Disinformazione e carcere: se i giornali non rispettano le regole di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2022 Titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”, mentre in realtà dopo anni di detenzione sono stati ammessi a pene alternative. “Farla franca”, mentre invece sono stati assolti. Tanti gli articoli che non osservano i doveri deontologici del giornalismo sul tema penitenziario. Abbiamo la costituzione più bella del mondo, ma spesso i suoi ideali enunciati rimangono solo sulla carta. Così come abbiamo il testo unico dei doveri del giornalista, che se venisse rispettato avremmo una informazione che ci porterebbe al primo posto nel mondo per la qualità del giornalismo. Invece no. Basti pensare al tema penitenziario. I detenuti usufruiscono di misure alternative? La maggior parte dei giornali titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”, dando così una percezione errata all’opinione pubblica, abbassandone il livello e alimentando il populismo penale. Teoricamente è vietato. Le terminologie usate danno un valore negativo ai trattamenti penitenziari verso la libertà - Il giornalista ha il dovere di usare la giusta terminologia, ma non lo fa più nessuno. Anzi, alcune firme “rischiano” anche di vincere un premio o addirittura fare corsi di giornalismo. Sono tante le terminologie che imperversano in numerosi articoli di giornale e dove si fa anche una effettiva disinformazione dando come valore negativo il trattamento penitenziario che prevede - tra i vari benefici - l’affidamento al servizio sociale, la semilibertà o i permessi premi, e quindi una graduale proiezione verso la libertà. Nel 2013 è stata approvata la “Carta di Milano”, relativa ai diritti dei detenuti - In realtà nel 2013 il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha approvato all’unanimità la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano”, relativa ai diritti dei detenuti, che diventa così un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La “Carta di Milano” ha una origine particolare: viene dal basso, non direttamente dall’Ordine dei giornalisti. È, infatti, il risultato di una lunga riflessione, nata dai giornalisti interni alle carceri, dagli operatori dell’amministrazione carceraria e dagli stessi detenuti a partire dal 2011. L’esigenza di uno strumento regolativo sull’informazione carceraria viene inizialmente maturata in tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le tre redazioni carcerarie promotrici della sua nascita erano state, rispettivamente, quella di Carte Bollate, periodico diretto da Susanna Ripamonti all’interno del carcere di Bollate, quella di Ristretti Orizzonti, giornale diretto da Ornella Favero e promosso dalla Casa di reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca e quella di Sosta forzata, rivista della Casa circondariale di Piacenza, diretta da Carla Chiappini. Numerosi sono stati, in seguito, i seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, organizzati nei mesi di marzo e aprile 2011 dalla redazione di carte Bollate e rivolti sia agli allievi del Master di giornalismo dell’Università Iulm e dell’Università statale di Milano, sia ai giornalisti professionisti. L’obiettivo di questi incontri era quello di sensibilizzare maggiormente il bisogno di un’informazione deontologicamente corretta nei confronti di chi vive tutti i giorni nel mondo carcerario o a contatto con esso. Nel corso del 2012 la Carta si è diffusa progressivamente in tutta Italia ed è stata sottoscritta anche dagli Ordini dei giornalisti di Toscana, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia. La Carta, però, era valida ancora solamente a livello regionale. La spinta definitiva alla sua approvazione a livello nazionale è avvenuta l’8 gennaio 2013, data in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel trattamento dei detenuti. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta - La sensibilità comune nei confronti delle condizioni degradanti del mondo carcerario, inoltre, è aumentata notevolmente in seguito al discorso pronunciato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della visita alla casa circondariale di San Vittore, avvenuta il 6 febbraio 2013. L’ 11 aprile 2013, con l’approvazione definitiva da parte del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, la “Carta di Milano” è diventata ufficialmente un protocollo deontologico obbligatorio per tutti gli operatori dell’informazione. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea. La Carta raccomanda ai giornali l’uso di termini appropriati - Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Tutto ciò non viene rispettato. Non solo. Si arrivano a riportare vere fake news, ma l’Ordine dei giornalisti che dovrebbe vigilare, non ha mai fatto nulla. La deontologia rimane così un optional e la cultura del nostro Paese scivola sempre più in basso. Nessun alibi, il carcere deve cambiare, ora di Franco Corleone Il Manifesto, 6 luglio 2022 L’8 luglio verrà presentato nel carcere di Sollicciano, nella cornice d’arte e bellezza del Giardino degli Incontri, il luogo magico pensato da Giovanni Michelucci con i detenuti come suggello della sua vita, la seconda edizione arricchita degli scritti di Alessandro Margara dal titolo suggestivo “La Giustizia e il senso di umanità”. Nel giorno dell’inaugurazione del Giardino, il 26 giugno del 2007, ricordo il discorso di Sandro Margara che ricostruiva il significato di questo luogo proiettato verso un futuro di cambiamento: uno spazio pensato per gli affetti e per un contatto tra la città e il carcere; uno spazio come anticipatore di riforme, come quella per rendere concreto il diritto all’affettività e alla sessualità delle persone private della libertà. Purtroppo, dopo quindici anni tale diritto non solo non si è concretizzato, ma è soprattutto osteggiato dalle forze politiche che, nel recente referendum, si sono travestite da paladini della giustizia giusta. La proposta di legge per il diritto all’affettività, approvata dal Consiglio Regionale della Toscana, è ferma presso la Commissione Giustizia del Senato dopo l’illustrazione della relatrice Monica Cirinnà e una discussione generale che ha toccato espressioni da lupanare. La crisi del carcere non è di oggi, si è solo incancrenita dopo due anni di Covid che hanno provocato rivolte, morti, pestaggi e blocchi intollerabili dei colloqui, dei corsi scolastici, delle attività del volontariato. In nome della salute, si è dato forma a una istituzione chiusa davvero “totale”. Margara aveva compreso per tempo la deriva in agguato e perciò aveva redatto un testo di riforma dell’Ordinamento penitenziario (ben prima degli Stati Generali e delle tante Commissioni istituite dopo), con l’aiuto di un Gruppo di lavoro in cui erano presenti tra gli altri Franco Maisto e chi scrive. La proposta di legge (n. 6164) che ne scaturì fu presentata da Marco Boato alla Camera dei Deputati il 3 novembre 2005, insieme a Finocchiaro, Fanfani e Pisapia. Fu ripresentata nella legislatura successiva ma rimase colpevolmente nei cassetti. L’ultimo scritto di Margara è intitolato “Punti interrogativi” e rappresenta un atto d’accusa per un carcere ridotto a discarica sociale. Negli ultimi anni, aveva accentuato la radicalità di pensiero, condita di passione che ben traspariva sotto l’ironia tagliente. Nella relazione alla proposta di legge, un capitolo era dedicato al contrasto al sovraffollamento, suggerendo di considerare il carcere come extrema ratio e di intervenire riducendo l’area della cosiddetta “detenzione sociale” (reati di droga, tossicodipendenti, immigrati, poveri, che insieme assommavano a circa il 65% delle presenze). Margara annotava: “Non sono, quindi, le carceri che sono poche, ma sono i detenuti che sono troppi e non bisogna agire per aumentare i posti-detenuto, ma per trovare, anziché il carcere, luoghi sociali per affrontare i problemi del disagio sociale”. Voglio ricordare l’idea di istituire le “case territoriali