“Abolire il carcere”, il pamphlet illuminista rilancia la sfida di Federica Graziani Il Dubbio, 7 luglio 2022 Il saggio di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, è ora in edizione aggiornata con il racconto della detenzione nell’emergenza Covid. “Abolire il carcere” di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, edito da Chiarelettere, non somiglia in niente alla gran parte dei saggi italiani che circolano oggigiorno. Al posto delle dispute di scuola, l’osservazione diretta della realtà di cui si scrive. Al posto delle descrizioni scorate e orfane di pars costruens un decalogo di proposte cui manca solamente la buona volontà per essere applicate. Al posto di una sola voce, e gravata dai dettagli biografici, quattro autori che si avvicendano nei diversi capitoli in modo indistinguibile ma contribuendo ognuno con un’ottica e una professionalità sue alla tesi condivisa. Questo carattere anomalo di “Abolire il carcere” viene fuori proprio dal genere “ibrido” di cui il libro è esempio. Tra il saggio filosofico e il racconto storico, tra il reportage e il manuale d’istruzioni, tra la monografia giuridica e il libello polemico, sono tanti i fili che si possono tirare dalla lettura. E tutti quei fili precipitano intorno alla tesi, perentoria fin dal titolo, che il carcere si possa e si debba abolire, che si tratta di un orizzonte non solo auspicabile ma anche possibile. Una tesi che purtroppo si scontra con l’abito mentale che vuole la prigione come un luogo ineluttabile, innanzitutto dimostrando una verità tanto evidente quanto misconosciuta: il carcere così com’è nelle nostre società non funziona allo scopo che si prefigge: la rieducazione del detenuto e il suo reinserimento nella vita collettiva. Con le loro stesse parole: “Il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione, dal momento che quanti vi si trovano reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”. E per dimostrare quanto e come il carcere sia inutile, i quattro autori procedono lungo i capitoli del saggio con una strategia argomentativa da veri e propri illuministi. In principio sfatano il mito che il carcere sia sempre esistito, indagando la storicità della pena detentiva. Poi confrontano i differenti principi costituzionali che reggono il nostro sistema delle pene con le condizioni concrete della vita negli istituti penitenziari: con le carenze strutturali degli edifici, con la mancanza cronica di operatori qualificati e di attività risocializzanti, con la scarsità di opportunità formative e lavorative, con l’assenza di una reale presa in carico da parte dei servizi sul territorio e di percorsi individuali, con la composizione della popolazione carceraria rappresentata, per la maggior parte, da poveri, tossicomani, stranieri. E infine i quattro autori stendono il loro programma minimo di modifiche al sistema penale e penitenziario. Dieci cose da realizzare subito, dieci presupposti per un percorso di avvicinamento all’abolizione definitiva del carcere, dieci proposte concretissime che vanno dal superamento dell’ergastolo alla riduzione della carcerazione preventiva, dalle misure alternative alla detenzione fino alla soppressione della detenzione minorile. Ma non solo. Il libro, in questa nuova edizione aggiornata, contiene anche il racconto del carcere durante l’emergenza della pandemia di Covid 19. Si racconta della “mattanza della settimana santa”, dal nome dell’indagine scaturita dalle prime denunce della violenza massiccia e organizzata a opera di centinaia di agenti e funzionari di polizia penitenziaria ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vedere il 6 aprile 2020. E si racconta anche della morte di Stefano Cucchi, dei fatti di Asti, della vicenda di Rachid Assarag. È proprio in questi passaggi che il tono del libro cambia. È qui che le buone ragioni per l’abolizione ordinate fino a questo punto svelano l’urgenza etica degli autori. I quali scrivono perché vogliono rispondere alla sofferenza altrui, svelandone l’assurdità e limitandola, come possono. C’è un problema di abuso di psicofarmaci nelle carceri di Ilaria Quattrone fanpage.it, 7 luglio 2022 La morte di due detenuti in carcere a Bergamo, ha fatto riaccendere i riflettori sull’uso e l’abuso di psicofarmaci. Un problema dovuto a diverse carenze: mancanza di personale formato, adeguati spazi di socializzazione e progetti mirati su chi ne fa uso. La morte dei due detenuti, avvenuta nel carcere di Bergamo tra il 17 e il 25 giugno, ha riacceso i riflettori sull’uso degli psicofarmaci negli istituti penitenziari. In entrambi i casi è stata esclusa la morte per eventi violenti, ma è stata aperta un’indagine per appurare un eventuale abuso di tali medicinali. La gestione di persone con disturbi mentali, con tossicodipendenza o ancora con doppia diagnosi (cioè con problemi psichici e di droga), è il tallone d’Achille di molte strutture carcerarie: la carenza di personale specializzato, il sovraffollamento, l’assenza di spazi e di progetti che possano assistere queste persone ne complicano il controllo. Sbagliate le diagnosi - In Lombardia, il dottore Roberto Ranieri, responsabile Unità operativa sanità penitenziaria di Regione, ha spiegato a Fanpage.it: “Molti dei detenuti che si trovano in carcere manifestano sintomi che sembrano ricondurre a disturbi psichici, ma che non lo sono”. Ranieri spiega inoltre che “chi usa farmaci stupefacenti (metanfetamine, shaboo e altre sostanze diverse da cocaina ed eroina) spesso riporta dei disturbi comportamentali che però vengono scambiati con sintomi psichiatrici. Questo fa sì che vi sia un iper uso di farmaci anche quando non c’è una diagnosi psichiatrica”. Attualmente le persone che hanno un disturbo psichiatrico acclamato toccano il 10/15 per cento mentre coloro che soffrono di un disturbo comportamentale - che favorisce di più la detenzione - sono tra il 50 e il 70 per cento: “Questa forbice dimostra che chi fa uso di farmaci psicotropi sono perlopiù persone con disturbi comportamentali che con disturbi psichiatrici”. Gli psicofarmaci come sedativi - Per quanto non esista ancora un Osservatorio, è certo che però in Lombardia siano “più del 50 per cento i detenuti che sono in trattamento di farmaci psicotropi soprattutto nelle case circondariali. Varia anche a seconda dei periodi”. Infatti “tendenzialmente si usano farmaci soprattutto nelle case circondariali, dove viene recluso chi è in attesa di processo o ha brevi pene da scontare. Mentre negli istituti penitenziari, dove invece sono reclusi i detenuti con condanne più lunghe, l’uso degli psicofarmaci è più oculato”. Questa differenza parrebbe confermare la tendenza a utilizzare gli psicofarmaci per sedare stati di agitazione psicomotoria, probabilmente anche determinati dall’ingresso in carcere. Servono alternative - Limitare l’uso di psicofarmaci sarebbe possibile magari favorendo dei percorsi alternativi: “Nel carcere di Mantova, per esempio, hanno provato a creare una sezione free dall’uso di psicofarmaci. I centri diurni, a cui si rivolgono i detenuti con problemi psichiatrici, invece adottano strategie educative trasversali”. Proprio su questo tema nei prossimi giorni ci sarà una delibera della Regione (un finanziamento di 1 milione e 600 mila euro) che punterà ad aumentare i centri diurni per incrementarne l’attività, così da allontanare alcuni detenuti dalla dipendenza e dall’uso di farmaci. Tuttavia la riduzione di questa tipologia di medicinali potrebbe non essere facilmente accettata dai detenuti, in quanto queste sostanze diventano a loro volta oggetto di scambio. Per ridurre l’uso di questi farmaci potrebbe essere migliorata la presa in carico del paziente da parte del servizio per le tossicodipendenze: “Questi - spiega ancora il medico - hanno purtroppo il limite di prendere in carico solo i pazienti che abusano di sostanze come l’eroina o la cocaina. Purtroppo non prendono in considerazione coloro che fanno abuso di altre sostanze. Se lo facessero, potrebbero essere una valida alternativa”. Manca professionalità - La situazione non è molto diversa dal resto d’Italia. Lo psicologo Vito Michele Cornacchia, che lavora dal 1996 nel carcere di Lucca e che ha lavorato per diversi istituti penitenziari, sostiene che il problema centrale sia la diseguaglianza: “Da un carcere all’altro, ci sono differenze notevoli. Ci sono carceri in cui l’agente penitenziario accompagna l’infermiere per avere un maggiore controllo. Ci sono delle carceri in cui c’è un’importante carenza di personale”. A questo si aggiunge il problema relativo alla professionalità degli operatori: “Quando entra in carcere una nuova persona, che viene inquadrata anche da un punto di vista medico, non è detto che abbia realmente bisogno di psicofarmaci. Potrebbe avere necessità solo di colloqui con educatori e psicologi. Molte volte si offre la soluzione dei psicofarmaci per una difficoltà dell’operatore di entrare in relazione con un nuovo paziente. Si attua quindi una specie di medicina difensiva: si offrono goccine per far dormire, ansiolitici e così via. Farmaci che hanno poco a che fare con i veri bisogni di una persona”. Un altro grosso errore, in alcune circostanze, è il mancato controllo da parte degli operatori. A seconda della prescrizione, i farmaci vengono assunti mattina, pomeriggio e sera: “Ci dovrebbe essere un agente di polizia penitenziaria che controlli che questa persona ingerisca il farmaco. A volte succede che il detenuto finga di ingerirlo così da poterlo accumulare e sballarsi. Un uso massivo potrebbe portare a danni notevoli come la morte”. Il carcere come parcheggio - “La verità - aggiunge Cornacchia - è che non c’è una reale presa in carico del detenuto, ma il carcere è solamente un parcheggio”. In alcune carceri, si arriva al 70-80 per cento di persone che assumono psicofarmaci: “Il vero problema è la mancanza di spazi di lavoro e di opportunità e quindi la necessità di sballarsi per trovare un momento di festa all’interno di un ambiente dove si trova sofferenza”. “L’errore più grave nella cura del tossicodipendente è quella di togliere il metadone e passare poi agli psicofarmaci. Anche questa è una gravissima condizione che dimostra mancanza di professionalità da parte degli operatori. In questo modo si aggrava la dipendenza”. Per Cornacchia il problema relativo all’abuso degli psicofarmaci è da rimandare a diverse carenze: assenza di spazi di socializzazione, di aree lavoro, di personale formato, controlli e infine l’assenza anche di spazi dedicati a pazienti psichiatrici: “Sa che significa per una persona con problemi psichiatrici stare in una cella con altre persone?”. Forse nessuno lo sa, tranne chi lo ha provato sulla propria pelle. Legalizzare la cannabis aiuterebbe anche il sistema carcerario di Giulia Merlo Il Domani, 7 luglio 2022 Il disegno di legge che arriverà alla Camera punta a rendere legale la coltivazione fino a 4 piantine per solo uso personale e modifica l’articolo 73 del testo unico sugli stupefacenti, riducendo le pene per fatti di lieve entità. La proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis è al centro dello scontro nella maggioranza: in particolare la Lega ha fatto sapere di voler fare le “barricate” per impedire l’approvazione di quella che considera una bandiera della sinistra. Il disegno di legge che dovrebbe arrivare alla Camera è stato depositato nel 2019 dal deputato di Più Europa, Riccardo Magi, e modifica il testo unico stupefacenti numero 309/1990 e soprattutto l’articolo 73, che disciplina molto duramente il possesso e la cessione di tutti i tipi di droghe. Tanto che - secondo i dati del ministero della Giustizia - il 35 per cento dei 54mila detenuti italiani sono in carcere per reati commessi in violazione di quella legge. La proposta, sostenuta e portata avanti anche dal Partito democratico e dal Movimento 5 Stelle, prevede di rendere lecita “a persone maggiorenni la coltivazione e la detenzione, esclusivamente per uso personale, di non oltre quattro piante femmine di cannabis, idonee e finalizzate alla produzione di sostanza stupefacente, e del prodotto da esse ottenuto”. La coltivazione e l’utilizzo, però, possono essere solo personali e rimane punita la cessione del prodotto e la sua vendita. Il testo prevede l’inasprimento delle pene, invece, in caso di commercio di droghe, aumentando la pena minima passa dai 6 anni agli 8 e aumenta anche la multa. Infine, il ddl punta a ridurre le pene per la coltivazione, la vendita e la cessione di tutte le sostanze stupefacenti, nel caso in cui il fatto commesso “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la quantità delle sostanze, è di lieve entità”. Il consumo in Italia - L’obiettivo è quello di depenalizzare una serie di fatti, commessi soprattutto da giovani e giovanissimi, introducendo una maggior gradazione sulla gravità delle condotte. Inoltre, legalizzando la coltivazione ad uso personale si dovrebbe prosciugare il mercato illegale che oggi è una delle principali fonti di reddito delle organizzazioni criminali. Secondo i dati forniti con la relazione 2022 del governo al parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze, la cannabis è il prodotto più utilizzato in Italia. Il contrasto alla cannabis ha riguardato il 50 per cento delle operazioni antidroga e cannabis era il 74 per cento delle sostanze sequestrate nel 2021. Quanto alle stime sul mercato illegale, “il 44 per cento della spesa totale stimata per il consumo di sostanze stupefacenti è attribuibile proprio al consumo dei derivati della cannabis”, con una media di circa 59 dosi giornaliere ogni 1.000 abitanti. Rispetto al tipo di consumatori, i dati Espad Italia 2021 indicano che il 24 per cento degli studenti ha consumato cannabis almeno una volta nella vita e il 18 per cento di 15-19enni l’hanno usata nel corso dell’ultimo anno. Rispetto invece al tipo di consumo, si legge che “l’uso di cannabis è spesso esclusivo e si accompagna a quello di altre sostanze solamente nel 9 per cento dei casi”. Quanto alle conseguenze sanitarie dell’utilizzo, rimangono marginali: nel 2021, l’11 per cento delle persone in trattamento presso i SerD usava i cannabinoidi come sostanza primaria. In sintesi, quindi, in Italia il consumo di cannabis è diffusissimo soprattutto tra i giovani nonostante la severa legislazione in vigore. La relazione del governo - Se dal dibattito parlamentare sul disegno di legge il governo ha scelto un profilo neutrale, è la stessa relazione annuale del governo al parlamento in tema di tossicodipendenze a suggerire la necessità di modificare l’articolo 73 del Testo unico sulle droghe. La relazione non ha recepito indicazioni politiche, ma le proposte elaborate durante la Conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova nel 2021 e voluta dalla ministra Fabiana Dadone, responsabile delle politiche anti-droga. Si legge che sarebbe utile “sottrarre all’azione penale sia la coltivazione di cannabis a uso domestico, sia la cessione di modeste quantità per uso di gruppo laddove non sia presente la finalità di profitto”. Non solo, andrebbe anche superato quello che oggi è u rigido sistema tabellare per stabilire la quantità di prodotto a uso personale e quello che si presume per spaccio, “rimettendo il giudizio alla discrezionalità del giudice”. Tra le altre proposte, anche quella di “esclusione dell’obbligatorietà di arresto in flagranza e l’esclusione, in ogni caso, della previsione dell’arresto obbligatorio”. Infine, dal punto di vista della detenzione, di dare spazio all’istituto della messa alla prova e dei lavori di pubblica utilità come sanzione sostitutiva