Pure la Lega chiama Renoldi “a rapporto” sul 41 bis: riecco l’asse gialloverde di Errico Novi Il Dubbio, 9 luglio 2022 Dopo i “precetti” partiti dal M5S, e da FdI, arriva la convocazione firmata dal senatore del Carroccio Ostellari, che vuole dal capo del Dap spiegazioni sull’ok alla visita di Nessuno tocchi Caino nelle sezioni sarde del “carcere duro”. Ci vuole poco. Basta una visita al 41 bis. Legittima, autorizzata regolarmente, prevista dalle norme. Ci vuole poco e si ricostituisce l’antico asse giustizialista: Movimento 5 Stelle e Lega. Con l’appoggio esterno, convinto e operativo, di Fratelli d’Italia. Tutti all’attacco di Carlo Renoldi, da marzo nuovo capo del Dap, colpevole di aver concesso ai dirigenti di Nessuno tocchi Caino una visita nelle carceri sarde estesa alle sezioni 41 bis. Adesso dovrà “risponderne”, insieme con la guardasigilli che l’ha nominato, Marta Cartabia. È di ieri la “convocazione” firmata dai deputati grillini e di Fdi: sia la ministra sia Renoldi dovranno “riferire sul caso”, in commissione parlamentare Antimafia e nella commissione Giustizia della Camera. Oggi il precetto è partito anche da Palazzo Madama. E dalla Lega in particolare: è il presidente della commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari, che è appunto del Carroccio, a prefigurare la lavata di testa. “La prossima settimana chiederò al direttore del Dap, Carlo Renoldi, di essere audito in commissione Giustizia al Senato”, dice Ostellari, “nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul sistema carcerario, già intrapresa. È doveroso anche ottenere un approfondimento circa alcune notizie apparse sulla stampa a proposito di fatti relativi agli istituti di Sassari e Nuoro”. Seppure con un certo maggiore garbo istituzionale, Ostellari si inserisce nella scia del partito di Meloni e dei pentastellati. Qual è la colpa? Aver “bucato il 41 bis”, come sintetizza il titolo con cui il Fatto, due giorni fa, ha dato notizia delle visite di Nessuno tocchi Caino. Attività che risalgono al 7 e 8 maggio scorsi, condotte dai dirigenti dell’associazone Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti e dalla presidente Rita Bernardini, che ha redatto dettagliati rapporti. Ha cioè documentato, innanzitutto a Renoldi, le carenze di “direttori, dirigenti della penitenziaria ed educatori”, come ricordato oggi sul Dubbio da Damiano Aliprandi. Lo stesso Sergio D’Elia ha spiegato alla Adn-Kronos che per i reclusi al cosiddetto carcere duro “le condizioni sanitarie sono al limite del rispetto del diritto fondamentale alla salute”. Su questo, i partiti della pena certa e granitica non proferiscono verbo. E anzi, è istruttivo considerare la dichiarazione, più aspra di quella di Ostellari, diffusa dal deputato leghista Jacopo Morrone: “Il vertice Dap, una volta nominato, avrebbe dovuto lasciare fuori da via Arenula la visione fortemente ideologizzata della magistratura di sinistra a cui appartiene, per assumere un ruolo istituzionale super partes”. Consentire a militanti dei diritti quali sono i radicali una verifica sulle condizioni di esseri umani tenuti in custodia dallo Stato sarebbe dunque segno di una deriva ideologica. “Se siamo garantisti fino all’ultimo grado di giudizio, una volta provata la colpa crediamo che la pena debba essere certa e commisurata alla gravità dei delitti”, aggiunge Morrone. Che conclude: “L’auspicio è che il ministro Cartabia rifletta e intervenga sulla svolta ampiamente criticabile imposta da Renoldi al Dap, che certamente non aveva bisogno di altri motivi di tensione”. Stereofonica concordanza nelle parole di Eugenio Saitta, capogruppo M5S in commissione Giustizia alla Camera: “Abbiamo chiesto al presidente Perantoni di convocare una audizione del capo del Dap Renoldi non solo perché è prassi dopo la nomina ascoltare le prospettive del mandato ma perché vogliamo capire come siano state possibili alcune visite a detenuti al 41 bis nelle carceri di Sassari e Nuoro”. Le consente l’ordinamento penitenziario, ma per Saitta “la vicenda è inquietante perché sembrerebbe preannunciare un tentativo di smantellare le misure del carcere duro per i mafiosi che per noi sono intoccabili”. Casomai, Renoldi intende evitare che al 41 bis venga violata la legge, con divieti di usare la gamma completa dei colori per chi dipinge o di ricevere libri troppo “prestigiosi”. Se i 5 Stelle confermano di volersi distinguere sulla giustizia (hanno già promesso battaglia sui decreti attuativi delle riforme di Cartabia), emerge tutta la difficoltà, per la Lega, di stare in equilibrio sulla linea del garantismo. Una saldatura gialloverde estesa ai parlamentari di Giorgia Meloni. Tutti insieme lungo una crinale che, sul carcere, ignora i diritti. C’è attenzione solo per lo scandalismo. E per quello che D’Elia ha giustamente definito “un attacco subdolo”. Rivolto, per lui, a Cartabia e soprattutto a Renoldi, ma accompagnato da un’altra sgradevole mancanza di rispetto: il disdoro per i colloqui fra “non parlamentari” e i circa 70 detenuti al 41 bis visti a maggio dai radicali fra gli istituti di Sassari e Nuoro mortifica ovviamente anche Nessuno tocchi Caino, che Renoldi ha autorizzato “addirittura” a “parlare” coi reclusi. In effetti in prima battuta Renoldi aveva segnalato ai radicali che avrebbero potuto “vedere” ma senza chiedere informazioni ai carcerati. Come riportato oggi sulle pagine del Dubbio, Bernardini ha replicato al capo del Dap che, per comprendere come si vive dietro le sbarre, non si può fare a meno di chiederne ai diretti interessati, anche quando alcuni di loro portano, come in questo caso nomi “altisonanti”, da Leoluca Bagarella a Michele Zagaria. Vuoi carceri più umane? Finisci sotto accusa di Angela Stella Il Riformista, 9 luglio 2022 Contro il capo del Dap Carlo Renoldi e la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, che lo ha voluto convintamente a Largo Luigi Daga, si ricompatta il fronte giallo verde. Ieri sono proseguite le polemiche sulle visite effettuate da Nessuno Tocchi Caino nei reparti del 41 bis di alcune carceri sarde. “Abbiamo chiesto al presidente Perantoni di convocare una audizione del capo del Dap Carlo Renoldi - ha fatto sapere Eugenio Saitta, capogruppo del M5s in commissione Giustizia - non solo perché è prassi dopo la nomina ascoltare le prospettive del suo mandato ma perché vogliamo capire come siano state possibili alcune visite a detenuti al 41 bis nelle carceri di Sassari e Nuoro. La vicenda è inquietante perché sembrerebbe preannunciare un tentativo di smantellare le misure del carcere duro per i mafiosi che per noi sono intoccabili”. La responsabile Giustizia del Movimento Giulia Sarti aveva anche preannunciato una interrogazione in Commissione Antimafia: “Si tratta di circostanze che meritano di essere chiarite al più presto perché queste azioni rischiano di compromettere la sicurezza di tutti. Dovranno risponderne direttamente sia il neo capo Dap, sia la ministra Cartabia”. Anche il senatore della Lega Andrea Ostellari, Presidente della Commissione giustizia: “La prossima settimana chiederò al direttore del Dap, Carlo Renoldi, di essere audito in Commissione Giustizia al Senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul sistema carcerario italiano, già intrapresa. È doveroso anche ottenere un approfondimento circa alcune notizie apparse sulla stampa a proposito di fatti relativi agli istituti di Sassari e Nuoro. Ricordo che, sempre in Commissione, stiamo proseguendo l’analisi della riforma dell’ergastolo ostativo, con la dovuta attenzione e nel rispetto dei tempi”. Sempre dal Carroccio è arrivata una nota dell’onorevole Jacopo Morrone: “I dubbi espressi nel febbraio scorso sulla scelta del magistrato Carlo Renoldi come nuovo capo Dap sono diventati certezza di fronte a questo nuovo strappo che porta la sua firma rispetto alle modalità autorizzatorie delle visite in carcere fissate dall’ordinamento penitenziario”. Il parlamentare non risparmia un attacco frontale a Nessuno Tocchi Caino che ha “avuto via libera a incontrare e dialogare con ergastolani mafiosi anche pluriomicidi rinchiusi nella sezione 41 bis delle carceri di Nuoro e Sassari. Immaginiamo il tenore dei colloqui. Per questa associazione l’ergastolo dovrebbe essere abolito e l’isolamento del 41 bis sarebbe una forma di tortura. Ma se l’associazione è libera di propugnare i propri principi, non lo è altrettanto il vertice Dap che, una volta nominato, avrebbe dovuto lasciare fuori dal palazzo di via Arenula la visione fortemente ideologizzata della magistratura di sinistra a cui appartiene, per assumere un ruolo istituzionale super partes”. In difesa dell’operato di Renoldi solo il vicesegretario di Azione Enrico Costa da twitter: “Fatto Quotidiano e M5S sparano a zero sul capo Dap Renoldi per aver concesso a Nessuno Tocchi Caino e a Rita Bernardini, che si occupano di carcere da sempre, di visitare un’area detenuti al 41bis. Forse rimpiangono il capo del Dap di Bonafede, quello che si dimise ingloriosamente”. E gli altri partiti? Tacciono tutti per ora: perché non difendono Cartabia e l’attività decennale dei radicali per carceri più umane? Cari Travaglio e grillini, l’unico scandalo è il degrado delle carceri di Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 9 luglio 2022 Quella nelle prigioni sarde non è stata una visita “senza precedenti”. Abbiamo visitato il 41bis a Viterbo nel 2019 e nel 2017 a Parma e Tolmezzo. Piuttosto, leggetevi i nostri report sulle condizioni dei detenuti e pure cosa dice del “carcere duro” il Comitato contro la tortura. Lascia sgomenti ma non meraviglia leggere dell’interrogazione parlamentare annunciata dai Cinque Stelle e scritta sulla falsariga di un articolo pubblicato dal loro organo ispiratore Il Fatto quotidiano, che maledice il Capo del Dap Carlo Renoldi e l’associazione Nessuno tocchi Caino per una visita fatta insieme alle Camere penali - due mesi fa! - nelle carceri della Sardegna, comprese le sezioni del 41-bis. Il Fatto Quotidiano ha spiato dal buco della serratura quello che avevamo fatto alla luce del sole. Bastava ascoltare le nostre videoregistrazioni pubbliche per sapere che eravamo stati autorizzati a visitare 5 carceri sarde e anche le sezioni del 41-bis. Una visita autorizzata, come tante altre, dal Dap e quindi non una visita senza precedenti come tuona erroneamente il giornale. Visitammo infatti il 41-bis di Viterbo nell’aprile 2019 e negli anni precedenti anche quelli di Parma e Tolmezzo. Al Fatto e ai suoi parlamentari stellati consigliamo di leggere e di meditare sul rapporto di 11 pagine che abbiamo redatto alla fine delle visite in Sardegna e trasmesso al Capo del Dap. Capirebbero e interrogherebbero il ministro della Giustizia sul vero scandalo. Non lo scandalo dell’allarmante visita al 41-bis, un regime che, ribadiamo, è una forma di “tortura democratica” e come tale da riformare. Ma lo scandalo della carenza allarmante di Direttori (solo tre per dieci istituti penitenziari), di comandanti della polizia penitenziaria (a scavalco in diversi istituti), di educatori. Lo scandalo delle condizioni di vita di tutti i detenuti, di una vita in carcere dove le attività (lavoro, scuola, sport, cultura) sono ridotte al lumicino e le giornate trascorrono in un disperato ozio. Per non parlare dello scandalo del diritto alla salute negato in molti casi, compresi quelli psichiatrici che sono centinaia. Vero è che quando abbiamo successivamente incontrato, come Nessuno tocchi Caino, il capo del Dap Renoldi, egli ci ha fatto presente che non avremmo dovuto “parlare” con i detenuti al 41-bis, ma solo visitare le celle, così come è vero che gli abbiamo fatto presente che “verificare le condizioni di vita” dei detenuti e degli internati (questo è infatti lo scopo delle “visite agli istituti” autorizzate ai sensi dell’art. 117 del Regolamento di attuazione dell’Ordinamento Penitenziario) è impossibile senza ascoltare i detenuti e gli internati. Proprio nella visita a Viterbo a Pasquetta del 2019, un detenuto in carrozzella passava quel tempo di isolamento totale disegnando e ci disse (poteva parlare) che non lo autorizzavano ad avere più di 10 colori. L’agente di sezione, al quale chiedemmo quale fosse il motivo di “sicurezza” legato a questa limitazione, rispose che non c’era. A proposito di ergastolo ostativo e 41-bis, che i parlamentari antimafia a cinque stelle considerano esempi fulgidi di civiltà democratica, ricordiamo che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per il suo “fine pena mai” e che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura considera il “carcere duro” a dir poco “problematico” rispetto all’articolo 27 della Costituzione e all’articolo 3 della Convenzione EDU che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Senza contare poi quello che, in tema di isolamento, affermano le Regole di Mandela dell’ONU. Norme e regimi, quelli del 4-bis e del 41-bis, introdotti 30 anni fa e che ci si ostina a mantenere, finanche ad ampliare, in memoria di chi è deceduto allora e che certo non voleva un simile stravolgimento dello Stato di Diritto. Un’insana idea di giustizia vendicativa anima questi paladini contemporanei dell’antimafia di professione, questo loro modo di pensare che fa degradare il Paese-culla-del-diritto in un Paese-tomba-del-Diritto, nel baratro della regressione e della negazione dei principi costituzionali italiani e convenzionali europei. Sappiamo che le nostre posizioni radicali sul 4-bis e il 41-bis non sono condivise dal Capo del Dap Renoldi e dalla Ministra Cartabia. Ma sappiamo anche l’immane compito che si sono assunti di rendere “legali” secondo i principi costituzionali le carceri italiane. È quello che non possono accettare coloro che invocano “legge e ordine”, che si nutrono di pane e manette. Un’ultima considerazione che riguarda l’iscrizione a Nessuno tocchi Caino dei condannati all’isolamento e alla pena senza fine, dei “cattivi” per eccellenza, degli immutabili, degli irredimibili. Meditate, campioni di onestà e legalità, sulle parole di Marco Pannella dette molti anni fa a proposito di un altro scandalo: l’iscrizione al Partito Radicale del capomafia Piromalli. “Penso piuttosto - disse Marco - che proprio Piromalli, non quello ‘trionfante’ libero e potente, ma quello sconfitto e ormai inerme abbia voluto essere ‘anche’ radicale, ‘anche’ nonviolento, lasciare magari ai suoi nipoti, a chi comunque crede, ha creduto in lui, questo segnale… Se avesse avuto ancora da conquistare, contrattare, salvare ‘potere’, allora avrebbe avuto contatti con tutti, tranne che con noi. E dico proprio ‘tutti’.” Nessuno tocchi Caino, associazione radicale alla quale - per statuto - si può iscrivere chiunque, se pietra dello scandalo può essere considerata, nelle carceri e nella società, è dello scandalo della nonviolenza. Coi suoi “Laboratori del cambiamento - Spes contra Spem”, nelle sezioni di alta sicurezza, in questi anni, siamo stati artefici e testimoni di un’opera straordinaria di conversione dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza, dal delitto al diritto. “Il nostro Statuto - diceva ancora Pannella - è quello di un servizio pubblico. Chi vuole, paga il biglietto e viaggia, per un anno, verso dove la diligenza si dirige”. Sale la temperatura anche nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua di Domenico Forgione Il Dubbio, 9 luglio 2022 L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura. All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato. Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali. Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani. Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura. Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello. Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché - giustamente - scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria. In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione. Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità. Un desaparecidos al 41 bis: la famiglia non ha sue notizie da più di un anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 luglio 2022 Il detenuto soffre di gravi problemi psichiatrici e rifiuta le necessarie cure e assistenza specialistica, sia medica che difensiva. L’ultimo contatto telefonico lo ha avuto più di un anno fa, da allora la moglie non ne ha più notizie. Parliamo di un uomo al 41 bis fin dal 2008, prima al carcere di Parma in area riservata (il super 41 bis), dopodiché è stato trasferito nel carcere di Novara. Durante la detenzione a Parma ha cominciato ad avere allucinazioni lamentandosi di essere stato sottoposto a scosse elettromagnetiche. Da allora una discesa negli inferi della patologia psichiatrica. L’associazione Yairaiha Onlus ha raccolto la denuncia della moglie di Pasquale Condello, così si chiama il detenuto al 41 bis, visionando anche le cartelle cliniche che hanno accertato la sua grave patologia psichiatrica. Come appunto si evince dalla comunicazione della moglie e dalla documentazione, il detenuto soffre di gravi problemi psichiatrici e rifiuta le necessarie cure e assistenza specialistica, sia medica che difensiva. La famiglia nutre grande preoccupazione per le sue sorti, non avendo sue notizie da più di un anno: l’ultimo contatto telefonico risale a febbraio 2021. Condello, nel 2012 è stato ritrovato nella sua cella al carcere di Parma in stato di incoscienza e ricoverato nell’ospedale dove glie erano stati diagnosticati ematomi alla testa. La moglie, con la lettera inviata all’associazione Yairaiha Onlus, denuncia che secondo lei non poteva ridursi in quel modo con una caduta. È rimasto incosciente per tanti giorni. Tornato dall’ospedale, non mangiava e non beveva più, per poi essere ricoverato nel centro psichiatrico di Livorno. Lì aveva ripreso a mangiare ed era più tranquillo. Trasferito nel carcere di Novara, è riprecipitato nel delirio. La moglie riferisce che sentiva voci e discorsi fuori della sua stanza che erano inimmaginabili. Non si è mai sottoposto a visite mediche né tantomeno a cure. Ha sempre rifiutato di essere curato in carcere perché riteneva che lì lo volevano uccidere. Secondo la moglie avrebbe trovato sempre un ambiente avverso che lo spaventava. A quel punto era stato mandato uno psichiatra in privato, che ha fatto 4 ore di visita tra cui anche dei test, con la diagnosi che era un malato psichiatrico e che quindi aveva bisogno di cure. Dopo la pandemia, la famiglia non ha più potuto fare i colloqui. Ricordiamo che durante l’emergenza, fu data la possibilità ai detenuti di poter fare più telefonate e video-colloqui. La moglie racconta che Condello telefonava dal carcere a Reggio per potere dare sue notizie. Tutto questo fino al febbraio 2021, dopodiché non si è fatto più sentire. Non ha voluto più ricevere visite dall’avvocato, né dal medico o dai familiari. La famiglia ha insistito ad andare tante volte per effettuare un colloquio con lui, inutilmente. Non hanno sue notizie da allora. Secondo i famigliari non risulta che qualche perito lo abbia visitato nonostante venga richiesto da parecchi mesi, e nonostante sia in corso un processo per interdirlo, perché non è in grado neppure di avere un rapporto con gli avvocati che dovevano aiutarlo, per cui se ne dovrà occupare la famiglia al suo posto. La famiglia dice di aver incessantemente smosso garanti, associazioni, inutilmente. Ad oggi ancora la famiglia non sa niente di Pasquale Condello, sta vivendo un tormento. La moglie denuncia che non è possibile che una famiglia non possa vedere un congiunto detenuto o almeno avere notizie. Non chiedono che esca dalla detenzione, ma che venga curato, quindi che venga almeno portato in una struttura adatta dove possa farsi curare. Yairaiha Onlus, rivolgendosi alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, si unisce alla richiesta dei famigliari, chiedendo che venga fatta luce sulla vicenda del detenuto Pasquale Condello. “In attesa delle opportune verifiche da parte delle autorità preposte - scrive Yairaiha nella missiva - da associazione che si spende per la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale indistintamente, a prescindere dunque dal nomen iuris del reato commesso dal detenuto, non possiamo che manifestare il nostro sconforto nel venire a conoscenza delle condizioni di abbandono in cui versa un detenuto anziano, affetto da patologie psichiatriche. Riteniamo che il diritto alla salute dei detenuti, anche di coloro che si trovano in regime di 41 bis, richieda un attento monitoraggio da parte di ogni componente della società democratica”. Diritto alla difesa: subito una riforma per assicurarlo a chi non può pagare l’avvocato di Riccardo Rossi Il Riformista, 9 luglio 2022 Intervenire al convegno su “Gratuito patrocinio: il tradimento del patto etico tra Stato e Avvocato” della Camera Penale di Napoli ha rappresentato l’occasione per fare il punto su talune contraddizioni che attengono all’applicazione in Italia degli istituti del patrocinio a spese dello Stato e della difesa d’ufficio che costituiscono violazioni dei principi del giusto processo e di uguaglianza tra i cittadini indagati dinanzi alla legge. L’Associazione dei Difensori d’Ufficio, sia nella sezione napoletana che a livello nazionale, è particolarmente sensibile a questo argomento, perché per quanto siano certamente diversi gli istituti della difesa d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, essi sono molto più correlati di quanto si possa pensare. In generale, il primo momento di contatto ideale tra la difesa d’ufficio e il patrocinio a spese dello Stato avviene quando l’indagato, ricevuto il primo atto notificatogli dall’Autorità Giudiziaria nel corso del procedimento penale, non abbia effettuato la nomina del difensore di fiducia, poiché in tale evenienza - in ragione dell’obbligatorietà della difesa tecnica nel processo penale - gli verrà assegnato un difensore d’ufficio. Nel 30-40 % di questi casi, infatti, il difensore designato per legge si sentirà ripetere “avvocato, non ho i soldi per pagarla”, avviando in questo modo le pratiche affinché l’assistito possa accedere al c.d. “gratuito patrocinio”. Può però accadere che il difensore nominato d’ufficio non riesca in alcun modo a contattare l’indagato, il quale - pur avvisato e sollecitato - decida di disinteressarsi del processo. In tal caso, l’avvocato d’ufficio dovrà attivare una procedura di recupero del credito professionale - con messa in mora, decreto ingiuntivo, precetto, pignoramento mobiliare o immobiliare - che ritarderà di anni l’effettiva corresponsione dell’onorario per l’attività difensiva svolta. Il “tradimento del patto etico tra Stato ed Avvocato” si realizza, dunque, per tutta una serie di prassi diffuse tra gli uffici giudiziari e previsioni normative che esprimono null’altro che la volontà del legislatore. Ciò perché, al termine di questo complesso procedimento, l’art. 116 del T.U. sulle Spese di Giustizia ci dice che nel momento in cui la persona assistita risulti incapiente si applicano le liquidazioni del gratuito patrocinio. È qui che si realizza un corto circuito nel coordinamento con la disciplina della difesa d’ufficio: ed invero, in quest’ultima ipotesi, il difensore designato per legge non ha accettato spontaneamente ed a monte di assistere l’indagato/imputato “a spese dello Stato”, ma si ritrova a subirne comunque la disciplina economica sfavorevole. Vi è poi da evidenziare anche l’ostracismo espresso negli anni da quella parte aristocratica della classe forense. In tal modo, sono stati chiusi gli occhi davanti ad un incremento - dal 1995 al 2019 - del 1230% delle ammissioni al patrocinio a spese dello Stato. Numeri elevatissimi davanti ai quali non si possono chiudere gli occhi, poiché la giustizia sostanziale si fonda su questi numeri. Oltre a impegnarsi al fine di promuovere la riforma proposta dagli Avvocati Raffaele De Cicco e Alessandro Amodio che consenta di equiparare le tempistiche delle liquidazioni dei difensori a quelli degli ausiliari dei magistrati è stata evidenziata dall’On. Del Mastro l’assurdità di prevedere, per ciascun tribunale d’Italia, un diverso protocollo d’intesa per le liquidazioni, che portano - per la stessa attività - a vedere le liquidazioni tra, ad esempio, Bari e Napoli decisamente diverse. L’effettività della difesa, soprattutto per i non abbienti, non può prescindere dal giusto e tempestivo compenso dei professionisti protagonisti del processo. Se un giudice decide che non è stupro di Elena Stancanelli La Stampa, 9 luglio 2022 Leggendo il saggio di Manon Garcia, “Di cosa parliamo quando parliamo di consenso, sesso e rapporti di potere” (Einaudi Stile Libero) mi sono imbattuta nel sostantivo himpaty, inventato dalla filosofa americana Kate Manne. Intraducibile, è la combinazione fra il sostantivo “empatia” e il pronome maschile him. Si riferisce all’accoglienza che spesso ricevono sui giornali, e in generale tra le persone, gli stupratori. Per i quali si hanno sempre pronte attenuanti, si chiede cautela, si è lesti a rovesciare il rapporto tra vittima e carnefice. Secondo Manon Garcia questo avviene soprattutto perché continuiamo a non intenderci rispetto al termine stesso: stupro. Che, nella testa della gran parte di noi, sarebbe il gesto folle compiuto da una persona malata, un mostro che agisce in maniera incontrollata. Qualcuno che ovviamente, non siamo noi ma l’altro, il reietto, lo sconosciuto, quello che agisce di notte, in un parcheggio, sotto la minaccia di un coltello o di un’arma da fuoco. Al contrario, scrive Garcia che secondo l’inchiesta Violences et rapports de genre condotta dall’ Istitut National d’études démographiques nel 91% dei casi di stupro o tentato stupro l’aggressione è perpetrata da una persona conosciuta dalla vittima e nel 47% è opera del coniuge o dell’ex coniuge. Immagino che un’indagine simile condotta nel nostro Paese darebbe un risultato simile. Lo stupratore dunque, non solo non è un emarginato, un disperato escluso dalla società e da una vita sessuale possibile, ma spesso è un amico, un compagno, qualcuno nel quale fino al momento dell’aggressione si riponeva totale fiducia. Come nel caso della ragazza stuprata nel bagno di un locale a Torino e conclusosi, almeno nel secondo grado di giudizio, con un’assoluzione di lui. Il ragazzo e la ragazza (ventenni) si conoscevano da cinque anni e in questi cinque anni si erano dati un paio di baci. Circostanza misteriosamente considerata un’attenuante. Secondo le dichiarazioni di lui, quello che avviene in una sera del 2019 non è altro che il suo modo, forse un po’ goffo, di cogliere finalmente l’occasione che aspettava da cinque anni. La ragazza, ubriaca, gli aveva infatti chiesto di reggerle la borsa mentre era in bagno e, guarda caso, non solo aveva lasciato la porta socchiusa ma si era trattenuta abbastanza a lungo da rendere evidente che si trattava di un invito. Il ragazzo quindi, secondo quanto dicono i suoi avvocati, semplicemente aveva realizzato che non doveva farsi scappare quell’opportunità. E dunque era entrato. Poco importa che la zip dei jeans di lei sia stata divelta, quel rapporto in sede processuale è stato ritenuto consenziente: assolto. Sul consenso si sono scritte ormai migliaia di pagine, perché mette in discussione, si insinua all’interno della sessualità di chiunque. Che fine dovrebbe fare l’abbandono, ogni pratica non tradizionale, violenta, se, come accade negli Stati Uniti, il consenso deve essere espresso più volte durante il rapporto e ad alta voce, per evitare ogni ambiguità? Non è forse proprio l’ambiguità l’innesco del desiderio? Già, il desiderio: ma il desiderio di entrambi i partecipanti. La cultura dello stupro nasce infatti dentro quel pregiudizio insensato secondo il quale alle donne il sesso deve essere estorto. Psicologicamente e quindi anche fisicamente. Perché il desiderio e quindi il piacere femminile sarebbero solo una reazione, peraltro non necessaria, all’assalto del maschio. Le donne godono e desiderano quanto e più degli uomini. In qualsiasi contesto, anche ambiguo, anche violento: purché quella ambiguità e quella violenza corrispondano al piacere di entrambi. Violenza sessuale, per i media l’assoluzione è sempre uno scandalo di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 9 luglio 2022 Fa notizia e desta generalizzate reazioni di scandalo una sentenza della Corte di Appello di Torino che ha ribaltato una condanna per violenza sessuale irrogata dal Tribunale, assolvendo l’imputato. Come sempre accade in questi casi, la stampa veicola brandelli di motivazione, alla ricerca di ogni possibile incongruenza logica ed argomentativa. Non conosco la vicenda, non conosco questi giudici (il Collegio è presieduto da una donna), non ho nessuna intenzione di parlare di processi senza cognizione di causa. Quello che mi preme è sollecitare una riflessione più ampia su questa coazione a ripetersi di un corto circuito mediatico che in tema di processi per violenza sessuale segue un copione già scritto ed ormai immodificabile. La prima riflessione è che in questo Paese la notizia di una assoluzione, in generale, desta allarme. Il fatto che un imputato, dopo essere stato condannato in primo grado, venga invece assolto in appello per quegli stessi fatti ed in base al medesimo materiale probatorio è percepito dai nostri organi di informazione come il segno di una grave anomalia. Gatta ci cova, questo è il riflesso pavloviano dei media. Che non scatta, però, a parti invertite. Se vieni condannato in appello dopo essere stato assolto in primo grado, l’idea è che finalmente la giustizia ha trionfato. Una stortura è stata raddrizzata. Se questo riflesso becero è, come dicevo, generalizzato rispetto ai giudizi penali, esso è decuplicato se il processo ha ad oggetto una accusa di violenza sessuale. Ecco allora che parte il pubblico ludibrio dei giudici che hanno osato assolvere, si scava nella motivazione, la si riduce a brandelli, raccogliendo ogni virgola ed ogni locuzione eventualmente infelice che possa dimostrare immancabilmente come quei giudici hanno assolto non perché l’imputato lo meritasse ma perché prigionieri del peggiore becerume maschilista e misogino. Naturalmente, questo può ben accadere. Anzi, abbiamo dovuto attendere decenni per vedere progressivamente allontanarsi dall’armamentario argomentativo (di avvocati e giudici) in tema di violenza sessuale quell’odioso becerume: era lei ad essere vestita in modo provocante, dove se ne andava in giro di sera conciata in quel modo, le è piaciuto, e così via delirando. Certo ancora può capitare, ma sempre più raramente per fortuna, di ascoltare avvocati che tromboneggiano simili nefandezze, e giudici che mostrino qui e là di condividerle. Ma questo modo di giudicare gli esiti di un processo da qualche frase estrapolata qui e là, è un costume informativo di intollerabile inciviltà. Ricordate la sentenza dei jeans, della terza sezione della Corte di Cassazione? Si estrapolò una frase incidentale che ragionava, tra mille altri e ben più corposi argomenti, anche su quanto fossero stretti i pantaloni e come potessero essere stati tolti in assenza di un atto costrittivo, per scatenare il linciaggio. La sentenza era molto più strutturata, quello era un dettaglio puramente incidentale di un ragionamento probatorio ben più serio ed articolato. Quindi oggi, quando leggo di porte del bagno socchiuse e di cerniere lampo di scarsa qualità, dico solo: ecco, ci risiamo. Comprendo bene, intendiamoci, la diffusa e sacrosanta condanna di comportamenti sessuali predatori largamente alimentati da sottoculture misogine ed ottusamente maschiliste ancora ben presenti nella nostra società. Ma nemmeno si può pretendere, come ormai accade sempre più diffusamente, una sorta di statuto speciale della prova per i reati di violenza sessuale. Si è disposti ad accettare il dubbio su un omicidio, ma non su una violenza sessuale. Tema invece, quest’ultimo, delicatissimo quando essa si colloca in quella zona grigia nella quale occorre accertare rigorosamente sia la certezza del “non consenso” al rapporto sessuale, sia - ed è la cosa che più diffusamente si pretende di trascurare - la sicura percezione di quel dissenso da parte di chi avanza l’approccio. Sono dati cruciali, che il giudice deve ricostruire in via induttiva da ogni possibile dettaglio, cerniere lampo e porte aperte comprese; e se quella ricostruzione pone anche solo in dubbio l’uno o l’altro elemento della condotta, si impone l’assoluzione come per qualunque altro reato, anche il più efferato. Il Giudice deve essere libero da ipoteche ideologiche o da ricatti “culturali”, perché egli è chiamato semplicemente a ricostruire un fatto. Se lo fa male, c’è il rimedio delle impugnazioni, per fortuna. Ma non si può accettare questa intollerabile idea che il giudice sia sospetto di aver fatto male il proprio mestiere solo quando assolve: questa sì, è la notizia che deve allarmarci tutti. Un’idea italiana del diritto: “Cesare Battisti deve marcire in galera” di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 9 luglio 2022 Il suo regime detentivo continua a non rispettarne i diritti. Siamo sicuri che la Francia, a non consegnarcelo, avesse tutti i torti? L’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, Cesare Battisti, all’ergastolo per aver ucciso quattro persone tra il 1978 e il 1979, ha scritto una lettera intervista in due puntate al quotidiano ?La nuova Ferrara. Sostiene che la sua detenzione in regime speciale non gli consenta di “scontare positivamente e costruttivamente la pena” e chiede che sia rispettata, invece, la decisione della corte d’Assise di Milano, secondo cui egli avrebbe dovuto scontare in isolamento i primi sei mesi, per