di reinserimento sociale”: presidi in ambito comunale, di dimensioni limitate, destinate ad accogliere detenuti con fine pena fino a diciotto mesi. Particolarmente innovativa è la proposta di porre a capo delle “case di reinserimento” il Sindaco, con programmi affidati a operatori di rete delle associazioni di volontariato e del terzo settore. Mauro Palma, nella Relazione al Parlamento 2022, ha ricordato che sono ristrette ben 1319 persone condannate a meno di un anno e 2473 con una pena da uno a due anni. Il dato ancora più esplosivo è che sono in carcere 6889 persone con un residuo pena fino a un anno e 7064 fino a due anni. Va messo mano al cambiamento, subito. Se si dice no ad amnistia e indulto, se si negano misure di ristoro, allora si pensi al numero chiuso. È il minimo, per dare dignità e senso costituzionale alla pena. Ministra Cartabia, prenda la parola. Polizia penitenziaria, c’è poco da festeggiare. “Ecco i numeri della calda estate nelle carceri” redattoresociale.it, 6 luglio 2022 La Polizia penitenziaria compie 205 anni ma forte si leva la protesta dei sindacati sulle condizioni delle carceri italiane. Di Giacomo (Ssp): “In giugno otto detenuti morti suicidi e 6 tentativi di suicidio, 12 celle incendiate, 5 aggressioni ad agenti la settimana, sei risse tra detenuti. La situazione è sfuggita di mano”. “Otto suicidi e sei tentativi di suicidio nell’ultimo mese di giugno, una dozzina di casi di celle incendiate nelle ultime settimane, almeno cinque episodi di aggressione a personale penitenziario la settimana, sei risse tra detenuti di clan rivali o tra detenuti italiani ed extracomunitari nel giro di pochi giorni: la bollente estate 2022 nelle carceri italiane è molto lontana dallo stucchevole dibattito politico in corso sulla riforma del sistema penitenziario”. Ad affermarlo è il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo, per il quale “la situazione di controllo delle carceri da parte dello Stato, già sfuggita di mano da qualche anno, in questa estate rischia il tracollo. Per questo - aggiunge - abbiamo deciso azioni di mobilitazione per smuovere il ‘torpore’, mentre di fronte all’emergenza esplosa con le cosiddetti mini-rivolte diffuse in numerosi istituti e le quotidiane aggressioni al personale penitenziario la Ministra Cartabia sta pensando a palliativi come le misure alternative al carcere per detenuti con pene cosiddette minori che non risolvono in alcun modo le problematiche del sovraffollamento e della carenza di strutture adeguate oltre, naturalmente, di agenti e personale”. La presa di posizione arriva nel giorno in cui si festeggia l’Anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria, nato 205 anni fa. “Tra l’altro - continua Di Giacomo - si finge di ignorare che nelle carceri ci sono alcune centinaia di detenuti con problemi psichiatrici che non dovrebbero trovarsi lì. Siamo alla vigilia dell’anniversario della visita della ministra e del Premier Draghi (14 luglio 2021) per la prima volta nella storia del nostro sistema penitenziario ad un carcere, quello di Santa Maria Capua Vetere, a seguito dei noti fatti, ma nessuna delle promesse di un anno fa ha trovato attuazione. Anzi - aggiunge il segretario - l’impegno per la realizzazione di otto nuovi padiglioni si è trasformata in un numero imprecisato di casette per l’amore”. Continua Di Giacomo: “Noi non siamo più disponibili a tollerare il lassismo e raccogliendo le continue proteste dei colleghi che non ce la fanno più a fare da ‘bersagli’ su cui detenuti violenti possono scatenare la propria rabbia abbiamo deciso di passare alla mobilitazione. Lo stiamo ripetendo, inascoltati, da troppo tempo: ci sono tutte le avvisaglie pericolosissime che con questa caldissima estate può riprendere la stagione delle rivolte con tutti i rischi e le conseguenze che abbiamo conosciuto nella primavera del 2020. L’anniversario della ‘visita di Stato’ Draghi-Cartabia a Santa Maria per noi non può passare inosservata: si tratta di mettere fine una volta per tutte al clima buonista nei confronti dei detenuti e alla campagna contro gli agenti ‘violenti e picchiatori’ che perdura appunto da un anno”. “In attesa di misure e provvedimenti più ampi anche di carattere legislativo chiediamo a Parlamento e politica di definire un primo pacchetto di misure di emergenza, aprendo gli occhi sulla realtà del nostro sistema penitenziario - conclude -: dalle carceri del Nord e del Sud del Paese boss ed esponenti di spicco della criminalità organizzata comandano al punto che i casi di ordini e minacce estorsive, persino via telefono, si susseguono da tempo e interessano numerosi istituti penitenziari specie quelli con detenuti a regime 41 bis. Noi continuiamo a mettere in guardia: è ora - non domani - il momento di agire”. Un grido di allarme che arriva anche dalle regioni. Nelle Marche la Fns Cisl ha annunciato di disertare la cerimonia per l’Anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria, nato 205 anni fa, e previsto presso l’istituto di Ascoli Piceno. E anche Sappe, Osapp, Sinappe, Uilpa, Uspp, Cgil e Cnpp hanno deciso di disertare l’iniziativa. “Non si può festeggiare visto quello che si vive quotidianamente nelle carceri - sottolinea Antonio Lagianese, di Fns Cisl Marche. Ogni giorno contiamo gravissimi eventi critici come aggressioni, colluttazioni e minacce, senza contare il sovraffollamento dei detenuti, l’alto numero di soggetti in attesa di giudizio per le note difficoltà del sistema giudiziario, l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie, le gravi carenze delle dotazioni di personale. Tutti questi fattori non fanno altro che peggiorare le già precarie condizioni lavorative dei poliziotti penitenziari che di conseguenza si ritrovano ad essere sempre più soli. La situazione non rappresenta di certo motivo di festeggiamenti per coloro che ogni giorno, 24 ore su 24, vivono la tensione e l’operatività dei servizi d’istituto. - conclude Langianese. Questa ricorrenza ci deve far riflettere sul futuro del Corpo, e sul malessere generale che vive giornalmente il personale”. Raccomandazioni dei magistrati “sdoganate”: soluzione condivisa da Csm e Anm di Rosario Russo* Il Dubbio, 6 luglio 2022 Caro Giudice Ordinario, ti è stato contestato un sensibile ritardo nel deposito di un provvedimento? Sei nei guai. Ti conviene affidarti a un bravo Difensore, che sappia districarsi nell’aggrovigliata giurisprudenza della Sezione disciplinare del Csm. Ma se non hai scrupoli, infine ti sarà suggerita altra più comoda soluzione (v. infra). Sei invece coinvolto nelle chat del dott. Palamara, allora autorevole componente del Csm, perché gli hai chiesto ‘ raccomandazioni’ per te o per altri? No problem. Il Sistema ti scagiona in quattro mosse. 1. Dopo avere sequestrato nel 2019 le chat, la Procura competente non vi ha ravvisato alcun reato, neppure quello previsto dagli articoli 110 e 323 c. p., il cui perimetro di azione è stato frattanto ‘ provvidenzialmente’ ristretto (con Dl n. 76 del 16 luglio 2020, convertito con legge n. 120 del 2020). La Suprema Corte non concorda sul sostanziale annichilimento introdotto, secondo taluni, dalla riforma (Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5.). Peraltro proprio l’art. 10 del codice etico dell’Anm - imperativo anche per i magistrati che non ne facciano parte - prevede espressamente il divieto di raccomandare e di farsi raccomandare. Inoltre proprio il menzionato delitto viene contestato nei procedimenti a carico dei professori universitari, taluni dei quali - in tema di raccomandazioni - non hanno niente da ‘ invidiare’ ai numerosi magistrati coinvolti nelle chat. Può non piacere e... non piace, ma dopo tre anni bisogna arrendersi al dato fattuale: i pm considerano reato e perseguono le abusive o spartitorie interferenze fra docenti universitari, non quelle tra magistrati! 