al carcere. Anche dalla relazione, dunque, emerge che l’architrave repressivo del Testo unico poggia sull’articolo 73, che produce una enorme mole di procedimenti penali e denunce, non graduando la dannosità delle condotte e quindi provocando un flusso ingestibile di detenuti e di procedimenti penali, senza tuttavia intaccare la diffusione del fenomeno. Gli effetti sul carcere - Attualmente, con una popolazione carceraria di oltre 54 mila persone (circa 6mila più del previsto, secondo gli standard pre covid), circa il 35 per cento dei detenuti si trova in carcere per reati connessi al Testo unico sugli stupefacenti, soprattutto detenzione e spaccio. Qualora la riforma venisse approvata, dunque, i primi effetti si vedrebbero sul carcere con una riduzione degli ingressi in caso di consumo personale, coltivazione e altri reati che verrebbero considerati di lieve entità. Infatti, nel 2021, il 41 per cento (12371 denunce) delle denunce per reati di droga e circa il 75 per cento delle segnalazioni per detenzione ad uso personale di sostanze stupefacenti hanno riguardato la cannabis e i suoi derivati. Tra le denunce, il 97 si riferivano a reati di traffico e di spaccio, il 2,8 ad associazione per delinquere finalizzata al traffico. Gli arrestati sono stati 7191. Il dato è pesante sui giovanissimi fino a 19 anni: quasi tutti i segnalati, infatti, lo sono stati per detenzione ad uso personale di cannabinoidi. Indirettamente ne beneficerebbe anche il sistema giustizia, oberato da arretrato e dall’enorme mole di procedimenti penali. Secondo i dati del ministero della Giustizia riferiti al 2020, infatti, la sola violazione dell’articolo 73 del Tu ha prodotto 92.875 procedimenti penali. Dap, Renoldi “buca” il 41bis. Visite anti-ergastolo ai boss di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2022 Il nuovo capo del Dipartimento ha autorizzato l’incontro con alcuni non parlamentari (Rita Bernardini & C.) in due carceri sarde. L’èra Renoldi alla direzione dell’amministrazione penitenziaria è cominciata con un permesso senza precedenti dal tempo delle stragi mafiose, da quando cioè, dopo gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (quest’anno corre il 30simo anniversario), è stato istituito il regime carcerario per boss, il 41 bis, per evitare che gli istituti penitenziari fossero ancora luoghi di libero comando mafioso a distanza. Una delegazione di non parlamentari, capitanata da Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, storica radicale, ha potuto incontrare i boss detenuti in due carceri sarde grazie a un foglio firmato dal direttore del Dap, Carlo Renoldi, scelto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, a marzo scorso, tra le polemiche delle associazioni antimafia e dei familiari delle vittime per i suoi attacchi a chi è “arroccato nel culto dei martiri”, ma tra gli applausi dei (cosiddetti) garantisti che vorrebbero abolire il 41 bis, una “tortura democratica”, sostiene Bernardini. La delegazione radicale ha ottenuto il permesso di incontrare i detenuti mafiosi durante le visite del 7 e 10 maggio nelle carceri di Sassari e Nuoro. A Sassari ci sono, tra gli altri, il boss stragista Leoluca Bagarella e il boss camorrista del clan dei Casalesi, Michele Zagaria; il boss della ‘ndrangheta Domenico Gallico. A Nuoro ci sono, tra gli altri, Francesco Guttadauro, figlio del boss e medico, Giuseppe e nipote del capomafia latitante Matteo Messina Denaro; il camorrista Edoardo Contini. Bernardini, per poter incontrare i 41 bis, aveva scritto al Dap una mail il 2 maggio in cui chiedeva di poter visitare i penitenziari di Sassari e Nuoro, senza spiegare le ragioni, in aggiunta alle carceri con soli detenuti comuni o all’alta sicurezza di Cagliari, Oristano e Tempio Pausania. Renoldi, come direttore, ha firmato un permesso a Bernardini, ai coniugi Sergio D’Elia, segretario ed Elisabetta Zamparutti, tesoriere di “Nessuno tocchi Caino” e ad altri componenti della stessa associazione. Zamparutti è anche rappresentante per l’Italia del comitato europeo per la prevenzione della tortura. La delegazione ha potuto accedere ai reparti con i detenuti mafiosi perché per la prima volta, nel foglio rilasciato dal Dap, a firma del direttore Renoldi, non c’era la solita dicitura “a esclusione della sezione 41 bis”. Quindi, il direttore, in questo caso, non ha fissato le modalità delle visite, così come si è sempre fatto in base all’ordinamento penitenziario (articolo 117), secondo il quale persone diverse da quelle che non hanno bisogno di autorizzazione (indicate dall’articolo 67) possono entrare nelle carceri con le modalità fissate dal permesso ricevuto. Fino a maggio scorso, il foglio di autorizzazione rilasciato dal Dap impediva la visita ai 41 bis. Con l’arrivo di Renoldi è stato creato il precedente: permesso “libero”. Durante gli incontri della delegazione con i detenuti, ci risulta che si sia parlato della riforma dell’ergastolo ostativo, una manna per i mafiosi in carcere, dato che possono aspirare ai permessi premio dal 2019, dopo la sentenza della Corte costituzionale e non appena il Senato approverà definitivamente la riforma, imposta dalla stessa Corte, potranno puntare pure alla libertà condizionata. Da parte di alcuni dei detenuti mafiosi ci sono state anche lamentele per mancata assistenza sanitaria. Tutte le richieste dei boss in carcere sono state annotate dalla delegazione, che a sua volta ha invitato i detenuti mafiosi a iscriversi all’associazione “Nessuno tocchi Caino”. La concessione all’associazione ha fatto rumore dentro al Dap anche perché agli interni non è sfuggito che il via libera di Renoldi alle visite c’è stato in assenza dell’allora vice capo Dap, Roberto Tartaglia, che si trovava fuori sede, in missione. Al suo rientro, appreso della scelta di Renoldi, raccontano dal Dap, pare che Tartaglia, tra i pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, non l’abbia presa affatto bene. Questa vicenda sarebbe uno dei motivi per cui la sua permanenza al Dap non sarebbe durata a lungo, ipotizzano alcuni del Dap. Tartaglia, suppongono ancora, sarebbe andato via anche se non avesse ricevuto un nuovo incarico, prestigioso, a giugno, quando è stato nominato vice capo del dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio, il Dagl. La ministra Cartabia al posto dell’ex pm antimafia di Palermo ha scelto non un altro magistrato come Tartaglia ma un alto funzionario, Carmelo Cantone, fino a giugno Provveditore regionale per il Lazio, Abruzzo e Molise, da oltre 25 anni al Dap, in perfetta linea con Renoldi. Dopo la concessione di quelle visite senza precedenti ai 41 bis, il direttore del Dap è stato ringraziato pubblicamente da Rita Bernardini in con un’intervista a Tpi: “Questo è un merito del nuovo direttore del Dap Renoldi: ci ha promesso che ci avrebbe dato questa possibilità e ha mantenuto la parola… Sono riconoscente, nel mondo del carcere queste due condizioni - insieme, per giunta - non si verificano mai”. Due settimane fa, il 21 giugno, Renoldi ha incontrato in ufficio Bernardini, D’Elia e Zamparutti. Ironia della sorte, il giorno stesso dei saluti di Tartaglia al Dap. Carceri senza sanitari, il caso dei 1.500 Oss sospesi: così i detenuti perdono il diritto alla salute di Andrea Aversa Il Riformista, 7 luglio 2022 Sono in totale 1.500, di cui 500 destinati alle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) e 1000 ai penitenziari italiani. Sono Operatori socio sanitari (Oss) assunti tramite l’ordinanza 665 della Protezione civile del 22 aprile del 2020. Lo Stato ha messo allora a disposizione per queste risorse 7.800.000 milioni di euro per due anni. Agli operatori è sato riconosciuto un compenso solidale e forfettario di circa 100 euro al giorno. La necessità di assumere altro personale è nata durante l’emergenza pandemica che ha messo in ginocchio le strutture sanitarie e soprattutto le carceri italiane. Ad oggi, nonostante una proroga ricevuta lo scorso 16 maggio con l’approvazione dell’ordinanza numero 892, valida fino al prossimo 31 dicembre, gli operatori da un mese sono stati sospesi dal servizio. In pratica 1.500 persone sono di fatto disoccupate. Questo nonostante le Asl territoriali e le amministrazioni penitenziarie delle singole carceri, tra cui quelle della Regione Campania, hanno più volte manifestato la disponibilità ad accogliere tali risorse. Si tratterebbe di forze indispensabili considerata la continua e costante emergenza di personale che caratterizza il binomio sanità-carcere. Un contesto drammatico che vede il diffondersi nei penitenziari di malattie infettive come l’hiv, l’epatite B e C e la tubercolosi. “È il classico corto circuito burocratico che spesso paralizza i processi nel nostro Paese - ha spiegato a Il Riformista Irene Testa, Tesoriere del Partito Radicale - Mi sto occupando in prima persona di questa vicenda. Si tratta di persone retribuite in modo ridicolo, come se fossero state assunte in forma volontaria. Ad oggi la pandemia non è certo finita e vista l’emergenza che c’è nelle carceri, mettere a disposizione dell’amministrazione penitenziaria nuove risorse, è un’azione fondamentale”. Avendo riscontrato alcune difficoltà nel reperire i dati relativi all’impiego degli Oss nelle carceri, riportiamo ciò che il XVIII rapporto di Antigone ha pubblicato sulla figura degli educatori per l’anno 2021. In particolare nei penitenziari italiani è attivo un organico di 733 educatori su 896 previsti. Questo vuol dire che c’è un educatore ogni 82 detenuti. Al Centro-Sud vi è un’incidenza di 79,6. Gli educatori sono figure fondamentali. Essi collaborano alla progettazione delle varie attività da condurre nelle carceri e forniscono supporto, anche sanitario, ai detenuti. Il mistero delle statistiche ha caratterizzato anche questa vicenda degli Operatori socio sanitari sospesi: “Sappiamo quali regioni hanno fatto richiesta per gli Oss - ha affermato Testa - Ma non siamo a conoscenza per quale destinazione specifica e in che numero. C’è uno stallo che blocca l’intero processo e che vede come protagonisti il Ministero del Lavoro, della Sanità e della Giustizia”. Ed è proprio con il Ministro Marta Cartabia che Testa con una delegazione di Oss ha fissato un incontro per l’inizio della prossima settimana: “Ci auguriamo che il Ministro Cartabia - ha concluso il Tesoriere del Partito Radicale - dimostri anche in questo caso tutta la sua sensibilità rispetto a tali argomenti e ci dia una mano per sbloccare la situazione”. La strategia del Dap per la sicurezza del personale di Polizia penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2022 Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria vuole delineare un vero e proprio programma che affronti la richiesta di tranquillità e sicurezza che proviene dal carcere, dal personale di Polizia Penitenziaria e dalle altre componenti professionali. Con una nota circolare, prende atto che i casi di atti di violenza ai danni degli operatori continuano a manifestarsi in varie sedi, preoccupando sia l’Amministrazione penitenziaria, sia la parte sindacale, la quale, in diverse occasioni, ha manifestato il disagio e le legittime preoccupazioni del Personale. “Siamo ben consapevoli - scrive il Dap - che le forti criticità che sta attraversando il sistema penitenziario richiedono una risposta complessiva, sistemica e articolata, che tenda a garantire condizioni di un lavoro dignitoso e al miglioramento della qualità della vita in carcere”. Sottolinea che la consapevolezza del problema, a sua volta, implica la conoscenza certa e aggiornata delle caratteristiche del fenomeno, il suo andamento nel tempo, i suoi effetti. “Soltanto con un serio quadro conoscitivo sarà possibile strutturare il programma d’intervento”, annota il Dap, evidenziando che l’aumento di soggetti detenuti portatori di patologie psichiatriche o affetti da disturbi comportamentali, e comunque classificabili come ad alto indice di pericolosità, costituisce un elemento importante della questione. Ma è solamente uno dei dati necessari per poterla affrontare. L’intenzione di Carlo Renoldi, il capo del Dap, è quella di costituire un sistema di raccolta e elaborazione dei dati relativi che consenta, al di là della semplice registrazione degli episodi, uno studio puntuale e utile per la definizione della strategia da porre in essere. Un percorso che, con i dovuti confronti interni ed esterni, secondo il dipartimento deve essere tracciato secondo le seguenti direttrici: individuare le Direzioni maggiormente colpite dal fenomeno; analizzare, con il coinvolgimento dei Provveditori e dei Direttori, le cause e le possibili soluzioni; varare un programma di addestramento che aiuti il Personale, prioritariamente in ordine di incidenza del fenomeno, a evitare di correre rischi nel corso degli inevitabili contatti professionali con la popolazione detenuta; dotare il Personale delle attrezzature fondamentali per operare in sicurezza quando si deve intervenire per bloccare soggetti che si sono resi responsabili di azioni violente, magari compiute con strumenti rudimentali atti a offendere (si vuole ricordare che sono ormai prossime all’acquisizione, a conclusione delle relative gare, diverse forniture di materiale, tra le quali 20.000 guanti antitaglio, 8.500 caschi antisommossa, 2.000 sfollagente e 2.000 kit antisommossa). Tali attrezzature, una volta acquisite, saranno assegnate, in maniera calibrata, a tutti gli Istituti penitenziari. Non solo. Altra direttiva è quella di garantire un addestramento all’uso delle dotazioni in parola, direttamente nelle sedi, il quale dovrà essere accompagnato da un forte investimento sulla Formazione, che intendiamo realizzare attraverso la previsione di protocolli operativi nella gestione degli eventi critici, che sappiano offrire agli Operatori adeguate coordinate circa il ricorso a tecniche di negoziazione e sull’uso legittimo della forza. La nota circolare specifica che quanto illustrato è, evidentemente, parte di una programmazione degli Istituti che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria vuole portare avanti, ma che il Renoldi intende rappresentare alle Organizzazioni sindacali al fine di aprire una stagione di lavoro congiunto e partecipativo sulla qualità della vita e dell’ambiente lavorativo negli Istituti penitenziari. Mamme detenute e bambini. Apg23: una testimonianza di una casa-famiglia di Gigliola Alfaro agensir.it, 7 luglio 2022 È la seconda volta, in una decina di anni, che Maria Rossi, nome di fantasia, ospita nella sua casa-famiglia una donna che deve ancora finire di pagare il suo debito con la giustizia ma che ha un figlio con sé. “È un’esperienza faticosa ma bella”, ci racconta. A fine maggio la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge volta ad ampliare la tutela dei figli minori di genitori soggetti a una misura detentiva, attraverso l’esclusione del ricorso al carcere e la valorizzazione dei cosiddetti Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Il provvedimento deve ora avere il via libera definitivo al Senato. La Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) è da anni impegnata a denunciare la presenza in carcere di “bimbi reclusi” con le loro madri e a promuovere pene alternative alla detenzione per mamme e bambini. L’approvazione della proposta di legge alla Camera, aveva commentato al Sir il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, “è un primo passo fondamentale perché viene riconosciuta la dignità del bambino, che insieme alla sua mamma, che evidentemente ha compiuto dei reati, possa rimanere nel legame di relazione madre-figlio, ma al di