Ergastolo: il Parlamento sulla graticola della Consulta di Andrea Pugiotto Il Riformista, 10 maggio 2022 Rimandarlo o bocciarlo? Oggi il verdetto. Il tempo concesso al legislatore è scaduto, la riforma è stata approvata solo alla Camera. La Corte deve decidere se dichiarare l’incostituzionalità o rinviare l’esame. Intanto c’è chi sconta una pena illegale 1. L’11 maggio 2021 la Corte costituzionale ha giudicato l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione (ord. n. 97/2021). Eppure oggi, a distanza di dodici mesi, si tiene a Palazzo della Consulta una nuova udienza pubblica sulla medesima quaestio: perché? Che cosa c’è da decidere ancora? La risposta sta tutta nella distanza tra forma e sostanza giuridica. Un anno fa la Consulta ha accertato l’incostituzionalità di una pena perpetua cui è possibile sottrarsi solo collaborando utilmente con la giustizia, ma non l’ha formalmente dichiarata. Facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale, ha rinviato la trattazione della causa di un anno esatto, per consentire al legislatore gli interventi necessari a modificare adeguatamente l’attuale art. 4-bis ord. penit. Invocando esigenze di collaborazione istituzionale, la Corte ha così regalato al Parlamento “un congruo tempo per affrontare la materia”, riservandosi di “verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”. Ora quel tempo è scaduto, e la palla torna nella metà campo dei giudici costituzionali. 2. In gergo, si chiama “incostituzionalità differita”. In passato, tale tecnica è stata adoperata nel giudicare la costituzionalità dei reati di aiuto al suicidio (ord. n. 207/2018) e di diffamazione giornalistica (ord. n. 132/2020). In entrambi i casi, rimasto inerte il legislatore, l’esito è stato coerentemente obbligato: alla ripresa del processo, la Consulta ha dichiarato illegittime le norme in esame (sentt. nn. 242/2019 e 150/2021). Sono due precedenti simili, ma non identici alla vicenda odierna. Questa volta, infatti, la Camera ha approvato una riforma in materia di accesso ai benefici penitenziari nel caso di condanna per reati ostativi, ora all’esame del Senato (A.S. n. 2574). Dunque, non c’è ancora una legge nuova ma neppure c’è stata una totale inerzia parlamentare. Valorizzando la novità, l’Avvocatura dello Stato ha chiesto alla Consulta “di voler, ove possibile, disporre il rinvio” dell’udienza odierna per consentire la prosecuzione e la conclusione dell’iter legislativo. Il nodo processuale è tutto qui: dichiarare oggi quanto già accertato ieri oppure rinviarlo di nuovo a un altro domani? 3. Forse, la risposta alla domanda che circolerà tra i giudici costituzionali (“Come ne usciamo?”) sarà quella suggerita dall’Avvocatura, e non solo: identico auspicio, infatti, è venuto giorni fa dalla Commissione Giustizia del Senato, all’unanimità e con il parere positivo del Governo. Sembrerebbe una risposta plausibile. Il termine concesso alle Camere un anno fa non è - giuridicamente - perentorio, perché la Corte costituzionale non ha poteri di determinazione sui tempi della decisione parlamentare. E se la tecnica dell’”incostituzionalità differita” è davvero espressione di leale cooperazione tra poteri, ben si giustificherebbe un nuovo rinvio davanti a un Parlamento che - diversamente dal passato - manifesta la volontà di dare un seguito al monito rafforzato della Consulta. D’altra parte, è la stessa ord. n. 97/2021 a riconoscere come spetti “in primo luogo al legislatore” assicurare, nella disciplina in esame, il complessivo equilibrio tra i diversi interessi in gioco (risocializzazione e umanità della pena, da un lato; prevenzione generale e sicurezza collettiva, dall’altro). Come, del resto, aveva fatto nel 2019 anche la Corte di Strasburgo che, nel censurare il regime dell’ergastolo ostativo, ha richiesto una sua modifica “di preferenza per iniziativa legislativa” (sent. Viola c. Italia). La soluzione in esame, infine, avrebbe il non trascurabile vantaggio di mettere al riparo la Consulta dal fuoco di fila proveniente dall’invincibile armata di pubblici ministeri e professionisti dell’antimafia “senza se e senza ma”, con relativi giornali di complemento, il cui crepitio si ode - come un fatto quotidiano - ogni qual volta il c.d. doppio binario penitenziario è messo in discussione davanti alle Corti dei diritti. Pronostico scontato, dunque? Non è detto, e per più di una ragione che i giudici costituzionali certamente conoscono. 4. Calendario alla mano, le Camere hanno avuto ben più di dodici mesi per approvare la necessaria riforma. La citata sentenza Viola c. Italia, divenuta definitiva il 5 ottobre 2019, già indicava nel regime dell’ergastolo ostativo un “problema strutturale” che lo Stato italiano è tenuto a risolvere, come impone l’art. 46 della CEDU. Da allora, sono trascorsi due anni e sette mesi. Inutilmente. Il caso in esame, rispetto ai due precedenti, si differenzia per una ragione sostanziale che non va ignorata. Allora, i ricorrenti alla Corte costituzionale erano imputati a piede libero. Ora, invece, il ricorrente è un recluso: il tempo supplementare concesso alla pigrizia legislativa ha allungato (indebitamente) la detenzione sua e degli altri ergastolani ostativi egualmente in condizione di chiedere e magari di ottenere - previo accertamento di un tribunale, dopo ventisei anni di detenzione più cinque di libertà vigilata - la fine di una pena altrimenti senza fine. Un ulteriore rinvio renderebbe ancora più odioso il prolungato limbo carcerario in cui sono costretti. In casi simili, infatti, ha davvero un prezzo fuori mercato la fictio iuris di tenere artificialmente in vita una disciplina incostituzionale. La Costituzione esige l’immediata cessazione degli effetti giuridici di una norma illegittima. Prolungarne ancora la vita attraverso un rinnovato escamotage processuale, significa aggravare nel tempo esiti già ritenuti lesivi della Costituzione. 5. Quale nuova data del calendario, poi, dovrebbero cerchiare i giudici costituzionali? La Commissione Giustizia del Senato è convocata in sede referente: dunque, sarà necessario anche il passaggio in aula della riforma in discussione. I suoi lavori non riguardano solo il testo approvato alla Camera, ma anche un alternativo disegno di legge (n. 2465, d’iniziativa del sen. Grasso). La dialettica al suo interno fa presagire una “navetta” parlamentare che allungherebbe l’iter legislativo, la cui durata - in un sistema a bicameralismo paritario - è sempre imprevedibile non meno del suo esito. In questa cornice, se un procedimento avviato ma non concluso basterà alla Consulta per concedere altro tempo al Parlamento, i moniti rivolti al legislatore attraverso le proprie ordinanze interlocutorie - d’ora in poi - sembreranno tremebondi penultimatum. C’è dell’altro. Ragioni di giustizia e di credibilità istituzionale dovrebbero indurre la Corte a considerare un’ulteriore incognita: la composizione del proprio Collegio. Una sua variazione potrebbe - in ipotesi - alterare la maggioranza che si è riconosciuta nell’ord. n. 97/2021, fino a metterne in discussione la ratio decidendi. Rispetto a un anno fa, è già subentrato un nuovo giudice. E a settembre scadrà anche il mandato del suo attuale Presidente. Qualunque rinnovata deadline, dunque, avrebbe un che di cabalistico. Sarebbe più simile a un casuale lancio di dadi che a una coerente scelta processuale. Inevitabilmente, perché se e quando approvare una legge è una scelta tutta politica, espressione della funzione legislativa che l’art. 70 Cost. riserva alle Camere e che non risponde né al cronometro né al metronomo della Consulta. 6. Questo scenario non muta, se lo si guarda attraverso una lente di politica del diritto. Rinviando di nuovo la causa odierna, la Corte costituzionale scommetterebbe ancora - giocoforza - su questo Parlamento. Come se le Erinni parlamentari, maggioritarie nell’attuale legislatura, potessero d’incanto mutare in Eumenidi. Tenderei ad escluderlo. Durante l’attuale legislatura - per restare in tema - è stato incrementato l’elenco dei reati ostativi pretendendone un’applicazione illegittima anche ai fatti pregressi (legge n. 3 del 2019). È stata esclusa l’applicabilità del rito abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo, impedendone così la conversione in trent’anni di detenzione (legge n. 33 del 2019). Addirittura, per rimediare all’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, si è proposto di cambiare non la relativa disciplina legislativa ma la Costituzione, modificandone l’art. 27, comma 3, in materia di funzioni della pena (A.C. n. 3154). Quanto al disegno di legge n. 2574 già approvato alla Camera, è in larga parte peggiorativo dell’attuale regime ostativo penitenziario e disallineato alle indicazioni ricavabili dalla pertinente giurisprudenza costituzionale. Al netto delle critiche di merito, ciò che impressiona è la postura sbagliata assunta in Parlamento, dove l’ord. n. 97/2021 è stata vissuta come il problema da risolvere e non l’incentivo (e la cassetta degli attrezzi) per superare una pena perpetua incostituzionale. Tutto ciò potrà avere una ricaduta processuale. Introducendo norme più severe delle attuali, l’eventuale riforma non troverebbe applicazione nel giudizio da cui è nata la quaestio oggi di nuovo all’esame della Consulta. Lo vieterebbe il principio di irretroattività penale, scudo che la giurisprudenza costituzionale ha elevato a protezione anche dell’istituto della liberazione condizionale (sent. n. 32/2020). Un nuovo rinvio della causa, dunque, rischia di accumulare inutilmente ritardo a ritardo nel dovere, gravante sulla Consulta, di rendere giustizia costituzionale a chi ha bussato alla sua porta. 7. Scopriamo così che, “tra i due possibili scenari per la Corte costituzionale”, quello di un nuovo rinvio a data fissa è solo apparentemente “lineare”, mentre è il più “contorto” (Davide Galliani, Il Dubbio, 7 maggio). Come si è impegnata a fare con l’ord. n. 97/2021, la Consulta è chiamata a misurare con il metro della Costituzione le “decisioni effettivamente assunte” in Parlamento: queste sono arrivate fuori tempo massimo, insufficienti rispetto all’esigenza di una nuova legge approvata definitivamente, in fieri inadeguate a ripristinare la legalità costituzionale nel giudizio a quo e nell’ordinamento. Oggi sapremo se la Corte ne prenderà atto, come dovrebbe: il ripristino della legalità costituzionale non può dipendere, ancora una volta, da un impegno parlamentare non mantenuto. Ergastolo ostativo, è alta tensione tra Consulta e Senato di Valentina Stella Il Dubbio, 10 maggio 2022 Oggi la Corte decide se concedere una proroga per la legge. È alta la tensione tra Corte costituzionale e Senato. Oggi infatti la Consulta sarà chiamata a pronunciarsi di nuovo sull’ergastolo ostativo. Cosa faranno i giudici? Aggiungeranno all’accertamento della incostituzionalità anche la sua dichiarazione, adottando quindi una sentenza manipolativa che contempli il pericolo di ripristino, o concederanno ancora più tempo al Parlamento per approvare una norma? Come raccontato nei giorni precedenti, la commissione Giustizia di Palazzo Madama, tramite l’Avvocatura dello Stato, ha chiesto alla Corte un rinvio rispetto al termine del 10 maggio per concedere un extra- time per terminare i lavori. Auspicio ribadito anche ieri da Franco Mirabelli, senatore del Partito democratico e relatore, insieme al leghista Pasquale Pepe, del disegno di legge per la riforma dell’ergastolo ostativo: “Crediamo che si possa concludere il procedimento per la fine di maggio, ci sono le condizioni e quindi confidiamo in un rinvio della Corte costituzionale”. Alla vigilia della decisione della Consulta hanno parlato anche i parlamentari pentastellati della Commissione giustizia della Camera: “È necessario che la politica faccia la sua parte fino in fondo per scongiurare il rischio che pericolosi boss della mafia possano godere, senza aver mai collaborato con lo Stato, dei benefici penitenziari fino alla liberazione condizionale, in assenza di requisiti e paletti ben chiari fissati dalla legge. Il testo approvato dalla Camera - hanno ricordato i deputati e le deputate - è il frutto di un positivo confronto tra i diversi schieramenti: una sintesi che, nel rispetto delle indicazioni della Consulta, può efficacemente garantire la sicurezza dei cittadini e il rispetto della Costituzione. Nell’interesse del Paese, occorre proseguire nei lavori al Senato e mettere in calendario la proposta di legge quanto prima. Bisogna fare in fretta e per farlo serve il contributo di tutti”. Peccato però che a Palazzo Madama vogliano mettere mano al testo approvato nell’altro ramo del Parlamento perché, ad esempio, come sottolineato dal senatore Pietro Grasso, esso “presenta contraddizioni e sovrapposizioni di norme”. Con tutta questa incertezza sull’esito delle discussioni, consapevoli anche che questo dibattito si intreccia con l’altra urgente riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, i giudici costituzionali sono pronti a venire incontro ai senatori? A differenza del caso Cappato e del carcere ai giornalisti, in questa circostanza il Parlamento ha approvato alla Camera un progetto di legge quindi la Corte costituzionale, per non creare uno scontro istituzionale con il legislatore, potrebbe concedere ancora qualche mese. Ma quanti? E poi un caso del genere non creerebbe un precedente troppo comodo per il Parlamento? Giustamente, come ha ribadito l’avvocato Giovanna Araniti, difensore di S. P., detenuto non collaborante, sulla cui richiesta di accesso alla libertà condizionale è stato appunto sollevato dalla Cassazione il dubbio dinanzi alla Consulta: “Il Parlamento non solo si è attivato in ritardo per dare attuazione all’ordinanza del 2021 ma l’approvazione eventuale di modifiche ed emendamenti al Senato ovviamente comporterebbe un esame ulteriore alla Camera, per cui non è assolutamente preventivabile una pacifica approvazione della legge in tempi brevi, con o senza modifiche, ove si giunga ad un accordo sui punti di contrasto”. Anche perché non è detto che a Montecitorio poi accolgano il testo così come arrivato dal Senato. A che vale fissare un termine se poi si trova l’escamotage per