2. Tenuto per legge a esperire l’azione disciplinare, il Procuratore generale presso la Suprema Corte (infra Pg) - ricevuto le chat - ha emesso due ‘editti’. Con il primo ha statuito in linea generale che l’interferenza diretta - quella cioè con cui il magistrato si raccomandava personalmente con il dott. Palamara (c. d. autopromozione) - non è scorretta e quindi comporta l’archiviazione. Con il secondo ‘editto’ egli ha prescritto la segretezza dell’archiviazione, per cui nessuno (neppure il Csm e a fortiori il denunciante e lo stesso magistrato indagato) ha il ‘diritto’ di accedere alle archiviazioni. Per conseguenza nessuno ha il diritto di sapere se anche le eteroraccomandazioni - cioè quelle triangolari (il giudice X raccomanda a Palamara il giudice Y per la nomina ad un importante Ufficio) - siano state oggetto di esplicita archiviazione. Buio pesto. Il Consiglio di Stato, dopo avere sostenuto nel 2020 la natura amministrativa dell’archiviazione, ha con nonchalance decretato nel 2021 il suo carattere giurisdizionale, affermando che è disciplinata dal codice di rito penale. Ma allora per ovvia conseguenza - il Pg è tenuto ad applicare l’art. 116 c. p. p. Norma che tutto fa tranne che impedire a priori la conoscenza dell’archiviazione, perché anzi - per rendere verificabile l’obbligatorietà dell’azione - ha anticipata nel procedimento penale l’attuazione del principio di trasparenza, poi introdotto anche nel settore amministrativo. Fatto si è che migliaia di archiviazioni predisciplinari emesse dal Pg silentemente sfuggono ogni anno a qualunque ‘ controllo’, giacché quello (comunque improprio) del ministro della Giustizia (l’unico espressamente previsto) non è obbligatorio (art. 107, 2° Cost.). Il Pg resta così l’esoterico dominus non solo dell’archiviazione, ma anche della sanzione disciplinare, giacché l’apposita Sezione del Csm non può agire d’ufficio. 3. La Procura di Perugia ha trasmesso per competenza le chat anche al Consiglio superiore della magistratura. Il suo Comitato di Presidenza (composto dal Vicepresidente nonché dal Pg e dal Primo presidente della Suprema Corte) si è attivato, assegnando l’esame delle chat alla valutazione della Prima commissione, competente sui procedimenti amministrativi per incompatibilità oggettiva (ambientale o funzionale), cioè incolpevole. È di tutta evidenza un “binario morto”, giacché niente è più intenzionale di una (auto o etero) raccomandazione. In concreto la Prima commissione si limita a chiedere ai dirigenti degli Uffici interessati se la raccomandazione del magistrato indagato - che frattanto è stata divulgata su tanti giornali e su libri di grande successo, creando grave sconcerto - abbia creato strepito o ‘turbamenti’! ‘Ovviamente’ gli stupefatti magistrati interpellati rispondono negativamente, dicendo - per esempio - che le chat “non hanno suscitato alcun commento presso la sua sezione” o addirittura ‘sentenziando’ che “non vi è nessuna incompatibilità, né ambientale né funzionale” (così si legge nella delibera attinente alla dott.ssa D. Ferranti). Quindi la Commissione propone l’archiviazione, che viene normalmente condivisa dal Plenum. D’altronde, mentre nessuno ha interesse ad impugnare l’archiviazione, al Csm non può sfuggire che qualunque trasferimento coattivo non resisterebbe davanti al giudice amministrativo, fondato essendo su atti decisamente intenzionali, quali sono (per definizione) le raccomandazioni. Si ha notizia che - almeno in due casi (procedimenti nei confronti del dott. Forciniti e della dott. ssa Canepa) - alcuni benemeriti consiglieri del Csm hanno pubblicamente lamentato che il Pg avrebbe dovuto promuovere l’azione disciplinare. Ne ha data pubblica conferma un consigliere non togato, l’avvocato Stefano Cavanna (Il Foglio, 1° luglio 2022). 4. Infine, caro Giudice ordinario, non temere neppure gli strali dell’Anm, se tu ne faccia parte. Intanto essa ti concede - in frontale contrasto con il proprio statuto l’opportunità di dimetterti per evitare la sanzione (exit strategy di cui non si avvalse il dott. Palamara), come ha fatto la dott. sa Donatella Ferranti (consigliere della Suprema Corte). Ma anche se pensi di non potere ‘ reggere’ al distacco dall’associazione, qualunque sia la decisione dei Probiviri o del C. d. c., non temere alcunché. In disparte il caso personale di Palamara, l’Anm ti protegge, rendendo nei secoli dei secoli segreta, anche nei confronti degli associati, tanto l’archiviazione quanto l’eventuale e (probabilmente) più sporadica sanzione! A questo punto - infatti - è probabile che anche i Probiviri attendano l’immancabile archiviazione del Pg e del Csm per disporre anche l’inazione endoassociativa. Dunque, in quattro mosse, nell’ombra del segreto e con una serie di concatenate archiviazioni, il Sistema ha, in fatto e in diritto, riabilitato la ‘raccomandazione’ all’interno dell’ordinamento giuridico, per cui qualunque magistrato ordinario potrà impunemente avvalersene, anche colui cui siano contestati ritardi nel deposito di provvedimenti. Pochi rammentano che tuttavia, a seguito dello scandalo delle “Toghe sporche”, il Capo dello Stato non ha proceduto allo scioglimento del Csm soltanto per rendere più sollecita, a tutti i livelli, la legittima reazione alle scandalose chat del dott. Palamara e dei suoi numerosi correi. Resta smarrito l’Utente Finale della Giustizia, in nome del quale i giudici decidono: aveva letto che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 Cost.) e che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.)! Qualcuno potrà salvare la Magistratura, la Democrazia e la Repubblica da così ‘raffinatissima’ perversione istituzionale? Certamente sì: il buon Dio, il più Alto Magistrato, Presidente del Csm per volontà dei lungimiranti Costituenti, e la libera Stampa. *Già sostituto procuratore generale Cassazione Quelle anomalie nel processo sull’omicidio di Cerciello Rega di Luigi Manconi La Repubblica, 6 luglio 2022 Le motivazioni della sentenza che in Appello ha ridotto la condanna da ergastolo a 24 e 22 anni al vaglio di alcune riflessioni sul comportamento irrituale dei due militari nel momento del controllo che ha portato all’omicidio del 26 luglio 2019. E dei maltrattamenti di uno dei due imputati in caserma dopo l’arresto. Qualche settimana fa sono state rese note le motivazioni della sentenza di appello per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. In primo grado, gli imputati, due giovani turisti americani, erano stati condannati all’ergastolo; l’appello ha inflitto all’autore materiale del delitto, Finnegan Lee Elder, 24 anni di reclusione e al complice, Gabriel Natale Hjorth, 22. Il ridimensionamento delle pene sembra andare incontro a una ragionevole richiesta di giustizia per due ventenni trovatisi, come è palese, in una situazione più grande di loro, che li ha travolti per sempre. Le incongruenze in aula - Eppure, le incongruenze del processo e della sentenza sono assai significative (come evidenziato da cronisti attenti quali Valentina Stella e Andrea Ossino). Dunque, vale la pena - è proprio il caso di dire, trattandosi di un esercizio doloroso - riprendere la questione e approfondire alcuni elementi: innanzitutto per rispetto della memoria di un giovane uomo, ucciso a trentacinque anni; e per evitare che la sua fine sia segnata da zone d’ombra e da interpretazioni approssimative. Il punto cruciale: i due carabinieri si qualificarono? Vediamo. Un punto cruciale del dibattimento ha riguardato l’ipotesi che i due americani fossero a conoscenza o meno dell’identità delle persone che li avevano fermati. Ossia i due carabinieri si erano qualificati come tali in maniera comprensibile per due persone straniere con scarsa o, in un caso, nulla conoscenza della lingua italiana? Oppure è plausibile che Elder e Hjorth li avessero scambiati per due anonimi aggressori e se ne fossero difesi? L’esibizione dei tesserini da parte dei carabinieri rimane affidata solo alle dichiarazioni del secondo militare, Andrea Varriale, che non eliminano il dubbio di uno spazio temporale insufficiente per prelevare i documenti, mostrarli a