fuori della struttura carceraria, accompagnato in un percorso di accoglienza nelle case famiglia o nelle comunità che hanno anche la competenza di sostenere un processo educativo della mamma nei confronti del bambino”. E noi abbiamo raccolto la testimonianza di Maria Rossi - nome di fantasia, per tutelare le persone che accoglie - che proprio a fine maggio ha riaperto le porte della sua casa famiglia, appartenente alla Comunità Papa Giovanni XXIII, a una mamma detenuta con un bimbo, dopo una prima esperienza alcuni anni fa. “La nostra famiglia è composta da noi genitori, quattro figli, tre naturali e uno in affido, e un’anziana disabile - racconta al Sir Maria Rossi - e già sette/otto anni fa abbiamo accolto una donna da un carcere romano, dove aveva scoperto di essere incinta. La donna soffriva di crisi epilettiche e ci è stata segnalata, così noi come Comunità ci siamo adoperati per accoglierla. È uscita dal carcere un mese prima del parto ed è stata ospitata prima in una comunità per adulti, per tre/quattro mesi. Da noi madre e figlio sono stati due anni. È stata un’esperienza molto bella. Ci ha detto di essere innocente e che era stata incastrata, come in realtà affermano tutti quelli che stanno in carcere, ma forse era vero: era una persona colta e capace di relazionarsi con gli altri, discreta, dava una mano in casa, disponibile con la signora anziana disabile e affidabile. Il bambino era meraviglioso e in quel periodo avevo una bimba in affido della stessa età: sono cresciuti come fratelli, erano i più piccoli di casa”. Maria ci tiene a evidenziare: “Questo bimbo ha vissuto in un contesto familiare piuttosto che in un carcere e la mamma, agli arresti domiciliari, pur dovendo seguire tutte le sue prescrizioni, è riuscita a curarsi. Educativamente era una brava mamma e non solo con il suo: anche rispetto ai miei figli sapeva porsi in forma educativa. Siamo restati in contatto per un po’ di tempo, l’anno scorso ci ha mandato le ultime foto del bambino”. Secondo Rossi, “da questa esperienza si può trarre la lezione che è giusto che le persone scontino la loro pena, ma è controproducente lasciarle in carcere in condizioni precarie, dove possono accumulare più rabbia. Nell’esperienza in casa famiglia, con tutte le giuste limitazioni del caso, c’è la possibilità di guardare con più serenità alla propria vita e ai propri errori, di dare una mano ripagando il proprio debito e spendendosi per aiutare gli altri, in un rapporto di mutuo aiuto, di essere privati della libertà sì, ma in una forma accettabile, senza accumulare frustrazione”. Maria non si nasconde: “L’accoglienza è sempre faticosa, ma ne vale la pena, questo ci ha spinto come famiglia ad aprirci”. Dopo questa prima esperienza la famiglia Rossi, a fine maggio, proprio mentre la Camera approvava la proposta di legge “Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, ha aperto di nuovo le sue porte a una donna, questa volta con un figlio di due anni. “A più riprese, ha già scontato tredici anni di carcere. Ha una storia molto difficile alle spalle, con tanta sofferenza vissuta sulla sua pelle sin da giovanissima, anche per la violenza subita. Il bambino è nato in un periodo in cui non era in carcere e per un periodo è stato affidato a una parente. Poi la signora ha chiesto il ricongiungimento con il figlio ed è stata trasferita in un Icam”. Maria si confida: “Quando è arrivata da noi, l’impatto non è stato semplicissimo perché faceva confronti tra la casa famiglia e l’Icam, dove ci sono spazi, come la saletta giochi, e tempi pensati proprio per i piccoli, ma io le ho spiegato che qui il bambino crescerà in una famiglia dove le persone cercano di volersi bene. E i giochi per il bambino non sono in una saletta apposita, è vero, ma nella stessa stanza che condivide con il figlio. Poi man mano si è aperta e ha raccontato che di sua stessa iniziativa non andava in questa saletta giochi perché spesso le mamme litigavano tra loro”. Qui, ribadisce Rossi, “invece c’è la possibilità di crescere un figlio, che non ha alcuna colpa, in un contesto familiare e tutelante. Il bimbo può andare al mare o a far la spesa, avere una vita normale”. Ora, conclude Maria, “la donna cerca di relazionarsi con noi, dare una mano, per esempio se non ci sono in casa prepara il pranzo, mi aiuta a pulire. È una mamma adeguata e rispettosa nei confronti del figlio”. Sarà un’accoglienza breve, perché finirà presto di scontare la pena, ma che offre la possibilità “di assaporare una vita normale, serena”. Emergenze di ogni tipo, e quella della giustizia? di Valter Vecellio lindro.it, 7 luglio 2022 Archiviati i referendum che non hanno raggiunto il quorum necessario, sulla giustizia (e sul suo epifenomeno le carceri), è calato il silenzio di sempre. Si accenda la televisione, si acquisti un qualsivoglia giornale: sotto i nostri occhi scorrono emergenze di ogni tipo, frutto di anni di incuria, trascuratezza, pessima gestione della cosa pubblica: montagne come la Marmolada che fanno strage di escursionisti; la siccità che mette in crisi il nostro modello di vita; la pandemia che continua a diffondersi e contagiare ogni giorno sono almeno cinquanta i morti. Non parliamo del conflitto in Ucraina: solo ora si è scoperto il volto di Putin e dei suoi sodali; quello che accade in Libia, gli stupri e le violenze alle donne, spesso uccise dai loro ex compagni. Non c’è notiziario radio televisivo o giornale che non ne parlino o ne scrivano. Una sola emergenza continua a essere bellamente e tranquillamente ignorata, come se non esistesse, come se non producesse ogni giorno i suoi velenosi frutti. Se ne è parlato poco e male per qualche giorno prima del voto del 12 giugno. Archiviati i referendum che non hanno raggiunto il quorum necessario, sulla giustizia (e sul suo epifenomeno le carceri), è calato il silenzio di sempre. Eppure la situazione è a dir poco drammatica. L’Associazione Antigone ha elaborato i dati ufficiali forniti dal Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria per quello che riguarda il sistema penitenziario romano. Ne emerge un quadro desolante: “Mancano gli educatori, i direttori, i mediatori culturali, e di conseguenza mancano anche le attività trattamentali per i detenuti. Assistiamo anche a uno stravolgimento degli istituti penitenziari, con centinaia di condannati in via definitiva reclusi in case circondariali come Regina Coeli, dove non dovrebbero stare. E poi c’è il sovraffollamento, che rimane una costante. Fino a poco tempo fa avevamo i commissariati pieni di persone in attesa di essere portate in carcere, dove non c’era posto”, racconta Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma. Il sovraffollamento rimane una emergenza costante. Nell’area metropolitana di Roma sono presenti otto istituti penitenziari: i quattro di Rebibbia (la casa circondariale “Raffaele Cinotti”, il carcere femminile “Germana Stefanini”, l’istituto a custodia attenuata “Rebibbia terza casa” e la casa di reclusione) e la casa circondariale di Regina Coeli a Roma, due a Civitavecchia (la casa circondariale “Nuovo complesso” e la casa di reclusione “Giuseppe Passerini”) e uno a Velletri. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, cinque di queste carceri sono sovraffollate e ospitano quindi molti più detenuti del dovuto. Regina Coeli, ad esempio, avrebbe posto per 615 detenuti, ma ne ospita ben 943, con un tasso di affollamento pari al 153,3 per cento. Oppure a Civitavecchia, 357 posti ufficiali, 311 effettivi, 454 detenuti. Non va meglio nel resto d’Italia. In Lombardia, per esempio: si registra un tasso di sovraffollamento pari al 130 per cento, con picchi a Lodi, dove si raggiunge il 172 per cento: significa 75 detenuti per 45 posti; a Brescia 316 detenuti per 189 posti; Busto Arsizio 401 detenuti per 240 posti; Como 372 detenuti per 240 posti; Monza 621 detenuti per 411 posti. Per il garante dei detenuti lombardo “la maggiore criticità è costituita dalla grave carenza di assistenza psichiatrica. Nelle carceri lombarde una quantità di detenuti sono dichiarati incapaci di intendere e di volere e per questo dovrebbero essere destinati alle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza; che però sono sempre piene, e dunque i detenuti in attesa che si liberino dei posti restano in carcere. “La maggiore criticità attuale in tutte le nostre carceri”, dice Francesco Maisto, garante dei detenuti del comune di Milano, “è rappresentata dalla grave carenza di assistenza psichiatrica. In relazione a ciò abbiamo segnalato all’Assessorato regionale alla Sanità il problema della presenza di tanti casi fragili presso gli Istituti penitenziari”. Degli oltre 500 casi trattati dal Garante milanese in base alle segnalazioni ricevute in questi tre anni, uno su quattro riguardavano proprio problemi di salute tra le sbarre. Se a ciò si aggiunge la presenza, nei penitenziari della Regione, di un certo numero di detenuti non capaci di intendere e di volere destinati alle Rems (le residenze che hanno istituito gli ospedali psichiatrici) che però sono sempre piene, si comprende meglio l’esplosiva realtà delle celle. Poi il quotidiano, drammatico, bollettino dei suicidi; gli ultimi: a Bari un trentenne si impicca nella sezione psichiatrica dopo qualche ora dall’arresto; a Parla un detenuto muore in arresa della semilibertà perduta per un errore giudiziario; a Como un trentottenne si toglie la vita, era stato arrestato lo scorso aprile; un altro suicidio nel carcere di Genova; un elenco interminabile. Se non è un’emergenza questa. Ingiuste detenzioni: si riparte dalla proposta Costa di Valentina Stella Il Dubbio, 7 luglio 2022 Ripresa due giorni fa in Commissione Giustizia della Camera la discussione della proposta di legge a prima firma Enrico Costa, vice-segretario di Azione, sul tema delle ingiustizie detenzioni. La pdl si pone due obiettivi. Il primo: modificare l’articolo 315 del codice di procedura penale “prevedendo che la sentenza di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione sia trasmessa agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati, per le valutazioni di loro competenza”, ossia al Procuratore generale di Cassazione e al Ministro della Giustizia. Il secondo: modificare il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, inserendo tra gli illeciti disciplinari dei magistrati il fatto “di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione”. La proposta di legge - relatore il forzista Pierantonio Zanettin - era stata presentata a maggio 2020 e ricalca il testo di un’altra pdl respinta dall’Assemblea della Camera il 2 luglio 2019. La premessa dalla quale parte Costa è che dinanzi alle nefaste conseguenze sul piano personale, professionale, familiare e sociale di una ingiusta detenzione non può essere “ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi)”. Pertanto, si legge nella relazione della pdl, “se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare”. Ieri ci sarebbe dovuto essere l’Ufficio di Presidenza per fissare il termine per la presentazione degli emendamenti ma è stato tutto rinviato perché in Aula è stata posta la questione di fiducia sul decreto aiuti. In nome dell’antimafia hanno massacrato lo Stato di diritto di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 7 luglio 2022 La denuncia delle Camere penali è sacrosanta, la giusta lotta alla ‘ndrangheta è diventata il pretesto per erodere i diritti. È una vera strategia della tensione. Le camere penali calabresi hanno proclamato l’astensione dal lavoro per il 14 e 15 luglio in quanto ritengono che in Calabria non ci sia la più possibilità di esercitare la professione di penalista essendo venuti meno i presupposti su cui si fonda uno Stato di diritto. Normalmente quando pensiamo ad un Stato in cui non esistono più le garanzie fondamentali dei cittadini ci viene in mente il Cile di Pinochet, la dittatura argentina o, in tempi più recenti, la Turchia di Erdogan o la Russia di Putin. In Italia esistono certamente pericoli per la democrazia, provenienti soprattutto dallo strapotere di alcune corporazioni che operano all’interno dello Stato, ma, fortunatamente, al potere non ci sono i “colonnelli”. In Calabria non siamo ai colonnelli ma a qualcosa che se non è molto somiglia. Andiamo con ordine: Trenta anni fa la ndrangheta era una organizzazione barbara e sanguinaria che si era appena lasciata alle spalle l’odiosa stagione dei sequestri di persona e che aveva messo a ferro e fuoco la Regione con le ricorrenti guerre di mafia. Era ancora solo una setta criminale odiata e sostanzialmente isolata in Calabria più che altrove. In quel momento storico lo Stato avrebbe potuto e dovuto circondarla e sradicarla dal territorio calabrese ed invece ci fu ‘chi’ operando dall’interno dell’apparato statale riuscì a convincere tutti (o quasi) che per sconfiggere la ndrangheta sarebbe stato necessario sacrificare lo Stato di diritto. Iniziò la stagione della pesca con le reti a strascico. Tutte sostanzialmente fallite dopo lacrime, sangue e galera imposte a migliaia di cittadini innocenti. Per i nuovi “strateghi” dell’antimafia importante non era sconfiggere la ndrangheta ma dare la sensazione che si stesse combattendo una titanica lotta di pochi eroi contro orde di assassini. In poco tempo si è allestito con sapiente regia un teatro: sirene spiegate nel cuore della notte, foto sui giornali, arresti di massa, attacco al cuore della democrazia elettiva con scioglimenti a catena dei consigli comunali e criminalizzando ogni voce critica con il “dire e non dire” e sostituendo le prove processuali con categorie impalpabili come l’appartenenza alla “zona grigia” o il “reato” di parentela o di amicizia. “Facimmu ammuinu” fu la parola d’ordine ed ammuino fu fatto. E fu un gioco da ragazzi persuadere i cittadini perbene ed in buona fede sulla necessità di scegliere tra ‘ndrangheta e barbarie’ da una parte e ‘libertà, dignità giustizia’ dall’altra. Molti calabresi credettero nella buona fede degli antimafiosi di professione ed oggi si trovano a dover convivere con una ndrangheta cento volte più ricca e potente rispetto a trenta anni fa, e con un apparato repressivo più i più oppressivi del Mediterraneo. Non ci credete? Due soli esempi: ieri s’è concluso il processo “bellu lavuru” che ha preso le mosse 15 anni fa tra squilli di tromba e suono di fanfara. Una retata con decine di arrestati in una sola notte e che veniva propagandata come un duro colpo alla ndrangheta. Ieri la sentenza: dei diciannove imputati ben quindici sono stati riconosciuti innocenti, quattro condannati. Meno del 20%. Alla fine della fiera ci troviamo con 15 persone tenute per tanto tempo nelle sezioni di massima sicurezza delle galere e oggi risultati estranei ad ogni sodalizio mafioso. Meno grave ma più significative le motivazioni pubblicate nei giorni scorsi sui motivi che hanno portato allo scioglimento del consiglio comunale di Portigliola, nella Locride. Il sindaco, gli assessori, i consiglieri comunali sono tutti incensurati. Nessuno è stato mai processato e tantomeno ha ricevuto una condanna. Ma spunta qualche rapporto di polizia che non riguarda direttamente gli amministratori di Portigliola ma loro parenti o amici. Ebbene il rapporto di polizia ha più valore delle sentenze. Alla luce di quanto abbiamo appena detto vi domando: la Calabria è o non è uno Stato di polizia anche se non vige il coprifuoco e non ci sono militari ad ogni crocicchio? La velenosa equazione “ndrangheta = Stato di diritto” s’è dimostrata falsa ed interessata ed ha prodotto solo “giustizia spettacolo” con un sistematico sacrificio di innocenti, il