Ma quale scandalo: i Radicali hanno già visitato i 41bis e iscritto boss dagli anni 80 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 luglio 2022 Il Fatto e i 5S attaccano il capo del Dap, Carlo Renoldi, per aver permesso a persone non parlamentari di recarsi in sezioni del carcere duro, ma le autorizzazioni sono state concesse anche dalle amministrazioni precedenti. “L’era Renoldi alla direzione dell’amministrazione penitenziaria è cominciata con un permesso senza precedenti dal tempo delle stragi mafiose!”, è l’incipit dell’articolo de Il Fatto quotidiano che contesta al neocapo del Dap di aver “bucato” il 41 bis concedendo alla delegazione radicale di “Nessuno Tocchi Caino” una visita presso le sezioni del carcere duro. Peccato però che siamo all’ennesima fake news visto che già nel 2019, gli esponenti del Partito Radicale, Rita Bernardini in primis, hanno già potuto visitare i detenuti in regime del 41 bis. Non solo. Basti pensare che nel 2017, una delegazione delle Camere penali ha potuto visitare la sezione del 41 bis a Rebibbia. Quindi altro che visita “senza precedenti”. Così come, altro tema posto dall’articolo, non è un caso inusuale che alcuni ergastolani si tesserano con i radicali. Lo fanno pubblicamente fin dagli anni 80. Ma ora, dopo l’articolo de Il Fatto, il gruppo parlamentare del M5s chiede spiegazioni anche su questo fatto quando non solo, com’è detto, è roba stranota da quarant’anni, ma rientra nello statuto del Partito Radicale e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino: l’iscrizione è aperta a tutti, nessuno escluso. Soprattutto per i Caini. È Partita una campagna stampa contro il nuovo capo del Dap? Quindi nessun precedente per quanto riguarda la visita alle sezioni del 41 bis, ma molto probabilmente è un proseguo di una campagna stampa contro il nuovo capo del Dap, Carlo Renoldi, “reo” di aver criticato nel passato alcune misure afflittive del 41 bis. Attenzione. Non ha mai messo in discussione il regime differenziato e mai ha parlato di “ammorbidimento”. Da consigliere della Cassazione ha contribuito a emanare provvedimenti che vietano tutte quelle misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto al suo scopo originario. Non sono azioni, appunto, che ammorbidiscono il cosiddetto carcere duro, come continuano ad affermare i prevedibili detrattori specialisti nell’informazione distorta. In realtà si tratta del pieno rispetto della ratio di questa misura differenziata che sulla carta dovrebbe avere un solo unico scopo: vietare ai boss mafiosi di veicolare all’esterno ordini al proprio gruppo di appartenenza criminale. Nient’altro. Bernardini: “Il Fatto poteva ascoltare le nostre videoregistrazioni” - Ma ritorniamo allo “scandalo” radicale. A rispondere è una delle dirette interessate, ovvero Rita Bernardini che ha effettuato le visite nelle carceri sarde - dove ci sono anche le sezioni del 41 bis - autorizzate dal Dap. Innanzitutto, l’articolo non rivela nulla di inedito. “Il Fatto Quotidiano - spiega Bernardini tramite un post pubblico su Facebook - spia dal buco della serratura quel che faccio e facciamo alla luce del sole. Bastava ascoltare le nostre videoregistrazioni pubbliche per sapere che eravamo stati autorizzati (due mesi fa!) a visitare 5 carceri sarde anche nelle sezioni del 41 bis”. L’esponente del Partito Radicale sottolinea: “Fra l’altro, non è vero che è la prima volta che ciò accade per i non parlamentari; visitammo infatti il 41 bis di Viterbo il 22 aprile 2019”. Sulle ultime visite inviato un report al capo del Dap Renoldi - Sulle visite in Sardegna dal 6 al 12 maggio di quest’anno, Rita Bernardini ha inviato un report di 11 pagine al Capo del Dap Carlo Renoldi: “Immagino che le talpe al Dap per conto del giornale di Travaglio l’abbiano avuta per mano ma - vedi un po’ - non si sono accorte che in quel resoconto denunciavamo che in Sardegna c’è una carenza molto allarmante di Direttori (solo tre per dieci istituti penitenziari), di comandanti della polizia penitenziaria (a scavalco in diversi istituti), di educatori”. Rita Bernardini sottolinea che in quella relazione sono dettagliate le condizioni di vita di tutti i detenuti, una vita in carcere dove le attività (lavoro, scuola, sport, cultura) sono ridotte al lumicino e le giornate trascorrono in un disperato ozio. “Per non parlare del diritto alla salute negato in molti casi, compresi quelli psichiatrici che sono centinaia”, aggiunge. Non solo. Rita Bernardini rivela che, come “Nessuno Tocchi Caino”, quando hanno successivamente incontrato il capo del Dap Renoldi, egli ha fatto presente che non avrebbero dovuto “parlare” con i detenuti al 41bis, ma solo visitare le celle. “Personalmente - spiega l’esponente radicale - gli ho fatto presente che “verificare le condizioni di detenzione” (questo è infatti lo scopo delle delegazioni autorizzate ai sensi dell’art. 117 del regolamento di attuazione dell’OP) è impossibile senza ascoltare chi è detenuto”. In effetti, ricorda che proprio nella visita di pasquetta del 2019 a Viterbo, un detenuto in carrozzella passava quel tempo di isolamento totale disegnando e le disse (poteva parlare) che non lo autorizzavano ad avere più di 10 colori. “Chiesi poi all’agente di sezione quale fosse il motivo di “sicurezza” legato a questa limitazione. La risposta fu che non c’era e che il detenuto avrebbe potuto avere i colori”, chiosa Rita Bernardini. Che abbiano parlato anche con Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina e stragista corleonese), è un dato di fatto. Ma era per verificare le condizioni di detenzione, ovviamente riportate dettagliatamente e in maniera riservata al Dap. “Nessuno Tocchi Caino”, d’altronde, lo fa da sempre. In perenne contatto con gli ergastolani e verificare le condizioni disumane e degradanti. Lo scandalo, casomai, è quello di chi strumentalizza sulla mafia corleonese completamente annientata 30 anni fa, per evitare qualsiasi miglioramento delle misure afflittive nate con l’emergenza e rese ordinarie nonostante la fine decennale di quell’epoca, appunto, emergenziale. Una mafia, che con la cattura di Riina, è poi “cambiata” scegliendo il metodo della “sommersione”. Ovvero proseguire con gli affari illeciti, senza far rumore. La “scoperta” dei 5Stelle: anche i boss si iscrivono a “Nessuno Tocchi Caino” - Il Movimento 5Stelle, pensando che sia un fatto inedito quello “rivelato” da Il Fatto, dice che chiederà al capo del Dap se risponde al vero che “Nessuno Tocchi Caino” abbia chiesto ai mafiosi di iscriversi. Non si comprende cosa ci sia di oscuro o inedito. I grillini possono leggere lo statuto dell’associazione che ha gli stessi principi di quello del Partito Radicale. Rita Bernardini spiega a Il Dubbio che il partito fondato da Pannella ha proprio questo come obiettivo: ricondurre soprattutto i criminali organizzati alla non violenza. Non è un mistero che ci sono iscritti che appartenevano a gruppi terroristi di destra e di sinistra. Così come non è un mistero che si iscrivono anche alcuni boss. Marco Pannella fece già “scandalo” quando si recò al carcere di Palermo per dare la tessera del Partito Radicale a Michele Greco, il “papa della mafia”. Bernardini ricorda a Il Dubbio il caso Giuseppe Piromalli che fece scandalo nel 1987. Parliamo dello spietato boss della ‘ndrangheta che da ergastolano si tesserò con i Radicali, ed era il periodo della campagna per il tesseramento finalizzato alla salvezza del Partito Radicale. Ecco cosa disse Marco Pannella in tal occasione: “Penso piuttosto che proprio Piromalli, non quello “trionfante” libero e potente, ma quello sconfitto e ormai inerme abbia voluto essere “anche” radicale, “anche” nonviolento, lasciare magari ai suoi nipoti, a chi comunque crede, ha creduto in lui, questo segnale. Sta di fatto che egli ha voluto concorrere a “salvare” il Partito Radicale. Se avesse avuto ancora da conquistare, contrattare, salvare “potere”, allora avrebbe avuto contatti con tutti, tranne che con noi. E dico proprio “tutti”. Carcere, visita (anche) ai detenuti in 41 bis: per il M5S è “uno scandalo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 luglio 2022 Notizie dai luoghi più bollenti d’Italia: le carceri. La prima è un esempio di buone pratiche: il capo del Dap, Carlo Renoldi, e il direttore dell’Agenzia delle Dogane, Marcello Minenna, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa “per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso percorsi formativi e sostenere i più indigenti”. L’accordo triennale prevede di mettere al lavoro alcuni detenuti per riciclare le merci confiscate anche alla criminalità organizzata: “Beni di prima necessità, come vestiario e calzature, andranno ai detenuti più indigenti, mentre legnami, tessile e altri materiali potranno essere impiegati nelle lavorazioni industriali svolte nelle carceri, come già avviene per le imbarcazioni dei migranti trasformate in strumenti musicali”. La seconda notizia è invece un esempio di cattiva politica. Il M5S si è alleato con Fd’I e Lega per urlare allo scandalo quando ha scoperto da Il Fatto della visita effettuata a maggio dall’associazione Nessuno Tocchi Caino nelle carceri di Sassari e Nuoro, comprese le sezioni del 41 bis, Non è una gran notizia ma con questo caldo diventa rovente anche la più banale delle visite che quell’associazione effettua per statuto da quando è nata. Ma niente, i deputati del M5S (con Fd’I e Lega) vorrebbero (ri)mettere alla gogna il nuovo capo del Dap per aver autorizzato un evento, dicono, che “rischia di compromettere la sicurezza di tutti”. E annunciano interrogazioni parlamentari alla ministra Cartabia. Eppure basterebbe leggere il rapporto inviato due mesi fa al ministero di Giustizia dall’associazione per trovare una notizia più seria: “La carenza allarmante di direttori, di comandanti della polizia penitenziaria e di educatori; le condizioni sanitarie al limite del rispetto del diritto alla salute e la presenza di un elevato numero di malati psichiatrici”. “Lo scandalo siete voi”, qualcuno deve aver ribattuto. Altrimenti lo facciamo noi. Visite facili ai 41-bis: 5S e FdI chiamano Renoldi (Dap) e Cartabia a risponderne di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2022 Il M5S ha chiesto la convocazione di Renoldi, Fd’I della Cartabia. Silenzio della ministra della Giustizia Marta Cartabia e del direttore del Dap Carlo Renoldi alla notizia riportata dal Fatto Quotidiano sull’incontro con detenuti al 41 bis da parte dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, grazie al via libera del direttore dell’amministrazione penitenziaria per le visite del 7 e 10 maggio a Sassari e a Nuoro. Ma sia la ministra sia il direttore del Dap sono stati chiamati a dare spiegazioni dai gruppi del M5S in commissione Antimafia e in commissione Giustizia della Camera. Giulia Sarti, ha chiesto l’audizione di Renoldi in commissione Giustizia, la ministra Cartabia, invece, viene chiamata a riferire alla Camera, anche su richiesta dei deputati di Fdi. Nell’interrogazione dei deputati M5S si parla di “un unicum nella storia, dall’istituzione del 41 bis”. Ritengono “non giustificato, oltreché pericoloso, che l’Amministrazione consenta l’accesso senza previa valutazione… Gli interroganti chiedono quali iniziative ritenga opportuno adottare per evitare che si ripetano analoghi episodi”. I deputati di Fdi vogliono sapere “a che titolo e per quali motivazioni è stato consentito a un’associazione privata di incontrare i 41 bis”. A difesa di Renoldi e della ministra Cartabia è intervenuto Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino” e nella delegazione in Sardegna: parla di “attacco subdolo a chi sta compiendo un’opera sovraumana di mantenere le carceri italiane nel rispetto dei principi costituzionali”. Come riportato ieri dal Fatto, è stata la presidente di “Nessuno tocchi Caino”, Rita Bernardini, il 2 maggio, a chiedere, con una mail del tutto generica, che con la sua delegazione voleva visitare i penitenziari di Sassari e Nuoro dove, appunto, ci sono i detenuti al 41 bis, tra cui, a Sassari, lo stragista Leoluca Bagarella e il boss del clan dei Casalesi, Michele Zagaria. Bernardini in un post di ieri sostiene che non è un fatto senza precedenti perché “visitammo il 41-bis di Viterbo il 22 aprile 2019”. Ma che quanto accaduto a Sassari e a Nuoro, cioè colloqui diretti con i detenuti al 41 bis, sia una novità, lo dice la stessa Bernardini in un’intervista del 13 maggio a Tpi in cui ha parlato di “merito del nuovo direttore del Dap Renoldi”, per quei colloqui. Nel post di ieri, però, sostiene che Renoldi, poi, “ci ha fatto presente che non avremmo dovuto ‘parlare’ con i detenuti al 41-bis, ma solo visitare le celle”. In realtà, potevano parlare, nel permesso manca la dicitura “a esclusione della sezione 41 bis” e Renoldi non ha neppure messo paletti. Porte aperte alla Renoldi di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2022 Mentre la stampa tutta si stringe al suo premier prediletto come se fosse lì per diritto divino e dovesse restarci in saecula saeculorum a prescindere da quel che fa, una notizia svelata dalla nostra Antonella Mascali spiega meglio di mille editoriali perché questo governo è una jattura. Il protagonista è il capo del Dap, cioè il direttore delle carceri scelto dalla cosiddetta ministra della Giustizia Marta Cartabia: il giudice di sorveglianza Carlo Renoldi, fiero avversario del 41bis e dell’ergastolo ostativo (fine pena mai, non fine pena per finta) per i boss, ma anche dell’”antimafia militante arroccata nel culto dei martiri” (tipo Falcone e Borsellino). Infatti, per celebrare il 30° anniversario delle stragi di Capaci e via d’Amelio, il 7 e il 10 maggio Renoldi ha concesso a una triste brigata di privati cittadini il permesso di visitare i boss reclusi nelle carceri di Sassari e Nuoro, fra cui il mafioso Bagarella, il camorrista Zagaria e lo ‘ndranghetista Gallico. Il tutto in barba al 41bis dell’Ordinamento penitenziario, che vieta le visite di persone diverse da familiari, avvocati, rappresentanti istituzionali, garanti dei detenuti e cappellani. Grazie a quel permesso aperto, i vertici dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, fra cui la presidente Rita Bernardini e il segretario Sergio D’Elia (già dirigente di Prima Linea, condannato a 12 anni per omicidio e banda armata), hanno conversato con Bagarella, Zagaria & C. delle riforme dell’ergastolo ostativo, del 41bis e di altre note forme di “tortura” (come le chiamano Bernardini & C. e, a maggior ragione, i boss in galera), raccogliere le loro richieste (la storia della trattativa Stato-mafia ci insegna quali) e invitare quei galantuomini a iscriversi a “Nessun tocchi Caino” (Abele invece si fotta). Subito dopo, Bernardini ha ringraziato Renoldi in un’intervista a Tpi per aver aggirato la legge per lei e i suoi amici: “È un merito del nuovo direttore del Dap Renoldi: ci ha promesso che ci avrebbe dato questa possibilità e ha mantenuto la parola… Sono riconoscente: nel mondo del carcere queste due condizioni - insieme, per giunta - non si verificano mai”. Già. Infatti la legge lo vieta. Ma Renoldi & Cartabia non badano a certe sottigliezze. Né al messaggio devastante di un governo che ignora il 41bis, consente allegri conversari sulle leggi antimafia coi mafiosi detenuti e invia un segnale di disarmo a tutti i boss: quelli a piede libero ora sperano nella nuova trattativa; i detenuti scoprono che la scelta di non parlare paga; e i pentiti hanno di che pentirsi per aver parlato. Se il premier fosse B., mezzo Parlamento chiederebbe le dimissioni di Cartabia & Renoldi. Invece tutti - a parte M5S e FdI - tacciono. Perché a questo servono i Migliori: a farci rimpiangere i peggiori. Travaglio all’attacco del capo del Dap di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 luglio 2022 Ha permesso ai dirigenti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” di incontrare anche detenuti al 41-bis: uno scandalo per i Travaglio e i grillini che vorrebbero tenerli come belve nei recinti. Infatti scatta subito l’interrogazione 5S a Cartabia. Fucilate Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e amico dei mafiosi! L’ordine parte dal giornale di Marco Travaglio e viene immediatamente raccolto dai fedeli scudieri parlamentari grillini, che scattano sull’attenti e vergano un’interrogazione alla ministra Cartabia. Colei che annovera tra i suoi peccati anche quello di aver nominato al vertice del Dap un magistrato che non porta sul petto le stellette dell’antimafia militante. Quella del “processo trattativa” che piace ai Di Matteo e agli Ardita, che infatti sulla nomina nel plenum Csm si sono astenuti. L’occasione è data da una notizia che proviene dal mondo carcerario (o forse proprio da quello dell’antimafia militante) ed è anche vecchia di due mesi. Da quando cioè una delegazione dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in visita autorizzata nelle carceri della Sardegna, nelle giornate del 7 e 10 maggio, ha potuto incontrare anche i detenuti ristretti al regime del 41bis. Scandalo! Il Fatto si riferisce alla presidente dell’associazione, Rita Bernardini, e ai due dirigenti Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti (definiti anche con sprezzo “coniugi”, come se fosse un reato) trattandoli come se fossero stati sorpresi mentre fornivano lenzuola annodate e per far evadere Zagaria e Bagarella. Ma lo scandalo consiste solo nel fatto che nell’autorizzazione rilasciata dal direttore Carlo Renoldi per l’accesso della delegazione agli istituti di Sassari e Nuoro mancasse la dicitura “a esclusione della sezione 41bis”. Una scelta positiva. Tenendo presente anche il fatto che il carcere “impermeabile” non riguarda solo i condannati, ma anche persone in custodia cautelare. Ma è chiaro il retro-pensiero di chi non ha neppure la più pallida idea di che cosa sia un carcere né dei diritti civili e umani. I “pizzini”, questo è il primo sospetto. Come se chiunque si occupi dei diritti dei detenuti, e lo stesso direttore del Dap, fossero complici dei boss e pronti a farsi da tramite per aiutarli in nuovi delitti. Così non sfiora la mente il fatto che un’associazione come “Nessuno tocchi Caino” possa invece essere molto utile per aiutare anche coloro che un tempo uccisero e fecero stragi, al superamento di quel che furono e a un percorso di cambiamento. Meglio invece, per la subcultura travagliesca e grillina, tenere questi uomini come belve feroci isolate e chiuse nei loro recinti. Certo, la nomina nel marzo scorso da parte della ministra Cartabia di un magistrato come Carlo Renoldi al vertice del Dap, e tre mesi dopo di un funzionario esperto come il provveditore regionale di Lazio Abruzzo e Molise (ma anche ex direttore delle carceri di Brescia, Padova e Rebibbia nuovo complesso) come Carmelo Cantone, ha segnato una svolta. E al Fatto quotidiano schiumano di rabbia. La militanza antimafia comporta che tutto rimanga sempre come era, con i delinquenti fermi all’immagine di quel che erano stati al momento dell’arresto, a meno che non facciano i “pentiti”, magari mandando in galera un po’ di innocenti come fece, ispirato dai tanti suggeritori e dopo esser stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, Vincenzo Scarantino. “Visite anti-ergastolo ai boss”, le chiamano al Fatto. Con disprezzo nei confronti della Corte Costituzionale e delle sue sentenze che hanno aperto la strada prima ai permessi premio e in seguito agli altri benefici penitenziari previsti dal regolamento anche per i condannati “ostativi”, vittime da trent’anni di una normativa incostituzionale. “Ci risulta che si sia parlato dell’ergastolo ostativo”, si scrive con lo stesso tono scandalizzato che si userebbe se fosse stata programmata un’evasione di massa dei boss mafiosi. Meglio spettegolare, con lo stile di chi intervista i citofoni, sul fatto che il direttore del Dap, cioè il numero uno dell’amministrazione penitenziaria, nel firmare il permesso all’associazione di incontro con tutti i detenuti, avrebbe “approfittato” dell’assenza di colui che era ancora il suo vice, l’ex pm “antimafia” Roberto Tartaglia, orgogliosamente ricordato come uno dei promotori del fallimentare “processo trattativa”, per compiere la scappatella. Come se la storia stessa di Carlo Renoldi, quel che ha sempre detto e fatto, non parlasse per lui. Se ne erano ben ricordati i due membri del Csm che non lo hanno votato, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, che avevano prontamente raccolto il “la” inviato loro, dalle colonne del Fatto quotidiano ovviamente, da Giancarlo Caselli, quasi un ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. E pensare che ogni giorno l’ex segretario di Magistratura democratica Nello Rossi ci ricorda dei fasti garantistici che furono della corrente di sinistra, dimenticando che anche l’ex procuratore Caselli viene di lì, da quella storia. Da un mondo che bocciò sempre la carriera e le aspirazioni, ma anche il pensiero, di un gigante come Giovanni Falcone. Un mondo che oggi senza vergogna si ritrova contiguo a Marco Travaglio. Ci provano anche con Carlo Renoldi, perché è un riformatore, e lo sta dimostrando. Per questo ogni occasione è buona per proporre la sua fucilazione, cioè tentare di portarlo alle dimissioni. Ma sarà dura, con la ministra Cartabia. Ha lottato per il diritto alla speranza, ora lotta per il diritto alla salute di Antonella Mascia* Il Riformista, 8 luglio 2022 Marcello Viola, l’ergastolano che ha dato il nome alla storica sentenza Cedu contro l’Italia, ha ingaggiato un’altra battaglia nel carcere di Sulmona. Tracollo sanitario nella casa di reclusione di Sulmona: a denunciarlo è un detenuto, Marcello Viola, il quale ha già presentato invano articolate richieste d’intervento a tutte le autorità amministrative e sanitarie nazionali e locali competenti. Viola è un detenuto noto. È l’ergastolano che ha dato il nome alla sentenza contro l’Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha affermato il “diritto alla speranza” per tutti i condannati al fine pena mai. Un diritto che, dopo la storica sentenza, a lui e ad altre centinaia di ergastolani ostativi viene ancora negato. Non solo il diritto alla speranza, nel carcere in cui “vive” Marcello e in molti altri, viene negato anche un altro fondamentale diritto: il diritto alla salute. Marcello Viola denuncia che per Sulmona non è mai stata costituita l’Unità operativa complessa mentre esiste ancora e soltanto un Servizio aziendale di medicina penitenziaria, caratterizzato da disorganizzazione e carenza cronica di medici, specialisti, infermieri e operatori socio-sanitari. Denuncia che dal mese di ottobre 2021 le visite mediche presso l’istituto si svolgono solo una volta alla settimana per un numero massimo di quindici detenuti. Inoltre da anni è impossibile poter avere una visita ordinaria con specialisti in ortopedia e in otorinolaringoiatria, mentre le visite urologiche e di ecografia sono saltuarie e molto limitate per cui solo in caso in cui vi sia l’urgenza di una visita specialistica il detenuto può accedere al medico presso una struttura esterna. Ma in questo modo si nega, di fatto, una prevenzione efficace delle malattie e accade spesso che i detenuti ricevano le cure solo a uno stadio avanzato della malattia, con rischi gravi per la salute. Denuncia che vi sono gravi criticità legate alla disorganizzazione del servizio sanitario in carcere e queste hanno come conseguenza ritardi non solo per fissare le visite strumentali e specialistiche in esterno, ma anche quelle previste all’interno dell’istituto. Così i detenuti sono costretti a presentare anche quatto o cinque volte consecutive la medesima richiesta ai medici di guardia perché non esiste alcuna forma di registrazione informatica dell’attività svolta: mancano i computer presso gli ambulatori dove i medici eseguono le visite, mentre quelli in dotazione ai medici di guardia non hanno programmi per trascrivere l’attività medica svolta in occasione della visita. Marcello Viola ha sollecitato più volte la possibilità di attivare anche per Sulmona la telemedicina, meccanismo previsto per altre realtà esistenti nella Regione Marche, ma non ha mai avuto risposta. Denuncia poi che il servizio di fisioterapia, che era sempre stato attivo a Sulmona, è stato dimezzato quando la maggior parte dei detenuti sono anziani e ristretti da alcuni decenni o anche più, con patologie croniche e preminentemente ortopediche. Adesso l’attesa per l’accesso alla fisioterapia è di circa otto o dieci mesi con gravi conseguenze sulla salute dei pazienti. Denuncia inoltre che a maggio 2022 sono stati licenziati tutti gli operatori socio-sanitari, nonostante la loro professionalità e senza tener conto che in periodo di pandemia hanno svolto un eccellente lavoro con grande dedizione. Peraltro il vuoto venutosi a creare non sembra possa essere colmato con altro personale e i pochi infermieri presenti non potranno di certo svolgere l’attività degli operatori socio-sanitari licenziati. Denuncia infine che il servizio di psichiatria è stato di recente ridotto e ridimensionato e che non c’è accesso a farmaci salvavita. Marcello Viola ritiene che tutte queste criticità incidano significativamente sul diritto alla salute e sulla dignità stessa delle persone recluse e che purtroppo trasformano chi è detenuto in una persona diversa con diritti diversi. Ricorda di aver già chiesto a più riprese l’intervento delle autorità competenti per permettere il miglioramento dell’accesso alle cure per le persone recluse, ma non ha ricevuto alcuna risposta in concreto. Per tutte queste ragioni e richiamando che l’art. 32 della Costituzione tutela la salute di tutti e quindi anche delle persone ristrette, dal 28 giugno 2022 Marcello Viola ha iniziato lo sciopero del vitto a oltranza fino a quando i disservizi denunciati non saranno risolti. Sulle carenze del sistema sanitario alle persone detenute vi sono denunce dei Garanti regionali e del Garante nazionale e sul tema si sta interessando anche la Corte europea dei diritti dell’uomo che il 9 maggio 2022 ha comunicato diversi casi allo Stato italiano aventi a oggetto la mancanza di adeguate cure mediche in carcere. In particolare, facendo riferimento agli articoli 3 e 8 della Convenzione, i Giudici di Strasburgo chiedono alle autorità italiane se abbiano fornito gli esami, le cure e gli interventi chirurgici richiesti. Dobbiamo attendere un’altra sentenza “Viola verso Italia” per porre rimedio alla disastrosa situazione della sanità penitenziaria nel nostro Paese? *Avvocato difensore di Marcello Viola Più sport in carcere per agevolare il reinserimento di chi ha scontato la pena di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2022 Sottoscritta una convenzione fra Sport e Salute Spa e Fondazione Nicola Irti, con l’obiettivo di migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti, incrementare l’offerta sportiva e formativa negli istituti penitenziari con un programma affidato a tecnici e allenatori qualificati. Il punto di partenza è quello più solido: la Costituzione della Repubblica italiana. E in particolare l’articolo 27, terzo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È tutto in questo passaggio il senso dell’iniziativa che è stata presentata nella sala conferenze dello Stadio Olimpico di Roma: la sottoscrizione di una convenzione fra Sport e Salute Spa e Fondazione Nicola Irti. Protagonista di primo piano, lo sport, inteso anche e soprattutto nella sua capacità di formare al gioco di squadra, all’inclusione, all’appartenenza a uno stesso gruppo. La convenzione va nella direzione del protocollo d’intesa sottoscritto il 12 febbraio dello scorso anno tra Sport e Salute e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. L’intesa sottoscritta giovedì 7 luglio, che riguarda per ora le carceri di Lazio e Abruzzo, ha l’obiettivo di migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti, incrementare l’offerta sportiva e formativa negli istituti penitenziari con un programma affidato a tecnici e allenatori qualificati, rendere gli istituti penitenziari autonomi nelle attività sportive attraverso la realizzazione di percorsi di formazione e la dotazione di strutture. La sottoscrizione della convenzione ha fornito l’occasione al presidente e ad di Sport e Salute, Vito Cozzoli, di fare il punto su quanto è stato fatto. “Dalla fotografia al 31 dicembre 2021 realizzata insieme al Dap, 172 Istituti su 189 hanno un progetto di attività sportiva attivo, che coinvolge circa 25.989 detenuti, più o meno la metà della popolazione carceraria. L’obiettivo comune - ha continuato Cozzoli - è sostenere oltre 100 progetti di attività sportiva in carcere. Interverremo inoltre per infrastrutturare almeno 50 spazi ricreativo/sportivi in carcere”. La sottoscrizione dell’intesa ha fatto da contesto al convegno “Rieducare-Lo sport come strumento di dialogo”, aperto dal discorso da Cozzoli. “La comunità si basa sulle persone e lo sport ha una straordinaria capacità di promuovere la comunità - ha sottolineato il presidente e ad di Sport e Salute -. Vogliamo promuovere un modello di società in cui lo sport sia una reale protezione sociale e civile per tutti a prescindere da età, condizioni economiche e sociali. È un modello di comunità sportiva inclusiva, che vogliamo promuovere in ogni parte del Paese. Un modello culturale”. Il tutto sulla base della considerazione che lo sport sia “uno strumento fondamentale per il reinserimento dei detenuti. Stiamo rilanciando il nostro modello territoriale, perché dobbiamo intercettare il disagio sociale”. Si delinea così una nuova strategia, finalizzata al reinserimento nella società civile di chi ha sbagliato, e cerca una seconda opportunità. “Le politiche pubbliche non possono fermarsi alle mura degli istituti penitenziari - ha ricordato Cozzoli - e le attività ricreative, compreso lo sport, sono uno dei pilastri della rieducazione del condannato. Rieducare con lo sport non vuole essere uno slogan, ma una reale opportunità”. Irti: lo Stato condanna, ma è lo Stato a dover rieducare - “Con Cozzoli abbiamo subito tracciato le linee della nostra collaborazione - ha detto Irti -. Lo Stato condanna, ma è lo Stato a dover rieducare. Solo l’obbligo di rieducare può giustificare il potere di punire un condannato da parte dello Stato. Lo sport è regole e libertà insieme”. Renoldi (Dap): costruire percorsi di condivisione culturale - Le conclusioni sono state affidate a Carlo Renoldi, capo dell’Amministrazione penitenziaria, ministero della Giustizia. “La rieducazione, come la solidarietà, non è altruismo buonista - ha messo in evidenza. La rieducazione come preciso impegno dello Stato. Una nuova opportunità di riscatto anche quando è difficile realizzare l’integrazione e il dialogo tra il modo della società libera e quello degli istituti di detenzione. Un’integrazione che è la premessa di qualsiasi inserimento”. Di qui, la conclusione, che è allo stesso tempo una linea da seguire: “Bisogna costruire percorsi di condivisione culturale”. Nel dna dello sport c’è la capacità di abbattere le barriere culturali. Un carcere diverso diventa così possibile, più orientato sul recupero e sul coinvolgimento di chi ha sbagliato e cerca una seconda opportunità. Una questione di giustizia di Cesare Antetomaso* Left, 8 luglio 2022 I tribunali intasati da processi per reati che potrebbero essere depenalizzati e le carceri al collasso perché a tanti detenuti non vengono concesse misure alternative. Sono alcuni dei principali nodi irrisolti dalle ultime “riforme” del sistema giudiziario. Archiviata la sonora e prevedibile sconfitta di quella parte di ceto politico che pensava di regolare i conti con la magistratura per via referendaria, i seri problemi della giustizia nel nostro Paese restano tutti sul tavolo. Anzi, ogni giorno che passa la drammaticità di alcune situazioni (si pensi in particolare alle carceri strapiene) si acuisce vieppiù. Molteplici sono i piani che necessiterebbero di un intervento legislativo; come Giuristi democratici, ci siamo sforzati di individuare soluzioni articolate su alcune materie, sulle quali a breve pubblicheremo una sorta di “libro bianco”, a cominciare dal lavoro, con un processo ormai ridotto ai minimi termini dalle nefaste riforme succedutesi nell’ultimo quindicennio. Allo stesso tempo, con l’innalzamento repentino e continuato dei costi del contributo unificato, le cause civili sono diventate sempre più “roba per ricchi”, così spingendo i soggetti forti (banche ed assicurazioni in primis) a condotte spregiudicate. Nondimeno, nello stesso arco temporale anche altrove sono stati fatti danni incalcolabili. A cominciare dal diritto penale, dove quella che abbiamo denunciato come deriva panpenalistica ha condotto all’intasamento dei ruoli dei tribunali e degli uffici del giudice di pace. Il numero delle condotte illecite ritenute meritevoli di sanzione penale, e dunque di un processo, in questi anni è cresciuto a dismisura, andandosi a sommare ad altre antistoriche figure di reato - pensiamo ad esempio alla tutela penale del marchio - sebbene le depenalizzazioni del 2016, l’introduzione dell’art. 131 - bis al codice penale (ossia la non punibilità per la particolare tenuità del fatto) e la previsione della messa alla prova avessero lasciato presagire, se non una virtuosa inversione di tendenza, una presa d’atto della realtà. Parallelamente, sempre meno incentivato è il ricorso ai riti alternativi, cioè quelli che consentono di ottenere lo sconto di un terzo della pena, con il concetto di premialità ormai vago ricordo. E di riflesso, le carceri sono nuovamente al collasso, sempre più discarica sociale, come per primo disse Alessandro Margara, autore della riforma penitenziaria e della legge Gozzini. Con le connesse difficoltà di usufruire, per una larga fetta di detenuti, delle misure alternative; e con buona pace delle finalità rieducative e del reinserimento sociale previsti dalla Costituzione. D’altro canto, nessuna vera riforma è possibile a costo zero: occorrono enormi investimenti prima di tutto per ampliare l’organico dei magistrati (anche rivedendone il trattamento economico, di gran lunga il più alto nella pubblica amministrazione, pure rispetto ai Prefetti); e occorrono più educatori (e direttori) nelle carceri, come denuncia l’ultimo rapporto di Antigone. Intanto, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, occorre da subito riprendere la battaglia sia per una più ampia e coraggiosa depenalizzazione, che per una esecuzione penale maggiormente rispondente ai dettami della Costituzione e della Convenzione Edu, sulla scorta delle indicazioni della Commissione Ruotolo (per l’innovazione del sistema penitenziario ndr). Altresì, è necessario un ripensamento della stessa categoria dell’ostatività, quantomeno per gli infraventunenni alla prima condanna per reati associativi non di carattere mafioso. Mentre, come sottolinea il Garante delle persone private della libertà personale Mauro Palma, va invertita la tendenza a non porre attenzione verso gli strumenti di ricomposizione, ricostruzione e riparazione, pure previsti dall’emananda riforma Cartabia. Alcuni degli stessi temi referendari, pur posti in modo strumentale ed opportunistico, necessitano di un intervento deciso, a partire dall’abrogazione dell’art. 11 del Decreto Severino (accompagnata magari dal riconoscimento della riabilitazione ai fini della candidabilità), fino a prevedere una precisa tipizzazione delle fattispecie in presenza delle quali si possa dar corso a custodia cautelare in caso di pericolo di recidiva del reato. Per sottrarre quanto più possibile spazio ad apprezzamenti di tipo morale e non legati al fatto e per evitare pregiudizi e generalizzazioni da parte del personale di polizia e di quello giudiziario, non di rado autori di provvedimenti stereotipati redatti senza nemmeno aver prima visto la persona indagata. E ancora i veri assenti dalla tornata referendaria, i due grandi temi del fine vita e della legalizzazione della cannabis, devono tornare immediatamente nell’agenda del legislatore, perché la società civile ha già dato ampiamente segni di una volontà di cambiamento, al di là delle discutibili pronunce della Corte costituzionale, riguardo soprattutto all’eutanasia. *Avvocato, componente dell’esecutivo di Giuristi democratici Giustizia, partita ancora aperta. Il M5S assedia Cartabia e Draghi di Valentina Stella Il Dubbio, 8 luglio 2022 Le insidie alla riforma del penale, del civile e dell’ordinamento si annidano nei decreti attuativi. Come preannunciato, i prossimi mesi saranno molto caldi sul tema della giustizia: la spinosa partita sui decreti attuativi delle riforme del penale, civile e ordinamento giudiziario potrebbe creare non poche tensioni tra i partiti - di una maggioranza già in crisi - e la ministra Cartabia. I decreti sul penale dovrebbero essere portati in Cdm entro questo mese. Ora è tutto nelle mani dell’Ufficio legislativo di Via Arenula che sta armonizzando i lavori delle commissioni ministeriali. Da questa fase sono esclusi i partiti che potranno dire la loro quando i testi arriveranno nelle Commissioni parlamentari per i pareri. Questi ultimi però non sono vincolanti e quindi alcune forze di maggioranza vogliono dire la loro alla ministra prima del Cdm. In primis il Movimento 5 Stelle che, nel documento inviato due giorni fa a Draghi, ha lanciato un chiaro messaggio al premier e alla guardasigilli: “Sono testi e proposte che vanno esaminati anzitempo e non possono arrivare in Consiglio dei ministri senza un adeguato confronto”. “Sarebbe imbarazzante - aggiunge al Dubbio l’on. Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia - trovarci di fronte ad un testo chiuso sul quale ci si chieda di mettere la firma. Non può funzionare così. Ci sono questioni delicate che richiedono un confronto politico; penso, ad esempio, all’inedito ruolo del Parlamento coinvolto nella indicazione delle priorità da seguire nell’esercizio dell’azione penale: noi non avremmo voluto questa norma che, come abbiamo chiaramente detto, è un vulnus del principio costituzionale della separazione dei poteri, ma c’è e vorremmo dire la nostra sulla sua attuazione”. Dunque in cauda venenum direbbero i latini: ai partiti non basta aver approvato lo scorso anno la legge delega perché è nella specificazione dei decreti attuativi che ognuno vorrà segnare le proprie linee Maginot nell’ultimo miglio. E sarà una bella gatta da pelare per Draghi e Cartabia in un momento già complicato. Anche Italia Viva, come ci spiega l’on. Lucia Annibali, auspica “un pieno coinvolgimento prima del passaggio in Cdm” soprattutto per vigilare sui temi “delle impugnazioni, del cambio del giudice durante il processo, come evidenziato criticamente dall’Ucpi, della giustizia riparativa soprattutto rispetto alla violenza maschile sulle donne. Infine nessun passo indietro sulle misure alternative al carcere, importanti anche per il loro impatto sul sovraffollamento carcerario”. Mentre per il Partito democratico, come ci dice la responsabile Giustizia, la senatrice Anna Rossomando, “è fondamentale la partita dei tempi ragionevoli e certi dei processi, come attuazione dello Stato di Diritto, grazie anche ai riti alternativi da collegare alle misure alternative al carcere. Su questo misureremo la cultura delle garanzie di tutti. Altrettanto importante sarà la concretizzazione di percorsi di giustizia riparativa, che la stessa ministra Cartabia ha definito “il pilastro della giustizia di domani”. È ovvio che anche per mettere al sicuro questo ultimo miglio riteniamo necessario il coinvolgimento di tutti”. Lettura critica del pamphlet dei 5 Stelle ce la dà il deputato della Lega Jacopo Morrone: “Quel documento mi sembra la foglia di fico con cui cercano di mascherare dissidi interni e per giustificare il tira e molla sulla permanenza o meno al governo. Una maggiore concertazione tra partiti e esponenti del governo non è in sé sbagliata, ma sembra strano che il capo grillino, che è stato premier in due governi, ne faccia una questione solo ora. Tra l’altro i partiti sono autorevolmente rappresentati nel governo, da ministri o sottosegretari e vice ministri, per cui ritengo che ci sia uno scambio di opinioni tra loro e la parte politica che rappresentano soprattutto sui temi più importanti. Per quanto riguarda la riforma della giustizia è noto che per la Lega si tratta di una legge di compromesso e che sarebbe indispensabile il recepimento di alcuni principi fondamentali per poter parlare di un vero rinnovamento del sistema. Visto che buona parte della riforma è delegata a successivi decreti legislativi del governo, sta a noi sorvegliare con attenzione che siano rispettate le indicazioni sollevate nell’ambito della discussione parlamentare”. Nessun problema invece da parte di FI, come ci rassicura l’on. Pierantonio Zanettin: “per noi il percorso resta quello ordinario: faremo le valutazioni in commissione. Abbiamo fiducia nella Ministra e nel sottosegretario Sisto, così come nell’impianto garantista dato alla legge delega”. Pure l’Anm è un attore primario in questa partita e non sembra godere di una via privilegiata per proporre le proprie istanze alla ministra tramite i fuori-ruolo del Legislativo. Come ci ha spiegato infatti il presidente Giuseppe Santalucia “riguardo la fase di attuazione delle deleghe delle riforme del penale e del civile non siamo stati coinvolti in nessun modo. Siamo spettatori al pari di chiunque altro. Certo, quando si fanno queste importanti riforme la maggiore ampiezza possibile della consultazione è una regola di buon metodo: sarà il Governo a decidere ma noi speriamo di essere consultati. Sicuramente quando i decreti arriveranno nelle commissioni parlamentari per le consultazioni chiederemo di essere auditi”. Il successivo step sarà quello di vigilare sui decreti della riforma dell’ordinamento giudiziario: “sarà necessario innanzitutto uno sforzo di specificazione sul tema del disciplinare e sul fascicolo delle valutazioni di professionalità” conclude Santalucia. Chiederà “di essere audita” anche l’Unione delle Camere Penali, come ci spiega il segretario Eriberto Rosso: “intanto noi abbiamo dato dei segnali precisi. Il primo attraverso le sensibilità espresse dall’avvocatura penalista nelle commissioni ministeriali e il secondo con l’astensione recente proclamata in difesa del principio di immutabilità del giudice. Ci auguriamo che la Ministra terrà conto di questo, prestando massima attenzione al lavoro di armonizzazione dell’Ufficio legislativo”. Tifa Gratteri, o stai coi boss: l’alternativa umilia l’Antimafia di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 8 luglio 2022 Giusta la manifestazione di Milano in difesa del procuratore di Catanzaro. Meno l’idea che il suo “metodo” sia l’unico possibile, collusi gli altri. Le Camere penali calabresi hanno dichiarato uno “sciopero” per il 14 e 15 luglio - due giorni di astensione dalle udienze - contro un’amministrazione della giustizia nella regione che considerano ormai lesiva dello stato di diritto. C’è un dato che è incontrovertibile: la Calabria detiene il record nazionale di persone dichiarate innocenti dopo gli arresti e il processo; record di errori giudiziari, insomma. In alcuni casi, si è calcolato che meno del 20 percento degli arrestati sia stato poi considerato colpevole: su dieci, per dire, due colpevoli e otto innocenti - dopo anni di carcere duro. È un dato mostruoso. Né vale dire che proprio perché siamo in Calabria è normale che ci siano tanti processi per ‘ndrangheta con tanti imputati: cos’è - arrestiamoli tutti, poi Dio riconoscerà gli innocenti? E a meno di pensare che tutti i giudici giudicanti, al contrario dei procuratori, siano al soldo della mafia, quello è un dato indicativo. Indicativo, cioè, di un “modo” di procedere - che è stato anche definito “pesca a strascico” - in cui si fanno operazioni “spettacolari” con grancassa mediatica, con centinaia di arresti, con abuso nell’applicazione e mantenimento delle misure cautelari, che però poi non reggono alla prova dei fatti e del giudizio. Ma quelle vite, e le comunità dove sono inserite, ne rimangono ferite a morte per sempre. La lotta alla ‘ndrangheta è una questione prioritaria, fondamentale, per la Calabria e per il paese tutto. E la mobilitazione civile - la stessa formazione di una cultura sociale - ne sono un importante complemento, forse anzi la vera speranza, insieme alle opportunità di creare lavoro per i giovani, per lo sradicamento di una piaga parassitaria che è economica oltre che sociale. Ma in nome della lotta alla ‘ndrangheta è sbagliato, è controproducente, è immorale sacrificare vite civili. Ancora, a esempio di “distorsioni”: va sempre più manifestandosi una forte perplessità riguardo l’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati alla criminalità organizzata - al limite stesso della costituzionalità e in cui comunque è diventata marginale la valorizzazione imprenditoriale prevalendo piuttosto un modello di tipo assistenziale, spesso fallimentare. Non tutto è così, e ci sono splendidi esempi di valorizzazione e di “restituzione” alla società: ma, spesso, quest’azione di “complemento” a quella giudiziaria ha finito con il penalizzare attività economiche sane. Parliamo di imprenditori per bene, parliamo di posti di lavoro. Ancora, a esempio di “distorsioni”: lo scioglimento dei consigli comunali, spesso anche reiterato, ha assunto un carattere “moralizzatore” ma dove non ci sono mai prove di effettivi reati o di partecipazione associativa; il presunto “familismo amorale” antropologico dei calabresi è diventato una leva per scardinare: a volte bastava avere un cognato o uno zio o lo zio di un cognato che era stato coinvolto in processi per ‘ndrangheta e “l’ambiente” non poteva che essere infettato. La “zona grigia” è una categoria dello spirito, non può essere un principio di accusa, dove servono prove di reato. Ma è proprio questo il punto: in Calabria si vive sotto “presunzione di colpevolezza”. È come se il “principio di Davigo” riguardo la colpevolezza “a prescindere” dei politici - “Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove” - si applicasse a tutti i calabresi che non possono non essere ‘ndranghetisti, e quelli che non vengono condannati è solo perché l’hanno fatta franca. Va da sé che gli avvocati sono considerati - quando va bene - un intralcio. Ieri l’altro, a Milano, città dove la ‘ndrangheta ha esteso e radicato i suoi tentacoli, si è svolta una manifestazione, voluta da oltre 150 associazioni, di sostegno al giudice Gratteri - per delle minacce ricevute di recente. È bello che delle persone si dichiarino pronte a proteggere il procuratore Gratteri - “Gratteri non si tocca”, gridavano tutti insieme. Ma è come se quelle persone lì manifestanti - che sventolano di nuovo le “agende rosse” - dichiarassero che per loro è meno importante lo stato di diritto e più importante che si combatta la ‘ndrangheta con qualunque mezzo. Se qualche vita innocente ne rimane travolta e spezzata - sarà pure un sacrificio che si può compiere. Ma questo non è bello, per niente. Il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, era presente alla manifestazione. Il senatore Morra - che sembra la figurina del feroce Saladino del giustizialismo - ci aveva qualche tempo fa spiazzato dichiarando che: “Uno Stato forte si presenta con caratteristiche di giustizia e mai di vendetta; la volontà di far sentire i muscoli dello Stato su chi non può più reagire è accanimento”. Sorprendente. Va detto che era accaduto tra una infelice dichiarazione sulla povera Jole Santelli, governatore della Calabria, morta per cancro, e un altrettanto infelice blitz contro il centro vaccinale di Cosenza, dove si era presentato con la scorta a cui aveva chiesto di identificare tutto il personale sanitario presente, a suo dire “incapace di gestire la vaccinazione”. Ieri l’altro, a Milano, il senatore Morra si è lasciato andare contro il ministro Cartabia e la sua riforma - “demolita, distrutta, devastata dalle critiche di Gratteri” - lasciando intendere che a Cartabia, e al governo Draghi, la questione della lotta alla ‘ndrangheta non interessi per nulla. Questo governo è per la “normalizzazione”, ovvero non vive la ‘ndrangheta come “emergenza”, e perciò il suo operato è - ancora parole di Morra - Nc, non classificato. Che sono appunto - ellitticamente per un verso e più apertamente per un altro - le stesse identiche parole del procuratore Gratteri. Gratteri non si tocca - ci mancherebbe. Ma questa “personalizzazione” tra Gratteri e la lotta alla ‘ndrangheta non fa bene alla stessa lotta alla ‘ndrangheta, dato che sembra che solo Gratteri, in questo paese, la faccia, e tutti gli altri - magistrati, forze di polizia, avvocati, imprenditori, insegnanti, professionisti, giornalisti, persone comuni - esclusi i manifestanti pro-Gratteri e il signor Morra in cerca di futuro politico, in alto e in basso, siano invece collusi. Che è una cosa che proprio non si può sentire. Così Mimmo Lucano vuole ribaltare il suo processo di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 8 luglio 2022 Il processo d’appello contro il sistema di accoglienza inizia il prossimo 26 ottobre In primo grado l’ex sindaco di Riace è stato condannato a 13 anni e due mesi di carcere per diversi reati. La corte d’Appello di Reggio Calabria ha disposto la riapertura dell’istruttoria e l’acquisizione di alcune intercettazioni ambientali che non erano neanche state trascritte nel processo del tribunale di Locri, dove Mimmo Lucano è stato ritenuto colpevole di associazione a delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. L’ex sindaco di Riace è stato condannato a settembre 2021 a 13 anni e due mesi nel processo contro il suo sistema di accoglienza di migranti. Nel materiale in questione, c’è una conversazione riportata dal Fatto Quotidiano e da Repubblica tra l’ispettore della prefettura (per il Fatto si tratta di Salvatore Del Giglio) e Mimmo Lucano avvenuta il 20 luglio del 2017 che gli avvocati intendono utilizzare per ribaltare la condanna di primo grado. Quel giorno Del Giglio si trovava a Riace per stilare una relazione sul modello della gestione dei migranti messo in piedi dall’ex sindaco, al quale ha detto: “L’amministrazione dello stato non vuole il racconto della realtà di Riace... oggi la mission dello stato... sapete che lo stato è composto... come qua da voi. C’è l’opposizione...”. Nella conversazione l’ispettore avverte Lucano: “Voi non potete fare altro che andare avanti, altrimenti fareste il loro gioco. Vi dovete aspettare, perché non è improbabile, che un domani verranno la Guardia di finanza...”. Poco più di un anno dopo da quella conversazione, nell’ottobre del 2018, Mimmo Lucano è stato arrestato. La difesa - Gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, che difendono Mimmo Lucano, hanno depositato l’intercettazione per l’istruttoria e hanno chiesto come mai il materiale non sia stato usato nel precedente processo. Secondo la difesa la nuova intercettazione giustifica il sistema di accoglienza messo in piedi in Calabria dall’ex sindaco e attribuisce un connotato politico al suo caso. Il processo di appello inizierà il prossimo 26 ottobre e Mimmo Lucano ha già detto che punta all’assoluzione: “Non mi interessa una riduzione di pena, sconti o altro. Io voglio l’assoluzione piena. Sono in pace con la mia coscienza, non ho mai avuto e non ho nulla da nascondere, voglio solo ristabilire la verità”. Secondo l’ex sindaco di Riace, il processo di primo grado aveva lo scopo di criminalizzare il sistema d’accoglienza inclusivo messo in piedi nel piccolo comune calabrese. Un modello studiato in tutto il mondo da diversi esperti e che ha portato Riace sulle pagine dei giornali internazionali. Tuttavia, Lucano è stato considerato colpevole di diversi reati e non solo riguardo ai progetti di accoglienza. Nell’ambito del processo sono emerse diverse ipotesi di reati per fatti come il mancato pagamento dei diritti Siae per i festival estivi, o illeciti negli affidamenti nella raccolta dei rifiuti e della pulizia delle spiagge, fino alla mancata riscossione dei diritti di segreteria dell’Ufficio anagrafe del comune o il rilascio del falso certificato di stato civile alla propria compagna. La solidarietà - Dopo la condanna, parte della società civile e diverse associazioni del terzo settore hanno espresso solidarietà all’ex sindaco di Riace. Una solidarietà che si manifesta anche oggi. L’associazione “A buon diritto” ha proposto di coordinare una raccolta fondi per pagare i 360mila euro di ammenda a cui Mimmo Lucano è stato condannato. Per ora l’ex sindaco non è d’accordo e preferisce che eventualmente quei soldi vengano investiti per migliorare il sistema d’accoglienza. “Anarchici pericolosi come jihadisti”: la propaganda sul web è terrorismo di Massimiliano Peggio La Stampa, 8 luglio 2022 La Cassazione conferma le condanne inflitte in secondo grado alla cellula torinese del Fai-Fri: sotto accusa una ventina di imputati per una catena di attentati e pubblicazioni sovversive. La scure della Cassazione si abbatte sulla cellula eversiva anarchica torinese Fai-Fri, confermando le condanne inflitte l’anno scorso a una ventina di imputati dalla Corte d’Assise d’Appello. Il gruppo anarchico, attivo per circa un ventennio a cavallo degli Anni 2000, si era spinto oltre i confini del terrorismo, confezionando bombe, pianificando attentati, diffondendo volantini o messaggi sul web per rivendicare l’uso della violenza come forma di protesta sociale e di ribellione diffusa, ma anche per infiammare come carburante ideologico l’animo degli indecisi, cercando di trascinarli nella lotta globale alla stregua dello jihadismo. Una condanna definitiva che conferma i risultati dell’inchiesta coordinata dai pm Roberto Sparagna e Paolo Scafi, che hanno raccolto e portato in tribunale anni di indagini della Digos e dei carabinieri Ros in un unico procedimento battezzato “Scripa Manent”. Tra gli episodi confluiti nell’inchiesta, una lunga catena di attentati in tutta Italia: “azioni dirette” contro “l’incolumità delle persone” e contro “obiettivi istituzionali”. Pacchi bomba a giornalisti e politici, come l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. L’attentato del 5 marzo 2007 nel quartiere della Crocetta, dove esplosero a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro tre ordigni temporizzati. L’attentato del 24 maggio 2005, il pacco bomba spedito al comando di San Salvario della polizia municipale torinese, recapitato in concomitanza con altri due plichi esplosivi a Modena e a Lecce. Un crescendo di azioni che ha caratterizzato la scelta della cellula di passare allo stadio “lottarmatista” per contestate le politiche sull’immigrazione, intrattenendo contatti anche con una vasta rete internazionale di attivisti anarchici. Una minaccia vera, dunque. Ma con questa decisione la Cassazione si è spinta oltre, segnando un netto confine che riguarda l’istigazione a delinquere. In primo grado, tutto questo blocco di accuse, la pericolosità della propaganda anarchica, era stata ridimensionata, con assoluzioni. I giudici di secondo grado avevano ribaltato la sentenza, attribuendo alle parole una capacità criminale che va al di là della libertà di opinione. Come le “consorterie di ispirazione jihadista su scala internazionale”, avevano scritto i giudici di secondo grado, anche le pubblicazioni anarchiche nutrono alla violenza sovversiva, alimentano la partecipazione, rafforzando il desiderio di partecipare a un movimento che si identifica nel terrorismo. Tutti condannati. Per uno degli episodi contestati, le bombe esplose il 2 giugno 2006 davanti all’ex scuola carabinieri di Fossano, la Cassazione ha rispedito gli atti a Torino e riqualificato il reato iniziale, ritenendolo non un attentato “comune” ma di “natura politica” punito con l’ergastolo. Per questo motivo i giudici di un’altra sezione d’appello, dovranno ricalcolare la pena inflitta a due imputati di spicco dell’attivissima cellula anarchica: Anna Beniamino e Alfredo Cospito, già in carcere quest’ultimo per aver gambizzato nel 2012, a Genova, l’amministratore di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Il perdono giudiziale del minore va sempre considerato durante il processo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2022 La negata concessione va motivata. Il beneficio non può essere pretermesso per il fatto che sia stata applicata la sospensione condizionale della pena. Dato l’obiettivo centrale del recupero del minore sottoposto a processo penale il giudice che neghi la concessione del perdono giudiziale deve dare adeguata motivazione del proprio diniego. E, come dice la Cassazione - con la sentenza n. 26025/2022 - va affermato che il giudice minorile è tenuto a valutare l’applicazione del beneficio in qualsiasi fase del processo ne emergano i presupposti e la valida finalità emendativa dell’istituto che di fatto cancella il reato. Nel caso concreto, al minore condannato in secondo grado entro il minimo della pena, veniva riconosciuta la sospensione condizionale. Ma l’applicazione dell’istituto della sospensione condizionale della pena (anch’essa estintiva del reato, anche se in un tempo più lungo rispetto al perdono) non giustifica che non venga considerata la possibilità di riconoscere tale ultimo beneficio e che la questione sul punto venga totalmente pretermessa. In conclusione, va ricordato che l’estinzione del reato oggetto di perdono giudiziale consegue al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, mentre la sospensione condizionale della pena cancella il reato solo all’avvenuto trascorre del termine di legge. Napoli. Poggioreale, tra detenuti che muoiono e sanità carente di Giovanni Pisano Il Riformista, 8 luglio 2022 In carcere si continua a morire di malattia, di incuria, di abbandono, di overdose e di suicidio. E a Poggioreale la situazione peggiora nonostante gli sforzi dell’amministrazione di Carlo Berdini e le segnalazioni continue dei garanti locali. Un detenuto di 47 anni è morto lo scorso 11 giugno all’ospedale Cardarelli di Napoli dopo essere stato trasferito d’urgenza dal carcere di Poggioreale dove era recluso. L’uomo di nazionalità straniera si chiamava Sinka Sada e, secondo una prima ricostruzione, avrebbe avvertito intorno all’una un dolore toracico e addominale oltre a una forte sudorazione e a un senso di nausea. Trasferito d’urgenza con un’ambulanza del 118 in ospedale, è deceduto intorno alle 5 a causa di un infarto fulminante. La notizia