distanza e poi riporli prima di procedere al contatto fisico. Di conseguenza, la ricostruzione degli attimi precedenti presenta una serie di punti oscuri. “I militari agirono con superficialità” - I legali degli imputati e, in particolare, l’avvocato Renato Borzone hanno evidenziato 54 contraddizioni nella deposizione di Varriale, ma la Corte ne ha presi in esame appena 9. Tuttavia, le valutazioni di quest’ultima sono particolarmente severe: “È senz’altro chiaro come i due militari abbiano agito con superficialità, omettendo di adottare modalità e cautele previste dai protocolli operativi e, in particolare, lasciando in caserma l’arma di ordinanza, contravvenendo all’ordine di servizio: l’operazione è infatti sicuramente anomala”. Ma i due americani non potevano non sapere - Ciò nonostante, scrivono i giudici, tali comportamenti vanno fatti risalire “a un’involontaria distorsione di prassi, posta in essere da un militare di grande professionalità e riconosciuta esperienza”. Ma i rilievi indicati dalla Corte, a proposito delle contraddizioni di Varriale, che pure sono appena una piccola parte di quelle segnalate dalla difesa, non vengono considerate sufficienti a sostenere la tesi che i due americani potessero ignorare l’identità di chi li aveva fermati. Il sostanzialismo dei giudici - La sostanziale “anomalia” (secondo la Corte) dell’intera operazione non basterebbe a motivare una ricostruzione più aderente ai fatti e alla logica di quanto avvenne quella notte. Ma questo sembra essere il filo conduttore che ha orientato il giudizio del Tribunale, inducendolo a un sostanzialismo che sembra insofferente verso alcune garanzie che il diritto pone a tutela della correttezza assoluta delle procedure. Un sostanzialismo che rivela una ridotta sensibilità, in nome della colpevolizzazione del reo, verso il rigore dei vincoli e dei limiti, delle guarentigie e delle forme. Il secondo punto chiave: i maltrattamenti in caserma - Ma c’è un altro punto cruciale. Uno degli americani, poco dopo il fermo, venne sottoposto a maltrattamenti e a bendaggio all’interno di una caserma. I fatti hanno portato all’apertura di due procedimenti penali ma, per la Corte, non sarebbero stati sufficienti a compromettere il successivo interrogatorio, che, dunque, va considerato valido a tutti gli effetti. Ma si può ritenere tale una deposizione - anche se avvenuta a distanza di qualche ora e in un altro luogo - così pesantemente preparata e condizionata da un trattamento illegale? Quella zona di confine ai limiti della legalità - Da qui una riflessione: tutta la vicenda, a partire dal primo contatto dei due turisti con spacciatori e confidenti fino all’intervento dei carabinieri e, poi, al fermo e al trattenimento in caserma, risente di un ambiente e di un clima ben precisi. Sono l’ambiente e il clima in cui può accadere che si svolgano gran parte delle relazioni tra consumatori di sostanze psicoattive, spacciatori delle stesse, intermediari e, non raramente, membri delle forze di polizia. Relazioni che, secondo gli strateghi della repressione del mercato delle droghe, sono necessariamente situate in una zona “di confine” e al limite della legalità. Dove, cioè, persone ricattate o prezzolate scambiano ruoli, segnalazioni e piccoli e grandi vantaggi con spacciatori e militari. Tutto ciò in situazioni dove le regole sono flessibili e derogabili, dove si chiudono gli occhi davanti ad alcuni reati e li si sgranano davanti ad altri. Dove le diverse figure sociali assumono contorni variabili. Dove, insomma, il primo obiettivo da perseguire è il mantenimento dello status quo, che non prevede cambiamenti radicali e, tanto meno, mutamenti degli equilibri e dei rapporti di forza. Il codice occulto della complicità - In altre parole, a parte le occasionali ed “eccezionali operazioni contro il narcotraffico”, questa sembra essere l’ordinaria politica della droga nei centri urbani: una sorta di ordine illegale garantito dalla disponibilità dei vari attori a rimanere nei propri ranghi e all’interno dei propri spazi, a rispettare le altrui competenze, a non violare un codice occulto ma ferreo che stabilisce le funzioni di ognuno. Ecco, potrò sbagliarmi, ma l’omicidio di Cerciello Rega sembra essere stato il tragico “incidente” che ha fatto saltare questo ordine micro-criminale. Presupposti di configurabilità del reato di sfruttamento del lavoro di Tommaso Targa e Giuseppe Sacco Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2022 Con la sentenza n. 24388/2022, pubblicata il 24 giugno 2022, la Cassazione (quarta sezione penale) ha definito gli elementi costitutivi della fattispecie del reato di sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis cod. pen. Esso è qualificabile come reato istantaneo con effetto permanente, potendo essere commesso attraverso l’assunzione del lavoratore sfruttato in condizioni di bisogno. Tuttavia, la norma penale incrimina non solo l’assunzione in sé, ma anche la condotta, protratta nel tempo, consistente nella utilizzazione o impiego di fatto del lavoratore. Di conseguenza, il comportamento del datore di lavoro è rilevante penalmente a partire dal momento in cui il lavoratore viene assunto e per tutto il tempo in cui il rapporto di lavoro continua in regime di sfruttamento. Il fatto. La vicenda trae origine da un sequestro preventivo, disposto dal Gip presso il Tribunale di Lamezia Terme, di un rilevante importo a carico del legale rappresentante e dell’amministratore di fatto di una azienda, gravemente indiziati del reato di sfruttamento del lavoro. A seguito di una ispezione della Guardia di Finanza, è stato accertato che presso l’azienda venivano sistematicamente violate le disposizioni inderogabili, di legge e di contratto collettivo, poste a tutela dei lavoratori. Questi ultimi, a partire dall’assunzione, venivano informati che avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto dalla contrattazione collettiva; in costanza di rapporto, hanno subito la unilaterale trasformazione dei loro contratti da full time a part time, percependo - da quel momento in poi - la retribuzione corrispondente al “formale” orario di lavoro part time, ma continuando a lavorare comunque un numero di ore pari al tempo pieno, oltre a svolgere ulteriori ore di lavoro straordinario; non fruivano di ferie, permessi, riposi settimanali. L’importo sequestrato è stato quantificato in misura pari all’ingiusto profitto conseguito dall’azienda attraverso l’omesso pagamento della retribuzione dovuta ai lavoratori per le ore di lavoro effettivamente prestate. Il sequestro è stato convalidato in sede di riesame con ordinanza del Tribunale di Catanzaro: ordinanza che è stata, quindi, impugnata con ricorso per cassazione e confermata in sede di legittimità. La norma. Il reato è stato introdotto dall’art. 12 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. La norma penale è successivamente sostituita dall’art. 1, comma 1, della l. 29 ottobre 2016, n. 199. L’attuale versione dell’art. 603 bis cod. pen., rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, dispone quanto segue: “[I]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. [II]. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. [III]. Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. [IV]. Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà: 1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”. I motivi che hanno giustificato l’introduzione, nel 2011, di tale nuova fattispecie di reato erano connessi alla necessità - conseguente all’adozione di misure interne volte all’attuazione della direttiva 2011/36/UE, concernente la prevenzione e la repressione della tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime - di colmare un vuoto normativo venutosi a creare fra gravi ipotesi di riduzione in schiavitù e tratta degli esseri umani (represse dagli art. 600 e ss. c.p.) e illeciti di natura contravvenzionale, in quanto tali di modesto disvalore penale (previsti dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 27 6, meglio noto come la c.d. “legge Biagi”), volti a reprimere alcune forme di intermediazione e interposizione illecita. L’originaria formulazione della norma puniva l’intermediazione, che poteva essere realizzata solo dal caporale, con eventuale concorso nel reato del datore di lavoro ai sensi dell’art. 110 c.p. Con la citata l. 29 ottobre 2016 n. 199, invece, è stato ampliato l’ambito applicativo della norma equiparando, sotto il profilo sanzionatorio, il c.d. caporalato alla condotta del datore di lavoro che assume e si avvale di manodopera. Motivi di impugnazione. Il ricorso in cassazione è stato fondato sulla ritenuta violazione della disciplina della successione di leggi penali ex art. 2 cod. pen.. I ricorrenti hanno sostenuto che l’inclusione dei datori di lavoro, tra i possibili soggetti attivi del reato, è stata introdotta solamente nel 2016. Poiché i lavoratori di che trattasi erano stati assunti anteriormente all’introduzione del reato, i ricorrenti hanno sostenuto che la disposizione penale non sarebbe a loro applicabile, non potendo operare retroattivamente. La Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha evidenziato che il reato - per la sua natura permanente - viene commesso a partire dal momento in cui i lavoratori vengono assunti a condizioni non in linea con le previsioni di legge e di Ccnl. Ma la commissione del reato non si consuma in questo momento, protraendosi per tutta la durata in cui in concreto si verifica lo sfruttamento dei lavoratori. Di conseguenza, il reato può essere commesso anche quando i datori di lavoro hanno assunto i lavoratori prima dell’introduzione della norma penale, ma hanno continuato a mantenerli in servizio, in condizioni di sfruttamento, successivamente all’entrata in vigore della suddetta norma, così come modificata dalla novella del 2016. Con estrema chiarezza, la sentenza ha argomentato che “il reato si perfeziona attraverso modalità alternative che riguardano non solo l’assunzione ma anche l’utilizzazione o l’impiego di manodopera. Non è esatto, pertanto, sostenere che, ai fini della individuazione del momento perfezionativo del reato, debba aversi riguardo al solo dato primigenio dell’insorgenza del rapporto di lavoro … la lesione del bene giuridico protetto dalla norma permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento; pertanto, a far data dal 4 novembre 2016 il datore di lavoro che assume, impieghi o utilizzi manodopera nella ricorrenza dei presupposti di scritti nel comma 1, n. 2, della citata norma, deve rispondere del reato di sfruttamento di manodopera”. Tale argomentazione della Suprema Corte appare in linea con la fattispecie di reato, il cui primo elemento costitutivo è costituito dalla condizione di sfruttamento che, come si può dedurre dalla dizione normativa, presuppone la reiterazione della condotta criminosa con la conseguenza che il singolo inadempimento (come potrebbe essere, ad esempio, la mera assunzione) nemmeno sarebbe idoneo a integrare la fattispecie. Tale conclusione, dunque, oltre ad essere perfettamente in linea con il tenore letterale della norma penale, è coerente con l’intento del legislatore di punire lo sfruttamento, da intendersi come comportamento per definizione prolungato nel tempo. Pertanto, il reato è già di per sé integrato nel momento in cui avviene l’assunzione dei lavoratori a condizioni di sfruttamento, ma ovviamente il reato richiede anche l’effettiva applicazione di tali condizioni nella gestione del rapporto di lavoro e si protrae per tutto il tempo in cui queste condizioni contra legem vengono imposte ai lavoratori. La sentenza, peraltro, ha sottolineato che il conteggio dell’importo sequestrato è stato correttamente effettuato tenendo conto delle retribuzioni non corrisposte a partire dal 2016, ossia da quando è stato introdotto il reato che i ricorrenti hanno commesso, proseguendo nella loro condotta illecita, iniziata anteriormente. Da ultimo, la Cassazione ha anche definito la nozione di stato di bisogno: quest’ultimo non richiede che lo sfruttamento del lavoratore avvenga mediante costrizione fisica o morale. E’ invece sufficiente che il datore di lavoro approfitti del contesto socio economico e della situazione personale del lavoratore per imporgli condizioni di lavoro inferiori agli standard di legge: condizioni che vengono accertate obtorto collo “per la necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo, nel contesto in cui è maturata la vicenda, possibili reali alternative di lavoro”. Come si può usare (bene) Avvenire che è anche giornale da galera Avvenire, 6 luglio 2022 Gentile direttore, sono un detenuto che si trova nel carcere di Reggio Emilia. Era da tempo che volevo scriverle questa lettera, ma rimandavo sempre a causa dei miei impegni di studio: sono iscritto al secondo anno al Corso di Laurea Magistrale in Giornalismo e cultura editoriale, alla Facoltà del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali dell’Ateneo di Parma. Lo scorso 14 giugno ho svolto il mio decimo esame in Geopolitica e Globalizzazione. Andò benissimo: 30/30 coi relativi complimenti del docente, per la prova scritta. L’idea di scriverle mi balenò dal momento in cui sul suo giornale (io oserei dire sul nostro giornale - mio e di don Daniele (con quanto sto per dire non scoprirò certo l’acqua calda) - ha voluto sottolineare che fra i tanti quotidiani che orbitano nella galassia della stampa del nostro Paese, ‘Avvenire’ è l’unico ad entrare nelle carceri gratuitamente. Lo fa con eleganza, con garbo. Il nostro giornale, direttore, è l’unico a interessarsi in modo serio e continuo delle politiche che girano attorno al carcere. Io lo leggo da anni - mi trovo in carcere ininterrottamente da 31 anni - e non mi ha mai scioccato. In esso io ho sempre trovato una comunicazione ragionata, riflessiva, obiettiva. Dal nostro giornale, ho tratto importanti articoli, a firma soprattutto di Glauco Giostra, che mi hanno aiutato a elaborare al meglio le mie relazioni scritte per le prove d’esame. Ho trovato delle analisi lucidissime, approfondimenti fatti da persone esperte che hanno narrato del carcere come se lo avessero fatto di persona. Ritagliavo gli articoli che trovavo più interessanti e li spedivo per via posta alla ‘mia’ tutor: la dottoressa Annalisa Margarita da poco laureata a Parma alla Magistrale col massimo dei voti, con una tesi che ha per titolo ‘Costruire Percorsi di Ritorno’ nella quale parla, appunto, di carcere. Gli articoli che procuravo alla ‘mia’ tutor son serviti a lei: ‘materiale’ di ricerca affinché potesse citarli nella sua tesi. Si figuri che la dottoressa di cui le sto parlando è laica e da circa un anno legge ‘Avvenire’. Stessa cosa sta facendo il mio docente di tesi, anch’egli laico. Io trovo eccezionale la sezione Agorà, tantissimi sono i ritagli che spedisco ai miei docenti presso l’Università di Parma. ‘Avvenire’ sarà pure un “Giornale da galera” ma io ho trovato fin da subito che è da galera un giornale che ti fa evadere dalla galera... Un caro saluto. Antonio Sorrento, Reggio Emilia Grazie, gentile e caro signor Sorrento. Mi piace molto come usa e come ‘vive’ il nostro ‘Avvenire’. Lettere come la sua rafforzano la determinazione a continuare a essere anche un ‘giornale da galera’, vicino a tante persone che pagano i loro debiti con la giustizia e, come è giusto, se vengono loro date le giuste occasioni, ritrovano se stessi e un posto nella comunità di cui siamo tutti parte. Auguri di cuore per la sua Laurea magistrale e per la vita che si è riconquistato Bologna. Le borse di “Gomito a Gomito” cucite dalle detenute per l’Ageop di Ottavia Giustetti La Repubblica, 6 luglio 2022 Da fuori sembrano soltanto delle allegre borse da spiaggia dipinte a mano. Un fiorire di pesci, onde, coralli, alberi, fiori, frutta, gabbiani, sole e stelle marine dai colori sgargianti: bianco, giallo, fucsia, rosso, verde e blu. In realtà sono il frutto della cooperazione tra Ageop ricerca