non rispettarlo? Soprattutto se si pensa che si sta parlando di una norma che va a incidere su detenuti anziani e anche malati che hanno già trascorso 26 anni in carcere e per i quali il tempo scorre e corre. Ha detto bene il professor Davide Galliani in una intervista a questo giornale: “Se la Corte decidesse di dare ancora del tempo al Parlamento dovrebbe almeno avere ben chiare le conseguenze concretissime della sua scelta”. Ergastolo ostativo, la parola torna alla Consulta a un anno dalla sentenza di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2022 Il Parlamento non ha approvato una nuova legge. L’attesa è grande e c’è chi spera nel rinvio. Come la Commissione Giustizia del Senato che ha all’esame la proposta di riforma approvata dalla Camera e che potrebbe licenziare il testo a fine mese. A un anno dalla sentenza di incostituzionalità sull’ergastolo ostativo nulla è cambiato. E la Consulta dovrà decidere come procedere. Prendendo atto che il Parlamento in un anno non è riuscito a modificare la legge, anche se il traguardo potrebbe essere vicino, e dunque dichiarare illegittima la norma introdotta dopo le stragi di mafia che impedisce la concessione della libertà condizionale ai condannati all’ergastolo ostativo. Oppure dare ancora fiducia e tempo alle Camere, rinviando la propria pronuncia. Oggi scade il termine fissato l’11 maggio dello scorso anno al legislatore per il suo intervento e la questione torna all’esame dei giudici costituzionalisti, seconda tra le cause che saranno discusse dai giudici costituzionali in udienza pubblica. Due settimane fa la commissione parlamentare Antimafia aveva votato all’unanimità una relazione con indicazioni già recepite alla Camera e ora all’esame del Senato. L’attesa è grande e c’è chi spera nel rinvio. Come la Commissione Giustizia del Senato che ha all’esame la proposta di riforma approvata dalla Camera e che potrebbe licenziare il testo a fine mese, come sostiene il relatore Franco Mirabelli (Pd). Una richiesta formale di slittamento è stata avanzata alla Consulta, proprio alla luce dei lavori parlamentari, dall’Avvocatura dello Stato, che si è costituita in giudizio per conto del governo. Ma all’ipotesi di posticipare ancora la decisione sul merito si oppone l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, legale dell’ergastolano al centro del caso da cui è scaturito tutto. Oggi le parti ribadiranno in udienza le loro ragioni. E subito dopo i giudici si ritireranno in camera di consiglio per decidere sull’istanza di rinvio. Se venisse respinta, sarebbe inevitabile la dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario e delle altre norme che impediscono di concedere la liberazione condizionale, dopo 26 anni di reclusione, a chi è condannato all’ergastolo ostativo, se non collabora. Perché la Corte lo ha già detto un anno fa: quelle disposizioni sono incompatibili con la finalità rieducativa della pena, affermata dalla Costituzione. Allora la Consulta si fermò a un passo dalla decisione, per spirito di “leale collaborazione” con il Parlamento, nella convinzione che un intervento solo “demolitorio” avrebbe potuto indebolire il contrasto alla mafia. Il solo addio alla mafia è il pentimento di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2022 No a scivoloni nel 50ennale di Capaci. Con un’ordinanza del 15.4.2021 la Consulta ha “aperto” ai mafiosi non “pentiti” l’ergastolo ostativo per quanto riguarda il beneficio della liberazione condizionale. Gli effetti della pronunzia di incostituzionalità sono stati differiti affinché il Parlamento potesse intervenire. Il termine fissato (un anno) sta per scadere. La Camera ha approvato a larghissima maggioranza un testo che ora attende l’approvazione definitiva del Senato. Ma ormai siamo in piena in “zona Cesarini” e perdere una partita che si può vincere sarebbe - alla vigilia del trentesimo anniversario di Capaci - uno sfregio alle vittime di mafia. Tutte. La Consulta ha motivato il differimento con il rischio “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Così riconoscendo che bisogna fare attenzione, toccando una componente dell’architettura complessiva antimafia, a evitare che questa possa cedere tutt’intera. Perché - dice ancorala Consulta - la mafia ha una sua “specificità” rispetto alle altre condotte criminali associative; e la collaborazione di giustizia è un valore da preservare. Di questi “paletti” - a mio avviso - il legislatore ha tenuto conto elaborando una soluzione che evita contraccolpi troppo rovinosi per l’antimafia. Rimango dell’opinione (fondata sull’esperienza concreta e sugli studi relativi alla mentalità mafiosa) che l’unica prova univocamente affidabile di voler disertare davvero dall’organizzazione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte, è il “pentimento”. I mafiosi “irriducibili” che rifiutano ogni forma di ravvedimento operoso attraverso la collaborazione con la giustizia non offrono tale prova. E, pur potendolo, non contribuiscono, con la ricostruzione della verità (pensiamo alle ombre che ancora vi sono sulle stragi), a realizzare quella “giustizia riparativa” che è giusto pretendere sempre. Tuttavia il legislatore, vincolato dalla Consulta a non fare del pentimento una conditio sine qua non dei benefici, ha saputo trovare una via di mezzo che non svaluta il “pentimento”: perché in sua assenza richiede la sussistenza e la verifica di tutta una serie di specifici elementi concreti che in complesso dovrebbero riuscire a fronteggiare quel salto nel buio che senza “pentimento” si rischia sempre. In altre parole, rimane - sia pure corretto - il “doppio binario” per i mafiosi non pentiti, in quanto rispondente a criteri di ragionevolezza basati sulla concreta specificità del problema mafia. Così può dirsi raggiunto un obiettivo che rientra nello spirito più profondo della Carta. Essa vuole che ai nemici della democrazia sia riservata un’attenzione particolare (lo esplicita l’art XII disp. transitorie e finali). Qual è il rapporto dei mafiosi con la democrazia? Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dell’articolo 3, architrave della Costituzione. È allora evidente che il legislatore, nel rispetto dovuto alle direttive della Consulta, non ha dimenticato l’esigenza primaria di difendere la nostra democrazia. Andrea Camilleri, illustrando in un suo librino il gioco del cumerdiuni (aquilone), racconta di chi sapeva “governarlo quando per correnti avverse principiava a capozziare, vale adire ad andar giù di punta”. La speranza è che anche i senatori sappiano come fare per non capozziare. Antigone: “È arrivata l’ora di superare le misure di sicurezza per gli internati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2022 “È davvero arrivato il momento di ripensare la loro presenza nell’ordinamento italiano”, così conclude Antigone nel suo XVIII rapporto, più specificatamente il capitolo dedicato alla figura degli internati nelle cosiddette case lavoro o colone agricole, ma che non si differenziano assolutamente dalla detenzione. L’internato ha finito di scontare la pena ma è ritenuto “socialmente pericoloso” - Ricordiamo che l’internato è colui che ha finito di scontare la pena detentiva, ma raggiunto da una misura di sicurezza, perché ritenuto “socialmente pericoloso”. Come sottolinea Antigone, oltre alle case circondariali e alle case di reclusione, la legge prevede l’esistenza di case di lavoro e colonie agricole. Si stratta di istituti nei quali le persone internate “eseguono le misure di sicurezza detentive previste al numero 1 comma 1 dell’art. 215 c. p. ovvero, appunto, l’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro”. Le due misure si differenziano esclusivamente per il genere di lavoro che dovrebbe caratterizzare la permanenza nell’istituto, se di natura agricola oppure industriale o artigianale. Queste misure di sicurezza risalgono al Codice Rocco - Il sistema delle misure di sicurezza fu inserito dal guardasigilli fascista Alfredo Rocco, come egli stesso spiega nella relazione al codice penale del 1930, per “apprestare più adeguati mezzi legislativi di lotta contro la delinquenza, aumentata specialmente nel periodo postbellico in conseguenza dei profondi rivolgimenti psicologici e morali, economici, sociali e politici, prodottisi negli individui e nella collettività in conseguenza della grande guerra vittoriosa”. In particolare, “i mezzi puramente repressivi e propriamente penali si erano rivelati insufficienti a combattere particolarmente i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, della delinquenza minorile e della delinquenza degli infermi di mente pericolosi. Per rimediare a questa insufficienza il nuovo codice penale ha non solo rinvigorito il sistema delle pene principali ed accessorie, ma ha altresì introdotto il sistema delle misure di sicurezza”. Questi periodi di detenzione si aggiungono alla pena già scontata - La parte che ci riguarda è il riferimento alla delinquenza abituale. L’art. 216 c. p. assegna a una colonia agricola o a una casa di lavoro sostanzialmente coloro che sono stati giudicati essere delinquenti abituali, professionali o per tendenza (essendo gli altri casi desueti o quasi inesistenti). A differenza delle misure di sicurezza detentive psichiatriche, che vengono disposte al posto della pena per gli incapaci di intendere e di volere, questi periodi di detenzione si aggiungono invece alla pena già scontata. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. Veniva definito non a caso “ergastolo bianco”. A far fronte a questo problema, ai sensi dell’art. 1 comma 1ter del D. L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che “le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. La denuncia di Antigone: Case di lavoro simili alle sezioni carcerarie - Antigone denuncia che è difficile non vedere nelle misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola una semplice duplicazione della pena detentiva, tanto dal punto di vista teorico che concreto. Spostandoci solo sul piano concreto, Antigone denuncia che “le case di lavoro sono in tutto simili a sezioni carcerarie ordinarie. Come in queste ultime, il lavoro tende a mancare”. Tra l’altro - sottolinea l’associazione - la riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 ha cancellato il vecchio comma 3 dell’art. 20, secondo il quale il lavoro era “obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro”. Anche il fascista Rocco, nella già citata relazione, si arrampica sugli specchi nel difendere “la diversità profonda tra pena e misura di sicurezza”. Oggi l’internamento in casa di lavoro o in colonia agricola, presentando solamente un contenuto di tipo afflittivo, equivale a una duplicazione della pena, in violazione del principio del ne bis in idem e già censurato dalla Cedu nella sentenza M. c. Germania del 17 dicembre 2009. Con la chiusura degli OPG nel 2015 sono diminuiti notevolmente - Come ha anche riportato Il Dubbio, con la sentenza n. 197 del 21 ottobre 2021, la Consulta ha confermato la costituzionalità dell’applicazione anche agli internati del 41- bis, purché le restrizioni previste consentano di lavorare (la Cassazione aveva sollevato questione di legittimità sottolineando tra l’altro come le limitazioni del regime non permetterebbero di dimostrare alcuna evoluzione personale, andando inevitabilmente incontro a ulteriori proroghe della misura). Alla fine del 2021 - rivela Antigone - erano 4 gli internati sottoposti al 41- bis, tutti nel carcere di Tolmezzo. Il rapporto snocciola i dati. Al 28 febbraio 2022, erano 280 gli internati nelle carceri italiane, lo 0,5% del totale dei presenti. Di questi, 61 erano stranieri, il 21,8% del totale degli internati, una percentuale significativamente inferiore a quella generale (gli stranieri costituiscono il 31,3% della popolazione detenuta complessiva), a segno dell’inferiore abitualità nel reato e pericolosità sociale della componente straniera. Negli ultimi trent’anni circa, la presenza di internati vede due fasi quantitative distinte. Prima del 2015, l’oscillazione varia approssimativamente tra le 1.000 e le 1.500 unità, con percentuali che vanno dall’ 1,8% al 4%, anche a causa dell’oscillare dei numeri complessivi della detenzione. Dopo lo spartiacque del 2015, invece, si rimane sempre al di sotto dei 350 internati, con percentuali di 0,5% o 0,6%. Antigone spiega che ciò è dovuto dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) avvenuta in via definitiva il 31 marzo 2015, data in cui si trovavano ancora 805 persone nei sei Opg italiani (erano 993 a fine 2014, 1.051 a fine 2013, 1.094 a fine 2012). Oggi gli internati censiti dal Dap dovrebbero essere solo quelli assegnati a casa di lavoro o a colonia agricola. Secondo Antigone, la sola casa di lavoro interamente qualificata come tale, sebbene abbia annessa una sezione circondariale, è l’istituto maschile di Vasto, in Abruzzo, con una capienza ufficiale di 197 posti e che al 28 febbraio scorso recludeva 108 persone, di cui circa 70 internati. Ma nello stesso tempo, al carcere di Vasto si assiste al paradosso di una casa di lavoro dove molti internati sono dichiarati formalmente inabili a lavorare per problemi psichiatrici. A fronte di 108 persone presenti, 22 sono affette da psicosi, 38 da gravi disturbi della personalità, 25 da depressioni e 5 da disturbi bipolari. Situazione analoghe, se non peggiori, risulta anche altrove. Antigone conclude che è arrivato il momento di ripensare alle misure di sicurezza, perché oltre a una evidente insufficienza gestionale concreta, si “scontrano anche con un’infondatezza teorica che affonda le radici in una concezione illiberale del diritto penale”. Da Conferenza Stato-Regioni accordo per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti askanews.it, 10 maggio 2022 È stato sancito in Conferenza unificata e in Conferenza Stato-regioni del 28 aprile l’accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali sul documento recante “Linee di indirizzo per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio-lavorativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale”. L’accordo prevede l’attuazione di programmi di reinserimento consistenti nell’attivazione di percorsi di inclusione