Ergastolo, il diritto può attendere: ancora 6 mesi al Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2022 Accolta la richiesta di Avvocatura dello Stato e Senato: tempo fino all’ 8 novembre per approvare la nuova legge sui detenuti “ostativi”. Il testo approvato alla Camera elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. “In considerazione dello stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge appare necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori”. Così la Corte Costituzionale ha deciso di accogliere l’istanza dell’avvocatura dello Stato e rigettare quella discussa dalle avvocate Francesca e Giovanna Araniti, legali dell’ergastolano ostativo Francesco Pezzino, il caso di cui la Cassazione ha sollevato l’illegittimità costituzionale e recepita dalla Consulta con la scadenza fissata al 10 maggio. La Corte avrebbe dovuto dichiarare incostituzionale la preclusione assoluta della liberazione condizionale per chi non collabora con la giustizia. Ma ha deciso di dare altro tempo al Parlamento - rinvio all’8 novembre prossimo - per legiferare secondo l’orientamento dato dalla Consulta stessa. Si legge nell’ordinanza, che la Corte costituzionale, nell’esaminare l’istanza di rinvio delle questioni di legittimità costituzionale sull’ergastolo ostativo, presentata dalla presidenza del Consiglio per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, nonché la richiesta di rigetto della parte privata costituita, entrambe discusse oggi in udienza pubblica, ha disposto il rinvio della trattazione all’udienza pubblica dell’8 novembre 2022. La decisione è stata presa - spiega l’ordinanza letta in udienza dal presidente dopo la camera di consiglio - considerato che la Camera ha approvato una proposta di legge ora all’esame del Senato e che, nella seduta del 4 maggio 2022, il presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama ha auspicato un nuovo rinvio dell’odierna udienza “per consentire la prosecuzione e la conclusione dei lavori di Commissione”. Si afferma nell’ordinanza di rinvio che “permangono inalterate - le ragioni che hanno indotto questa Corte a sollecitare l’intervento del legislatore, al quale compete, in prima battuta, una complessiva e ponderata disciplina della materia, alla luce dei rilievi svolti nell’ordinanza n. 97 del 2021”. Prosegue l’ordinanza che “proprio in considerazione dello stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge, appare necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori”. Tuttavia, “anche alla luce delle osservazioni della parte costituita, tale ulteriore rinvio deve essere concesso in tempi contenuti”, conclude l’ordinanza, fissando all’8 novembre la data di trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, prima sezione penale. Quindi la Consulta ha concesso altro tempo al Parlamento per varare una riforma che rischia di aprire nuovi ricorsi di illegittimità costituzionale. Ricordiamo che la Corte costituzionale aveva rilevato incompatibile con la nostra carta, quella parte dell’articolo 4 bis che pone un divieto assoluto alla liberazione condizionale a chi non collabora con la giustizia. La riforma che il Parlamento si appresta a varare eleva vertiginosamente gli attuali limiti di pena per accedere al beneficio penitenziario nel caso di condanne per delitti “ostativi”: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Non solo. La riforma, già passata alla Camera, elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Quest’ultimo punto rende di fatto nuovamente incostituzionale la legge. In sostanza, finora c’è la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi, di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo, va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità. Per fare un esempio, oggi Carmelo Musumeci, ex ergastolano ostativo completamente riabilitato, rimarrebbe ancora dentro. Ergastolo ostativo, altri sei mesi per riscrivere la legge di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 maggio 2022 La Corte Costituzionale ha rinviato la decisione all’8 novembre: 1.200 i detenuti sottoposti ad ergastolo ostativo. Il tempo è scaduto, ma la Corte costituzionale ne concede ancora. Non è bastato un anno per varare una riforma dell’ergastolo ostativo che renda la limitazione dei benifici penitenziari per i detenuti di mafia (e non solo) compatibili con la Costituzione. Un mese fa la Camera ha approvato un disegno di legge che dovrebbe correggere le storture già segnalate dalla Consulta, ma al Senato il lavoro è appena cominciato. Così i “giudici delle leggi” avevano davanti due strade: abrogare la norma vigente, eliminando il requisito del “pentimento” per poter chiedere la liberazione condizionale e altri benefici, oppure un ulteriore rinvio della decisione, in attesa che la riforma in discussione diventi legge, sollecitato dall’Avvocatura dello Stato. Hanno scelto la seconda via. “Permangono inalterate - recita l’ordinanza letta ieri dal presidente Giuliano Amato - le ragioni che hanno indotto questa Corte a sollecitare l’intervento del legislatore al quale compete, in prima battuta, una complessiva e ponderata disciplina della materia” sulla base dei rilievi di incostituzionalità indicati nel 2021. E con il cammino della riforma giunto a metà strada, “appare necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori”. Tuttavia ci sono i detenuti che aspettano. In particolare S.P., che è ricorso in Cassazione contro il diniego di liberazione condizionale ottenendo l’intervento della Consulta. “Dopo un primo generoso rinvio la nuova legge non c’è, e nessuno può prevedere che arriverà a breve - ha spiegato alla Corte la sua avvocata Giovanna Beatrice Araniti. Se una norma è incostituzionale dev’essere dichiarata tale, a prescindere da ciò che sta facendo il legislatore”. Una richiesta che i giudici non hanno accolto, fissando però l’ulteriore rinvio “in tempi contenuti”: sei mesi, prossima udienza l’8 novembre. “E così per il momento si conclude il nostro lavoro. Per il momento...”, ha sottolineato Amato terminata la lettura dell’ordinanza in udienza pubblica. Il nodo dell’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo così come concepito dopo le stragi mafiose di trent’anni fa, ruota intorno alla “assoluta pericolosità presunta” di un condannato per appartenenza alle cosche che non collabora con i magistrati. Il mancato “pentimento”, ha già stabilito la Corte, non può essere un automatismo che preclude i benefici penitenziari, giacché impone “conseguenze afflittive ulteriori e impedisce il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena”. Ma l’abolizione della norma senza riforma, stabilì la Corte un anno fa, al momento del primo rinvio, “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità”, nel quale i pentiti giocano un ruolo centrale. Il Parlamento ha imboccato una strada che per alcuni è un “liberi tutti”, e per altri è a sua volta incostituzionale poiché ripropone i limiti censurati dalla Consulta. Che con la decisione di attendere ancora ha suscitato le proteste dell’associazione radicale Nessuno tocchi Caino: “La Corte ha manifestato la massima considerazione degli interessi dei partiti rappresentati in Parlamento e il minimo rispetto per la vita e la dignità di 1.200 ergastolani che continuano a essere vittime dell’illegalità del regime ostativo”. Paziente con i partiti, impietosa con i reclusi: i due volti della Consulta di Valentina Stella Il Dubbio, 11 maggio 2022 Ostellari, presidente della commissione Giustizia: “Ora possiamo lavorare”. Solo Nessuno tocchi Caino ricorda: “Mortificato il diritto alla speranza dei detenuti”. Un nuovo rinvio da parte della Consulta, dunque. Il definitivo addio al regime “ostativo assoluto” per gli ergastolani non collaboranti può attendere. Ed è forse un primato: è difficile rinvenire altri casi in cui sia rimasta in vigore per un tempo così lungo una norma di cui il giudice delle leggi abbia accertato l’incostituzionalità. Un’eccezione pagata a caro prezzo da alcune centinaia di reclusi che non sanno ancora se, quando e in base a quali norme potranno eventualmente proporre istanza di accesso alla liberazione condizionale. Certo, le parole con cui il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato ha annunciato ieri mattina il differimento della decisione sono un esempio di collaborazione istituzionale: con “tatto” fin troppo generoso, non segnalano che in 12 mesi non si è riusciti ad approvare una legge pure ritenuta urgente ma che, per esempio, il relatore Pepe in commissione Giustizia a Palazzo Madama ha “esposto i contenuti” del testo approvato a Montecitorio “consentendo l’avvio della discussione generale”. Nell’indicare gli ulteriori 6 mesi messi a disposizione del Parlamento, Amato spiega che si tratta di un rinvio “concesso entro tempi contenuti”, anche considerati gli argomenti della “parte costituita”, cioè dell’avvocata Giovanna Araniti, che difende il recluso dalla cui istanza era nata la questione portata dalla Cassazione al vaglio della Consulta. Ma forse vale la pena di ricordare quanto proprio Araniti ci aveva dichiarato nei giorni scorsi nell’esporre le ragioni per cui aveva ritenuto di opporsi alla richiesta di rinvio proposta dall’Avvocatura dello Stato: “Bisogna consentire che tutte quelle istanze che sono rimaste congelate, in attesa di avere una normativa o una pronuncia di incostituzionalità, vengano finalmente vagliate dalla magistratura di sorveglianza, anche perché gli ergastolani ostativi che hanno già maturato un termine di carcerazione più che trentennale sono tanti. Si tratta di persone anziane”, aveva ricordato l’avvocata, “con problemi di salute, che hanno diritto quanto prima a ricevere una valutazione delle loro richieste dopo un periodo così lungo di detenzione”. E invece tale diritto, essenziale perché connesso all’aspettativa di vita, passa in secondo piano. Tra chi si dichiara soddisfatto c’è il presidente della commissione Giustizia, il senatore leghista Andrea Ostellari: “Ringrazio la Consulta per lo spirito di collaborazione istituzionale che ha dimostrato accogliendo la richiesta, votata all’unanimità dai componenti della commissione Giustizia del Senato a sostegno dell’istanza formulata dall’Avvocatura di Stato, volta a rinviare la propria pronuncia sull’ergastolo ostativo. In questo modo il Senato della Repubblica potrà lavorare sul testo, con la dovuta attenzione e senza perdite di tempo”. Al contrario è amareggiata l’avvocata Araniti, difensore di S. P., il detenuto non collaborante, sulla cui richiesta di accesso alla libertà condizionale, come detto, è stato appunto sollevato dalla Suprema corte il dubbio dinanzi alla Consulta. La penalista ieri si era battuta in udienza affinché il collegio presieduto da Amato prendesse una decisione e dichiarasse l’incostituzionalità: “Prendo atto della decisione della Corte, augurandomi che questo ulteriore tempo supplementare accordato al Parlamento sia produttivo e porti a un testo illuminato dal faro che è la nostra Costituzione, mettendo al centro il principio di rieducazione, superando talune tesi, figlie di oscurantismo medievale, sul piano sociale e giuridico, rammentando che il testo sarà valutato ex post quanto al rispetto dei valori costituzionali e dei principi anticipati nell’ordinanza n. 97/ 2021”. La Corte costituzionale ha concesso dunque altri sei mesi al Parlamento - cinque se consideriamo che ad agosto i lavori sono sospesi - per elaborare una norma. Si tratta, incredibilmente, della metà di quel “congruo tempo” che aveva già concesso lo scorso anno per affrontare la materia. I giudici di Piazza del Quirinale sull’altare “dello spirito della leale collaborazione istituzionale” con il legislatore hanno sacrificato quel diritto alla speranza che migliaia di detenuti ostativi avrebbero voluto esercitare dopo quasi tre decenni di carcerazione. E invece dovranno rimanere ancora nel limbo, scontando una pena paradossalmente ritenuta, ma non dichiarata, illegale, incostituzionale. E perché? A monte per dare ancora tempo a un Parlamento che si è dimostrato palesemente inetto, che non meritava affatto l’extratime, se solo pensiamo che il testo approvato alla Camera è arrivato in Senato il primo aprile, un anno esatto dopo la decisione della Corte. A valle perché è lecito chiedersi se i giudici non possano aver sentito la pressione venuta non solo da Palazzo Madama ma da tutte quelle voci dell’antimafia che hanno ipotizzato scenari catastrofici con pericolosi boss in libertà qualora la Corte avesse dichiarato l’incostituzionalità senza una legge d’appoggio. Ma poi siamo sicuri che l’8 novembre la partita si chiuda? Nelle seconde memorie depositate dall’Avvocatura dello Stato leggiamo che l’attuale fase dell’iter parlamentare “fa ritenere prossima l’emanazione della legge”. Ma come si può sostenere una tesi del genere? Questa norma è stata, e lo è ancora, terreno di scontro tra le forze politiche, ognuna delle quali vuole rivendicare un pezzo di risultato. Chi ci dice che il testo che quasi sicuramente verrà modificato al Senato venga accolto senza ulteriori limature nel suo ritorno alla Camera? E chi ci assicura che se l’8 novembre non ci sarà ancora una nuova legge la Consulta, per i motivi di cui sopra, non conceda altro tempo, dopo questo precedente? Tra l’altro fra i giuristi aleggia una ulteriore domanda: l’eventuale legge approvata in Parlamento sarà vagliata dalla Corte, per valutarne la conformità a Costituzione e alle motivazioni adottate nell’ordinanza 97, oppure si potrebbe avere una restituzione degli atti al giudice a quo, per rivalutare la non manifesta infondatezza? Il giudice a quo potrebbe a quel punto addirittura rinviare gli atti alla Corte costituzionale e quel diritto alla speranza verrebbe del tutto mortificato. Tra i non molti che sono disposti a condividere una chiave di lettura critica vanno segnalati i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti, rispettivamente presidente, segretario e tesoriere: “Si proroga per altri 6 mesi la violazione di articoli della Costituzione italiana e della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo che la Consulta stessa aveva rilevato con l’ordinanza di un anno fa. La Corte ha oggi manifestato la massima considerazione degli interessi dei partiti rappresentati in Parlamento e il minimo rispetto per la vita e la dignità di 1200 ergastolani che continuano a essere vittime dell’illegalità del regime ostativo”. Bernardini, D’Elia e Zamparutti ricordano che “solo in questa ultima settimana, nel giro delle carceri in Sardegna autorizzato dal nuovo capo del Dap Carlo Renoldi e fatto insieme alle Camere penali, hanno incontrato decine e decine di ergastolani ostativi. I detenuti nutrivano fiducia nella Consulta”, aggiungono, “una fiducia che è stata tradita. Continueremo a essere speranza contro ogni speranza affinché a distanza di trent’anni dalla introduzione dei regimi ostativi”, è la conclusione, “il nostro Paese abbandoni la terribilità della pena e abbracci lo Stato diritto, i diritti umani, di cui è parte fondamentale il diritto alla speranza”. “Sull’ostativo scelta inaccettabile, la Corte ha il dovere di cancellare le norme incostituzionali” di Errico Novi Il Dubbio, 11 maggio 2022 “La preclusione della liberazione condizionale è disumana: come può la Consulta accertarlo ma non dichiararlo subito”. Parla l’avvocato Tullio Padovani. “Inaccettabile, assolutamente. Una decisione che contrasta, a mio giudizio, con i compiti propri della Corte costituzionale, e che sembra purtroppo ispirarsi a un costume nazionale poco commendevole: la politica del rinvio. Non trovo condivisibile la scelta compiuta dalla Consulta che, anziché dichiarare l’ergastolo ostativo incostituzionale, concede al Parlamento altri 6 mesi per legiferare”. Tullio Padovani, tra i maestri dell’avvocatura penale italiana, professore emerito della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è tra i rarissimi giuristi ammessi nell’Accademia dei Lincei. “La Corte si è infilata in un vicolo cieco con le proprie mani”, dice, “cosa succede se dalle Camere, a novembre, arrivasse una legge meritevole ancora di essere censurata perché incostituzionale?”