poi passare al regime ordinario, con la facoltà cioè di stare insieme agli altri detenuti e svolgere una serie di attività che oggi gli sono vietate. I pochi che hanno considerato la lettera hanno sorvolato sul merito delle argomentazioni di Battisti, ritenendole l’ennesimo piagnucolio di un detenuto che è stato a lungo protetto dalla politica e dalla cultura francese di sinistra, “la solita gauche caviar”, mentre il discorso di Battisti interroga le ragioni di un Paese che lo tiene in prigione e che reclama alle sue prigioni altri nove ex terroristi (più Pietrostefani) che continuano a risiedere in Francia, in seguito alla decisione della corte d’appello di Parigi di negare la loro estradizione, sulla base di due articoli della Convenzione europea dei diritti umani. Stare in regime di sorveglianza speciale nel carcere di Ferrara significa per Battisti passare il proprio tempo quasi esclusivamente da solo, tranne che per le ore che trascorre insieme ad altri quattro detenuti della propria sezione, quando svolge un corso di scrittura creativa. La sorveglianza speciale è prevista dall’ordinamento italiano solo in tre casi e con gradi di isolamento diversi: la prima quando si tratti di detenuti legati alle associazioni mafiose, la seconda quando si tratti di detenuti provenienti da associazioni terroristiche, la terza quando si tratti di detenuti appartenenti ad associazioni criminali diverse da quelle mafiose. In tutti e tre i casi, la ragione dell’isolamento è nella necessità di impedire le comunicazioni tra il detenuto e l’associazione da cui bisogna separarlo. Ma, nel caso di Battisti, detenuto classificato come terrorista, dunque in regime As2, è la storia che lo ha separato dalla propria associazione, finita nel 1979, dunque più di quarant’anni fa. Quindi, da cosa, precisamente, lo Stato italiano lo sta isolando? Quando venne riportato in Italia, nel gennaio del 2019, dopo una latitanza decennale, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, insieme all’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, lo accolsero all’aeroporto di Fiumicino, a Roma, come una preda finalmente in gabbia, offrendolo alla curiosità e morbosità di un Paese verso il quale Battisti non aveva fatto nulla per farsi apprezzare, sebbene non fosse più esattamente l’uomo che aveva ucciso molti anni prima. Salvini si prese un lungo applauso quando, alla scuola politica della Lega, disse che “Cesare Battisti dovrà marcire in galera fino all’ultimo dei suoi giorni”. Oggi né uno né l’altro sono più ministri, però ci si chiede se la loro idea della pena, esposta con i gesti e le parole, sia il programma che lo Stato italiano intende realizzare, infliggendo a Battisti un sovrappiù di sofferenza rispetto a quella stabilita da un proprio tribunale. Scrive, Cesare Battisti, di non aver chiesto “alcuno sconto ai magistrati”: quelli che reclama sono “diritti che gli appartengono per legge”. In effetti, per la Costituzione italiana, nessun individuo perde il diritto di avere dei diritti, neanche in prigione. E tanto più che questo è stato proprio l’argomento di coloro - soprattutto intellettuali e politici francesi - che hanno difeso Battisti dall’estradizione, durante la sua latitanza quarantennale: proteggerlo dalla vendetta dello Stato italiano. Sarebbe paradossale confermare, oggi, i loro pregiudizi. Per giunta, nel momento in cui l’Italia chiede alla Francia di estradare altri nove ex terroristi (più Pietrostefani), sentendo come specialmente ingiusto essere considerato un Paese non in grado di garantire i diritti delle persone che tiene sotto la propria custodia. Costringerebbe a dare ragione a chi ha avuto a lungo torto. “Io, magistrato da una vita, vi racconto l’inferno che ho vissuto in carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 luglio 2022 Qualche mese fa la Corte d’appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale il magistrato Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, nell’ambito di una inchiesta che ha visti coinvolti altri magistrati, avvocati, poliziotti. Difeso da Domenico Mariani e Carlo Taormina, Nardi si proclama innocente. Chi era Michele Nardi prima di questa vicenda? Ho vinto il concorso in magistratura a 24 anni. Sono figlio di un magistrato, diventato a fine carriera Procuratore generale di Cassazione. Ho dedicato circa 30 anni della mia vita a questo lavoro: sono stato pretore, poi giudice a Trani fino al 21 febbraio 2006 quando mi sono trasferito a Roma. Lì sono stato il più giovane ispettore generale del Ministero della Giustizia, poi nel 2012 sono passato alla Procura di Roma. Passiamo al momento dell’arresto... Il 14 gennaio 2019 mi stavo recando in auto a Scandicci (FI) per un corso di aggiornamento. All’uscita del casello autostradale sono stato accerchiato da diverse auto dei carabinieri che, armi in pugno, mi hanno arrestato. L’hanno trattata come Carminati... Sì, come se fossi il peggiore dei criminali. Avrebbero potuto convocarmi in caserma e notificarmi il provvedimento. Hanno preferito fare questa sceneggiata. Poi mi hanno condotto in macchina al carcere di Lecce dove sono rimasto in isolamento per una settimana perché lì ci sono diversi ergastolani condannati da me nel maxiprocesso Dolmen contro la mafia pugliese. Poi mi hanno trasferito nel carcere di Matera: sono rimasto in cella oltre un anno senza quasi mai uscire per l’ora d’aria perché non potevo condividerla con gli altri detenuti. Dopo un mese di detenzione mi hanno certificato uno stato di depressione con pericolo suicidario e trasferito per 30 giorni nel reparto psichiatrico del carcere di Taranto in una cella di 5 mq insieme ad altre due persone, talmente piccola che dovevamo fare a turno per stare in piedi. Fuori intanto i miei figli ricevevano minacce sui social: ‘ vi bruceremo vivi’. Per non parlare del linciaggio massmediatico subìto da me e dalla mia famiglia. Addirittura prima ancora che finisse una perquisizione a casa della mia ex moglie, che fu negativa, in alcune emittenti avevano detto che erano state trovate ingenti somme di denaro in contanti. Lei ha scritto dal carcere anche una lettera al Presidente Mattarella... Sì, dopo oltre un anno di custodia cautelare gli scrissi per descrivergli che girone infernale fossero le nostre carceri. Le condizioni di detenzione in Italia sono a dir poco vergognose. Mi sono convinto che il carcere nella maggior parte dei casi è inutile, non ha alcuna funzione risocializzante né incide sulla deterrenza. E poi è inconcepibile che il 30% dei reclusi non abbia una condanna definitiva ma sia comunque ristretto in attesa di giudizio. Lei è stato 30 mesi in custodia cautelare, di cui 18 in carcere... Si tratta di un record: dalla fondazione dello Stato italiano, 1861, nessun magistrato è stato trattenuto in custodia così tanto tempo. Il gip ha ritenuto che io dovessi stare in carcere perché avrei potuto uccidere i testimoni! Non ho ancora capito sulla base di quale elemento probatorio abbia ritenuto una cosa del genere. Ed infatti La Cassazione ha annullato per ben tre volte la misura cautelare ma il Tribunale del Riesame, presieduto sempre dallo stesso giudice, per due volte l’ha reiterata. Alla terza volta si sono arresi, ma c’era già stata la sentenza di primo grado. Entriamo nell’inchiesta e nel processo. Quali sono le anomalie dal suo punto di vista? Le anomalie sono talmente tante che sono state oggetto di una istanza di rimessione del processo ad altra sede per legitima suspicione. Vengo indicato come capo di una associazione a delinquere ma agli atti non risultano contatti tra me e questi associati. Lavoravo e vivevo a Roma quando i fatti contestati si sarebbero svolti a Trani a partire dalla fine del 2010, cioè cinque anno dopo che ero andato via da quel Tribunale. Nessuno mi ha visto con gli altri associati né ci sono intercettazioni fra me e loro. Tenga conto che sono stato intercettato sia nella mia autovettura che per telefono per circa un anno ma non è emerso nulla di rilevante. Inoltre non ho mai firmato alcun provvedimento a favore dei corruttori. Hanno analizzato i beni patrimoniali miei e della mia famiglia e non hanno trovato nulla. Hanno persino fatto due rogatorie internazionali perché il presunto corruttore aveva riferito che mi accompagnava allo Ior in Vaticano per depositare valigette colme di mazzette di denaro. Ovviamente non è emerso nulla di tutto ciò. Sta parlando del suo grande accusatore, Flavio D’Introno... Si tratta di un testimone, anzi di un correo, le cui dichiarazioni andrebbero vagliate con la massima attenzione cercando i riscontri. Appartiene ad una famiglia di imprenditori che ho avuto modo di conoscere e apprezzare quando ero pretore a Corato. Con lui avevo rapporti personali perché era inquilino di una villa della mia ex moglie. Questo signore è stato condannato in via definitiva per usura. Il giorno in cui è arrivata la condanna definitiva invece di presentarsi in carcere si reca dai carabinieri di Barletta - e lui abita e vive a Corato! - e lì inizia una presunta collaborazione fatta di continui interrogatori in cui, cambiando anche spesso versione, costruisce un quadro accusatorio contro di me. Nel frattempo evita di finire dietro le sbarre perché produce documentazione medica da cui risulta che è un alcolista cronico e affetto da sindrome paranoica. Durante il processo abbiamo dimostrato che ha mentito su 135 circostanze fattuali. Ad esempio, si è inventato che mi aveva regalato un Rolex ma poi in aula è venuta la sua amante e lo ha mostrato dicendo che le era stato regalato al suo 40° compleanno. Gli accertamenti bancari hanno dimostrato che non aveva le ingenti disponibilità di denaro per corrompere me ed altri come da lui riferito. Eppure è stato ritenuto credibile. Però i suoi colleghi l’hanno condannata... Voglio credere con tutte le mie forze nella loro buona fede. Anche se in questa vicenda ci sono molte cose incomprensibili. In una intercettazione del 2015 a carico di un soggetto a me sconosciuto, viene detto da costui che D’Introno aveva rapporti con un magistrato ‘ alto e brizzolato’. I carabinieri di Barletta scrivono che l’unico magistrato con quelle caratteristiche, da loro conosciuto, sono io. Ma già da dieci anni lavoravo e vivevo a Roma. Non basta: un anno prima, nel 2014 un compagno di scuola di mio figlio gli profetizzò che sarei stato arrestato per corruzione proprio dai Cc di Barletta, come poi avvenuto. Mio figlio nel 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che alla fine della conversazione ammette che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta. Questo elemento sarà oggetto del nuovo processo ed è stato già segnalato nella istanza di remissione inviata alla Corte di Cassazione. Quando inizia? Ancora non ho ricevuto alcun avviso di conclusione indagine. Non punto alla prescrizione perché sono innocente e voglio difendermi nel processo convinto delle mie ragioni, perchè le evidenze probatorie sono a mio favore. Le dico solo questo: nella sentenza di primo grado c’è scritto che non ci sono prove a mio carico perché sono un magistrato troppo intelligente e scaltro per lasciare tracce! Però se avesse ragione lei sarebbe preoccupante essere condannati senza prove. Lei crede che il mio sia l’unico caso? Ma alla sua difesa è stato consentito di effettuare il controesame? Come denunciato nell’atto di appello, il Presidente del collegio si è costantemente inserito durante l’esame e il controesame ammonendo i testimoni che non dicevano quello che voleva la Procura spezzando anche il ritmo del controesame. Come si spiega tutta questa vicenda? All’inizio ho pensato che eravamo dinanzi ad un eccesso di zelo, come se i magistrati leccesi volessero dimostrare di non fare sconti ai colleghi. Poi ho visto un accanimento che non mi spiego. Le faccio un esempio: nel periodo Covid dal Dap chiedono di segnalare detenuti a rischio sanitario. Vengono fatti 4 nomi, tra cui il mio, ma mentre venivano scarcerati boss mafiosi in tutta Italia per via del Covid io sono stato lasciato in carcere a rischio della mia vita. Firenze. Muore suicida in carcere il poliziotto che sparò a un extracomunitario di Iacopo Nathan La Nazione, 9 luglio 2022 L’agente di 47 anni è stato trovato impiccato a Sollicciano. Si è suicidato il poliziotto indagato per l’episodio di spari avvenuti nel parco delle Cascine il 19 maggio scorso per vicende personali, indipendente dal servizio che svolgeva alla questura di Firenze dove era stato trasferito da poco tempo. L’uomo è stato trovato impiccato dal personale di Polizia penitenziaria durante un giro di controllo nel tardo pomeriggio. È stato dato l’allarme al 118 ed è stato inviato personale sanitario di soccorso ma per il 47enne è stato poi constatato il decesso. In base a prime informazioni l’agente era recluso in una cella, da solo. Gli accertamenti sul decesso sono in corso e vengono coordinati dal magistrato di turno della procura di Firenze. Riguardo all’episodio degli spari alle Cascine, in una lite con almeno un extracomunitario del Gambia, i carabinieri denunciarono il 47enne ma lo arrestarono subito per resistenza e violenza a pubblico ufficiale, reati compiuti durante la perquisizione al suo domicilio, dove viveva con la compagna. Nella casa fu sequestrata una pistola e un coltello. Nella perquisizione una donna carabiniere ebbe lesioni guaribili con prognosi di quattro giorni. L’agente trovato morto stasera proveniva dalla questura di Rimini ed era stato assegnato da poco tempo a quella di Firenze, dove prestava servizio al corpo di guardia di via Zara. Nella vicenda delle Cascine ferì con un coltello un uomo del Gambia e sparò almeno due colpi di pistola, pare in aria ma le indagini su questo episodio, anche balistiche, sono in pieno corso. Oltre alla denuncia e all’arresto, la polizia di Stato lo aveva sospeso dall’organico. Bergamo. Due detenuti si sono tolti la vita, uno ha tentato: nel carcere c’è disperazione di Paolo Aresi primabergamo.it, 9 luglio 2022 Dirigenti, agenti e volontari fanno più di quello che possono, ma non basta. Tanti i malati psichici che non dovrebbero essere dietro le sbarre. Due detenuti che si suicidano in una settimana, un terzo che smette di curarsi per una patologia seria e finisce in gravissime condizioni in ospedale. I due morti erano marocchini, uno aveva 31 anni, l’altro 35; erano in via Gleno per furti e piccolo spaccio. Il terzo è pure di origini nord-africane. La situazione del carcere di Bergamo si ripropone drammatica. La garante dei diritti dei detenuti, Valentina Lanfranchi, che ogni giorno è in via Gleno, non nasconde nulla: “La situazione continua a essere difficilissima, nonostante il prodigarsi del personale e dei volontari. Ma il carcere è in situazione di sovraffollamento e il personale è invece carente... Le guardie fanno tutto quello che possono, anche di più, ma non sono sufficienti. E anche il volontariato è importante, consente tante iniziative, dal forno alla biblioteca, ai corsi... Ma non è sufficiente. Si fa fatica ad affrontare la normalità perché le forze sono scarse. Stamattina un detenuto, ammalato, mi ha detto che voleva fare lo sciopero della fame perché aveva presentato una richiesta di permesso e nessuno gli aveva risposto da venti giorni. Ho dovuto spiegargli che il giudice è oberato di lavoro e fatica a smaltire... insomma è tutto difficoltoso, la giustizia viaggia troppo lentamente. Adesso c’è anche il caldo che rende la situazione ancora più estenuante. Celle piccole, magari fatte per due persone, con quattro detenuti e senza la possibilità di un ventilatore perché gli acquisti sono fermi per ragioni di sicurezza. Se smontate, alcune parti dei ventilatori potrebbero venire usate come oggetti pericolosi, con cui far male a se stessi o agli altri”. L’onorevole Lanfranchi spende per il carcere buona parte delle sue giornate, sa bene che questo è un luogo delicato e importante della città, un posto dove finiscono i drammi, le emarginazioni, le difficoltà di vivere. Le carceri sono sempre state un posto difficile; oggi, che vorrebbero rappresentare anche un luogo di rigenerazione, il compito è ancora più complicato, occorrerebbero forze che non ci sono. A peggiorare una situazione grave è arrivata anche la soppressione degli ospedali psichiatrici giudiziari, senza però costituire delle sufficienti strutture alternative. Risultato: diversi ospiti psichiatrici sono finiti nelle case circondariali normali, compresa la nostra di via Gleno. Con conseguenze a volte esplosive. In questo periodo, in via Gleno sono custoditi 520 detenuti, ma la struttura è stata progettata per 315 persone. Gli agenti di custodia sono circa duecento, ma dovrebbero essere 243. Considerando i congedi, cioè le ferie, e i riposi oltre alle malattie, il numero si riduce. Per risultare davvero sicura, per chi è recluso e per chi ci lavora, la casa