e le detenute della Dozza. I bambini e ragazzi malati di cancro ospitati nelle case di accoglienza di Ageop hanno realizzato i disegni, mentre le donne del carcere, riunite nel gruppo di lavoro “Gomito a gomito” hanno cucito le borse, una per una. Per chi volesse acquistarle la collezione, in edizione limitata, è in vendita alla sede Ageop, di via Bentivogli 9. Misha, Sofia, Massimo, Dionigi, Alì, Suzanna, Alice, Adelaide, Car­lotta, Beatrice, Donatella e Francesca sono i nomi dei giovani artisti malati di tumore, in cura presso l’oncologia pediatrica del Sant’Orsola, che hanno dipinto le borse. Artisti di età e provenienza diverse che hanno utilizzato stili e tecniche differenti: la pittura tradizionale, il Batik, la pittura a spugna e i timbri. Le donne del carcere “ci hanno messo il cuore e un grande entusiasmo, credo sia stato importante per loro sapere di collaborare a un progetto destinato alla vita dei bambini e degli adolescenti malati”, commenta Enrica Morandi, coordinatrice della sartoria del carcere. Potrebbe sembrare trascurabile, prosegue, “ma la luce e la bellezza che dai bambini di Ageop è arrivata alle donne di “Gomito a Gomito” è una cosa rara, per chi vive la carcerazione. Sapere di contribui­re al futuro di questi e di altri bambini malati ha fatto bene a ciascuna di loro e le ha aiutate a sentire una concreta occasione di reintegrazione”. Per Francesca Testoni, direttrice generale di Ageop, “in un momento così difficile, sia sul piano delle relazioni sociali che per le enormi difficoltà economiche peggiorate dalla guerra, sapere di aver contribuito al sostegno delle donne in carcere è per noi molto importante. E riuscire a coinvolgere i no· stri bambini e ragazzi in un progetto di solidarietà destinato ad aiutare gli altri è fondamentale”. Ma non è finita qui Perché le borse sono così belle che è già stata ideatala “collezione autunno-inverno”; questa volta utilizzando stoffe invernali: grosse lane da cappotto rifinite con manici di cuoio. Tutto il ricavato della vendita delle borse con etichetta “Ageop & Gomito a Gomito” sarà suddiviso in parti uguali tra le due realtà che hanno preso parte al progetto e contribuirà a sostenere i servizi di accoglienza. di Ageop e il progetto di sartoria a cui partecipano le donne lavoratrici. Oltre che ad avviare altre attività di lavoro nella sezione maschile del carcere, a partire dai primi di luglio. Livorno. “Gorgona ti fa piangere due volte”. Mazzerbo in pensione dopo 38 anni di Stefano Taglione Il Tirreno, 6 luglio 2022 Il direttore del carcere saluta: “Arrivai nel 1989, pensavo di stare poco tempo”. “A Gorgona piangi due volte: quando arrivi e quando parti. Qui, nella solitudine, ho imparato ad ascoltare me stesso. Non scorderò mai i nuovi arrivati della polizia penitenziaria, appena usciti dalle scuole, spaesati e impauriti che però, dopo una settimana, si sentono già bene. E i detenuti che, guardandosi sempre alle spalle, si stupiscono di camminare liberi per l’isola senza le guardie a seguirli”. Carlo Mazzerbo, 65 anni, è emozionato. Non trattiene le lacrime alla festa organizzata in suo onore al ristorante interno all’ex colonia penale agricola. Gorgona, il suo “regno” da direttore del carcere dal 1989 al 2005 e poi, da quando è diventata sezione distaccata dalle Sughere, dal 2019 ad oggi. Lui e l’isola, una vita in simbiosi e piena di progetti che hanno visto la salvezza degli animali da macello, il potenziamento dell’agricoltura e l’apertura allo sbarco dei visitatori da Livorno con i detenuti coinvolti come guide turistiche per spiegare cosa significa per loro quel luogo di fine pena, preludio al ritorno alla libertà. Le mostre fotografiche - tantissime, con il poliziotto e artista Pierangelo Campolattano (che ha scattato le foto che pubblichiamo ndr) in prima linea - si sono incrementate sempre più. “Poi abbiamo piantato 500 alberi da bosco - prosegue l’ormai ex direttore del carcere livornese - e dopo aver rifatto le facciate degli edifici, su un vecchio muro grigio ora ridipinto, abbiamo impresso parte dell’articolo 27 della Costituzione dove si dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Perché Gorgona è questo. Non a caso, anche a distanza di anni, continuo a sentirmi con le persone che hanno trascorso qui parte della loro vita. Mi raccontano cosa fanno, il lavoro che stanno svolgendo. Così come i poliziotti, con cui sono rimasto sempre in contatto. Voglio ringraziarli tutti, al pari dei miei collaboratori. Così come le istituzioni, grazie alle quali abbiamo potuto finanziare dei progetti fantastici per migliorare l’isola. Ma posso dire lo stesso anche delle Sughere: in un ambiente difficile abbiamo veramente svolto un gran lavoro”. Mazzerbo, prima di arrivare a Gorgona, ha girato l’Italia: “Il primo febbraio del 1984 ho vinto il concorso pubblico e sono diventato vicedirettore dell’allora penitenziario di Pianosa - prosegue - poi, sempre nello stesso ruolo, sono stato inviato a Massa, Patti (in Sicilia, provincia di Messina ndr) e come direttore aggiunto a Catania e Como”. Poi la meritata promozione: direttore del carcere di Monza e successivamente anche a Porto Azzurro (all’Elba) e a Massa Marittima. “Quando sono entrato al ministero della Giustizia avevo 27 anni - ricorda - e ne è passato di tempo. Nel 1989, quando venni mandato a Gorgona, pensavo di rimanerci solo qualche anno. La storia poi è andata diversamente: mi sono innamorato dell’isola, ideando e costruendo progetti su progetti. Insieme a me va in pensione anche una colonna dell’amministrazione, la contabile Sonia Citti, che si è occupata proprio della ragioneria dell’ex colonia penale. Sarà una dipendente difficilmente rimpiazzabile”. Durante la festa, che si è tenuta sabato scorso, è stato inaugurato anche un nuovo giardino dedicato a Nicola Perillo, l’assistente capo degli agenti penitenziari recentemente scomparso a 47 anni. “Cosa farò adesso? Mi prenderò cura di me stesso perché questi ultimi anni, a livello lavorativo, sono stati intensi - prosegue - e, anche in pensione, se ci sarà bisogno sarò ben contento di dare una mano. Se tornerò a Gorgona? La considero un’esperienza chiusa e se ne occuperà il mio successore, quando verrà nominato. I miei figli ci sono molto affezionati e qualche volta potrei tornare con loro, per accompagnarli. Ma io, da privato cittadino, mi farò solo una passeggiata e mi sederò sul porto a guardare il mare. Per il resto continuerò a vivere a Livorno, una città che adoro come le persone che la abitano”. Cagliari. Quei talenti rinchiusi dietro le sbarre di Matteo Vercelli L’Unione Sarda, 6 luglio 2022 Viaggio nel carcere di Uta tra giovani detenuti: le storie di chi spera in un futuro e di chi ha scacciato i cattivi pensieri. Lo sguardo ti implora. “Lo faccia sapere a chi è fuori: qui dentro si vive male. Siamo in quattro in celle da due, d’estate si muore di caldo, d’inverno patiamo il freddo. Giusto che paghiamo per i nostri errori. Ma chiediamo solo di trascorrere la nostra detenzione in modo più dignitoso”. Varcare il portone del carcere di Uta significa dimenticarsi per un po’ della vita di tutti i giorni. Qui i minuti e le ore trascorrono sempre nello stesso modo. E per i detenuti non è facile andare avanti. “Se sono ancora qui”, racconta un omone che dietro le sbarre ha già trascorso più di 30 anni, “è perché sono stato forte. Molto forte. Altrimenti sarei già all’altro mondo”. Le maglie dei calciatori - Le celle raccontano tanto di chi sta scontando pene per ogni tipo di reato. Accanto ai poster, ecco le maglie di calciatori. Abbondano quelle del Cagliari. “Ma qui”, spiega un giovane detenuto, “ci sono soprattutto tifosi di altre squadre come Juventus, Milan e Inter”. Questi ragazzi, finiti nei guai soprattutto per reati legati allo spaccio di droga e ad atti di violenza, sperano un domani di poter uscire e andare a seguire una partita allo stadio. Ora devono scacciare cattivi pensieri, combattere la noia e affrontare le sfide che la vita in