è stata diffusa da Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti dei detenuti. “Era un senza fissa dimora, non aveva parenti e non faceva colloqui da tempo con nessuno. Nell’ultimo incontro avuto con il suo legale era sereno e tranquillo e non le avrebbe lamentato alcun problema di salute” sottolinea Ciambriello che aggiunge: “Nelle ultime settimane altri due detenuti del carcere di Poggioreale, uno di loro 72enne, hanno rischiato di morire per arresto cardiocircolatorio. Il più anziano versa ancora in condizioni precarie di salute ed è ricoverato in ospedale. Sempre a Poggioreale, nel mese di maggio, è deceduto per infarto un sovrintendente della polizia penitenziaria. In molte circostanze, a poco serve il pronto intervento dei medici e degli agenti”. Da qui la richiesta di pene alternative al carcere, soprattutto in una casa circondariale, come quella di Poggioreale, dove il sovraffollamento non fa più notizia. “Per questo, invoco un’inversione di tendenza: due detenuti su tre hanno seri problemi di salute (48% malattie infettive, 32% disturbi psichiatrici, 20% malattie cardiovascolari), quindi per loro e per gli anziani devono essere applicate misure alternative alla detenzione in carcere; bisogna potenziare l’area penale esterna, concedere maggiormente i permessi premio. È chiaro che affinché tutto questo si realizzi è necessario incrementare il personale del Tribunale di sorveglianza e gli stessi magistrati di sorveglianza, in carenza organica e gravati di moltissime richieste”. Anche perché in carcere non viene garantito un sistema di assistenza sanitaria adeguato: “Due cose reclamo negli istituti di pena di Poggioreale e Secondigliano - incalza Ciambirello - manca il medico h24 in ogni reparto, gli ambienti in cui vivono i detenuti a causa del sovraffollamento, questo specialmente a Poggioreale, sono angusti. Si trovano a vivere in camere di pernottamento non ariose, non possono usufruire più volte al giorno della doccia e questo, specie nella stagione più calda, può provocare dei disagi e malori. Non è possibile che ci siano, nelle carceri, così pochi medici generici e specialistici e manchino quasi completamente attrezzature di diagnostica, senza dover attendere tempi lunghissimi. Che questa ennesima morte, sensibilizzi le istituzioni. Mi auguro che l’Asl di Napoli 1 quanto prima provveda ad assumere medici generi e specialistici, infermieri ed Oss, nonché acquistare attrezzature specialistiche da destinare all’interno delle carceri”. Asl che ha già confermato che presto arriveranno più sanitari. Lo stesso Ciambriello ha poi denunciato una vicenda paradossale, ovvero la presenza in carcere di un detenuto che ha più di 90 anni e di un altro recluso che pesa ben 270 chili. “Tenere in carcere un ultranovantenne, già da quattro anni in carcere, e un obeso di 270 chili, con problemi cardiopatici, riconferma che nel nostro Paese c’è una cultura giuridica grezza e retrograda, che non tiene minimante conto dei dettami della Costituzione”. “Mario è un detenuto che pesa 270 chili, soffre di problemi cardiaci ed ha anche diverse fratture, non entra nella cella, ha sfondato due letti, sia in carcere che in ospedale, dove era stato ricoverato due settimane fa - dichiara il Garante campano Ciambriello - Come fa ad essere ancora sottoposto alla custodia in carcere? Come è possibile che non venga applicata una misura alternativa? Anche perché stiamo parlano di un reato non ostativo. Mi sembra un accanimento nei confronti di una persona che vive un doppio disagio, una doppia reclusione. Mario non può stare nella camera di pernottamento con nessun altro e, se anche viene allocato da solo, per lui, soprattutto considerate le celle di Poggioreale, vive in una condizione di sofferenza”. Detenuti con patologie gravi che andrebbero seguiti in strutture idonee diverse dal carcere in generale e soprattutto da Poggioreale, dove tra celle stracolme di persone e un’assistenza sanitaria precaria, si rischia davvero di rimetterci la pelle. “Mancano medici di reparto, ci sono pochi medici generici e pochissimi specialisti e mancano quasi completamente attrezzature di diagnostica, che permetterebbero ai detenuti di non dover attendere i tempi lunghissimi delle liste ospedaliere. Nelle carceri, specie a Poggioreale e Secondigliano, bisogna assumere medici, infermieri e Oss”. Altro primato del carcere di Poggioreale è quello di ospitare un detenuto di 91 anni, recluso da quattro anni. “È accusato di un reato a sfondo sessuale e solo questo basterebbe a giustificare, secondo gli operatori del diritto, che un novantenne possa vivere dietro le sbarre. È assistito da un piantone, che pensate ha 75 anni. Io - è scontato e ridondante affermarlo - penso che il carcere non sia un luogo adatto a persone di questa età, qualunque sia il reato. Per queste persone è necessario che si trovino soluzioni alternative. Le istituzioni devono portare avanti una battaglia di sensibilizzazione che miri a trovare risoluzioni per chi vive situazioni di emarginazione come questa. In Campania ci sono cooperative e associazione che, attraverso un progetto cofinanziato da Cassa Ammende e Regione Campania, accoglie uomini e donne senza fissa dimora. Bisogna farsi carico del compito di potenziare questi percorsi alternativi e migliorativi, non continuare a girarsi dall’altra parte”. Modena. Morti in carcere: “Antigone” e Randazzo chiedono giustizia alla Corte europea di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 8 luglio 2022 “Violati i diritti fondamentali dei detenuti: attendiamo la mossa del Governo”. Il caso dei nove detenuti morti durante e dopo la rivolta dell’8 marzo 2020 nel carcere di Modena è stato al cento di un incontro in Sala Ulivi con l’associazione Antigone. “Morti non archiviabili: il caso Modena e il ricorso Cedu” era il titolo dell’incontro che ha visto la presenza di Valerio Pascali di Antigone e Simona Filippi, l’avvocato dell’associazione che segue 8 dei 9 morti di Modena. Tra i relatori l’avvocato Luca Sebastiani e Barbara Randazzo docente all’Università di Milano che seguono alla Corte Europea il solo caso di Hafedh Chouchane; l’ex garante regionale Marcello Marighelli e il Comitato verità e Giustizia per i morti di Sant’Anna. Il punto sul ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo presentato da Antigone per 8 dei 9 detenuti (il caso Piscitelli è a parte) è stato spiegato dall’avvocato Filippi: “È stato presentato una ventina di giorni fa. Tutti gli otto detenuti stranieri sono oggetto del ricorso e lamentiamo la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quindi la tutela del diritto alla vita per i detenuti e la tutela del detenuto che non può essere sottoposto a attività degradanti o a tortura oltre alla violazione del giusto processo per le archiviazioni”. Randazzo per il caso Chouchane: “Abbiamo presentato il ricorso direttamente alla Cedu, poi è seguito un filtro iniziale. Si tratta di un iter complesso che coinvolge gli esperti della cancelleria che verificano se ci sono gli estremi delle violazioni. Il nostro ricorso ha superato questo filtro ed è stato registrato. A questo punto siamo in attesa del secondo passo: la comunicazione al Governo Italiano. Da allora si avvierà il contraddittorio. Sarà l’occasione per conoscere in che modo il Governo intende difendersi dalle nostre doglianze”. Nuoro. Riunione del Coordinamento regionale Garanti dei detenuti linkoristano.it, 8 luglio 2022 Si discuterà dei problemi nelle carceri sarde per provare a elencare possibili soluzioni: dopo due anni di restrizioni, i garanti delle persone detenute di Nuoro, Oristano, Tempio e Sassari si riuniranno nuovamente. Oggi, alle 16, nella sala consiliare del Comune a Nuoro, è prevista la riunione del Coordinamento dei Garanti locali della Sardegna. “Mancano i direttori, gli ispettori, gli educatori e le professionalità del trattamento rieducativo. Il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria ha ricevuto ordine di trasferimento in altra sede e il suo posto è per ora vacante. I magistrati dei Tribunali di sorveglianza incontrano difficoltà nell’evadere le numerose istanze che i detenuti rivolgono”, denunciano i garanti. “Sono numerose le criticità e trovano differente origine. L’Amministrazione Penitenziaria non riesce ad affrontarle per la carenza di risorse professionali ed economiche e, dal canto suo, l’Amministrazione della Regione Sardegna rifiuta di collaborare”. “Le risorse economiche promesse tramite i fondi del Pnrr per l’edilizia penitenziaria dovranno essere richieste attraverso progetti e programmi di intervento che la Regione della Sardegna, per il tramite degli Assessorati di riferimento, avrà l’obbligo di presentare nei tempi indicati dal Ministero della Giustizia”, espongono ancora i garanti. “Il problema dell’edilizia penitenziaria è di rilevante importanza, perché senza locali adeguati le attività trattamentali sono impossibili: per esempio, non ci sono abbastanza aule per la didattica rispetto alle richieste presentate dai detenuti, non esistono laboratori per la realizzazione di progetti lavorativi e professionalizzanti, le celle sono insalubri e senza la dovuta manutenzione in molti casi sono inabitabili”. “La sanità penitenziaria è gestita in maniera alquanto criticabile, a discapito del diritto alla salute dei detenuti”, denunciano ancora i garanti sardi. “Le richieste presentate dai detenuti, hanno bisogno di specializzazioni mediche che in Sardegna non esistono in numero sufficiente. Ancora oggi il problema dei detenuti edentuli non è stato affrontato. L’età media delle persone recluse in Sardegna è aumentata e le patologie di tipo geriatrico sono aumentate di conseguenza. I detenuti con doppia diagnosi non vengono trattati adeguatamente a causa delle difficoltà che i SERD e i Gabinetti psichiatrici incontrano nel fornire i professionisti, con la conseguente difficoltà di gestione da parte del personale penitenziario. C’è un sempre minore ricorso alla detenzione nelle colonie penali e la detenzione alternativa al carcere trova difficoltà a causa della mancanza di strutture per coloro che non possiedono una dimora fissa”. “La difficoltà incontrate per instaurare un proficuo dialogo con le Amministrazioni, ha reso il nostro mandato estremamente difficile”, concludono i garanti delle persone detenute della Sardegna. Padova. Una proposta culturale e culinaria dentro il carcere padovando.com, 8 luglio 2022 Sono da poco iniziati gli incontri del nuovo laboratorio di teatro in carcere di Tam Teatromusica denominato “La cultura si mangia. Una proposta culturale e culinaria dentro il carcere”, condotto da Flavia Bussolotto e Stefano Razzolini presso la Casa Circondariale di Padova. Il progetto è realizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia (Dap) Casa Circondariale di Padova e sostenuto dalla Direzione Regionale per i Servizi Sociali - Servizio Prevenzione delle Devianze e Tossicodipendenze della Regione Veneto ed è ottenuto attraverso il bando per il finanziamento di iniziative-socio-educative a favore di persone detenute negli istituti penitenziari del Veneto e di persone in area penale esterna. Considerata la risposta delle precedenti attività teatrali di gruppo realizzate nella Casa Circondariale di Padova tra il 2014 e il 2021, Tam Teatromusica ha proposto questo nuovo progetto, ideato con l’obiettivo di offrire ai detenuti esperienze di incontro, di dialogo e crescita, attraverso i linguaggi dell’Arte, che contribuiscano a un miglioramento delle loro condizioni di vita e a una migliore convivenza all’interno dell’istituto con la speranza che il laboratorio teatrale possa diventare una struttura stabile e di riferimento per la popolazione carceraria e per gli educatori. Stavolta il tema è quello del cibo, metafora per eccellenza dell’esistenza ed espressione di visioni culturali ed esperienze sociali: dentro al cibo troviamo il mondo. E un intero mondo si esprime attraverso il cibo. Gli alimenti, la loro preparazione, il loro scambio, il modo stesso in cui vengono commercializzati, il modo in cui vengono consumati, tutto ciò è in stretto rapporto con la storia di un luogo e la sua identità. Ripercorrere, quindi, attraverso la riflessione sul cibo, questo viaggio esistenziale e culturale, significa favorire la riconnessione di fondamentali fattori identitari e, nello scambio, contribuire a una migliore conoscenza dell’altro. Ogni ricetta è il risultato di una ricerca di equilibrio tra sapori ma anche l’espressione di una visione e di una esperienza del mondo: la ricerca, la scoperta e la celebrazione delle materie prime di un territorio, che si mescola con la sua storia. Sarà allora interessante interpretare e teatralizzare questi temi. Il percorso sarà “nutrito” da spunti letterari. Il rapporto tra letteratura e cibo è sempre stato molto stretto, dalla Sacre Scritture, all’Odissea, da Dante, Boccaccio, fino a Manzoni e alla letteratura del ‘900. Sarà inoltre interessante arricchire il percorso di racconti, poesie e filastrocche provenienti da altre culture, in particolare da quelle di appartenenza dei partecipanti al progetto. Pavia. In carcere il concerto jazz dei detenuti-musicisti, allievi del Vittadini di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 8 luglio 2022 Lo spettacolo martedì mattina nell’auditorium di Torre del Gallo. La direttrice: “Non nascondo i problemi, ma così c’è speranza”. Una classe speciale di allievi per i docenti del Conservatorio Vittadini di Pavia: sono i tredici detenuti di Torre del Gallo, che per sei mesi hanno seguito i corsi di Francesca Ajmar, Tito Mangialajo Rantzer, Giorgio Di Tullio e Marco Tindiglia e che ieri hanno offerto il loro concerto di fine annata alle autorità carcerarie e civili, ma anche a un gruppo di detenuti che è stato ammesso ad assistere allo spettacolo. Un’ora di jazz, soprattutto, ma anche di canzoni ed esibizioni a metà tra studio e improvvisazione emozionale del momento. “La musica è la nostra fenice - ha detto Roberto, detenuto di 57 anni, a nome di tutti i compagni - ci sta dando la forza di rinascere dalle ceneri per tornare a sentirci parte integrante della società”. Primizia assoluta - È la prima volta in Italia che i docenti di un conservatorio varcano le soglie di un carcere per insegnare musica e questa sperimentazione pavese pare invece destinata a diventare un appuntamento fisso per Pavia. “Questo per noi è un punto di partenza più che di arrivo - ha spiegato infatti Francesca Ajmar - io ho cominciato a insegnare canto jazz ventitre anni fa e mai avrei immaginato all’epoca di entrare in un carcere. Invece questa esperienza ha messo in discussione tutte le mie certezze a livello didattico e anche umano. Oltretutto abbiamo trovato tra questi ragazzi un livello molto alto di musicalità, in alcuni casi un vero e proprio talento. Grazie al personale di polizia penitenziaria, che ha dimostrato una sensibilità fuori dal comune”. Porte aperte alla città - In prima fila molte autorità, tra cui il consigliere regionale Roberto Mura, l’assessora ai servizi sociali Anna Zucconi, la project manager del Csv Lombardia Sud Alice Moggi. E naturalmente il direttore del Vittadini Alessandro Maffei e la direttrice amministrativa Claudia Gallorini. Ieri è stata la prima volta che il carcere di Pavia è tornato a riaprire le porte alla città per presentare un’attività svolta all’interno. “C’era bisogno di tornare a comunicare con la comunità esterna - le parole della direttrice di Torre del Gallo Stefania D’Agostino - per noi è chiaramente un orgoglio poter lavorare con i docenti del Conservatorio Vittadini, non era mai successo prima d’ora. Non nascondo i problemi di numeri che abbiamo sia all’interno dell’area educativa, che medica e del personale di sicurezza. Ma iniziative come questa danno speranza a persone che hanno sbagliato e che stanno scontando la loro pena, ma che hanno così modo di conoscere mondi e realtà che magari ignoravano”. Il carcere di Torre del Gallo riprende così il suo doppio filo con la città, dopo due anni difficili e aggravati dalla pandemia. Periodo nero - L’8 marzo 2020, come in altre carceri italiani, anche Torre del Gallo era stato teatro di una rivolta interna a cui si erano associati anche all’esterno alcuni parenti dei detenuti per contestare le limitazioni imposte per l’emergenza sanitaria del coronavirus, in particolare per la sospensione dei colloqui dei familiari. A dicembre 2021 i detenuti avevano organizzato anche lo sciopero del carrello, rifiutando il cibo per protestare contro le condizioni troppo precarie della struttura. Un anno particolarmente triste - il 2021- per il carcere, con addirittura tre detenuti che si erano tolti la vita in un mese e il triste soprannome di “carcere dei suicidi”. Il quarto è purtroppo recentissimo, datato giugno 2022, quando un detenuto di 40 anni ha posto termine alla sua esistenza impiccandosi al letto della cella. Proprio in memoria di questa ultima vittima è stato spostato a ieri il concerto di fine corso, inizialmente programmato per il 17 giugno. Gli anni di piombo raccontati da chi non li ha vissuti di Paolo Morando Il Domani, 8 luglio 2022 Mario Di Vito ha ricostruito in un libro il processo ai brigatisti per l’omicidio di Roberto Peci, avvenuto quando lui non era ancora nato. L’autore del racconto fra generazioni è il nipote del procuratore che accusava i brigatisti. Quando le Brigate rosse rapirono e uccisero Roberto Peci, nell’estate del 1981, Mario Di Vito non era ancora nato. Oggi ha 32 anni ed è giornalista, al Manifesto. Ma quella terribile storia lo ha sempre circondato, visto che è nato proprio a San Benedetto del Tronto, la città dei Peci: Patrizio, il primo pentito delle Br con le cui rivelazioni iniziò la fine del partito armato, e appunto il fratello Roberto, condannato a morte in una “prigione del popolo”. La vendetta contro i familiari di un collaboratore di giustizia: un delitto che assimilò le Br a Cosa nostra, altro che sogni di rivoluzione. Con una scena che testimoniò plasticamente la conclusione della parabola. Lunedì 28 luglio 1986, al processo nell’aula bunker del carcere di Ascoli per l’assassinio di Roberto, al banco dei testimoni fu appunto il turno del fratello Patrizio. Giovanni Senzani, il capo delle Br ideatore del sequestro, non aspettava altro: “Presidente, chiedo la parola”, disse, prima ancora che il teste si fosse seduto. E fu allora che Patrizio si girò verso la gabbia degli imputati, trattenuto a stento dai carabinieri: “Ma che cazzo vuoi, mafioso? Ti vorrei tra le mani… Due secondi tu e due minuti tua moglie. Ti ammazzo! Ti ammazzo!”. E i brigatisti: “Bastardo! Infame! Vi ammazziamo tutti! Tutti!”