. Ma era prevedibile questo rinvio, professore? Se lo aspettava? Francamente sì, c’era da aspettarselo per come le cose si erano messe già un anno fa, quando la Corte aveva accertato che le norme sull’ergastolo ostativo sono illegittime eppure non lo aveva formalmente dichiarato. La strada seguita sembra rivelarsi di fatto impercorribile, conduce in un labirinto. Ma le esigenze di sicurezza vengono davvero prima del diritto alla libertà di persone detenute da decenni e in alcuni casi molto anziane? Senta, non mi sembra il caso di spingerci a una valutazione del genere. No, la vedo in modo più semplice: quando la Corte costituzionale riconosce che una norma è illegittima, lo dichiara. Già un anno fa, quando ha esaminato il caso, avrebbe potuto ricorrere a una soluzione adottata spessissimo: preannunciare la decisione con un comunicato, e con un certo anticipo rispetto al formale deposito della sentenza, in modo che il governo, se necessario, potesse intervenire con un decreto legge. Ecco. La soluzione c’era. Rapida, efficace e coerente. E invece il sistema del rinvio della pronuncia in attesa che il Parlamento legiferi non pare offrire buoni risultati. Si riferisce anche al caso Cappato? Quel caso ha dimostrato come la Corte avesse a disposizione anche la strada della sentenza manipolativa. Forse avrebbe potuto farvi ricorso anche nel dichiarare incostituzionale la preclusione assoluta alla liberazione degli ergastolani non collaboranti. Se invece non si fosse trovato il modo, avrebbe comunque dovuto dichiarare già l’anno scorso, immediatamente, l’illegittimità di quella norma. Non compete alla Corte preoccuparsi che venga prima definita la cornice di norme entro cui collocare il diritto creato da una sentenza: a quello ci pensi il legislatore. Che, di fronte a una sentenza immediatamente efficace, c’è da star sicuri si sarebbe rivelato velocissimo. Si è scelta invece la strada peggiore. Si è assecondato il vizio italico del rinvio a un passo dalla scadenza. Non si decide, ci si dà altro tempo, e altro tempo ancora. Pare che Andreotti teorizzasse il carattere provvidenziale di questo metodo. Ha vinto ancora una volta lo stato d’eccezione che, in materia di lotta alla mafia, sopprime il diritto? Ormai il nostro ordinamento soggiace dinanzi alla maestà del monumento eretto allo stato d’eccezione dell’antimafia. È così: l’eccezione diventa regola, e anzi viene travasata nel diritto comune, estesa a materie diverse dall’antimafia. Di fatto, un moloch che nella nostra Repubblica ha assunto il ruolo che la Resistenza ha avuto rispetto alla Costituzione. Proprio dai teorici dell’antimafia è arrivato l’altolà: consentire la liberazione degli ergastolani di mafia è pericolosissimo, hanno intimato. Se una norma grida vendetta, se offende il principio per cui una pena non può essere inumana, va dichiarata subito incostituzionale. Nella sentenza si possono offrire suggerimenti, ma è il legislatore che decide. E nel frattempo, a decidere sono i giudici di sorveglianza. O non ci fidiamo neppure di loro? In effetti c’è chi, come Nino Di Matteo, avrebbe voluto assegnare la competenza sugli “ostativi” al solo Tribunale di sorveglianza di Roma. Premesso che questo equivale a dire “non abbiamo un apparato giudiziario all’altezza”, se davvero lo si pensa, si accentra tutto a Roma. Un decreto successivo all’annuncio della sentenza avrebbe potuto introdurre in un attimo l’auspicato accentramento. Si è preferito congelare il diritto alla speranza... Quella norma che lo subordina alla collaborazione è contro ogni logica, contro ogni principio. Tanto varrebbe lasciare come opzione la morte: imporre di attenderla in carcere per decenni è, appunto, inumano. E lo dice chi, come il sottoscritto, non è sfavorevole in assoluto alla pena dell’ergastolo. Considera l’ergastolo accettabile? È il condannato a dover dimostrare, nel percorso rieducativo, di avervi aderito in modo effettivo, di aver tenuto una condotta e aver mostrato segni coerenti con le esigenze del reinserimento. Il detenuto deve essere arbitro del proprio destino, lo Stato dovrebbe solo verificare in che modo si è utilizzata questa opportunità. Ma possono esserci, è inutile negarlo, persone irredimibili. Sono un radicale convinto da decenni, e forse questa è la sola riflessione che mi distingue dagli altri radicali. Nella nuova legge è prevista l’inversione dell’onere della prova: è accettabile? È inaccettabile innanzitutto che si elimini di fatto l’istituto della collaborazione inesigibile, che la disciplina diventi persino peggiore di quella preesistente. E poi, pretendere che il detenuto dimostri l’assenza di rapporti con l’organizzazione criminale originaria, cioè pretendere che si dimostri qualcosa che non esiste, è un trucco per rendere impossibile la concessione del beneficio. È esattamente la stessa logica delle misure di prevenzione: devi dimostrare che il patrimonio è stato accumulato da tuo nonno decenni prima in modo lecito, ma non hai più gli elementi per ricostruirlo e così hai perso per sempre i beni. Un abominio. Gli ergastolani di mafia sono spesso detenuti in regime di 41 bis: come possono offrire da lì elementi sul mondo di fuori? Se si suppone possano farlo, si ammette implicitamente che il 41 bis è un fallimento: dovrebbe impedire i rapporti con l’esterno, eppure le nuove norme sull’ergastolo ostativo danno per implicito che un recluso possa mantenere rapporti con il mondo criminale anche se è al 41 bis. Di fatto, lo Stato ammette che una misura prevista nel proprio ordinamento è inefficiente: ma che razza di ordinamento è questo? Alla Corte va concessa l’attenuante di essersi trovata in una situazione delicatissima? Ci si è infilata con le proprie mani un anno fa, quando ha scelto di lasciare un anno di tempo per una nuova legge. Alla Corte spetta dichiarare l’incostituzionalità: faccia il suo, vedrà che poi il legislatore segue. L’ergastolo è illegale, ma per ora teniamocelo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 11 maggio 2022 La norma sull’ergastolo ostativo è incostituzionale, però la teniamo in vita artificialmente almeno per altri sei mesi, con una bella respirazione bocca a bocca da parte del Senato, del Governo e della Corte Costituzionale. Che importa se nel frattempo un certo numero di detenuti, spesso anziani e malati, che dopo oltre 26 anni di carcere avrebbero diritto alla liberazione condizionale, dovranno attendere ancora e ancora e ancora? E così Giuliano Amato, il Presidente della Corte Costituzionale che decadrà nel prossimo settembre, ha lasciato come testamento morale ai suoi colleghi e al successore allo scranno più alto, un provvedimento di rinvio dell’ergastolo ostativo fino all’otto novembre. Data entro la quale il Senato dovrà concludere la stesura di una nuova legge che non sia in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Ma intanto, invece di decidere con una sentenza, ha di nuovo scansato il “fastidio”. Sancendo così che la mela marcia della norma illegittima possa continuare a vivere nel cestino delle mele sane. Certo, le sirene dell’imbattibile squadrone dei militanti “antimafia”, dal partito dei pm fino a quello dei Cinque stelle guidato dal condottiero Travaglio, si erano fatte ben sentire, lanciando il solito allarme sui “mafiosi liberi”. Ultimo proprio ieri l’ex procuratore Giancarlo Caselli il quale, esibendo la propria personale conoscenza, dopo la sua permanenza a Palermo, non solo del fenomeno mafioso, ma anche della psicologia criminale dei boss e anche dei picciotti, inneggiava alla permanenza della disciplina del doppio binario. Proprio quello che, dividendo il mondo dei condannati in buoni (i “pentiti”) e cattivi (tutti gli altri), è stato dichiarato incostituzionale e contrario allo spirito degli articoli 3 e 27. Il doppio binario è stato mantenuto dal testo approvato alla Camera dei deputati, che pone una serie di vincoli-capestro a carico del condannato non “pentito”, tali da rendere pressoché impossibile la sua speranza di accedere, al pari dei collaboratori di giustizia, alla liberazione condizionale. Eppure la Consulta, pur nella sua timidezza di un anno fa, quando aveva delegato al Parlamento la responsabilità di sancire con una nuova legge l’incostituzionalità di una norma che vincolava solo alla collaborazione la possibilità di sottrarsi alla morte sociale dell’ergastolo ostativo, era stata molto chiara. Non è detto che chi fa il “pentito”, visto che attua uno scambio di favori con lo Stato, sia sempre sincero e abbia davvero interrotto il rapporto con la criminalità organizzata, aveva scritto nell’ordinanza. Così come non è scontato, aveva aggiunto, che chi pure non collabora con la magistratura sia sempre socialmente pericoloso e ancora legato a una cosca. Ma altrettanto esplicito era stato il verdetto della Corte di Strasburgo con la famosa “sentenza Viola” che aveva condannato l’Italia per gli stessi motivi. Era il 2019, e il Parlamento avrebbe avuto il dovere già allora di cambiare la legge incostituzionale. Invece era stata addirittura approvata la “spazza-corrotti” voluta dal ministro Bonafede, che aggiungeva un carico da novanta alla normativa esistente, equiparando ai reati di mafia quelli contro la Pubblica Amministrazione. Invano, nella discussione che si è svolta alla Camera nei mesi scorsi, il deputato radicale Riccardo Magi aveva tentato almeno questa correzione, anche culturale. Ma era stato impossibile sottrarre il Pd dalle grinfie tagliagole dei Cinque stelle. E forse in parte anche dalla propria storia, quella che negli anni di Mani Pulite aveva indotto i post-comunisti di allora ad agire in simbiosi con i pubblici ministeri anche contro i cugini socialisti di cui speravano poter ereditare le spoglie. Era il 17 settembre di quello stesso 2019 della sentenza Viola, quando un altro ergastolano, Salvatore Pizzini, assistito dall’avvocato Giovanna Araniti, si rivolgeva alla Corte di Cassazione con un ricorso contro l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza di L’Aquila aveva respinto la sua richiesta di libertà condizionale. Il detenuto aveva già scontato oltre ventisette anni di carcere, più dei ventisei richiesti dall’articolo 176 del codice penale per l’accesso al beneficio. La sua legale aveva posto la questione di incostituzionalità della norma che prevede il doppio binario, quello che piace all’ex procuratore Caselli e ai travaglini ovunque collocati anche in Parlamento. L’ordinanza della prima sezione della cassazione, presieduta da Antonella Patrizia Mazzei, che accoglie il ricorso con il parere contrario del pg, ricostruisce anche il percorso carcerario e di vita di Salvatore PIzzini. Che non è un eroe e neanche un innocente. Ma non sarebbe il caso che tutti questi soldati, perennemente armati contro il pericolo di uscita dal carcere di boss pericolosissimi, leggessero le carte e si informassero su chi sono e come si comportano questi ergastolani che il dottor Caselli racchiude tutti in un sol mazzo definendoli come “irriducibili”? Ecco che cosa abbiamo letto nell’ordinanza della cassazione, quella da cui tutto è partito, fino alla decisione della Consulta di un anno fa, e poi al lavoro piuttosto inutile della Camera e alla decisione della Corte Costituzionale di ieri, che ha ributtato il pallone nel campo della politica. “Il ricorrente -si legge- come risulta agli atti, ha addotto di aver preso parte in modo proficuo all’opera di rieducazione, di cui si ha conferma dai provvedimenti di liberazione anticipata; di essersi avvalso con profitto della possibilità di lavoro e di studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari Istituti di detenzione; di aver conseguito il titolo di agronomo e di esser stato inserito, con risultati positivi, in un progetto agricolo; di aver frequentato assiduamente corsi di studio e di aver partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi”. A questo aggiungono i giudici che “...si dà atto della rivisitazione critica del suo vissuto e dell’avvenuto riconoscimento degli errori commessi, con parziale ammissione delle proprie responsabilità e con l’espressione della volontà di allontanamento dal contesto mafioso”. Tutto questo, che a noi pare tanto, non sarà sufficiente a questo uomo di sessant’anni, un’età in cui si può ricominciare una vita diversa dalla precedente, e che ne ha trascorsi più di ventisette da rinchiuso, per superare gli ostacoli dell’inversione dell’onere della prova già previsti dal testo di legge approvato alla Camera. Considerando anche il fatto che il Senato non farà da passacarte, e peggioramenti del testo sono sempre possibili. È già in agguato una proposta del senatore Pietro Grasso, e non va certo nella direzione di abolire il doppio binario. Tengono il punto fino a ora solo il Pd e il Movimento cinque stelle, la cui sub-cultura manichea è sempre pronta a entusiasmarsi per la divisione del mondo tra buoni e cattivi. Certo, i buoni sono tutti liberi, anche quelli che non hanno fatto nessun percorso che ne garantisca un inserimento “regolare” nella società. Non devono dimostrare niente, per loro non c’è inversione dell’onere della prova. I cattivi sono tutti rinchiusi nei reparti speciali delle diverse carceri italiane, quelle che anche in questi giorni stanno visitando i dirigenti dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, che hanno incontrato anche molti dei 1.200 ergastolani “che continuano a essere vittime dell’illegalità del regime ostativo”. “I detenuti nutrivano fiducia nella Consulta - scrivono i tre dirigenti nel loro comunicato - una fiducia che è stata tradita”. E chissà quanti altri “tradimenti” dovranno subire da oggi all’8 novembre. E poi quel giorno si vedrà, quando la Corte Costituzionale si riunirà di nuovo per dare la pagella al Parlamento. Con un altro presidente, però. Come definiva Marco Pannella la Corte Costituzionale? “Cupola della mafiosità partitocratica”. Ecco. Giustizia e riforme: ora è tempo di cambiare mentalità di Enzo Augusto Gazzetta del Mezzogiorno, 11 maggio 2022 Su una cosa sono assolutamente d’accordo con i magistrati che lunedì 16 maggio fanno sciopero, o meglio si astengono dalle udienze, e senza che ciò, sia ben chiaro, possa menare scandalo. E cioè sull’assoluta e totale inutilità della Legge Cartabia che va a breve in seconda lettura al Senato. Una legge frutto di estenuanti compromessi che la hanno completamente svuotata. D’altro canto, se tutti i partiti sono d’accordo, è evidente che non serve a niente. Serve, comunque, ad ottenere i finanziamenti del PNRR che, in mancanza, salterebbero, e a tentare di disinnescare i referendum che, benché depotenziati dalla Corte Costituzionale, avrebbero effetti ben più perniciosi per la Magistratura di una Legge all’acqua di rose. Mi trovo invece in disaccordo con alcune motivazioni ed argomentazioni sottese alla protesta. Si contesta che la Legge vorrebbe un Magistrato burocrate. Dio ce ne scampi. Di burocrazia già l’Italia muore. Ci mancherebbe, anche se alcuni Giudici già si comportano da burocrati, inconsciamente o a bella posta per comodità. Sull’affermazione che la giustizia non è un’azienda sarei più cauto. Non è un’azienda, forse non può funzionare come un’azienda. Ma deve funzionare. Il giudice deve essere autonomo nella decisione, ma deve rendere il proprio servizio come un qualsiasi funzionario a cui viene richiesta autonomia ma anche produttività. E l’intero sistema va organizzato in termini di efficienza. A dirigere gli uffici (non solo a scrivere le sentenze) ci vogliono magistrati/dirigenti che conoscano il mestiere, che sappiano far funzionare il sistema giudiziario. E questo principio deve valere anche per il CSM. Poi c’è il nodo delle valutazioni. “Nessuno mi può giudicare” cantava Caterina Caselli, per chi se la ricorda, ma non credo possa essere il blasone della Magistratura. Nessuno può ritenersi sottratto a qualsivoglia giudizio. È giusto che i Magistrati, come sono criticabili, siano valutabili. Si dice che un sistema di valutazione già c’è. Ma se c’è, non funziona. Antidoti e controlli troppo spesso lasciano il tempo che trovano. Si dice che se vengono messe in discussione le performances, poi il Giudice ne viene intimidito e ha timore di sbagliare. Qual è il problema? Il Giudice deve essere timorato di sbagliare. Non può pretendere di sbagliare impunemente. Di ritenersi libero di sbagliare senza conseguenze. Di fare il Giudice spericolato alla Vasco Rossi. Il timore, l’essere timorato, è, questo sì, un grande antidoto all’errore. Nella vita e quindi anche nel giudicare. Impone l’umiltà di fronte a una funzione, quella di giudicare un altro uomo, che è la più delicata che possa esistere. Intendiamoci. Abbiamo fiducia nei magistrati. Gli avvocati, se possono, preferiscono la giustizia ordinaria a quella arbitrale, più veloce ma con meno garanzie. Può esserci certamente una contraddizione tra autonomia e indipendenza, che vanno tutelate, ed esigenza di efficienza e produttività. Ma questo è, e deve essere, il gravoso compito del Magistrato. Diciamola tutta. Ad onta dei bravi Magistrati che sono la maggioranza, ad onta degli antidoti e controlli che nella maggioranza dei casi funzionano ma che troppo spesso non funzionano affatto, rimane una larga fascia di ingiustizia su cui è interesse di tutti (soprattutto dei Magistrati bravi) intervenire. Ci sono vite distrutte, carriere troncate, imprese rovinate con danni economici e sociali incalcolabili. Più cautela e “timore” sarebbero salutari. E stiano tranquilli i Magistrati. C’è chi vuole sottometterli e chi li vuole colpire. Ma c’è anche chi li difende e li sosterrà in questo momento di malessere. Il problema è che la Magistratura se si corporativizza e si vittimizza si fa male da sola. Se l’indice di gradimento della categoria è precipitato a livello dei parlamentari (!) qualche problema ci deve essere. E di questo deve discutere il 16 maggio, che può e deve essere un’occasione di confronto. La Legge si può, anzi si deve, modificare in alcuni punti, ma ciò che va cambiata è la mentalità complessiva di tutti gli operatori, Magistrati in primis. Ma anche avvocati. Il sistema della giustizia deve essere un servizio per la collettività in termini di quantità, certo, ma anche di qualità. Bisogna ridurre i tempi, che sono vergognosi. Bisogna evitare le prescrizioni, che non dipendono da un destino beffardo ma soprattutto ripudiare una mentalità diffusa più portata a spaccare il capello in quattro che a dare un risultato concreto in tempi decenti. Protestiamo tutti, non solo i Magistrati. E rimbocchiamoci le maniche tutti, anche i Magistrati, per uscire dal tunnel in cui la giustizia è infilata da anni. La libertà del magistrato non penalizzi la giustizia di Giuseppe Pignatone La Stampa, 11 maggio 2022 Uno dei temi cruciali per la riforma della giustizia è la scarsa efficienza di molti uffici giudiziari, una carenza obiettiva ma che non può essere attribuita tout court a una scarsa produttività individuale dei magistrati, perché questa ipotesi è ampiamente smentita, salvo - ovviamente - casi particolari, dalle statistiche europee, nonché dai numeri delle sentenze e dei provvedimenti adottati ogni anno. Tuttavia, è opinione condivisa che vi siano larghi spazi per migliorare l’organizzazione del lavoro degli uffici e anche quello dei singoli magistrati. Assunto condivisibile per esperienza diretta e perché è confermato dalle differenze riscontrabili tra un ufficio e l’altro, tali che non è possibile trarre un criterio unico di valutazione, dato che situazioni di