lavorativa, di istruzione e di formazione-lavoro, anche prevedendo indennità a favore dei soggetti che li intraprendono, programmi di assistenza alle persone sottoposte a provvedimenti limitativi della libertà personale emanati dall’autorità giudiziaria, programmi di reinserimento sociale di tossicodipendenti, assuntori abituali di sostanze psicotrope o alcoliche, soggetti con disagio psichico, seguiti dai servizi socio-sanitari. Destinatari dei programmi sono i soggetti condannati in esecuzione penale, persone ammesse a sanzioni penali sostitutive, indagati o imputati con provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova, persone sottoposte a misure di sicurezza e, minorenni indagati e in misura cautelare. L’accordo prevede la stesura di appositi piani di azione e cabine di regia regionali, quest’ultime costituite dai direttori e dagli assessori regionali competenti, dal Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, dal direttore dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, dal direttore del Centro per la giustizia minorile, da un referente dell’Anci regionale o dal Consiglio delle autonomie locali. Alla cabina di regia, tra gli altri, sono invitati a partecipare il garante regionale dei detenuti e il garante comunale, ove presente, Nella stessa occasione è stato sancito l’accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali, sulla proposta del Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria concernente l’istituzione di strutture comunitarie sperimentali di tipo socio-sanitario a elevata integrazione sanitaria rivolte a minori e giovani adulti con disagio psichico e/o abuso di sostanze. In materia di salute mentale, la Conferenza unificata ha sancito anche due intese, tra il governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano sul documento “Linee di indirizzo per la realizzazione dei progetti regionali volti al rafforzamento dei Dipartimenti di salute mentale regionali” e sullo schema di decreto del ministro dell’Economia e delle finanze, di concerto con il ministro della Salute e con il ministro della Cultura, concernente la ristrutturazione e la riqualificazione energetica delle strutture degli ex ospedali psichiatrici. Articolo 32-sexies del decreto - legge 16 ottobre 2019, n.124. Verini (Pd): “Mai più minori in prigione, approvare subito legge” adnkronos.it, 10 maggio 2022 “Nella situazione troppo spesso drammatica delle carceri italiane, la proposta di legge a prima firma Paolo Siani potrà essere un passo avanti importante in termini di civiltà nella difesa dei diritti dei bambini che non devono scontare le colpe dei propri genitori. È un provvedimento che si basa sul principio ‘mai più bambini in carcere’ condiviso dagli organismi nazionali e internazionali che si occupano dei diritti dei minori, dalla stessa Ministra e credo da tutti noi”. Lo ha detto, intervenendo in Aula, il deputato del Pd Walter Verini, relatore della proposta di legge e componente della Commissione Giustizia. “Non deve restare uno slogan, ma diventare realtà. La relazione tra genitore e figlio deve essere sempre tutelata al massimo delle possibilità esistenti, interpretando e garantendo - con il dovuto e difficile equilibrio - l’interesse prevalente del bambino. La proposta di legge supera la normativa vigente e come alternativa prevede le case famiglia e gli Icam (istituti a custodia attenuata) in caso di impossibilità - per motivi cautelari - di ospitare la madre in una casa famiglia. Mi auguro che questa proposta di legge possa trovare un iter rapido e il più possibile unitario. In Commissione c’è stato un confronto laborioso per individuare il giusto equilibrio tra la priorità di fare gli interessi dei bambini, con eventuali esigenze di sicurezza, per casi di genitori giudicati ancora portatori di pericolosità sociale”. “L’altro giorno, una personalità come Luigi Manconi ha rivolto un appello alla Ministra affinché intervenisse subito su questo problema. Condividiamo l’appello di Manconi. E vogliamo sperare e confidare che la Camera faccia presto la sua parte e che, successivamente, il Senato faccia la propria nel tempo più rapido possibile. Sarebbe un passo di importante valore civile e costituzionale”. Se il carcere diventa una casa. La prospettiva di vita oltre le sbarre di Andrea Lezzi L’Unità, 10 maggio 2022 Quando in piena notte, alcuni giorni fa, gli agenti della casa circondariale di Messina hanno sentito bussare insistentemente al portone d’ingresso ci han messo qualche minuto a comprendere cosa stesse davvero accadendo. Dall’altra parte del muro non vi era nessun detenuto da prendere in custodia, nessun criminale desideroso di costituirsi ma - al contrario - un uomo libero: un ex carcerato che in quella struttura aveva passato gli ultimi anni e che chiedeva insistentemente di poterci tornare, perché senza un posto dove andare. Non è servito il conforto degli agenti, che hanno spiegato l’impossibilità di venire incontro a una tale richiesta. Dopo poche ore, a notte fonda, l’uomo si è ripresentato all’ingresso dell’Istituto, prima di arrendersi e di incamminarsi nel buio della periferia cittadina in preda alla disperazione. Di questa storia così triste e assurda - un tentativo di evasione al contrario, in un porto sicuro dove il mondo non cambia mai - emerge per prima cosa la grande solitudine che attanaglia chi prova a riprendere le fila della propria vita dopo l’esperienza carceraria, e si ritrova ad affrontare un mondo che sostanzialmente non lo aspetta. Non ti aspetta un lavoro, non ti aspetta nessuno a casa, anzi spesso non ti aspetta nemmeno una casa. È dunque un cammino difficile quello del reinserimento sociale, spesso supportato dall’impegno straordinario di volontari e associazioni, ma che richiederebbe - evidentemente - un maggiore sostegno da parte delle Istituzioni. I temi del lavoro e degli affetti sono quelli centrali per chi prova a tornare alla normalità. Per molti ex detenuti il senso di smarrimento e confusione non è legato unicamente alla perdita delle certezze di ogni giorno. Non si tratta solamente di lasciarsi dietro ciò che il carcere può garantire: un vitto, un alloggio, un luogo dove passare del tempo. Questo senso di vuoto, questo disorientamento che - nel caso di Messina - porta una persona di nemmeno quarant’anni ad avere terrore della vita reale, trae probabilmente origine da più elementi. Favorire tutti quegli strumenti che, anche durante la pena, permettano davvero di mantenere dei legami significativi fuori dal carcere (colloqui, permessi, presenze nei momenti importanti della famiglia) rappresenta una prima soluzione, per alimentare una prospettiva in coloro che, chiusi in una cella, un giorno fuori vorrebbero poter contare su qualcuno da avere accanto: un genitore, un partner, un figlio. Il lavoro, poi, rappresenta l’elemento fondante per un effettivo reinserimento nella comunità, nonché - come ci dicono tutti dati - un fortissimo deterrente per la recidiva. Ed è per questo che le maggiori risorse dovrebbero essere spese proprio per ridare dignità al lavoro penitenziario, ampliandone la platea aumentandone la concorrenzialità con l’esterno. Appare ancora troppo esiguo, oggi, il numero di detenuti che lavorano per conto di realtà esterne all’amministrazione carceraria, meno di mille. Per non parlare di coloro che sono impiegati fisicamente all’esterno delle strutture. Al dicembre 2021, su circa 54mila detenuti, solo 1.300 erano impegnati in lavori esterni. Investire su questi aspetti può contribuire a creare quelle condizioni utili per rimanere connessi alla società e costruire una formazione professionalizzante che, una volta fuori, potrà tornare utile. In fin dei conti è tutto qui: “dignità e una vita normale”, come diceva un vecchio brano di Jovanotti. Dodici istanze per una scarcerazione. L’ingiustizia, come malattia di Antonio Leggiero* La Ragione, 10 maggio 2022 Un uomo vissuto nell’antica Roma - passato alla storia come grande avvocato, insigne oratore e straordinario politico - soleva ripetere: “Summum ius, summa iniuria” (Il sommo diritto è somma ingiustizia). Una vicenda sconcertante e spaventosa verificatasi in questi giorni ha riportato in auge questo aforisma, sempre valido dopo duemila anni: la vicenda di Maximiliano Cinieri. Carneade, chi era costui? Maximiliano Cinieri, 48 anni è un detenuto. Uno fra le decine di migliaia che popolano le perennemente sovraffollate carceri italiane. Ha commesso dei reati e sta scontando il suo debito con la giustizia. Reati gravi come l’estorsione e l’usura, tuttavia non è un omicida. E anche se fosse la reincarnazione di Jack The Ripper, il discorso non cambierebbe. Cinieri è l’amaro simbolo di un sistema processual-giudiziario a tratti assurdamente paradossale e dai cinici connotati dei drammi pirandelliani. La sua è una vicenda che normalmente ci si aspetta di leggere come avvenuta in un piccolissimo staterello dell’America Centrale tiranneggiato da qualche feroce satrapo o in uno sconosciuto Paese del Terzo mondo dove vige ancora la legge tribale. Invece è accaduta proprio qui da noi, in quella che un tempo era additata come la “culla del diritto”. Durante la sua reclusione Cinieri ha manifestato i sintomi di una delle patologie più gravi e devastanti dei nostri tempi: la Sla. È un acronimo sinistro che fa incute terrore. Nel giro di pochi mesi questa malattia neurodegenerativa lo ha privato dell’uso delle braccia e delle gambe. Allo stato attuale non riesce a imboccarsi da solo. In un sistema giudiziario civile dovrebbe essere scarcerato d’ufficio e posto agli arresti domiciliari o in una struttura sanitaria. Nel nostro si devono invece attivare gli avvocati, presentando istanza di scarcerazione. Una, due, tre e così via fino a perdere il conto. Nel frattempo Cinieri si consuma in carcere. Le istanze vengono sistematicamente respinte. Ce ne vogliono ben dodici - un vero record - prima che venga accolto il suo sacrosanto diritto di tornare a casa (probabilmente a morire, prigioniero del suo corpo). Una vicenda come questa deve far riflettere. Ogni anno non si contano i convegni, le iniziative, i dibattiti, le proposte di legge sul sistema penale. Ogni governo vara una riforma. Si parla sempre più di umanità della pena, di civiltà giuridica e di dignità anche del condannato. Cicerone, per tornare a lui, avrebbe detto “Verba volant”. Nei fatti si verificano questi obbrobri e tanti altri destinati a rimanere silenti, tragicamente silenti. Nell’indifferenza generale. *Criminologo e docente di Criminologia Con lo sciopero tutto “politico” l’Anm fa un bel “salto di qualità” di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 10 maggio 2022 La Consulta ha già “promosso” le norme più criticate dai giudici: che dunque non sono mobilitati per la costituzione. I magistrati che scioperano dunque non lo fanno per tutelare le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione “politica” di ciò che sia meglio per regolare il funzionamento della giurisdizione. E lo fanno altresì in posizione apertamente oppositiva alle scelte che in questi giorni sta facendo il Parlamento: “Proponiamo, pertanto, all’assemblea di proclamare una giornata di astensione, delegando la G. e. c. (Giunta esecutiva centrale, ndr) ad individuare tempestivamente la data (…), tenendo conto dello sviluppo dei lavori parlamentari in corso”. Lo sciopero, dunque, strettamente collegato all’attività in corso delle Camere, potrà essere replicato qualora ve ne sia ancora la necessità: “Deleghiamo il Cdc (Comitato direttivo centrale, ndr), qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”, cioè altri scioperi. Se lo sciopero sia o meno legittimo in base alla lettera e allo spirito della Costituzione è questione certamente importante. Ma, nella circostanza, distrarrebbe rispetto al nodo più profondo della questione. La incanalerebbe sul piano della legittimità, scatenando, com’è prevedibile, le reazioni di chi invocherebbe la presunta minaccia ai diritti costituzionali dei cittadini- magistrati. E il tema della “minaccia” (alla magistratura) è già sufficientemente presente nelle motivazioni utilizzate per sorreggere le giustificazioni dell’iniziativa. Molto più interessante è muoversi nella logica della rivendicazione e condurla fino alle sue estreme e coerenti conseguenze. L’Anm giunge allo sciopero attraverso due passaggi. Il primo è che la riforma “minaccia” la magistratura (“cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la Costituzione”). Il secondo è che lo sciopero non intende essere solo oppositivo, ma si propone anche finalità costruttive, cioè di favorire un dibattito “per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”. Il combinato disposto delle due affermazioni (difesa della Costituzione e proposte alternative) rende palese che il fine dello sciopero non risiede esclusivamente nella pretesa di dire ciò che è costituzionalmente illegittimo, ma anche di indicare quale tra le possibili applicazioni (legittime) della Costituzione è preferibile dal punto di vista della magistratura, quale interprete dei “bisogni veri del paese”. Il punto è centrale. I magistrati associati non si fanno solo interpreti della Costituzione, ma si propongono di andare oltre “suggerendo” le riforme migliori. Suggerimenti che la Costituzione lascia alla discrezionalità politica, perché l’attuazione delle sue norme e dei suoi principi non è (sempre) “obbligata”. Insomma, non c’è una sola applicazione possibile di quelle norme e di quei principi. E questo lo dice qualcuno che di interpretazione costituzionale se ne intende: la Corte costituzionale. Come certamente i magistrati sanno, infatti, nel giudicare l’ammissibilità dei referendum, quindi anche dei referendum sulla giustizia che andranno al voto il 12 giugno, la Corte accerta che i quesiti proposti non riguardino leggi “a contenuto costituzionalmente vincolato”, leggi cioè che costituiscano applicazione “obbligata” della Costituzione. E proprio a proposito di questi referendum in materia di giustizia, la Consulta, nel dichiararne l’ammissibilità, ha escluso, tra l’altro, che vi sia un impedimento costituzionale alla separazione delle funzioni, che vi sia un (implicito) divieto