crollo della qualità dell’impegno politico con il progressivo emergere di una classe “politica” serva e subalterna ai nuovi poteri, uno spreco di pubblico denaro che se impiegato diversamente avrebbe potuto dare sollievo ai tanti ammalati calabresi. Intanto però lo Stato ha perso gran parte della sua base sociale perché nessuno è disposto a riconoscere la legittimità d’uno Stato che non rispetta le sue stesse regole. Rispetto a tutto ciò le Camere penali hanno deciso due giorni di astensione dal lavoro. Un notevole passo avanti anche se tradivo e forse insufficiente. Il “blocco d’ordine” (e di potere) difficilmente mollerà la presa. E comprende perfettamente che per non far scoprire il gioco deve alzare la posta attraverso la strategia della tensione che come un Moloch insaziabile si alimenta con nuove retate, manifestazioni insensate, processi-spettacolo, misure di prevenzione comminate col massimo arbitrio. I penalisti con la loro azione hanno rotto un muro di silenzio e con la loro azione possono far da lievito per la formazione d’un blocco democratico che coinvolga i cittadini e faccia luce sulla realtà d’una Regione tenuta alla catena e senza luce per tanto tempo. Noi ci abbiamo provato per decenni e, spesso, in perfetta solitudine. Una lotta di civiltà che va molto oltre la giustizia e che abbiamo combattuto con tutte le nostre forze pur sapendo di non poter vincere. Stefano Musolino: “Da parte di noi toghe nessuna deriva autoritaria” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 luglio 2022 “Contro la magistratura calabrese slogan e giudizi ingiusti”. Stefano Musolino, pubblico ministero alla Procura di Reggio Calabria e Segretario di Magistratura democratica, commenta al Dubbio il durissimo documento emanato da tutte le Camere penali calabresi per annunciare l’astensione di due giorni della prossima settimana. Stefano Musolino, pubblico ministero alla Procura di Reggio Calabria e Segretario di Magistratura democratica commenta al Dubbio il durissimo documento emanato da tutte le Camere penali calabresi per annunciare l’astensione di due giorni della prossima settimana. I penalisti calabresi hanno lanciato un grido di allarme. Secondo loro ‘l’andamento della giurisdizione nei Distretti giudiziari della Calabria segna un inarrestabile trend recessivo, con costante erosione dei principi fondamentali dello Stato di diritto e del garantismo penale’. Che ne pensa di questo quadro? Credo che il documento rappresenti un’occasione persa, perché a fatti che meritano un approfondimento si associano fattoidi, slogan, e giudizi ingiusti e ingiustificati nei confronti della magistratura calabrese, esponendola al pubblico ludibrio. Tutto questo non agevola il confronto con l’avvocatura che pure come magistratura sosteniamo. Le faccio un esempio. Prego... Non so cosa avviene negli altri distretti, ma a Reggio Calabria ho partecipato personalmente a degli incontri per la formazione di protocolli di gestione delle udienze per venire incontro alle esigenze del foro, ai quali hanno partecipato anche le Camere penali e il Consiglio dell’Ordine. Da noi il confronto è sempre aperto: per questo siamo rimasti molto stupiti da questa modalità così faziosa e oppositiva di agire delle Camere penali. Come Magistratura democratica siamo stati gli unici a guardare in termini propositivi alla partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità e alcuni dei fatti segnalati possono essere significativi, se veri, a quello scopo. Tuttavia, presentare le questioni nei termini e nei modi scelti dal Coordinamento delle Camere Penali calabresi offre seri argomenti a chi sostiene che l’avvocatura è troppo faziosa e chiusa per svolgere adeguatamente quel ruolo. I penalisti criticano aspramente la vicenda degli “appelli cautelari”: l’Avvocatura ha appreso, accidentalmente, della illegittima corsia preferenziale riservata (con circolare interna!) alle impugnazioni del requirente; una prassi “esclusiva” pensata e voluta dall’allora Presidente facente funzioni del Tribunale del Riesame di Catanzaro... Se fosse vero bisognerebbe intervenire. So per certo che a Reggio Calabria non è così e non riesco a immaginare una ragione per un trattamento differenziato della calendarizzazione degli appelli del pubblico ministero rispetto a quelli dei difensori. Questo è uno di quei fatti che, se veri, giustificano l’apertura di un tavolo di confronto e verifica. Le Camere penali sostengono che la Calabria detiene il record di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni. Questo è un fatto, non un fattoide... Alcune Corti di Appello, come quella di Reggio Calabria, hanno alacremente lavorato su questi numeri. Nell’ultimo periodo hanno aggredito l’arretrato e consegnato i numeri relativi ai nostri distretti che poi vengono utilizzati per elaborare le statistiche nazionali. Per cui i numeri che leggiamo non riguardano un ristretto arco di tempo, ma più anni. Poi non c’è dubbio che fronteggiando la ‘ ndrangheta abbiamo un numero di processi con imputati in custodia cautelare che non si registra in altri posti d’Italia. Non dimentichiamo infine gli effetti prodotti da alcuni mutamenti giurisprudenziali come quello affermato, ad esempio, dalle Sezioni unite “Cavallo” che ha disposto il divieto di utilizzazione di intercettazioni disposte in procedimento diverso. E comunque questo è un altro tema su cui aprire un tavolo di confronto che noi non abbiamo mai negato. Anzi, alcuni di questi temi all’interno di Magistratura Democratica li abbiamo sollevati prima ancora delle Camere Penali. Per i penalisti ‘la deriva autoritaria non ha risparmiato neanche l’esecuzione penale’... Attribuire alla magistratura l’avere determinato una deriva autoritaria è una accusa gravissima, volta a denigrare l’interlocutore con uno slogan privo di riscontro. Noi riteniamo che la critica ai provvedimenti giudiziari e ai comportamenti dei magistrati sia un fattore di arricchimento della nostra indipendenza ma non quando questa stessa critica è formulata in termini così spregiativi e faziosi. Però a un detenuto di media sicurezza è stato impedito di vedere la madre morente. Intervenuto il decesso l’unica risposta è stata la videochiamata nella bara... Non si può da un singolo caso, ove positivamente verificato, trarre un giudizio così squalificante per tutta la magistratura calabrese. Gli avvocati denunciano altresì: ‘stiamo assistendo a una mutagenesi del diritto penale (il “più terribile dei poteri pubblici”), trasformato da argine alla pretesa punitiva dello Stato leviatano a strumento di “lotta sociale”, con conseguente arretramento della storia della civiltà giuridica nel nostro territorio’... È un’altra espressione gravissima. A chi staremmo facendo la lotta sociale? E contro quale altra categoria? Siamo dinanzi all’ennesimo slogan fumoso che mi lascia davvero senza parole. Un altro campo minato è il sistema della prevenzione che decide la morte aziendale delle imprese sane... Credo che abbiamo ancora un problema, nonostante gli ultimi interventi legislativi, nella prevenzione cosiddetta amministrativa, parlo delle interdittive antimafia e dei provvedimenti di scioglimento dei Comuni. Mentre quella giurisdizionale funziona e funziona bene anche al fine di attenuare gli effetti deleteri di quella amministrativa, in particolare con l’istituto del controllo giudiziario volontario. Area Dg ha chiesto al Csm una pratica a tutela per i magistrati calabresi. Si risolve così la situazione o rafforzando il dialogo tra avvocatura e magistratura... Quella richiesta è sbagliata. A fronte di un errore della Camere penali si risponde con un altro errore che tende ancora una volta a creare contrapposizioni. Creare fazioni che si contrappongono non è il modo giusto per risolvere i problemi della giustizia calabrese. Il Csm invece dovrebbe farsi carico ad esempio delle reali disomogeneità tra il numero effettivo dei magistrati della magistratura requirente e quelli della giudicante. Questo punto è spiegato male nel documento dei penalisti ma è un segnale di allarme vero, perché incide sulla qualità del prodotto giurisdizionale, esponendo i Giudici dei distretti calabresi a carichi di lavoro e di responsabilità che non hanno paragoni nel confronto nazionale. La rabbia di Fiammetta Borsellino: “Non andrò alle celebrazioni ufficiali” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 luglio 2022 “Lo Stato non ci ha detto la verità. Si è fatto un lavoro opposto su questo barbaro eccidio”. E poi attacca Ilda Boccassini: “Se aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino, doveva fare una denuncia pubblica”. Ci sono due date nei prossimi giorni che non potranno essere dimenticate: il 19 luglio, perché saranno trent’anni da quando è stato assassinato Paolo Borsellino, e il 12 luglio, perché una sentenza potrebbe produrre un pezzetto di giustizia sul più grande depistaggio di Stato, la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino. È tornata alla carica in questi giorni Fiammetta, combattiva figlia del magistrato vittima della mafia, che ha le idee molto chiare sulle responsabilità, ed è chiaro che quando parla di “uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio”, il suo pensiero non va a quei tre poliziotti, di cui due ormai in pensione, che rischiano la condanna per calunnia nell’aula del tribunale di Caltanissetta. La famiglia Borsellino non andrà alle celebrazioni ufficiali. Ci asterremo, ha detto Fiammetta in occasione della presentazione di un libro su suo padre, “…fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità: nonostante tutte queste celebrazioni si è fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio”. Non salva nessuno, la figlia del magistrato, anche se la catena è lunga. Non assolve nemmeno l’ex pm “antimafia” Ilda Boccassini, la prima tra i magistrati che operarono in quegli anni in Sicilia (fu applicata per due anni a Caltanissetta, dopo le stragi di mafia, dal 1992 al 1994) ad avanzare dubbi sulla genuinità delle parole di Scarantino. Aveva lasciato una relazione scritta al procuratore capo Tinebra, prima di tornare a Milano. A Fiammetta Borsellino questo non basta: “Io dico che se la Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo. La Boccassini è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino a Pianosa e poi si è saputo che servivano a fare dire il falso a Scarantino con torture e minacce”. La ex pm, conclude la figlia del magistrato, non avrebbe dovuto limitarsi a una “letterina”. Perché avrebbe potuto far esplodere il caso. Forse. O forse no, visti i tempi. Già, i tempi. La fila delle responsabilità è lunga, dovrebbe partire da quegli agenti di polizia penitenziaria che fisicamente furono addosso tra il 1992 e il 1993 ai detenuti, mafiosi e non, deportati nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. E poi quegli altri che tramite i colloqui investigativi si attivavano per costruire il “pentitificio” che avrebbe consentito a questori, capi di polizia, magistrati e governi di risolvere i “casi” delle stragi di Cosa Nostra. Le uccisioni di Falcone e Borsellino e tutte le altre, in modo da chiudere in bellezza (si fa per dire) un’intera storia. Con le leggi speciali, i colloqui investigativi senza controlli e qualche capro espiatorio da tenere in galera a vita. Non Totò Riina e gli altri boss, perché erano tutti latitanti. Se il 12 luglio prossimo Mario Bò, l’ex capo del gruppo di indagine Falcone- Borsellino e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, imputati a Caltanissetta per calunnia aggravata, dovessero essere condannati, forse si sarebbe raggiunto un pezzetto di giustizia. Il pubblico ministero Stefano Luciani ha usato parole durissime, prima di chiedere le condanne rispettivamente a undici anni a dieci mesi al primo e nove anni e mezzo agli altri due. Non saremo noi a chiedere per loro più carcere, per una severità che somiglia tanto alle famose lacrime di coccodrillo. Perché, anche a voler partire dalla coda, dovremmo chiamare a processo dei fantasmi, prima di tutto. Cioè coloro che, obbedendo a ordini o a “suggerimetta, menti”, ha messo le mani su quei corpi reclusi, ha picchiato e torturato, ha messo vermi e pezzetti di vetro nelle minestre ed è arrivato a terrorizzare eseguendo persino le finte esecuzioni. Nessuno è sul banco degli imputati per questi reati, quelli che, attraverso i colloqui investigativi, hanno costruito il falso pentito. Ci sono solo le calunnie, dopo che un “pentito” vero, Gaspare Spatuzza nel 2017 ha dato una verità più credibile sulla strage di via D’Amelio, facendo anche liberare otto innocenti dopo quindici anni di carcere ingiusto. Ma dovrebbero esserci anche ben altre responsabilità. Risalendo nella piramide, troviamo il questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che fece una brillante carriera dopo aver collaborato a “risolvere” il tragico caso della morte di Borsellino. Lui non c’è più, ma anche se fosse sopravvissuto al disvelamento di questo scandalo, difficilmente si troverebbe sul banco degli imputati. Perché avrebbe trascinato con sé un bel po’ di persone. A meno che non vogliamo pensare che un questore e un po’ di poliziotti abbiano potuto costruire il più grande depistaggio della storia degli ultimi trent’anni, quasi un colpo di Stato, all’insaputa della magistratura. Qui entra in scena un altro personaggio, ormai deceduto da vent’anni, il procuratore capo di Caltanissetta, il regista delle indagini sulle morti di Falcone e Borsellino, Giovanni Tinebra. Di lui Ilda Boccassini dice che le avrebbe impedito di prolungare la sua permanenza in Sicilia per poter smascherare le falsità di Scarantino. Certo è che, come dice la figlia del magistrato, forse la pm avrebbe potuto insistere, denunciare, strillare. Lo ha fatto con molto ritardo, da testimone al processo contro i poliziotti nel 2020, raccontando anche che il falso pentito si chiudeva per ore nell’ufficio del procuratore Tinebra, prima o dopo gli interrogatori. Che venivano svolti dai pm di Caltanissetta Annamaria Palma, Carmelo Petralia e il giovane Nino Di Matteo. Tutti usciti (il giovincello non è stato mai neppure indagato, avendo svolto un ruolo minore) freschi e puliti dalle indagini con le archiviazioni perché, disse il giudice di Messina, non c’erano le prove che avessero partecipato o diretto il depistaggio. Una storia da far scoppiare il cervello. È mai possibile che un ragazzotto tossicodipendente e frequentatore di prostitute trans fosse il tipo più affidabile per i boss di Cosa Nostra, tanto da essere incaricato di procurare un’auto e imbottirla di tritolo per uccidere il nemico numero uno della mafia? Enzino della Guadagna, lo ricorda ancora Fiammetta Borsellino, non era neanche capace di aprire la porta di quel garage dove diceva di aver tenuto l’auto. E poi, nessuno tra i capi e neanche i livelli intermedi dell’organizzazione mafiosa lo conosceva. Possibile, possibile che quei magistrati fossero tutti cretini, oltre che ingenui e sprovveduti? Ma c’è dell’altro. Perché, dopo che era stata resa pubblica la lettera in cui la moglie di Scarantino accusava esplicitamente Arnaldo La Barbera di far torturare suo marito per trasformarlo in “pentito”, si mossero alti vertici dello Stato a costruire un bel cordone sanitario intorno al questore. Ma anche intorno al falso pentito. Fu Giancarlo Caselli, procuratore di Palermo, a prendere l’iniziativa di una conferenza stampa, accompagnato dal procuratore generale e dal prefetto. Le massime autorità di Palermo in quell’occasione difesero l’onore di La Barbera, ma anche l’autenticità di Scarantino. Disinformati in buona