eccellenza o - all’opposto - di grave crisi, si riscontrano sia al Nord sia al Sud del Paese, sia tra i grandi uffici sia in quelli più piccoli. Molti osservatori mettono giustamente in rilievo questo fenomeno che abbatte la fiducia dei cittadini nella Giustizia (e in chi la amministra) e ne individuano le cause, oltre che nella scarsità di risorse, cui dovrebbero porre rimedio i fondi del PNRR, nella responsabilità dei capi degli uffici e, più a monte, nei criteri adottati dal Csm nella scelta delle figure direttive. Non mi pare che l’analisi possa limitarsi a questi elementi, anche se è fisiologico che emergano casi evidenti di inadeguatezza fra i dirigenti di oltre 300 uffici giudiziari. Il problema è più complesso. Molti magistrati che svolgono la funzione requirente e ancor più quella giudicante tendono a ritenere che il principio dell’assoluta indipendenza valga non solo per tutto ciò che attiene l’esercizio della giurisdizione (decidere una sentenza, formulare una richiesta di rinvio a giudizio, ecc.), ma si estenda anche all’organizzazione del lavoro e degli uffici, perché essa finisce con l’incidere (orientare, condizionare, esercitare un controllo) sul loro lavoro. Il problema esiste ed è delicato. È sufficiente fare alcuni esempi che rispecchiano l’esperienza quotidiana: il rispetto dei criteri di priorità nella trattazione degli affari, la pianificazione delle udienze o, questione forse più comprensibile ai non addetti ai lavori, il contrasto fra la libertà di giudizio dei singoli magistrati e l’esigenza di assicurare uniformità e prevedibilità delle decisioni in casi seriali o almeno analoghi. Per essere più chiari: in quali casi ammettere il patteggiamento e in quali no? quale pena infliggere per reati che si ripetono con le stesse caratteristiche? e così via. Non sono questioni secondarie, non scioglierle incide pesantemente non solo sui tempi, ma anche sulla credibilità stessa dell’amministrazione della giustizia, dato che è molto difficile spiegare ai cittadini il motivo per cui due giudici di uno stesso ufficio adottano decisione diverse in situazioni a carattere seriale o addirittura identiche. Ma sono allo stesso tempo questioni molto delicate perché possono davvero riguardare la libertà del singolo giudice, prerogativa posta dalla legge a garanzia di ognuno di noi. Su queste tematiche, i poteri dei capi degli uffici sono oggi estremamente limitati, tanto dalla legge quanto, ancor più, dalle circolari del Csm, e le figure direttive sono piuttosto chiamate a esercitare un’opera di convincimento, di moral suasion, del tutto inefficace se manca l’analogo sforzo di adesione da parte dei singoli magistrati, anche con il (parziale) sacrificio di proprie legittime opinioni, convinzioni ed esigenze. Qualcosa di molto lontano, dunque, dalle disposizioni che il dirigente di un’azienda privata, ma anche di un qualsiasi ufficio pubblico, può impartire, e dagli strumenti che quest’ultimo ha per farle rispettare. Anche su questo aspetto interviene la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, con significative modifiche in tema di funzionalità degli uffici e smaltimento dell’arretrato nonché con la previsione di specifici obblighi, sanzionati disciplinarmente, cui dovranno attenersi i dirigenti e anche ai singoli magistrati. Temi dunque di grande importanza e delicatezza non risolvibili con affermazioni semplicistiche o meramente aziendaliste, ma che richiederebbero piuttosto il fondamentale apporto di formazione della Scuola Superiore della Magistratura, oltre che una riflessione più approfondita del Csm e dell’Associazione nazionale magistrati. Perché se è vero che l’efficienza non può essere l’unico obiettivo da perseguire nel fare giustizia, né il totem cui sacrificare la qualità dell’attività giurisdizionale, la magistratura deve però riconoscere con altrettanta lucidità che una giustizia inefficiente è di per sé giustizia negata, che contribuisce quanto gli errori clamorosi o la mancata professionalità a provocare danni serissimi alla collettività. Per non dire della considerazione pubblica, non da oggi in picchiata, verso il mondo togato, che deve con urgenza recuperare il proprio alto profilo istituzionale. I Radicali rilanciano: referendum contro tutti di Angela Stella Il Riformista, 11 maggio 2022 “I cinque quesiti sono l’inizio di un processo politico che non finisce il 12 giugno. Se ci fosse una vera informazione, il quorum si raggiungerebbe eccome. Mancano trenta giorni e la Rai ci propone spazi di pochi secondi” Lunedì scorso presso la sede del Partito Radicale si è tenuta la “più grande convention sugli errori giudiziari in Italia”. È stata l’occasione per presentare il libro della tesoriera Irene Testa dal titolo “Il fatto non sussiste. Storie di orrori giudiziari”, ma anche per fare il punto sulla campagna referendaria promossa insieme alla Lega. È intervenuto anche il leader del Carroccio Matteo Salvini: “I referendum saranno una spinta al Parlamento per fare quello che non ha fatto in trent’anni. Il 12 giugno gli italiani possono rivoluzionare la giustizia”. Facciamo il punto proprio con la radicale Testa. Che bilancio fa della convention? Un bilancio certamente positivo se consideriamo che più di 30 persone tra politici, amministratori, sindaci e persone comuni - alcuni accompagnati dalle loro famiglie - sono arrivati da tutta Italia per raccontare le loro vicende processuali. Radio radicale ha trasmesso in diretta l’evento e sono stata sommersa da messaggi e segnalazioni di ingiuste detenzioni. Nel nostro Paese esiste un esercito di persone perseguitate, incriminate e poi assolte a causa di una giustizia che non funziona e che, anziché far sentire il cittadino al sicuro e protetto, incute paura e distanza. Nel suo libro lei passa in rassegna 25 storie, di personaggi noti e ignoti, perseguitati per anni da una giustizia che non funziona, protagonisti di veri e propri calvari giudiziari. Ci racconta qualcuna di queste storie, a partire da quella che l’ha più impressionata o emozionata? Le storie raccolte, per un verso o per l’altro, mi hanno tutte emozionato perché queste persone raccontano il dolore profondo e a volte lacerante che hanno vissuto sulla propria pelle. Il professionista con la carriera distrutta, il sindaco o l’amministratore costretto a dimettersi e a subire la gogna mediatica, il povero cristo costretto a dover chiedere aiuto perché spesso non ha i mezzi per mandare avanti i processi. E poi ci sono le famiglie che sono vittime anche loro. Tra tutte le storie, quella che mi commuove sempre - anche se una vecchia storia - è quella di Aldo Scardella: aveva 25 anni, era uno studente universitario quando fu portato nel carcere Buoncammino di Cagliari accusato di omicidio. Aldo non resse alla grande ingiustizia che stava subendo e si suicidò lasciando un messaggio alla famiglia con scritto “mamma muoio innocente”. Nessuno ha mai chiesto scusa alla famiglia. Qual è il denominatore che accomuna queste vicende? Sicuramente le indagini preliminari. A volte leggiamo di inchieste fantasiose, altre volte emerge la superficialità degli inquirenti, altre volte si costruiscono castelli accusatori basati su labilissimi indizi. Nel nostro Paese per condannare una persona gli indizi dovrebbero essere gravi, precisi e concordanti. Purtroppo le migliaia di persone che ingiustamente finiscono in carcere ogni anno dimostrano il contrario. La giustizia e il diritto dovrebbero essere il pane di una società democratica Quali possono essere i correttivi del sistema della giustizia per evitare casi simili? Una riforma radicale della giustizia a partire intanto dai 5 quesiti referendari e poi, con la massima urgenza, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati e della separazione delle carriere, l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e lo stop ai magistrati fuori ruolo. La magistratura crede che stiate portando avanti i referendum per punirla appunto, tra l’altro, per questi errori. È così? Niente affatto. È evidente che bisogna riformare quelle che sono delle lampanti distorsioni dovute all’arrendevolezza della politica. D’altronde siamo un Paese che si regge sul codice penale fascista. Che ci sia bisogno di una radicale riforma democratica è di tutta evidenza. Qual è secondo lei il quesito più importante? Sono tutti importanti e tanti altri ce ne vorrebbero. Questo per dire che è solo l’inizio di un processo politico che non si conclude certo con il voto del 12 giugno. Il leader della Lega ha detto che sarà difficile raggiungere il quorum. Cosa si deve e si può fare da qui al 12 giugno? Matteo Salvini ha anche aggiunto che non è impossibile raggiungere il quorum. Se ci fosse l’informazione dovuta e i cittadini fossero informati siamo certi che si raggiungerebbe il quorum e un risultato positivo sui quesiti referendari. Intanto abbiamo ottenuto che la questione giustizia è rientrata nell’agenda politica del Paese e del Parlamento. Come ha scritto il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza “Il silenzio della informazione, soprattutto da parte del servizio pubblico, è un fatto di inaudita gravità, che pregiudica il diritto dei cittadini ad essere informati”. Questa è una storica battaglia del Partito Radicale. Come si spiega tutto questo? La nostra analisi sulla giustizia, come anche quella sull’informazione, è tutta contenuta anche nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 31 agosto scorso che riconosce che Marco Pannella e la Lista Pannella - e quindi il Partito Radicale - sono stati marginalizzati dalla vita politico-mediatica a causa della mancata informazione, condannando i comportamenti della Rai, dell’Agcom e della giustizia. Da anni al Partito radicale viene negata la possibilità di comunicare, di far conoscere le nostre iniziative e di farci quindi riconoscere, come diceva spesso Marco Pannella. Un vulnus costituzionale che attraversa la storia della Repubblica, che abbiamo denunciato e al quale continuiamo a opporre la resistenza di cui siamo capaci. Mancano circa 30 giorni al voto e la Rai ci propone spazi di pochi secondi che non consentono ai cittadini di poter approfondire, né tanto meno a noi di spiegare i quesiti e non produce spazi efficaci di informazione sulla data del voto. Salvini ha parlato appunto di una “una lobby del silenzio” intorno all’appuntamento referendario. Si riferiva alla stampa o ad altro? A tutta l’informazione italiana. All’interno del Pd alcuni esponenti sono favorevoli a tutti i quesiti, altri solo ad alcuni. In generale come giudica l’atteggiamento del Pd e degli altri partiti nei confronti di questa occasione referendaria? Hanno presentato domanda per partecipare al dibattito sui referendum per il sì, oltre noi e una serie di associazioni, solo la Lega e il Partito Socialista. Riteniamo molto grave che partiti che si candidano al governo del Paese di fronte alla questione giustizia si sottraggano dal dire la loro. Nessun pentimento per aver portato avanti questa battaglia con la Lega? Pentimento? Siamo orgogliosi di quello che abbiamo fatto sin qui e ci sono prospettive affinché, anche su altri fronti, si possa lavorare insieme. È eloquente quanto ha affermato ieri Roberto Calderoli ringraziando il partito radicale per averlo trasformato “da un ex giustizialista pentito in un garantista ancora più convinto”. Italiani non informati sul referendum di Francesco Specchia Libero, 11 maggio 2022 La consultazione occultata. Uno su 4 ignora il voto del 12 giugno sulla giustizia: colpa della scarsa comunicazione. Houston, sui referendum sulla giustizia abbiamo un problema. Un altro, intendiamo. Non è più, qui, solo una vexata quaestio di Lega e Radicali, di magistratura che salva sé stessa, di basilare principio di giustizia. Stavolta sono i potenziali elettori che minacciano di non presentarsi alle urne (stima di affluenza molto al di sotto della soglia del 50%): un immobilismo di massa pronto mettere in tumulto il cuore dei promotori. Secondo un sondaggio Swg, infatti, l’astensione sarebbe non scelta strategica ma motivata dalla difficoltà a comprendere i temi stessi del referendum. In soldoni: gli elettori medi non intendono andare a votare perché, di fatto, non capiscono i quesiti. Troppo difficili. Non s’avvicinano alle gabine perché questa, in fondo, “è una materia troppo complessa” per il 25% degli aventi diritto al voto. A cui seguono quelli che diserterebbero le urne “perché è inutile” (19%); perché “non mi interessa” (17%); e “per non fare raggiungere il quorum del 50%” (13%) soprattutto perché il referendum è un’idea della Lega e dei Radicali (5%) partiti rompiballe e/o divisivi per tradizione. Certo, si nota rispetto al passato, che il ricorso all’astensione appartiene pochissimo ad ideologie partitiche. Al contrario, molti sostenitori del “No” sono propensi ad andare a votare, al punto che, per i quesiti sulla Legge Severino e sulla custodia cautelare, prevalgono i voti contrari all’abrogazione. A ciò contribuisce anche il fatto che sono gli stessi elettori della Lega a esprimersi in maggioranza per il “No”. In generale, emerge un orientamento di voto in parte sganciato dalla lotta politica. E però, il risultato non cambia: già in questo senso, uno dei referendum più importanti di sempre sta rotolando su un pericoloso piano inclinato. Poi c’è la storia che soltanto 1 elettore su 4 sarebbe davvero informato sui quesiti. La notizia non stupisce: questa sfilza di domande, con il suo groviglio di tecnicismi, fatichiamo a digerirla persino noi che dovremmo scriverne. Non sorprende che solo il 26% degl’intervistati è “bene informato” sull’apertura delle urne; il 37% non lo è per nulla; e l’altro 37% ne abbia solo un vago sentore. Se si analizzano i singoli quesiti, poi, per l’abolizione della legge Severino andrebbe a votare circa il 31-35% degli aventi diritto; per la limitazione della custodia cautelare il 31-35%; per la separazione delle carriere dei magistrati 31-35%; per la Riforma del Csm (che per i più avrebbe dovuto essere sciolto) il 29-33%; per i Consigli Giudiziari - valutazioni di Pm e giudici - il 29-33%. Per quanto riguarda gli orientamenti di voto: separazione delle carriere 47% favorevoli, 31 indecisi, 22 contrari; Consigli Giudiziari - valutazioni di pm e giudici 39 Sì, 36 indecisi, 25 No; riforma elezioni Csm 35 Sì, 36 indecisi, 29 No; limitazione della custodia cautelare 29 Sì, 33 indecisi, 38 No; abolizione Legge Severino 24 Sì, 22 indecisi, 54 No. Soprattutto i dati sull’affluenza anticipano lo scenario di un’occasione mancata, con la “responsabilità di gran parte dei media per la poca copertura dell’appuntamento”. L’election day coinciderà con le amministrative a giugno. Ma pochi lo sanno. Poi c’è l’altra questione. Il referendum viene percepito come un’iniziativa del solo Salvini, che non gode - diciamo - di popolarità trasversale. Gli elettori intenzionati a votare, infatti sono per il 43% della Lega, per il 38% di Fdl eM5S (e non tutti i quesiti) e solo il 33% del Pd. E il livello di preoccupazione per un insuccesso sale anche nella considerazione delle parti in causa. L’avvocato e presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza parla, per esempio, senza troppi giri di parola, di “emergenza democratica” perché in relazione al referendum sulla Giustizia. Sarebbe in atto una “censura” (comincia con lo sciopero dell’Associazione nazionale magistrati). Per il leghista Roberto Calderoli sul Corriere della Sera c’è una “congiura perché i magistrati decidono su tutto”. Per Salvini sulla consultazione referendaria si accanisce una “congiura del silenzio”. Il tutto mentre il Consiglio d’Europa certifica che la magistratura ha toccato il grado più basso di popolarità: soltanto il 32% degl’italiani ci crede ancora. Ed è forse il motivo per cui la magistratura sta esercitando come non mai il proprio istinto di conservazione. Chi sta congiurando contro i referendum sulla malagiustizia di Gabriele Barberis Il Giornale, 11 maggio 2022 Sotto la dittatura dei social si parla di tutto ma, purtroppo, anche di nulla. Dal punto di vista mediatico e politico, tira un’aria strana attorno ai referendum sulla giustizia, a 32 giorni dal voto del 12 giugno che richiamerà alle urne 51,5 milioni di italiani. La loquacità della sinistra sul coinvolgimento elettorale del popolo nella stanza dei bottoni si è fermata alla retorica retrò di Peppone. E la “democrazia diretta” che ha fatto la fortuna dei grillini è rimasta circoscritta a poche migliaia di clic da parte di militanti sempre più svogliati e demotivati, anche perché interpellati su temi interni da circolo Sporting. Forse potrà scuotere le coscienze il grido di una vecchia volpe della politica, il leghista Roberto Calderoli, che ha denunciato una “congiura del silenzio” per sterilizzare una riforma democratica dai potenziali effetti devastanti. E non sono trucchetti di propaganda partitica per mobilitare l’elettorato nei tempi e modi giusti. Gli italiani sono mediamente informati tra quotidiani, tv, web e social. Ma sui referendum gli elettori sono ancora avvolti nella notte fonda della disinformazione. Fa impressione il sondaggio diffuso ieri da Swg: appena un italiano su quattro è aggiornato sulla consultazione di giugno. E, ancor peggio, 37 italiani su 100 si dichiarano all’oscuro di tutto. Ne discende un fondato allarme sul raggiungimento del quorum. Al momento, secondo le stime, l’affluenza potrebbe oscillare dal 29 al 35%, troppo lontana dal fatidico 50%+1 che lo renderebbe valido. Leghisti e radicali, i promotori ufficiali, si dannano per scuotere l’opinione pubblica dal torpore. Tanti piccoli colpi di piccone contro il muro di una magistratura corporativa e immutabile, che andrebbero moltiplicati da almeno 26 milioni di italiani in cabina elettorale. La giustizia riguarda tutti: le cronache drammatiche degli ultimi anni hanno documentato