circondariale di Bergamo dovrebbe avere trecento agenti. Torino. “La pandemia ha sospeso un progetto di ammodernamento avviato con fatica” di Irene Famà La Stampa, 9 luglio 2022 Il lavoro degli agenti della Polizia penitenziaria è un “lavoro quotidiano che si svolge al di là di quelle mura, in uno spazio lontano dalla vista. Spesso ci sentiamo lasciati soli eppure dobbiamo avere consapevolezza del nostro ruolo e di quanto il nostro intervento sia fondamentale”. La direttrice del carcere Lorusso e Cutugno, Cosima Buccoliero, ringrazia il personale in occasione delle celebrazioni del 205esimo anno di fondazione del Corpo di polizia penitenziaria. Una cerimonia, quella di oggi, davanti alle istituzioni, dopo un anno molto complesso per il carcere di Torino. Finito al centro di un’inchiesta della magistratura su presunte torture nei confronti dei detenuti e al centro delle polemiche per la sezione filtro, quella destinata ai corrieri della droga. La neo direttrice, al carcere ha impresso una svolta, di ascolto, confronto e apertura alla cittadinanza: “La pandemia ha inciso profondamente e sospeso il progetto di ammodernamento che avevamo avviato con fatica, eppure abbiamo dato prova di riuscire ad affrontare la situazione di emergenza”. Resta la questione della carenza di personale. Come sottolinea la comandante della polizia penitenziaria, Mara Lupi: “Con la riduzione progressiva negli anni delle nuove immissioni in ruolo di personale di tutte le qualifiche, si impone necessariamente una riorganizzazione del lavoro”. E la questione del sovraffollamento. “Un problema - sono le parole di Rita Monica Russo, Provveditore regionale di polizia penitenziaria - che grava stridente sul lavoro dei poliziotti, spesso anche con conseguenze che non sempre hanno fatto onore a quella parte di personale che ha compreso sin da subito quanto l’emergenza dovesse essere da stimolo per un fare diverso”. E aggiunge: “Vivere il carcere da poliziotto è un’esperienza complessa”. L’obiettivo condiviso dev’essere “un carcere sociale. Un carcere che appartenga a tutti”. Aversa (Ce). Protesta dei detenuti: “L’estate è il momento più difficile, c’è troppo disinteresse” di Rossella Grasso Il Riformista, 9 luglio 2022 Continua il dramma nelle carceri d’estate. Da qualche giorno è iniziata la protesta pacifica nel carcere di Aversa. Tre volte al giorno i detenuti iniziano a battere oggetti sulle sbarre. A denunciare la difficile situazione del penitenziario è la garante della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore: “Il caldo, le carenze di attività e la discontinuità dell’area sanitaria destano preoccupazione. I detenuti in estate soffrono tantissimo e sembra che invece aumenti il disinteresse da parte delle istituzioni nei loro confronti”. La garante ha parlato a lungo nel cortile del carcere con tutti i detenuti sotto il sole a 40° per capire cosa stia agitando la protesta. “Sono preoccupati per l’area sanitaria - spiega Belcuore - C’è discontinuità, il medico cambia sempre. In due anni sono già andati via due medici preposti. Poi il caldo asfissiante rende tutto più difficile. Ma probabilmente il disagio più grande è per il ritardo con cui vengono concessi i permessi”. La garante spiega che per i Magistrati di Sorveglianza la mole di lavoro è enorme e la procedura è estremamente complicata dalla burocrazia. “Dovrebbero venire tutti in carcere per capire come si vive d’estate”, aggiunge la garante. Negli ultimi giorni i garanti hanno consegnato i ventilatori per migliorare la condizione dei detenuti. Ma c’è dell’altro: “Vorrebbero un campetto per giocare a calcio e il diritto di poter utilizzare l’area verde. Si tratta di una zona attrezzata con i giochi per i bambini che entrano in carcere per visitare i loro papà. È una zona bellissima che potrebbe fare molto bene a papà e bambini ma non viene usata”. “I detenuti chiedono anche più progetti trattamentali in carcere come corsi di teatro, musica e canto - conclude la garante - Hanno intenzione di scrivere al CSM e avviare un pacifico sciopero della spesa”. Ad Aversa come in quasi tutte le carceri della Campania si stanno susseguendo le proteste. Il clima è teso e anche in altre carceri più volte al giorno i detenuti fanno la battitura. Troppi disagi in carcere che d’estate diventano davvero insopportabili, non solo per i detenuti ma anche per le loro famiglie e per tutti quanti in carcere ci lavorano, agenti e operatori compresi. Una situazione che da giorni denunciano i garanti. Man mano che passano i giorni ne sono sempre più certi: “Il carcere così come si sta muovendo rischia di diventare una polveriera. I detenuti si sentono abbandonati. Chiediamo che d’estate il carcere non smetta d’esistere”, hanno detto qualche giorno fa il garante regionale, Samuele Ciambriello e il napoletano Pietro Ioia. Biella. “Detenuto non venne curato”. Ma il giudice assolve i quattro medici imputati primabiella.it, 9 luglio 2022 Aveva un tumore e soffriva molto, morì nell’agosto 2016. La denuncia presentata da un altro recluso. Tre sono stati assolti con la formula “perché il fatto non sussiste”. Nei confronti del quarto è stato disposto il non doversi procedere. Sono i quattro medici (tre dell’Asl di Biella, uno di Novara) imputati di omicidio colposo per il decesso di un detenuto Ioan Gal, che oggi avrebbe 56 anni, morto nell’agosto 2016 nell’hospice “Orsa Maggiore” di Biella, in cui era stato ricoverato non appena uscito dal carcere di viale dei Tigli, dove aveva scontato meno di due anni di pena per furto. In quel lasso di tempo l’uomo, originario di Timisoara, in Romania, era stato colpito da un tumore, la sindrome di Ciuffini Pancoast, che l’avrebbe consumato in pochi mesi, facendogli perdere oltre venti chili di peso e facendogli passare giorni di atroce dolore. Per quel tumore, secondo la Procura, il detenuto non sarebbe stato adeguatamente curato in carcere, ritardando così l’accesso a cure più efficaci. Per conoscere le motivazioni della sentenza si dovranno attendere novanta giorni. Tutto da un altro detenuto - A sollevare il caso era stato un altro detenuto, compagno di cella e amico di Gal. Dopo la sua morte, l’uomo aveva consegnato ai Carabinieri della sezione di polizia giudiziaria coordinati dal luogotenente Tindaro Gullo, una lettera dell’uomo, in cui spiegava le condizioni in cui versava nel periodo in cui era detenuto. Erano così iniziate le indagini, coordinate in seguito direttamente dal procuratore capo, Teresa Angela Camelio. Tra gli altri sono stati interrogati i compagni di cella della vittima. Erano state inoltre sequestrate le cartelle mediche relative al paziente e il diario clinico dell’infermeria della casa circondariale. Erano stati così ricostruiti in una manciata di giorni i mesi d’inferno vissuti da Gal. L’aiuto dei compagni - Alla fine sarebbe emerso un quadro drammatico con Gal che per mesi non sarebbe neppure riuscito ad alzarsi dalla branda. Erano gli altri detenuti a doversi occupare di lui, lavandogli i vestiti, cercando di farlo mangiare e accompagnandolo in sedia a rotelle alle visite. Quando - stando sempre alla lettera e al racconto dei testimoni - nelle docce il detenuto aveva avuto una copiosa perdita di sangue dal retto, l’amico avrebbe chiesto ai medici dell’infermeria che gli venissero fatte tutte le analisi necessarie. Gli avrebbero però risposto di farsi gli affari propri. Il giorno della scarcerazione, gli stessi agenti di Polizia penitenziaria avevano chiesto l’intervento di un’ambulanza che lo aveva portato in ospedale. Era stata così confermata la presenza del tumore e delle relative metastasi. Firenze. A Sollicciano tavola rotonda sul libro di Margara “La giustizia e il senso di umanità” di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 9 luglio 2022 Una bellissima iniziativa, una tavola rotonda che si è svolta attorno ad uno dei libri fondamentali per la comprensione del mondo del carcere in Italia, si è tenuta stamattina al Giardino degli Incontri a Sollicciano, alla presenza di alcuni dei protagonisti di un panorama variegato e complesso, dove non si può e non si deve perdere, come titola il libro di Alessandro Margara, “La giustizia e il senso di umanità”, la consapevolezza dell’umanità dei detenuti. Al convegno hanno partecipato, oltre alla direttrice Antonella Tuoni motore dell’evento, il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana Giuseppe Fanfani, Sara Funaro, Assessora all’educazione e welfare del Comune di Firenze e Antonio Mazzeo, Presidente del Consiglio regionale della Toscana per i saluti istituzionali. Le relazioni, che hanno preso il via alle 10.30, sono state molto interessanti, da “La stanchezza delle belle frasi” di Mauro Palma, Presidente del Collegio del garante nazionale delle persone private della libertà personale, a “L’eredità di Sandro Margara”, di Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Udine e curatore del libro, fino a “Conservare la memoria: l’Archivio Margara”, relazione tenuta da Saverio Migliori, Responsabile Area carcere e giustizia della Fondazione Michelucci. Alle 11.30 si sono tenuti gli interventi, aperti da Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, per preoseguire con Pierpaolo D’Andria, Provveditore regionale Amministrazione penitenziaria Toscana e Umbria, chiusi da Eros Cruccolini, Garante dei detenuti del Comune di Firenze. La relazione conclusiva si è tenuta a partire dalle 12 da parte di Carlo Renoldi, nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in un certo senso “ospite d’onore”, della giornata. Sull’iniziativa, raggiunto da Stamp, è intervenuto don Vincenzo Russo, il cappellano del carcere di Sollicciano, che ha plaudito all’evento, mettendo l’accento sul fatto che Margara “è stato un uomo molto concreto, mi auguro che parlando di carcere si faccia tesoro di questa concretezza”. Inoltre, porgendo a Renoldi un felice benvenuto, “mi auguro anche - ha detto - che ci siano molte e frequenti visite del nuovo capo del Dap, dal momento che si sono viste pulizie straordinarie e apprezzate, mai finora realizzate e ci si augura che continuino”. Un’ottima mattinata insomma per Sollicciano, che tuttavia attende, a proposito di concretezza, soluzioni urgenti per due delle più pressanti esigenze emerse dai detenuti e dalle associazioni, ovvero debellare la piaga delle cimici e cercare di trovare una soluzione generale ai suoi strutturali problemi di igiene. Giustizia mediatica e populismo penale, due processi perdenti recensione di Giovanni Canzio Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2022 “Giustizia mediatica”, di Vittorio Manes. La postmodernità ha reso complicato e controverso il rapporto fra la categoria del tempo e la funzione di giustizia. Questa si muove lungo cadenze dialettiche, attente all’esame dei casi e delle questioni, alla scelta e alla spiegazione delle ragioni della migliore soluzione, che l’urgenza di deliberare, comunque e in fretta, rischierebbe di condizionare negativamente quanto a equità, autorevolezza e stabilità della decisione. Ne è dunque evidente lo scarto di paradigma del linguaggio e della comunicazione rispetto al comune agire quotidiano, che, appare orientato intorno al “presente continuo” e al “tutto accade ora”. Ed è proprio nella morsa di questa contraddizione che s’annida il nucleo del conflitto fra l’attesa di giustizia e il diritto applicato. Se si considera il privilegio prioritariamente accordato ai pur provvisori esiti delle indagini, alla preventiva privazione della libertà personale e alla gogna che colpisce l’indagato, quasi in funzione di una presunzione di colpevolezza e di un’anticipata esecuzione della pena, appare lineare la conseguenza che, laddove l’inchiesta e l’ipotesi di accusa formulata dal pubblico ministero, con le correlate aspettative e ansie securitarie, venga a distanza di tempo smentita dalla verifica dibattimentale, la credibilità del sistema è messa in crisi. Il disorientamento dell’opinione pubblica è peraltro rafforzato dalla circostanza che, non di rado, l’organo di accusa comunica il suo operato attraverso media, social network, talk show, relazionandosi direttamente con il popolo e con la politica (“porte girevoli” censurabili anche queste!), anziché dialogare con i protagonisti del processo nel luogo e nel tempo del processo. Gli studiosi empirici del ragionamento esperto - psicologi cognitivisti, economisti comportamentali, epistemologi, logici formali e matematici, statistici, linguisti e neuroscienziati - ammoniscono, inoltre, che bias cognitivi e aporie nella presa di decisione sono ascrivibili anche a variabili attinenti alla sfera dei valori o a quella morale e che l’impatto della comunicazione mediatica sull’opinione pubblica può incidere negativamente, dall’esterno, sulla coerenza logica della rappresentazione dei fatti e della costruzione mentale della “storia”, sottoposta, nel contesto storico-spaziale del processo, al confronto dialettico, prima, e alla valutazione e decisione del giudice, poi. Ci si riferisce alla inesorabile macchina del rito mediatico, causa e prodotto, insieme, del fenomeno che prende il nome di populismo penale e che costituisce l’oggetto della brillante e acuta indagine di Vittorio Manes in “Giustizia mediatica” (il Mulino). L’autore procede nella prima parte all’accurata descrizione della macrofisica e della microfisica del sistema penale mass-mediatico e dell’agire dei suoi protagonisti. E insiste puntualmente nel segnalarne gli ormai invalsi connotati di anomia, atopia e acronia, propri di una “giustizia senza processo”, come nel romanzo di Lewis Carroll, Alice dietro lo specchio. Segue, nella seconda parte dell’opera, il drammatico e coinvolgente elenco delle distorsioni e degenerazioni, anche soggettivistiche, prodotte sui diversi piani: etico, sostanziale e processuale. Il fenomeno dello spettacolo parallelo della giustizia penale, alla stregua di un’analisi attenta e originale, viene destrutturato e scarnificato da Vittorio Manes in tutte le sue parti, per evidenziarne con chiarezza la degradazione e gli effetti perversi sul tessuto complessivo del giusto processo, insieme con la caduta a picco della credibilità della giurisdizione penale e della fiducia dei cittadini nella magistratura e nello Stato di diritto. Nella terza parte si apprezza particolarmente il messaggio propositivo per una interpretazione dei possibili rimedi contro una siffatta deriva, ideologica e valoriale. Oltre l’appello agli anticorpi culturali di una più intensa “vigilanza cognitiva” dei protagonisti del processo e di una “ecologia della informazione”, per il versante della deontologia e della responsabilità della professione giornalistica, il giurista identifica i contorni di una possibile “profilassi” lungo iltragitto di un nuovo e più razionale assetto istituzionale dei poteri, che va dal rafforzamento della presunzione di innocenza fino alle più recenti linee di riforma del processo. La strada prescelta dal cd. modello “Cartabia” è, fra l’altro, quella di riportare in equilibrio i rapporti fra pubblico ministero e giudice fin dentro le indagini preliminari, attraverso una serie di interventi sul rito diretti ad aprire in quella fase talune finestre di giurisdizione. Il saggio si conclude con l’auspicio, sicuramente apprezzabile e condivisibile, che venga riscoperto e valorizzato adeguatamente il tasso complessivo delle garanzie poste a presidio del fair trial, effettiva cartina di tornasole della rispondenza di un determinato sistema processuale alla Rule of Law e ai principi di una democrazia liberale. “Libya: No Escape From Hell”, di Sara Creta. Documentario dall’inferno di Gianluca Diana Il Manifesto, 9 luglio 2022 Nell’ambito delle serate del Cinema in piazza, a Roma, la giornalista e documentarista ha presentato il suo lavoro sui centri di detenzione in Libia. L’attesa a tratti senza fine dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione in Libia, si è palesata durante la serata di ieri a Roma nella rassegna “Il Cinema In Piazza” organizzata dal Piccolo America. L’occasione si è concretizzata con la visione di “Libya: No Escape From Hell”, documentario prodotto da Arte e Magneto e realizzata dalla giornalista e documentarista Sara Creta presente alla proiezione. Assieme a lei sul palco anche uno dei protagonisti del documentario, il sudsudanese Michael Magok, oltre ai rappresentanti delle due organizzazioni che hanno reso possibile il tutto, ovvero Medici Senza Frontiere con un suo operatore e Claudio Paravati, direttore del mensile Confronti. Il titolo del film spiega egregiamente l’intento dell’autrice nell’incontrare ed analizzare il repressivo sistema di detenzione libico che svolge il gioco sporco per la connivente e volutamente distratta Europa. La questione migratoria, in tutta la sua drammaticità, viene raccontata con delicatezza, consapevolezza e rispetto per chi