. Di Vito riprende oggi in mano i fili di quella vicenda a suo modo epocale degli anni di piombo. Lo fa in Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate rosse pubblicato da Editori Laterza, libro che sta al crocevia di più generi: inchiesta giornalistica, saggio storico, romanzo, memoir. Tant’è che mancano note e indice dei nomi, a confermare la propensione narrativa più che scientifica, ma non pensiate a uno studio delle fonti solo essenziale o, peggio, frettoloso: nella ricostruzione dei fatti (la cronaca, il contesto, il processo) l’autore all’approssimazione non concede nulla, aggiungendovi invece un gusto del racconto davvero raro. E oggi spiega: “Mi è sembrato l’unico modo attraverso il quale sarei riuscito a scrivere questa storia, che in parte è pubblica e in parte è privata, e che comunque si svolge in un periodo in cui non ero nemmeno nato. Diciamo che, in fin dei conti, questo libro è un tentativo di rispondere alla domanda su che cosa resta degli anni del terrorismo oggi e su che cosa riesce a vederci una persona di trent’anni o poco più”. Racconto fra generazioni - La doppia domanda è opportuna, in giorni come questi in cui la dimensione temporale del passato che non passa è stata riproposta dalla decisione della Corte d’appello di Parigi di non estradare dieci ex terroristi da tempo rifugiati oltralpe. Una vicenda infinita, ora destinata ad allungarsi ancora con l’impugnazione della sentenza da parte della Procura generale francese in Cassazione, accogliendo di fatto il desiderio del presidente Macron. Al di là delle sottigliezze giuridiche e del dibattito sulla “dottrina Mitterrand”, ovvero dell’asilo che la Francia ha a lungo garantito ai condannati per reati politici purché dissociati dalla lotta armata, il tema è quello di sempre: dopo tanti anni, e in una fase storica completamente diversa rispetto ai reati che hanno commesso, ha senso portare in carcere i reduci di quella lontana stagione? Oppure, dall’altro lato: è giusto che non scontino le pene alle quali sono stati condannati in nome del popolo italiano? Lo stesso Di Vito in questi giorni ne ha scritto, affermando che il punto politico della questione era appunto il superamento finale della cosiddetta dottrina Mitterrand. E la sentenza della Corte d’appello di Parigi, in effetti, ha segnato un superamento di quella linea, ma non come alcuni si aspettavano in Italia: “Se qui il nostro governo e la maggioranza delle forze parlamentari auspicavano un rimpatrio dei dieci latitanti, in Francia la giustizia ha deciso di negare l’estradizione citando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di fatto innalzando certi princìpi a un livello superiore. In sostanza, a finire tritato è il sistema italiano: a Parigi ritengono assurdo perseguitare persone a decenni dai fatti che li vedono coinvolti e, soprattutto, prive di alcuna pericolosità sociale, dal momento che non compiono reati di alcun genere ormai da tempo immemore”. Il passato insomma è passato eccome. E lo dimostra proprio questo singolare libro. O meglio: il profilo dello stesso autore. Se a lungo gli anni di piombo sono stati raccontati dai loro protagonisti (non si contano i libri di memorie degli ex terroristi rossi) o da giornalisti e storici loro contemporanei, poi è toccato farlo alla generazione successiva, quella dei figli (per lo più delle loro vittime: Calabresi, Tobagi, Rossa, ma anche Anna Negri, figlia di Toni, leader di Autonomia Operaia). Oggi però il testimone è passato a un’altra generazione ancora, quella successiva: Mario Di Vito è infatti il nipote di chi, a quel processo di Ascoli, sostenne la pubblica accusa contro Senzani e gli altri brigatisti. Si chiamava Mario Mandrelli, era sostituto procuratore (ma della Procura divenne poi il capo, fino a quando andò in pensione nel 2000), viveva proprio a San Benedetto del Tronto, dove è morto nel 2007. Un giorno, a casa della nonna, Di Vito ritrovò diari, appunti e documenti dell’epoca. Carte già ingiallite di un altro secolo, certo, che restituivano però il backstage intimo di una storia di suo già enorme. Che quindi ancor più diventava tale. Figuratevi se messe in mano a un giornalista il cui nome di battesimo è lo stesso del nonno, per una ragione che qui non si svela e che costituisce una storia nella storia. Il sequestro di Roberto Peci, tanto per iniziare, avvenne infatti quando le Brigate Rosse già “detenevano” tre prigionieri: l’assessore regionale campano della Dc Ciro Cirillo, il dirigente del Petrolchimico di Marghera Giuseppe Taliercio e quello dell’Alfa Romeo di Milano Renzo Sandrucci. Pochi mesi dopo, in dicembre, sarebbe toccato anche al generale statunitense James Lee Dozier. E nelle settimane del rapimento del giovane marchigiano, si assistette a uno stillicidio di comunicati brigatisti che, fin dall’inizio, lasciavano presagire come la vicenda si sarebbe conclusa. Il “processo” venne anche filmato e il video diffuso a stampa e televisione: un documento agghiacciante, con Roberto Peci costretto di fatto ad assecondare le accuse brigatiste al fratello, ad accusarlo lui stesso e, infine, a dirsi pronto ad accettare il verdetto dei “compagni”. Con la pronuncia della condanna a morte accompagnata dalle note de L’Internazionale. Tutto passa - Fu un’idea di Senzani, il cui sfruttamento dei meccanismi mediatici era già emerso in occasione di un altro precedente sequestro, quello del magistrato Giovanni D’Urso, con la richiesta-ricatto alla stampa di pubblicare i documenti brigatisti, altrimenti l’ostaggio sarebbe stato ucciso: e il no da parte della maggior parte delle testate aprì un durissimo dibattito. Tanto che i familiari del magistrato riuscirono a “bucare” il silenzio stampa solo grazie agli spazi televisivi che il Partito radicale mise loro a disposizione a scopo umanitario, con la figlia che in una tribuna politica si ritrovò a leggere uno di quei comunicati in cui il padre era definito “boia”. E poi appunto lo specifico caso di Patrizio Peci, con l’ipotesi di un doppio arresto da parte dei carabinieri di Dalla Chiesa (mai provata), che lo avrebbe inizialmente liberato per consentirgli di raccogliere altre informazioni sui brigatisti. Già tutto questo basterebbe per un film, anzi, per una serie tv. Aggiungetevi lo spaccato familiare del magistrato Mandrelli, dalla fama di autentico duro, ma in realtà uomo di sinistra moderata, pronto anche a comprendere le regioni ultime del sogno rivoluzionario brigatista. E attorno a lui la moglie, i figli (nel racconto soprattutto le figlie, una delle quali è appunto la madre dell’autore), la dimensione familiare in una piccola abitazione fronte mare, autentica passione dell’uomo Mandrelli. Le “stanze di vita quotidiana” sono intense e commoventi e costituiscono lo scenario in cui si inscrive la tragedia di Roberto Peci. Nel finale, Mario Di Vito rivela di aver sentito il nonno parlare di Roberto Peci una sola volta, quando aveva quindici anni, assistendo a un suo dialogo a bassa voce con un avvocato. Disse il magistrato Mandrelli: “Abbiamo fatto tutto il possibile, e alla fine li abbiamo fatti condannare tutti per quello che hanno fatto. Solo una cosa continuo a chiedermi: quanto era davvero impossibile evitare la sua morte?”. Era impossibile, afferma oggi l’autore. Che, a proposito del passato che non passa, chiude il libro in maniera magistrale: “A un certo punto passa tutto. I ricordi, i dispiaceri, i pericoli, la normalità, gli amici, i nemici, i bambini che diventano adulti, gli adulti che diventano cenere. Come Mario, morto l’11 marzo del 2007, divenuto polvere e messo in un’urna sistemata su uno scaffale in modo che possa guardare il mare di fronte. Per sorvegliarlo. Per farsi sorvegliare”. L’Italia tradita che ogni giorno muore sul lavoro di Ezio Mauro La Repubblica, 8 luglio 2022 La Costituzione fonda il nostro Paese sul diritto all’occupazione: vederlo negato è uno scandalo di tutti e della democrazia. Un’antica certezza messa in crisi dalla congiunzione di tre emergenze: sanitaria, finanziaria e bellica. E nell’emergenza, la ricerca del lucro suggerisce l’ultimo scambio: quello tra sicurezza e profitto. Bisogna immaginare l’ultimo giorno, fatto di gesti minimi, quasi automatici e ripetuti da anni, innescati dal suono della sveglia sul comodino, perché il turno non aspetta. Un saluto, un appuntamento per dopo, “ci vediamo stasera”: c’è sempre qualcosa da fare, ma prima viene il lavoro. Chi fa il “notturno” monta alle 22, attraversa l’intera notte sotto il neon, torna a casa alle sette. Anche qui ci si adatta alla vita rovesciata, il tuo ultimo caffè prima di andare a dormire all’alba è il primo di tua moglie che comincia invece la sua giornata, c’è tempo per due parole intorno al tavolo in cucina, magari anche per un bacio ai ragazzi che hanno sempre fretta, si sono già infilati la felpa e corrono a prendere il 35 per la scuola, passa tra sette minuti. Tutto normale. Quel che chiamiamo incidente - Niente è più ordinario del lavoro, quando c’è. Ti dà i ritmi e regola il tempo, i compagni con gli anni diventano amici, ti affezioni a quel che sai fare, dopo un po’ scopri che sei diventato esperto, gli altri ti chiedono consiglio, finché arriva il momento della cena la sera prima della pensione e c’è sempre qualcuno che si alza in piedi a leggere una poesia col tuo nome. Il lavoro è anche una catena, naturalmente: le stesse cose oggi e domani, bisogna avere più coscienza che pazienza per continuare a farle bene, pensandoci. Anche i rituali sono i soliti, abituali al punto da diventare inconsapevoli. Tutto regolare. Poi capita all’improvviso l’eccezione, l’incidente, l’incredibile. Qualche volta è proprio l’abitudine a ingannare, mentre la tecnica di lavoro maschera il pericolo e l’esperienza nasconde l’insidia, che improvvisamente si manifesta. Roberto Savasta, 27 anni, tre giorni fa cade dal tetto di un magazzino che sta riparando a Niscemi, Simone Ferri scivola a 23 anni dal solaio di un capannone nell’Ascolano, dove sta facendo il suo lavoro operaio di manutenzione, come Salvatore Marchetta che precipita dal secondo piano di un cantiere, dove stava montando un infisso. O Sergei Robbiano, morto sull’automobile finita in mare durante il turno di notte all’aeroporto di Genova. O ancora Beniamino De Masi, 51 anni, operaio edile travolto nel crollo di un soffitto durante la ristrutturazione di un rustico. O Armel Dabrè, ribattezzato Carmelo dai colleghi, che è fuggito dieci anni fa dal Burkina Faso per diventare manutentore trasfertista nel Brindisino, e infine per morire cadendo dal ponteggio del cantiere a Laino Borgo, vicino a Cosenza. Traditi dagli strumenti di lavoro - In altri casi sembra quasi che siano gli strumenti di lavoro - quelli con cui passi la tua giornata, che controlli ogni mattina e riponi con cura la sera, prima di tornare a casa - a ribellarsi sottraendosi al governo dell’uomo, per innescare definitivamente l’irreparabile. Il muletto che travolge Andrea Fagiani, maresciallo capo e sminatore di bombe e ordigni bellici, mentre lo sta manovrando nello stabilimento militare a Nera Montoro. O la piattaforma che schiaccia contro una trave Marcello Fusi, quando sta montando a Bedizzole un macchinario per la mungitura delle mucche. O il braccio della gru che Giancarlo Carizzoni, 56 anni, sta muovendo sul piazzale di una fabbrica siderurgica di Vicenza, e urta all’improvviso il cavo ad alta tensione fulminandolo. Come il tornio che alla vigilia della festa del Primo Maggio stritola Rosario Frisina nello stabilimento elettromeccanico di Gorgonzola, dove lavorava da trent’anni; o la massa di agglomerato di ferro che travolge Rossano Raimondi, mentre la sta scaricando dal camion in una fabbrica di Legnago. La vita deraglia dalla consuetudine e finisce di colpo, l’ordinario svela l’anomalia senza rimedio, l’abitudine si ribalta in tragedia. Ma siamo sicuri che sia ogni volta un’eccezione, un incidente, l’incredibile che diventa realtà? Un censimento per non dimenticare - Noi definiamo incidente l’evento imprevisto che accade all’improvviso, e la parola quasi assolve le responsabilità mentre la pronunciamo, derubricando il fatto a disguido tecnico, episodio fortuito, casualità. Un insieme di circostanze esterne all’universo del lavoro che purtroppo si scaricano proprio lì, dove il tecnico, l’operaio, si stava adoperando. Ma 364 morti sul lavoro nel 2022, soltanto a metà anno, sono troppi per accettare che il caso e il destino siano gli unici attori di quanto è accaduto e queste vicende debbano finire con un lutto privato, riservato alla famiglia e agli amici, per sempre alle prese con l’inspiegabile. Proprio per contrastare la riduzione politica e morale del significato di queste tragedie, Marco Patucchi sta raccogliendo da mesi sul sito di Repubblica un censimento dei morti sul lavoro, mettendoli in fila e sottolineando gli elementi che li collegano e denunciano le responsabilità generali del sistema: e intanto li sottrae all’anonimato e alla dimenticanza, rendendo collettivo il dramma che si è consumato nel chiuso delle loro case. Le vittime sulla rotta della crescita - Basta scorrere questa galleria per capire che non c’è nulla di inspiegabile, e niente è pubblico come una morte sul lavoro, perché è uno scandalo che appartiene a tutti. Una vergogna della democrazia. Le vittime sono distribuite sulla mappa del Paese seguendo la rotta della crescita e dello sviluppo, dunque sono un elemento del progresso - anche tecnologico - e dal benessere: 62 morti in Lombardia, 38 in Veneto, 37 nel Lazio, 32 in Emilia Romagna, 26 in Puglia, 24 in Campania e in Piemonte, 20 in Sicilia, 11 in Calabria. Ma dietro i funerali si allarga l’evidenza degli infortuni sul lavoro, 63 mila in Lombardia, 39 mila in Veneto, 35 mila in Emilia, più di 25 mila in Piemonte e nel Lazio, 23 mila in Toscana, 16 mila in Campania e Sicilia, per un totale di 324 mila casi denunciati nel Paese. La Carta e il lavoro cardine della democrazia - Il lavoro è un’obbligazione volontaria alla necessità, dunque un dovere nei confronti della società, della famiglia, di se stessi, ed è naturalmente anche un diritto, visto che è questa la base fondativa della nostra repubblica, col rapporto sancito dalla Costituzione fin dall’articolo 1 tra lavoro e democrazia. Non solo: l’articolo 4 della Carta stabilisce che la repubblica riconosca a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuova le condizioni che lo rendono effettivo. Nello stesso tempo è scritto nella legge fondamentale il dovere di ogni cittadino di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione “che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. La congiunzione di tre emergenze - È evidente che questo riconoscimento costituzionale del ruolo che il lavoro ha per i singoli individui, per il loro nucleo sociale di responsabilità e per la comunità nel suo insieme, comporta la tutela della sicurezza del cittadino-lavoratore nello svolgimento dei suoi compiti quotidiani. Morire di lavoro, dunque, oltre che un’offesa morale e un peccato sociale è una bestemmia costituzionale: appunto, uno scandalo della democrazia. Ma oggi la congiunzione-successione fra le tre emergenze finanziaria, sanitaria e bellica mette in crisi proprio questa interpretazione costituzionale del lavoro e della sua tutela, cioè la coscienza collettiva del lavoro come creatore di diritti. Si scopre che il mondo non ha più il riparo di un tetto comune e nel nuovo universo scoperchiato il cittadino torna individuo, si sente esposto nelle sue paure vecchie e nuove, cerca sicurezza e protezione. È la risacca della globalizzazione, con un’onda troppo lunga per l’uomo comune, sbalzato in avanti dalla spinta della rivoluzione tecnologica e finanziaria che ha annullato la distanza dello spazio e del tempo: ma contemporaneamente, sopravanzato e scartato, come i relitti quando l’onda si ritira. Il vincolo spezzato tra ricchi e poveri - Per lui quasi tutte le vecchie tutele - partiti, classi, sindacati - sono saltate, senza che ne emergessero altre. E alla fine si è rotto il vincolo di società tra il ricco e il povero, ormai non solo diversi e distanti ma reciprocamente indifferenti, inconsapevoli, senza un orizzonte comune di senso, nemmeno ostile. Poiché tutto è transito, il luogo ha perso valore, come il lavoro ha perso potere. Privato di classi, rappresentanti e bandiere, è ormai una merce della modernità che si compra e si vende, senza storia e senza diritti, salvo quelli negoziati sul posto e sulla porta, sulla spinta del momento. Il deserto sociale creato dal virus ha fatto il resto, separando per la prima volta il concetto di lavoro dal valore della sicurezza. Anzi, nel tentativo di arruolare i No Vax e la loro rabbia sociale, il populismo di destra ha trasformato i soggetti costretti a farsi carico della sicurezza in nemici della libertà, che imprigionano l’energia del lavoro in una gabbia di regole e di vincoli. In questa semplificazione ideologica, il lavoro viene ridotto alla sua esclusiva dimensione economica, contrappone la libertà alla liberazione, cessa di essere strumento di emancipazione, non riesce a mettere in circolo nuovi diritti. Nell’emergenza, al contrario, l’incoscienza di cercare il lucro nel pericolo suggerisce l’ultimo scambio, quello tra sicurezza e profitto, come abbiamo visto nei casi del ponte Morandi, del Mottarone, dell’orditoio tessile che a Montemerlo con la fotocellula di controllo fuori uso ha stritolato Luana D’Orazio, operaia di 22 anni. La verità è che l’emergenza cambia la scala delle nostre priorità, ma anche della nostra sensibilità sociale, il rapporto tra il dovere generale e l’interesse particolare: fino a trasformare la sicurezza in ostacolo, autorizzando a noi stessi comportamenti che non avremmo accettato in passato. Abbiamo modificato il rapporto tra le componenti della società, e sulla spinta per tornare in ogni modo e al più presto sul mercato abbiamo concesso uno status privilegiato al capitale, autorizzato dallo stato d’eccezione. I diritti come variabile dipendente della crisi - Ancora una volta, i diritti nati dal lavoro risultano una variabile dipendente della crisi, comprimibili, rinviabili. Diritti ombra, diritti nani, a partire dalla sicurezza, come succede ogni volta che un’azienda è in ristrutturazione, e saltano i parametri di protezione nel sistema di produzione che si modifica. Eppure dovremmo aver imparato che il lavoro ci ha difeso dal virus, tenendo il motore del sistema acceso nella fase più acuta: con il “lavoro degli altri” che ha consentito a noi di rimanere protetti nelle nostre case. Distribuendo ricchezza, integrazione e coesione. Ma soprattutto solidarietà, come il lavoro fa da quando è spuntata la coscienza dei diritti e dei doveri, e il concetto conseguente di società. “Omissioni di numeri”: Covid, guerra, pianeta, i dati nascosti di Piergiorgio Odifreddi La Stampa, 8 luglio 2022 Anticipiamo il testo che verrà letto in occasione de “La Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi”, nell’appuntamento “I numeri e l’universo”, in collaborazione con Volvo Car Italia. Il tema della Milanesiana di quest’anno sono le Omissioni, e quello della nostra serata i Numeri. Mi sembra che la cosa più ovvia sia dunque parlare delle Omissioni di Numeri, e dei fatti che si nascondono dietro ai numeri. Mi limiterò a tre esempi che riguardano il passato, il presente e il futuro, visto che le omissioni sono talmente ubique, da costituire una delle quattro categorie dei peccati del Confiteor (insieme ai pensieri, alle parole e alle opere). Per quanto riguarda il passato, l’attenzione va ovviamente al Covid-19, e al costo in vite umane che la pandemia ha comportato. I media e i governi dell’Occidente ci raccontano che viviamo in un’area felice e privilegiata del mondo, dove i diritti dei cittadini sono assicurati in teoria, e tutelati in pratica, a differenza di altre parti del mondo meno fortunate della nostra. Ora, esiste forse un diritto più fondamentale della vita umana? Il famoso inizio della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti recitava nel 1776: “Tutti gli uomini sono creati uguali, e sono stati dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. E l’articolo 2 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo ripeteva nel 1950: “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”. Eppure, se guardiamo al numero dei morti di Covid-19 ci