la facilità con cui qualsiasi cittadino può sprofondare in un’immotivata odissea giudiziaria lunga decenni. La media di tre arresti ingiusti al giorno resta un triste primato italiano che dovrebbe destare una sensibilità sociale non secondaria rispetto ad altre questioni come la salute e il lavoro. Il tacito complotto attorno ai cinque quesiti (dalla custodia cautelare alla separazione delle carriere dei magistrati) tocca troppo da vicino gli equilibri di una magistratura da rifondare sotto tanti aspetti. Giudici e pm non vogliono intrusioni del corpo elettorale nel palazzo dove si sono arroccati, paradossalmente in nome dello stesso popolo italiano. E l’inossidabile circuito mediatico-giudiziario, che da decenni costituisce un contropotere di fatto, paragona il voto a una misura ritorsiva. Per questo preferiscono sorvolare, per non mettere idee strane in testa agli elettori. Quegli italiani che, armati di matita, potrebbero fare più riforme in una giornata che l’intero Csm dal 1959. Intervista a Calderoli, il “giustizialista pentito” che però inneggia all’ergastolo di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 maggio 2022 Il senatore leghista fa mea culpa e si dichiara “garantista convinto”. Nel frattempo, però, invoca “gli ergastoli, quelli veri, senza eccezioni” per i casi di femminicidio. Intervistato dal Foglio, il vicepresidente del Senato conferma la sua strana concezione di garantismo “Devo fare ‘mea culpa’ su alcune mie valutazioni del passato sul diritto: ringrazio il Partito radicale per aver trasformato un giustizialista pentito in un garantista convinto”. Il passaggio di Roberto Calderoli da giustizialista a giustizialista “pentito” ce l’eravamo perso, ma la trasformazione a garantista convinto, annunciata lunedì sera a un evento del Partito radicale, non può passare inosservata. Lo ricordavamo come uno dei leghisti più oltranzisti, sempre pronto a cavalcare notizie di cronaca (soprattutto se riguardanti immigrati) per alimentare il forcaiolismo dell’opinione pubblica, e ce lo ritroviamo garantista. Come il suo segretario, Matteo Salvini, che ha deciso improvvisamente di mettere a disposizione la macchina del partito per raccogliere le firme per i referendum radicali sulla giustizia. È una notizia. Dunque telefoniamo di prima mattina a Calderoli, vicepresidente del Senato, che al Foglio conferma: “Se si segue ciò che accade all’interno della giustizia non ci si può voltare dall’altra parte. Mille ingiuste detenzioni all’anno, e quindi tre al giorno, sono una cosa insostenibile in un regime democratico”. “Recentemente c’è stato l’anniversario di Mani pulite - aggiunge Calderoli - Io ero uno di quelli che incoraggiava e sosteneva Di Pietro. Sono andato a rivedermi i numeri. Se nel 1992 nell’inchiesta milanese furono coinvolte circa 2.500 persone, per più di tremila procedimenti, e nel 2000 in carcere c’erano quattro persone, mi chiedo quanto carcere preventivo ci sia stato a cui dopo non sia seguita una condanna. Ho fatto tante riflessioni su questi passaggi”. Va bene, Calderoli, ha ripensato la sua concezione del diritto ed è diventato garantista. Però se scorriamo la sua pagina Facebook si leggono post non proprio in questa direzione. Ad esempio in un messaggio pubblicato il 30 marzo e dedicato ai femminicidi ha scritto: “Le belle parole non bastano più, servono gli ergastoli, quelli veri, senza riti abbreviati…”. Calderoli ci interrompe subito: “Ma guardi che essere garantista non significa essere contrari alla certezza della pena. Io sono per la certezza della pena. Una volta che c’è una sentenza passata in giudicato, quella pena deve essere scontata”. Certo, però lei ha scritto che “servono gli ergastoli, quelli veri, senza riti abbreviati, senza sconti, senza attenuanti, senza eccezioni”. “Penso che quando ci si trova di fronte a certi tipi di reati odiosi certi sconti di pena siano inadeguati”, afferma Calderoli. “Le cito solo due episodi tornati di attualità negli ultimi giorni - aggiunge - Il primo è quello della ragazza che aveva ucciso una signora in metropolitana infilandole un ombrello negli occhi: è uscita dal carcere dopo dodici anni e il risarcimento alla famiglia della vittima dovrà essere pagato dallo stato perché la ragazza è nullatenente. Mi chiedo se un omicidio, con le modalità con cui è stato eseguito, sia meritevole di soli dodici anni. Poi c’è il caso dei due poliziotti uccisi a Trieste”. Il primo caso a cui si riferisce Calderoli è quello di Doina Matei, condannata in realtà a sedici anni e scarcerata dopo dodici anni per buona condotta (non risulta che dopo la scarcerazione si sia macchiata di nuovi reati, mentre all’epoca della condanna era effettivamente nullatenente). Il secondo caso è quello di Alejandro Meran, assolto - perché incapace di intendere e volere - per aver ucciso due poliziotti nel 2019 in questura a Trieste. Su questo testiamo il garantismo di Calderoli: “Senatore, anche Salvini ha definito la vicenda ‘vergognosa’ e ha annunciato un’interrogazione urgente. Però la perizia disposta dalla corte ha stabilito che quest’uomo è infermo di mente, è stata la stessa procura a chiedere l’assoluzione perché secondo il nostro codice penale non si può condannare una persona malata di mente, e comunque dovrà trascorrere almeno trent’anni in una Rems”. “Questo lo vedremo - replica Calderoli - però mi sembra che il padre di uno dei due carabinieri uccisi abbia contestato il fatto che la corte abbia usato una sola perizia. Non vedo perché il padre debba dire una cosa falsa. Potrò farmi anche un’idea personale, leggendo quello che dice il padre?”. Nessuno lo nega, ma da un garantista ci aspetteremmo un diverso approccio alle decisioni dei tribunali italiani. D’altronde, per non farsi mancare niente, sempre a fine marzo Calderoli scriveva: “Violenze sessuali, ripensare a castrazione chimica: votiamo la mia proposta di legge”. Insomma, il garantismo sembra piuttosto lontano. Stop al patrocinio a spese dello Stato per chi incrementa il reddito di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio La sentenza della Cassazione: la mancata comunicazione delle variazioni può comportare la revoca del beneficio. È destinata a far discutere l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9727/2022, che è intervenuta in materia di patrocinio a spese dello Stato. I giudici della Suprema Corte hanno stabilito che la mancata comunicazione delle variazioni di reddito comporta la revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Il tutto a prescindere dalla circostanza che la variazione stessa non determini il superamento del limite reddituale previsto per legge. La decisione della Cassazione deriva da un ricorso presentato contro un’ordinanza della Corte d’appello di Firenze con la quale era stato accolto un reclamo avverso la revoca del patrocinio a spese dello Stato in occasione di un procedimento penale. Di qui l’ammissione al beneficio con conseguente liquidazione dei compensi. I giudici fiorentini hanno considerato che “l’onere della parte di comunicare le variazioni di reddito anno dopo anno non sia sanzionabile con la perdita del beneficio nel caso in cui si tratti di variazioni non determinative del superamento del limite che giustifica l’ammissione al beneficio”. Nel caso in questione il ministero della Giustizia, prendendo in considerazione un unico motivo di doglianza, ha proposto ricorso davanti ai magistrati di Piazza Cavour. Questi ultimi hanno ribaltato l’orientamento di Firenze, ritenendo fondato quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato a difesa di via Arenula. Un importante snodo dell’ordinanza 9727/22 riguarda l’omessa comunicazione delle variazioni reddituale previste dall’articolo 70 del d.P.R. 115 del 2002, comma I, lettera d). Questa norma si riferisce all’”impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi nell’anno precedente, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno, dalla data di presentazione dell’istanza o della eventuale precedente comunicazione di variazione”. Un’altra argomentazione addotta dalla Sesta Sezione civile della Cassazione, presieduta da Giacinto Bisogni, trae origine dal tema dell’omessa dichiarazione. Riguarda l’ammissione dell’interessato al beneficio e “l’assolvimento di minimali oneri di cooperazione nei confronti dello Stato, segnatamente declinati nel senso della comunicazione di ogni mutamento di quanto già a suo tempo dichiarato e considerato”. Pertanto, “la mancata comunicazione delle variazioni di reddito comporta quindi in sé e per sé la revoca dal beneficio, a prescindere cioè dalla circostanza che la variazione risulti poi non determinativa del superamento del limite reddituale comportante l’ammissione”. La Cassazione ha rinviato la questione alla Corte d’appello di Firenze che sarà chiamata a riformulare “ogni valutazione uniformandosi al principio di diritto” fatto presente dallo stesso Supremo Collegio. L’avvocato Arturo Pardi, consigliere del Cnf, esprime forti perplessità sulla recente ordinanza della Cassazione, invitando a riflettere sull’assunto preso in considerazione: “Anche se non superi la soglia di reddito la dimenticanza della comunicazione comporta la revoca del patrocinio a spese dello Stato”. “Nessun dubbio - spiega Pardi - che spetta a colui che presenta istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato l’impegno a comunicare le variazioni rilevanti del limite di reddito verificatosi nell’anno precedente, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno dalla data di presentazione della istanza o della eventuale precedente comunicazione di variazione. La giurisprudenza della Suprema Corte, con la recentissima ordinanza 9727/2022, ha confermato il principio secondo cui la autorità giudiziaria è tenuta a revocare il beneficio anche se la variazione non aumenti il reddito in misura superiore alla soglia prevista per accedere al patrocinio a spese dello Stato. Nell’anno 2021, a titolo di esempio, era di 11.746,68 euro”. A non convincere è altresì la tempistica di alcuni adempimenti e le conseguenze che potrebbero aversi nei Tribunali. Il rischio di rallentamento delle attività degli uffici giudiziari, per adeguare le posizioni reddituali dei cittadini, è concreto. “Si tratta - prosegue il consigliere del Cnf - di una scelta non condivisibile posto che la norma parla di impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti verificatesi nell’anno precedente. Fermo restando che, a mio parere, le variazioni reddituali possono essere apprezzate solo in sede di dichiarazione dei redditi, è ragionevole interpretare in modo estensivo la variazione solo in quanto essa rilevi ai fini del superamento della soglia che consente il beneficio. Diversamente si esporrebbe il cittadino, peraltro nella difficoltà di determinare correttamente il proprio reddito, a conseguenze ingiuste e che rischiano sicuramente di rendere più complicata le attività degli uffici giudiziari”. Salerno. Detenuto aggredisce un agente e poi muore d’infarto in ospedale di Stella Cervasio La Repubblica, 11 maggio 2022 Un detenuto in isolamento nel carcere di Salerno, affetto da problemi psichiatrici, è deceduto nell’ospedale dove era stato accompagnato dopo essersi reso protagonista di un’aggressione con un coltello rudimentale ai danni di un agente della Polizia Penitenziaria. Lo rende noto l’Unione dei Sindacati di Polizia Penitenziaria (Uspp). Secondo il segretario nazionale del sindacato Giuseppe Del Sorbo, l’uomo sarebbe stato colto da un infarto. A nulla, purtroppo, è servito l’intervento dei sanitari. Anche l’agente aggredito è finito al pronto soccorso, dove i medici gli hanno diagnosticato un trauma cranico. “Ci sono troppi detenuti psichiatrici all’interno delle carceri - sostengono Del Sorbo e Giuseppe Moretti, presidente dell’Uspp - lo abbiamo già denunciato al ministro, nell’ultima manifestazione di protesta a Roma. Quest’ultimo episodio di Salerno dimostra - aggiungono i due sindacalisti - che la chiusura degli Opg ha destabilizzato il circuito penitenziario ordinario. Pochi sono gli strumenti di sostegno per questi soggetti che andrebbero presi in carico dalla sanità regionale. Invece - sottolineano - rimangono in carcere gravando sull’operato della polizia penitenziaria che a Salerno è mancante di 40 unità”. Del Sorbo e Moretti chiedono, infine, ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, “l’invio di un vice direttore e di un comandante di reparto in pianta stabile”. Salerno. Detenuto morto, la Procura ha aperto un’indagine di Antonio Carlino cronachedellacampania.it, 11 maggio 2022 È stata aperta un’indagine da parte della magistratura sulla morte del detenuto avvenuta ieri nell’ospedale di Salerno. Lo rende noto il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. “Sono grato alla magistratura, che subito ha inviato il pm per verificare come sono andate le cose”, dice Ciambriello che aggiunge: “sicuramente l’autopsia chiarirà le cause della morte del giovane. Sono grato anche alla direttrice del carcere per avere subito messo a disposizione del magistrato le immagini delle telecamere. Il riscontro delle dichiarazioni degli altri detenuti della stessa sezione, le immagini e l’autopsia sicuramente chiariranno come e perché’ è morto Vittorio”. La direzione dell’istituto penitenziario salernitano di Fuorni, fa ancora sapere il Garante dei detenuti, “ha prontamente informato i familiari del detenuto e il suo avvocato”. Secondo le informazioni acquisite dal garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, Vittorio (questo il nome di battesimo del detenuto deceduto) era nato il 4 novembre 1986, ad Aversa, in provincia di Caserta. “Oggi - racconta - mi è stato riferito dal carcere, ha avuto una colluttazione con un paio di agenti che erano entrati nella sua cella per prelevare del materiale di un suo compagno che aveva scelto un’altra collocazione. Il detenuto ha avuto un atteggiamento ostile e violento nei loro confronti. Durante la colluttazione si è sentito male. Mi risulta, poi, da altre informazioni, è intervenuta l’infermeria del carcere con un defibrillatore ma per la gravità delle condizioni riscontrate hanno chiesto l’intervento del 118”. “Vittorio, che sarebbe uscito nell’ottobre 2022 - dice ancora il garante dei detenuti della Campania - è stato ricoverato un paio di volte nell’articolazione psichiatrica del carcere di Fuorni ma poi è stato dimesso e l’episodio odierno è avvenuto in una sezione ordinaria, la sesta, in una cella che condivideva con un altro detenuto”. “Il tema dei detenuti malati psichici - commenta Ciambriello - sollevato da diverse associazioni di polizia penitenziaria è giusto: ci sono tantissimi detenuti con sofferenza psichica nelle carceri campane. Ci sono posti liberi nell’articolazione psichiatrica di Sant’Angelo dei Lombardi, nell’Avellinese, ma inutilizzati. C’è poca assistenza psichiatrica (tecnici della riabilitazione e psicologi), non ci sono posti liberi nelle due residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) della Campania di San Nicola Baronia e Calvi Risorta, rispettivamente nelle province di Avellino e Caserta”. “Bene ha fatto il Consiglio regionale della Campania - ha concluso Samuele Ciambriello - ad approvare, lo scorso 3 di maggio, una mozione con la quale invita la Giunta regionale a istituire un’altra Rems in Campania con 20 posti”. Sulmona (Aq). Concessioni per emergenza Covid revocate: detenuti in sciopero della fame di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 11 maggio 2022 Scoppia la rivolta nel penitenziario di piazzale Vittime del Dovere. Circa un centinaio di detenuti hanno intrapreso lo sciopero della fame per la cessazione delle concessioni che erano state accordate durante lo stato di emergenza per Covid. I detenuti, durante l’emergenza pandemica, avevano la possibilità di telefonare ai propri congiunti più assiduamente, anche con videochiamate, per verificare il loro stato di salute e mantenere un contatto pressoché costante in un momento storico non proprio roseo. La cessazione formale dello stato di emergenza ha ripristinato di fatto la possibilità di contattare i congiunti per sole due volte al mese. Si è quindi ingenerato un clima di malcontento tra la popolazione carceraria che è esploso con la protesta in atto. Decine di detenuti si trovano in sciopero della fame e la situazione diventa difficile da gestire vista la carenza di organico tra la polizia penitenziaria. Gli agenti infatti continuano a fare i conti con il Covid e con altre incombenze, fermo restando i corsi di formazione. Ne consegue che la rilevazione dei parametri a ciascun detenuto in sciopero della fame diventa un’operazione complessa che configura una “situazione esplosiva” per dirla con le parole delle organizzazioni sindacali che nelle ultime ore stanno facendo fronte comune al riguardo. Sembrerebbe che la protesta posta in essere dai detenuti potrebbe portare a riaprire un dialogo con i vertici. Resta urgente la necessità di implementare l’organico dei poliziotti penitenziari, in vista dell’imminente apertura del nuovo padiglione. Milano. Detenuto suicida in Questura: assolti due agenti accusati di omicidio colposo di Nicola Palma Il Giorno, 11 maggio 2022 Sono stati assolti a Milano due agenti di polizia imputati per omicidio colposo, in quanto, secondo l’ipotesi accusatoria, non avrebbero prestato sufficiente attenzione agli appositi schermi di videosorveglianza installati per controllare le camere di sicurezza in Questura e, quindi, non si sarebbero accorti del suicidio di un algerino di 43 anni che il 23 agosto del 2020 si era impiccato alle sbarre di una delle quattro celle, mentre era in attesa di identificazione. A deciderlo è stato il Gup Anna Magelli che ha scagionato i due imputati con la formula perché il fatto non costituisce reato. Stamane davanti al giudice si è tenuta