cella ti presenta ogni giorno. Perché qui dentro, e gli agenti della Polizia Penitenziaria lo sanno bene, l’idea di togliersi la vita attraversa la mente di tanti. C’è chi - non tanti per fortuna - ci prova. Le risse, gli episodi violenti non mancano perché dietro le sbarre anche la più piccola delle cose può diventare una bomba a orologeria. “Dobbiamo intervenire spesso. C’è chi prova a suicidarsi, chi aggredisce il compagno di cella. C’è chi mette fuoco ai materassi o agli arredi. Insomma il lavoro, spesso pericoloso e complicato, non manca”, dicono quasi sottovoce due poliziotti. E le denunce dei sindacati della Polizia Penitenziaria non si contano più. I talenti - Per molti il tempo sembra essersi fermato. “Ho già passato venti anni e ne devo ancora fare altri dieci per una serie di rapine”, confida un cinquantenne, accento nuorese. Fuori c’è chi lo aspetta. Ma manca ancora troppo prima che l’abbraccio dei cari possa diventare realtà. Accanto ci sono dei ragazzi. Possono essere suoi figli. Sono dei detenuti “speciali” perché hanno la possibilità di lavorare. Sempre all’interno del carcere: nei laboratori di falegnameria ci si inventa di tutto. “Io realizzo scatolette in legno”, spiega un detenuto. “Ho imparato dai più grandi, da quelli esperti”. C’è un artigiano che riesce a costruire piccoli vascelli ma anche maschere e oggetti tipici dell’artigianato sardo. Un talento per ora confinato in queste quattro mura. Ma almeno, raccontano, “il tempo così trascorre più velocemente”. Si sconfigge la noia, si allontanano cattivi pensieri e si va avanti. “Il lavoro”, conferma l’omone che in trent’anni ha conosciuto diversi penitenziari, “ti aiuta ad avere speranza. Io non sono più giovanissimo ma per i ragazzi imparare qualcosa è fondamentale per poter fare qualcosa un domani quando usciranno da qui”. La dignità - Nella sezione dei lavoratori il clima non è di festa ma certamente si respira più tranquillità. Lo conferma anche il direttore del carcere di Uta, Marco Porcu: “I detenuti che hanno un’occupazione sono più sereni e dunque più gestibili. I progetti che permettono di avere dei lavori all’interno dei penitenziari dovrebbero essere potenziati perché oltre a formare e poter consentire un più semplice reinserimento nella società quando si uscirà dal carcere, trasmettono ai detenuti una dignità e una tranquillità che permette agli agenti della Polizia Penitenziaria e all’Amministrazione di gestire il tutto con più facilità”. “Fateci uscire dall’inferno” - Ma chi lavora, nel carcere di Uta, è una minoranza. Gli altri possono fare ben poco. C’è la biblioteca, c’è chi può leggere un libro o un giornale. Ci sono gli spazi ricreativi, per fare una partita a biliardino o a tennistavolo. Qualche area per lo sport. E terreni da coltivare. “I prodotti”, sottolinea una agente della Penitenziaria indicando gli orti, “vengono dati alla Caritas”. Dalle celle c’è chi urla: “Fateci uscire, questo è l’inferno”. “Venite qui a vedere come ci fanno vivere”. Anche nel carcere di Uta si sopravvive. Per alcuni detenuti le occasioni di riscatto sociale ci sono e tanto si sta facendo per aumentarle. Per troppi la cella rischia invece di essere l’unico orizzonte da osservare. E se una volta fuori, scontata la pena, il 70 per cento dei detenuti commette nuovamente un reato e ritorna così in carcere, probabilmente qualcosa - forse più di qualcosa - nei penitenziari non funziona. “Prima di tutto”, è la filosofia del detenuto omone, “devi fare affidamento su te stesso. Altrimenti qui non sopravvivi. Le amicizie che nascono sono importanti, ma anche queste se non sei forte, psicologicamente, non bastano”. E guardando i tanti ragazzi pieni di vita, chiusi dentro queste quattro mura, e ascoltando le loro storie, spesso normali con l’aggiunta di un incidente di percorso, i rimpianti sono tanti. Roma. “La buona libertà”, quando il riscatto sociale diventa realtà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2022 È stato proiettato in anteprima, lo scorso 16 giugno, al Teatro Libero di Rebibba Nuovo Complesso, il Docucorto “La Buona Libertà”. Il cortometraggio, prodotto da Strikemonth e firmato alla regia da Stefano Calvagna, con la fotografia di Massimiliano Cuzzupoli, racconta, in chiave documentaristica attraverso la storia avvincente di Marco Costantini, il tema del reinserimento sociale degli ex detenuti e le difficoltà che essi si trovano ad affrontare durante e dopo il percorso detentivo. La scelta del carcere per realizzare l’anteprima, è stata fortemente voluta dal produttore Ettore Terzo in quanto luogo più idoneo per trasmettere quel messaggio di speranza rivolto al primo vero pubblico per il quale l’opera è stata realizzata, i detenuti, i quali hanno partecipato attivamente e con interesse all’evento. La storia di Marco Costantini si pone come esempio e testimonianza di un riscatto sociale, del raggiungimento di una buona libertà il cui cammino, come lui stesso confida al suo amico ed interlocutore, è stato lungo e tortuoso. Marco ripercorre le tappe salienti del suo percorso detentivo, insolito ed esemplare, un racconto ricco di aneddoti e riflessioni sul sistema carcerario e sulle problematiche che esso comporta. A tal proposito gli interventi dell’Onorevole Rita Bernardini e del sostituto commissario coordinatore in quiescenza Luigi Giannelli, rimarcano le problematiche e l’importanza della finalità costituzionale della rieducazione delle carceri. Hanno collaborato alla realizzazione del docu corto e partecipato all’evento, membri del Partito Radicale e l’affiliata Ong italiana “Nessuno tocchi Caino”; tra gli attivisti presenti Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e Francesca Mambro. Alcuni di loro, invitati dal produttore, hanno preso parola in sede di dibattito avvenuto subito dopo la proiezione. Non potevano mancare l’intervento di Marco Costantini e del regista Stefano Calvagna, il cui profilo è noto per la grande capacità e spiccata sensibilità nel mettere in scena fatti di cronaca, problematiche legate all’emarginazione, con l’intento di dare voce a chi non ne ha. L’evento si è concluso con un simpatico sketch realizzato ed interpretato da Gianfranco Zedde, imitatore e sosia ufficiale di Bombolo. L’evento ha ottenuto il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, dando credito al valore culturale dell’opera audiovisiva. Milano. “Second Chance”, la seconda possibilità che tutti meritano di Francesca Amè vanityfair.it, 6 luglio 2022 Presentato in anteprima al carcere di Bollate il documentario diretto da Erika Brenna, con Cristiana Capotondi come narratrice di quattro storie di rifioritura personale dopo l’abisso. Un documentario che parla a ciascuno di noi “It’s all about people”, sono sempre le persone a fare la differenza. In certe situazioni di dolore, questo vale ancor di più. Lo dimostra Second Chance, il documentario ideato e diretto dalla produttrice creativa Erika Brenna, con Cristiana Capotondi nel ruolo di narratrice delle storie personali di Luca e Giulia, detenuti nella struttura carceraria di Bollate, insieme a quelle di Renato, ex senzatetto di Roma, e di Nour e Hasan, siriani fuggiti dalla guerra in maniera rocambolesca con il loro bimbo di 9 mesi. Prodotto da Cisco, il documentario - che dura poco meno di un’ora, non indugia un minuto sulla sofferenza ed è girato con rara compostezza e rispetto della dignità degli intervistati - in autunno sarà disponibile in streaming su discovery+, la piattaforma del gruppo Warner Bros. Discovery. Vanity Fair lo ha visto in anteprima e non in una sala qualunque, ma nel cinema-teatro del carcere di Bollate, alla presenza della ministra della Giustizia Marta Cartabia, visibilmente colpita dal progetto e anche dalla realtà carceraria. Bollate non è la prigione che ci si aspetta: qui la vigilanza sui detenuti è “dinamica” (niente piantonamenti, si punta sulla responsabilizzazione delle persone) e l’offerta di attività espressive per il tempo libero non manca (abbiamo visto