accorgiamo che le nazioni che si definiscono democratiche ne hanno avuti molti di più delle nazioni che noi riteniamo non democratiche: sono state queste ultime, paradossalmente, a tutelare più la vita umana che l’economia: gli Stati Uniti, ad esempio, alla fine del 2021 dichiaravano ufficialmente 800.000 morti per Covid, l’India 500.000 e la Cina solo 5.000. I numeri del Covid sono stati sistematicamente sottovalutati, ma non nel modo che potremmo pensare a prima vista: un confronto tra i morti totali negli anni del Covid e la media negli anni precedenti mostra i che i numeri reali nelle nazioni citate erano invece 5.000.000 morti per Covid in India, 1.000.000 negli Stati Uniti e 15.000 in Cina! In totale, i morti per Covid dichiarati nel mondo sono oggi 6.000.000, ma quelli stimati più di 20.000.000! Per quanto riguarda il presente, da quattro mesi i paesi della Nato sono coinvolti in una guerra contro la Russia, che viene accusata di essere una superpotenza militare, con mire espansionistiche globali. Eppure, i dati dell’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Stoccolma (SIPRI), aggiornati al 2022, dicono che al mondo si spendono ogni anno 2.000 miliardi di dollari in armamenti. Di questa enorme cifra, il 40% (800 miliardi) lo spendono i soli Stati Uniti, e il 16% (320 miliardi) le nazioni europee: cioè, un decimo della popolazione mondiale (noi) è responsabile di più del 50% delle spese militari del mondo intero. La Russia ne spende invece soltanto il 3% (60 miliardi): cioè, quasi 20 volte meno dei paesi della Nato! Ciò nonostante, negli ultimi quattro mesi abbiamo assistito a una frenetica corsa agli armamenti dei paesi europei, compreso il nostro. Eppure già oggi l’Italia, da sola, spende in armi la metà della Russia! Non parliamo dell’Inghilterra, della Germania e della Francia, ciascuna delle quali già spende all’incirca quanto la Russia. Come se non bastasse, il farisaico sdegno per l’invasione dell’Ucraina effettuata dalla Russia non ha avuto in Occidente alcun analogo per l’invasione dell’Afghanistan effettuata dal 2001 al 2021 dai paesi della Nato, compreso il nostro. Quanto poi alla famigerata “guerra al terrorirismo”, combattuta anche in Iraq e in altre decine di paesi, è complessivamente costata agli Stati Uniti 8000 miliardi di dollari e ha causato 900.000 morti, secondo un rapporto della Brown University. Per quanto riguarda infine il futuro, ammesso che un futuro ce l’abbiamo, i numeri ci dicono che stiamo comunque facendo tutto il possibile per non averlo. E non tanto per il pericolo di una guerra atomica, verso la quale stiamo correndo a rotta di collo, quanto per lo scempio che compiamo del nostro pianeta, con il nostro modo di vita e il nostro modello di sviluppo. I rapporti Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) ogni anno battono la campana a morto per la speranza che il mondo stia avviandosi a essere un luogo più umano e giusto. Oggi ci sono al mondo 2500 miliardari, 500 dei quali lo sono diventati nei due anni del Covid! Le 20 persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza di tutti gli abitanti dell’Africa subsahariana. E l’1% della popolazione mondiale ha la stessa ricchezza del rimanente 99%. Quanto al pianeta stesso, una serie di simulazioni numeriche mostrano che il desiderio ambientalista di tornare anche solo al consumo di risorse del 2000 è incompatibile con la pretesa dei governi e degli economisti, di preservare un livello di crescita positivo. Un rapporto del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite mostra infatti che neppure gli strumenti più arditi della green economy, come una supertassa per il carbone o un raddoppio dell’efficienza energetica, potrebbero impedire a una crescita annua costante del 2% o 3% di far raddoppiare o triplicare entro il 2050 il livello di consumo delle risorse che si aveva nel 2000. In sintesi, guardando al Covid, alla guerra e al pianeta, ci accorgiamo che c’è un motivo ben preciso per cui i numeri e i fatti vengono omessi dai media e dai governi. Ed è che se la gente li conoscesse, imbraccerebbe veramente le armi: ma non per fare la guerra all’estero, bensì per fare una rivoluzione in patria! La sorveglianza di massa di Frontex scavalca ogni regola di Lud?k Stavinoha, Apostolis Fotiadis e Giacomo Zandonini Il Domani, 8 luglio 2022 Scandagliare i social media, frugare su internet, analizzare dati sensibili, orientamento sessuale e persino codice genetico. Il grande fratello europeo raccoglie e analizza dati personali di migranti e rifugiati lungo le frontiere europee. Pur di approvare questo controverso programma, PeDRA, sia Frontex che la Commissione europea hanno scelto deliberatamente di ignorare l’allerta delle autorità europee per la privacy. I documenti interni ottenuti da Domani mostrano come sono state aggirate le regole, e il garante, europei. Questo capitolo della nostra inchiesta sulla sorveglianza europea vede Domani partner di Der Spiegel, Reporters United e Balkan Investigative Reporting Project. Lo scorso novembre, quando Hervé Yves Caniard entra nell’ampia sala conferenze al quattordicesimo piano del quartier generale di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, gli occhi dell’opinione pubblica internazionale sono puntati sull’ennesima crisi lungo un confine europeo. A poche ore di macchina da Varsavia, dove ha sede l’agenzia, centinaia di persone sfidano un inverno anticipato per attraversare la frontiera militarizzata tra Bielorussa e Polonia. Pochi giorni prima, un quattordicenne curdo era morto di ipotermia, mentre le forze di sicurezza polacche respingevano i viaggiatori, in gran parte cittadini di Afghanistan, Iraq e Siria, con lacrimogeni e cannoni ad acqua. Sul tavolo della riunione dell’organismo decisionale di Frontex, a cui partecipano rappresentanti di ogni paese membro e della Commissione Ue, c’è però un altro dossier, tanto urgente quanto delicato: l’espansione di un programma di sorveglianza di massa di chi attraversa i confini esterni dell’Ue. Aumentare il controllo - PeDRA, che sta per “Processing Personal Data for Risk Analysis” (“Processare dati personali per l’analisi dei rischi”), era stato lanciato a inizio 2016, subito dopo gli attentati firmati da sigle jihadiste a Parigi, per facilitare lo scambio di dati tra Frontex e Europol, l’agenzia di polizia dell’Ue. L’idea di fondo, abbracciata da diversi leader populisti e conservatori, era che tra rifugiati e migranti che arrivavano in Grecia e Italia, fuggendo da conflitti e violenza, si nascondessero presunti terroristi. In quell’incontro di novembre 2021, Caniard e il suo diretto superiore, l’allora direttore generale di Frontex Fabrice Leggeri, propongono di potenziare enormemente il programma. Le guardie di frontiera dell’agenzia, destinate a diventare 10mila nei prossimi anni, vengono autorizzate a raccogliere dati personali particolarmente sensibili di migranti e richiedenti asilo, come il Dna e l’orientamento sessuale, per poi analizzarli e condividerli con Europol. L’obiettivo è di combattere terrorismo e migrazioni irregolari. Per farlo, viene anche autorizzato il monitoraggio delle pagine social media di chi attraversa i confini europei. Una volta espanso, PeDRA avrebbe consentito di immagazzinare i dati di persone sospettate di reati transnazionali come la tratta di persone, ma anche quelli di testimoni e vittime di reati. Caniard, il funzionario che gestisce il dossier, è a capo da anni dell’Unità Legale di Frontex. Solo nell’agosto 2021 però, era stato investito dal connazionale francese Leggeri del compito di predisporre le nuove regole del programma PeDRA. In quel momento era anche direttore ad interim del Centro di Supporto alla Governance, un altro dipartimento di Frontex che fa riferimento direttamente a Leggeri. Una posizione privilegiata per controllare tutte le fasi di stesura del nuovo programma. Le prove degli abusi - Grazie a una serie di documenti interni ottenuti attraverso richieste di accesso civico (quelle che negli Stati Uniti sono le richieste FOIA, da Freedom Of Information Act) e ai leak di alcuni verbali degli incontri di Frontex, un consorzio di media europei di cui Domani fa parte, è in grado di mostrare come questo processo sia stato pesantemente viziato. I documenti ottenuti da Domani mostrano come - pur di adottare PeDRA - la dirigenza di Frontex, appoggiata dalla Commissione europea, abbia aggirato i controlli sul rispetto della privacy e messo ai margini le autorità garanti, che avevano già avevano avvertito dei rischi di minare la protezione dei dati personali, criminalizzare i migranti e violare una serie di norme europee. Nayra Perez, la Data protection officer di Frontex, ovvero la funzionaria incaricata di monitorare il rispetto delle norme sulla privacy, quindi una sorta di garante interno dell’agenzia, aveva segnalato ripetutamente che l’espansione di PeDRA “non possa essere portata a termine senza violare la legislazione dell’UE” e che il programma ponesse “un serio rischio di usare i dati in modo improprio rispetto al mandato di Frontex”. Le sue osservazioni sono però state ignorate, come rivelano documenti interni. Scavalcare ogni tutela - Perez aveva messo in guardia contro la possibilità che i dati raccolti da Frontex potessero essere trasmessi in toto ad Europol. Appena alcuni mesi fa, come rivelato da un’altra inchiesta di Domani, l’agenzia di polizia era infatti finita nel mirino del garante per la privacy dell’Ue (Edps), che le aveva ordinato di cancellare gran parte di un enorme archivio di dati personali, raccolti in modo illegale. Sostenuta dalla Commissione Ue, Frontex ha ignorato la raccomandazione, da parte dell’ufficio di Perez, di consultare l’Edps, guidato dal polacco Wojciech Wiewiórowski, rispetto alla nuova versione di PeDRA. Il garante Ue ha confermato a Domani che il programma comporta rischi di processare dati in modo illegale. Tanto che nel giugno 2022, ha chiesto a Frontex di apportare una serie di modifiche al nuovo programma di sorveglianza, per allinearlo con le norme europee sulla protezione dei dati. Sempre a giugno, quando Domani ha chiesto a Frontex come mai i vertici dell’agenzia avessero sistematicamente ignorato le posizioni e raccomandazioni del proprio Data protection officer (Dpo), nella persona di Nayra Perez, Frontex ha ammesso che l’ufficio di Perez “avrebbe potuto essere coinvolto più strettamente nella redazione e incaricata di dirigere il comitato decisionale”. Frontex ha aggiunto che aveva incaricato Perez di riscrivere “alcune decisioni centrali del management board allineandosi alle raccomandazioni dell’Edps e agli insegnamenti appresi”. Sorvegliare e discriminare - Secondo Niovi Vavoula, esperta di privacy e diritto penale della Queen Mary University di Londra, l’espansione di PeDRA apre le porte a una “criminalizzazione discriminatoria” di persone innocenti, creando un pregiudizio negativo, all’interno di procedimenti penali, verso persone etichettate come sospette dagli agenti di frontiera di Frontex. PeDRA, sostiene la ricercatrice, “è un altro pezzo di un puzzle della crescente sorveglianza dei movimenti di migranti e rifugiati e della criminalizzazione di questa parte di popolazione in Europa”. Per Fabrice Leggeri, l’ex direttore di Frontex, costretto a dimettersi nell’aprile 2022 dopo una serie di inchieste giornalistiche e indagini da parte di organismi di vigilanza europei, l’agenzia non doveva limitarsi alla gestione dei confini. Frontex doveva diventare un partner centrale di Europol, adottando funzioni di pubblica sicurezza e polizia. Per farlo, entrambe le agenzie hanno reso sempre più facile e rapido lo scambio di dati personali di cittadini extra-europei. Sei anni prima dell’incontro in cui si decidevano le sorti del programma PeDRA, il 14 novembre 2015, Parigi si risvegliava nel terrore, dopo una serie di attacchi coordinati, in cui militanti islamisti avevano ucciso 130 persone. Un mese più tardi, Leggeri firmava un accordo con l’allora direttore di Europol, il britannico Richard Wainwright, aprendo le porte allo scambio di dati personali tra le due agenzie. Durante un’udienza al parlamento del Regno Unito, Wainwright descriveva la relazione tra le due agenzie come “simbiotica” e volta alla protezione dei confini dell’UE. Nasceva così PeDRA, che a inizio 2016 viene lanciato come progetto pilota, prima in Italia e quindi in Grecia e Spagna. In contemporanea, Europol lanciava un programma parallelo, i cosiddetti Secondary Security Checks (controlli secondari di sicurezza), con cui l’agenzia raccoglie e analizza dati, usando anche sistemi di riconoscimento facciale, di migranti e rifugiati chiusi negli hotspot, i centri di prima identificazione in Italia e Grecia. Controlli che, nei mesi scorsi, sono stati estesi ai rifugiati in fuga dall’Ucraina, posizionando agenti di Europol alle frontiere con Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Moldavia, “per identificare sospetti terroristi e criminali”. Europol non ha però rivelato quali siano i criteri per determinare chi sia soggetto ai controlli e come vengano poi gestiti i dati personali ottenuti. Dal lancio di PeDRA in poi, gli agenti di Frontex hanno interrogato migranti appena arrivati, raccogliendo informazioni su persone sospettate di essere aver facilitato l’attraversamento delle frontiere o di essere legate alla tratta e al terrorismo. Questi pacchetti di dati personali sono trasferiti ad Europol, che li inserisce nei propri database criminali, in cerca di omonimie, corrispondenze, legami. Secondo le statistiche dell’agenzia, tra il 2016 e il 2021, Frontex ha condiviso con Europol i dati personali di 11.254 persone. Nuove regole anti diritti - Quella lanciata nel 2015 è però la prima incarnazione di PeDRA. Fino al 2019 infatti, il regolamento di Frontex poneva limiti stringenti alla sua capacità di raccolta e scambio di dati personali. Entrambe le agenzie adottano però nuovi regolamenti: Frontex nel 2019 ed Europol nel 2022. La versione rinforzata di PeDRA viene approvata dal Management Board di Frontex a dicembre 2021, a conclusione di anni di dispute legali e politiche, confinate nei corridoi del quartier generale dell’agenzia. Le nuove regole, che ancora devono entrare in vigore, autorizzano gli agenti di Frontex a raccogliere dati sensibili di tutti i migranti: dal Dna alle impronte digitali, quindi fotografie, informazioni su appartenenza politica, fede religiosa e orientamento sessuale. L’agenzia ha spiegato a Domani che non ha ancora iniziato a processare dati “relativi all’orientamento sessuale” ma che si tratta di informazioni che potrebbero servire a “determinare se dei sospetti che hanno somiglianze siano effettivamente la stessa persona”. Dal sesso ai social - La possibilità di monitorare le pagine dei social media, un altro degli ingredienti del programma, non è ancora stata utilizzata, sostiene Frontex. I verbali di una riunione di aprile mostrano però come Europol e Frontex abbiano deciso di “rafforzare la cooperazione sul social media monitoring”. Un precedente tentativo di sorvegliare i social media di migranti e rifugiati, includendo la “società civile e le comunità della diaspora”, era stato abbandonato nel 2019 dopo che l’ong Privacy International aveva sollevato dubbi sulla legalità del progetto. Secondo la ricercatrice Niovi Vavoula, però, le nuove norme di PeDRA autorizzano gli agenti di Frontex a entrare nei profili social “senza limitazioni”. Vavoula mette in dubbio l’impianto complessivo di un programma che, spiega, viola una serie di garanzie di protezione dei dati personali, in particolare di minori, persone anziane e vulnerabili, categorie per le quali la legislazione prevede trattamenti ad hoc. “Sembra che il programma sia stato redatto da qualcuno che ha una conoscenza limitata della normativa sulla protezione dei dati personali”, ha detto a Domani. “Per processare i dati personali dei bambini, devono essere previste una serie di garanzie a tutela dei loro diritti fondamentali”, e garanzie simili devono essere previste per i dati genetici, “molto più sensibili di quelli biometrici”. Garanzie di cui, spiega, non c’è traccia nel testo del programma. A mancare è anche la previsione di un periodo massimo di trattenimento dei dati. “Frontex potrebbe trattenerli per sempre”, avverte la ricercatrice. Mettere a tacere il dissenso - I documenti interni, ottenuti da Domani, mostrano come Hervé Yves Caniard, il funzionario incaricato da Leggeri di supervisionare la redazione della nuova versione di PeDRA, abbia ignorato sistematicamente le obiezioni sollevate dall’ufficio di Nayra Perez, la garante per la privacy dell’agenzia. Avvocata spagnola, Perez dirige un minuscolo ufficio che ha un compito enorme: monitorare il rispetto delle norme sulla protezione dei dati da parte dell’agenzia, nei confronti sia delle persone migranti i cui dati vengono raccolti da Frontex, sia del crescente numero di impiegati e agenti. Questi ultimi sono di fatto il primo corpo di polizia dell’Ue: 1900 agenti in servizio, destinati a diventare 10mila. Come tale, l’avvocata lavora a delle bozze iniziali del PeDRA 2.0 già nel 2018. Quando però Leggeri chiede a Caniard di impadronirsi del dossier, nell’agosto 2021, Perez è messa da parte. Nell’ottobre 2021, quando riceve una bozza semi-definitiva del nuovo programma, l’avvocata scrive subito che “la redazione delle nuove norme rientra de facto nei compiti assegnati dalla legge al Data protection officer (Dpo)” ovvero al suo ufficio. “Quando il Dpo esprime un’opinione - continua - il suo punto di vista non può essere rovesciato o modificato”. Il Dpo propone oltre cento modifiche alla bozza, segnalando come quel testo iniziale permetterebbe a Frontex di “arrogarsi il compito di sorvegliare internet” e che le vittime e i testimoni di reati, i cui dati vengano condivisi con Europol, potrebbero affrontare “conseguenze indesiderabili” per il solo fatto di essere registrate in un “database criminale paneuropeo”. Negli ultimi mesi del 2021, quando si avvicina la data di approvazione delle nuove regole, le discussioni interne si fanno più tese e Perez fa notare come la dirigenza di Frontex non abbia ancora chiarito in modo inequivocabile l’utilità di allargare la raccolta dei dati personali all’appartenenza etnica o all’orientamento sessuale. “C’è una soglia di legalità da raggiungere, che non è un abbellimento - scrive in un documento interno - ma una stretta necessità”. Versioni fake - A novembre, quando la bozza finale di PeDRA arriva sul tavolo del Management Board di Frontex, è evidente come la maggior parte delle raccomandazione della Dpo siano state ignorate. In quel momento, l’agenzia era già stata messa sotto indagine da Olaf, l’ufficio Ue antifrode, per il suo ruolo nei respingimenti illegali di migranti nel Mar Egeo. Un’indagine che avrebbe portato alle dimissioni di Fabrice Leggeri, nell’aprile di quest’anno. In un primo momento, rispondendo ad una serie di domande poste dalle testate che hanno realizzato questa inchiesta, Frontex sosteneva che il Dpo “ha avuto un ruolo attivo e centrale nelle deliberazioni” su PeDRA, e che il suo “ruolo di consulenza e monitoraggio è stato rispettato” nel corso del processo decisionale. Dichiarazioni che sono però contraddette dai verbali dell’incontro di novembre, ottenuti in seguito a diverse richieste di accesso civico. Caniard, viene riportato, ammette che la Dpo sia stata consultata “due volte con un preavviso molto breve” e che, visto che Perez aveva inviato la sua opinione