inizialmente l’udienza preliminare. Dopo l’esclusione, dovuta a una questione formale, dei parenti della vittima come parti civili, i due poliziotti, un agente semplice assistito dall’avvocato Giuseppe Barillà, e un capo servizio, difeso dall’avvocato Riccardo Truppo, hanno reso l’interrogatorio. In circa quattro ore hanno ripercorso passo a passo il comportamento tenuto, descrivendo nei dettagli quanto accaduto al punto da convincere il Pm Carlo Scalas a chiedere il non luogo a procedere ritenendo avessero operato in modo adeguato. A questo punto le difese hanno chiesto il processo in abbreviato e dopo una breve discussione delle parti, è arrivata la sentenza di assoluzione. Lo scorso anno la Procura aveva chiesto l’archiviazione per i due. Ma il gip Roberto Crepaldi, valutando che quel giorno avessero occupato “la maggior parte del tempo utilizzando ciascuno il proprio telefono cellulare o conversando” e non prestando attenzione sufficiente all’uomo che si trovava in camera di sicurezza e che poi si è tolto la vita, aveva ordinato l’imputazione coatta. “Massima soddisfazione per l’assoluzione - ha commentato l’avvocato Truppo - in quanto questa vicenda per due anni ha tenuto i due agenti in stato di apprensione e ha pesato non solo sulla loro onorabilità ma anche sull’immagine della polizia di stato ora riabilitata dalla sentenza di oggi”. Oristano. Carceri come scatole chiuse, lontane dalle città. “L’isolamento toglie speranza” oristanonoi.it, 11 maggio 2022 Critiche e proposte in una conferenza ieri a Oristano. Carcere e società sono oggi molto distanti e l’isolamento toglie spazio alla speranza in un futuro diverso per i detenuti. Se ne è parlato ieri pomeriggio nel corso di una conferenza promossa dalla Camera penale di Oristano e dall’associazione Nessuno tocchi Caino. L’incontro, ospitato nelle sale del Museo Diocesano Arborense era è stato preceduto, in mattinata, da una visita alla casa di reclusione di Massama alla quale ha partecipato anche l’ex parlamentare Rita Bernardini. “La nostra è una società lontana e indifferente, assolutamente impreparata ad accogliere”, ha detto la presidente della Camera penale di Oristano, Rosaria Manconi, nell’introdurre la conferenza pomeridiana. “Negli ultimi anni le nuove carceri sono state collocate tutte all’esterno delle mura cittadine. Oggi la casa circondariale di Oristano è a Massama”, ha proseguito Manconi, “in una landa desolata, a segnare un confine spesso invalicabile tra la società e i detenuti. La pena deve tendere a ricostruire il legame sociale che si è interrotto, questo però non avviene”. In apertura anche l’intervento dell’arcivescovo di Oristano, Roberto Carboni. “L’uomo comune si domanda se la risposta del carcere debba essere solo punitiva oppure rieducativa”, ha sottolineato monsignor Carboni. “Il detenuto ha bisogno di trovare degli spazi per ritornare, riprendere, riprogettare”. “Purtroppo le strutture penitenziarie in Sardegna sono scatole chiuse”, il commento di Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. “Abbiamo tantissimi detenuti di alta sicurezza che in carcere non sono impegnati in alcun modo. La detenzione così non serve alla società”, ha detto l’esponente di Sdr, “serve invece alle imprese che hanno costruito quattro nuovi istituti penitenziari. Carceri che hanno trasformato sempre più l’isola in una colonia penale”. Immaginare una nuova idea di carcere è la strada tracciata dall’avvocato Sergio Locci. “Oggi c’è la necessità di una profonda revisione che deve interessare la società intera. La pena”, ha sottolineato il componente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Oristano, impegnato con responsabilità anche nel volontariato cattolico, “non deve isolare il detenuto e la società è chiamata a creare ponti”. Tra gli interventi anche quello del cappellano della casa di reclusione di Massama, don Maurizio Spanu, che ha ricordato l’importanza dei legami tra i detenuti e le famiglie. “L’incontro dei detenuti con i familiari va favorito”, ha detto il sacerdote, “e la comunità ecclesiale non può tirarsi indietro”. Si è invece soffermata sulla mancanza di educatori e di un reale progetto di reinserimento dei detenuti nella società la presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini. Un’altra prospettiva è stata fornita dalla responsabile dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, Carla Barontini. “Dall’emanazione della legge 354 del 1975 passi in avanti ne sono stati fatti tanti”, ha detto Bernardini: “da una giustizia retributiva si va sempre più verso una giustizia riparativa. E con la recente riforma Cartabia si dà una norma alla giustizia riparativa”. Ma la strada è ancora lunga: “Tanti servizi continuano a essere sguarniti perché non c’è personale e sono numerosi i pensionamenti in vista. Senza personale con le giuste competenze”, ha detto Bernardini, “non si può lavorare bene”. “Carcere e Sardegna abbracciano il macro-concetto di isolamento”, ha dichiarato il garante dei detenuti di Oristano, Paolo Mocci, “per questa ragione ritengo che il carcere di alta sicurezza nella nostra isola sia una forzatura. Nelle strutture carcerarie, inoltre, manca personale. La Sardegna è stata abbandonata a se stessa”. Infine è intervenuta la tesoriera di Nessuno tocchi Caino, Elisabetta Zamparutti. “Il carcere è un istituto prevalentemente preposto a far soffrire i detenuti”, ha detto. “È necessario unire carcere e società e abbattere i pregiudizi. La giustizia deve saper riconciliare e riparare”. Cosenza. Un convegno sulla salute dei detenuti per la Giornata internazionale dell’infermiere cosenzachannel.it, 11 maggio 2022 All’incontro, che si terrà domani al carcere di Paola, parteciperà anche il presidente della Regione Roberto Occhiuto. Per la Giornata internazionale dell’infermiere l’Opi di Cosenza ha voluto organizzare un convegno dal titolo: “Salute in carcere: aspetti giuridici e aspetti sanitari. Confrontarsi per comprendere”. Appuntamento domani (12 maggio) alle 9,30 alla casa circondariale di Paola. Atteso, anche, l’intervento del governatore Roberto Occhiuto. “Il paziente detenuto è un paziente spesso con numerose comorbidità, tra le quali le patologie infettive la dipendenza e la patologia psichiatrica sono predominanti”, spiega il presidente dell’Ordine Fausto Sposato. “La gestione sanitaria è molto delicata e articolata: sono richieste infatti capacità di relazione con il paziente, il personale sanitario degli altri reparti ed il personale di polizia penitenziaria. La nostra unità operativa deve lavorare sia sul piano tecnico che dell’accoglienza, attraverso l’acquisizione e l’applicazione delle migliori evidenze scientifiche, il miglioramento delle relazioni fondato su sincerità ed empatia tra tutti i soggetti coinvolti”, si legge nel razionale stilato insieme all’Asp di Cosenza e al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Tra gli obiettivi del nostro incontro formativo vi è quello di far conoscere la prevalenza delle varie patologie ed in particolare delle infezioni virali, approfondendo insieme ad esperti le evidenze riconosciute ufficialmente dalla comunità scientifica. Verranno anche illustrate azioni volte a diventare buone prassi per migliorare la qualità della vita del paziente detenuto durante e dopo il ricovero in Medicina protetta. Cercare di dare una risposta globale alla persona detenuta malata è di fondamentale importanza nell’ottica di incrementare la compliance del paziente e rafforzare arricchendo di contenuti il “patto terapeutico”, presupposto ineludibile per qualsiasi progetto di cura”, fanno sapere i partecipanti. Diversi i relatori, molto articolato il programma scientifico. L’evento formativo è l’ennesima occasione, non solo per l’Opi di Cosenza, per porre al centro delle attenzioni tematiche attualissime e molto avvertite da cittadini, pazienti e addetti ai lavori. Brindisi. Nel carcere la Giornata della memoria delle vittime innocenti di mafia pugliesi brindisireport.it, 11 maggio 2022 L’iniziativa è stata promossa dalla direzione della casa circondariale di Brindisi, dalla scuola di formazione Antonino Caponnetto, da dirigente e insegnanti del Cpia di Brindisi e dall’ufficio provinciale del garante dei diritti delle persone prive di libertà. Nella cappella della casa circondariale di Brindisi si è svolta, lunedì 9 maggio, la XXVII giornata della memoria e dell’impegno delle vittime innocenti di mafia pugliesi. L’iniziativa, programmata per il 21 marzo e rinviata causa Covid, è stata promossa dalla direzione della casa circondariale di Brindisi, dalla scuola di formazione Antonino Caponnetto, da dirigente e insegnanti del Cpia di Brindisi e dall’ufficio provinciale del garante dei diritti delle persone prive di libertà. Nel corso della mattinata sono stati presentati i lavori realizzati da ospiti della casa circondariale, che frequentano i corsi di studio presenti nella stessa, coordinati delle loro insegnanti e precisamente: l’albero della vita, disegnato su un grande foglio i cui rami erano rappresentati dalle impronte delle mani che reggevano termini valoriali come legalità, giustizia, dignità, onestà; produzione di un video in cui, sullo sfondo della città di Bari, è stata narrata a viva voce la storia di due ragazzi baresi, Michele e Gaetano. Il titolo del video, non a caso, è “Gaetano è amico mio”; lettura di un brano ideato da una persona priva di libertà sulla guerra in Ucraina; lettura di riflessioni personali di una persona priva di libertà sul giorno della memoria; lettura dei nomi delle vittime innocenti di mafia pugliesi. In un’atmosfera densa di commozione ed emozione, sono intervenute le autorità istituzionali presenti: la direttrice della casa circondariale di Brindisi, Valentina Meo Evoli; il prefetto di Brindisi, Carolina Bellantoni; il procuratore di Brindisi, Antonio De Donno; in rappresentanza del tribunale di sorveglianza di Lecce, Il magistrato Colucci; il comandante della polizia penitenziaria della casa circondariale di Brindisi, Benvenuto Greco; la preside Carlino, del Cpia di Brindisi. Erano inoltre presenti: Isabella Lettori, assessore ai Servizi Sociali del Comune di Brindisi; la rappresentante della Provincia di Brindisi; la dirigente della Provincia, Fernanda Prete; la vice presidente della scuola di formazione Antonino Caponnetto, Raffaella Argentieri; il professor Nando Benigno, artefice e fautore della giornata, insieme ai responsabili della casa circondariale, alla preside e ai docenti. Tutti gli interventi hanno sottolineato la bravura e il pieno coinvolgimento degli studenti-detenuti nei lavori sviluppati e interpretati. A fine mattinata una gioia contagiosa ha pervaso la cappella. Un chiaro segnale della volontà di cambiamento. Paola (Cs). Quando il carcere reintegra i detenuti coltivano solidarietà di Francesco Frangella marsilinotizie.it, 11 maggio 2022 “Riabilitazione” forse non è un termine appropriato per descrivere quanto è stato presentato ieri a Badia, antico complesso nella periferia meridionale di Paola, dove è stata messa in atto un’ulteriore iniziativa volta ad accorciare le distanze tra chi è soggetto ad un regime di detenzione e la società civile. Non è il termine appropriato perché le “abilità” per poter contribuire alla vita comune, i detenuti impiegati nel Progetto, hanno dimostrato di non averle mai perdute, proponendosi come volontari per una serie di lavori di cui la coltivazione dei terreni e la creazione di percorsi interni all’antico borgo di Badia, sono solo l’apice. Infatti, per un numero di dieci unità, le persone recluse presso la struttura amministrata dalla dottoressa Emilia Boccagna, stanno contribuendo alla pulizia e alla manutenzione di varie zone di Paola, tra le quali - oltre al sito religioso e monumentale di Deuda - anche il Santuario Regionale di San Francesco e il litorale, con la spiaggia come priorità. Pertanto, più che di “riabilitazione”, sarebbe opportuno parlare di “reintegrazione”, grado già più avanzato che si colloca ad un passo dal “reinserimento”, dove poi - almeno sul piano sociale - dovrebbe sfumare ogni traccia dell’errore commesso. Consapevoli dell’opportunità offerta dalla sinergia tra istituzioni e associazioni (su tutte il Centro Sociale “P.G. Frassati” e l’Antico “Borgo di Badia”), i detenuti della Casa Circondariale di Paola stanno partecipando con entusiasmo a varie progettualità, dimostrando il desiderio e la voglia di contribuire all’interesse collettivo, prendendosi anche cura delle categorie svantaggiate, cui sarà riservata gran parte del raccolto realizzato presso i campi coltivati a Badia. Tra un percorso “aromatico” e una visita alle arnie per l’allevamento delle api (da cui è già stato ricavato il miele), tra un assaggio di fave a “centimetro zero” e una chiacchiera con chi ha sudato per realizzare l’opera, la mattinata trascorsa ieri a Badia ha svelato l’efficacia della sinergia in atto tra istituzioni, enti locali, associazioni e, soprattutto, persone. Campobasso. “Sguardi sul carcere”, venerdì evento di Casa del Popolo officinadeigiornalisti.com, 11 maggio 2022 “Riteniamo che sia importante focalizzare l’attenzione sui temi del carcere, del funzionamento delle istituzioni, del controllo sociale e della repressione”. Venerdì 13 maggio alle ore 18 a Casa del Popolo a Campobasso, incontro per conoscere più da vicino le problematiche legate alla situazione degli istituti di pena, alla condizione delle persone detenute, alle violenze e alla negazione di alcuni diritti fondamentali nonché della dignità che coinvolge in primis le persone detenute nel loro rapporto con altre categorie (direzioni, operatori, agenti) dell’istituzione carceraria. “Riteniamo che sia importante focalizzare l’attenzione sui temi del carcere, del funzionamento delle istituzioni, del controllo sociale e della repressione, non solo per i soggetti direttamente coinvolti, ma per la società in cui viviamo nel suo insieme e nella sua complessità, soprattutto per chi ambisce a non subirne passivamente i meccanismi ma ad agire, individualmente e collettivamente, per la sua trasformazione”. Al dibattito parteciperanno: Luigi Romano Presidente di Antigone Campania e autore del libro “La settimana santa. Potere e violenze nelle carceri Italiane”, Leontina Lanciano, Garante regionale dei diritti della persona e Vincenzo Boncristiano del Direttivo di Antigone Molise. Mantova. L’orto dei detenuti apre eccezionalmente le porte al pubblico per “Interno Verde” mincioedintorni.com, 11 maggio 2022 L’orto più segreto di Mantova, quello coltivato dai detenuti che abitano il carcere di via Carlo Poma, aprirà eccezionalmente le porte al pubblico di Interno Verde. Il festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città - che quest’anno si terrà sabato 28 e domenica 29 maggio - inaugura la quarta edizione con un evento decisamente inusuale. L’evento è organizzato grazie alla preziosa collaborazione della casa circondariale e della polizia penitenziaria: una visita guidata che permetterà ai mantovani di scoprire la natura che cresce all’ombra delle torrette di guardia e del filo spinato, curata e coltivata grazie a un progetto educativo di notevole impatto e significato, intitolato ironicamente Orto al Fresco. “Interno Verde già dalla prima edizione ha cercato di favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, lo sviluppo di una socialità spontanea e vicina, in un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione”, racconta Licia Vignotto, coordinatrice della manifestazione. “In un momento in cui purtroppo gli istituti penitenziari italiani vengono citate dai mass media soprattutto per le criticità di cui si fanno carico, l’apertura straordinaria dell’orto di via Carlo Poma crediamo rappresenti non solo un’importante occasione formativa per le persone che avranno occasione di partecipare, tanto per i detenuti quanto per i visitatori accolti, ma anche un importante segnale per la comunità”. La coltivazione è stata avviata lo scorso anno, parallelamente sono stati realizzati dei corsi di formazione finanziati dalla Regione Lombardia, coordinati dal Consorzio Solco e dalla cooperativa Hortus. Affianca e accompagna l’attività l’esperienza di Bonini Garden. “Il lavoro presso l’orto offre ai detenuti un setting privilegiato rispetto al lavoro interno perché diversa è per loro l’esperienza sensoriale”, spiega il direttore, Metella Romana Pasquini Peruzzi. “Vivere, sebbene per solo alcune ore della giornata, in una condizione di maggiore libertà e respiro lavorando la terra e vedendo il frutto del proprio lavoro ha anche un importante valore sotto l’aspetto terapeutico e risocializzante, fermo restando che attraverso il lavoro all’orto i ragazzi hanno la possibilità di acquisire competenze spendibili all’esterno, grazie anche ai corsi di formazione”. La visita - disponibile solo su prenotazione, per un gruppo di massimo 20 persone - si terrà sia sabato 28 che domenica 29 maggio alle 10:00. All’interno della struttura i responsabili del settore educativo, assieme ad alcuni detenuti impegnati volontariamente nella coltivazione di frutta e verdura, spiegheranno la nascita e lo sviluppo del progetto. Per partecipare è necessario essere maggiorenni, non avere familiari detenuti, non avere carichi penali pendenti. La prenotazione deve essere inviata tramite mail entro mercoledì 18 maggio all’indirizzo info@internoverde.it, allegando la scansione del proprio documento di identità. Per maggiori informazioni: 3391524410. Interno Verde è patrocinato dal Comune e dalla Provincia di Mantova, dall’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio, dall’Associazione Nazionale Pubblici Giardini, dall’Associazione Parchi e Giardini d’Italia. Roma. Carceri: il bisogno di prossimità di Michela Altoviti romasette.it, 11 maggio 2022 Anche gli istituti di reclusioni coinvolti nel cammino sinodale. Il coordinatore