costituzionale di far partecipare avvocati e professori alla valutazione dei magistrati, che sia precluso ai singoli magistrati di candidarsi da soli al Consiglio superiore della magistratura. Su questi punti, almeno su questi punti, abbiamo la certezza, asseverata dall’organo supremo di legalità costituzionale, che le proposte dell’Anm (notoriamente critiche su separazione delle funzioni e partecipazione di avvocati e professori alle valutazioni dei Consigli giudiziari) non si giustificano perché imposte dalla Costituzione, ma siano solo una delle possibili scelte politiche che possono essere fatte sul punto. Del resto interpretare ciò di cui “il paese ha veramente bisogno” cos’è se non il cuore dell’attività politica? Da quanto detto si possono trarre due conclusioni. La prima è che, per quanto nobili possano essere le ragioni, almeno sui punti aperti a più soluzioni legislative, lo sciopero dell’Anm è un atto politico che non trova alcuna ragione nella difesa della Costituzione, ma esprime l’opinione di chi ritiene di essere in una posizione (privilegiata?) per interpretare i bisogni del paese. Tanto da interrompere il proprio servizio allo Stato e ai cittadini. Ciò costituisce un salto di qualità nei rapporti tra magistratura e sovranità popolare, di cui il Parlamento, ci piaccia o no, è rappresentante (a differenza dei magistrati: art. 101 Cost.). Almeno nella Costituzione liberal- democratica vigente. È un salto di qualità perché “la Magistratura tutta, che si riconosce nell’A. n. m.” (così la mozione sullo sciopero) non si limita ad esprimere opinioni e pareri, ma sceglie uno strumento di lotta politica che, per sua natura, e per espressa dichiarazione dell’Anm stessa, mira a cambiare l’indirizzo legislativo della maggioranza politica. Cos’altro significa, malgrado l’edulcorazione quasi esoterica del linguaggio, affermare che “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma” si dovranno prevedere “tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”? La prefigurazione di altri scioperi cos’è se non la conferma che si è entrati deliberatamente sul terreno della lotta politica reiterata nei confronti del Parlamento? La seconda conclusione è che, in questa cornice, esiste un convitato di pietra: i referendum sulla giustizia, che la delibera sullo sciopero nemmeno menziona benché in esso vi siano soluzioni più radicali, su alcuni aspetti, di quelle che vengono contestate alla riforma Cartabia. La domanda, che si è implicitamente fatta in altra occasione, rimane la stessa: lo sciopero è anche contro la possibile decisione del popolo nel referendum? Oppure la circostanza che i referendum rischino di non raggiungere il quorum è, per l’Anm, un motivo utile perché la sua interpretazione dei “bisogni veri del paese” venga, in questo caso, tatticamente e, qualcuno potrebbe dire, opportunisticamente taciuta? Domande che non richiedono di scomodare i grandi principi costituzionali. E attendono risposta. Referendum. “A mani nude per il quorum”, Salvini tenta il colpo di reni di Errico Novi Il Dubbio, 10 maggio 2022 Il leader leghista prova a recuperare terreno sui referendum. A Milano pannelliani in sit-in davanti alla sede Rai, qualcosa si muove: oggi e domani speciale del Tg3, un po’ di spazio sui Gr. “Ci temono...”. Un mese. Trentadue giorni, per l’esattezza. Niente. Ecco quanto manca al 12 giugno, giorno in cui gli italiani dovrebbero votare i referendum sulla giustizia. Matteo Salvini ha davanti a sé lo spettro del fallimento nella corsa al quorum, e tira fuori una parte della propria cifra politica che non può essere considerata tra le peggiori: la grinta del testardo. Parla in video-collegamento con la sede dei pannelliani a Roma. Lì, nella storica sede di via Torre Argentina, nel pomeriggio di ieri, è prevista la presentazione del libro della tesoriera del Partito radicale Irene Testa: “Il fatto non sussiste”. “Sapere che ci sono mille errori giudiziari all’anno che poi finiscono in mille carcerazioni è drammatico”, premette il leader della Lega. Che quindi racconta: “Quando abbiamo incontrato gli altri partiti in Parlamento, per capire se c’era la volontà di fare una riforma della giustizia seria, abbiamo detto “proviamoci noi, a mani nude”. Ecco, Salvini si sente così, nella sfida per il quorum sui quesiti del 12 giugno: a mani nude, cioè disarmato. Motivato, ma disarmato. Metafora efficace, d’accordo. Forse la scelta di drammatizzare poteva anche essere anticipata un po’. “Il sistema ha paura di noi”, dice ancora. Può darsi ci sia effettivamente, nel governo innanzitutto, paura di lasciare che i cittadini mettano le mani sula giustizia. “Tanti non sanno cosa accade il 12 giugno, non sanno che si votano i referendum”, è l’accusa del Capitano, che già sabato scorso, in video-collegamento con un’altra manifestazione, a Modena, aveva parlato di “lobby del silenzio” attorno ai cinque quesiti, formata da “politica, giornalismo, da certa magistratura”. Ed è vero, finora c’è stato il gelo dell’informazione, sull’iniziativa promossa da radicali e Lega. Lo contestano in mattinata anche altri militanti pannelliani, guidati dall’avvocata Simona Gianetti, che manifestano davanti alla sede Rai di corso Sempione a Milano. Due giorni prima anche il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza aveva parlato, in un’intervista al Giornale, di “servizio pubblico radiotelevisivo che sta venendo meno clamorosamente alla sua funzione”. Ma qualcosa ora inizia a muoversi: in simultanea o quasi con le dichiarazioni del leader leghista, la Rai diffonde una nota in cui annuncia un doppio approfondimento su Rai 3, oggi e domani, nel rotocalco delle 12.25 “Fuori Tg”. Si parte con i quesiti su separazione delle funzioni, candidature dei togati al Csm e voto degli avvocati sulle carriere sui giudici. Domani seconda puntata con focus su legge Severino e custodia cautelare. E già da ieri mattina la prima edizione del Giornale radio approfondisce, a puntate, il contenuto delle proposte abrogative. Non può bastare ma inizia a esserci un minimo di luce dopo settimane di oggettivo oscuramento, e forse le proteste dei radicali, dell’Ucpi e ora finalmente della Lega producono qualche effetto. Tra l’altro nel mondo dell’avvocatura va ricordato l’impegno partito dall’Ordine di Milano e propagatosi all’Organismo congressuale forense, ammesso nelle tribune referendarie (quando ci saranno) sia dalla Vigilanza Rai che, per le tv private, dall’Agcom. È indiscutibile che una materia cruciale come la giustizia avrebbe meritato altra visibilità già nei mesi scorsi. “Abbiamo un debito pubblico di 6 milioni di giudizi pendenti: se innocenti è una barbarie, se colpevoli è una follia”: Salvini tira fuori gli slogan a effetto, anche un po’ trasversali rispetto alla doppia anima del Carroccio, garantista in forma atipica. “Certo la Cassazione un referendum a caso lo ha eliminato: casualmente, quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Ma ci vorrebbero anche due Csm, uno per chi indaga e uno per chi giudica. E chi indaga e chi giudica non dovrebbero mai incontrarsi, ma nemmeno in vacanza a barca a vela”. Con un finale un po’ retorico e un po’ romantico: “Il 12 giugno gli italiani possono rivoluzionare la giustizia”, vero ma tardivo. Meglio quell’appello realista e sentimentale: “Sarà difficile raggiungere il quorum del 51% al referendum? Sì. È impossibile? No. Passo dopo passo, come gli Alpini”. Se non altro, ora il capo della Lega non può più tirarsi indietro. Tre innocenti in cella ogni giorno. E il Sistema teme le urne di Anna Maria Greco Il Giornale, 10 maggio 2022 La convention dei Radicali sugli “orrori” giudiziari. Salvini: “Con i cinque quesiti noi a mani nude contro tutti”. Errori, o meglio “orrori” giudiziari, che travolgono le vite di semplici impiegati e politici affermati, di amministratori locali, ambasciatori, giornalisti, imprenditori, avvocati, docenti universitari, architetti, commercianti...Tutti accusati, sbattuti in prigione, condannati ingiustamente, poi assolti. E nella sede romana del Partito Radicale 30 di queste storie sono protagoniste di una convention, aperta dall’intervento dell’avvocato Annamaria Bernardini de Pace, che vuole tenere alta l’attenzione sui referendum di giugno, quelli che potrebbero cambiare il sistema giustizia più radicalmente della riforma Cartabia. I nomi delle vittime sono tanti, dall’ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo, assolto dall’accusa del 2015 di lesioni colpose per un pattinatore caduto in una buca a Marcello Pittella, ex presidente della Basilicata assolto per la Sanitopoli lucana, dopo le dimissioni per le accuse del 2018 che hanno portato la Regione al voto anticipato. La Campagna per il Sì, dice Matteo Salvini, in questi 33 giorni “dobbiamo farcela da soli, a mani nude e contro tutti, gli spazi tv li hanno chiesti Radicali, Lega e socialisti, per tutti gli altri va bene così? Con 1000 errori giudiziari all’anno e 6 milioni di processi pendenti?”. Il leader del Carroccio siede accanto alla radicale Irene Testa, che ha raccolto i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari nel libro “Il fatto non sussiste. Storie di orrori giudiziari”, con la prefazione di Gaia Tortora. L’ appuntamento delle urne del 12 giugno ancora troppi neppure lo conoscono mentre, spiega Salvini, “non sarà una rivoluzione copernicana, ma un mattoncino per costruire la casa sì”, perché quei 5 quesiti sono altrettante possibili “pacifiche rivoluzioni” del sistema giustizia. Se, “guarda caso”, è stato bocciato il quesito sulla responsabilità civile delle toghe rimangono altri importanti, a cominciare da quello sulla separazione delle carriere. Salvini crede ai referendum perché non crede alla riforma approvata dalla Camera e ora all’esame del Senato. “Abbiamo parlato con i partiti e con la ministra Cartabia, la cui riforma non passerà alla storia e abbiamo capito che aria tirava, così abbiamo deciso con i Radicali, portatori di idee sane, di fare la nostra parte”. La battaglia sarà dura, in un momento particolare, tra guerra, coda della pandemia, crisi economica, in cui sui referendum è calato il silenzio. “Sarà difficile raggiungere il quorum del 51%? Sì. Sarà impossibile? No. E se milioni di italiani chiederanno il cambiamento, per il parlamento sarà difficile far finta di niente”, dice il leader leghista. Salvini promette il suo impegno e raccomanda a tutti di informare sui quesiti. “Magari ci fossero i sostenitori del No - sbotta - io li pagherei, invece ci sono i sostenitori del niente, del silenzio, che ammazza la democrazia”. Lui parla per esperienza, da imputato per le scelte da ministro sui migranti, raccontando dei processi nell’aula bunker dell’Ucciardone. “L’ultima udienza è durata 12 ore e capisci che la tua libertà è in mano a tre persone, le vedi lì, magari sono nervose, hanno i loro problemi. Ma decidere della vita e della libertà delle persone non è un mestiere come un altro. Quando Silvio Berlusconi parlava di test attitudinali per fare il giudice aveva ragione. Non basta un concorso, servono tante prove, non solo professionali. E invece sento di nomine in base all’appartenenza correntizia, a logiche politiche”. Tra le testimonianze di chi da innocente ha vissuto processi, carcere, gogna mediatica, “perché ormai i processi non si fanno in tribunale ma prima in tv”, arriva il turno del vicepresidente leghista del Senato Roberto Calderoli, introdotto dal direttore di Radio Radicale Alessio Falconio. “Devo fare mea culpa su alcune valutazioni del passato sul diritto: ringrazio il partito radicale per aver trasformato un giustizialista in un garantista convinto. Ora dico che è meglio dichiararsi colpevole. Perché, se non hai fatto niente e qualcuno si è convinto del contrario, alla fine ti rovini la vita per sempre. Mi dichiaro colpevole di aver scritto i referendum, di aver raccolto le firme. Siamo più di 3, un’organizzazione a delinquere”. La schizofrenia politica di Salvini sui referendum sulla giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 maggio 2022 Leader (anziché follower) si nasce e Salvini, tristemente, non lo nacque. Non si può spiegare altrimenti la schizofrenia politica mostrata dal segretario della Lega attorno ai cinque referendum sulla giustizia, previsti il prossimo 12 giugno. La scorsa estate, l’ex ministro dell’Interno mobilitò l’intero partito per supportare la raccolta firme con i Radicali, tempestando quotidianamente gli organi di informazione e i social network con appelli in favore di una giustizia giusta. A tutto ciò si accompagnò un bollettino costante sull’andamento delle adesioni (“Già raccolte 100 mila firme”, “superate le 200 mila firme”), Dopo lo scandalo Palamara, lo spirito anti- toghe animava l’opinione pubblica e il segretario della Lega decise di seguire l’onda, scoprendosi improvvisamente garantista. A Ferragosto, annunciò il raggiungimento di 500 mila firme e l’intenzione di arrivare al milione per ciascun quesito. Poi a fine ottobre qualcosa andò storto. Anziché depositare le firme in Cassazione (“fra 700 e 750 mila adesioni per ognuno dei sei quesiti”), i vertici del Carroccio decisero di far avanzare la richiesta di referendum abrogativo da cinque consigli regionali a guida centrodestra, lasciando i Radicali fuori dai giochi (fu Roberto Calderoli, coordinatore della campagna, a rendersi conto probabilmente che buona parte delle firme raccolte dai banchetti leghisti non avrebbe superato lo scrutinio in Cassazione). A febbraio la Corte costituzionale ammise cinque quesiti referendari su sci (escludendo quello sulla responsabilità diretta dei magistrati). Salvini esultò: “Dopo trent’anni saranno finalmente gli italiani a fare la riforma della giustizia”. Era il 16 febbraio. Da allora, per quasi tre mesi, il segretario della Lega non ha più proferito parola sui quesiti referendari. Nessun intervento pubblico, nessuna intervista, addirittura nessun post sui social, nonostante la sfida difficilissima rappresentata dal raggiungimento del quorum. Ad aprile, interpellato dal Corriere della Sera, Salvini ha spiegato così il suo silenzio sui referendum: “I primi cinque titoli dei tg sono sulla guerra, il sesto e sul Covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, di