché investano subito risorse su sanità, scuola e giustizia. In particolare, sottolineiamo la necessità di disporre di dati più puntuali sull’entità del maltrattamento all’infanzia in Italia e di ridurre il divario sociale ed economico delle regioni del Mezzogiorno tramite l’attuazione pratica dei LIVEAS (Livelli Essenziali di Assistenza Socioassistenziale). Se non interveniamo oggi, il costo sociosanitario per le prossime generazioni sarà insostenibile”, Le case del sorriso di CESVI. Per fare fronte a questa emergenza CESVI nel corso degli anni ha aumentato il proprio impegno a favore dei minori in difficoltà nel nostro Paese, portando l’esperienza consolidata nel resto del mondo anche qui, dove i bisogni e le condizioni di povertà rappresentano sempre più una problematica endemica che necessita di essere affrontata in maniera integrata e di lungo periodo. In modo particolare, attraverso il programma Case del Sorriso attivo in diverse città d’Italia, si occupa di lotta e contrasto al maltrattamento e alla trascuratezza, protezione, contrasto alla dispersione scolastica e, mediante azioni di recovery, incentiva i ragazzi al raggiungimento delle proprie ambizioni. Il programma Case del Sorriso trasforma l’orrore del maltrattamento in amore e cure per i bambini in condizione di vulnerabilità. La corsa per produrre cannabis terapeutica, sono già 12 i privati che si sono fatti avanti di Michele Bocci La Repubblica, 12 maggio 2022 A fine giugno scadono i termini della “manifestazione di interesse” per le aziende che vogliono coltivare la marijuana medica e affiancare lo stabilimento Farmaceutico militare di Firenze. Mancano ancora quasi due mesi alla scadenza del bando ma molti privati si sono già fatti avanti per produrre cannabis terapeutica. Sono una dozzina le società che hanno fatto domanda e il loro numero è testimone di un interesse che potrebbe servire finalmente a superare gli annosi problemi di disponibilità della marijuana per i pazienti ai quali viene prescritta. La difficoltà a reperire il farmaco è stata drammaticamente testimoniata da Walter De Benedetto, il malato di artrite reumatoide aretino morto due giorni fa che è diventato un paladino dell’auto produzione della cannabis proprio in risposta alle carenze di forniture ai pazienti. Il Farmaceutico militare e le importazioni - Fino ad ora in Italia l’unica struttura autorizzata a produrre canapa per scopi terapeutici è l’Istituto Farmaceutico militare di Firenze. Dopo una fase sperimentale, nel 2016 ha iniziato a fare le prime spedizioni. Il problema è che quella struttura non è mai riuscita a rispondere alla domanda, che nel frattempo è aumentata tantissimo, spinta dalla prescrizione dei medici. E così è stato necessario continuare ad importare la sostanza dall’estero, in particolare dall’Olanda, spendendo di più ed esponendosi a interruzioni delle forniture legati ai problemi di produzione in quel Paese. Consumi quadruplicati - In quattro anni, del resto, i consumi italiani sono quadruplicati. Nel 2021 sono infatti stati usati 1.271 chili (5,5 milioni di dosi da 0,25 grammi) contro i 351 del 2017. Tra l’altro, hanno denunciato le associazioni dei malati, comunque i quantitativi dell’anno scorso sono stati inferiori alla domanda e in certe aree d’Italia qualcuno non è riuscito ad ottenere tutta la sostanza di cui aveva bisogno. Il farmaceutico militare l’anno scorso è arrivato a produrre solo una piccola parte di quanto consumato, cioè 150 chili, e il progetto per quest’anno è di raddoppiare le quantità, grazie alla costruzione di nuove serre. Evidentemente si tratta di quantità che non permettono l’Italia di diventare autonoma. Per questo si è deciso di coinvolgere i privati, cambiamento per il quale ha lavorato il ministro alla Salute Roberto Speranza, che sul tema ha chiuso un accordo con il ministero della Difesa. Il bando per i privati - È stata aperta così una “manifestazione di interesse a partecipare alla selezione qualitativa di operatori economici” con scadenza il 27 giugno 2022. Ci sono varie aziende, anche multinazionali, che possono essere interessate ad entrare nel campo della produzione della cannabis terapeutica, un mercato destinato a crescere, come dicono i dati sulla domanda. E infatti già in 12 si sono fatti avanti. Il bando prevede che le piante vengano inviate all’istituto militare fiorentino, che si occupa della trasformazione farmaceutica e della distribuzione nelle Regioni, come già avviene adesso per la sostanza che produce. Se poi dovesse addirittura esserci un eccesso di produzione, si spiega nell’accordo, la cannabis potrà essere esportata. “Un passo verso l’autosufficienza” - “L’interesse dei privati è un dato molto positivo - dice il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa - E’ stata una nostra scommessa quella di aprire ai