dei cappellani di Rebibbia don Fibbi: “I detenuti partecipanti disponibili nel parlare della loro esperienza di Chiesa”. Il cammino sinodale tocca e coinvolge anche le carceri, dove gli operatori della pastorale penitenziaria hanno svolto in questi mesi un percorso di particolare ascolto della realtà in cui operano. “Conviene sottolineare che l’attività dei cappellani, delle suore e dei volontari che vivono le strutture carcerarie, dove è visibilmente presente la sofferenza quanto meno per la mancanza della libertà e della possibilità di contatto con i familiari e le figure del mondo esterno, è sempre primariamente un’attività di ascolto da fare con il cuore perché le persone hanno bisogno di esprimersi - spiega don Marco Fibbi, coordinatore dei 7 cappellani del carcere di Rebibbia -. Tuttavia il cammino sinodale ha motivato i diversi operatori pastorali a una sollecitazione specifica di quelle persone che potevano risultare più disponibili al dialogo e allo scambio sui temi proposti dal Sinodo”. Da qui il coinvolgimento “di quanti partecipano settimanalmente agli incontri di catechesi che si svolgono nei diversi reparti della struttura di detenzione - spiega ancora il sacerdote, che opera nel nuovo complesso della casa circondariale -. Si tratta di piccoli gruppi, se riferiti alla totalità del carcere e di quanti partecipano con una certa assiduità alla celebrazione eucaristica, ma si è scelto di coinvolgerli per garantire una continuità e una sistematicità all’attività di ascolto”. Don Fibbi riscontra come durante gli incontri settimanali “i partecipanti si sono mostrati disponibili e aperti nel rispondere alla domanda relativa alla loro esperienza di Chiesa, testimoniando vissuti diversi ma allo stesso tempo ricchi”. Un primo elemento comune emerso è “un’esperienza di Chiesa e di fede tramandata da figure parentali - sono ancora le parole del cappellano -, che riguardano soprattutto l’età dell’infanzia e dell’adolescenza, a cui ha fatto seguito un periodo di graduale allontanamento dalla pratica religiosa”. Nonostante la frequentazione giovanile, “è emersa una sostanziale difficoltà a comprendere le espressioni tipiche della pratica religiosa - continua Fibbi -, tanto da chiedere un cambiamento di linguaggio perché sia i battezzati possano riscoprire il valore di essere cristiani, sia i non battezzati possano accedere con acceso desiderio al nuovo cammino offerto”. A emergere è stata poi la constatazione che “la sofferenza vissuta nel carcere permette loro di fare esperienza di Dio e di sperimentare una solidarietà nella difficoltà - aggiunge il sacerdote. Ancora, il valore del sacramento della riconciliazione, che permette di avviare il processo per cambiare lo sguardo su se stessi e vedersi con gli occhi di Dio e non con quelli della condanna”. Anche don Andrea Carosella, da luglio cappellano nel carcere femminile di Rebibbia, constata come il cammino sinodale avviato negli incontri di catechesi con le detenute “è stato accolto con piacere per il fatto di essere state coinvolte in questo processo e perché è stata data importanza dalla Chiesa e dal Papa alla loro voce”. Il sacerdote riflette su come “per noi che ci chiediamo come lo Spirito Santo in questo tempo in particolare ci parla è evidente la gioia di chi sente che può leggere la propria vita alla luce della misericordia di Dio” e che “la Parola è detta e letta anche per loro, per offrire una prospettiva di vita fatta di nuova fiducia”. Chiara D’Onofrio, membro dell’équipe sinodale e volontaria nella sezione femminile del carcere di Rebibbia dal 2018, auspica che “il processo che è stato avviato con il Sinodo possa diventare uno stile di ascolto mirato dei detenuti”, constatando anche che “l’input fornito dalle attività del cammino sinodale ha permesso a noi che operiamo nelle carceri di focalizzarci sul camminare insieme”. La volontaria, consacrata dell’Ordo Virginum, racconta che “in questo tempo particolare abbiamo svolto con le ragazze un percorso sulle Beatitudini, che loro hanno affrontato con grande serietà”. Quello che maggiormente è emerso, “sia in chiave positiva che negativa - sono ancora le parole di D’Onofrio - è il bisogno manifestato di fare esperienza di relazioni autentiche e di prossimità da parte della Chiesa, talvolta percepita soltanto come un’istituzione separata e lontana”. Ecco allora che “c’è forte il bisogno e il desiderio di capire cosa sia davvero la Chiesa, anche rispetto al rapporto personale che è possibile instaurare con Dio - continua la volontaria - che molte delle detenute riscoprono in carcere nel fermarsi a riflettere con loro stesse e perché messe di fronte alle proprie difficoltà, quando si riaccende quella luce che ci abita”. Infine D’Onofrio riflette su come “ascoltare la voce delle detenute è stato per noi mettersi in ascolto anche della società”, perché “a interpellarci è il dopo e quello che vivranno e incontreranno una volta uscite”. Reggio Emilia. Il veliero dei detenuti donato a Radio Vaticana di Marco Belli gnewsonline.it, 11 maggio 2022 Nove detenuti della Casa circondariale di Reggio Emilia hanno realizzato un veliero in miniatura, utilizzando soltanto materiali riciclati. Poi, nei giorni scorsi, hanno donato il modellino a Davide Dionisi, giornalista, ideatore e conduttore della trasmissione radiofonica “I Cellanti”, in onda la domenica pomeriggio sulle frequenze di Radio Vaticana. Gli autori del manufatto, in carcere, seguono il laboratorio artistico Liberi Art, gestito dalla volontaria Anna Protopapa. Per la costruzione del veliero ci sono voluti circa tre mesi di lavoro. La piccola imbarcazione da scrivania è stata costruita utilizzando stuzzicadenti e altri materiali riciclati, che sono stati poi lavorati e modellati con il solo utilizzo di tagliaunghie e carta vetrata. Le vele dei tre alberi, invece, sono state ricavate dal lembo di un lenzuolo bianco. Sulla vela dell’albero trinchetto, infine, compare una dedica per Dionisi: sul bianco sono stati disegnati cuffie e microfono e sono stati scritti il nome del programma radiofonico e del giornalista. L’opera, iniziata da un detenuto ora in affidamento, è stata successivamente completata dagli altri compagni del laboratorio artistico. Il messaggio sotteso alla scelta di realizzare un veliero è l’auspicio che possa soffiare il vento in poppa per la trasmissione che da anni dà voce al mondo carcerario. “I Cellanti” è un programma che punta a valorizzare e diffondere la conoscenza delle iniziative messe in atto nelle case circondariali del Paese, dei percorsi rieducativi di chi vive recluso e dell’impegno del personale, nel tentativo di superare le sbarre dei pregiudizi e dell’indifferenza. Napoli. Stabat Mater, i detenuti diventano attori per raccontare il dolore più struggente di Viviana Lanza Il Riformista, 11 maggio 2022 Il dramma Stabat Mater per raccontare il dolore più grande e lacerante di una madre, il carcere come luogo per rappresentarlo, un gruppo di detenuti per dargli voce e corpo. Al Teatro Stabile di Napoli è stato presentato il film Stabat mater, un corto girato in carcere dal regista fiorentino Giuseppe Tesi e realizzato da Electra teatro. Il dramma degli affetti, la speranza di un riscatto personale, l’isolamento. E poi uomini detenuti e madri che non smettono di essere tali. Il direttore del carcere minorile di Nisida Gianluca Guida, intervenendo al dibattito con il regista Tesi, a cui hanno partecipato anche il garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia e l’artista Valentina Stella, ha sottolineato l’importanza e il ruolo della figura materna nelle storie dei tanti giovanissimi che arrivano nella struttura penitenziaria minorile. Non solo. Quella delle madri, e più in generale delle donne compagne, sorelle, mamme di chi si trova in carcere, è una figura di cui non si parla mai. Eppure ha un peso nella vita di chi vive dietro le sbarre, privato degli affetti, isolato in contesti detentivi spesso molto difficili. Il lavoro che Tesi ha fatto con un gruppo di detenuti del carcere di Pistoia ha consentito di mettere a confronto un sentimento primitivo e assoluto, come l’affetto materno, con la paura e il dramma di chi vive nella claustrofobia di un carcere. Nel mezzo scorrono le testimonianze, vere e vive, dei protagonisti, dei detenuti quindi, che indirettamente partecipano a questa occasione di riscatto. Il corto non nasce con una dichiarata finalità di riabilitazione dei reclusi, è quasi per caso che il regista arriva nel mondo penitenziario. “Con il timore che coglie l’uomo di fronte alla sua finitezza e fragilità - spiega Tesi - con la certezza che l’ultima risposta salvifica è rintracciabile nell’afflato materno, mi sono spinto là dove il dolore è vero, reale”. Il carcere. “Quello che non cambia mai, anzi peggiora”, dice Ioia puntando l’attenzione su un tema da tempo dibattuto: lo stato delle carceri nel nostro Paese. Il corto è stato mostrato anche ai giovanissimi detenuti del carcere di Nisida, ragazzi tra i 15 e i 20 anni, figli della Napoli più difficile e delle periferie buie su cui i riflettori dell’interesse pubblico si accendono solo quando accade un fatto di cronaca eclatante. “Il destino non ti avverte, ma se lo sai cogliere e ascoltare ti ricambia con gratitudine”, conclude Tesi. Il carcere tra la privazione di tutto e l’espropriazione di sé stessi di Cosima Buccoliero* Il Domani, 11 maggio 2022 Il carcere è soprattutto privazione, non è solo perdita della libertà personale: una duratura condizione di privazione totale. In carcere per qualunque situazione, esigenza, bisogno, si deve chiedere il permesso a qualcuno. Tutto quello che qui si muove, si inventa, si immagina è regolato dalla pratica della scrittura su svariate tipologie di moduli. Ho bisogno di una sveglia diventa: “Alla cortese attenzione ecc. avrei bisogno di una sveglia ecc.”. Stesura, rilettura. Firma. Il carcere è anche un luogo di espropriazione. Se io ho mal di testa apro un cassetto, frugo, prendo una scatola di analgesici ed è fatta. Se un detenuto ha mal di testa, la gestione del suo dolore diventa collettiva. Cosima Buccoliero è l’autrice del libro: “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto”. Quando si pensa alla condizione dei detenuti io credo che non si consideri mai abbastanza il sostantivo “privazione”. Il carcere è soprattutto privazione, non è solo perdita della libertà personale: una duratura condizione di privazione totale. Sfugge la percezione reale di come sia vivere senza poter telefonare quando si vuole, senza poter mangiare quello che si vuole, senza poter vedere le persone amate quando si vuole, persino senza potere assumere una compressa per il mal di testa, quando si vuole. In carcere per qualunque situazione, esigenza, bisogno, si deve chiedere il permesso a qualcuno. Allora, si provi a pensare che cosa significa trascorrere anche solo un anno, o anche solo un mese, anche solo un giorno direi, dovendo dipendere da altre persone, che devono valutare, l’esigenza effettiva della richiesta. E quindi valutare se autorizzare in positivo o in negativo. Allo stesso modo si provi a immaginare come può essere quando non si è del tutto padroni della propria esistenza, della propria vita, e si è consegnati all’istituzione carcere, un’istituzione che ha molte regole rigide, molto burocratizzata, molto autoreferenziale, con prassi anche piuttosto paradossali per chi le osserva da fuori. La supremazia della carta - Durante le mie giornate ordinarie, quelle cioè in cui tutto scorre senza una emergenza, senza un pericolo o un ostacolo dell’ultima ora, una quota del mio lavoro è mettere ordine nel serpentone di carte che si muove tutti i santi giorni, a Bollate, a Opera, al Beccaria, come in tutte le carceri italiane. Il carcere è uno di quei pochi luoghi in cui la supremazia della carta resiste. Anzi è la carta che segna quasi il ritmo della vita interna al carcere. Tutto quello che qui si muove, si inventa, si immagina è regolato dalla pratica della scrittura su svariate tipologie di moduli. A pensarci è un costante esercizio all’incasellamento della vita dentro procedure. O meglio, la vita del detenuto è un costante esercizio all’incasellamento, alla schematizzazione. Svegliarsi, mangiare, vestirsi, pensare, leggere, cucinare, dialogare, persino amare o scegliere chi amare. Richiedere una sveglia - Svegliarsi, ho bisogno di una sveglia diventa: “Alla cortese attenzione ecc. avrei bisogno di una sveglia ecc.”. Stesura, rilettura. Firma. Consegna a un operatore. E qui parte il serpentone. Approdo, quasi finale: la mia scrivania. Chiarisco: quasi finale. Perché dopo l’approdo scattano la mia lettura, la mia approvazione, che però dipende da almeno tre verifiche: che il modello di sveglia richiesta sia compatibile con il modello di sveglia il cui uso è stato autorizzato, che questa sveglia sia disponibile presso lo spaccio del carcere e che sul conto del detenuto ci siano i soldi necessari all’acquisto (sì, i detenuti hanno la possibilità di tenere un conto presso l’amministrazione del carcere con poche migliaia di euro). Ipotesi A: va tutto liscio, c’è la sveglia, ci sono i soldi sul conto. Nel tempo ragionevole di qualche giorno il signor Beta potrà avere la sua sveglia. Ipotesi B: non va tutto liscio. Bisogna chiedere all’esterno la sveglia, oppure mancano i soldi sul conto. In questo caso i giorni diventano settimane, e le settimane in qualche volta anche mesi. E di questo tempo dilatato nessuno ha una responsabilità, perché al modulo X deve per forza seguire il modulo Y e poi quello Z. Un giorno il signor Beta avrà una sveglia in cella e sarà un’occasione, un evento. Perché accade in questo modo che l’ordinario diventi una occasione. Io leggo, verifico e autorizzo. E non mi domando (più) perché l’acquisto di una sveglia necessiti dell’autorizzazione della direttrice. La cura di sé - Vestirsi: ... ho bisogno di una cintura per i miei pantaloni da lavoro. “Gentilissima sono qui a chiederle…” Stesura della domanda anzi della “domandina”, consegna. Solito giro. Autorizzazione. Quesito: se i pantaloni da lavoro prevedono una cintura, perché non consegnare subito una cintura? Oppure: ... “ho bisogno di un paio di scarpe e non ho trovato niente della mia misura tra gli indumenti della Sesta Opera. Allego foto del modello scelto”. (La Sesta Opera San Fedele è una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria operanti in Italia). Richiesta e foto sono sul mio tavolo. Firmo, autorizzo. Verifica della disponibilità sul conto del detenuto, inoltro richiesta allo spaccio, che provvederà all’acquisto. Tempo necessario? Dipende, da qualche giorno a qualche settimana. Cura di sé: ... ho bisogno di forbicine, quelle per bambini, distribuite, non sono sufficienti. “Egregio…”. Tutto come sopra, eccetto il fatto che nel concedere l’autorizzazione devo verificare il modello di forbicine più adatto, sicure come quelle di una nota marca di prodotti per bambini ma, diciamo così, più adeguate a uomini o donne adulti. Pomeriggio, tempo libero: ... vorrei ascoltare un po’ di musica. L’mp3 è fuori uso. “Alla gentile attenzione…”. Ci vorrà tempo; per oggi, per domani, per qualche giorno meglio trovarsi qualcos’altro da fare. Niente musica. Pomeriggio, è giorno di telefonata: “Vorrei cambiare il seguente numero con il seguente numero… Illustrissima dottoressa, la prego di autorizzare le chiamate a questo numero in sostituzione di…”. Così leggo ed entro nella vita di queste persone, e se nel mondo è tutto un parlare di privacy, qui sono io a decidere se autorizzare la telefonata alla signora X invece che alla signora Y. Che poi, anche a voler mantenere il distacco, vengono quasi spontanee domande tipo: ma chi sarà, non è la moglie? O anche: ma perché non vuole più parlare con tizio. Questo quando c’è da sorridere e non sempre è così, spesso è tutto un mettere le mani dentro dolori e fratture. Abissi, insomma. Sera, riposare, dormire: “Gentilissima torno a lei, perché mi trovo nella condizione di dover sollecitare una nuova visita. Le pillole che mi ha dato il dottore non bastano…”. Leggo e a mia volta inoltro: per questa richiesta posso fare poco. Dal 2009 infatti l’area sanitaria dei penitenziari è sotto la gestione del personale medico alle dipendenze delle aziende ospedaliere. Espropriazione - E a questo punto al sostantivo “privazione” se ne unisce un altro, altrettanto poco considerato, ovvero “espropriazione”. Di tutte le espropriazioni che riguardano i detenuti quella della gestione del proprio corpo è forse la più ingiusta. Se io ho mal di testa apro un cassetto, frugo, prendo una scatola di analgesici ed è fatta. Se un detenuto ha mal di testa, la gestione del suo dolore diventa collettiva. È una faccenda sua, ma anche dell’agente di turno, e poi mia, una catena fino ad arrivare al medico. Se io ho bisogno di un qualunque esame diagnostico in un tempo ragionevole posso essere sicura di essere visitata. Se un detenuto ha bisogno del medesimo esame il tempo ragionevole non esiste, anzi in qualche caso non esiste proprio il tempo. Il tempo si polverizza nelle carte, sminuzzato dalle procedure, dalla burocrazia. L’intimità del dolore è costantemente profanata dalla dipendenza da qualcun altro: dall’essere costantemente sotto l’occhio di tutti, i propri compagni di cella, o dall’essere derubricati a “domanda da autorizzare”. Sia che si viva la malattia cercando l’isolamento, sia che la si viva cercando l’attenzione, nessuna di queste dimensioni che fuori sono naturali dentro il carcere possono appartenere ai detenuti. L’equilibrio dipende da una pluralità di fattori che non sempre concorrono: una struttura adeguata, l’occhio attento di un operatore, l’occhio altrettanto attento di un agente, una buona relazione con gli altri detenuti, un’adeguata gestione di coloro che hanno una responsabilità come la mia. Se poi il dolore sta