vive quei drammi. Libya: No Escape From Hell non punta né sullo stupore della carne e del sangue, né tantomeno sulla drammaturgia estetica della morte violenta. Utilizza invece il tempo e lo spazio per rappresentare in modo schietto la deprivazione costante e continuata a cui i migranti vengono sottoposti: la perdita progressiva di ogni diritto ascrivibile al genere umano è indiscutibile. E si tocca con mano attraverso le parole tanto semplici quanto dirompenti di uno degli intervistati, il sudanese N’Doka, ora riparato in Svezia, quando per descrivere la sua situazione e quella dei compagni di fuga che lo circondano, afferma che “…Ci vedi, è chiaro che noi siamo persone che hanno perso la speranza”. Il lavoro della regista si muove con abilità tra giornalismo d’inchiesta e documentazione, mettendo a frutto un’esperienza consolidata nel tempo. Quando hai scelto di dirigere il tuo lavoro verso la violazione dei diritti umani ed in che modo sei arrivata ad occuparti della Libia? Mi occupo da tempo di politiche migratorie. Dieci anni fa mentre ero a Melilla, al confine tra Marocco e Spagna, ho assistito alla stessa violenza che tutti abbiamo visto raccontata la scorsa settimana. Stavo documentando le conseguenze degli abusi e raccoglievo le testimonianze dei feriti, quando vidi morire Clément, un ragazzo camerunense respinto dalla Spagna e bastonato con mazze di ferro dalla polizia marocchina. Clément, dopo essere stato arrestato e pestato, morì sotto i nostri occhi in quanto l’ambulanza che doveva trasferirlo all’ospedale di Nador non giunse in tempo. Quella esperienza mi ha segnato enormemente. Da quel giorno non ho mai smesso di occuparmi di confini, di ‘muri’ tangibili, di violazioni sulla pelle degli “altri”. Ed oggi, dietro l’eufemismo del “controllo delle frontiere della UE”, si stanno sviluppando pratiche invisibili ed illegali: deportazioni in mezzo al deserto, maltrattamenti, torture. La necessità di raccontare cosa sta succedendo in Libia nasce da questo, dalla volontà di adottare una nuova prospettiva sul rapporto tra politica ed estetica. Questo apre la strada a una nuova concettualizzazione della dimensione visiva della vita politica e alla possibilità di utilizzare tracce fotografiche per leggere forme diverse di relazioni di potere e dominio. Sia in Libia che nei confini europei le frontiere sono diventate violente e le convenzioni internazionali non vengano rispettate. E così, raccolgo, archivio ed espongo frammenti visivi che interrogano. Come nasce “No Escape”? Era il maggio 2019, stavo lavorando ad un documentario sulla rivoluzione sudanese. In Libia era scoppiata l’ennesima guerra ed i migranti erano bloccati nei centri di detenzione, a pochi chilometri dal fronte. Ho iniziato a ricevere da loro immagini e video di protesta filmati all’interno dei centri, oltre a quelli dei combattimenti in cui erano obbligati ad imbracciare le armi. Ho iniziato a riflettere sul ruolo di queste immagini e sulla politica di visibilità che donne e uomini bloccati in Libia stavano reclamando. Quelle immagini, che vediamo anche nel documentario, ci interrogano. Ci chiedono di definire cosa è estetico e cosa diventa politico. In questa dicotomia, in questo paradigma della cultura visuale, ci si chiede di relazionarci con chi viene fotografato e ritratto, attivando uno sguardo pratico che diventa atto politico e rivoluzionario. In quel momento ho deciso che serviva lavorare ad un documentario che potesse racchiudere questi interrogativi. Il film nasce dalla necessità di interrogare il modo in cui le politiche europee si definiscono, chi le prepara, le delinea e le implementa e di utilizzare la facoltà dell’immaginazione civile per ripensare ai potenziali confini. L’Europa decide di allontanare i migranti in Libia e di farli scomparire: una vera e propria “sparizione organizzata”, frutto di specifiche scelte politiche. Questa complice passività di fronte alla sospensione dello stato di diritto per certe categorie è inquietante. Ecco perché il documentario vuole interrogare sulle responsabilità, non solo morali, ma anche giuridiche e politiche di queste dinamiche. I centri di detenzione sono al centro della narrazione... La mia presenza nei centri ed a bordo delle vedette della guardia costiera libica, è stata al contempo necessaria e tanto difficile da organizzare, in quanto va ricordato che si tratta di operazioni finanziate e coordinate dall’Italia e dall’Europa. Qualche anno fa avremmo potuto dire di non sapere. Oggi no. Negli ultimi cinque anni sono state oltre 82.000 le persone intercettate in mare e riportate in Libia. Molte di queste spariscono dopo lo sbarco. Ufficialmente, i centri di detenzione sono made in Italy. Nei documenti europei si legge che dal 2003 il nostro governo ha finanziato “la costruzione di un campo per immigrati illegali, in linea con i criteri europei, da costruire nel Nord del Paese” e di “un programma di voli charter per il rimpatrio di immigrati illegali dalla Libia verso i paesi d’origine, che comporta un sostanziale contributo economico”. Nella finanziaria 2004-2005, secondo un rapporto europeo, l’Italia ha previsto “uno stanziamento speciale per la realizzazione di altri due campi nel Sud del Paese, a Kufra e Sebha”. Oggi, i centri di detenzione sono nelle mani delle milizie che controllano il paese e che vedono negli immigrati una fonte di denaro veloce. Tali gruppi armati sono responsabili di crimini contro l’umanità e hanno goduto e godono della quasi totale impunità, coperti dal governo libico di unità nazionale. Sono entrata nei centri con la macchina fotografica, uno strumento che con la sua presenza induce carcerieri, carnefici e vittime ad una ridefinizione della relazione di potere, tra chi controlla e chi documenta. Ho osservato senza interrompere, perché nel film volevo cercare di decriptare la logica delle politiche della UE in Libia, e di come i rifugiati esistono in quello che Peter Nyers chiama uno “spazio umanitario depoliticizzato”, dove il loro movimento e il loro aspetto sono controllati dagli organismi delle Nazioni Unite, che hanno il compito di trovare una “soluzione durevole” al ‘problema’ del rifugiato, come i programmi di reinsediamento o integrazione. La questione sociale: 5,6 milioni di poveri assoluti, triplicati dal 2005 di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 9 luglio 2022 Il numero delle persone che si trovano in una condizione di “povertà assoluta” in Italia è quasi triplicato tra il 2005 e il 2021, passando da 1,9 a 5,6 milioni. Le famiglie che si trovano in questa condizione sociale sono raddoppiate da 800 mila a 1,96 milioni. Lo sostiene il Rapporto annuale dell’Istat secondo il quale la povertà assoluta colpisce tre volte di più i minori e i giovani tra i 18 e i 34 anni. Ritratto di un paese costruito sulla precarietà di massa, l’insicurezza sociale e contrattuale, le disparità crescenti dei redditi peggiorati dall’inflazione galoppante. E la politica polemizza ferocemente sul ruolo del “reddito di cittadinanza” nel 2020. Per l’Istat avrebbe impedito l’aumento di 1 milione di poveri. Il problema è che ciò è avvenuto nel 2021. Il rapporto annuale 2022 dell’Istat è passato ieri alle cronache per la consueta disfida ideologica sul “reddito di cittadinanza” tra i populisti compassionevoli (Cinque Stelle, Pd e sinistre) che difendono l’operato del governo “Conte 2” (e quello precedente) e i paternalisti neoliberisti (destre varie da Fratelli d’Italia a Italia Viva) che vogliono abolirlo, almeno nella forma spuria e incompleta attuale. Il rodeo di dichiarazioni bellicose è partito dalla citazione dell’Istat, presente nella sintesi per le agenzie stampa, ma più articolato nel rapporto: “Le misure di sostegno economico erogate nel 2020, in particolare reddito di cittadinanza e di emergenza, hanno evitato a 1 milione di individui (circa 500 mila famiglie) di trovarsi in condizione di povertà assoluta” si legge. È bastata questa frase, estrapolata dal rapporto, per scatenare, da un lato, la grancassa pentastellata impegnata a dimostrare i meriti del governo che ha rifiutato di estendere il reddito di cittadinanza verso una forma di reddito di base che oggi tornerebbe utile e, dall’altro lato, la contraerea delle argomentazioni più sprezzanti impegnate a dimostrare invece il fallimento di una misura sociale pensata all’origine come un Workfare particolarmente oppressivo, ma rimasto sulla carta sia per i lockdown 2020-2021, sia per i gravosi problemi costituzionali e tecnici che impediscono la realizzazione di un sistema neoliberale di “politiche attive del lavoro” anche in Italia. Tutto questo è avvenuto poche ore dopo il passaggio alla Camera del “Decreto aiuti” votato dalla maggioranza del governo Draghi che ha attribuito ai datori di lavoro privati il potere, vessatorio e inapplicabile come ha chiarito la sottosegretaria all’Economia Cecilia Guerra su Il Manifesto dell’8 luglio, di denunciare i beneficiari del “reddito” che rifiutano una presunta “offerta di lavoro congrua”. Senza contare che, a dicembre 2021, il governo - e dunque anche i Cinque Stelle - hanno peggiorato le condizioni di accesso alla misura diminuendo da tre a due le offerte di lavoro che è possibile rifiutare prima della decadenza del sussidio. è stato introdotto un décalage di 5 euro al mese per spingere i beneficiari ad accettare lavori che non ci sono. E non sono stati mai seguiti i dieci punti indicati dalla commissione presieduta da Chiara Saraceno per migliorare una politica che non copre nemmeno tutti i “poveri assoluti” (oggi 3,2 milioni su 5,6). Tra le arringhe in difesa, e le risposte strumentali, ieri è passato inosservato ciò che secondo l’Istat è accaduto solo un anno dopo il famoso 2020. Il 15 giugno scorso, nelle “statistiche sulla povertà” l’Istat ha evidenziato come nel 2021 i “poveri assoluti” sono tornati al livello del 2018, circa 5,6 milioni di individui (Il Manifesto del 16 giugno). Dunque il “milione”, o quasi, che non sarebbe diventato povero nel 2020, lo è (ri)diventato nel 2021. Questo significa che, nell’immediato, il “reddito di cittadinanza” (che tale non è perché non è un’erogazione diretta di denaro alla popolazione residente ma solo a una categoria parziale), è servito a contenere la crescita della povertà. Ma, subito dopo, non è riuscito ad evitare che tornasse al livello precedente, eredità della crisi del 2007-8 che ha fatto esplodere la povertà e il lavoro povero. Si rivela così il rimosso nella contesa elettorale in corso: politiche come queste non sono concepite in maniera preventiva, nell’ottica dell’emancipazione dalla povertà, bensì in termini di contenimento del danno, e quindi rispetto al mercato del lavoro e alla società classista che la produce. Questo dato politico è, a dir poco, ignoto al dibattito. La sua rimozione non può che portare a un peggioramento anche delle politiche esistenti. Nel Rapporto Istat si annuncia la forte accelerazione dell’inflazione che rischia di diminuire il potere di acquisto, diminuire i consumi (energetici, alimentari e molto altro) e dunque aumentare le disuguaglianze. Non va nemmeno dimenticato il fatto che la crescita attuale, risultato di un rimbalzo tecnico dopo il crollo dell’8,9% del Pil nel 2020 a causa del Covid, sta contribuendo ad aumentare la quota di occupazioni di breve durata. Sempre nel 2021, quasi la metà dei dipendenti a termine aveva un lavoro di durata pari o inferiore a sei mesi. Persistono le gravi disparità tra i redditi: 4 milioni di dipendenti nel privato non arrivano a 12 mila euro lordi all’anno. Sotto un salario minimo ipotetico ci sono 1,3 milioni di lavoratori con meno di 8 euro 41 centesimi l’ora. Sono soprattutto under 34, donne e stranieri. Sono dati da valutare in vista del “Pnrr” di Draghi, un rilancio delle politiche di neoliberalizzazione, dove gli investimenti saranno fatti in ragione della precarietà di massa, non in vista del suo superamento. I dati sui nati da genitori stranieri, o che hanno studiato qui: 280 mila avrebbero diritto allo “ius scholae”, gli studenti con background migratorio sono 1 milione, è mista poco più di 1 famiglia su 4. Sono alcune delle vittime delle politiche neo-nazionalistiche e securitarie della cittadinanza che tengono in ostaggio il paese. Istat, la sofferenza dei resilienti di Linda Laura Sabbadini* La Repubblica, 9 luglio 2022 Secondo il Rapporto annuale dell’Istituto di statistica, tutte le forme di diseguaglianza sono cresciute. Ma il Paese può vincere questa ennesima sfida. Numeri che parlano da soli, quelli del Rapporto annuale dell’Istat. E ci mostrano un Paese che ha saputo reagire, che soffre, che cambia, in un quadro di incertezza per il futuro. Un Paese che ha saputo reagire. In primis alla pandemia. Combattendola, dopo essere stato tra i primi Paesi avanzati ad essere colpito. Combattendola, prima con misure drastiche, poi con la campagna di vaccinazione, che ha raggiunto tra i migliori risultati di copertura a livello europeo. Adeguandosi individualmente, riconvertendosi nelle relazioni familiari, lavorative, negli stili di vita. Reinventandosi in tanti casi di grandi difficoltà lavorative. Sperimentando l’intimità a distanza con i propri cari anziani per combattere l’isolamento. Crescendo sul fronte dell’accesso alle nuove tecnologie. Ridefinendo i propri stili di vita. Pagando un alto prezzo di vite umane, certo, specie tra gli anziani, le persone di classe sociale più bassa e i migranti. Ma mostrando una grande capacità di resilienza in tutti i settori, dalla pubblica amministrazione al privato. Un Paese che, grazie alle misure economiche adottate, ha visto una ripresa repentina, già nel 2021, del 6,6% che ha portato al recupero dei livelli occupazionali del 2019 i primi mesi del 2022. E che, nonostante solo il +0,1% di crescita del Pil nel primo trimestre del 2022, presenta una crescita acquisita del Pil pari al 2,6% per il 2022. Un Paese che soffre. Ha sofferto e soffre tuttora tanto. Prima per i tanti che hanno subito la perdita fulminea dei propri cari, la distanza dai malati, il dramma della lontananza. La difficoltà di curarsi per altre patologie. Poi, per le grandi difficoltà lavorative nei settori del turismo, accoglienza, ristorazione, servizi ricreativi, culturali, servizi alle famiglie e altri. La pandemia ha esacerbato le diseguaglianze preesistenti. Tutte le forme di diseguaglianza sono cresciute. È aumentata la povertà assoluta, che era raddoppiata nel 2012 ed è aumentata di un altro milione di persone nel 2020. Se non ci fossero stati il reddito di cittadinanza e il reddito di emergenza avremmo avuto un milione di poveri assoluti in più e l’intensità di povertà, cioè quanto poveri sono i poveri, sarebbe stata più alta in media di 10 punti percentuali. Sono aumentati i lavoratori non standard, cioè, quelli a tempo determinato, part time involontario e collaboratori, quasi 5 milioni, soprattutto giovani, donne, lavoratori del Mezzogiorno, stranieri. E il recupero di occupazione del 2021-2022 è avvenuto soprattutto nelle forme più precarie. E sono tanti i lavoratori a basso salario. Quattro milioni nel settore privato non arrivano a 12 mila euro lordi l’anno. Quelli che si collocano al di sotto di 8,41 euro all’ora sono 1 milione 300 mila. Non si tratta, quindi, solo di un problema di bassa paga oraria, ma del numero di mesi che si lavora nell’anno e del numero complessivo di ore, di quante interruzioni si verificano tra un contratto e l’altro. E questi lavoratori operano spesso in imprese che offrono condizioni lavorative peggiori, dove cioè si combinano basse retribuzioni orarie con contratti a tempo determinato o part time. La forte accelerazione dell’inflazione degli ultimi mesi rischia di far crescere le diseguaglianze, che risultano colpire di più le famiglie disagiate. Le diseguaglianze di genere sono elevate. Le donne hanno problemi gravi di quantità di lavoro e qualità. Metà delle donne non lavora. E ciò si riflette anche nei rapporti di coppia. Le coppie non anziane in cui ambedue i partner lavorano sono meno della metà. E la cosa più grave è che negli ultimi 20 anni la situazione è rimasta la stessa per le donne da 25 a 44 anni. Senza autonomia economica delle donne come cambieranno i ruoli nella coppia, come crescerà la condivisione, come si supereranno gli stereotipi? I minori hanno raggiunto il massimo livello di povertà e crescono i giovani che vivono all’interno della famiglia di origine sempre più per motivi economici. Un Paese che cambia. Dove le famiglie sono sempre più variegate e più piccole. Dove le persone sole superano le coppie con figli. Dove raddoppiano in venti anni single e monogenitori non vedovi, libere unioni, famiglie ricostituite raggiungendo quasi il 40%. Un Paese dai mille colori, dove il radicamento degli stranieri cresce e nello stesso tempo anche l’emergenza umanitaria causata dall’invasione