privati. Facciamo un altro passo di avvicinamento all’autosufficienza, tra l’altro risparmiando sulle spese di importazione”. Costa spiega che tra chi si presenterà entro fine giugno verranno poi scelti coloro che hanno i requisiti, indicati nel bando, e si farà la gara per individuare i fornitori dello Stato. Dittature e rumori di fondo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 12 maggio 2022 Da tempo Putin parla dello “spazio russo”. Ma in un triste paradosso, proprio mentre è in corso l’operazione per “denazificare” l’Ucraina, si possono cogliere assonanze con lo spazio vitale rivendicato dai nazisti. Tutti noi che desideriamo la pace abbiamo ricavato conforto dai toni di Putin alla parata di Mosca, meno apocalittici del temuto: il presidente russo ha “solo” accusato l’Occidente di voler aggredire il suo Paese, senza dichiarare la preannunciata guerra totale. Certo, il sospiro di sollievo collettivo non può impedirci di udire un rumore di fondo che si protrae da tempo nella narrazione putiniana. Quel suono è un ritornello che accompagna molto le dittature: e racconta la loro idea di spazio. Spazio culturale o fisico, geopolitico o militare, spesso ai tiranni lo spazio manca. Ed è un triste paradosso della storia, visto il proclamato obiettivo di “denazificare” l’Ucraina, che si possano cogliere talune assonanze tra l’idea del Russkij Mir, lo “spazio russo” (nell’uso che ne fa l’autocrate moscovita) e il Lebensraum, lo spazio vitale rivendicato dai nazisti. Forse l’ostacolo a monte di un percorso che riconduca Putin a un tavolo dove l’Ucraina possa mantenere davvero la sua dimensione statuale integra e indipendente (obiettivo ribadito dal più attivo negoziatore di questa fase, Macron, dopo una preziosa telefonata con Xi Jinping) sta proprio qui: nella rivendicazione di “spazio” per il “vero popolo” avanzata dai movimenti conservatori e nostalgici come quello putiniano, attraverso la storia (anche il nostro fascismo lo fece). Putin evoca in pubblico per la prima volta il Russkij Mir il 27 aprile 2014 (giusto due mesi dopo l’invasione della Crimea). Sostenuto dal patriarca Kyrill, il concetto è molto elastico e compare già nell’XI secolo: attiene alle radici e alla lingua, all’etnia e al sentimento. In base ad esso, la Russia putiniana ritiene che le proprie dimensioni siano assai più vaste degli attuali confini della Federazione (Lucio Caracciolo sostiene che per Putin la Federazione Russa sia un “provisorium” in attesa di riconnettersi alla sua millenaria missione imperiale). Secondo un’indagine pubblicata nel 2014 dal sito della putiniana Fondazione Russkij Mir, il mondo russo si estende almeno a Kazakistan, Bielorussia, Ucraina orientale, Transnistria in Moldova, Ossezia del Sud e Abcasia in Georgia. Secondo Kyrill, che lo lega alla fede russo ortodossa, il nucleo del Russkij Mir comprende Russia, Ucraina e Bielorussia. Anche il Lebensraum ha origini più antiche del nazismo, compare in biogeografia alla fine dell’Ottocento, poi viene veicolato a Hitler (durante la sua prigionia a Landsberg) dal generale Haushofer e da Rudolf Hess. Così lo ritroviamo nel Mein Kampf: “... avanzare lungo la strada che porterà il nostro popolo dall’attuale ristretto spazio vitale verso il possesso di nuove terre e orizzonti, e così lo porterà a liberarsi dal pericolo di scomparire dal mondo o di servire gli altri come una nazione schiava”. Hitler rivendicava la colonizzazione verso Est, realizzata dai popoli germanici nel Medioevo, quale prima molla alla spinta vitale di cui sopra. Nel suo famoso discorso per l’invasione di febbraio, Putin sottolinea che l’Ucraina è una “porzione inalienabile” della storia, della cultura e dello spazio “spirituale” dei russi, con un richiamo esplicito a “prima del XVII secolo, quando una parte di questo territorio si è riunita allo Stato russo”. Colin Crouch, il sociologo che ha teorizzato la “postdemocrazia”, spiega bene la politicizzazione del “pessimismo nostalgico” realizzata da movimenti conservatori che riempiono il vuoto di senso generato dal “progresso” con la creazione di una visione dell’età dell’oro passata, di un mondo che rischia di venire invaso... Da chi? Dalle istituzioni internazionali, che pretendono cessioni di sovranità, dalle nuove forze economiche che distruggono le “buone vecchie” industrie e, naturalmente, dalle donne, che erodono spazi di potere e di identità virile, mettendo in discussione gli equilibri della famiglia. La colpa di tutto ciò è ovviamente attribuita alle élite liberali accusate di promuovere queste “novità” e di imporle al popolo, sano e conservatore. È l’identikit preciso del putinismo nella sua declinazione premoderna. Nulla, se non le difficoltà incontrate a causa dell’imprevista resistenza degli ucraini, può far credere a un ripensamento: ma questa resistenza c’è stata ed è