solo il giorno prima della riunione, “non c’era possibilità di considerarla”. Perez - che aveva inviato il suo file il 16 novembre in vista della riunione del Management Board del 17 e 18 - esorta quindi l’organismo decisionale a “lavorare sulla bozza attuale per eliminare le contraddizioni” e invita a “consultare l’Edps prima di adottarla”. Rispondendo a una successiva richiesta di informazioni, a giugno 2022, Frontex ha ritirato le dichiarazioni rese in precedenza, sottolinenando che avrebbe dovuto coinvolgere in modo più forte la Dpo e che la avrebbe incaricata di riscrivere il programma. Il dissenso non era però limitato all’ufficio di Perez. I rappresentanti di Danimarca e Paesi Bassi al Management Board, avevano chiesto infatti di “fare tutto il possibile per evitare una situazione in cui sarà necessario modificare regole appena adottate, solo perché Edps esprime un’opinione contraria”. Lo stesso rappresentante della Commissione Ue, secondo i verbali della riunione, liquida l’obiezione, sostenendo che il testo sia “più che maturo per essere adottato” e che non ci sia bisogno di consultare l’Edps, in quanto non obbligatorio. Il ruolo della Commissione Ue - Una serie di email scambiata tra Frontex e la Commissione Ue conferma l’urgenza, la pressione da parte dell’esecutivo europeo: subito prima del meeting, il 14 novembre 2021, il rappresentante della Commissione scrive a Frontex che “nonostante sia giusto consultare l’Edps su tutto, ora è più importante che siano adottate almeno le due prime decisioni” sul programma. In uno scambio del luglio precedente, rivolto al direttore Leggeri, la Commissione parlava invece della “assoluta priorità politica di mettere a norma il quadro di protezione dei dati dell’agenzia, senza ulteriori ritardi”. Quando Domani ha chiesto alla Commissione perché avesse appoggiato il rafforzamento di un programma di sorveglianza senza farlo prima esaminare dall’Edps, la risposta è stata che la Commissione non commenta gli incontri interni di Frontex. Gli irregolari sono i dati - L’Edps, che è l’autorità per la protezione dei dati personali più importante dell’UE, ha potuto visionare una copia delle decisioni sul nuovo PeDRA solo nel gennaio 2022, e ha dichiarato a Domani di essere “preoccupata che che le regole adottate non specifichino con sufficiente chiarezza come saranno processati i dati, né definiscano con precisione come implementare le garanzie di protezione dei dati personali”. Il trattamento di dati di categorie estremamente vulnerabili di persone, come chi chiede asilo, pone “rischi elevati per i diritti e le libertà fondamentali”, incluso lo stesso diritto d’asilo, ha detto il garante, evidenziando anche come il trasferimento di dati personali tra Frontex ed Europol non possa essere fatto di routine, in modo sistematico, ma debba avvenire “caso per caso”. Diversi esperti, consultati nel corso dell’inchiesta, hanno messo in discussione l’efficacia di un programma di sorveglianza così esteso rispetto agli stessi obiettivi che si pone, ovvero combattere la criminalità. Per Douwe Korff, professore emerito di diritto internazionale alla London Metropolitan University, c’è un problema evidente di assenza di risultati concreti e quindi di trasparenza. “Le autorità di pubblica sicurezza non devono sottostare a nessun requisito minimo che mostri come questa espansione dei poteri di sorveglianza sia efficace e proporzionale”, ha spiegato Korff, che già si era occupato del caso di Edward Snowden, il whistleblower che ha rivelato il sistema segreto di sorveglianza messo a punto dall’Nsa statunitense. “Se chiedessimo quante persone arrestate grazie a questi dati si siano poi rivelate innocenti, nessuno ci risponderebbe: si preferisce continuare con queste politiche di raccolta di dati in massa, con un fervore religioso”, dice Korff. Nel gennaio di quest’anno, quando l’Edps ha ordinato a Europol di cancellare dai suoi immensi archivi i dati di persone che non avevano legami con attività criminali, gli stati membri e la Commissione Ue sono venuti in soccorso della potente agenzia di polizia, adottando una serie di norme che di fatto le permettono di aggirare l’ordine. Raccogliere e condividere dati personali sembra dunque rimanere una priorità, in un contesto segnato da una corsa globale ai dati, con la conseguente moltiplicazione di database nello spazio europeo. Tanto che nel maggio 2022, un gruppo di lavoro tra Frontex ed Europol, chiamato suggestivamente “The Future Group”, ha proposto di lanciare un altro, innovativo, programma di sorveglianza, che dovrebbe profilare in massa chi attraversa le frontiere esterne dell’Unione europea e di paesi aderenti all’accordo di Schengen, utilizzando l’intelligenza artificiale per monitorare e analizzare i dati di cittadini extraeuropei. Mattarella: “Non respingere i migranti, servono canali legali” Il Manifesto, 8 luglio 2022 Le dichiarazioni del presidente della Repubblica durante la visita in Zambia. “Il presidente zambiano ha detto a Strasburgo che serve l’apertura di canali formali per arrestare il problema dei migranti alla fonte lavorando insieme, nella convinzione che “non sia salutare respingere le persone sulle navi una volta che hanno avuto accesso nei vostri paesi mentre è possibile evitare questo in anticipo, in modo proattivo”. Io sottoscrivo queste parole”, ha detto ieri il capo dello Stato Sergio Mattarella, durante la visita in Zambia con il presidente Hakainde Hichilema. In effetti l’Italia non respinge i migranti, anche perché è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel caso Hirsi Jamaa. Negli ultimi cinque anni, però, ha implementato il memorandum italo-libico con l’obiettivo di finanziare i centri di prigionia e le milizie della sedicente “guardia costiera” di Tripoli affinché evitassero le partenze o intercettassero in mare quelli riusciti a imbarcarsi. Organizzazioni come Asgi, Sea-Watch, Mediterranea e Medici senza frontiere parlano di “respingimenti per procura” perché, oltre al sostegno economico degli attori che li praticano, si basano anche sulla condivisione di informazioni necessarie a individuare i barconi, soprattutto attraverso gli assetti e i droni di Frontex. Il presidente della Repubblica ha affrontato la questione delle migrazioni internazionali anche dal punto di vista dei paesi di partenza. “Superare l’eredità coloniale non è stato certo facile. La spoliazione dell’Africa è passata addirittura attraverso la tratta degli schiavi oltre che con lo sfruttamento delle risorse naturali - ha detto Mattarella parlando all’Assemblea nazionale dello Zambia - Oggi rischiamo un nuovo impoverimento, rappresentato dall’emigrazione disordinata e irregolare verso Occidente di tante energie giovanili che sarebbero utili allo sviluppo del continente”. Attenzione anche sui fattori alla base di molti movimenti migratori: crisi internazionali, pandemia, cambiamento climatico e adesso le conseguenze dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. Un mix di elementi che può accentuare nuove spinte migratorie. Le proposte avanzate dal presidente: accordi formali per la circolazione delle persone tra i diversi paesi e dunque canali legali di accesso, che al momento non esistono o sono estremamente residuali. Cannabis, una scelta giusta di Federico Varese La Repubblica, 8 luglio 2022 La bocciatura del referendum sulla legalizzazione della cannabis a febbraio del 2022 ancora brucia, ma il dibattito non si ferma. Un consigliere comunale del Partito democratico di Milano, Daniele Nahum, ha organizzato, insieme a Justmary, gli Stati Generali della cannabis, una due giorni che inizia oggi nel capoluogo lombardo per dibattere gli effetti del proibizionismo in Italia. Vi parteciperanno molti esponenti del Pd e della giunta Sala, oltre a tre direttori di carcere (Bollate, Bergamo e San Vittore), accademici, avvocati e medici. Chi opera nel settore della prevenzione scalpita per trovare soluzioni pratiche e organiche. Gli effetti del proibizionismo in Italia sono ben documentati nel tredicesimo Libro Bianco sulle Droghe, pubblicato a giugno di quest’anno. Quasi il 30 percento dei detenuti entra in carcere per detenzione o piccolo spaccio e più di 230 mila fascicoli giudiziari sono aperti per questi reati. Nel frattempo, i consumatori di cannabis continuano ad aggirarsi intorno ai 6 milioni. Accedere al prodotto è facilissimo. Polizia e carabinieri dedicano tempo e risorse a reprimere il consumo, con scarsi effetti. È poi scandaloso che i malati non possano avere accesso alla marijuana medica quando ne hanno bisogno e sono costretti a coltivarla in casa. Senza dubbio la legalizzazione avrebbe l’effetto di togliere una fonte di reddito alle organizzazioni criminali, di aumentare l’occupazione e far arrivare denaro nelle casse dello Stato: si potrebbero creare dai 60 mila ai 300 mila posti di lavoro e raccogliere 4 o 5 miliardi di euro in tasse, secondo le stime di Mario Rossi dell’Università di Roma. Pochi notano un altro effetto perverso del proibizionismo, ben illustrato dalla vicenda della caserma di Piacenza del 2020. I mercati illegali non si autoregolano: o sono organizzati dalle mafie, che decidono chi può operarvi, oppure il rischio è che pezzi deviati dello Stato, come appunto a Piacenza, assumano il ruolo di governo illegale del mercato. Le mafie non sono gli unici attori nel mondo illegale. Diversi studi su dati americani hanno mostrato in maniera inoppugnabile come la legalizzazione abbia portato a una riduzione della criminalità. La legge cosiddetta delle 4 piantine, in discussione adesso alla Camera, ha il pregio (se approvata) di fissare il principio che coltivare poche piante ad uso personale non è una condotta penale rilevante, come notato da Leonardo Fiorentini, uno dei curatori del Libro Bianco. Ma si rischia di arrivare a una legalizzazione di fatto, disorganica, la quale non tocca i pilastri dell’attuale legislazione e che non mette in luce i rischi medici del consumo. Soprattutto si rischia di non decidere quale modello di legalizzazione si vuole adottare per il Paese. Vi sono due modelli che meritano di essere discussi agli Stati Generali: da una parte la strada della legalizzazione for profit e dall’altra quella che mette al centro la dimensione medica. Il primo modello, adottato da molti Stati negli Usa, ha copiato le regole della vendita dell’alcol o del tabacco, fa ben poco per sottolineare i rischi medici, permette la pubblicità, oltre alla creazione di grandi conglomerati produttivi e alla produzione industriale dei derivati della cannabis (i quali spesso creano più dipendenza del prodotto base) senza troppo limiti. In gran parte, l’industria si autoregola. Se questo modello venisse adottato in Italia, la produzione potrebbe essere fatta dallo Stato o da privati, e il prodotto potrebbe essere distribuito nelle tabaccherie. Il prodotto viene normalizzato. Il secondo modello mette invece la salute al centro della legalizzazione, non permette la creazione di grandi conglomerati produttivi, limita il numero di licenze e proibisce la pubblicità. Questa strada imporrebbe criteri uniformi per la composizione del prodotto, a differenza di quanto avviene negli Usa. Dobbiamo essere grati agli Stati Generali per promuovere il dibattito. Siamo un po’ meno grati alla classe politica italiana che ancora crede che si possa mettere la testa nella sabbia e posticipare sine die la regolamentazione del consumo della cannabis. Un po’ d’Ordine nella vicenda di Julian Assange di Vincenzo Vita Il Manifesto, 8 luglio 2022 L’Ordine nazionale dei giornalisti ha deliberato all’unanimità di dare la tessera onoraria a Julian Assange. Si tratta di un gesto simbolico, ma di estrema importanza. Come purtroppo sappiamo, infatti, uno dei punti forti delle accuse rivolte al fondatore di WikiLeaks è sempre stato quello di non essere un giornalista. Peraltro, nella patria di origine - l’Australia - non esiste un equivalente dell’Ordine. Comunque, la Federazione internazionale (IFJ) e la sorella italiana (FNSI) avevano già assunto posizioni nettissime contro l’estradizione negli Stati Uniti. Si è finalmente, dunque, messo in movimento l’universo professionale, troppo a lungo silente e inconsapevole. O peggio. Si è colta la verità ultima dell’orribile storia giudiziaria: se perdesse Assange, perderebbe il diritto di cronaca. Tutte e tutti coloro che operano nel mondo dei media rischierebbero di essere messi al bando, laddove osassero indagare sui poteri e i loro segreti. Ecco perché, sottolinea la nota dell’Ordine, si rischia di scrivere “…un capitolo nerissimo nella storia della democrazia… non è possibile (si aggiunge, ndr) ed è intollerabile trattare come un criminale un giornalista che ha contribuito alla diffusione della verità, mettendo a disposizione dell’opinione pubblica informazioni senza scopo di lucro. Numerose sentenze della corte europea dei diritti dell’uomo hanno ribadito che la libertà non può subire restringimenti…”. Proprio a proposito dei futuri orientamenti della corte di Strasburgo saranno decisivi i prossimi giorni. Al di là della crisi della compagine britannica diretta dal sempre più screditato premier Boris Johnson, infatti, l’ala ultra-conservatrice del partito preme per l’uscita dalla CEDU. La temuta conseguenza è il non riconoscimento dell’autorità della Corte medesima davanti all’annunciato ricorso del collegio legale di Assange, se la ministra del Regno Unito Priti Patel apponesse la firma finale alla richiesta di estradizione. Ma se il destino fosse favorevole, magari proprio la crisi del governo d’oltre Manica allungherebbe i tempi della vicenda giudiziaria. E chissà, nel caso che la guerra in Ucraina si fermasse, la diplomazia internazionale avrebbe margini ben maggiori. Il presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador ha rinnovato la disponibilità a concedere l’asilo politico ad Assange e si attende la presa di posizione del primo ministro australiano Anthony Albanese. Non solo. Si stanno impegnando con successo l’Associazione degli autori cinematografici e Articolo21, che stanno raccogliendo adesioni al nuovo appello lanciato dal premio Nobel Pérez Esquivel (su il manifesto del 6 luglio scorso) e brevi contributi video. Si è formato unno specifico comitato, coordinato dalla collaboratrice di Esquivel e docente dell’Università La Sapienza di Roma Grazia Tuzi, in cui è molto attiva -ad esempio- Stefania Maurizi insieme a Laura Morante, a Francesco Martinotti e Giuseppe Gaudino. In virtù, probabilmente, delle prese di posizione dell’ex magistrato Armando Spataro e del presidente della Fondazione Basso Franco Ippolito si è manifestato interesse anche tra le fila della magistratura. Da tempo sono attivi il responsabile della commissione archivi e biblioteca del senato Gianni Marilotti e l’associazione del premio intitolato allo scomparso giornalista Mimmo Càndito. La talpa scava e la speranza è sempre l’ultima a morire. Il doppio gioco di Erdogan di Francesca Mannocchi La Stampa, 8 luglio 2022 Alleato dell’Occidente, fa affari con la Russia e vuole mediare in Ucraina. Poco più di un anno fa, nell’aprile del 2021, il presidente del consiglio Mario Draghi, in una definizione che provocò qualche imbarazzo definì Recep Tayyip Erdogan un “dittatore”. Ma aggiunse: “La considerazione da fare è che con questi dittatori di cui però si ha bisogno per collaborare, o meglio cooperare, bisogna essere franchi nell’esprimere la diversità di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese”. Questa dichiarazione - che provocò la reazione immediata di Ankara (venne convocato l’ambasciatore italiano in Turchia, Massimo Gaiani, e il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavu?o?lu, definì “impudenti” le parole di Draghi) - ebbe il merito di svelare l’ambiguità che da anni guida le relazioni dell’Europa con la Turchia. Martedì scorso Draghi è volato in Turchia per il primo incontro dopo l’incidente diplomatico di un anno fa per rilanciare l’alleanza tra i due Paesi e sostenere il ruolo turco di mediatore tra Russia e Ucraina. In mezzo c’è la crisi alimentare - l’esportazione di milioni di tonnellate di grano attraverso corridoi sicuri sul Mar Nero - gli accordi economici bilaterali tra Turchia e Italia, la crisi migratoria in Libia. L’Occidente ha una lunga storia di alleanze e patti con regimi e leader autoritari il tutto il mondo, alleati discutibili ma necessari. È il principio che regola le negoziazioni, che cerca di mantenere equilibri tra le parti perché è noto che si negozia con gli avversari e non con i sodali. In cima alla lista di alleati necessari e discutibili per l’Europa c’è proprio Erdogan. Necessario per arginare il flusso migratorio nel 2015, per esempio, nonostante abbia minato la democrazia turca, invaso i territori curdi, incarcerato oppositori politici e giornalisti e da ultimo minacciato di bloccare l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia ponendo sul piatto proprio le sorti della minoranza curda che l’Occidente ha più volte dimostrato di essere pronto a sacrificare. È il realismo della politica e in questo Erdogan fa scuola da anni, e la fa proprio nelle relazioni con la Russia, che l’Europa avrebbe dovuto osservare con maggiore attenzione. Per scoprire che i due leader si somigliano molto più di quanto pensiamo e che hanno trovato in diversi scenari un equilibrio che li ha resi non amici ma non nemici. Russia e Turchia rimangono su due fronti diversi del conflitto siriano, con la Turchia che sostiene i ribelli anti-Assad. Non c’era accordo sulla Libia, poiché i mercenari russi aiutavano il generale Khalifa Haftar mentre la Turchia inviava truppe per sostenere il governo di Tripoli. In Ucraina, la Turchia, in teoria, si oppone con veemenza all’annessione della Crimea da parte della Russia, patria dei tartari turchi. Eppure resiste l’alleanza di cui oggi è utile ricordare le radici per non fare l’errore - pensando di trovare un negoziatore per la crisi globale generata dall’invasione russa dell’Ucraina - di alimentare il potere ricattatorio di Ankara. È vero che l’Occidente ha bisogno della Turchia dalla sua parte nella guerra economica contro la Russia, perché il sostegno di Ankara può limitare il flusso di merci russe sanzionate dentro e fuori il Mar Nero, ma è vero anche che la Turchia è diventata una delle principali destinazioni per il denaro russo in fuga dalle sanzioni e i due Paesi condividono interessi energetici in aree cruciali del Mediterraneo e dell’Asia. Si scrive Libia si legge petrolio - La Russia e la Turchia sostengono da anni due governi contrapposti in Libia. Mentre il governo di Tripoli è supportato da Turchia e Qatar, l’uomo forte con base a Est Khalifa Haftar ha il sostegno della Russia (oltre Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti). Quando nel 2019 Haftar attacca Tripoli, l’allora primo ministro libico chiede invano sostegno agli alleati europei. Così, dopo l’arrivo dei mercenari russi del gruppo Wagner, Sarraj corre ai ripari e stringe due accordi coi turchi. Il primo è militare: la Turchia invia i droni Bayraktar, gli stessi che oggi arrivano in Ucraina, ribaltando le sorti della guerra e liberando Tripoli. In cambio dei droni Erdogan chiede e ottiene un secondo accordo, trattato sui diritti di perforazione del gas nel Mediterraneo, che traccia una linea verticale attraverso il Mediterraneo, interrompendo i piani tra Grecia, Cipro, Egitto e Israele sui diritti di trivellazione di petrolio e gas. Secondo il patto con la Libia, la Turchia assorbirebbe una