russa dell’Ucraina. Dove i ragazzi stranieri sono fortemente integrati nel tessuto sociale, e sognano, pensano, identificano problemi simili ai compagni italiani. Il quadro è critico e segnato dell’incertezza, soprattutto legata all’evolversi del conflitto tra Russia e Ucraina e allo sviluppo dell’inflazione. Prendere coscienza dei problemi che abbiamo di fronte è la chiave della loro risoluzione. Il nostro Paese può vincere questa ennesima sfida, quella contro le diseguaglianze. Ma dovrà saper individuare le priorità di azione. *Direttora del Dipartimento Metodi e Tecnologie Istat Immigrazione e ius scholae: trent’anni tra paure, proposte e diritti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 luglio 2022 Oggi almeno ottocentomila ragazzi e bambini, compagni di banco dei nostri figli, si trovano incastrati da quella legge del 1992, che privilegia i vecchi principi dello ius sanguinis. Alba dell’8 agosto 1991, porto di Bari: comincia allora, comincia lì, la paura che condizionerà tutta la nostra normativa sui migranti e sui loro figli. Con la sua sagoma da gigantesco formicaio del mare, la nave albanese Vlora si staglia quella mattina all’orizzonte: sta per scaricare sul Molo Carboni quasi ventimila disperati, in fuga dai postumi del comunismo paranoico di Enver Hoxa. Secondo lo storico Valerio De Cesaris, in quel momento diventiamo “consapevoli di vivere in un Paese di immigrazione”. Sarebbe ora. Due anni prima abbiamo trattato Jerry Masslo, scappato dal regime razzista sudafricano, come un marziano di cui disfarsi. La nuova consapevolezza conquistata non è però indolore. Per la prima volta gli italiani (facile essere “brava gente” in una terra senza immigrati) vedono profilarsi l’incubo dell’”invasione”. In quel 1991 i profughi riempiono i nostri primi campi d’accoglienza e le nostre pagine di cronaca nera. Pochi opinionisti mantengono testa fredda e cuore caldo; tra loro, Giuliano Zincone sul Corriere: “La ricca Italia trema, di fronte al modesto abbordaggio dei nostri antichi sudditi albanesi”. Molti, nella politica come nel giornalismo, cavalcano invece l’onda dell’emotività popolare. Sicché gli umori dell’opinione pubblica risultano assai peggiorati quando, a febbraio del 1992, si decide di riformare la legge sulla cittadinanza: i partiti, ovviamente assai sensibili, registrano il cambiamento e lo traducono in norme e codicilli. La vecchia legge risale addirittura al 1912, pensata per il Paese di emigranti che fummo. Si tratterebbe adesso di cambiare punto di vista (“Lamerica”, per dirla con Amelio, siamo noi) e di guardare a un futuro in cui le nostre coste diventeranno polo d’attrazione per moltitudini. Non va così. La legge 91 del 1992, assai condizionata da quegli albanesi che stanno scalando le classifiche nere degli stranieri denunciati (arriveranno al 12%, col 72% di irregolari), nasce storta: assai favorevole ai discendenti degli italiani emigrati all’estero, molto restrittiva verso gli immigrati. Regaliamo la cittadinanza a persone che non hanno mai messo piede in Italia e neppure si esprimono nella nostra lingua (col senno di poi, si potrebbe ribattezzarla “legge cocumella”, dal surreale esame di italiano sostenuto in tempi molto più recenti dall’uruguayano Luis Suarez, a caccia della nostra cittadinanza avendo sposato una nipote di emigranti friulani). Ma la neghiamo a ragazzi di seconda generazione nati qui o cresciuti tra noi, che parlano il nostro idioma meglio di molti deputati e senatori, eppure vengono sospinti in un limbo nel quale possono vedersi respinta l’istanza se, a diciotto anni, non sono in grado di dimostrare una residenza in Italia legale e ininterrotta. Sabrina Efionayi, scrittrice di ascendenza nigeriana nata e cresciuta a Castel Volturno, ricorda “ore e ore all’ufficio stranieri per rinnovare il permesso di soggiorno, sotto sole e pioggia, io bambina; all’università mi sono dovuta iscrivere come extracomunitaria! Incredibile, dopo tutta la vita nelle scuole italiane!”. Oggi almeno ottocentomila ragazzi e bambini, compagni di banco dei nostri figli, si trovano in queste condizioni, incastrati da quella legge del 1992, che, nota ancora De Cesaris, “privilegia i vecchi principi dello ius sanguinis (il diritto del sangue, per trasmissione familiare) che richiamano concezioni romantiche e ottocentesche di nazione”. Passano gli anni. Cambiano le facce che ci fanno paura. Dopo gli albanesi, saranno i romeni (accolti però nell’Unione europea), poi i maghrebini, i centroafricani... Nel 2015, con Renzi a Palazzo Chigi, il centrosinistra tenta di sterzare verso lo ius soli, il diritto stabilito dal luogo di nascita, prevalente in varie formule in Europa, e presto tradotto da noi nella forma più temperata dello ius culturae, che lo collega anche a un percorso scolastico: rispondendo così alle critiche della destra, secondo cui si vuol fare dell’Italia “la sala parto dell’Africa”. Non basta: ancora una volta la paura decide per noi. Un mese dopo il passaggio alla Camera della riforma, gli islamisti fanno strage al Bataclan. I flussi stanno esplodendo, inutile spiegare che la cittadinanza a ragazzi già inseriti tra noi da un pezzo c’entra ben poco con gli sbarchi che sommergono le nostre coste. Il Pd, con Gentiloni a Palazzo Chigi, abbandona la riforma al Senato, sperando invano di salvarsi alle elezioni. Il leghista Calderoli, col suo stile inconfondibile, celebra così: “Alla quarta fetta di polenta anche Gentiloni ha finalmente capito che lo ius soli non era un salame ma un uccello padulo per lui e per il suo governo”. Siamo all’oggi, nuovo giro, ius scholae. I sondaggi raccontano un’opinione pubblica meno spaventata (o forse solo distratta da incombenze più gravi). Pd e Cinque Stelle ci riprovano: dura che ci riescano. Anche se la cittadinanza ai ragazzi sarebbe un ponte prezioso verso la generazione dei genitori e una liberazione per molte donne prigioniere di subculture originate nel mondo islamico. E anche se, nel frattempo, dal nostro primo babau, gli albanesi, ci è venuta una bella lezione. Non solo si sono perfettamente integrati: agli inizi della pandemia che piagava soprattutto l’Italia, il loro premier, Edi Rama, è venuto a offrirci medici e infermieri. “Non abbandoniamo gli amici in difficoltà”, ha detto: ricordando un tempo in cui noi, con le missioni Alba e Pellicano, abbiamo teso la mano al suo popolo. Come brava gente davvero. Ius scholae: quei giovani che aspettano di diventare italiani ma la legge ne salva solo 280 mila di Ilaria Venturi La Repubblica, 9 luglio 2022 Diritti negati: secondo l’Istat i ragazzi stranieri sono 1,3 milioni e a scuola una minoranza di 32 su 100 è diventata italiana. I sogni sono gli stessi, tutele e garanzie no. Pensano come i compagni di banco italiani, hanno sogni in fondo simili, vogliono viaggiare, molti di loro vivere all’estero, tra Usa e Germania. E rispetto ai coetanei sono più impauriti dalla guerra, ma più affascinati dal futuro. Non sono nati in Italia, ma hanno studiato nelle nostre scuole: 280 mila ragazzi e ragazze che avrebbero diritto alla cittadinanza italiana secondo la proposta presentata in Parlamento sostenuta dal centrosinistra e cioè che hanno frequentato per almeno 5 anni uno o più cicli scolastici. Lo Ius scholae che infiamma lo scontro politico, con la Lega pronta alle barricate in Aula, ora si sostanzia in un numero per la prima volta calcolato dall’Istat nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese. Ci sono anche loro ad alzare la mano all’appello nelle classi, ma non ancora cittadini: non sono un milione e nemmeno 800mila come le cifre circolate nel dibattito di queste settimane. Ma ci sono e reclamano un diritto ancora negato. Il segretario del Pd Enrico Letta è deciso ad andare sino in fondo, lo ha confermato pure all’ultima assemblea di partito, anche se è ancora in bilico la possibilità che la discussione, una volta avviata, possa arrivare al voto alla Camera già la prossima settimana. Intanto la fotografia delle seconde generazioni racconta di oltre un milione di minorenni, al 1° gennaio 2020, nati in Italia da genitori stranieri, il 22,7% dei quali (oltre 228mila) ha acquisito la cittadinanza italiana. Nel complesso sono invece 1,3 milioni i ragazzi stranieri o italiani per acquisizione di cittadinanza e rappresentano il 13% del totale della popolazione under 18 residente in Italia: il nostro futuro demografico. Considerando i requisiti previsti dalla proposta per lo Ius scholae - essere nati in Italia o essere arrivati prima del compimento dei 12 anni e aver compiuto percorsi di istruzione per 5 anni o essere arrivati alla qualifica professionale - la platea di aventi diritto è stimabile in circa 280 mila ragazzi. Più di un quarto risiede in Lombardia. Il 68% dei potenziali aventi diritto risiede oltre che in Lombardia in altre quattro regioni del Centro-Nord (Lazio, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte). Più di un quarto sono di origine romena, seguono i giovani cittadini di Albania (10,1%), Cina (9,6%) e Marocco (9,1%). Interessante vedere come i cinesi adulti abbiano una minore propensione ad acquisire la cittadinanza italiana e di conseguenza i loro figli hanno minori chance di diventare italiani durante la minore età. Diverso, ricorda l’Istat, è il caso di albanesi e marocchini molti dei quali hanno acquisito la cittadinanza nel momento in cui i genitori sono diventati italiani. Nelle aule scolastiche gli alunni di origine straniera con cittadinanza acquisita sono circa 264 mila e rappresentano il 3% degli alunni nelle primarie, il 3,6% alle medie e il 3,5% alle superiori. In generale ogni 100 ragazzi stranieri a scuola ce ne sono 32 che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Una minoranza, lo sanno bene gli insegnanti. “Le famiglie non hanno la stessa consapevolezza” osserva Costanza Margiotta, voce del comitato Priorità alla scuola, tra i tanti che appoggiano quella che la studiosa di cittadinanza, docente di Filosofia del diritto a Padova, definisce “una battaglia minima di civiltà, anche perché questa riforma rimane comunque una delle più conservatrici rispetto alle molte leggi in Europa”. Nel Paese la spinta è chiara, il 63% degli italiani è favorevole ricorda un sondaggio di ActionAid. La Cei è favorevole, il centrosinistra, da Iv a M5S, è compatto. “Per la destra i diritti arrivano sempre dopo” attacca Emanuele Fiano (Pd). “È una priorità del Paese, va approvato in aula” dichiara Andrea De Maria, dem emiliano. Ed è da Bologna che il sindaco Matteo Lepore ha dato la sveglia con una modifica dello statuto comunale: a 11 mila minori sarà data la cittadinanza onoraria sotto le Torri. Forza Italia rilancia, anche ieri lo ha fatto con Antonio Tajani: 8 anni e non 5 di scuola. Intanto l’Istat ricorda: 4 alunni stranieri su 5 dichiarano di pensare in italiano. Vergogna nel Centro di accoglienza di Lampedusa, duemila migranti ammassati tra i rifiuti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 luglio 2022 Il Centro può contenerne 300 e per sole 48 ore. La rabbia dell’ex sindaca Giusi Nicolini. L’Oim: “Gestibili i numeri degli sbarchi, ma senza le Ong il 40% arriva sull’isola”. Oggi al via i primi 600 trasferimenti disposti dal Viminale. I giovani medici che cercano di visitare almeno i bambini appena sbarcati schiacciano blatte a raffica. Fuori, a contendersi la rara ombra degli alberi, centinaia di persone cercano di riposare su distese di materassi gettati per terra. Erano rifiuti speciali, pieni di acari della scabbia in attesa di essere smaltiti. Ma qui, all’hotpost di Lampedusa, da giorni nessuno raccoglie i rifiuti. E persino i lavabi dei bagni, ormai divelti, e i lavandini della cucina sono sommersi di bottiglie di plastica, di scarpe impossibili anche per questi piedi sopravvissuti al deserto, di resti di coperte termiche usati per ripararsi dal caldo di giorno e per coprire i bambini che dormono all’addiaccio la notte. La denuncia dell’ex sindaca - “Potrebbero essere foto della Libia. Ma no, è Italia”, scrive l’ex sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, che rilancia sui social la vergogna di un centro di accoglienza misteriosamente mai ristrutturato dopo gli incendi che, ormai molti anni fa, hanno distrutto parte dei padiglioni riducendo la capienza a un massimo di 300 posti. Ma ieri, come nei giorni scorsi e come capiterà nelle prossime settimane, di migranti ce n’erano più di 1.800. Tutti insieme, donne, uomini e bambini, vulnerabili, feriti, vittime di tratta, costretti in una promiscuità indecente, accucciati a dormire dove mangiano, su materassi sporchi di urina, tra i rifiuti che marciscono al caldo. Senza acqua per giorni, senza potersi lavare né cambiare, senza neanche qualcuno che gli spiega cosa fare o come chiedere asilo visto che i contratti dei mediatori culturali sono scaduti e poliziotti, assistenti sociali, medici, non sanno come parlare con questa gente. Che, sopravvissuta alla traversata, non avrebbe mai pensato di trovare in Italia condizioni igienico-sanitarie simili alla Libia. Oggi al via i primi trasferimenti - Questione di numeri, certo: 1.800 persone per un centro che potrebbe ospitarne 300 sono difficili da gestire. E il Viminale ha garantito che già oggi ne porterà via 600 con la nave San Marco della Marina militare mentre altrettanti dovrebbero essere trasferiti sulla terraferma domani con altri navi della Guardia di finanza e della guardia costiera in arrivo. Ma il problema non sono i numeri degli sbarchi perché i 30.000 arrivi di quest’anno non costituiscono affatto un’emergenza. Il problema semmai è la gestione del centro affidata da marzo a una cooperativa (Badia grande) finita più volte in inchieste della magistratura, che di certo risparmia su addetti e forniture. E il problema è semmai il fatto che Lampedusa, ancora una volta, è lasciata sola a gestire un’accoglienza che dovrebbe durare 48 ore e invece si protrae per mesi. L’Oim: manca il soccorso in alto mare - “Sull’isola - dice Flavio Di Giacomo dell’Oim - arriva con sbarchi autonomi il 40% del flusso migratorio. Se nel Mediterraneo ci fosse un sistema di pattugliamento o se si lasciassero lavorare bene le ong, i barconi potrebbero essere soccorsi in alto mare e le persone smistate nei diversi porti siciliani invece di fare di Lampedusa un imbuto”. L’anno scorso, ad alleggerire l’isola c’erano le navi-quarantena ora ritirate finita l’emergenza Covid. Il neosindaco Filippo Mannino chiede al Viminale: “Ridateci almeno quelle”. Cannabis, gli Stati Generali a Milano: “È il vero campo largo, sì alla legge” di Ilaria Carra La Repubblica, 9 luglio 2022 La due giorni dedicata all’urgenza di rendere legale la marijuana: “Serve coraggio” è il messaggio in vista del voto in Aula la prossima settimana. “Il vero campo largo di cui tanto si parla è quello della cannabis”. Ironizza sulla maxi coalizione tanto cercata nel centrosinistra il consigliere lombardo di +Europa, Michele Usuelli, per sottolineare l’urgenza di approvare “questa legge che è la migliore delle opportunità possibili prima della fine della legislatura per una rivoluzione culturale”. La battaglia in Parlamento si annuncia durissima e non sfugge a nessuno agli Stati Generali sulla cannabis, la due giorni di dibattiti e confronti sulla necessità di legalizzare la marijuana a Milano. Un’iniziativa promossa dal consigliere milanese Pd, Daniele Nahum, abbracciata da un po’ tutto il centrosinistra - anche se pesa l’assenza del sindaco Beppe Sala - sul proibizionismo, “che ha fallito su tutta la linea - dice il consigliere che lanciò la protesta fumandosi uno spinello davanti a Palazzo Marino - Abbiamo 16 mila detenuti per reati legati alla cannabis, regaliamo ogni anno 7 miliardi alle mafie e i malati non hanno un’offerta congrua nelle farmacie, sono costretti a coltivarsela”. Nella “Milano dei diritti” la maratona di 38 interventi di relatori tra esponenti politici, associazionismo e aziende, chiede a gran voce al Pd e al governo che la legalizzazione della cannabis “sia un tema centrale”. Serve coraggio, è il messaggio. Lia Quartapelle, deputata dem, ne fa una questione di “allargamento delle libertà e di assunzione di responsabilità”. E sull’inserire il tema nel programma elettorale del Pd resta possibilista. Tra i relatori anche una voce fuori dal coro ufficiale del centrosinistra: “I diritti sono un modello di giustizia e non sono né di destra né di sinistra” dice Elio Vito, ormai ex deputato forzista. Per Roberto Saviano “legalizzare è l’atto contro la mafia più importante che le democrazie possono fare”. Per la prossima settimana è in calendario alla Camera il voto sul ddl Perantoni, una proposta “compromesso” di cui il primo firmatario è Riccardo Magi, deputato di +Europa, che introduce la coltivazione domestica fino a 4 piantine per uso personale. E inserirebbe la fattispecie di lieve entità per i casi meno gravi, toglierebbe il ritiro della patente per i consumatori senza toccare però i reati legati alla guida sotto Thc e, nel caso sia un tossicodipendente a spacciare e produrre, la punirebbe con lavori socialmente utili. “Approvarlo sarebbe un inizio”, è l’opinione condivisa, “gli Stati Generali rafforzano la nostra battaglia alla Camera” ritiene il presidente M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni. E “per la destra non è mai il momento dei diritti” accusa il deputato dem Emanuele Fiano, riferendosi alle barricate minacciate dalla Lega. Affonda il sottosegretario all’Istruzione, Rossano Sasso: “Ragazze e ragazzi devono respingere la cultura della morte. Una cosa inaccettabile contro cui ci batteremo con tutte le nostre forze”. Moni Ovadia: “Doveva essere lo Stato della pace, l’Europea si è ridotta a Stato americano” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 9 luglio 2022 “Completamente appiattita sugli Usa che vogliono privatizzare il mondo. A che serve l’Ue se svende i curdi, ignora la richiesta di verità e giustizia per Regeni?”