fede? Mah. Ciliegina sulla torta, nella piramide delle responsabilità, quando meno politiche, l’ex procuratore generale della cassazione Riccardo Fuzio, cui le figlie di Paolo Borsellino avevano scritto una lettera in cui venivano circostanziati fatti e misfatti degli uomini delle istituzioni e che tenne lo scritto nel cassetto per un anno, lamentando poi ipocritamente di non poter fare niente solo alla vigilia delle sue forzose anticipate dimissioni dopo il “caso Palamara”. Il Csm infine, come raccontato proprio dall’ex capo delle spartizioni di carriera tra le toghe nel suo secondo libro. Il Consiglio superiore della magistratura (cui si era rivolta Fiammetta Borsellino), che finse di impegnare i suoi migliori uomini della prima commissione, quella che tratta le azioni disciplinari, sulle responsabilità di qualche magistrato. Ce ne siamo infischiati, dice con sincerità Luca Palamara, abbiamo “fatto ammuina”. Non interessava sapere se qualche toga avesse sbagliato. Ecco perché le eventuali celebrazioni di Borsellino del 19 luglio, cui la famiglia giustamente non parteciperà, saranno solo una presa in giro. E l’eventuale condanna di tre poliziotti per calunnia, sarebbe solo un pezzetto di giustizia. Caso Lucano, l’asso della difesa: “Silenziata un’intercettazione” di Simona Musco Il Dubbio, 7 luglio 2022 Disposta la riapertura dell’istruttoria dibattimentale in appello. I legali depositano una lunga conversazione che “avrebbe potuto cambiare le sorti del processo”. Quattro intercettazioni trascritte male, una totalmente mancante. E poi, un documento che avrebbe smentito un’ipotesi di peculato e che per il Tribunale di Locri non era stato allegato dalla difesa e che invece era lì, come dimostrato dagli atti depositati alla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Il processo d’appello a Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per la gestione dell’accoglienza nel piccolo paesino dei bronzi, è partito così, con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, disposta dal collegio presieduto da Giancarlo Bianchi. A chiederlo erano stati i difensori di Lucano, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia - con il parere favorevole dei sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari - che hanno depositato anche un parere pro veritate di 50 pagine stilato dal consulente Antonio Milicia. Un documento che contiene la nuova trascrizione delle intercettazioni - compresa quella “silenziata” durante il processo di primo grado - e corredato da un cd con gli audio di quei dialoghi. La prova più importante è proprio l’intercettazione finora non presa in considerazione, capace, secondo i legali, di “cambiare le sorti del processo”. Si tratta di un’ambientale che cattura la conversazione tra Lucano e un funzionario della prefettura, Salvatore Del Giglio, poi divenuto teste dell’accusa nel corso del processo. Una lunga chiacchierata, durante la quale Del Giglio prima avvisa Lucano che “non è improbabile, che un domani, così come (inc.) se non è già arrivata da voi, verranno la Guardia di Finanza” e poi ammette che “l’amministrazione dello Stato non vuole il racconto della realtà di Riace. Vuole... perché oggi la mission dello Stato... sapete, lo Stato è composto... come qua da voi. C’è l’opposizione”. Ma non solo. Del Giglio spiega che per la politica l’integrazione non è un obiettivo. “La mia certezza - sottolinea - è che l’organizzazione fa acqua da tutte le parti. Non ultimo il fatto che dopo lo Sprar non c’è niente. E allora, questo mi fa dedurre che l’obiettivo integrazione è soltanto una parola buttata là”. Finiti i progetti, infatti, il dopo non interessa più a nessuno e “si continua a guardare a questo problema se non come a un fastidioso inconveniente di passaggio. Intanto non è di passaggio. E ce lo dice la realtà. Intanto non è compatibile con l’attuale ordinamento a 360 gradi”. Durante la conversazione Lucano riferisce anche le parole pronunciate dal funzionario prefettizio Salvatore Gullì: “Io ho dovuto scrivere perché fa schifo il sistema nazionale dell’accoglienza - gli avrebbe riferito - abbiamo utilizzato questa cosa di Riace per... per dire queste cose”. Ma Lucano non ci sta a fare da capro espiatorio per tutti: “Perché deve pagare Riace?”, si chiede. Domanda alla quale “risponde” lo stesso Del Giglio: “Siccome io ritengo, dal suo punto di vista della sua relazione... che comunque Riace, al di là delle disfunzioni eventuali o delle anomalie amministrative, quindi della burocrazia, abbia realizzato una realtà evidentemente ancora unica sul territorio non solo nazionale, dovete difenderla. Con qualsiasi conseguenza”. Nel ricorso in appello, Daqua e Pisapia avevano evidenziato che l’obiettivo di Lucano “era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso”. E secondo i due legali, “il giudice di prime cure si è preoccupato di trovare “ad ogni costo” il colpevole nella persona di Domenico Lucano, utilizzando oltremodo il compendio intercettivo, proponendone, tuttavia, un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato e contrastante con gli inconfutabili elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale”. Intercettazioni inutilizzabili, hanno inoltre contestato, dal momento che si è proceduto alle captazioni “per i reati non autonomamente intercettabili”, in contrasto con la famosa e ormai applicata sentenza Cavallo. “Per questo tribunale gli esiti di un’intercettazione, autorizzata per un reato che lo consente, e raccolti nell’ambito di uno stesso procedimento, possono essere utilizzati anche per l’accertamento di tutti gli altri reati emersi e ad esso connessi indipendentemente dalla loro intercettabilità autonoma”, hanno evidenziato. La riqualificazione dell’accusa di abuso d’ufficio in truffa aggravata avrebbe poi consentito, secondo la difesa, “di utilizzare le intercettazioni” e i riferimenti “a fatti suggestivi come quelli relativi alle vicende legate alle Isole Cayman, che oltre a non essere oggetto di alcuna contestazione, si sono rivelate destituite da ogni fondamento”. E per quanto riguarda l’accusa di associazione a delinquere, “il giudice, con un procedimento mentale riconducibile alla figura dell’induzione, conclude per la configurazione del reato nonostante i dati probatori ne hanno palesemente escluso la sussistenza”. Il processo riprenderà il 26 ottobre prossimo, giorno in cui è prevista la requisitoria dai sostituti procuratori generali Fimiani e Giuttari. Modena. Morti in carcere a Sant’Anna, riesumato il corpo di Chouchane di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 7 luglio 2022 Ieri a Ganaceto dissepolto il 36enne, fu il primo decesso durante la rivolta. Va in Tunisia grazie agli attivisti. L’avvocato Sebastiani: “Giustizia per la famiglia”. La presenza di una decina di persone ha ricordato come la solidarietà per i nove morti della rivolta al carcere di Sant’Anna avvenuta l’8 marzo 2020 può produrre fatti concreti. Davanti a loro al piccolo cimitero di Ganaceto è stato dissepolto il corpo di Hafedh Chouchane, 36 anni, prima delle nove vittime. La salma, affidata alle onoranze San Cipriano di Milano, è già partita per la Tunisia e sarà sepolta tra due giorni. Sicuramente morto durante una overdose ma sulla cui assistenza medica sono rimasti forti dubbi tanto che l’avvocato di famiglia ha presentato ricorso alla Corte Europea per ottenere giustizia. È uno dei tre corpi di detenuti islamici morti a Ganaceto: gli altri due sono Alì Baqili e Slim Agrebi. La riesumazione e la traslazione sono state possibili grazie alla raccolta di 5mila euro ad opera delle associazioni Comitato Verità e Giustizia per la Strage, Comitato verità e giustizia per le morti nelle carceri e “Bianca Guidetti Serra”. La cerimonia è stata ostacolata dalla decisione di chiudere il cimitero. Solo dopo accese proteste di alcuni attivisti e di giornalisti della Rai il Comune ha fatto aprire i cancelli. Spiega Sara Manzoli dell’associazione modenese Comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna e autrice del libro “Morti in una città silente”: “Oggi per noi è una giornata importate perché i tre detenuti seppelliti qui sono diventati per noi un pezzo di famiglia ed essere riusciti a raccogliere una simile cifra per un gesto concreto per noi è stato un obiettivo fondamentale. Ora si chiude questa storia e ne restano aperte tante altre. Continueremo a seguire anche le indagini sulla rivolta e quella sulle accuse di torture fatte dai detenuti”. Alessandra dell’associazione bolognese Bianca Guidetti Serra: “Abbiamo partecipato alla raccolta fondi ed è stata una partecipazione ampia che ha coinvolto molte situazioni diverse a Bologna, a partire dall’ex Centrale. Abbiamo fatto concerti, tanti artisti hanno suonato per questa iniziativa, hanno partecipato poeti e intellettuali. È il risultato di un grande lavoro collettivo”. L’avvocato Luca Sebastiani che segue il caso Couchane per conto dei familiari: “Oggi è un giorno bello di questa triste storia. Era l’8 marzo 2021, ero venuto qua per la prima volta dopo aver scoperto che Hafedh era sepolto qui e quel giorno l’ho visto in una condizione che non dimenticherò per tutta la vita. Era in una tomba per terra rimediata con un po’ di terra sopra e una mezz’asta che teneva una targhetta con nome e cognome e basta. Feci due promesse a ad Hafedh La prima: la sua morte doveva avere la giustizia che meritava. La seconda: riportarlo a casa. Lo dovevo a lui e alla sua famiglia che non ha mai smesso di pregare per questo momento. Oggi quel giorno è arrivato. Dopo tante istanze, telefonate e documentazioni e l’aiuto di chi ha sostenuto questo evento tornando quanti soldi che la famiglia non aveva. Visto che nessuno si è fatto carico di queste spese, senza le associazioni oggi non saremmo qui. Li ringrazio di cuore a nome mio e della famiglia che aspetterà dopodomani Hafedh in Tunisia dopo due anni e tre mesi. Queste associazioni hanno dato un tocco di umanità a una storia che non ne ha mai avuta”. E a proposito del ricorso alla Giustizia Europea per chiedere la revisione dell’archiviazione del caso, l’avvocato aggiunge: “È l’unica famiglia che ha avuto modo di difendersi nell’ordinamento italiano e di recarsi direttamente alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo con il nostro ricorso che prima o poi darà un ricorso. Sulla rivolta e sulla strage al Sant’Anna restano domande e perplessità che noi abbiamo espresso nell’opposizione alla richiesta di archiviazione e alle quali non ci è stata data risposta. Ci sono lacune importanti che non dovevano esserci e sulle quali crediamo la Cedu darà un giudizio negativo”. Catania. Lavoro, possibilità per i detenuti: intesa Ance-Fondazione Ventorino focusicilia.it, 7 luglio 2022 Obiettivo del protocollo, offrire “un percorso di riqualificazione” per chi ha sbagliato favorendo al contempo “l’ingresso di figure qualificate nel settore delle costruzioni”. Il lavoro quale opportunità di integrazione per i detenuti fruitori di misure alternative alla carcerazione. È questo il pilastro su cui trova le basi il protocollo d’intesa firmato da Ance Catania e dalla Fondazione Francesco Ventorino. “Una possibilità per chi, dopo anni di carcere, ha la necessità di inserirsi nella società e nel mondo del lavoro”, commenta il presidente di Ance Catania Rosario Fresta. “Una proposta accolta dalla nostra Associazione, che sposa i principi costituzionali sul diritto al lavoro e sulla sua funzione rieducativa”, spiega, “anche attraverso il coinvolgimento delle istituzioni e dei privati, nello specifico delle aziende associate”. Una partecipazione attiva di Ance Catania, nella “volontà di promuovere, attraverso il lavoro e la formazione, un percorso di riqualificazione, favorendo così anche l’ingresso di figure qualificate e specializzate in un’ottica di sviluppo e progresso del settore delle costruzioni”. Il contributo dei volontari - Al fianco di Ance la Fondazione Ventorino, che offre assistenza ai detenuti presso il carcere di Piazza Lanza e a tutti quei soggetti che possono usufruire di misure alternative alla detenzione in carcere, ospitando alcuni di loro presso la casa d’accoglienza “Rosario Livatino” - a Motta Sant’Anastasia - anche grazie alla preziosa attività svolta da numerosi volontari. “Non tutti i detenuti hanno lo stesso background sociale, elemento emerso in modo chiaro durante i vari incontri con gli assistiti”, afferma il consigliere della Fondazione Alfio Pennisi, “molti di loro sono caratterizzati da una povertà culturale, limite da affrontare e superare attraverso azioni concrete di integrazione sociale. Tra queste, appunto, quella di entrare a far parte del mondo lavorativo”. Verso una società “armonica” - “Il nostro operato”, continua Pennisi, “non è un’opportunità per il singolo, bensì per la collettività: una società armonica ha un minor tasso di criminalità”. Al momento delle firme presente anche il volontario Innocenzo Grimaldi, che ha avanzato la proposta sottoposta e accolta da Ance Catania e dalla Fondazione. Alba (Cn). Nuovo rinvio dei lavori al carcere. Radicali: “Preoccupante” targatocn.it, 7 luglio 2022 Le attività di ristrutturazione partiranno a fine mese; l’appello: “Altre procrastinazioni potrebbero aggravare ulteriormente le condizioni degli edifici”. “Siamo preoccupati per il nuovo rinvio dei lavori di ristrutturazione della Casa di Reclusione G. Montaldo di Alba che, pare, partiranno a fine luglio”. Lo dichiarano in una nota Alice Depetro, Filippo Blengino e Alexandra Casu, punto di riferimento albese, Segretario e Tesoriera di Radicali Cuneo - Gianfranco Donadei. I Radicali, a dicembre scorso, avevano organizzato una mobilitazione provinciale di visita degli istituti penitenziari, in seguito alla quale era anche stata presentata un’interpellanza parlamentare dal deputato di +Europa - Azione - Radicali Italiani Riccardo Magi. Nel testo dell’interpellanza, che sarà discussa nelle prossime settimane alla Camera dei deputati, relativamente al carcere di Alba si legge: “Il procrastinarsi degli interventi rischia di aggravare le condizioni dello stabile e comportare quindi delle opere maggiori rispetto a quelle precedentemente preventivate”. “C’è da augurarsi - concludono Depetro, Blengino e Casu - che effettivamente sia solo un ultimo e breve rinvio; ulteriori procrastinazioni potrebbero aggravare ulteriormente le condizioni degli edifici, esposti da anni ad intemperie e infiltrazioni”. Benevento. Presentato il libro “La Settimana Santa” - Potere e violenza nelle carceri italiane” di Diego De Lucia anteprima24.it, 7 luglio 2022 L’autore Luigi Romano: “Diminuiscono i reati, aumentano i detenuti. Qualcosa non va”. Presso il San Felice l’avvocato Luigi Romano ha presentato il libro “La Settimana Santa” - Potere e violenza nelle carceri italiane” Si è trattato di un appuntamento di grande importanza organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Benevento per sostenere il dibattito sul tema urgente del sovraffollamento delle strutture carcerarie. La presentazione è stata impreziosita dalle Letture a cura di Daniela Stranges. Romano nel suo libro intercetta diverse causalità alla base dell’eccesso di cittadinanza dei luoghi di detenzione e pone alcune contromisure, a partire dalla depenalizzazione dei reati minori, che fu anche la battaglia radicale di Marco Pannella. L’autore crede che il cambiamento debba avvenire attraverso la mutazione del sistema, una crescita culturale che porti ad una maggiore sensibilità della società civile dei confronti della contravvenzione delle norme e tuttavia Romano mette l’accento su un altro tipo