risparmi e magari flat tax”. Insomma, una confessione piena, anche se non voluta: “Cosa volete da me? Io sono un follower, mica un leader”. Segue il flusso, Salvini. Sa che il tema giustizia non tira più nell’opinione pubblica come prima, che soprattutto il raggiungimento del quorum appare impresa quasi impossibile (complice anche l’inammissibilità dei quesiti riguardanti l’eutanasia e la cannabis). Tanto vale, allora, adattare la macchina comunicativa del partito alla bulimia informativa sulla guerra. Tanto vale continuare a postare sui social post sui cinghiali a Roma e sui cuccioli di cane maltrattati. Questo silenzio si è improvvisamente interrotto sabato scorso, quando Salvini, intervenendo a un evento a Modena, ha denunciato la “lobby del silenzio” che avvolge il referendum del 12 giugno. Non si è accorto che di questa lobby anche lui ha fatto parte fino a oggi. In maniera ancora più paradossale, il segretario leghista ha rilanciato sui social questo intervento proprio poche ore dopo aver pubblicato un suo solito post forcaiolo. Nel post Salvini alimenta l’indignazione popolare sulla vicenda dell’assoluzione di Alejandro Meran, che il 4 ottobre 2019 uccise due poliziotti, Matteo Demenego e Pierluigi Rotta, durante una sparatoria in questura a Trieste: “Mancanza di rispetto per gli agenti morti, per le loro famiglie e per i colleghi”. Non scrive, Salvini, che l’imputato è stato dichiarato incapace di intendere e volere, sulla base di una perizia chiesta dalla corte. Che a chiedere l’assoluzione dell’uomo è stata la stessa procura. Che è il nostro codice penale a prevedere che non sia possibile condannare una persona con vizio totale di mente. Che all’uomo sarà applicata la misura di sicurezza detentiva del ricovero in una Rems per la durata minima di 30 anni. Ciò che conta è seguire il flusso, quello della forca. Non pago, ieri in una nota il garantista Salvini ha anche annunciato un’interrogazione urgente sulla vicenda, definendola “una vergogna insopportabile”. Due ore dopo, si è presentato alla sede del Partito radicale per un incontro sui referendum sulla giustizia: “Tanti non sanno cosa accade il 12 giugno, non sanno che si votano i referendum. Il sistema ha paura”, ha detto, prima di tornare nella lobby del silenzio. Calderoli: “C’è una congiura contro i referendum. I magistrati decidono su tutto” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 10 maggio 2022 Il vicepresidente del Senato e il referendum sulla Giustizia: “Le toghe vogliono sterilizzare il voto. Decidono per tutto, di fatto non ci sono più i pesi e i contrappesi tra poteri dello Stato. Per dirla semplice: se il vino è buono, te lo dice sempre l’oste”. “Sono una bestia… sono furioso”. Roberto Calderoli è uno degli architetti dei 5 referendum sulla Giustizia promossi dalla Lega insieme ai Radicali che si terranno il prossimo 12 giugno: “È partita la congiura del silenzio. Insieme a quella per sterilizzare la consultazione”. Sta dicendo che dei referendum si parla poco? Accade per tutti i referendum… “Perché, a lei non sembra? Gli indizi ci sono tutti”. Di quali indizi parla? “Dei 5 referendum presentati, è stato bocciato quello di maggior presa, la responsabilità diretta dei magistrati, quello che avevamo chiamato “Chi sbaglia paga”. Non si capisce perché, visto che il quesito era stato dichiarato ammissibile nel 1987. Osservo che sono stati bocciati anche referendum non nostri sulla cannabis e sull’eutanasia, che avrebbero veicolato ampia partecipazione”. Calderoli, però, è una questione per tecnici, lo ha deciso la Corte costituzionale... “Ma aspetti… Secondo indizio: la riforma della giustizia di cui sento parlare da 40 anni mette il turbo e arriva in Parlamento. La riforma è un brodino che allunga le questioni vere. Ma guarda un po’, provano in tutti i modi ad approvarla appena prima di arrivare al voto: farebbe saltare tre quesiti su cinque”. Perché un brodino? “Il Csm sarebbe stato da sciogliere, e invece con la riforma ne aumentano i membri. Le correnti sanno quello che prenderanno in una bella spartizione tra magistrati e partiti: e vissero tutti felici e contenti. E il passaggio di carriera tra magistrato inquirente e giudicante che si può fare una volta sola? Mi ricorda la barzelletta sulla figlia incinta “ma soltanto un pochino”. E poi le “porte girevoli”: se uno rinuncia alla toga, deve essere per sempre”. Altri “indizi”? “Beh, c’è la data del referendum. È stata scelta la prima domenica dopo la fine della scuola e dopo due anni di clausure da pandemia”. Voi stessi avevate chiesto di far coincidere i referendum con le amministrative… “Certo, anche se le amministrative riguardano soltanto un comune su otto. Soprattutto, con l’election day potevamo aspettarci di votare anche il lunedì. E invece, il voto sarà soltanto di domenica. Per completare l’indizio, aggiungo che si sarebbe potuto votare prima anche per le amministrative, per esempio a maggio. Ma ha prevalso la linea del ministro Bianchi: voto a scuole chiuse”. Va bene, ma chi sarebbe il “grande vecchio” della congiura? “A me pare chiaro che ci sia un ormai un cortocircuito tra i poteri dello Stato. Chi è il sommo garante della Costituzione? Il presidente della Repubblica. Che ha uno staff formato per oltre la metà di magistrati. Chi mette a punto i decreti del governo? Il Dipartimento Affari giuridici e legislativi (Dagl) in cui i magistrati credo che raggiungano l’80% del personale. Qualunque parlamentare può proporre le proprie proposte di modifiche ai decreti. Chi le valuta? Con ogni probabilità, un magistrato. I magistrati decidono per tutto, di fatto non ci sono più i pesi e i contrappesi tra poteri dello Stato. Per dirla semplice: se il vino è buono, te lo dice sempre l’oste”. Sembra sfiduciato… “Macché. A costo di passare per il giapponese sull’isola, io spero che gli italiani vengano a votare. È l’unico modo per fare sentire la voce del popolo”. Riforma della giustizia e soppressione dei tribunali di Massimo Carugno Il Riformista, 10 maggio 2022 Erano gli ultimi giorni di agosto del 2011 quando Michele Vietti, avvocato e cattedratico, insediato sullo scranno di Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dall’amico Pier Ferdinando Casini, lanciò un proclama che avrebbe avuto conseguenze negativissime nel panorama della giustizia italiana. La grande crisi economica del 2009 aveva appena investito il pianeta e l’ansia di tutti i governi era quella di accelerarne l’uscita, affastellati tra uno spread crescente e le 3 A di un ranking, che cadevano come birilli, mentre a Wall Street si contavano i cocci dei fallimenti delle grandi banche stelle e strisce. “Il riordino della geografia giudiziaria e la soppressione dei tribunali minori ci farà guadagnare 3 punti di P.I.L.”, disse l’uomo della politica neo-democristiana, fiero di essersi riempito la bocca del tema del momento e non sapendo, poverino, quel che stava per scatenare. Il governo Berlusconi, il IV di questo nome, era alla frutta ma cercava disperatamente di resistere dando segnali a destra e a manca di efficienza e controllo della spesa e l’allora Ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, subentrato appena un mese prima al dimissionario Angelino Alfano, si affannò a presentare un decreto legge, convertito poi in una legge delega, che conteneva i criteri per la soppressione di numerosi tribunali. Era il 14 settembre del 2011 e la legge portava il numero 148. Appena un anno dopo il Ministro Paola Severino, lanzichenecca nel governo Monti, il cui epinomo nel frattempo era subentrato a Palazzo Chigi nel tentativo di ridare credibilità al paese dopo i disastri dell’uomo di Arcore, varò il decreto legislativo 155/2012 con il quale furono cancellati 37 tribunali e 220 sezioni distaccate. “Una svolta epocale,” la definì il Ministro, una dei tanti cattedratici di quel governo che dimostrarono, come sempre, che l’eccesso di teoria allontana dai problemi del paese reale. E fa niente che poi di quel risparmio, del quale la politica aveva innalzato il vessillo, non si vide nulla, visto che le spese dei tribunali le pagavano i comuni che li ospitavano e il costo più rilevante, quello del personale, non era stato risparmiato perché non si potevano licenziare le persone. “Ma ne miglioriamo l’efficienza”, si disse da più parti, specie dalla magistratura e da quei giudici che, fuggiti dalle aule dei processi, occupavano i posti tecnici del Ministero rappresentandone la vera volontà esecutiva a dispetto di quella politica. Peccato che i monitoraggi e gli studi successivi, tra cui uno mirabile di un noto giornale finanziario, stimarono tra quelli più efficienti d’Italia proprio quei tribunali la cui soppressione, in esecuzione di quel provvedimento definito dalla Severino epocale, era in itinere. Parliamo per esempio dei 4 tribunali abruzzesi, di Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto, la cui cancellazione era stata congelata per i problemi legati alla Corte d’Appello di L’Aquila ancora precaria per il terremoto del 2009. Perché l’efficienza proclamata dai boiardi del ministero è ben diversa da quella d’uso comune nel pensiero dominante della buona amministrazione. In effetti verrebbe spontaneo pensare, per efficiente, a un tribunale che sia a dimensione d’uomo, che abbia una durata breve dei processi, dei tempi ristretti per l’accesso agli uffici e per il ritiro dei documenti, una evasione puntuale di fascicoli e processi. E ancora che sia vicino ai cittadini, moralmente e fisicamente, e che non si debbano fare ore di percorrenza per raggiungerlo da uno qualunque dei comuni del suo circondario, appesantiti da una orografia montana e da una viabilità tortuosa che per fare 40 chilometri richiede due ore di viaggio, magari anche allietati da ghiaccio e neve. Ma dalle parti di via Arenula non la pensavano così, anzi, di tali considerazioni non gliene poteva fregà di meno (ci si perdoni il francesismo). E già. Perché di questa storia dei Tribunali ne parlavano da tempo, anzi, loro ne stavano parlando da decenni. Solo che nella prima repubblica c’era una politica che governava la grande finanza e gli apparati amministrativi dello stato. Le repubbliche successive (seconda e l’attuale terza) sono state, aimè, dominate dai poteri economici e tirannegiate da quelli tecnocratici (vedi i disastri dei governi tecnici). Dalle parti del Palazzo dei Marescialli infatti hanno sempre avuto in testa l’idea che un giudice non dovesse saltare dal civile al penale, dai divorzi ai decreti ingiuntivi, dai pignoramenti immobiliari all’ordinanza di custodia cautelare da comminare nell’udienza preliminare. Questo cambio continuo di materie era robaccia da avvocati e non una palestra ove cimentarsi in esperienze nuove ed allargare il proprio scibile giuridico. Non era una opportunità formativa ma piuttosto un faticoso fastidio a cui dare rimedio. E venne fuori il concetto tutto particolare di efficienza legata ovviamente a quello di specializzazione. Si pensò quindi che i tribunali ideali fossero quelli composti da un numero tale di giudici (oltre una trentina) da permettere a ognuno di essi di dedicarsi ad un pezzettino della scienza giuridica e pronunciare ed emettere sentenze con i container (tanto sarebbero state tutte le stesse: solo da cambiare, con il copia/incolla, i nomi delle parti) e fare quello per tutta la vita. E fa niente se una tale riforma avrebbe creato solo delle megalopoli giudiziarie che avrebbero investito il cittadino con una agilità elefantiaca, fa niente se si sarebbero create delle cattedrali nel deserto distanti mille miglia dal paese reale, fa niente se un povero sventurato, per muoversi all’interno di tali alveari di giudici e cancellieri, avrebbe avuto bisogno del navigatore e del GPS, fa niente se interi territori della penisola sarebbero rimasti sguarniti di presidi giudiziari ancorché fossero all’interno, o adiacenti, a zone ad alta densità criminale, fa niente se aree che ospitavano, e ospitano, carceri importanti e ad alta sicurezza, si sarebbero trovate all’improvviso sguarnite di uffici giudiziari esponendosi ai rischi di lunghi e pericolosi trasferimenti per permettere a detenuti temutissimi di partecipare alle udienze. Come si dice dalle mie parti “se sta bene Rocco, sta bene tutta la Rocca”. Poi le cose sono cambiate, quella riforma, che giaceva nelle fantasie di qualcuno tra i corridoi grigi del Ministero ed è stata silente per anni perché sopita da una politica che teneva a guardia certe spinte corporative, con il degrado della autorevolezza della classe di governo è rispuntata fuori ed è stata prepotentemente adottata proprio sulla spinta della tecnocrazia dei giudici. Ed oggi ce la troviamo adottata con tutte le negatività di cui abbiamo fatto cenno. Si potrebbe fare lo stesso discorso anche per altri settori della amministrazione pubblica come la Sanità, anch’essa spettatrice inerme di gravosi tagli di presidi in nome del risparmio della spesa, lasciando poveri di essi territori e popolazioni. Ci si dimentica che certi settori della vita pubblica come la Giustizia o la Sanità sono servizi e non aziende e rispondono al criterio del soddisfacimento dei bisogni della comunità e non al realizzo di un profitto. Sono comparti che devono andare incontro al cittadino e non obbligarlo a inseguirli. In fondo lo dissero anche i padri costituenti quando, formulando l’art.5 della Carta, sancirono che la Repubblica avrebbe favorito e adottato il decentramento amministrativo. Solo che di questi sani principi ce ne siamo presto dimenticati e oggi guardiamo, in maniera bolsa e miope, alla riforma della Cartabia, (che si occupa solo di come eleggere i giudici nel plenum del C.S.M.), come a l’unica possibile e necessaria. Più che quella, il Ministro proveniente dal Palazzo della Consulta avrebbe dovuto fare tante altre cose. Ne abbiamo fatto cenno in una precedente riflessione pubblicata su queste colonne. E tra esse riformare la riforma della geografia giudiziaria, anzi adottare una vera controriforma e, se proprio volessimo spingerci all’estremo, non solo riaprendo tutti i tribunali chiusi, ma istituendone di nuovi per avvicinare tali servizi ai cittadini e i cittadini ai giudici