. Moni Ovadia è tante cose. Attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero che sa andare controcorrente, che non ha paura di “provocare”. “La Nato si è venduta a Erdogan gli eroi di Kobane”. Così Il Riformista titolava in prima pagina riflettendo sulla conclusione del recente vertice Nato di Madrid. Lei si meraviglia di quella vendita? Non sono affatto sorpreso che la Nato e l’Europa si siano venduti a Erdogan. Mi sembra la cosa più normale del mondo. Perché? Perché a dispetto di tutte le chiacchiere sulla democrazia e sui diritti umani, l’Europa si è appiattita totalmente sull’America. Essersi appiattiti non vuol dire solo prendere ordini dagli Stati Uniti. Vuol dire essersi appiattiti sul modello americano che ha come obiettivo la privatizzazione del mondo. Gli Stati Uniti, come dice Noam Chomsky, non sono una democrazia, sono una oligarchia. Non è possibile una democrazia dove un solo un uomo ha una ricchezza pari al Pil di un continente. Questa non la si può chiamare democrazia. Perché i suoi mezzi per corrompere, per piegare, per decidere, sono superiori a quelli di qualsiasi politico. Sono un regime. Una volta parlando assieme al mio amico Guccini con un giornalista, ho detto: riconosco che per chi è privilegiato, quello americano è un regime più “garbato”. Mentre in Russia Putin ti sbatte in galera o ti fa sparire chissà dove, lì queste cose non si fanno. Perché si sono trovati dei modi per evitare gli urti delle vere critiche. Noam Chomsky da anni afferma che gli Stati Uniti sono un “Rogue state”, uno “Stato canaglia”. Chomsky è un intellettuale prestigiosissimo, ma tanto che danno gli può fare. Tanto gli Stati Uniti continuano a fare quello che gli pare e piace. Ma nel momento in cui Assange gli fa un danno, lo seppelliscono vivo. È inutile che ci raccontino questa favoletta da quattro soldi. È ovvio che avrebbero dato priorità a Erdogan: un dittatore, tecnicamente un criminale di guerra. Meglio un criminale di guerra nostro che la giustizia di un popolo che con uno dei suoi grandi leader, Abdullah Ocalan, ha addirittura intentato una forma di democrazia, il Confederalismo democratico, che è una delle teorie più splendenti che siano uscite negli ultimi quarant’anni. Chissenefrega. Ocalan marcisca pure in prigione, lui che è stato un combattente per l’indipendenza del suo popolo. La Turchia, e non solo, lo considera un terrorista... Il terrorismo... Ma perché gli israeliani quando combattevano contro gli inglesi non facevano terrorismo? Tutti i popoli che si vogliono liberare da una oppressione... l’hanno fatto gli algerini, e così tanti altri. È una pratica per liberarsi da una oppressione ingiusta. Una pratica molto dolorosa, terribile, ma è una pratica. Tornando a noi, al democratico Occidente, alla civile Europa, alla Nato portatrice di libertà: preferiscono l’Egitto allo strazio dei Regeni. Questo ragazzo fatto a pezzi per niente. Giulio Regeni era un cittadino europeo. Dov’è l’Europa a dire: o voi ci consegnate gli assassini, esecutori e mandanti, o noi tagliamo tutti i rapporti. E questo era l’Europa tutta che doveva affermarlo. Perché Giulio era italiano ma anche cittadino europeo. A cosa serve l’Europa se svende i curdi, fa orecchie da mercante alla richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni... L’Europa è una istituzione burocratica, con gli “eurocrati” che la comandano. Certo riescono a fare anche alcune cose buone, come ad esempio l’Erasmus, ma dal punto di vista dei valori essenziali, l’Europa non esiste. L’80% delle armi Nato sono americane. Le decisioni che contano, vedi l’Ucraina, sono prese dagli americani. Punto. E poi hanno la faccia tosta, per non dire altro, di definirla un’Alleanza. L’Europa si è ridotta ad essere uno stato degli Stati Uniti d’America. E in questa Europa da lei descritta, c’è vita a sinistra? In Francia sì, Mélenchon. In Italia no. Con tutto il rispetto per il mio amico Fratoianni, che stimo molto, e alcuni altri, non hanno capito che bisogna parlare il linguaggio dei nostri tempi. Io non ho delle soluzioni in tasca, ricette magiche. Purtroppo in Italia oggi abbiamo delle “frattaglie” politiche che non riescono neanche a mettersi insieme fra di loro. Provi lei a suggerire una strada... Cinque punti di programma, cinque. Glieli elenco: giustizia sociale; sanità pubblica; istruzione pubblica; pace; sviluppo massivo della cultura. Le cose economiche devono venire dopo. se tu hai una cultura generale alta anche quello che farai economicamente sarà alto. Vorrei ricordare anche ai signori liberisti che Adam Smith era un filosofo morale. L’intelligenza, le menti brillanti dove sono? Queste menti brillanti non dovrebbero dire parole più forti e chiare sulla guerra? E lo dice a me! Io mi sono danneggiato pesantemente la carriera perché difendo i diritti dei palestinesi. Altra prova che l’Occidente fa schifo. Sono oltre settant’anni che li occupano. Li sottopongono ad apartheid, a infinite vessazioni, ottocentomila arresti amministrativi, arresti di bambini. L’Occidente trova tutto normale. Non si può dire una parola contro i governi israeliani. Le racconto un episodio emblematico: recentemente, un giornalista di chiara fama, di cui non voglio fare il nome perché mi ritengo un gentiluomo, mi ha telefonato per dirmi che voleva farmi un’intervista sulla questione della guerra. Gli risposi che era un grande onore che lui intervistasse me. Dopo un po’ mi richiama per dire che c’aveva ripensato, comincerebbero infinite polemiche, insulti, scusami ma c’ho ripensato. Capisce in che condizioni siamo? L’Italia ha il più alto tasso di vigliaccheria che io conosca tra i paesi cosiddetti civilizzati. Io non ho mai visto un livello così di vigliaccheria. Per tornare sull’Italia e la sinistra. Sul mercato dell’offerta politica nel campo progressista e di sinistra si è dimenticato del Pd... Cos’è, una battuta? Il Pd di sinistra? Ma il Pd è un partito di centro e neppure tanto progressista. Non basta dire delle cose di genere o sul diritto d’aborto per definirsi di sinistra, certe cose le dicono anche molti conservatori. Sa una cosa che caratterizza davvero, nell’anima, una forza di sinistra? Lo dica lei... Sopra ogni altra cosa è la ripulsa della guerra. La guerra è inaccettabile. Se sei uno di sinistra questo dovrebbe essere il primo comandamento. L’unica guerra che puoi accettare è se qualcuno ti viene in casa e cerca di sottometterti... L’interrompo: ma non è questa la guerra che stanno combattendo gli ucraini, con il sostegno dell’America, dell’Europa, della Nato? È l’immagine che vogliono far passare dell’Ucraina, ma si tratta di una immagine falsata... Perché falsata? Perché le manovre per fare dell’Ucraina un paese contrapposto alla Russia, sono in atto da molto tempo. Un po’ di storia fa sempre bene: quando l’Urss collassa e il presidente Usa George Bush senior raggiunge un accordo con il presidente dell’Urss Michail Gorbaciov, un accordo ben definito. Stiamo parlando di Gorbaciov, non del sanguinario Putin. Gorbaciov acconsente all’unificazione delle due Germanie e all’ingresso del nuovo Stato nella Nato, a una condizione che viene ufficializzata: che la Nato “non si espanda a est nemmeno di un centimetro”. Condizione che a partire dal 1994 non verrà rispettata. D’allora, il 1994, l’Alleanza atlantica ha iniziato ad inglobare gli ex paesi del patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, Croazia e Albania, Montenegro ecc. Spingendosi fino ai confini della Russia. Di fronte alle reiterate proteste di Putin, la risposta è: ce ne freghiamo. Trattandolo alla stregua di un paria. L’Unione sovietica è crollata, si è dissolta, e ora voi non contate più niente. E alla Russia di non contare più niente non le sta bene. Il punto è che gli americani vogliono dominare il mondo. Quello che emerge, mainstream, è l’eccezionalismo americano, che si fonda su un dogma assoluto: la terra è destinata a noi e noi siamo destinati a guidare il mondo. Gli Stati Uniti hanno 900 basi militari a ogni angolo del pianeta. Perché? Qual è il senso? Non solo. Hanno rinverdito, qualora ce ne fosse bisogno, la “dottrina Monroe”, cioè che il Centro e il Sud America sono il cortile di casa loro. Questo affermava quella “dottrina”. Che poi si è estesa al mondo. Che senso ha che gli Stati Uniti abbiano le loro armi a 800 chilometri da Mosca? Vorrei vedere se la Russia mettesse installazioni militari in Venezuela da Maduro. Cosa farebbero gli americani? Guerra, senza ombra di dubbio. Loro hanno deciso che la Russia debba essere una potenza regionale, limitata. Lo aveva affermato con brutale chiarezza, l’allora Sottosegretario alla Difesa Usa Paul Wolfowitz, in quella che poi divenne la “dottrina Wolfowitz”, fondata su un principio guida: non dovrà più sorgere un nostro competitor. Mai più. A farli diventare matti non è tanto la Russia quanto la Cina, che sul piano economico è molto più che un competitor, e probabilmente è già più potente di loro. Quello che non accettano è che il “secolo americano” pian piano volge al termine. Io sono favorevole a una multipolarità. L’Europa era l’ideale per diventare lo Stato sovranazionale della pace e dei diritti. Ma una Europa appiattita sull’America è irrilevante. Parlano di voler difendere i diritti, la democrazia, la libertà. E poi dentro la Nato c’è un dittatore come Erdogan. Pulisci dentro casa tua se vuoi essere credibile. Col cavolo che lo fanno. E le armi ai sauditi che stanno massacrando i yemeniti? Neanche una parola. Qui da noi vige ormai un maccartismo mediatico. Ucraina. Nel Donbass, traditi e traditori di Francesca Mannocchi La Stampa, 9 luglio 2022 In Ucraina la guerra ha due tempi, c’è quello delle trincee e quello delle zone liberate. Nelle città dove si è rimasti vivi è l’ora della resa dei conti con chi i russi li aspettava. “Ne na chasi”, non è il momento, risponde Dmytro quando gli domando se cinque mesi dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, il sostegno della gente verso le decisioni di Zelensky sia solido come le prime settimane. “Ne na chasi”, non è il momento, ripete. Non è sempre il tempo giusto per fare le domande. Questa, per esempio, per lui è prematura. Lo dice una settimana dopo aver saputo di aver perso il lavoro. Era un presentatore tv nella vita di prima, poi la quotidianità della guerra ha imposto ai grandi network di spartirsi un unico canale come prevede la legge marziale dello scorso marzo, il decreto 152/22 approvato per decisione del Consiglio nazionale di sicurezza e difesa dell’Ucraina (NSDC). È la politica di informazione unificata ritenuta “prioritaria per la sicurezza nazionale” dice la legge: i media diventano parte di una maratona di 24 ore che combina tutti i canali nazionali. Canali il cui contenuto è costituito principalmente da informazioni e analisi approvate dalla comunicazione strategica. Siccome la guerra rende permanente lo stato di precarietà, Dmytro al lavoro non è più tornato. Ha messo via le giacche colorate del suo programma di intrattenimento serale, la lista degli artisti e dei cantanti che avrebbe voluto invitare in primavera e dopo il licenziamento ha messo via quasi tutte le domande per cui non è il momento. Altre però sembrano meno premature, a lui come ad altri. Quando è tornato presso la sede della sua emittente a ritirare il badge, il suo capo gli ha detto: appena finisce la guerra torni qui, c’è il tuo posto, la gente ti aspetta. Appena finisce la guerra è una frase affrettata come le domande sul morale delle truppe e quello della popolazione civile. Una frase impronunciabile un po’ per scaramanzia e un po’ perché la guerra non si vive che al presente. Ma qui, in Ucraina, il conflitto ha due tempi. C’è quello del fronte, riacceso a Kharkiv, caldissimo in Donbass dove avanzano i russi e a Sud dove gli ucraini tentano la controffensiva verso Kherson. Ma c’è l’altro, quello delle zone liberate da settimane e di quelle mai sfiorate dalle battaglie. Zone che battono un altro tempo, e hanno altre richieste perché la gente è tornata a pensare al futuro che non è solo il tempo dei progetti, è anche il tempo degli interrogativi. È anche il tempo delle punizioni e delle rese dei conti. Dove l’Ucraina parla già di nuovo al futuro nessuno risponde “Ne na chasi”, non è il momento, la gente vuole che Zelensky presenti i traditori senza aspettare la vittoria. Sentimenti diffusi da parecchie settimane, da quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden disse che Volodymyr Zelensky “non aveva voluto sentire” i suoi avvertimenti su un’invasione russa. Serhiy Nikiforov, addetto stampa di Zelensky e Mykhailo Podolyak, suo consigliere hanno immediatamente confutato le tesi di Biden sostenendo che, al contrario, fosse il presidente americano a non fidarsi degli avvertimenti ucraini sulla minaccia russa, e ricordando le tre conversazioni telefoniche precedenti all’invasione in cui Zelensky invitava Biden a introdurre sanzioni preventive contro la Russia. Incomprensioni o meno, l’incidente diplomatico tra i due è stato ricucito, Biden ha elogiato il popolo ucraino che “ha un leader degno del suo coraggio e della sua resilienza”, ma le frasi del presidente statunitense sulle minacce inascoltate hanno lasciato un’eco nel Paese, l’onda lunga di un malessere che come la guerra, in Ucraina, ha due tempi: dove si combatte si pensa a sopravvivere e scappare, dove si è rimasti vivi si cercano i colpevoli, cioè chi sia responsabile dei fallimenti delle previsioni dell’inizio della guerra. La gente si chiede perché e come le truppe russe si siano avvicinate così facilmente e rapidamente a Kiev da più parti e contemporaneamente, come siano entrati a Kherson facendola cadere in meno di una settimana e perché le migliaia di persone che abitavano i sobborghi della cintura intorno Kiev - le aree tristemente note di Gostomel, Bucha, Irpin - non siano state evacuate in tempo. I canali sono stati unificati, il palinsesto è 24 ore su 24 dedicato all’evoluzione dei combattimenti, ma se nelle prime settimane bastava la speranza della vittoria, oggi le persone cercano risposte. A fare pulizia negli alti vertici dell’intellingece, in verità, Zelesnky aveva cominciato all’inizio di aprile quando ha rimosso due alti funzionari della sicurezza di Kherson. “Ora non ho tempo per occuparmi di tutti i traditori - aveva detto -, ma piano piano punirò tutti”. Un mese dopo era stata la volta del massimo ufficiale della sicurezza di Kharkiv, accusato di non aver lavorato abbastanza duramente alla difesa della città dall’inizio dell’invasione russa. “Sono venuto qui, ho parlato con la gente, ho capito e ho licenziato il capo della sicurezza perché non ha pensato alla mia gente ma solo a sé stesso”, un modo elegante per definirlo un corrotto al soldo del Cremlino. Alla gente però non basta. Non basta ammettere che tra chi doveva servire il popolo c’erano dei traditori, la gente che vive il tempo del dopoguerra vuole le punizioni esemplari. E a Kiev, allora, quando chiedi se il sostegno è solido intorno al Presidente qualcuno, come Dmytro, dice che “non è il momento”, altri dicono che se non c’è punizione non c’è responsabilità e nessuno impara la lezione. La strada per Sloviansk - La lezione Roman Kozodoi, un volontario della Croce Rossa ucraina, l’ha imparata provando a evacuare la gente da Lysyshansk. L’ultima volta che ci eravamo visti, a maggio, la città non era ancora caduta in mano russa. Roman e i suoi amici, ventenni universitari come lui e come lui originari di Lysyshansk, rischiavano ogni giorno la vita per portare acqua, cibo e medicine a chi non se ne voleva andare. Salivano sul loro pullman, guidavano in uno slalom di crateri di missili, osservavano il fumo dell’artiglieria a centinaia di metri alla destra e alla sinistra della strada principale, senza