di discorso. Egli infatti sostiene che il carcere funga da ammortizzatore sociale nei confronti della crescente povertà, finendo per avere un significato antropologico che dovrebbe essere all’attenzione delle agende politiche ei governi. L’autore ha spiegato: “Siamo in una fase assolutamente critica. Viviamo in un trend in cui i reati continuano a decrescere in maniera percentuale ma aumentano i detenuti. È molto contraddittorio”. n convegno che ha registrato l’adesione anche dell’Ordine degli Avvocati di Benevento con la presidente Stefania Pavone. “I numeri dei detenuti continuerà a crescere” ha dichiarato Pavone che ha sottolineato: “Dopo aver letto il libro di Romano volevamo soffermarci sulle luci e sulle ombre del sistema carcerario. Direi più ombre che luci. Tante sono le criticità e le debolezze. Al momento la situazione appare alquanto disastrosa e l’emergenza pandemica non ha dato una mano”. Vasto (Ch). Entra in carcere la street art che unisce l’arte e il volontariato zonalocale.it, 7 luglio 2022 Si è svolta il 6 luglio, alla presenza di un grande numero di volontari e detenuti, l’inaugurazione del murales realizzato nella Casa Circondariale di Vasto. Una grande decorazione con colori sfumati in cui tra il cielo stellato e un aereo stilizzato predomina la scritta “Solo chi sogna può imparare a volare”. Un progetto speciale di arte ma anche di condivisione, creatività e bellezza finanziato dalla Odv Ricoclaun, dal Buco nel Tetto e da Avi Alzheimer Vasto. Tre associazioni unite insieme da altri progetti e attività che hanno voluto contribuire per donare un messaggio di bellezza e speranza al penitenziario vastese, ai detenuti, a tutto il personale e a tutti i volontari che con progetti diversi hanno relazione con la struttura. Tutto questo è stato possibile grazie alla disponibilità del Direttore Giuseppina Ruggero, all’impegno di Maria Giuseppina Rossi, la funzionaria giuridico pedagogica, a Lorenzo Faini che ha ideato, progettato, e realizzato, ai due volontari Ricoclaun, Elia Faini, clown Sampei e Roberto Novelli clown Pallino, e ad alcuni detenuti semiliberi che hanno dato la propria collaborazione. Un progetto impegnativo, di rigenerazione urbana, svolto in questi giorni di grande caldo, che con i suoi colori, le sue sfumature, colpisce, meraviglia, esprime il dialogo di una comunità che si mostra sempre vicina, accogliente e generosa per rendere questo luogo un luogo migliore, di speranza. Maria Giuseppina Rossi esprimendo il proprio ringraziamento al lavoro di tutti verso questo progetto che esprime speranza verso il futuro, ha dato la parola a diversi volontari che seguono all’interno del penitenziario vastese diverse attività, dalla Ricoclaun che ultimamente è stata molto attiva con diverse iniziative, dal murales realizzato a settembre 2021, alla raccolta di libri per la biblioteca del carcere, al concerto live, a questo lavoro; a Rosaria Carlucci del Buco nel Tetto, promotrice della preghiera ma anche di tante attività concrete nella comunità; alla dottoressa Sacchet dell’associazione Avi Alzheimer Vasto che ha evidenziato le peculiarità della propria associazione e ha invitato i detenuti che possono uscire a seguire il prossimo corso Alzheimer e caregiver che organizzeranno; al Dirigente Scolastico Concetta Delle Donne che insieme ad altre volontarie segue il gruppo di lettura, con la lettura ad alta voce e riflessioni condivise con i detenuti; alla professoressa Rosina Colella che ha realizzato prima della pandemia una ricca collaborazione tra gli studenti del liceo pedagogico e il penitenziario; a Piero Uva dei Lions di Vasto sempre disponibili in vari progetti, a Francesco Lovino il giovane studente che dopo la maturità sta svolgendo un progetto fotografico nella casa circondariale per prepararsi alla selezione per entrare in una scuola di cinema. Anche l’ispettore Di Filippo della Polizia Penitenziaria ha evidenziato la positività del progetto, ma anche come sia creata una relazione positiva tra i volontari, i detenuti e tutto il personale del carcere. Nicola Della Gatta, Assessore alla Cultura, al Welfare e all’Inclusione Sociale, ha evidenziato che Vasto possiede una grande ricchezza, una rete qualificata di volontari che costituiscono un terzo settore significativo per tutta la comunità. Ha parlato della bellezza, che è sempre contagiosa e nasce da un incontro. In questo caso con quello di tanti volontari, che con il loro altruismo e impegno esprimono l’esserci, diventano valore per la comunità. Paola Cianci, Assessora alle Politiche Giovanili, al Patrimonio e ai Servizi Civici, ha sottolineato che l’arte, in questo caso, ma anche in altri progetti come quello che si sta svolgendo a Punta Penna, diventano occasioni di inclusione, esprimono un messaggio di condivisione, un messaggio positivo che fa sperare, come la linea tratteggiata che nel murales porta a volare verso le cose belle del futuro. I vari volontari hanno espresso tutti lo stesso concetto: si esce sempre arricchiti dall’esperienza svolta con i detenuti. Si dona il proprio tempo, il proprio impegno, le proprie competenze ma si riceve molto di più. La professoressa Bianca Campli, presidente del Club Unesco Vasto ha fatto un excursus storico della street art a partire dai graffiti dei paleolitici nelle caverne, all’arte urbana attuale, dove l’artista con un Nickname lascia una traccia, spesso negli angoli marginali della città, lasciando sempre un messaggio. Ha illustrato poi il suo progetto quello di raccogliere foto di street art e farne uno studio e una pubblicazione e anche i murales della casa circondariale di Vasto ne faranno parte. “La presenza di questa ricca comunità di volontari”, ha detto Rosaria Spagnuolo, presidente Ricoclaun e organizzatrice del progetto di street art, “può costituire uno stimolo a nuovi progetti d’inclusione, a nuove reti sinergiche che uniscano in modo nuovo il penitenziario alla collettività solidale vastese”. Spoleto (Pg). “La cultura rompe le sbarre”. Al Festival dei Due Mondi lo sguardo Rai sul carcere rai.it, 7 luglio 2022 “La pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, afferma l’articolo 27 della Costituzione. In questa prospettiva, che orienta interamente la vita in carcere, le attività culturali, formative e di studio rivestono un ruolo centrale. Con il progetto “La cultura rompe le sbarre” la Rai, prima azienda culturale del Paese, ha voluto rivolgere il suo sguardo e la sua azione verso il mondo delle carceri per adulti e per minori, mettendo a disposizione del ‘mondo prigioniero’ la propria esperienza e produzione culturale. In questa chiave, Rai Per la Sostenibilità - che proprio in questi giorni ha raccolto l’eredità di Rai Per il Sociale - sarà presente al Festival dei Due Mondi 2022 di Spoleto con più iniziative. Giovedì 7 e venerdì 8 luglio, prima della messa in scena dello spettacolo “Tempo libero” della Compagnia teatrale #SineNomine del carcere di Spoleto, verrà proiettato sul grande muro del carcere stesso un video sul backstage dello spettacolo. Un racconto corale sul senso di fare teatro e cultura in un luogo come il carcere: per imparare la fatica dell’impegno e del lavoro di gruppo, per riflettere sulle proprie scelte e azioni, per tornare alla vita libera diversi da come si era entrati. Sabato 9 luglio, sarà dedicato a ‘Lo Sguardo sul mondo difficile del carcere’, in un gioco di specchi tra realtà e finzione, a partire da due prodotti d’eccellenza della Rai: “Ariaferma”, il film di Leonardo Costanzo ambientato in un carcere in via di dismissione dove detenuti e poliziotti penitenziari si trovano accomunati da una situazione che fa saltare barriere e regole; “Mare fuori”, la fiction Rai di grande successo che racconta la vicenda di alcuni giovani in un istituto penale minorile. I ragazzi del cast di “Mare fuori”, impegnati in un ruolo difficile e nuovo per loro, dialogheranno a distanza con altri ragazzi che stanno vivendo proprio la realtà del carcere minorile. Seguità una tavola rotonda serale con la partecipazione di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Chiara Pellegrini, direttrice del carcere di Spoleto-Maiano; Cira Stefanelli, del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità; Cristiana Farina, ideatrice e sceneggiatrice di Mare fuori. A loro si aggiungerà Jack Folla, un dj nel braccio della morte, che si rivolgerà direttamente al Festival di Spoleto, con un suo intervento sulla cultura e la vita. Nel corso di tutto il Festival e fino a settembre è allestita, a 40 anni dal primo spettacolo teatrale rappresentato fuori con la partecipazione di detenuti, la mostra “Je est un autre”, realizzata con il sostegno della Rai e con l’inserimento di servizi della Rai proprio sul teatro in carcere. - Giovedì 7 e venerdì 8 ore 21.00, presso il carcere di Spoleto-Maiano, proiezione di Tempo libero sul backstage dell’omonimo spettacolo realizzato dalla Compagnia #SineNomine insieme a oltre sessanta detenuti della Casa di reclusione. - Sabato 9 Cinema Sala Pegasus ore 11.00 - 13.00 proiezione di Ariaferma; ore 16.00 - 17.45 Proiezione di Mare fuori. Al termine il confronto con la sceneggiatrice e alcuni attori del cast e gli interventi raccolti tra i giovani del carcere minorile. ore 18.00 - Tavola rotonda ‘Lo sguardo sul difficile mondo del carcere’ con Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Chiara Pellegrini, direttrice del carcere di Spoleto-Maiano; Cira Stefanelli, del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità e Cristiana Farina, ideatrice e sceneggiatrice di Mare fuori; inoltre il contributo straordinario di Jack Folla, un dj nel braccio della morte. Teramo. Al torneo antirazzista si parla di carcere femminile ekuonews.it, 7 luglio 2022 “Perciò il carcere funziona ideologicamente come un luogo astratto in cui vengono presi in consegna gli individui indesiderabili, sollevandoci dalla responsabilità di riflettere sulle reali problematiche che affliggono le comunità da cui i detenuti provengono in numeri così spropositati. È questa la funzione ideologica del carcere: ci solleva dalla responsabilità di affrontare seriamente i problemi della nostra società, in particolare quelli prodotti dal razzismo e, in misura crescente, dal capitalismo globale”. Con la frase di Angela Davis, attivista del movimento afroamericano statunitense e del movimento femminista nero degli anni ‘70, la Casa del Popolo di Teramo presenta l’iniziativa ‘Donne e carcere, il Collettivo Malelingue incontra Rete Evasioni’ che si svolgerà nell’ambito del Torneo Antirazzista, in corso di svolgimento al Campetto dello Smeraldo, giovedì 7 luglio alle ore 20.00. “Il carcere in Italia è un problema, da qualsiasi angolazione lo si guardi - affermano gli organizzatori - che tu sia liberale è un problema per le multe che l’UE commina periodicamente per il non rispetto dei diritti, che tu sia progressista è un problema per gli abusi e le ingiustizie perpetrate sulla popolazione carceraria, che tu sia un rivoluzionario è un problema perché non ti riconosci in un sistema che punisce duramente gli effetti ma promuove le cause della diseguaglianza e dell’ingiustizia sociale. Probabilmente un certo tipo di impostazione dell’ambiente carcerario ha segnato il passo e sta mostrando da tempo tutti i suoi limiti. Gli Stati Uniti hanno sdoganato da tempo addirittura le carceri private, facendo della privazione della libertà un business come un altro; in Italia sono ancora negli occhi e nelle sensazioni di tutte e tutti le vittime delle rivolte nelle prigioni del marzo 2020 in piena pandemia”. Tomaselli e i migranti vittime dell’illegalità di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 7 luglio 2022 È in libreria il terzo romanzo di Ennio Tomaselli che affronta con la solita passione e perizia i temi del disagio giovanile aiutandoci a capire i motivi per cui certi minori incappano nelle maglie della giustizia. “Fronte Sud” (Manni Editore) ha ancora come protagonista il magistrato minorile Salvatore Malavoglia e chiude una “trilogia” aggiungendo un elemento in più sui giovani vittime dell’illegalità e autori di reati: l’immigrazione dei ragazzi stranieri che sbarcano nel nostro Paese e le motivazioni storiche del fenomeno. “Sullo sfondo del romanzo”, spiega Tomaselli, “ci sono le vicende della guerra d’Etiopia (ex colonia italiana) fino al massacro di Addis Abeba del febbraio 1937. Anche se il fulcro del romanzo riguarda il presente in termini di stretta attualità: i ragazzi africani che arrivano in Italia, il razzismo in varie forme, la guerra intestina in Etiopia fra il Governo centrale e il Tigrai e la consapevolezza del passato - e anche delle parti ‘cattive’ di certe eredità - che serve a Malavoglia (ma dovrebbe essere così per tutti) come una delle basi per orientare le scelte di oggi”. È qui il messaggio del romanzo che prende il via da una aggressione notturna ad opera di alcuni giovani e che sconvolge la vita del magistrato minorile e della sua compagna Elettra. Lasciando al lettore la scoperta di quanto avviene nella incalzante narrazione, “quello che ci tocca è guardare sempre verso il Sud del mondo e della vita, verso le aree più problematiche della storia e della memoria”, prosegue Tomaselli. Un compito arduo, oggi più che mai, per chi con coscienza ha scelto il mestiere del magistrato. E la penna di “Fronte Sud”, come per gli altri due romanzi, è “competente” in materia: Ennio Tomaselli, classe 1950, ha prestato servizio in magistratura dal 1978 al 2014, sempre a Torino. Ha operato prevalentemente in ambito minorile, sia come giudice del Tribunale per i minorenni (fu lui a scrivere la sentenza di primo grado del processo dei due minori di Novi Ligure) che come pubblico ministero presso lo stesso Tribunale. Dal 2005 al 2009 è stato a capo della Procura minorile della Repubblica. Andato in pensione, ha scritto tra l’altro un saggio (“Giustizia e ingiustizia minorile. Tra profonde certezze e ragionevoli dubbi”, Franco Angeli editore) e i tre romanzi (tutti editi da Manni, una coraggiosa editrice pugliese). Nei suoi libri, “Messa alla prova”, “Un anno strano” ed ora “Fronte Sud”, al centro ci sono ragazzi e ragazze che nascono in “culle sbagliate” - a cui l’autore ha dedicato la maggior parte della sua vita di magistrato - che hanno un denominatore comune: famiglie (dove ci sono) diseducative, disfunzionali, disagiate “senza i fondamentali”. Ragazzi che, se non hanno la fortuna di incontrare adulti significativi, più di altri rischiano di sbandare. Nel suo primo romanzo, “Messa alla prova”, il protagonista Vito ha alle spalle un’adozione fallita. Nel secondo, “Un anno strano”, la protagonista Romy è una ragazza vittima di precoce abbandono materno e con un padre tossicodipendente. Entrambi sono entrati in rapporto con contesti a rischio. E solo dall’incontro con adulti-educatori - come il magistrato Malavoglia - che in varie forme si fanno carico di loro cercando di mantenere comunque un “aggancio” con la società sana, le situazioni iniziano a mutare e può iniziare “un percorso che apre alla riparazione del danno e alla tutela della vittima”, come scrive bene Paola Cereda nell’introduzione di “Fronte Sud”. I diritti negati di Michele Ainis La Repubblica, 7 luglio 2022 Dall’eutanasia allo ius scholae i sentimenti diffusi non vengono accettati e compresi. Questa legislatura è ai suoi ultimi respiri. Verrà ricordata per la doppia e inedita emergenza che le è caduta sul groppone (prima il Covid, poi la guerra). Per l’arcobaleno dei suoi tre governi (il più a destra della storia repubblicana: Conte I; il più a sinistra: Conte II; il più unitario: Draghi). Ma c’è un altro elemento che rischia di divenirne l’epitaffio, l’iscrizione funeraria. Mai come adesso, infatti, possiamo misurare la distanza - di più: l’incomprensione, l’estraneità reciproca - fra popolo e Palazzo, fra il sentimento dei cittadini e quello dei politici. E il metro di misura è offerto dai diritti negati, dalle attese di progresso giuridico e civile perennemente disattese dal nostro Parlamento. In questo finale di partita, possiamo contarne almeno quattro. Lo ius scholae, la legge sulla cittadinanza ai figli d’immigrati nati in Italia, e che abbiano concluso qui un ciclo di studi. Il ddl Zan contro l’omotransfobia. La depenalizzazione della cannabis, appoggiata da 630 mila firme su un referendum vietato poi dalla Consulta. Il suicidio assistito, sollecitato viceversa dalla medesima Consulta, però tutt’oggi orfano di ogni disciplina normativa. Di rinvio in rinvio, le quattro proposte di legge sono riapparse in Parlamento nel pieno dell’estate. Ma lorsignori non caveranno un ragno dal buco, s’accettano scommesse. Troppi veti, troppe accuse incrociate, fino a minacciare la crisi di governo, nonostante tutti i nostri guai. Si dirà: tuttavia questi contrasti riflettono la divergenza d’opinioni che alligna nella società italiana. E i partiti dovranno pur rappresentarla, dopotutto non fanno che il proprio mestiere. Davvero? In realtà basterebbe mettere il naso fuori dai palazzi, per respirare l’aria che tira nelle strade. Ma se la fatica è troppa, i leader politici possono sempre consultare i sondaggi d’opinione. D’altronde lo fanno tutti i giorni, per misurare il loro grado di consenso. Sui nuovi diritti, invece, devono essersi distratti. Specie a destra, o fra i cattolici oltranzisti, dove campeggia il fronte del no. Fra gli eletti, però, non fra gli elettori. Ne è prova la legge sull’eutanasia: il 61% degli italiani è favorevole, dichiara un sondaggio Ipsos dell’ottobre 2021. E questa maggioranza raggiunge la stessa percentuale sia fra chi vota Pd che fra chi vota Lega. Idem per Swg nel 2019 (56%, cui s’aggiunge un altro 37% di favorevoli a determinate condizioni). Per BiDiMedia nel 2021 (62%). Mentre Eurispes, nel 2022, stima al 75% il sostegno popolare alla legge che non c’è. Anche altri diritti vengono reclamati invano, e ormai da lungo tempo. Lo ius scholae, per esempio: non è vero che gli italiani lo rifiutino, non è vero che sbattano la porta in faccia al milione di ragazzi che parlano un dialetto veneto o campano, pur avendo la pelle un po’ più scura. L’anno scorso Demos ha stimato al 52% il favore per l’accoglienza verso profughi e immigrati. Mentre un recente sondaggio di YouTrend sfodera un dato ancora più eloquente: 6 italiani su 10 approvano lo ius scholae. Come approvano, del resto, la legalizzazione delle droghe leggere (è d’accordo il 58% dell’elettorato, attestano Swg nel 2021 e BiDiMedia nel 2022). Nonché il ddl Zan, a tutela dell’identità di genere (piace al 62% degli italiani, senza troppe distinzioni fra elettori di destra e di sinistra, mostra un sondaggio Demos del 2021). Morale della favola: la crisi dei partiti ha messo in crisi la rappresentanza, la capacità di riflettere gli umori popolari. E ha inferto il colpo di grazia al Parlamento, ormai in crisi da decenni. Un tempo le assemblee parlamentari timbravano le leggi sul divorzio o sull’aborto; adesso trovano un afflato unitario soltanto quando c’è da celebrare qualche ricorrenza. Da qui la legge che istituisce la Giornata del personale sanitario (n. 155 del 2020), quella sulla Giornata dello spettacolo (n. 164 del 2021), quella sulla Giornata degli alpini (n. 44 del 2022). C’è poco, tuttavia, da festeggiare. Più che far festa, questi politici ti mettono voglia di fargli la festa. I nuovi schiavi, clandestini e prigionieri del lavoro nero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2022 Da un’inchiesta della procura di Prato su una presunta truffa per la produzione di tute mediche anti covid, illecitamente subappaltato ad aziende cinesi, è emerso un grave sfruttamento di manodopera irregolare. Privi di diritti, lavorano senza nemmeno un giorno di ferie o festivo, vivono in dormitori sovraffollati e degradati. Una condizione, di fatto, dove la libertà viene privata. È ciò che emerge da un uno dei tronconi dell’inchiesta condotta dalla procura di Prato sulla presunta truffa condotta da un consorzio romano in merito alla produzione di milioni di tute protettive mediche anti covid che avrebbe illecitamente subappaltato ad aziende cinesi. Ed è lì che gli ispettori del lavoro hanno scovato un grave sfruttamento della manodopera clandestina, aprendo ancora una volta uno squarcio sulle condizioni disumane e degradanti dei lavoratori più vulnerabili e dove talune aziende cinesi, attraverso lo sfruttamento della manodopera, dimostra di riciclarsi anticipando i tempi in base alle emergenze. Il caso di Prato è emblematico di una situazione diffusa in tutto il Paese - Il risultato è che in Italia ci sono realtà lavorative che imprigionano, di fatto, la manodopera più vulnerabile, spesso invisibile perché in nero e privi di permesso di soggiorno. Quindi più ricattabili. Il caso di Prato è emblematico perché gli ispettori del lavoro hanno scoperto che il dirigente cinese dell’impresa ha avuto tutti impiegati a nero, anche alloggiandoli presso i locali dormitorio al fine di garantirsi un continuo controllo dei dipendenti. In questa maniera potevano rimanere perennemente disponibili. Parliamo di manodopera soprattutto pakistana e africana, privi di stabili legami familiari, con scarsa comprensione della lingua italiana e limitato processo di integrazione socio culturale. Condizioni che li inducono ad accettare le condizioni imposte unilateralmente dai datori di lavoro. Nel caso specifico cosa hanno trovato gli ispettori del lavoro? Retribuzioni mensili corrisposte in modo irregolare, in violazione dei tempi prescritti dalla contrattazione collettiva e in contanti con modalità di accredito non consentite, e comunque per entità sproporzionata per difetto rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Turni di lavoro fino a 13/14 ore giornaliere, rispetto alle 8 previste per i contratti a tempo pieno. Costretti al lavoro nero, senza riposi, ferie e festività - Violazione del riposo settimanale, costretti a lavorare 7 giorni su 7 e anche in giorni festivi, così privati del prescritto riposo settimanale, oltre che nei giorni festivi di Natale, Santo Stefano e Capodanno. Riposo giornaliero limitato a brevi pause di pochi minuti per consumare i pasti, nel medesimo ambiente di lavoro deputato alla produzione. Svolgimento delle attività di lavoro in locali privi delle minimali condizioni di sicurezza ed igiene sul luogo di lavoro. I prestatori di lavoro sono sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, essendo costretti a lavorare e mangiare negli stessi spazi deputati alle lavorazioni, oltre ad essere alloggiati in un locale dormitorio - alcuni di loro anche all’interno del vano sottotetto -, destinato funzionalmente a pertinenza del sito di produzione e caratterizzato da condizioni igienicosanitarie carenti, sovraffollamento e numerose criticità impiantistiche. Si tratta di un vero e proprio processo di etnicizzazione dello sfruttamento lavorativo - Al di là di questo caso specifico, a Prato, le piccole aziende, in larga parte a conduzione cinese, si sono sviluppate molto rapidamente nel settore delle confezioni e del pronto moda, oltre che nei tradizionali ambiti del commercio, dei servizi, della ristorazione. Queste imprese, molto competitive, impiegano in larga parte lavoratori stranieri, inizialmente connazionali, ma da alcuni anni sempre più nuovi migranti di altre nazionalità. Un vero e proprio processo di etnicizzazione dello sfruttamento lavorativo: mentre i contratti di lavoro degli operai cinesi sono perlopiù a tempo indeterminato o si adeguano alle esigenze dei lavoratori cinesi di rinnovare il permesso di soggiorno per lavoro o di accedere al ricongiungimento con i familiari, i contratti dei lavoratori immigrati non cinesi sono di breve durata, quando ci sono. Ma non è solo a Prato. Lì emerge con più chiarezza perché esiste da tempo una collaborazione interistituzionale tra il Comune, Procura della Repubblica, Questura, Prefettura, Asl, Regione e forze dell’ordine. Servirebbe anche in altre realtà, solo così si potrà “liberare” la manodopera sfruttata. Migranti. Siamo davvero al limite, come dice Draghi? di Francesca Paci La Stampa, 7 luglio 2022 L’Italia è davvero giunta al limite di sbarchi, oltre cui scatta l’allarme securitario, sociale e soprattutto politico? A leggere i dati ufficiali, sembra proprio di no. In Italia in sei mesi 29mila profughi, ma nel 2016 erano 180mila. La gestione dei flussi migratori deve essere umana, equa ed efficiente, ma anche un Paese aperto come l’Italia ha dei limiti e ci siamo arrivati”: la risposta del premier Mario Draghi al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che martedì ad Ankara suggeriva sibillino di considerare come i respingimenti di Atene stiano dirottando i rifugiati verso le nostre coste, rimbalza a mo’ di boomerang attraverso il Mediterraneo. Dal primo gennaio al 4 luglio 2023 sono approdate tra Sicilia, Calabria e Puglia 28.405 persone, una cifra di poco superiore ai 21.619 dei primi sei mesi del 2022 ma enormemente minore rispetto agli 83 mila della metà iniziale del 2017, l’anno del Memorandum d’intesa sulla migrazione siglato tra l’allora ministro dell’interno Marco Minniti e il governo libico che terminò comunque a quota 120 mila arrivi. Viaggiavamo all’epoca su numeri importanti, spinti anche dall’esodo siriano, 160 mila, 170 mila, 180 mila nel 2016. Oggi, qualsiasi siano le ragioni di Stato all’origine della convergenza tattica con Erdogan, siamo in una situazione imparagonabile. “Se un limite è stato raggiunto, si tratta della visione eurocentrica dell’immigrazione, perché, a fronte di una piccola parte di flussi che interessa davvero l’Europa, l’83% degli africani in fuga resta in Africa così come accade in Medioriente, dove la Turchia accoglie oltre 4 milioni di persone e il Libano quasi un milione” spiega il portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni Flavio di Giacomo al telefono da Lampedusa, l’”hotspot” che nelle ultime ore ha oltrepassato la capienza massima, con circa 1300 ospiti in uno spazio destinato a 400. Laggiù sì, nella piccola isola che con l’intera Sicilia ha assorbito finora il 40% degli sbarchi, si può parlare di emergenza, ma organizzativa. Ed è una storia che onestamente, con i numeri c’entra poco o nulla. Su Lampedusa, estremo avamposto d’Italia nel Mediterraneo, impatta infatti il cambio di paradigma nel soccorso in mare. Fino al 2017, gli anni di Mare Nostrum, Triton, Sophia, i migranti venivano salvati a più riprese da navi capienti fino a 600 persone e trasportati nei grandi porti della Sicilia, capaci di reggere l’accoglienza. Da quando, con il rafforzamento della guardia costiera libica e la campagna contro le ong definite “taxi del mare”, il monitoraggio si è rarefatto, per ciascun barchino sfuggito ai libici e avvicinatosi all’Italia si muove soltanto Lampedusa e porta a terra numeri che, ancorché bassi, sono ingestibili per l’isola sempre in affanno. Il quadro, al netto del bel tempo che agevola le traversate, è molto diverso da quello disegnato ad Ankara due giorni fa. “I numeri contraddicono l’analisi di Draghi - ragiona la presidente di Medici senza Frontiere Monica Minardi -. Il limite che abbiamo superato è il numero di vite innocenti perse nel Mediterraneo, 3.231 nel solo 2021, mentre sulla migrazione si consuma un eterno dibattito ideologico”. Msf, con Sea-Watch e SOS Mediterranee, è tra le poche ong rimaste in mare, dove il 27 giugno ha raccolto 70 persone più il cadavere di una donna incinta per tenerle a bordo sospese, 5 giorni di limbo, in attesa dell’assegnazione di un porto, Taranto. A conti fatti, l’Italia negli ultimi sei mesi è arrivata a quota 28 mila ingressi, meno della metà degli spettatori dello stadio Olimpico. In Grecia sono stati 1200, in Spagna 12 mila. Certo, ci sono zone più in difficoltà, come Roccella Jonica - stazione finale di quella rotta “orientale” per cui Draghi ha concordato con Erdogan il monitoraggio incrociato di investigatori turchi in Calabria e italiani a Izmir - dove da inizio anno gli sbarchi sono stati 33 e gli sbarcati, quasi tutti afgani, siriani, iracheni e bengalesi provenienti dalla Turchia a bordo di velieri fatiscenti, 5.856, quattro volte tanto il 2022 ma pur sempre pochi. C’è un aumento del flusso dalla Libia, tunisini, egiziani riparati a Bengasi e terrorizzati poi dalla situazione locale al punto da puntare all’Italia. Ci sono quelli a cui spetta la protezione umanitaria perché esuli da guerre o regimi sanguinari e ci sono i migranti “economici” che, insiste Flavio di Giacomo, “dopo essere passati in Libia, tra abusi e torture, diventano de facto meritevoli di accoglienza perché la sicurezza conta ma è ora che il dibattito europeo si concentri anche sull’importanza di proteggere i diritti umani dei migranti nei Paesi di transito e in quelli di destinazione, a prescindere dallo status delle persone”. E poi c’è un sistema di accoglienza, a partire dallo Sprar, ridimensionato mese dopo mese fino al nulla. Nessuno nega i problemi. I numeri però, sono numeri. “L’Italia non è arrivata a nessun limite” ci dice Cecilia Strada, durante una breve pausa tecnica nel suo impegno a tempo pieno con il progetto di soccorso in mare Resq. La parola emergenza, per altro, non le piace: “La doverosa e affettuosa accoglienza che l’Italia ha offerto a chi fuggiva dall’Ucraina ha mostrato che il problema non sono i numeri di chi arriva. Se guardiamo agli sbarchi e li rapportiamo a quelli degli anni passati, giungiamo alla stessa conclusione: non c’è emergenza migranti. L’emergenza è quella che vive chi migra, chi rischia di morire nel deserto, in mare o nei lager in Libia perché non ha accesso ad altre strade, sicure e legali, per l’Europa”. E anche questi sono numeri. Migranti. Draghi fa il populista e stringe accordi con Erdogan di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 luglio 2022 Ci saranno scambi di agenti tra Italia e Turchia per controllare i punti di partenza e arrivo. “L’Italia è al limite” dice il primo ministro italiano. Ma i numeri lo smentiscono. Critiche dall’opposizione, malumori tra alcuni deputati della maggioranza. Agenti italiani in Turchia, nei principali aeroporti e nei luoghi di imbarco lungo le coste, per realizzare controlli preventivi sui migranti. Poliziotti turchi nei punti di sbarco della rotta che viene da oriente, soprattutto in Puglia e Calabria, per interrogare chi arriva e dare la caccia ai presunti scafisti. Un nuovo corridoio umanitario, cui lavorerà anche Caritas da fine mese, per portare al sicuro alcune centinaia di afghani bloccati in Turchia e nei paesi limitrofi. Sono i tre assi principali della cooperazione bilaterale sulle politiche migratorie siglata lunedì tra Mario Draghi e Recep Tayyp Erdogan. Al 30 giugno scorso, dicono i numeri diffusi ieri dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), gli arrivi dalla Turchia sono stati 5.856. Contro 15.187 dalla Libia, 5.843 dalla Tunisia, 472 dal Libano e 6 dalla Grecia. Dall’inizio dell’invasione russa, invece, i profughi giunti dall’Ucraina sono 145mila. Ma non è a loro che pensava Draghi nella conferenza stampa finale del vertice intergovernativo di Ankara. “Sui migranti l’Italia è arrivata al limite”, ha detto il primo ministro. In analisi