con più fiducia e maggiore speranza di ottenere giustizia vera. Ma questi sarebbero sogni e i sogni, si sa, non si avverano mai, o quasi. Cucchi, le motivazioni della Cassazione: “Il pestaggio è stata la causa primigenia della morte” La Stampa, 10 maggio 2022 “I carabinieri erano consapevoli delle conseguenze delle percosse”. “La questione della prevedibilità dell’evento nel caso di specie è fuori discussione”, date “le modalità con le quali gli imputati hanno percosso la vittima attingendola con violenti colpi al volto e in zona sacrale ossia in modo idoneo a generare lesioni interne che chiunque è in grado di rappresentarsi come prevedibile conseguenza di tale azione”. Lo scrive la Cassazione, spiegando perché, il 4 aprile scorso, ha condannato in via definitiva a 12 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro in relazione al pestaggio subito da Stefano Cucchi la sera del 15 ottobre 2009 nella caserma della compagnia Casilina. “Dal racconto di Tedesco - rileva la Cassazione nelle motivazioni della sentenza depositate oggi - emerge in maniera inequivocabile che il comportamento ostruzionistico tenuto da Cucchi per sottrarsi al fotosegnalamento si era già esaurito al momento della violenta aggressione fisica portata ai suoi danni, tanto che già si stavano predisponendo a lasciare la sala Spis dopo aver comunicato telefonicamente con il loro comandante e aver ricevuto l’ordine di soprassedere all’adempimento”. Dunque, il comportamento degli imputati non era “più riconducibile nemmeno astrattamente all’ipotetica intenzione di vincere una sua resistenza”, mentre dalle dichiarazioni di Tedesco, “i giudici territoriali - evidenzia la Suprema Corte - hanno in maniera logica affermato l’insufficienza del successivo “battibecco” verbale” a giustificare “la reazione violenta” dei due militari. Con queste parole, i giudici del “Palazzaccio” mettono in luce come “tale ricostruzione risulti pienamente aderente alla nozione di motivo futile”: l’aggravante in questione, “ricorre - ricordano nella sentenza - ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento”. Giusto processo batte ragionevole durata di Dario Ferrara Italia Oggi, 10 maggio 2022 Giusto processo batte ragionevole durata. Altro che ricorso inammissibile: la Cassazione deve poter annullare con rinvio la pronuncia se la Corte d’appello dichiara il non luogo a procedere perché il reato è prescritto, ma lo fa in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio tra le parti. Lo stabilisce la Corte costituzionale con la sentenza 111/22, che dichiara illegittimo l’articolo 568, comma quarto, Cpp in quanto interpretato con l’inammissibilità del ricorso di legittimità per carenza d’interesse ad impugnare. E ciò perché l’esigenza di concludere in tempi brevi il procedimento, specie in sede penale, è sempre il frutto di un bilanciamento tra gli interessi pubblici e privati in gioco, mentre deve ritenersi che l’imputato prosciolto per l’estinzione del rato abbia sempre un rilevante interesse a sottoporre la mancata applicazione delle formule più ampiamente liberatorie alla Cassazione piuttosto che alla verifica di un giudice di merito. Obiettivo naturale - A sollevare la questione di legittimità è la prima sezione penale della Suprema corte nell’ambito di un procedimento per associazione a delinquere finalizzata all’esportazione illegale di armi. La Corte d’appello accoglie la richiesta scritta del procuratore generale dichiarando estinto il reato perché la prescrizione risulta maturata nelle more. Ma la sentenza di non doversi procedere risulta emessa senza citazione delle parti. A questo punto, secondo l’interpretazione della norma oggi bocciata dall’Alta corte, la Cassazione non potrebbe che dichiarare l’inammissibilità del ricorso. Attenzione, però: la violazione del principio di ragionevole durata del processo - di cui all’articolo 111, secondo comma, della Costituzione - può essere ravvisata soltanto quando i tempi processuali si dilatano senza che ve ne sia alcuna esigenza logica per effetto di una specifica disciplina, che dunque si rivela priva di ratio sul punto. Il tutto mentre il processo deve raggiungere il suo scopo naturale: accertare il fatto ascrivendo le eventuali responsabilità nel pieno rispetto delle garanzie difensive, per quanto sia essenziale farlo in tempi umani. Compressione illegittima - La sentenza predibattimentale in appello, in sostanza, finisce per sopprimere un grado di giudizio, il che non trova fondamento nel codice di rito: senza il contraddittorio fra le parti si limita l’emersione delle ragioni per il proscioglimento nel merito e si impedisce all’imputato di rinunciare eventualmente alla prescrizione; una compressione di facoltà non più recuperabile nel giudizio di legittimità che ha una cognizione più limitata rispetto al merito. Prescrizione, ricorso più ampio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2022 Corte costituzionale. Si riespande l’area di impugnabilità dei giudizi penali. Questa la conseguenza della sentenza della Corte costituzionale depositata ieri e scritta da Stefano Petitti. La pronuncia ha infatti dichiarato l’illegittimità dell’articolo 568, comma 4, del Codice di procedura penale, nell’interpretazione secondo la quale è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per Cassazione proposto contro sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato. Per la Consulta, il bilanciamento tra l’interesse dell’imputato a impugnare - per la mancata valutazione di cause di proscioglimento nel merito - la sentenza predibattimentale d’appello, che abbia dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione senza alcun contraddittorio, e il principio di ragionevole durata del processo, come operato dall’interpretazione radicata nella giurisprudenza di legittimità, non è rispettoso del diritto di difesa e della garanzia del contraddittorio. Richiamandosi a un suo precedente, sentenza n. 317 del 2009, la Corte costituzionale afferma che un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, qualunque sia la sua durata. In realtà, non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sia del diritto di difesa. “Tanto meno - osserva la sentenza - il conclamato sacrificio del contraddittorio e del diritto di difesa può giustificarsi, nella prospettiva dell’utilità concreta dell’impugnazione, in base ad una prognosi di superfluità del dispiegamento di ulteriori attività processuali in sede di rinvio, volte a pervenire al proscioglimento con formula di merito”. La Corte, infatti, ha già in passato sottolineato l’essenzialità che riveste il contraddittorio, anche per l’accertamento della causa di estinzione del reato (sentenza n. 91 del i992), e la rilevanza dell’interesse dell’imputato prosciolto per estinzione del reato a sottoporre la mancata applicazione delle formule più ampiamente liberatorie alla verifica di un giudice di merito, piuttosto che alla Corte di cassazione (sentenza n. 249 del 1989, sulla disciplina del precedente Codice di procedura penale). Coerente con questi principi, del resto, è l’articolo 469 del Codice di procedura, sul proscioglimento prima del dibattimento, che permette sì al giudice di primo grado di definire il giudizio con sentenza adottata in camera di consiglio, ma prevede che la sentenza sia adottata “sentiti il pubblico ministero e l’imputato e se questi non si oppongono”; così l’istituto, pur puntando a evitare i dibattimenti superflui, non priva le parti del diritto all’ascolto delle loro ragioni. Viterbo. Detenuto impiccato in cella, chiesti una condanna e tre rinvii a giudizio di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 10 maggio 2022 Morte in carcere di Andrea Di Nino, la procura chiede quattro mesi per il dirigente che ha scelto l’abbreviato e il rinvio a giudizio degli altri tre indagati per omicidio colposo. I quattro imputati sono comparsi nuovamente ieri davanti al gup Giacomo Autizi. Parti civili gli otto fratelli e i cinque figli di Andrea Di Nino, anche per la madre, deceduta un anno dopo la tragica morte del figlio, detenuto romano 36enne del carcere di Mammagialla, trovato impiccato in cella d’isolamento la sera del 21 maggio 2018. Presenti in aula come sempre i familiari della vittima, il pubblico ministero Michele Adragna ha chiesto una condanna a quattro mesi di reclusione, con lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito, per il dirigente della casa circondariale difeso dall’avvocato Marco Russo, che ha scelto l’abbreviato e al quale sono riconosciute tutte le attenuanti. Gli altri tre sono due sanitari e un penitenziario che, se sarà accolta la richiesta del pm, saranno rinviati a giudizio e processati nel corso di un pubblico dibattimento, non avendo chiesto in fase preliminare di ricorrere a riti alternativi. L’udienza preliminare riprenderà il prossimo 6 giugno per la discussione delle altre parti, difensori della famiglia e degli imputati, mentre per il 20 giugno, salvo imprevisti, il giudice si ritirerà in camera di consiglio per la decisione. Di Nino, padre di cinque figli, al momento in cui fu rinvenuto cadavere, verso le 22 del 21 maggio di quattro anni fa, era in carcere da due anni per possesso di stupefacenti. Si è suicidato in cella di isolamento del penitenziario da dove sarebbe uscito di lì a un anno. I familiari sono convinti che non si sarebbe mai potuto suicidare. In primis perché gli mancava un anno alla fine della pena ed era convinto che sarebbe uscito anche prima. E poi perché dalle lettere che scriveva ai suoi cari, era evidente il desiderio di viversi appieno la famiglia una volta uscito dal carcere. “Ho voglia di spaccare il mondo” scriveva il 36enne. Lecce. Opportunità e servizi ai detenuti: inaugurata nuova aula per studi universitari lecceprima.it, 10 maggio 2022 Prosegue il percorso di reinserimento sociale e godimento del diritto allo studio promosso dall’Università del Salento e dalla direzione della casa circondariale di Borgo San Nicola. Circa 20 gli iscritti ai corsi di laurea. È stata inaugurata ieri mattina nella casa circondariale di Borgo San Nicola a Lecce un’aula attrezzata con arredi e supporti tecnologici e destinata a supportare le attività di studio dei detenuti e che sono iscritti a un corso di laurea dell’Università del Salento. Si tratta della prima iniziativa di questo genere che trova attuazione in Puglia, su input del rettore Fabio Pollice, della direttrice del carcere, Mariateresa Susca, e della professoressa Marta Vignola, delegata del rettore per il Polo penitenziario universitario. La nuova sala è dotata di postazioni cablate, pc, tavoli per riunioni seminariali e una smart tv, ed è stata allestita con pannellature personalizzate che hanno anche lo scopo di abbattere il riverbero acustico. L’aula studio inaugurata questa mattina rappresenta un’altra tappa nel percorso per un pieno ed effettivo godimento del diritto allo studio degli studenti detenuti: sono circa 20 all’Università del Salento, iscritti a corsi di laurea nei settori dei beni culturali, di comunicazione, sociologia, pedagogia, giurisprudenza, lingue, viticultura ed enologia e scienze motorie. Diversi coloro che hanno già conseguito la laurea triennale, in alcuni casi anche con il massimo dei voti. “Un’inaugurazione importante, emozionante, che restituisce il ruolo fondamentale dell’Università”, sottolinea il rettore Fabio Pollice, “ai detenuti viene offerta la possibilità di un percorso che ne favorisca il reinserimento sociale e occupazionale: qualcosa di estremamente significativo, dunque, per la comunità accademica e per la comunità territoriale”. All’inaugurazione erano presenti tra gli altri anche la presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone, il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Pietro Rossi, il garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Maria Mancarella. E ancora il provveditore per Puglia e Basilicata dell’amministrazione penitenziaria, Giuseppe Martone, la dottoressa Maria Cristina Rizzo per la procura di Lecce, la responsabile regionale dell’Associazione Antigone, Mariapia Scarciglia, la dottoressa Silvia Cazzato che, sulla base di uno specifico incarico, segue per l’Università il percorso accademico di questi studenti. Presente anche una rappresentanza delle volontarie che operano in carcere nel ruolo di tutor alla didattica e una rappresentanza degli studenti di UniSalento ospiti della casa circondariale. “Lo studio universitario all’interno degli istituti penitenziari rappresenta una sfida per le istituzioni”, dice la direttrice della Casa circondariale di Borgo San Nicola, Mariateresa Susca, “e un’opportunità per i detenuti, che possono così impiegare il tempo in modo proficuo, vivere la detenzione in modo attivo e più responsabile. Hanno la possibilità di riflettere sulla propria condizione e di investire su sé stessi, preparandosi per quello che accadrà alla fine del periodo di detenzione con maggiore consapevolezza e con un titolo spendibile”. “Inauguriamo questa sala studio dopo un lungo percorso istituzionale, amministrativo e politico”, spiega la professoressa Marta Vignola, delegata del Rettore per il Polo penitenziario universitario, “l’Università entra finalmente in un’intera comunità, e lo fa con l’universalità che è caratteristica della nostra istituzione. Questo sarà un contenuto e un contenitore, non soltanto uno spazio per i nostri iscritti detenuti, ma per tutta la popolazione carceraria. Uno spazio di formazione, di interazione e di scambio tra dentro e fuori”. Roma. Il Garante in visita a Rebibbia con un ospite argentino garantedetenutilazio.it, 10 maggio 2022 Santiago Ferrando Kozicki, giurista addetto alla magistratura della difesa pubblica, favorevolmente impressionato dall’organizzazione del servizio sanitario e dalle attività trattamentali. Giovedì 5 maggio il Garante Anastasìa ha accompagnato in visita alla Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso Santiago Ferrando Kozicki, docente nella Università di Buenos Aires e giurista addetto al Ministerio Público de la Defensa della Repubblica Argentina, un’istituzione del sistema giudiziario nazionale e federale, preposto alla difesa e alla protezione dei diritti umani