in quel luogo misterioso che è la mente, se prende la forma del disagio, l’espropriazione è ancora maggiore. *Dirigente penitenziario Assistenza a 3,5 milioni di anziani non autosufficienti: la vergogna d’Italia di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 11 maggio 2022 Ognuno di noi può augurarsi due cose: la prima è quella di attraversare l’esistenza e diventare anziani, la seconda di essere poi in grado di badarci da soli. E se non dovesse andare così, di poter essere assistiti dignitosamente. Oggi in Italia, secondo le ultime stime Istat, ci sono 3,8 milioni di anziani non autosufficienti, ovvero con gravi limitazioni motorie, sensoriali (vista/udito) o cognitive. Per loro è indispensabile essere affiancati e sostenuti in tutte le attività di base della vita quotidiana. Tra i 250 e i 300 mila sono ospiti nelle case di riposo (qui il Dataroom del novembre 2020), all’incirca 3,5 milioni vivono a casa. Come è organizzata l’assistenza - L’assistenza è organizzata in questo modo: a 1,4 milioni vengono dati 529,94 euro al mese di indennità di accompagnamento dall’Inps; a 131 mila i servizi sociali del Comune mandano qualcuno che li aiuta ad alzarsi, mangiare e vestirsi (Sad); e 858.722 hanno l’assistenza domiciliare integrata (Adi) che dipende dal servizio sanitario nazionale e consiste in un infermiere a casa per un massimo di 18 ore l’anno. Tutto questo dopo avere peregrinato per sportelli e commissioni diverse di Inps, Servizi sociali e Asl come denunciato nel Dataroom del maggio 2021. I finanziamenti del Pnrr - Pagare l’infermiere che viene a casa per 18 ore l’anno oggi costa 1.983 per ogni non autosufficiente. La spesa totale annua è di circa 1,7 miliardi di euro. Su pressione del Patto per la non autosufficienza che raggruppa 50 associazioni di anziani e delle loro famiglie, il governo Draghi (a differenza dal Conte II) ha destinato risorse del Pnrr. L’Ue darà 2,72 miliardi di euro per contribuire ad assistere a casa con l’Adi di qui al 2026 altri 806.970 non autosufficienti (il 10% degli over 65 contro il 6,2% di oggi). I finanziamenti Ue saranno scaglionati negli anni, e anche la crescita del numero di assistiti sarà graduale. Complessivamente i costi saranno coperti per il 52% dai fondi del Pnrr, il resto dai circa 500 milioni annui aggiuntivi che lo Stato metterà tramite il fondo sanitario nazionale (qui il documento). La necessità di una riforma strutturale - I nuovi investimenti, però, sono destinati a riprodurre su scala maggiore i problemi di oggi. Uno: non cambia nulla per l’indennità di accompagnamento che resta di 529,94 euro uguale per tutti, mentre l’assegno dovrebbe essere commisurato alla gravità dell’anziano, e dunque ai suoi bisogni misurati in ore quotidiane di assistenza necessaria (per esempio in Germania i più gravi ricevono 901 euro al mese). Due: gli interventi restano suddivisi tra l’Adi e i Servizi sociali dei Comuni. Tre: i fondi del Pnrr sono tarati su un’assistenza domiciliare integrata solo per 18 ore annue, in genere dopo le dimissioni dall’ospedale. Un’assistenza che di fatto non fornisce supporto a chi ha bisogno di cure domiciliari continuative sul lungo periodo. Quattro: i fondi del Pnrr valgono solo per il periodo 2022-2026, e poi cosa succede? È evidente che vanno calati in una riforma strutturale. Per avere un’idea: la media dei finanziamenti in Italia per un non autosufficiente è di 270 euro, la media europea è di 484. Come funziona in Europa - La riforma complessiva dell’assistenza agli anziani non autosufficienti è attesa in Italia dalla fine degli Anni ‘90. L’Austria l’ha fatta nel 1993, la Germania nel 1995, il Portogallo nel 1998, la Francia nel 2002, la Spagna nel 2006. Per tutti c’è uno sportello unico che valuta le necessità di chi non è autosufficiente, ed è esattamente quello che chiedono le 50 associazioni di malati e delle loro famiglie Ed è stata proprio la forza della loro disperazione che ha consentito di vincolare i 2,7 miliardi del Pnrr alla realizzazione della riforma (qui il documento dal Patto per la non autosufficienza per l’introduzione di un “Sistema nazionale assistenza anziani”). Troppe commissioni - Ma cosa è stato fatto fino ad ora dai governi Conte e Draghi? Ripercorriamo le tappe. 8 settembre 2020: un decreto del ministro della Salute Roberto Speranza istituisce la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana. A presiederla mons. Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia. “I mesi del Covid ­- dice Speranza - hanno fatto emergere la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di assistenza per la popolazione più anziana. La commissione aiuterà le istituzioni ad indagare il fenomeno e a proporre le necessarie ipotesi di riforma”. 26 maggio 2021: il ministero del Lavoro di Andrea Orlando incarica un gruppo di lavoro guidato da Livia Turco chiamato “Interventi sociali e politiche per la non autosufficienza”. 1 settembre 2021: mons. Paglia presenta al premier Draghi la “Carta dei Diritti degli Anziani e dei Doveri della Società” mai resa pubblica. 13 gennaio 2022: Palazzo Chigi istituisce una nuova commissione per le politiche in favore della popolazione anziana guidata ancora da mons. Paglia. 28 gennaio 2022: la commissione di Livia Turco presenta la bozza di un disegno di legge delega che affronta come richiesto solo i servizi sociali, non quelli sanitari né l’indennità di accompagnamento, quindi solo una parte del problema. Basta perdere tempo - Ricapitolando: in due anni e mezzo si sono succedute tre commissioni diverse, una indicata dal ministero della Salute, una dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, e una dalla Presidenza del Consiglio che ora tiene direttamente le fila di tutto. Finora nessun risultato concreto. Il Pnrr (a pagina 215-216) dice: “La riforma volta ad introdurre con provvedimento legislativo un sistema organico di interventi a favore degli anziani non autosufficienti sarà adottata entro la scadenza naturale della legislatura (primavera 2023)”. Nel documento attuativo: “Approvazione disegno di legge delega entro primavera 23 e promulgazione decreti delegati entro il primo semestre 24”. La nuova commissione guidata da Mons Paglia doveva presentare una relazione a Draghi sui lavori svolti entrometà aprile. Siamo a metà maggio e ancora non si vedono risultati. La tv, la libertà e la propaganda di Massimo Recalcati La Stampa, 11 maggio 2022 In una recente intervista la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz, denuncia il suo sconforto nel constatare come l’evidenza dei massacri di civili inermi perpetrati dall’esercito russo in Ucraina anziché sollevare un coro unanime di sdegno animi invece crescenti dubbi e perplessità. Gli stessi che gli storici definiti “negazionisti” adottarono per provare a sconfermare l’esistenza traumatica della Shoah. Un recente manifesto che riunisce noti e autorevoli giornalisti invita a verificare le prove, procedere con cautela nella lettura dei fatti, attenersi al reperimento degli indizi certi prima di formulare giudizi e attribuire responsabilità. Quanti sono stati veramente i bambini uccisi? Le donne stuprate? Gli uomini torturati? I civili ammazzati? Davvero sono morti a centinaia sotto il teatro di Mariupol? Chi lo dice? Dove sono le prove? E di quali misfatti si sono macchiate anche le truppe ucraine? Quale è la responsabilità del governo di Kiev nel rappresentare a sua volta in modo solo propagandistico la verità? Nei talk show televisivi, seguendo il fortunato schema collaudato nella pandemia, si invitano voci dissonanti, divergenti, fuori dal coro per preservare lo spirito democratico del dibattito. L’audience, come sanno bene i conduttori, in questi casi ci guadagna significativamente. Prima era il turno dei no vax con le loro variopinte casacche a difendere con vigore i diritti costituzionali calpestati dal nuovo regime total-sanitario che approfittando della pseudo-pandemia avrebbe ristretto in modo abusivo le nostre libertà individuali costringendo milioni di persone a sottoporsi ad una vaccinazione con un siero non ben indentificato, ma alla lunga, molto probabilmente, più letale del male che intendeva contrastare. Ora è il turno della guerra in Ucraina. Eppure la postura resta sempre la stessa: al centro è lo stesso pensiero anti-sistema e negazionista. Il populismo no vax si trasfigura così in quello dell’equidistanza se non dell’aperta difesa di Putin, vittima della maligna avidità dell’Occidente. Insomma, dovremmo fare attenzione alla contraffazione della verità che, attraverso la spudorata manipolazione dei media, la riduce a mera propaganda guerrafondaia che difende gli interessi americani, una Europa corrotta e incapace, l’elite finanziaria, l’oligarchia del governo Draghi, il tradimento del popolo, ecc. Di fatto sarebbero in corso due guerre distinte: quella che gli eserciti combattono sul campo e quella del conflitto delle interpretazioni. Seguendo il fortunato slogan secondo il quale la verità sarebbe la prima vittima di ogni guerra - i fatti sono resi irriconoscibili dalla propaganda - sarebbe solo grazie alla nobile figura del dubbio e della raccolta necessaria e paziente delle prove che si riuscirebbe a ricostruire una verità sfuggente. Ma l’effetto di questo atteggiamento è che l’evidenza viene annullata in una girandola di discorsi che finisce per annullare le responsabilità mescolandole in una sola indistinta poltiglia. Non a caso la nozione di “complessità” gioca un ruolo retorico cruciale in questa battaglia delle interpretazioni. Il rinvio del giudizio, la ricostruzione storica, l’equidistanza necessaria, l’attribuzione di eguali responsabilità dei due contendenti (Nato e Putin; Russia e Ucraina) getta, in realtà, sabbia negli occhi. Ma gli occhi di Edith Bruck, che hanno già visto l’orrore, non hanno affatto bisogno della nobile arte del dubbio, non servono a lei ulteriori prove per riconoscere un crimine di guerra. Se un regime, come quello russo, occulta sistematicamente da più di vent’anni la verità, reprime il dissenso, abolisce ogni forma di democrazia, uccide e avvelena gli oppositori, coltiva il sogno della Russia come baluardo nei confronti della democrazia, scatena una guerra nel cuore dell’Europa, bombarda le città, uccide i civili inermi, è davvero necessario sollevare dubbi, perplessità, interrogativi sul massacro di Bucha e agli altri che purtroppo ne seguiranno? Nel nome di quale concezione astratta della verità? Non sono sufficienti le testimonianze, le immagini, i racconti dal fronte? Ma, direbbero i preoccupati per la difesa ad oltranza della verità, alcuni dettagli non tornano, alcuni elementi restano contradittori, non tutto quadra, bisogna fare attenzione. “Anime belle del cazzo”, risponderebbe loro Pasolini, non vedete che qui c’è un popolo che lotta disperatamente per la difesa eroica della propria terra offesa da una invasione che non può avere giustificazioni? Nella sproporzione delle forze, nell’ingiustizia di un’aggressione subita, nella cieca violazione dell’intimità delle famiglie, nelle città rase al suolo, nell’atroce sofferenza collettiva, un popolo resiste. E voi credete davvero che nel nome della ricerca paziente della verità sia necessario mostrare la sfumatura, indicare dove le acque si mescolano, le colpe comuni, gli inganni e i torti reciproci, problematizzare, disquisire per scambiare i piani, mettendo sullo sfondo ciò che deve restare al centro e viceversa? È quello che accade talvolta anche nel caso delle separazioni conflittuali tra coppie. Esiste una verità comunemente riconosciuta: la responsabilità va sempre distribuita in parti eguali. Poi però ci sono anche situazioni cliniche dove la responsabilità è con evidenza di una sola delle due parti; e, questi casi, è solitamente la responsabilità di chi non è in grado di accettare la volontà di libertà dell’altra parte. È il maschilismo evidente della guerra di Putin: non tollerare la libertà di una terra che considera di sua proprietà. Non è correndo alle armi che salveremo il mondo di Luca Attanasio Il Domani, 11 maggio 2022 È una vetta senza precedenti che segnala una crescita dello 0,7 percento rispetto al 2020 e un incremento del 12 percento negli ultimi dieci anni. In molti casi le armi, esportate dai maggiori spenditori, prima vengono inviate per “aiuto”, come nei casi dell’Afghanistan, dell’Iraq o della stessa Ucraina, poi, una volta terminato il confronto militare, restano sul territorio e finiscono sempre in mani sbagliate. L’elenco degli esempi di ammassamenti di armi sfociati in drammatici fallimenti è talmente lungo da apparire imbarazzante. “La storia ha una sua importanza. Dimostra chiaramente che la corsa al riarmo in nome di una presunta deterrenza che garantirebbe equilibri e pace è una pura illusione”, dice Raul Caruso, professore ordinario di politica economica alla Cattolica di Milano e direttore di Peace Economics, Peace Science and Public Policy. “Ha fallito fin dai tempi di Atene e Sparta, di Alessandro Magno, nella Prima guerra mondiale tra Francia e Germania, e continua a fallire oggi”. Deve essere quindi l’ignoranza del passato, anche recente, a dettare le scelte dei leader mondiali, assieme - come ben espresso da Carlo Rovelli nell’intervista che apriva la serie di articoli dedicati a riarmo e disarmo - al peso degli interessi. Non si spiegherebbe altrimenti la fotografia che ci restituisce il report annuale appena pubblicato dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), secondo cui nel 2021 la spesa militare mondiale ha ampiamente superato la soglia dei due trilioni di dollari, raggiungendo il record storico di 2.113 miliardi. È una vetta senza precedenti che segnala una crescita dello 0,7 percento rispetto al 2020 e un incremento del 12 percento negli ultimi dieci anni. In altre parole, nell’anno del Covid-19, mentre il mondo intero chiudeva tutto il chiudibile e correva ai ripari con misure drastiche, mentre si dava fondo alle casse pubbliche per garantire vaccini, resilienza e ripresa, neanche in quel drammatico momento di crisi si è pensato all’opportunità, almeno per un anno, di fermare la corsa agli armamenti. Nello stesso periodo sono aumentate le guerre in varie parti del mondo, con alcune aree nelle quali si sono registrate recrudescenze (Sahel, regioni anglofone del Camerun, Yemen, Myanmar, solo per citarne alcune) o altre in cui addirittura sono scoppiati veri e propri conflitti, come nel caso della guerra che tuttora si combatte in Tigray e in altre regioni dell’Etiopia, esplosa nel novembre 2020. In molti casi le armi, esportate dai maggiori spenditori, prima vengono inviate per “aiuto”, come nei casi dell’Afghanistan, dell’Iraq o della stessa Ucraina, poi, una volta terminato il confronto militare, restano sul territorio e finiscono sempre in mani sbagliate. Anche questo fenomeno nel 2021 ha contribuito allo sconcertante risultato di portare a 70 i paesi nel mondo coinvolti a vari livelli in conflitti armati e a 874 il numero di milizie irregolari e gruppi terroristici (fonte: warsintheworld.com). Continuare a spendere - Nella classifica dei paesi protagonisti della corsa al riarmo, il primo posto spetta naturalmente agli Stati Uniti (334 milioni di abitanti) che, con gli 801 miliardi di dollari spesi nel 2021, rappresentano da soli il 38 per cento della spesa militare mondiale, quasi triplicando la Cina (popolazione di un miliardo e mezzo circa) che si attesta al secondo posto con il 14 per cento (293 miliardi di dollari). Nel complesso i 30 paesi della Nato spendono il 55 per cento del totale globale (1.162 miliardi). La top ten vede a seguire nell’ordine India, Gran Bretagna, Russia, Francia, Germania, Giappone, Arabia Saudita, Corea del Sud. Sùbito sotto l’Italia, undicesima nella classifica ma con una crescita tra le più significative rispetto al 2020: 4,6 percento (la media dell’Europa occidentale è del 3,1). Con le spese stimate dall’Osservatorio Mil€x per quest’anno, al termine del 2022 l’Italia registrerà un balzo in avanti quasi del 20 percento nei soli ultimi tre anni. Fa una certa impressione, poi, notare che nel Consiglio di sicurezza permanente dell’Onu siedano cinque stati tra i primi sei spenditori e che gli stessi siano tra i nove con arsenale nucleare. Il mondo, quindi, corre all’impazzata verso arsenali sempre più sofisticati e costosi e alloca quote ingenti e in regolare ascesa per l’industria bellica. Lasciando da parte l’aspetto etico, rimane una domanda basilare: perché lo fanno e con quale risultato? Se ogni anno si decide singolarmente e collettivamente di alzare l’asticella della military expenditure, evidentemente nell’anno precedente ci si è convinti che il metodo funziona. L’ostinazione di tanti stati nell’affermare la necessità di moltiplicare la spesa in armamenti dovrebbe avere per forza motivi solidi, connessi all’obiettivo di maggiore sicurezza e benessere diffuso. “E invece è il contrario - spiega Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal), Rete italiana per il disarmo (Rid) - e proprio la crisi ucraina dimostra che gli enormi apparati militari, in modo particolare quelli di cui si sono dotate Unione europea e Nato, sono inadeguati nella situazione di oggi anche nel caso in cui si voglia difendere un paese aggredito. L’Europa e l’occidente, con una forza militare spaventosa, si trovano nell’impossibilità di intervenire a meno di scatenare un conflitto mondiale. E allora, che senso ha continuare ad investire in apparati bellici? La sicurezza di un’area, dei singoli paesi e del mondo, non viene dagli apparati militari ma da un investimento nei meccanismi a disposizione delle istituzioni internazionali, che promuova, così come recita l’articolo 26 della Carta dell’Onu, “lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti”. Credo che il modello europeo debba essere difensivo e non pieno zeppo di