matematica i limiti si possono calcolare da sinistra o da destra. Il premier evidentemente preferisce la seconda possibilità. Un po’ Marco Minniti, un po’ Matteo Salvini. Lo dicono i numeri. A ieri gli sbarchi complessivi sono stati 29.852. Quando cinque anni fa l’allora ministro dell’Interno Pd Minniti disse che l’ondata migratoria gli aveva fatto “temere per la tenuta democratica del paese” erano più del triplo, 12.500 in un giorno solo: il 29 giugno. Alla fine del 2017 hanno raggiunto quota 119mila. La Costituzione è rimasta in vigore e il parlamento ancora aperto. Anche guardando alle presenze nel sistema d’accoglienza italiano è difficile capire quale limite sia stato raggiunto: il 30 giugno scorso i cittadini stranieri ospitati erano 89mila, a fine 2017 oltre 183mila. La tesi di Draghi, che ricalca quella dei precedenti governi, è che gli altri stati Ue non facciano abbastanza. I dati, però, dicono che la parte del leone sulle richieste d’asilo in Europa è di paesi dove non sbarca nessuno: quasi la metà delle 535mila domande del 2021 sono arrivate a Germania (148.200) e Francia (103.800). In Italia sono state 43.900, poco sopra la ben più piccola Austria (36.725). Per non parlare della situazione in Turchia che, complice l’accordo anti-migranti con l’Ue, ospita il più alto numero di rifugiati al mondo: 3,8 milioni, il 4,4% della popolazione (dati Eurostat). Secondo il Centro Astalli lo scorso anno i profughi in Italia erano 128mila, lo 0,2% della popolazione. A Draghi ha risposto ieri il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni: “Sono parole gravi perché tornano sul frame dell’invasione e nascondono ancora una volta la completa inefficacia dei meccanismi di accoglienza del nostro paese. I fenomeni strutturali hanno bisogno di politiche strutturali”. Anche nella maggioranza le dichiarazioni del premier hanno sollevato malumori. Per Riccardo Magi (+Europa): “I veri limiti sono quelli al riconoscimento dell’asilo e al salvataggio in mare, la cui operatività effettiva ha enormi criticità. Resta poi il problema della normativa italiana sull’immigrazione. Persino un rappresentante leghista come Massimo Garavaglia dice che sono necessari più lavoratori stranieri. Ma per averli serve anche la possibilità di regolarizzarli”. Il deputato Pd Erasmo Palazzotto ha dichiarato: “Dire “siamo arrivati al limite” in un momento storico come questo è un’offesa nei confronti di paesi che si stanno facendo carico di una vera emergenza. Una cessione a una narrazione populista che da parte di Draghi non mi sarei aspettato”. Invece l’ha pronunciata proprio accanto a Erdogan, l’ex “dittatore” diventato un prezioso alleato. Alla faccia di democrazia e diritti umani. Cannabis light, è legale ma le banche non si fidano di Luca Caglio Corriere della Sera, 7 luglio 2022 “Ci negano il Pos nei negozi, anche se paghiamo le tasse”. L’8 e il 9 luglio si terranno a Milano gli Stati generali della cannabis in cui si discuterà della legalizzazione della marijuana. Chi vende i prodotti consentiti segnala i problemi con gli istituti di credito. Nei mesi scorsi il consigliere comunale dem Daniele Nahum si era acceso uno spinello davanti a Palazzo Marino. Una provocazione presto colta dagli attivisti per la legalizzazione della marijuana, perché il tema era caldo, anche in Parlamento, dove ora si discute sulla depenalizzazione per la coltivazione domestica. Intanto l’8 e 9 luglio si terranno a Milano (al Garden di via Senato) gli Stati generali della cannabis ispirati dal gesto di Nahum: una due giorni di dibattiti e testimonianze. Il commercio dei derivati della canapa light, invece, è già regolare. “Vendo prodotti light, tra cui infiorescenze e olio, la mia azienda è il primo delivery italiano con 30 mila clienti serviti tra 2020 e 2021, la base è a Milano con localizzazioni in altre sette città, da Torino a Roma a Catania, e con un piede in Europa grazie alle consegne a Parigi. Eppure ho un problema...”. Sembra quasi agiografico il ritratto di Matteo Moretti per la sua creatura nata nel 2018, “JustMary”, un anno dopo la pubblicazione di una legge a maglie larghe, penetrabile, nel senso che autorizza la coltivazione di canapa con Thc entro lo 0,6 per cento (marijuana depotenziata) ma senza consentirne il commercio per uso “umano”. Ammesso è invece l’uso tecnico. Nella sostanza, però, chi entra in un grow shop non è un florovivaista, né un cacciatore di olio per la porta di casa che cigola, tantomeno desidera un profumatore per ambienti: di solito è per fumare “erba” leggera. Il problema? “Mi negano il Pos. Con JustMary non riesco ad attivare il terminale perché vendo cannabis - denuncia Moretti - tutti prodotti legali su cui pago le tasse, e il copione non è cambiato con l’obbligo per gli esercenti di accettare pagamenti elettronici di qualsiasi importo”. Dallo scorso 30 giugno, infatti, chi nega al cliente l’uso della carta può essere denunciato, incorrendo in una sanzione di 30 euro a cui si somma il 4 per cento del valore della transazione respinta. “La legge mi obbliga ma le banche rispondono picche - continua il fondatore - con la complicità degli intermediari come Nexi, che mi ha ribadito la volontà di non convenzionarsi con e-commerce che vendono cannabis”. La motivazione: decisione aziendale non negoziabile. Quindi? “Ad oggi solo con Viva Wallet posso ricevere moneta elettronica”. Alberto Barone gestisce il “Green country”, un distributore automatico coi derivati della canapa light in zona Navigli. Luci (gli affari) e ombre (le policy). “Anche la banca dove avevo il mio conto personale si è rifiutata di accenderne un altro per il mio business. E non parliamo dei problemi con il Pos, prima attivato e poi bloccato per decisioni politico-giuridiche - lamenta il proprietario -. Forse perché temono che la merce venga acquistata anche da minorenni, ma verso i distributori di sigarette non c’è la stessa prevenzione. Dopo il giro di vari istituti di credito, il terminale ha ripreso a funzionare, chissà per quanto”. Un traguardo raggiunto, forse, anche grazie a un codice Ateco che non contempla il commercio di canapa, bensì un negozio di piante o di giardinaggio. Anche Francesco Compagnoli, fondatore di “Legal light weed”, deve combattere per attivare il Pos: “Non solo. PayPal mi ha bloccato 20 mila euro dopo una segnalazione, come se vendessi droga. Il mio avvocato ha inviato una Pec a Nexi e alla banca, ora sembrano più disponibili all’ascolto, perché se continuo a usare Viva Wallet ho il vincolo di non poter distribuire semi e fiori”. Regno Unito. Rapporto Cpt: “Sovraffollamento e violenze persistenti nelle carceri” coe.int, 7 luglio 2022 In un nuovo rapporto sul Regno Unito, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) esprime nuovamente preoccupazione per il numero di casi di violenza grave tra i detenuti e di atti di violenza da parte dei detenuti contro il personale e per l’assenza di una strategia coerente per combattere il sovraffollamento cronico. Il Comitato sottolinea inoltre la necessità di rafforzare le garanzie giuridiche dei pazienti riguardanti il trattamento involontario e il consenso al trattamento. Il rapporto contiene le conclusioni del CPT sulla sua visita periodica nel Regno Unito, dall’8 al 21 giugno 2021, incentrata sul trattamento delle persone detenute nelle carceri e negli istituti psichiatrici, come anche dalla polizia in Inghilterra. Il CPT sottolinea nuovamente i deleteri effetti cumulativi sulla vita dei detenuti provocati dal sovraffollamento cronico, da cattive condizioni di detenzione e dall’assenza di un regime di attività motivanti. Dal 2016, questi problemi di lunga data si sono aggravati a causa di una forte escalation di violenza. La pandemia da Covid-19 potrebbe aver determinato una riduzione temporanea del sovraffollamento e un abbassamento del livello di violenza, ma il rapporto nota che le cause strutturali alla base del sovraffollamento e della violenza nelle carceri non sono state affrontate. In relazione alla violenza, il rapporto indica che resta diffusa in tutte le carceri maschili visitate e che lo sarebbe ancora di più se i detenuti non fossero confinati nelle loro celle la maggior parte della giornata. La delegazione del CPT ha constatato che, da marzo 2020, la stragrande maggioranza dei detenuti continua a essere chiusa nelle celle per 22-23 ore al giorno, quasi senza niente da fare. Negli istituti psichiatrici visitati, il rapporto nota positivamente che la delegazione del CPT ha incontrato numerosi professionisti sanitari scrupolosi che lavorano intensamente per prendersi cura dei loro pazienti. La delegazione ha inoltre constatato che le condizioni materiali negli istituti visitati variano da buone a eccellenti e che la presa in carico dei pazienti include piani di cura e trattamento individuali completi, elaborati da un’équipe multidisciplinare con la partecipazione dei pazienti stessi. Tuttavia, il CPT ritiene che alcuni aspetti meritino ulteriori riflessioni e cambiamenti. In particolare, ritiene che, nel momento in cui un paziente si oppone al trattamento proposto dai medici della struttura, si debba richiedere immediatamente un parere psichiatrico esterno. I pazienti dovrebbero, inoltre, poter fare ricorso a un’autorità indipendente contro le decisioni del trattamento forzato. Allo stesso modo, è necessario che vengano rafforzate le garanzie relative al consenso informato alla terapia. Inoltre, il rapporto esamina anche gli alti livelli di ricorso alle pratiche restrittive, tra cui la pronazione dei pazienti e i casi di isolamento a lungo termine. Nella loro risposta, le autorità britanniche forniscono delle informazioni riguardanti le misure adottate per mettere in pratica le raccomandazioni del CPT. Il rapporto del CPT e la risposta delle autorità sono stati resi pubblici a seguito della richiesta avanzata dal governo del Regno Unito. Somalia. Una bomba uccide Omar Hassan di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 7 luglio 2022 Era stato condannato e poi assolto per il delitto Alpi - Hrovatin. Liberato dopo 16 anni di ingiusta detenzione per l’omicidio della giornalista Rai aveva ottenuto un risarcimento dallo Stato italiano. Ucciso da Al Shabaab per essersi rifiutato di pagare il pizzo. Al Shabaab gli aveva imposto il pizzo. Era tornato in Somalia, pieno di quattrini, e quindi doveva pagare. Come tutti gli imprenditori. Perché a Mogadiscio questa è la regola. Comandano gli jihadisti che hanno giurato fedeltà ad Al Qaeda. Ma lui, Omar Hashi Hassan, un nome noto in Italia per aver scontato ingiustamente 17 anni dei 24 inflitti dalla giustizia per l’omicidio della giornalista Rai Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin il 20 marzo del 1994, non aveva ceduto. Così, dopo altre minacce, è arrivata la sentenza di morte. I miliziani hanno piazzato una bomba sotto la sua auto che è esplosa appena Hashi ha messo in moto. La sua macchina è stata ridotta a un cumulo accartocciato di lamiere fumanti. Del corpo sono rimasti solo brandelli. Si chiude così la vita tormentata di un uomo due volte vittima di un destino beffardo. La prima, il 12 gennaio 1998. Ilaria e Miran sono morti da quattro anni. I familiari si battono come leoni per conoscere la verità che tutti, con ruoli diversi, cercano di nascondere. L’inviata della Rai in Somalia ha scoperto qualcosa che mette in imbarazzo le nostre autorità. Non si sa cosa. I suoi taccuini riportano date, nomi, località che portano nel nord del Paese africano. Si sa che, il giorno prima di essere vittima di un agguato a Mogadiscio, ha incontrato e parlato con Abdullah Moussa Bogor, potente sultano di Bosaso. L’incontro è stato proficuo, Ilaria lo dice al giornale. Ma le cose che si appresta a raccontare nel suo servizio coinvolgono l’Italia e la compagnia della flottiglia di pescherecci Schifto, donata dal nostro Paese, in un traffico di rifiuti e probabilmente di armi. Un dettaglio troppo pericoloso per le nostre autorità impegnate in una missione di pace, non di guerra, nel Corno d’Africa. Ilaria e Alpi sono aggrediti vicino al loro albergo poco dopo il loro rientro da Bosaso. Indaga la magistratura. Il caso è affidato al pm Giuseppe Pititto che incrocia alcune informative della Digos di Udine nel frattempo sulle tracce di un altro omicidio eccellente, il maresciallo Vincenzo Li Causi, uno 007 ucciso anche lui in circostanze misteriose in Somalia nel novembre del 1993. Le indagini portano ancora al traffico di rifiuti pericolosi. Ma non si arriva a conclusioni certe. Il fascicolo sulla morte dei due giornalisti, di colpo, è affidato al pm Franco Ionta che si occupa stabilmente di terrorismo. Lavora con l’allora vicecapo della Digos, oggi capo della Polizia, Lamberto Giannini. I due inquirenti sono convinti di aver trovato il responsabile del duplice omicidio. Hanno una fonte diretta, si chiama Ahmed Ali Raghe, detto Gelle. Il nome è fornito dall’ambasciatore italiano in Somalia Giuseppe Cassini. Gelle, dice, sa chi ha ucciso i giornalisti Rai. Scatta la trappola: Hashi Omar Hassan viene imbarcato su un aereo e portato a Roma assieme ad altri tre somali con la scusa che testimonierà sulle presunte torture inflitte dai nostri soldati a dei prigionieri somali nel corso della missione Restore Hope. Ma da testimone, nel giro di poche ore, Hashi si trasforma in imputato. È accusato di concorso nell’omicidio Alpi-Hrovatin. Chi lo ha denunciato fa un confronto dietro un vetro, conferma quanto asserisce, e prende il largo. Si traferirà a Birminghan dove otterrà asilo politico, si sposerà, avrà cinque figli, un lavoro. Tutti sanno dove si trova ma nessuno lo cerca per metterlo ancora a confronto con chi ha accusato di omicidio. Hashi si difende, nega, si dichiarerà sempre innocente. I suoi avvocati si scontrano contro un muro di menzogne e di depistaggi. Il presunto killer viene assolto in primo grado ma poi condannato all’ergastolo in appello. La Cassazione confermerà la sentenza riducendo a 24 anni la pena. Sarà grazie a Chiara Cazzaniga, collega della trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha visto?”, se il grande inganno viene alla luce. La giornalista si reca in Gran Bretagna e convince Gelle a dire la verità. Il supertestimone racconterà di essere stato pagato per dire il falso e spiega che Haschi non ha nulla a che vedere con l’omicidio di Ilaria e Miran. Lo credono anche i genitori della giornalista assassinata. Luciana Alpi lo dirà anche a noi nel corso delle due interviste che concesse a Repubblica. “Per me è come un figlio, so bene che non ha nulla a che vedere come la morte di mia figlia”, dichiarò. Aveva ragione. Anche lei ha lottato tutta la sua vita per la verità. Il team legale di Haschi propone la revisione del processo. La Procura generale di Perugia accoglie la tesi difensiva e proscioglie definitivamente il condannato. Dopo 17 anni di carcere. Omar Hashi Hassan ha avuto un risarcimento di 3 milioni e 181 mila euro. È tornato in Somalia, ha avviato un’attività. Al Shabaab, come a tutti gli imprenditori, gli ha imposto la tassa di protezione. Un pizzo. Davanti al suo ennesimo rifiuto lo ha fatto saltare in aria con una bomba piazzata sotto la sua auto. “Un anno fa era tornato in Italia”, ci racconta il suo avvocato Antonio Moriconi, “ci confermava le minacce e i taglieggi degli Al Shabaab. Ma si sentiva sicuro. Diceva di avere dei parenti nel governo, gente del suo clan, che non usciva mai da Mogadiscio. Rideva quando lo invitavamo alla prudenza. Alzava le braccia al cielo, Inshallah!, esclamava. Lui mi ha risparmiato parte della detenzione, aggiungeva, deciderà anche sulla mia vita”.