e a garantire un’assistenza legale completa nei casi individuali e collettivi, in particolare per i soggetti che si trovano in situazioni vulnerabili. La piccola delegazione è stata accolta dalla direttrice dell’istituto, Rosella Santoro, ed è stata accompagnata in visita dalla comandante della polizia penitenziaria, Alessia Forte. Sono stati visitati innanzi tutto i luoghi dove le persone detenute incontrano i propri familiari, vale a dire l’area verde, e le sale visite, per passare poi alla biblioteca centrale, le aule scolastiche e l’area sanitaria dell’istituto, attrezzata con servizi diagnostici anche a beneficio della Casa di reclusione e della Terza casa di Rebibbia. Gestita da personale della Asl Rm2, nell’area sanitaria si trovano gli ambulatori per le visite specialistiche e gli accertamenti diagnostici, come la sala radiologia collegata con l’ospedale Pertini, e una sala operatoria per piccoli interventi ambulatoriali. La delegazione ha poi visitato la cucina e il laboratorio gestito dalla cooperativa Men at work, che impiega personale detenuto e fornisce all’esterno cibo e prodotti di pasticceria, nonché pasti caldi che le persone detenute che ne fanno richiesta possono consumare con i propri familiari in visita. Ferrando Kozicki, che peraltro è docente in materie di diritto all’università di Buenos Aires, ha manifestato un certo interesse per i presidi delle tre università romane, dove la delegazione ha incontrato due maturi studenti di giurisprudenza. Nella sezione G8 sono inseriti i detenuti definitivi e vi è il reparto per i detenuti transgender. Qui la delegazione ha potuto vedere al lavoro il call center dell’ospedale Bambin Gesù che impiega all’interno dieci persone detenute e all’esterno una ventina di persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Nella sezione G8 ci sono anche una palestra, una sala musica, un piccolo spazio teatrale intitolato a Enrico Maria Salerno e sta per essere attivato lo sportello di assistenza giuridica Ananke Iuris, curata da uno studente di giurisprudenza che sta scontando una pena ventennale. Fiore all’occhiello della sezione G8, di cui è caporeparto l’ispettrice Cinzia Silvano, è il padiglione “Venere”, dal nome della prima stella del mattino che precede il sorgere del sole, dotato anche di una sala cucina con un grande tavolo da pranzo, unico spazio che ricorda la convivialità di una mensa che nelle carceri italiane, pur prevista dal Regolamento penitenziario, in genere non c’è. È proprio con le prime luci dell’alba che i detenuti che vi sono ospitati escono dal carcere per recarsi a lavorare all’esterno, grazie anche agli sgravi contributivi della legge Smuraglia destinati agli imprenditori che assumono persone detenute, e al progetto Seconda chance ideato e portato avanti da Flavia Filippi, giornalista del Tg de la7, d’intesa con il provveditore Carmelo Cantone e con il pieno sostegno dei garanti Anastasìa e Gabriella Stramaccioni. Nel G8 si trova anche una stanza destinata alla redazione interna del periodico “Dietro il cancello” (direttore responsabile: Federico Vespa). Completano il quadro una sala pittura, un’altra destinata ai corsi di formazione e ora ai corsi per sommelier. La visita si è conclusa nel teatro centrale, altro fiore all’occhiello dell’istituto romano. “Mucho mejor”, è stata la risposta di Santiago Ferrando Kozicki all’inevitabile domanda sulla differenza nelle condizioni materiali tra gli istituti penitenziari argentini e quello italiano che stava visitando. In particolare, molto migliore è apparsa agli occhi dell’ospite argentino l’area sanitaria gestita dal servizio pubblico italiano. Invece, Ferrando Kozicki ha manifestato stupore nell’apprendere che nelle carceri italiane non è prevista la visita intima e non è consentito alle persone detenute di possedere uno smartphone per parlare al telefono quando vogliono con i loro cari: con la pandemia, in Argentina è stato autorizzato ai detenuti il possesso di telefoni cellulari personali e l’innovazione è già stata consolidata per il futuro. Bologna. Immagini che attraversano i muri: apriamo un dialogo fra città e carcere fondazionedelmonte.it, 10 maggio 2022 Due laboratori di Arteterapia proposti dall’Associazione Art Therapy Italiana, a cura di Rebecca (Rivkah) Hetherington e Tiziana Massa, a Palazzo d’Accursio, Bologna, lunedì 23 maggio e lunedì 13 giugno dalle ore 19.00-21.00. I laboratori sono gratuiti e fanno parte integrante del Progetto “Poiché Io Sono”, incontri di arteterapia nella sezione femminile della Casa Circondariale “La Dozza” di Bologna. Al cuore dell’intervento stanno i temi dell’integrazione e dell’inclusione: in ogni città in cui è presente un carcere, quest’ultimo è spesso una realtà rimossa rispetto al tessuto sociale e urbano cittadino. Durante i laboratori verrà presentato il lavoro svolto in carcere ed i partecipanti avranno la possibilità di interagire con le opere create dalle detenute della sezione femminile della “Dozza” ed esplorare il proprio sentire tramite i materiali artistici, le immagini, i gesti e i pensieri. L’idea è di non relegare l’intervento solo all’interno ma di portarlo all’esterno per portare il carcere “fuori” e la città “dentro”. Questo si realizza attraverso uno scambio di immagini e pensieri fra le donne detenute e la cittadinanza allo scopo di abbattere paure e pregiudizi sociali. Perché arteterapia in carcere - L’arteterapia nelle carceri ha una doppia funzione e una doppia valenza. Coglie e dà spazio ad un bisogno arcaico dell’uomo, di ricontattare le radici profonde della propria esistenza, di ricercare in sé una propria ragione di esistere a prescindere dalle circostanze di vita. La possibilità di rivitalizzare il rapporto con il proprio sé e sperimentare una libertà creativa interiore è fondamentale per alleviare il senso di vuoto, prevenire la depressione e sostenere l’autostima. Lo sguardo dell’arteterapeuta che sa cogliere, testimoniare e trasformare l’esperienza in modo simbolico, aggiunge un valore specificatamente terapeutico al benessere già intrinseco nell’azione creativa di per sé. I toni guerreschi di chi vuole la pace di Dacia Maraini Corriere della Sera, 10 maggio 2022 Sembra che la voglia di guerra stia spargendo il contagio. Anche chi vuole la pace sta prendendo toni guerreschi e questo non fa che dividere, creare scontri e occasioni di conflitto. Possibile che non si possa discutere sulle idee, coi dubbi che ogni situazione difficile e complicata come quella che stiamo vivendo prospetta? Perché è tanto difficile, soprattutto nel nostro Paese, creare solidarietà e un minimo di saggezza collettiva? Chiunque ragiona pubblicamente si sente solo, al di sopra di tutto e di tutti, pronto a infierire su chi rappresenta il Paese e prende decisioni, per imporre la sua visione del mondo che naturalmente è la migliore e la più pura delle altre. Eppure, per costruire bisognerebbe avere voglia di futuro, bisognerebbe creare alleanze basate sulla fiducia, bisognerebbe stringersi attorno a progetti comuni con l’intento di fare il bene della collettività. ?L’individualismo, importante espressione di libertà, creata in un momento di totalitarismo religioso, dai nostri grandi del Rinascimento, sta scadendo a piccolo calcolo di tornaconto personale. ?Prendo ad esempio lo sport, perché è il linguaggio più popolare nel nostro Paese. Come si porta alla fortuna una squadra? Non solo con l’abilità di questo o di quel giocatore, ma con lo spirito di gruppo. E come si riesce a spingere i giocatori a dare sempre di più, anche a costo di sacrifici personali? Con l’entusiasmo dei tifosi, l’incoraggiamento, il sostegno e l’incitamento dei cittadini che riconoscono chi li rappresenta.?Ecco, nel nostro Paese tanto intelligente e creativo, ci si sente liberi solo se si denigrano le istituzioni, se si sputa su qualsiasi progetto, se si critica e si diffama chiunque abbia un’idea anche solo un poco diversa dalla propria. Urli, scontri, insulti, non fanno che creare stanchezza e scoraggiamento in chi si affaccia alla vita adulta. Come esprimersi al meglio in questo guazzabuglio di personalismi esasperati? Meglio andare via. Così, i nostri migliori studenti se la filano all’estero e quasi sempre finiscono per rimanerci. Una emorragia dolorosa che ci impoverisce tutti. Noury: “Trattare è giusto, ma senza giustizia non ci sarà pace” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 10 maggio 2022 Il portavoce italiano di Amnesty: “Mosca ha commesso crimini atroci: sarebbe un tragico errore pensare che bisogna subordinare il negoziato all’immunità per Putin”. Di Amnesty International Italia, Riccardo Noury è lo storico portavoce. La “voce” di chi non scopre certo oggi un mondo nel quale si fa quotidianamente scempio di diritti umani. Un mondo che AI tiene costantemente sotto monitoraggio, documentandone le vergogne, denunciando i responsabili di uno scempio di vite e di legalità in ogni angolo del pianeta, avanzando richieste puntuali a Governi, Stati, Organismi sovranazionali, richieste puntualmente quasi tutte inevase. “Se qualcuno si era illuso che una guerra in Europa sarebbe stata meno crudele - rimarca Noury - quell’illusione è terminata molto presto a Bucha a Mariupol e in altri luoghi dell’Ucraina perché lì si stanno svolgendo come sempre in guerra crimini contro la popolazione civile che non possono restare impuniti. Una pace giusta non si costruisce con la garanzia dell’impunità per autori e mandanti di quei crimini”. In Italia è in atto da tempo una “caccia ai pacifisti”, accusati di essere al servizio dello Zar del Cremlino. Lei che ne pensa? In questi elenchi che mi preoccupano molto, Amnesty International non è stata ancora inserita. Siamo border line. Certo è inquietante che prima di prendere la parola, chi parla di pace debba fare una sorta di dichiarazione preliminare, e cioè di non essere pro Russia. Devo però aggiungere che è anche vero che in parte del mondo che chiede la pace si parla molto più dell’Iraq del 2003 che dell’Ucraina del 2022. E anche questo a me non piace. I leader dell’Occidente, da Biden a Macron, da Scholz a Jonhson, hanno reso trasparente il sostegno militare all’Ucraina, dando conto degli armamenti inviati. In Italia invece è tutto, o quasi, “secretato” Perché? Il perché non lo so. Certamente fa impressione non sapere che tipo di armi sono state inviate all’Ucraina, o magari scoprirlo da chi non ha il compito istituzionale di rivelarlo. Non sono i parlamentari né i giornalisti a doversi assumere questa responsabilità di fronte all’opinione pubblica. I giornalisti che indagano fanno bene a farlo, ma è il Governo che deve garantire la trasparenza. E quest’assenza di trasparenza si somma a un’altra questione altrettanto importante... Quale? Una posizione comune che ha l’Unione Europea dal 2008, subordina l’invio di armi a Paesi terzi, dunque a Stati non membri dell’UE, a due ordini di valutazioni: se questo invio aumenterà o meno, o ridurrà il rischio di violazioni dei diritti umani. In secondo luogo, se c’è il rischio che queste armi finiscano in mani sbagliate. Ora, sulla prima questione ognuno può pensarla come vuole. Sulla seconda, mi pare che il rischio, in questo conflitto, sia abbastanza grande. Per la quantità di soggetti che sono in campo, compresi i gruppi paramilitari, per l’invito che è stato fatto all’inizio dal presidente ucraino alla popolazione ad armarsi. Il rischio è che se noi inviamo armi senza tracciarle, tra un po’ le ritroveremo magari sul lato opposto a quello al quale le abbiamo mandate. Non credo che inviare armi là dove già ce ne sono in abbondanza sia la soluzione migliore. A me sembra che questo invio di armi corrisponda a una spinta militarista che c’è stata da parte della presidenza Biden, fondamentalmente, sulla quale in Europa si hanno anche idee diverse. Mentre c’è un conflitto che si svolge in Ucraina, sulla pelle degli ucraini, ed essendo l’Ucraina parte dell’Europa, in Europa, i due soggetti che stano militarizzando la situazione sono uno, quello che ha invaso l’Ucraina, cioè Putin, e l’altro, Biden, che è quello che spinge di più. L’Europa, per l’appunto. L’impressione è che all’ordine del giorno sia l’allargamento ad altri Paesi europei, vedi Finlandia e Svezia, della Nato, mentre dell’Europa, come soggetto politico in campo, non se ne parla, come se non esistesse se non in subordine ai desiderata dell’alleato di oltre Oceano... Ci sono delle assenze di azione politica e diplomatica che sono state evidenti in questi 70 e passa giorni di guerra. Ad esempio, il fatto che il segretario generale delle Nazioni Unite sia andato a Mosca soltanto due mesi e due giorni dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, sebbene abbia ottenuto qualche risultato dal punto di vista delle parziali evacuazioni da Mariupol, quell’assenza così lunga d’iniziativa diplomatica dell’Onu, non può non far riflettere. E se Guterres ha ottenuto qualche risultato, mi chiedo perché non ci sia andato subito. E questo è un aspetto. Dopodiché è anche vero che l’Europa non ha una politica che tenga insieme sicurezza e pace. È molto consolatorio dire che in Europa non c’era la guerra da settant’anni... Invece? La Bosnia a me risulta che faccia parte dell’Europa a pieno titolo. Il Nagorno-Karabakh idem. L’Europa non vuol dire Europa occidentale. L’Europa è tutta. Proprio in questo periodo stiamo ricordando i trent’anni dall’inizio della guerra in Bosnia, con tutti i massacri e con il genocidio che ci fu. Abbiamo anche dimenticato che un anno e mezzo fa c’è stato un sanguinosissimo conflitto dentro l’Europa, quello tra Armenia e Azerbaigian. mi porta a dire che non abbiamo questa millantata tradizione di lunghi decenni di pace. Piuttosto c’è un’incapacità palese di introdurre una proposta politica che, per l’appunto, tenga insieme pace e sicurezza. All’attenzione totalmente centrata sulla guerra in Ucraina, fanno da contraltare le altre guerre colpevolmente “ignorate”. Come la mettiamo? Io penso che non ci sia nulla di cui vergognarsi se scatta una sorta di algoritmo emotivo maggiore per le sofferenze di chi è più vicino a noi, sentendo a noi più vicine persone con le quali tendiamo ad associarci di più, per mille ragioni. Un