determinante. Nel brodo di coltura valoriale di ogni vero movimento “retrotopista” (direbbe Bauman), i diritti individuali svaniscono, ciò che contrasta l’ortodossia sessuale deve scomparire. Hitler in fondo si ribellava alle “degenerazioni” di Weimar. Putin alla società libertina occidentale, “di gay e drogati”. Persino i discorsi d’avvio delle invasioni, quella di Hitler contro la Polonia e quella di Putin contro l’Ucraina, presentano analogie inquietanti finanche nella scelta delle parole, delle rivendicazioni, delle minacce. Ma Putin ovviamente non è Hitler, è assai lontano dalla demoniaca dimensione teoretica attinta dal Führer. Variabili come Nato e Ue stanno qui a prometterci che la storia non può ripetersi. E, soprattutto, a rinfocolare le speranze degli occidentali (segnatamente di noi europei, che viviamo il conflitto nel cortile di casa e il ricasco delle sanzioni sulla nostra pelle) conta il principio di realtà che ci auguriamo possa prevalere sui foschi echi ideologici. Tale principio si è visto in azione nella Piazza Rossa, quando l’autocrate di Mosca ha ridotto la propria narrazione alla rivendicazione del Donbass, ha omesso di citare l’Ucraina (forse, anche, perché per lui non esiste affatto) ed è parso quasi giustificarsi, sostenendo la grottesca teoria dell’aggressione... preventiva (“la Nato stava per attaccarci!”). Non c’è da fidarsi troppo, lo sappiamo. Vladislav Surkov, vero Rasputin di Putin prima di cadere in disgrazia, ha chiesto spazio per il suo capo, spiegando come sia “impensabile che la Russia rimanga entro i confini di un mondo osceno” (cioè, il nostro mondo democratico). Ma più che confidare nel dittatore, noi confidiamo nel suo popolo (dubitando del consenso nei sondaggi): quel popolo di padri e madri che ha già perso migliaia di ragazzi nella folle avventura in Ucraina e per rassicurare il quale il leader del Cremlino potrebbe aver cambiato postura. Non c’è da fidarsi, ma da sperare: che Putin non sia quella “tigre con cui non si può ragionare avendo la testa nelle sue fauci”, come Winston Churchill ebbe a dire tanti anni fa del più feroce tiranno dell’epoca moderna, negandosi a una pace inginocchiata. El Salvador. Condannata a 30 anni di carcere per un aborto spontaneo La Repubblica, 12 maggio 2022 L’incredibile vicenda è successa nel Paese centroamericano, che ha una delle leggi più restrittive al mondo in tema di interruzione di gravidanza. Aveva avuto un aborto spontaneo nel 2019, lunedì è stata condannata a 30 anni di carcere. È successo in El Salvador, uno dei Paesi con la legislazione più restrittiva al mondo sull’interruzione di gravidanza poiché prevede pene anche in caso nel caso in cui avvenga per cause naturali. Esme - il nome con cui è stata identificata la donna - aveva avuto un aborto spontaneo nel mezzo di un’emergenza ostetrica. Dopo l’accaduto, era stata tenuta in custodia cautelare per due anni. Rilasciata a ottobre 2021, lunedì è arrivata la sentenza. “La sentenza è un duro colpo sulla strada per superare la criminalizzazione delle emergenze ostetriche che, come ha già sottolineato la Corte interamericana dei diritti umani, devono essere trattate come problemi di salute pubblica”, ha affermato Morena Herrera, presidente dell’organizzazione Gruppo Cittadino per la Depenalizzazione dell’aborto. La lotta contro l’aborto in El Salvador ha subito una grande sconfitta l’anno scorso quando l’Assemble Legislativa, controllata dal nuovo governo di Nayib Bukele, ha respinto una proposta di riforma del codice penale per depenalizzare l’aborto presentata dalle associazioni femministe nel 2016. La battaglia legale continua - Da parte sua l’avvocato di Esme, Karla Vaquerano, ha dichiarato che “il giudice ha agito con parzialità, accogliendo la versione della Procura generale, che era carica di imprecisioni e stereotipi di genere, per cui “presenteremo senz’altro un appello”. In una sua dichiarazione, Esme ha assicurato che continuerà a combattere “per mia figlia e per la mia famiglia”, ringraziando chi ha sostenuto la “mia battaglia contro l’ingiustizia” Le statistiche indicano che ad oggi in El Salvador 64 donne sono state rilasciate dopo essere state mandate in carcere per aver affrontato emergenze sanitarie durante la gravidanza, Questo grazie alla lotta di una ong che anni fa ha lanciato una campagna denominata ‘Libertà per le 17’ donne che ancora sono in carcere dopo “sentenze inique” passate in giudicato. Cos’è successo a Esme? Secondo la ricostruzione fatta dai suoi avvocati la giovane si trovava da sola in casa, in una zona rurale, quando ha avuto un aborto spontaneo nel 2019. Il neonato è morto durante il parto e lei è stata trasportata al pronto soccorso con un’emorragia. Immediatamente denunciata alla polizia, è stata arrestata e di conseguenza separata dalla figlia che allora aveva 7 anni.