parte delle acque territoriali della Grecia. Ankara lo fa forte del fatto che non ha mai riconosciuto la convenzione Onu del 1982 sui confini marittimi, non riconosce la Repubblica di Cipro Sud e i suoi accordi per una zona economica esclusiva con Egitto, Libano e Israele, dunque ritiene di operare in acque di propria competenza. L’Europa si preoccupa, Grecia, Cipro e i Paesi Ue chiedono che i loro interessi energetici nell’area vengano difesi. Erdogan tira dritto, capitalizza la debolezza del governo di Tripoli, l’assenza dell’Europa e si prende gli interessi su una fetta di Libia. Anche per questo Draghi pone al centro il tema migratorio durante l’incontro turco: sa che l’influenza che prima aveva l’Italia sulle coste libiche è stata parzialmente rimpiazzata da quella turca ed è di nuovo con lui, Erdogan dunque, che bisogna discutere della gestione dei flussi migratori. Si scrive Libia si legge petrolio, si scrive Libia si legge alleanze fluide e sovrapponibili. Nel 2020, mentre l’Europa cercava una mediazione, che sarebbe poi fallita, tra i governi libici di Haftar e al-Sarraj, Putin e Erdogan (antagonisti sulla carta) erano a Istanbul a inaugurare il Turkish Stream, il gasdotto da 930 km, del valore di quasi 7.000 milioni di dollari, che può trasportare fino a 31,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Siberia in Europa orientale attraverso la Turchia. Alla cerimonia di inaugurazione Putin disse che il gasdotto era un segno di “cooperazione” che sottolineava l’amicizia tra Ankara e Mosca. L’anno scorso attraverso questa rotta, la Bulgaria ha ricevuto 10,5 milioni di metri cubi di gas; la Grecia, 9,6 milioni; la Serbia, 8,9 milioni; Romania, 8,5 milioni; Ungheria, 6,3 milioni, e Macedonia del Nord, 1,7 milioni. A fine giugno il consorzio statale russo per il gas Gazprom ha sospeso i flussi di gas attraverso il gasdotto Turk Stream per una settimana “a causa della manutenzione preventiva”, si legge nel comunicato. Una ritorsione russa verso l’Europa, certo, ma anche un modo per ricordare a Erdogan che prima di essere un “negoziatore” con l’Ucraina, è un socio d’affari del Cremlino. Lungo le linee del gas - Un terreno di simile equilibrio per Russia e Turchia è il Caucaso meridionale e anche qui occorre tornare indietro di almeno un paio d’anni quando nell’ottobre del 2020 si riaccende la disputa territoriale lunga trent’anni tra Azerbaigian e Armenia che si contendono il Nagorno-Karabakh. Diversa la guerra, stessi gli alleati: la Russia a sostegno dell’Armenia e i turchi dell’Azerbaijan. Quando riprendono i combattimenti nel 2020 la Turchia invia armi e truppe mercenarie e la Russia lancia un messaggio chiaro all’Azerbaijan organizzando l’operazione KavKaz 2020 (Caucaso 2020): un’esercitazione di 1.500 truppe russe e armene non lontano dal confine, un modo per dire agli azeri che il Cremlino ritiene il Caucaso meridionale una sua naturale sfera di influenza. Il conflitto in Nagorno Karabakh proietta l’antagonismo tra la Russia e la Turchia in uno scenario simile a quello libico: Paesi rivali ma non del tutto nemici. Per comprendere a pieno l’interesse delle due grandi potenze nel Caucaso è sufficiente osservare la cartina geografica. Al centro del conflitto gli idrocarburi del Caspio che transitano nel Caucaso e al centro il Nagorno-Karabakh che funge da corridoio per gli oleodotti che portano petrolio e gas ai mercati mondiali. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica l’Azerbaigian ha cercato di esportare il proprio petrolio e gas senza fare affidamento sugli oleodotti russi, ha attirato investitori occidentali, installando oleodotti e gasdotti che hanno permesso al Paese di trasportare la sua energia dal Mar Caspio ai mercati internazionali, uno dei motivi che ha attratto investitori turchi negli ultimi decenni e una delle ragioni, dunque, del coinvolgimento diretto di Ankara nel conflitto. Nonostante le premesse e le ostilità, Erdogan e Putin hanno negoziato per risolvere la crisi, imposto una tregua e favorito una soluzione politica. Nella partita del Nagorno Karabakh è stata la Russia a vestire i panni del negoziatore. Lo scorso 8 giugno, quando il ministro degli Esteri russo Lavrov è volato ad Ankara dal suo omologo Cavusoglu, sul piatto non c’era solo il grano ucraino, ma anche gli affari del Caucaso. Cavusoglu ha ringraziato la Russia per il ruolo di facilitatore nella normalizzazione dei rapporti tra la Turchia e l’Armenia e dato il via libera a un forum di 6 Paesi per raggiungere la pace tra Azerbaigian e Armenia nel Caucaso. Una mano lava l’altra. Il negoziatore Giano bifronte - Ecco dunque che quando l’Europa pensa a Erdogan come negoziatore della crisi non deve dimenticare le analogie dei due leader nel gestire il potere: le denunce dei cittadini alla Corte europea dei diritti dell’uomo, i sistemi di controllo di entrambi i Paesi che ignorano lo stato di diritto, le elezioni sempre meno libere, sempre meno eque. La retorica delle loro narrazioni bellicosa e revisionista. L’opposizione perseguitata e repressa. Gli abusi contro la minoranza curda, che tanto ricordano la condotta russa in Ucraina. Più l’Occidente cerca una politica di appeasement con la Turchia, più Erdogan è stato sfacciato e ricattatorio, nel 2019 acquisendo il sistema di difesa aerea russo S-400, che si ritiene rappresenti una formidabile sfida per gli aerei della Nato, e poi usando i migranti come arma per minare la stabilità dell’Europa meridionale. La stessa Europa che dal 2016 paga ad Ankara 6 miliardi di euro per evitare che i 3 milioni e 700 mila siriani che il Paese ospita arrivino in Grecia. È di questo che parliamo, quando parliamo di Turchia. Arabia Saudita. Le voci soffocate nelle carceri del regno di Julie Kebbi Internazionale, 8 luglio 2022 Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman sta cercando di ricucire le alleanze internazionali. Ma nel suo paese la repressione s’intensifica. Il modo di agire è quasi sempre lo stesso. In qualsiasi momento del giorno o della notte, con poco clamore, un convoglio di auto blocca gli accessi a un quartiere. Un commando di uomini armati scende in abiti civili, senza mandato d’arresto né di perquisizione. L’abitazione presa di mira è perlustrata da cima a fondo, gli effetti personali e i dispositivi elettronici di chi ci vive sono confiscati e la persona ricercata è arrestata senza poter contattare nessuno. Senza spiegazioni. La macchina della polizia segreta saudita, chiamata mabahith, è ben oliata. Da quando nel 2017 è diventata un’agenzia della sicurezza di stato, le sue squadre rispondono direttamente al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, detto Mbs. Il suo scopo è mettere a tacere, con il pretesto della lotta al terrorismo, qualunque voce scomoda per il potere. I sauditi spariti da un giorno all’altro per aver chiesto riforme sociali e religiose o per aver espresso un’opinione critica del potere, spesso sui social network, sarebbero migliaia. “Sembrava che stessero arrestando Pablo Escobar”, ironizza Malek, parente di un prigioniero politico, che ha chiesto uno pseudonimo per motivi di sicurezza. Anche Rasha, amica di un prigioniero di coscienza, preferisce usare un nome di fantasia: “Non abbiamo mai saputo come le autorità abbiano scoperto la sua vera identità. Il suo account Twitter era anonimo e aveva solo qualche centinaio di follower. Non si aspettava che la faccenda assumesse queste proporzioni”. La storia del regno è contrassegnata da ondate di arresti politici, ma il ritmo di queste operazioni si è intensificato e la loro natura si è evoluta in seguito alla nomina di Mbs a principe ereditario a giugno del 2017. Separata quello stesso anno dal ministero dell’interno saudita, la maba­hith ha ampi poteri che le permettono di operare in totale impunità e di dirigere istituti penitenziari per detenuti politici al di fuori dell’apparato carcerario ordinario, come Al Hayer, la più grande prigione di massima sicurezza, a una ventina di chilometri da Riyadh; o il carcere di Dhahban, vicino a Jedda. “Tutti i sauditi sanno che ci sono poche speranze per chi viene portato via dagli agenti della sicurezza di stato”, si rammarica Rasha. Rifiutandosi di rispondere alle richieste delle famiglie, le autorità di solito non comunicano le accuse. Quando queste sono rese pubbliche, spesso sono simili tra loro e rientrano nell’ambito della legislazione antiterrorismo saudita, che dà una definizione molto ampia di terrorismo e limita anche la libertà di espressione. I processi, politicizzati, si svolgono davanti al tribunale penale speciale, istituito nel 2008 e usato dal 2011 per soffocare ogni dissenso sull’onda delle primavere arabe. I processi sono segnati da evidenti vizi di forma. “Il governo e il tribunale ammettono la presenza di un avvocato per questioni d’immagine e per dare l’impressione di rispettare la legge. In realtà il difensore fa solo da comparsa in una messinscena”, spiega Taha Alhajji, avvocato saudita che ha rappresentato molti prigionieri di opinione. “La maggior parte degli avvocati del paese cerca di stare alla larga da questi casi, soprattutto quando sono pubblicizzati sui mezzi d’informazione”, aggiunge Alhajji, che dal 2016 vive in esilio. Senza precedenti - Spesso situati in zone remote, gli imponenti complessi carcerari gestiti dalla mabahith sfuggono a qualunque controllo e sono inaccessibili agli organismi indipendenti. Le poche informazioni che filtrano sulle condizioni di detenzione sono ottenute grazie ai parenti dei detenuti o alle testimonianze di ex prigionieri. “Non ci sono parole per descrivere quello che alcuni hanno subìto durante la detenzione. Uno di loro è arrivato a paragonare queste carceri ad Abu Ghraib o a Guantanamo”, ricorda Taha Alhajji. Secondo un rapporto dell’ong indipendente Alqst for human rights pubblicato a luglio del 2021, “una delle caratteristiche dell’era di re Salman e del principe ereditario Mbs è l’uso sistematico della tortura a fini politici. La quantità di persone prese di mira recentemente e la durezza dei sistemi di tortura usati sono senza precedenti”. Anche se violano la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, ratificata con riserva da Riyadh nel 2000, questi metodi sono stati usati durante le epurazioni del Ritz-Carlton nel 2017 (quando centinaia di uomini d’affari ed esponenti della famiglia reale sono stati imprigionati nelle stanze dell’albergo della capitale con l’accusa di corruzione) e poi nella serie di arresti di intellettuali e attiviste per i diritti delle donne. Il terribile omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi all’interno del consolato del suo paese a Istanbul nel 2018 ha portato alla luce del sole la violenza della macchina repressiva saudita, anche fuori dei confini del regno, ed è costato a Mbs la messa al bando dalla comunità internazionale. In secondo piano - Ma la visita a Riyadh del presidente statunitense Joe Biden (il suo viaggio nella regione comincia il 13 luglio) conferma che è giunto il momento della riabilitazione. Già ad aprile la Turchia aveva permesso di rimuovere uno degli ultimi ostacoli al ritorno di Mbs sulla scena internazionale con la “chiusura” del processo in contumacia dei 26 cittadini sauditi accusati dell’omicidio di Khashoggi e il trasferimento del fascicolo alle autorità saudite. Queste aperture incoraggiano l’impunità e fanno temere agli attivisti che la questione dei diritti umani nel regno sia passata in secondo piano. “Ogni volta che si vede di nuovo legittimato sul piano internazionale, il governo si accanisce contro i prigionieri di coscienza. C’è chiaramente un nesso tra le due cose”, sottolinea Lina al Hathloul, responsabile del monitoraggio e della comunicazione per Alqst e sorella dell’attivista saudita Loujain al Hathloul. A marzo di quest’anno è stata eseguita la condanna a morte di 81 persone per accuse che andavano dal furto alla partecipazione a manifestazioni: una decisione senza precedenti nella storia moderna del regno, annunciata tre giorni prima della visita del primo ministro britannico Boris Johnson in Arabia Saudita. A giugno il tribunale penale di Tabuk ha confermato in appello la condanna a morte di Abdullah al Howaiti, proprio mentre era ufficializzata la visita di Joe Biden nel regno. Al Howaiti aveva quattordici anni quando è stato arrestato nel 2017, con l’accusa di furto e omicidio. Due anni dopo è stato condannato alla pena capitale sulla base di confessioni che secondo alcune organizzazioni per i diritti umani gli sarebbero state estorte con torture e maltrattamenti. Visite negate, violenze verbali, isolamento, privazione del sonno, elettroshock, waterboarding, minacce di abusi sessuali, ingestione forzata o somministrazione di sedativi. Le autorità hanno sviluppato una vasta gamma di metodi repressivi per spezzare ogni velleità di opposizione. Secondo le testimonianze raccolte dall’Orient-Le Jour, questi metodi sono usati soprattutto nel periodo di carcerazione preventiva (che può durare fino a un anno), quando i prigionieri rischiano di finire in isolamento senza essere portati davanti a un giudice e senza poter parlare con un avvocato. “Le guardie facevano irruzione in cella nel mezzo della notte per interrogarlo ed estorcergli confessioni senza avergli neppure comunicato di cosa lo accusavano”, racconta Malek parlando del suo parente in carcere. Quando il fascicolo del detenuto è stato presentato al giudice era chiaro che le accuse erano state fabbricate. A maggio diverse ong hanno denunciato le violenze contro Mohammad Fahad al Qahtani, intellettuale e tra i fondatori dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici (Acpra), detenuto dal 2013. Al Qahtani è stato aggredito nel carcere di Al Hayer da un altro prigioniero che soffre di disturbi psichiatrici. “Sistematicamente e in modo deliberato, dal 2017 persone affette da malattie mentali sono trasferite in questa sezione dell’istituto, mettendo in pericolo la vita dei difensori dei diritti umani e di altri attivisti”, sottolineava l’Organizzazione europea saudita per i diritti umani (Esohr) in un comunicato pubblicato il 2 giugno. A marzo del 2021 Al Qahtani, insieme a una trentina di altri prigionieri di coscienza, aveva avviato l’ennesimo sciopero della fame per protestare contro gli attacchi e i maltrattamenti subiti in carcere, e contro il rifiuto delle autorità di permettere i contatti con le famiglie o l’accesso a libri e riviste. “Quando non hanno più nulla, ai detenuti resta solo il proprio corpo per agire”, spiega Lina al Hathloul. “Le autorità non vogliono assumersi la responsabilità della loro morte e affrontare la pressione internazionale che ne deriverebbe. Tuttavia, i risultati degli scioperi della fame sono incerti e dipendono soprattutto dall’eco che hanno fuori delle frontiere saudite”, continua. La morte del poeta e difensore dei diritti umani Abdullah al Hamid, avvenuta ad aprile del 2020, quando aveva 69 anni, dopo che le autorità gli avevano negato l’accesso alle cure mediche nonostante i molti avvertimenti dei medici e dei parenti sul peggioramento della sua salute, aveva suscitato una certa indignazione. Il 12 maggio 2021 Abdullah Jelan, che ha 29 anni e un disturbo bipolare diagnosticato, è stato arrestato a casa di sua madre a Medina e non ha più potuto prendere farmaci. Perseguito in base alla legge sul terrorismo e sul finanziamento al terrorismo per essersi lamentato della disoccupazione e per aver rivendicato alcuni diritti di base su Twitter, Jelan è stato tenuto in isolamento per le prime tre settimane di detenzione. In questo periodo sarebbe stato torturato e sottoposto a elettroshock mentre aveva piedi e polsi legati. In seguito è stato trasferito nel carcere di Dhahban. Sotto sorveglianza - Queste circostanze sono ancora più inquietanti se si considera che un rapporto dell’Esohr pubblicato ad agosto del 2020 denunciava almeno una decina di morti sospette durante la detenzione o qualche giorno dopo la scarcerazione. È il caso dell’atleta Makki al Arid, morto a marzo del 2016 nella stazione di polizia di Al Awamiyah, nella provincia di Qatif, roccaforte sciita nel mirino di Riyadh; e anche del giovane Mohammad Reda al Hassawi, morto l’anno dopo nella prigione di Dammam, nell’est del paese. Se si osservano le immagini pubblicate online, sui loro corpi si riconoscono chiari segni di tortura, nonostante le smentite delle autorità. Molte famiglie di prigionieri di coscienza morti in carcere sono state costrette a firmare dei documenti, senza poter vedere i corpi, in cui si attestava che i loro cari si erano suicidati o erano morti durante la detenzione per cause naturali. Per rafforzare questa politica negli ultimi anni è aumentata anche la sorveglianza dei parenti dei prigionieri politici. “Questo è un fatto nuovo, cominciato con Mbs. Dal momento in cui una persona è incarcerata, tutta la sua famiglia diventa un bersaglio e subisce provocazioni”, sottolinea Abdullah Alaoudh, direttore di ricerca per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dell’organizzazione non profit Dawn (Democracy for the arab world now) e figlio del teologo riformatore Salman al Odah, detenuto da settembre del 2017 per aver pubblicato un tweet a favore della riconciliazione tra i leader di Arabia Saudita e Qatar durante il blocco contro Doha lanciato da Riyadh. Lo zio di Alaoudh, Khaled al Odah, è stato arrestato qualche giorno dopo aver denunciato la detenzione del fratello in un tweet. È accusato di averlo fiancheggiato e di aver mischiato affari pubblici e privati. “Il tema dei prigionieri di coscienza è diventato una linea rossa. Nessuno vuole toccarlo, né da vicino né da lontano. I conoscenti dei detenuti si informano sulla loro sorte in privato”, dice Malek. “Ogni volta che parlavamo del processo sui social network o sui mezzi di comunicazione arrivavano nuove complicazioni, come il rinvio delle udienze senza preavviso”, denuncia Sami, parente di un prigioniero politico. “Da allora, in attesa del verdetto, non condividiamo più nulla”. Qualcosa da perdere - Per le persone che alla fine sono state rilasciate, spesso grazie alle pressioni internazionali, la liberazione ha un sapore amaro: oltre ai traumi vissuti in carcere, restano sotto sorveglianza, e la sentenza è quasi sempre accompagnata dal divieto di viaggiare per diversi anni - una misura che si può estendere anche ai parenti - e di esprimersi pubblicamente sulla detenzione. È quello che è successo a Loujain al Hathloul e a Samar Badawi, arrestate nel 2018 per il loro impegno in favore dei diritti delle donne e liberate nel 2021. Oppure al blogger Raif Badawi, condannato nel 2012 a mille frustate per apostasia e oltraggio all’islam, e rilasciato a marzo del 2022. A febbraio Citizen lab, il centro di sicurezza informatica dell’università di Toronto, ha rivelato che il cellulare di Loujain al Hathloul era stato violato da Pegasus, il software spia dell’azienda israeliana Nso, usato negli ultimi anni da vari governi autoritari per colpire figure politiche, giornalisti e attivisti. “Molti sono più stressati quando escono dal carcere perché hanno qualcosa da perdere. Vivono in una paura costante che è difficile da gestire”, osserva Lina al Hathloul. Ufficialmente considerate terroriste, le persone scarcerate si ritrovano socialmente isolate: molte non lavorano perché nessuno vuole assumerle, alcune sono rinnegate dalle famiglie, mentre gli amici prendono le distanze. “In queste circostanze la liberazione è, in fondo, un’altra forma di prigione”, conclude Al Hathloul.