conflitto in Europa è chiaro che ci chiama in causa, non foss’altro per la paura che ci mette, e poi anche per la solidarietà che provoca. A me fa piacere quando si ricordano tutti gli altri conflitti. Va benissimo ricordare. Ma se poi il “benaltrismo” fa sì che noi dobbiamo ignorare la sofferenza della popolazione civile ucraina e quindi continuare a parlare ogni volta di Baghdad, degli Stati Uniti, di Abu Ghraib, per non parlare dell’Ucraina, oppure per dire che siccome Bush jr. è rimasto impunito, deve rimanere impunito anche Putin, a me questo non sta per niente bene. Con la sensibilità propria di Amnesty International, cosa si può dire della presidenza Biden? Dal punto di vista dei diritti umani, quello che accade sotto la presidenza Biden è molto preoccupante. Constatiamo che non viene messo fuorilegge l’uso delle armi, ma si cerca di mettere fuorilegge l’aborto. E per quanto riguarda la posizione della presidenza Biden sull’Ucraina, non mi pare che incoraggi una soluzione diversa da quella di vedere chi vince, auspicando che poi vinca la parte a cui Biden dà le armi. C’è poi l’uso un po’ strumentale della parola “giustizia”. Che gli Stati Uniti, vale a dire il soggetto che si è sempre tirato fuori dallo scrutinio internazionale, non aderendo alla Corte penale, tirandosi fuori dalle indagini sull’Afghanistan, ora parli di “giustizia”, è alquanto paradossale per non dire altro. Si dice: sostenere, anche militarmente, la resistenza ucraina è condizione fondamentale per provare poi a negoziare una pace giusta. È proprio questo il fine o la vera posta in pallio è l’abbattimento del regime russo, o comunque un suo forte indebolimento? La risposta che come Amnesty posso darle è che un negoziato se si fa mesi se non anni dopo che le due parti si distruggono - o più probabilmente una, la Russia, ne distrugge l’altra, l’Ucraina - con una escalation che può portare a ulteriori crimini di guerra, non mi sembra una soluzione felice. Il negoziato deve iniziare subito e bisogna pretendere da chi ha cominciato questa guerra di cessare immediatamente le ostilità. Il Cremlino ha già superato le linee rosse che dovevano restare invalicabili. La Russia, come abbiamo potuto verificare sul posto, usa armi, come le bombe a grappolo, vietate dalle convenzioni internazionali. Ma è pensabile negoziare con un nemico, il cui capo viene definito un “macellaio” e per giunta genocida? Queste espressioni sono funzionali a una strategia che è militare più che negoziale da parte di Biden. È evidente che la pace la si fa coinvolgendo e non oltrepassando coloro che sono protagonisti degli eventi bellici. E quindi è e chiaro che bisogna portare Putin a un tavolo negoziale. Detto questo, aggiungo subito che c’è una cosa che comincia a preoccuparmi... Vale a dire? Non vorrei che all’interno del cosiddetto “partito della pace”, possa avere il sopravvento l’idea che la pace si fa se però si rinuncia a incriminare Putin davanti a un organo di giustizia internazionale. Non vorrei che su questo s’innestasse una scissione, per cui dal “partito della pace” esca il “partito della giustizia” che cerca di portare avanti la sua idea, cioè che questa guerra non debba terminare con l’impunità generale. Se passa l’idea che c’è pace senza giustizia, dunque sovvertendo un motto fondamentale delle campagne per i diritti, io temo che non ne usciremo. Le guerre iniziano per mille motivi, ma iniziano anche perché chi dà il via a quell’attuale non è stato punito per quella precedente. L’elemento di deterrenza autentico che c’è adesso, oltre alle sanzioni e alle azioni politiche messe in atto, è anche quello di far funzionare la giustizia. In Ucraina sono stati commessi gravi e ripetuti crimini di guerra le cui prove Amnesty intende sottoporre alla giustizia internazionale che ha già avviato indagini con la Procura del Tribunale Penale Internazionale, perché quando questa maledetta guerra sarà finita non cominci il tempo dell’impunità. Morto Walter De Benedetto, paladino per la legalizzazione della cannabis di Viola Giannoli La Repubblica, 10 maggio 2022 L’attivista, affetto da artrite reumatoide, era stato assolto nel processo per detenzione di droga. Coltivava la marijuana per curarsi. Si è spento nella notte di domenica Walter De Benedetto. La sua malattia, la sua storia, il suo processo (finito con una assoluzione piena) e, sopra tutto, la sua battaglia erano diventati un simbolo per tanti: tutti quei malati che, tra intoppi medici e burocratici, cercano sollievo nella cannabis terapeutica. “Con il suo coraggio è riuscito a portare il tema della cannabis terapeutica, e di tutte le difficoltà in cui incorrono i pazienti che ne fanno uso, all’attenzione dell’opinione pubblica. È stato costretto a fare una cosa che nessun paziente dovrebbe fare: rendere pubblico il suo dolore” ha scritto Antonella Sodo, coordinatrice della campagna Meglio Legale. De Benedetto aveva 50 anni, ne avrebbe compiuti 51 ad agosto. Da 36 la sua vita era cambiata e conviveva con una forma grave di artrite reumatoide. Per questo, oltre alle cure, aveva una prescrizione medica per la cannabis terapeutica. I quantitativi scarsi e le difficoltà nel reperirla lo avevano però costretto, per non rivolgersi al mercato nero, a coltivare qualche piantina nel suo giardino. I carabinieri si erano presentati nel 2020 a casa sua, Walter era stato denunciato e poi, nel 2021, indagato dalla procura di Arezzo. Così, oltre a quella della vita, ha affrontato anche una battaglia legale: un processo con rito abbreviato da cui era uscito assolto nell’aprile dello scorso anno. I giudici avevano riconosciuto la coltivazione non a fini di spaccio ma per uso medico. Tante volte si era rivolto alla politica: al presidente della Camera Roberto Fico prima e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella poi. E ancora, dopo il giudizio in tribunale, non si era fermato e in seguita alla bocciatura del referendum sulla cannabis si era appellato nuovamente a Fico, alla ministra con delega alle politiche antidroga Fabiana Dadone e al presidente della commissione Giustizia Mario Pierantoni per chiedere una approvazione della legge sulla coltivazione di massimo 4 piantine di cannabis per uso personale. Una richiesta alla quale la ministra aveva risposto, aprendo alla legge: “Basta giochi di palazzo, sì alla coltivazione”. In questo suo ultimo appello al Parlamento, Walter scriveva: “Ci sentiamo scoraggiati perché sembra che il nostro Stato preferisca lasciare 6 milioni di consumatori nelle mani della criminalità organizzata anziché permettergli di coltivarsi in casa le proprie piantine” e concludeva, come sempre, ricordando a tutti che “Il dolore non aspetta”. Le sue richieste, però, sono finora andate a vuoto. De Benedetto è morto questa notte, prima di vedere quella legge avanzare. Marco Cappato ha ricordato: “La prima volta che sono stato a casa di Walter era perché voleva parlare del suo fine vita. Da allora, invece, ha scelto di battersi come un leone contro l’idiozia e la violenza di uno stato che l’ha portato alla sbarra perché si doveva curare con la cannabis. Ha vinto la sua battaglia processuale, non abbiamo fatto in tempo a vincere con lui in Parlamento o col referendum la battaglia politica per la legge. Andiamo avanti, anche in sua memoria”. Riccardo Magi, che a De Benedetto aveva ceduto marijuana, aggiunge: “Ha lottato tanto, non solo contro la malattia ma per cambiare questo Paese. Ora si approvi la legge che lui avrebbe voluto”. “Da vero leader gentile ha fatto della sua sofferenza una battaglia di e per molti. Noi continueremo la sua e la nostra lotta con maggiore forza e determinazione, come lui ci ha insegnato”, ha sottolineato Sodo. Iraq. Due giornalisti sono stati arrestati dall’esercito di Francesca Moriero Il Domani, 10 maggio 2022 Marlene Förster e il collega Matej Kavcic sono stati fermati il 20 aprile scorso con l’accusa di terrorismo mentre lavoravano su una popolazione di etnia curda I contatti sono pochissimi. Il 20 aprile scorso l’esercito iracheno ha arrestato due giornalisti europei a Shengal, città dell’Iraq nord occidentale. La giornalista tedesca Marlene Förster e il giornalista sloveno Matej Kavcic sono stati fermati mentre tornavano dalle celebrazioni della festività ezida, Çar?ema Sere Nisane, trattenuti due notti in custodia in una stazione militare irachena e poi trasferiti nel carcere di Baghdad. Da allora sono nelle mani dei servizi segreti iracheni con l’accusa di sostegno al terrorismo. Entrambi sono stati privati di telefoni ed effetti personali e durante gli interrogatori sono stati brutalmente minacciati dai militari iracheni e i loro corpi sono stati perquisiti contro la loro volontà. I due corrispondenti erano a Shengal per condurre un lavoro sulla società ezida, popolazione di etnia curda, che nel 2014 è sopravvissuta a un massacro e a un tentativo di genocidio da parte dell’Isis. Pochi contatti - Kavcic lavora come giornalista freelance per Radio Student, una delle più grandi emittenti radiofoniche di Lubiana e dai suoi microfoni aveva più volte raccontato la condizione attuale degli Ezidi. Forster è invece una giornalista freelance. È stata detenuta in una cella di isolamento e, secondo le informazioni fornite da un funzionario dell’ambasciata tedesca a Baghdad, avrebbe fatto uno sciopero della fame, ottenendo così finalmente di parlare con la propria ambasciata solo il 28 aprile, sei giorni dopo essere stata arrestata. Nessun contatto è invece stato ancora stabilito con il giornalista sloveno Matej Kavcic. A manifestare immediatamente davanti al consolato generale iracheno a Francoforte è stata Lydia Förster, madre di Marlene, che è riuscita così a incontrarne i funzionari. Oggi entrambi i giornalisti, che ancora si trovano in carcere e non possono comunicare con l’esterno, hanno ottenuto assistenza consolare dall’ambasciata tedesca a Baghdad. Se da una parte il comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha chiesto all’ambasciata slovena, ad Ankara e al ministero degli Affari esteri di Germania e Iraq informazioni sullo stato di salute dei due giornalisti, dall’altra i rappresentanti dell’Amministrazione autonoma di Shengal stanno portando avanti incontri con l’esercito iracheno per il loro rilascio immediato. L’attacco agli Ezidi - I giornalisti si trovavano a Shengal per condurre ricerche e per raccogliere interviste a membri di associazioni, istituzioni e personalità per approfondire la condizione della popolazione degli Ezidi, che vive ormai da diversi anni in comunità autogovernate e che oggi si trova ancora una volta sotto attacco, questa volta da parte dell’esercito iracheno di Baghdad. Se già il 19 e il 20 aprile la popolazione ezida aveva subito un forte attacco militare, è nella notte del 1° maggio che l’esercito iracheno irrompe in Shengal, attaccando con un gran numero di soldati, veicoli blindati e carri armati, le Ybs (Unità di resistenza di Shengal), le Yjs (Unità delle donne di Shengal) e l’Asayî?a Êzîdxanê (forze di sicurezza interna degli Ezidi), bombardando villaggi e scuole. à L’attacco su larga scala ha l’obiettivo di occupare militarmente la regione autonoma ezida, per smantellarne il progetto politico di autonomia governativa e riportare la zona sotto il controllo diretto dello stato centrale. Oggi i combattimenti continuano ancora, sia nei villaggi che nelle basi sul monte Sinjar, dove gli Ezidi sono tornati a difendere la loro autonomia e le loro vite come nel 2014. Il 3 agosto di quell’anno la regione, sotto l’amministrazione del governo federale del Kurdistan iracheno, fu attaccata dall’Isis che occupò il territorio per due lunghi anni, massacrando più di cinquemila persone e macchiandosi di orribili reati come violenze sessuali, torture e riduzione in schiavitù. La regione venne riconquistata dalla resistenza armata ezida, grazie al sostegno dei curdo siriani del Rojava e Pkk, il partito Curdo dei lavoratori, che cacciarono gli islamisti. Con loro nacque un’amministrazione autonoma, che da anni cerca un riconoscimento ufficiale da Baghdad sulla base della costituzione irachena. Oggi è proprio l’esercito iracheno, che allora li aveva abbandonati al genocidio, ad attaccare gli Ezidi sopravvissuti, per smantellare la loro amministrazione autonoma e le loro strutture di autodifesa. A rendere ancora più complessa la situazione è l’intervento della Turchia di Erdogan, che da un lato approfittando della debolezza politica del governo di Baghdad, sta continuando la sua annosa battaglia nelle montagne nel Nord dell’Iraq, contro il Pkk, che in quei territori ha la sua base politica e militare e dall’altro starebbe trasferendo centinaia di miliziani islamisti siriani in territorio iracheno. Ecuador. Rivolta in carcere, scoppia la violenza delle gang: 43 morti, 108 detenuti evasi La Repubblica, 10 maggio 2022 Si tratta dell’ennesimo episodio: in due anni, 350 le vittime delle violenze tra bande nei penitenziari del Paese. Un bilancio spaventoso quello della rivolta in un carcere nel centro dell’Ecuador durante la quale hanno perso la vita 43 detenuti. Altri 108 sono evasi dalla struttura, mentre altri 112 sono stati catturati e riportati nelle celle. Si tratta dell’ennesimo episodio avvenuto nelle strutture penitenziarie del Paese, dove le vittime degli incidenti fra gruppi di detenuti dal febbraio 2021 ad oggi hanno causato almeno 350 vittime. Il capo dello Stato, Guillermo Lasso, rientrato da un viaggio in Israele, ha espresso dolore per quanto accaduto nel Crs (Centro di riabilitazione sociale) Bellavista, nella provincia di Santo Domingo de los Colorados, a 80 chilometri dalla capitale Quito, condannando la persistente “violenza fra bande” all’origine dei disordini. Secondo quanto riferito da fonti giudiziarie, nel penitenziario si sono fronteggiate le gang rivali Los Lobos e R7. Le vittime sono state per lo più accoltellate durante i disordini. Almeno 13 persone sono state ricoverate in ospedale ed è possibile che il bilancio dei morti si possa aggravare. Il carcere di Bellavista può ospitare 1.200 detenuti ma ne ospitava 1.700. Il 28 aprile in un altro carcere, quello di El Turi, gli scontri fra le gang dei Lobos e di R7 aveva causato 20 morti.