perdere mai né il sorriso né la speranza. Ieri eravamo insieme sullo stesso veicolo, con le stesse persone. Mancano però sia il sorriso che la speranza. Lysyshansk è caduta. Roman ha salutato casa sua, il liceo dove ha studiato e dove continuava a insegnare inglese ai bambini, il laboratorio del falegname da cui lavorava part-time. Nel dire addio alla sua città si è congedato anche dalle illusioni che a vent’anni sono concesse. Che il nostro vicino, colui che tanto ci somiglia e così bene ci conosce, per esempio, non ci sia mai nemico. Gli ultimi giorni prima che Lysyshansk cadesse la sua gente, quella a cui portava cibo e medicine, di fronte all’ultimo tentativo di evacuazione ha detto: restiamo qui ad aspettarli, Roman. Non restavano in assenza di un’alternativa, restavano perché l’alternativa c’era, a marchio Z. Era l’esercito russo. Roman è tornato indietro verso Dnipro, dove ora fa base. Per due giorni ha combattuto con la tristezza, che si è fatta delusione e poi rabbia. Verso le famiglie di cui si fidava, verso sé stesso, troppo ingenuo nonostante la guerra che è assassina di ogni purezza. Poi ha ripreso il pullman, è tornato al magazzino della Croce Rossa, e ha ripreso i viaggi verso Est, ad aiutare altra gente, nei nuovi fronti che si sono spostati di una decina di chilometri. Le città che oggi sono sotto attacco. Siviersk, Sloviansk. I pacchi sono sempre gli stessi: aiuti alimentari e medicine di base. Il sorriso sul volto è diventato rigido. Quando il veicolo si ferma nei sobborghi di Sloviansk, Roman suona il clacson, la gente esce alla spicciolata. Lui consegna una scatola dopo l’altra. Prima che le persone lascino il punto di ritrovo per tornare a casa, dice: siete in pericolo, lo sapete, posso portarvi via se volete essere evacuati. Due donne si scambiano uno sguardo di complicità, la più giovane guarda Roman e dice, in russo: “svoikh ne brosaiem”, non lasciamo la nostra gente in mezzo ai guai. Roman si irrigidisce perché ha capito che quella frase non sia neutra ma che sia anzi un messaggio. Quando dice “la nostra gente”, la donna non pensa agli abitanti di Sloviansk, o meglio pensa a loro come parte del tutto. La nostra gente, anche per lei, ha il marchio Z dell’esercito russo. E quella frase, svoikh ne brosaiem, non li lasciamo in mezzo ai guai, campeggia tra i manifesti a sostegno dell’”operazione speciale”, è uno degli incoraggiamenti di supporto della popolazione russa alle forze armate, è un frammento della propaganda del Cremlino per esaltare gli eroi di guerra. Roman consegna le ultime medicine e non insiste. Torna alla guida del mezzo, dalla strada principale indica in direzione di Lysyshanks. Resterà sempre casa mia, dice Roman, che sa che la pietà si deve a tutti, anche a chi sceglie di andare dall’altra parte, perché l’aiuto non dovrebbe conoscere né posizioni né appartenenza. Stati Uniti. 50 anni fa l’America abolì la pena capitale, ma durò poco di Valerio Fioravanti Il Riformista, 9 luglio 2022 Il 29 giugno 1972 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la pena di morte. Nel 50° anniversario della famosa sentenza Furman v. Georgia ne hanno scritto in tanti. A noi italiani francamente interessa poco, e non siamo nemmeno molto sicuri che le sentenze di costituzionalità servano a qualcosa, perché in Italia in effetti restano ferme sui libri, e sortiscono scarsi effetti. Però possiamo approfittarne per fare un riassunto della comunque interessante situazione della pena di morte nel Paese “più potente del mondo”. La fede assoluta che alcuni settori degli Stati Uniti hanno nel concetto di “punizione durissima” deve interessarci, non è opportuno che rimanga relegata ai buoni sentimenti di chi lavora nelle ONG, perché non c’è una grande differenza tra i principi istitutivi secondo cui molti statunitensi vogliono punire i propri cittadini “sbagliati”, e il desiderio di punire anche il resto del mondo quando “sbaglia” anch’esso. La sentenza del ‘72 riconosceva che la vaghezza delle leggi accordava alle giurie popolari poteri discrezionali troppo ampi, che sconfinavano nell’arbitrio. A quell’epoca, infatti, come un retaggio dei “linciaggi” del passato, in molti Stati si poteva emettere una condanna a morte anche solo per rapimento o per stupro. Ovviamente in quegli anni l’elemento razziale era particolarmente rilevante, e per “stupro” si intendeva spesso un uomo nero che faceva sesso con una donna bianca. Molte giurie consideravano questa cosa “stupro” a prescindere anche dalla consensualità. La Corte Suprema dal 1965 in poi aveva già emesso una serie di sentenze parziali, ma nel 1972 mise ordine alle proprie deliberazioni e ne emise una complessiva, e dichiarò incostituzionali le leggi di 40 Stati e del governo federale, e ridusse automaticamente all’ergastolo le 629 condanne a morte allora esistenti. Fu una sentenza elaborata, emessa con la maggioranza minima: 5-4. Due dei componenti, Brennan e Marshall (il primo nero nominato alla Corte Suprema) sostenevano che era la pena di morte di per sé a essere incostituzionale, altri tre sostennero che era il modo in cui veniva amministrata a non essere corretto, e gli altri quattro, i “contrari”, ammisero che c’erano degli elementi di “arbitrarietà”, ma in una misura accettabile, in quanto ogni procedimento giudiziario è in qualche misura “arbitrario”. Gli ottimisti scrissero che gli Stati Uniti avevano abolito la pena di morte. I pragmatici invece si misero al lavoro, e dopo soli quattro anni, modificate le varie leggi, ottennero, nel luglio 1976, un’altra sentenza “storica”, Gregg v. Georgia, votata 7-2: si poteva ricominciare a emettere condanne a morte. Il combinato disposto tra le sentenze parziali e “Furman” aveva bloccato tutte le esecuzioni negli Stati Uniti dal 1967 al 1977. La prima persona giustiziata nel “nuovo corso” fu Gary Gilmore, che volle creare un certo scandalo e affrettò la procedura, e si presentò volontariamente alla fucilazione, in Utah, lo Stato mormone, il 17 gennaio 1977. La storia di Gilmore venne raccontata in un romanzo da Norman Mailer, che con “Il canto del boia” vinse il Premio Pulitzer. A parte Gilmore, le uccisioni ripartirono molto lentamente, e nei primi sei anni furono giustiziate solo sette persone. Poi la macchina infernale terminò il rodaggio, e nel 1984 si arrivò a 21 esecuzioni, che diventarono 98 nel 1999, il record nell’epoca post-Furman, e da lì iniziò un calo costante: 60 nel 2005, 39 nel 2013, 25 nel 2018 e 17 nel 2020, 10 delle quali fortemente volute da Trump in campagna elettorale. Nel 2021 le esecuzioni sono state 11 e nei primi 6 mesi di quest’anno 7. Nel frattempo 23 Stati hanno abolito la pena di morte, comprese le due “capitali”, Washington e New York. Dal 1977 a oggi sono state emesse complessivamente 9.763 condanne a morte ed effettuate 1.547 esecuzioni. Già solo questo fatto, che in media solo una condanna su sei arrivi davvero all’esecuzione, conferma che molto è affidato al caso: a parità di reato farà la differenza la geografia, la razza, il censo, l’ignoranza, la malattia mentale, il quoziente intellettivo. Come sappiamo tutti, oltre l’80% delle esecuzioni sono negli Stati del Sud, e il Texas da solo ne ha il 37%. Questi Stati hanno una vera a propria “cultura” della durezza giudiziaria. Considerato però che a fronte di tanta severità sono e rimangono la parte degli Stati Uniti con il più alto tasso di omicidi, forse il termine più appropriato sarebbe “fede ferrea”. Quando si insiste a fare qualcosa anche se non funziona, evidentemente è “fede”. Malriposta, ma fede. Anatomia di un dramma: perché Haiti non riesce a rialzarsi? di Michele Farina Corriere della Sera, 9 luglio 2022 Uragani, terremoti, povertà e criminalità spiegano solo in parte perché l’ex Hispaniola è uno dei luoghi più senza speranza del mondo. Ex colonia francese, fu il secondo Paese delle Americhe (dopo gli Stati Uniti) a dichiarare l’indipendenza. Ma qui gli eredi degli schiavi sono stati costretti a risarcire gli eredi degli schiavisti. Sotto il sole di Haiti, il Paese più vibrante e devastato delle Americhe, rovistare nel passato è un lusso per pochi. Quando la vita è in bilico, a che serve indugiare sulle glorie degli avi, i primi schiavi al mondo a guadagnarsi l’indipendenza a inizio Ottocento, o indagare sulle malefatte dei colonizzatori che si vendicarono imponendo un gigantesco pizzo a quel giovane Stato, affossandolo fino ai nostri giorni? Gli haitiani sono grandi consumatori di tempo presente: devono cogliere l’attimo e, primo, portare a casa la pelle, secondo, qualcosa da mangiare. Ad Haiti è anche vero che la gente sogna parecchio: un futuro altrove, un figlio che non ti venga rapito, una classe dirigente non troppo disonesta, una pagnotta che non sia fatta di terra, un salvacondotto per le persone come Luisa Dell’Orto, la suora italiana di 65 anni uccisa l’altra settimana per la strada a Port-au-Prince. Sognano i poveri, anche quando scavano nella spazzatura di Cité Soleil. Ma gli scavi nella storia no, quelli sono un hobby per ricchi e sapienti, per chi vive fuori dal Paese e dalla mizé (la miseria, in creolo), per chi può guardarsi alle spalle senza paura di distrarsi e magari trovarsi davanti un machete o il posto di blocco della gang di turno. Raramente il presente è stato così cupo: basti dire che tutte le vie di accesso a Port-au-Prince, la capitale con oltre due milioni di abitanti, sono controllate da decine di bande criminali che si danno battaglia con i civili nel mezzo. L’instabile lottizzazione della violenza e la debolezza della polizia fanno sì che il porto, dove arriva la maggioranza delle materie prime, sia circondato. Dai moli guardando il mare, un mare impoverito come la terra intorno, oggi si fatica a ricordare il giorno in cui nella baia dei principi, 21 anni dopo l’indipendenza, affondò l’àncora il barone di Machau, inviato da re Carlo X di Francia con 500 cannoni spianati e un ultimatum per i governanti della rivoluzionaria Repubblica: dateci 150 milioni di franchi o apriamo il fuoco. Un ricatto bestiale, una cifra enorme che secondo Parigi doveva “compensare” le perdite subìte dai colonizzatori defraudati, i ricchi proprietari degli schiavi martoriati e delle piantagioni di zucchero e caffè che avevano fatto della colonia Hispaniola la più profittevole dei Caraibi. Anche Napoleone aveva provato a riprendersela, e le sue armate si erano ritirate avendo perso più soldati che a Waterloo. Ma dopo la Restaurazione la monarchia borbonica tornò alla carica, trovando dall’altra parte dell’oceano istituzioni incerte e stremate su cui tendere la trappola del “doppio debito”. Negli Stati Uniti la schiavitù era ancora di casa - Port-au-Prince non aveva alleati, anzi: i vicini più potenti, gli Stati Uniti dove la schiavitù era ancora di casa, consideravano il successo della rivolta haitiana un pericoloso precedente da contrastare. In questo scenario, di fronte ai 500 cannoni lucenti del barone di Machau, il presidente haitiano si sottomise al mafioso ricatto degli ex padroni questuanti. E poiché le casse pubbliche non avevano soldi per compensare gli schiavisti di Sua Maestà, la Francia malignamente li offrì in prestito (con interessi da strozzini). E fu così che il doppio, beffardo giogo del riscatto e del prestito fu caricato sulle spalle degli abitanti di un Paese nascente e dei loro ignari discendenti per decenni a venire. “Gli schiavi combatterono per l’indipendenza. Per fargliela pagare, fu creata un’altra forma di schiavitù”. Così riassume semplicemente Cedieu Joseph, capo di una piccola cooperativa di coltivatori di caffè nel paesino di Dondon, a chi gli chiede notizie. Lì, sulle montagne di Haiti, quella del doppio debito è una vaga certezza che si tramanda come certe oscure storie di una volta, storie che di fronte all’accecante luce del presente con i suoi freschi malanni perdono consistenza e scivolano nella leggenda. È stato così per le autorità francesi, che l’hanno sempre rubricato come il polveroso retaggio di una vicenda d’altri tempi. E quando sulla scena di Haiti, dopo mezzo secolo di dittatura (Papa Doc e Baby Doc), comparve nel 2003 un presidente con il dente avvelenato come il populista Jean-Bertrand Aristide, che chiedeva a gran voce a Parigi la restituzione del maltolto, finì tutto in niente: Aristide fu cacciato in esilio in Africa da un commando di “gendarmi” americani con grande sollievo (e con lo zampino) degli amici francesi. Scordiamoci il passato con le sue imbarazzanti richieste di risarcimenti. Da allora la musica di Haiti ha ripreso a viaggiare sui ritmi incalzanti del presente, una narrativa fatta di tragedie naturali (il terremoto, il colera, gli uragani) e malefatte umane: la corruzione, la disuguaglianza, la mancanza di un vero servizio pubblico, la violenza, le differenze lampanti con i vicini della Repubblica Dominicana. Il ricatto di Parigi pesa sul reddito pro capite - A proposito di queste differenze: lo sapevate che il reddito degli haitiani sarebbe oggi cinque volte superiore a quello attuale, e dunque in linea con il relativo benessere dei “cugini” di Santo Domingo, se la Francia non avesse caricato sulla prima repubblica degli ex schiavi quella “doppia punizione” in denaro? Per stabilirlo ci è voluta una squadra di giornalisti e segugi del quotidiano americano New York Times, che ha riportato alla luce in tutti i dettagli più paradossali quello scandalo sepolto negli archivi delle banche e nelle corrispondenze tra ambasciatori, come certe scoperte archeologiche che cambiano la prospettiva e i giudizi della storia. Il “progetto ransom” - Per mesi la squadra del progetto “Ransom” (“il pagamento di un riscatto”) ha spulciato migliaia di documenti tra Haiti, Francia e Stati Uniti. Materiale che neanche gli storici di professione avevano mai esplorato a fondo. Il Times ha seguito le tracce dei pagamenti finiti a Parigi, pari a 560 milioni di dollari attuali. Ha sottoposto i suoi calcoli all’attenzione di 15 economisti di fama internazionale, che ne hanno confermato l’esito: quel denaro sottratto agli haitiani (alla costruzione di ospedali, fabbriche, scuole) corrisponde a una “mancata crescita” quantificabile con una forbice che va dai 21 ai 115 miliardi di dollari, circa otto volte il Pil del Paese caraibico. La stretta perversa del debito è durata oltre cento anni fino al 1957, sotto la dittatura di un dottore chiamato François Duvalier. Al centro della rete dei profittatori ci fu una grande banca francese, il Crédit Industriel et Commercial, che da una parte finanziava la costruzione della Tour Eiffel e dall’altra (scrive il Times) “strangolava” l’economia di Haiti. Dopo l’inchiesta, il C.I.C non ha fatto causa al giornale americano, ma ha promesso di fare luce sul ruolo assunto nella “colonizzazione finanziaria” del Paese oltre oceano. Gli schiavisti di Wall Street - Nel 1915, ai francesi si sostituirono gli americani, con le banche di Wall Street che videro nella gestione di Haiti un grande affare, tanto che l’occupazione militare Usa durò dal 1915 per 19 anni. La National City Bank, futura Citigroup, negli Anni 20 ammise di avere avuto i più alti margini di rendita proprio dalla gestione del debito pubblico di Haiti, un posto incredibile dove, nelle parole del Segretario di Stato William Bryan, “c’erano negri che parlavano francese”. Pensateci, quando sentite una brutta notizia che arriva da Haiti: l’unico Paese al mondo dove gli eredi degli schiavi hanno dovuto risarcire gli eredi degli schiavisti. Bahrein. Prigioniero in gravi condizioni di salute dopo un anno di sciopero della fame di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 luglio 2022 Abduljalil al-Singace, accademico e difensore dei diritti umani del Bahrein in sciopero della fame da un anno, ha deciso di rinunciare anche ai sali stabilizzati per protestare contro la decisione della direzione del carcere di non fornirgli più alcuni medicinali. Al-Singace ha 60 anni e da oltre un decennio sta scontando una condanna all’ergastolo dovuta al suo impegno in favore dei diritti umani. L’8 luglio 2021 ha iniziato a rifiutare cibi solidi dopo che la direzione del carcere gli aveva confiscato un libro sui dialetti del Bahrein su cui aveva investito quattro anni di ricerche e scrittura. Le condizioni mediche di al-Singace, deterioratesi già nel 2011 a causa delle torture subite dopo l’arresto, sono estremamente gravi: soffre di emicrania e artrite, ha problemi alla prostata e la vista in progressiva diminuzione. Amnesty International ha denunciato l’atteggiamento delle autorità del Bahrein, che stanno passivamente a guardare il deteriorarsi della salute di un difensore dei diritti umani che non avrebbe mai dovuto mettere piede in una cella. L’organizzazione per i diritti umani ha chiesto dunque l’immediata scarcerazione di al-Singace e che siano subito garantire le cure mediche di cui ha disperato bisogno.