cacciabombardieri, portaerei, missili. L’Europa non deve imbarcarsi in un ulteriore esercito che andrebbe ad aggiungersi a quelli nazionali e alla Nato, ma rivedere l’architettura della difesa puntando a un modello fuori dalla Nato di tipo difensivo e non proiettivo”. Parallelamente a quella agli armamenti c’è invece la corsa a giustificarli se non a celebrarli. Tra i motivi principali addotti dai teorici del riarmo c’è la deterrenza. Se tutti siamo armati fino ai denti, si favorisce un equilibrio globale che garantisce pace e stabilità. Una teoria, però, che non trova conforto nell’attualità, nella scienza e tantomeno nella storia. “La deterrenza - taglia corto Caruso - è un concetto sopravvalutato. Si fonda sulla paura dell’altro e sull’assunto che durante la Guerra fredda abbia funzionato. Peccato che in quel periodo i blocchi fossero due e che arsenali e obiettivi di entrambi fossero noti. Ora gli attori sono di più e, come ben spiegato dalla teoria dei giochi, la stabilità di una partita è molto diversa se i giocatori sono due o più di due. Ad esempio, se parliamo di nucleare, i giocatori sono nove, difficile mantenere un equilibrio. In altre parole la deterrenza vale se abbiamo informazioni condivise e non mi sembra che sia questo il caso al momento. La vera strategia di sicurezza non è fondata sull’uso della forza ma su collaborazione e integrazione: se in Europa non ci facciamo più la guerra da ormai più di 70 anni è perché siamo un sistema integrato di nazioni. Il problema è che Russia e Cina, per citare due esempi molto attuali, non ne fanno parte”. Se non bastassero questi argomenti a smontare la teoria del “mi riarmo per assicurarmi pace e sicurezza”, si potrebbe citare il dato che le spese militari sono cresciute del 90 per cento in due decenni e che i conflitti nel mondo, nello stesso periodo, sono aumentati e con sempre peggiori risultati in termini di allargamento delle aree di instabilità, di civili vittime o coinvolti in esodi di massa (82,5 milioni nel 2020 con trend in permanente salita, il 42,5 percento rappresentato da bambini, alcuni dei quali soli) e di conseguenze a lungo termine. Che l’equilibrio sia precario anche in zone che hanno goduto di pace per lunghissimi periodi, come l’Europa, ce lo dimostra la crisi ucraina. L’elenco degli esempi di ammassamenti di armi sfociati in drammatici fallimenti è talmente lungo da apparire imbarazzante. Basti citare il caso dell’Afghanistan, dove la sola America ha scaricato il 74 percento delle armi accumulate in quel paese (con punte, tra il 2016 e il 2020, del 90 percento) spendendo oltre 2 trilioni di dollari in vent’anni. Europa, svegliati e ritrova te stessa attraverso la politica di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 11 maggio 2022 L’intenzione dei padri fondatori fu la creazione di uno spazio di libertà in un mondo spaccato in due, quello della guerra fredda. Sull’eterna questione del rapporto tra l’etica e la politica, realisti e moralisti si scambiano accuse reciproche. La politica, per i realisti, è il regno dei fatti, non dei paternoster; per i moralisti, deve essere il regno dei valori, non della nuda forza. Non saprei aggiungere nulla a una polemica infinita come è questa, fatta di distinguo, di sfumature, di tentativi di conciliazione sempre falliti. C’è, però, una questione preliminare alla disputa tra realisti e idealisti: che cosa occorre perché di politica, propriamente, possa parlarsi. È una questione che viene prima dei contenuti, cioè di ciò che vogliamo intendere per “buona” o “cattiva” politica. Possiamo tradurre la domanda così: quando un soggetto che si autodefinisce “politico”, in realtà, non lo è? Molto semplice. Quando si lascia portare dagli eventi, come un bastoncino di legno trasportato dalla corrente e non opera per determinarli. Gli eventi, certo, condizionano la politica, ma non fino a dominarla. La politica non è il luogo in cui semplicemente “si galleggia”, si subisce la nuda forza dei fatti. Chi si fregia del titolo di “politico”, proponendosi come tale e cercando consenso mentre solo sa galleggiare, non è altro che un opportunista, forse un ipocrita, uno che, talora, sa parlare bene ma non merita d’essere creduto né, tantomeno, sostenuto. La ragione è semplice: il galleggiamento tra gli scogli riguarda solo lui, la sua sopravvivenza, la sua carriera. In sintesi: il politico è colui che si pone dei fini (buoni o cattivi, è altro discorso), è al servizio di essi, e, weberianamente, si prepara e agisce consapevolmente, competentemente e tenacemente per cercare di realizzarli. Tutto il resto è solo strumento: proporsi nel discorso pubblico, cercare e accrescere il consenso, promuovere alleanze, disarticolare gli avversari, eccetera, è utile e necessario, ma se è solo questo, non è politica, è politicantismo. Riconosciamo i politicanti dal loro trasformismo, dalla facilità con cui cambiano posizione, cioè dal fatto che, in realtà, non ne hanno alcuna se non quella di servire se stessi dove e come conviene. Il politico degno di questo nome, invece, è una “testa dura”; è pragmatico solo quanto ai mezzi. Nella sfera politica, cambiare opinione è possibile, qualche volta giusto e necessario, sempre, però, pagando un costo: il riconoscimento dell’errore passato e la disponibilità ad ammettere la possibilità di errori presenti e futuri. Onde, la testa dura del politico deve essere anche una testa umile, capace di riconoscere i suoi limiti e, se del caso, di ritirarsi dalla politica. Potremmo ragionare finché vogliamo su queste cose che affascinano gli scienziati e i filosofi politici. Ora, però, urgono questioni di sostanza. Quali siano i fini politici spetta, per l’appunto, alla politica determinare. Spetta cioè alla libertà e ai suoi usi, senza di che non c’è politica, ma solo soggezione: per esempio, ai centri finanziari, alle lobby militari e industriali, alle potenze soverchianti d’ogni genere. In questi casi, la politica retrocede di fronte alla esecuzione e i politici sono sostituiti dai “funzionari”, dai “tecnici”, dagli esecutori. In effetti, viviamo oggi in una “epoca esecutiva”. Non solo sui treni ad alta velocità la classe superiore è executive (e non, per esempio, legislative) ma anche in molta parte dell’apprezzamento sociale essere tecnico è molto meglio che essere politico. Questa “scala di valori” con l’esecutivo in cima non è la stessa dappertutto ed è tipica degli Stati che, difettando di libertà e quindi di politica, devono fare di necessità virtù. In un’epoca esecutiva come è quella che stiamo attraversando, si parla di etica, ma è una cosa diversa dall’etica politica. È efficienza e fedeltà nell’adempimento di compiti preassegnati. I discorsi su etica e politica sono dunque vaniloqui se quest’ultima difetta di autonomia. L’Europa, che s’invoca proprio nel frangente che attraversiamo, ha a che fare con questi discorsi, con la libertà della politica? Sì, se guardiamo alle ragioni fondative del progetto della sua unità. Esistevano ottime ragioni per promuovere l’integrazione economica e commerciale in un libero mercato comune tra Stati storicamente ostili da cui si ipotizzava (a torto) che sarebbe venuta naturalmente l’integrazione politica, come effetto indotto. Ma, l’intenzione più profonda degli spiriti lungimiranti fu, per l’appunto, la creazione di uno spazio di libertà politica in un mondo spaccato in due, in cui la “guerra fredda” tra le due superpotenze obbligava gli Stati europei a schierarsi schiacciandosi o di qua o di là. Si sarebbe potuto trattare della creazione di un terzo polo sufficientemente forte per sviluppare una politica propria. In politica, il numero due, nella specie Usa e Urss, è il numero della prossima probabile catastrofe, è il numero dei due lottatori avvinghiati tra loro fino alla fine di uno o di entrambi. In proposito, sarebbe istruttiva, anzi necessaria, la lettura dell’ammonimento di Bertrand Russell, nel 1957, cioè a ridosso della crisi dell’Ungheria, rivolto ai due “Potentissimi signori” di allora, Eisenhower e Krusciov. Il numero tre è, invece il numero dell’equilibrio dinamico in cui tutti possono essere “terzi” e il confronto politico può svolgersi non come lotta per distruggersi ma come confronto per accreditarsi gli uni rispetto gli altri. L’Europa come “terzo” era la generosa speranza, alternativa all’”equilibrio del terrore” e alla “strategia della tensione” sempre a rischio di sfuggire dal controllo e di degenerare in guerra aperta. Abbiamo per troppo tempo fatto come se “la Bomba” non esistesse e, oggi, il tabù che sembrava proteggerci si è rotto mostrandoci scenari terrificanti. L’Europa politica ha un senso solo se afferma il suo diritto di “differenziarsi”, cioè di porsi come “terzo”. Altrimenti, sono sufficienti gli ambasciatori che comunicano ai governi la volontà della potenza egemone; oppure le visite dei capi dei governi che, senza mandato, si recano a riceverne le istruzioni o a fare promesse. Riprendiamo da capo. Per poter parlare di etica politica non retoricamente occorre lavorare insieme per costruire lo spazio della differenziazione. L’Europa che non sa di essere se stessa e nemmeno ha l’orgoglio di cercare di esserlo non sarà mai un soggetto politico. E, meno che mai, lo saranno gli Stati che la compongono. La sua etica sarà quella dell’esecutore fedele, per non dire del servo, inutile per la pace. Libia. Una milizia fondata e pagata dallo Stato compie crimini di diritto internazionale di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2022 Una milizia creata dal governo della Libia nel gennaio 2021 e che percepisce fondi statali è responsabile di uccisioni illegali, detenzioni arbitrarie di cittadini libici, intercettazioni e successive detenzioni arbitrarie di migranti e rifugiati, torture, lavori forzati e altri gravissimi crimini di diritto internazionale. Si tratta dell’Autorità per il sostegno alla stabilità (Ass), guidata - come ha denunciato il 4 maggio Amnesty International - da uno dei più potenti capi delle milizie di Tripoli: Abdel Ghani al-Kikli, conosciuto come “Gheniwa”, nominato a quell’incarico nonostante le sue ben documentate responsabilità per crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani. Per oltre un decennio le milizie sotto il comando di “Gheniwa” hanno terrorizzato la popolazione del quartiere tripolino di Abu Salim mediante sparizioni forzate, torture, uccisioni illegali e altri crimini di diritto internazionale. Ufficialmente, l’Ass è incaricata di garantire la sicurezza delle sedi e delle autorità di governo. Inoltre partecipa ai combattimenti, arresta persone sospettate di reati contro la sicurezza nazionale e collabora con altri organismi di sicurezza. Il Governo di unità nazionale ha assegnato all’Ass per l’anno 2021 40 milioni di dinari (otto milioni di euro), cinque milioni (un milione di euro) dei quali per pagare gli stipendi. Sono stati erogati ulteriori finanziamenti ad hoc: nel febbraio 2022 il primo ministro Abdelhamid Debibah ha autorizzato un versamento di 132 milioni di dinari (quasi 28 milioni di euro). Dalla sua fondazione l’Ass ha rapidamente espanso la sua influenza oltre Tripoli, ad al-Zawiya e in altre città della Libia occidentale. Il 19 aprile 2022 Amnesty International ha scritto alle autorità libiche chiedendo la destituzione di “Gheniwa” e del suo ex vice Lotfi al-Harari da ogni posizione nella quale potrebbero commettere ulteriori violazioni dei diritti umani, interferire in eventuali indagini - sollecitate dall’organizzazione per i diritti umani - o garantirsi l’impunità. “Gheniwa” ha già diretto il Consiglio militare Abu Salim, poi Forza di sicurezza centrale-Abu Salim, mentre al-Harari ora dirige l’Agenzia per la sicurezza interna di Tripoli, implicata in gravi violazioni dei diritti umani. Ad oggi non è stata ricevuta alcuna risposta. Sono peraltro le stesse autorità libiche ad ammettere il ruolo dell’Ass nelle violazioni dei diritti umani: rappresentanti del ministero dell’Interno di Tripoli hanno confermato ad Amnesty International che l’Ass intercetta migranti e rifugiati in mare e li porta nei centri di detenzione sotto il suo controllo. Il ministero dell’Interno non ha alcun potere rispetto alle attività dell’Ass poiché questa milizia risponde del suo operato al primo ministro. Le ultime denunce di violazioni dei diritti umani compiute dall’Ass, Amnesty International le ha ricevute durante una sua visita in Libia, nel febbraio 2022. In quel mese, centinaia di migranti sono stati portati nel centro di detenzione di al-Mayah, gestito dall’Ass: un luogo sovraffollato e dalla scarsa ventilazione nel quale i detenuti ricevevano poco cibo e ancora meno acqua ed erano costretti a bere quella degli scarichi dei gabinetti. Pestaggi, lavori forzati, prostituzione forzata, stupri e altre forme di violenza sessuale erano all’ordine del giorno. L’Ass non fornisce informazioni sul numero di persone detenute ad al-Mayah né consente l’accesso alle organizzazioni indipendenti. Sempre nel febbraio 2022 secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni un’operazione di intercettazione in mare da parte dell’Ass si è conclusa con un migrante morto e altri feriti. Amnesty International ha rinnovato la richiesta all’Unione europea e agli stati membri di sospendere urgentemente ogni forma di cooperazione con la Libia in tema d’immigrazione e controllo delle frontiere. Su Djalali l’Iran rifiuta ogni mediazione: “È colpevole” di Farian Sabahi Il Manifesto, 11 maggio 2022 Il 21 maggio prossimo il ricercatore sarà giustiziato. Cade nel vuoto il tentativo di scambiarlo con Hamdi Nouri, in carcere in Svezia. Ieri e oggi sit-in di Amnesty, tra Novara e Torino. Diversi i casi di iraniani con doppio passaporto detenuti nel paese e usati come forma di pressione sull’Europa. Dopo oltre 2.180 giorni di detenzione, le autorità iraniane hanno annunciato che intendono eseguire la condanna a morte di Ahmadreza Djalali entro la fine del mese di Ordibehesht (21 maggio) del calendario persiano. Ricercatore esperto di Medicina dei disastri, Djalali era stato arrestato in Iran nel 2016 e condannato a morte da un tribunale rivoluzionario per spionaggio a favore di Israele. Cinquant’anni, il ricercatore iraniano aveva lavorato anche in Italia all’Università del Piemonte orientale. Ed è proprio a Novara che ieri pomeriggio Amnesty International, il Comune di Novara, la Provincia di Novara, l’Università del Piemonte orientale e Crimedin (Centro per la ricerca e la formazione in Medicina dei disastri, Aiuto umanitario e Salute globale dell’Università del Piemonte orientale) hanno organizzato una manifestazione per salvargli la vita. Oggi pomeriggio alle 17.30 un altro evento di Amnesty avrà luogo davanti all’Ambasciata dell’Iran a Roma per chiedere a gran voce di fermare l’esecuzione. Cittadino iraniano, durante la prigionia Djalali ha acquisito la cittadinanza svedese e anche per questo motivo si era ventilata l’ipotesi di uno scambio con il funzionario della magistratura iraniana Hamid Nouri. È in carcere in Svezia e la settimana scorsa si è concluso il suo processo per crimini di guerra ed esecuzioni e torture di massa di prigionieri politici iraniani nel 1988. Attesa entro il 14 luglio, la sentenza nei confronti di Nouri potrebbe prevedere l’ergastolo. Ma il funzionario iraniano continua a dichiarare di essere stato confuso con un altro. L’esecuzione di Djalali “avverrà certamente e non c’è alcuna possibilità che venga scambiato con Nouri”, ha dichiarato il portavoce della magistratura di Teheran, Zabihollah Khodaian, citato da Irna, sottolineando che la condanna di Djalali è “definitiva”. “Le due vicende non sono collegate, perché Nouri è innocente e Djalali è stato arrestato due anni prima. Quindi, non c’è alcuna possibilità di uno scambio tra i due prigionieri”, ha aggiunto Khodaian, definendo il caso di Nouri come “politicamente motivato”. Djalali era stato arrestato nel 2016 dai servizi segreti in Iran, dov’era stato attirato con l’inganno: era stato invitato a partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. Si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta. Le autorità della Repubblica islamica hanno fatto forti pressioni su di lui affinché firmasse una dichiarazione in cui confessava di essere una spia per conto di un governo ostile. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi. Nel 2017 è stato condannato in via definitiva a morte con l’accusa di spionaggio in favore di Israele. L’esecuzione è stata più volte annunciata e poi sospesa a seguito delle pressioni internazionali. Da novembre 2020, Djalali non può comunicare con la moglie e i due loro figli, che vivono in Svezia. Le uniche informazioni sul suo conto, provenienti dai suoi legali, parlano di un grave stato di salute. In suo favore si sono pronunciati oltre 120 premi Nobel in discipline scientifiche. In questi anni diverse persone con doppia cittadinanza (iraniana ed europea) sono diventate - loro malgrado - merce di scambio. Due cittadine anglo-iraniane a lungo detenute in Iran con l’accusa di spionaggio erano state rilasciate a metà marzo, in un’ottica di distensione mentre riprendevano i negoziati sul nucleare. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, dipendente della fondazione Thomson Reuters, e l’ingegnera Anousheh Ashouri, titolare di un’azienda del settore costruzioni, avevano così lasciato l’Iran. Iraniane naturalizzate britanniche, erano state rilasciate dopo un’intesa con i diplomatici britannici giunti a Teheran, che avrebbe dovuto comportare la restituzione all’Iran di 394 milioni di sterline (470 milioni di euro), ma che sembrano essere bloccati in Oman. La prigionia di Nazanin e Anousheh era legata all’acquisto di carri armati al tempo dello scià, che il sovrano aveva pagato. Dopo la Rivoluzione del 1979, gli inglesi non avevano però consegnato la merce e si erano tenuti i soldi.