all’opera Art in prison, il gruppo teatrale del carcere, e ci siamo divertiti). Soprattutto, è notevole il progetto formativo e lavorativo: gran parte dei detenuti qui ha un lavoro, molti anche la possibilità di svolgerlo fuori dalle mura del penitenziario. Le percentuali di recidiva e di ritorno a delinquere sono in media molto più basse che in altre strutture detentive. Anche di questo parla Second Chance quando ci presenta Lorenzo Lento, specialista di informatica, con la certificazione di docente presso i corsi Cisco, a capo di una cooperativa che svolge attività formativa nelle carceri (vogliamo chiamarlo un “santo laico”? A lui la definizione non piacerebbe, ma rende l’idea della sua persona). I suoi corsi rientrano nella Cisco Networking Academy che, come ben sa chi lavora nel settore, sono molto quotati. Luca e Giulia - età e storie diverse, lui un omone maturo, ex carabiniere, lei giovane ragazza dal passato difficile, entrambi detenuti per un reato gravissimo, omicidio - proprio grazie a questi corsi hanno trovato una nuova opportunità di guardare al futuro. Attraverso le competenze informatiche che hanno permesso loro di trovare un lavoro e grazie al rapporto personale con Lento, hanno ritrovato il senso del loro esistere. Così come sta succedendo ad altri 200 detenuti in tutta Italia che nell’informatica hanno scoperto una strada utile per ripagare il loro debito con la società e rimettersi in gioco (e sapete - dati alla mano - qual è il tasso di recidiva di carcerati che hanno terminato i corsi base? Zero). Di (ri)fioritura personale quando la vita sembra andare a picco parla Second Chance, narrando anche la storia di Renato, ex barista rimasto senza casa durante la pandemia, e l’odissea di Nour e Hasan, biologa lei, architetto lui, scappati dai campi profughi siriani grazie al primo corridoio umanitario voluto da papa Francesco: qui è la Comunità di Sant’Egidio, a Roma, ad aver attivato i mezzi necessari per offrire quella seconda possibilità che tutti si meritano. It’s all about people, sono sempre le persone a fare la differenza (noi inclusi). Genova. Teatro dell’Arca: per la prima volta sul palco i detenuti dell’Alta sicurezza di Rosaria Corona Il Secolo XIX, 6 luglio 2022 Mercoledì 6 luglio e venerdì 8 luglio alle 20.30 sul palco del Teatro dell’Arca, costruito nel 2013 all’interno del carcere genovese di Marassi, saliranno per la prima volta dieci detenuti della sezione di alta sicurezza. Saranno protagonisti di “7 minuti”, spettacolo diretto da Sandro Baldacci e Igor Chierici, liberamente ispirato all’omonimo testo di Stefano Massini, reduce dalla vittoria del premio Tony Award 2022 per “Lehman Trilogy”. Lo spettacolo - prodotto dall’associazione Teatro Necessario che dal 2005 opera all’interno del penitenziario genovese - racconta di una trattativa sindacale tra i vertici di una fabbrica, in questo caso l’Ilva di Taranto, venduta ad una multinazionale, e gli operai ai quali viene chiesto di ridurre la pausa pranzo da quindici a otto minuti. Chiusi nella stanza a discutere, gli operai dovranno decidere se questa clausola è veramente piccola come sembra o se, al contrario, non nasconda una trappola in grado di far subire agli operai pesanti conseguenze in futuro. A poco a poco il dibattito si accende e ognuno di loro dovrà ripercorrere pubblicamente la propria vita prima di arrivare ad esprimere la propria decisione, se acconsentire oppure no. “Ne viene fuori un dibattito interessante, in cui non si parla solo di rivendicazione di diritti. La struttura del testo, privata dei monologhi, assume maggiore intensità presentando lo stesso meccanismo teatrale de ‘La parola ai giurati’ di Sidney Lumet”, spiega al Secolo XIX il regista Sandro Baldacci. Lo spettacolo, in preparazione dallo scorso novembre, rappresenta qualcosa di più di una rappresentazione qualsiasi, una sorta di ponte verso l’esterno soprattutto per questi detenuti, che, essendo sottoposti ad un regime diverso rispetto agli altri reclusi, hanno pochi contatti con l’esterno. “Sono tutti molto emozionati, è un momento estremamente importante per loro - sottolinea Baldacci - Tutto ciò rappresenta una grande risorsa, un impiego del tempo che non è più vuoto, ma pieno. È un’attività creativa che offre la possibilità di mettersi in gioco e avere l’occasione di farsi apprezzare”. Il progetto è stato realizzato grazie al contributo del ministero del Lavoro e delle politiche sociali e Regione Liguria con il supporto dell’Istituto Vittorio Emanuele II-Ruffini e il sostegno di Compagnia San Paolo nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra”. Per acquistare il biglietto e avere ulteriori informazioni sullo spettacolo è possibile visitare la pagina ufficiale del Teatro dell’Arca. Vasto (Ch). Ricoclaun raddoppia la street art al penitenziario zonalocale.it, 6 luglio 2022 Oggi alle 19 inaugurazione del murales realizzato grazie all’aiuto dell’artista Faini. Rosaria Spagnuolo, presidente di Ricoclaun, ha dichiarato con una nota che l’associazione è stata capofila di un progetto regionale per la realizzazione di un murales artistico nella parete esterna dello stabile del penitenziario vastese. L’iniziativa dal titolo “Solo chi sogna può imparare a volare”, è stata realizzata grazie alla collaborazione di artisti, volontari dell’associazione e detenuti semiliberi. Ricoclaun ha ripetuto l’esperienza dell’anno scorso, su sollecitazione di Cecilia Clelio, volontaria storica delle carceri. Giuseppina Ruggero, direttore della casa circondariale di Vasto, ha chiesto di realizzare un’altra opera di street art per il muro esterno della struttura vicina all’ingresso. Un progetto diverso, svolto con la collaborazione dell’artista Lorenzo Faini, dei volontari di Ricoclaun, Elia Faini e Roberto Novelli, e alcuni detenuti semiliberi. L’opera, “una bellissima street art”, è stata finanziata da Odv Ricoclaun, Un Buco nel tetto e Avi Alzheimer Vasto e sarà inaugurata domani alle 19. “Un lavoro impegnativo, - ha detto Spagnuolo - soprattutto con il caldo di questi giorni, un murales fatto di tante sfumature di colore, come d’altronde è la vita e che ha visto la riqualificazione urbana di un’altra struttura del carcere dove emerge la creatività e la bellezza, ma al tempo stesso inclusione, condivisione, solidarietà, vicinanza, per dare a quello spazio un nuovo significato”. Tso, quando la privazione della libertà è illegale di Luigi Manconi La Repubblica, 6 luglio 2022 Tra le funzioni attribuite dalla legge al Garante c’è, prioritariamente, quella di monitorare i luoghi in cui sono ricoverate le persone sottoposte a trattamento. Visitandoli. Ricevo questo messaggio: “Le chiedo aiuto perché non so come comportarmi… Si tratta del mio fidanzato ricoverato con Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) a seguito di episodio psicotico. Non me lo fanno vedere da venerdì perché dicono che è agitato e ho capito che da oggi, o per lo meno l’ho scoperto oggi chiamando, gli stanno applicando contenzione fisica e farmacologica. Come potrei intervenire? Non siamo sposati e pertanto a livello legale non sono nessuno”. In un secondo messaggio la signora scrive: “Non ha nemmeno il telefono [gli è stato tolto, nota mia LM]. Ormai sono sette giorni che mi negano una visita”. Dopo molte insistenze e, grazie al supporto di A Buon Diritto onlus, che da anni conduce una importante campagna proprio su tali temi, finalmente alla donna viene concesso di vedere il proprio compagno. Questa vicenda riporta alla mente un episodio di molti anni fa. Estate 2009, telecamere di sorveglianza interne al reparto psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania. Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni, staziona fuori dalla porta gialla antipanico che separa il reparto dal resto dell’ospedale: citofona, sollecita, chiede di parlare con suo zio, che si trova lì da un paio di giorni, sottoposto a Tso. Aspetta, ma le rifiutano la visita e viene allontanata. Franco Mastrogiovanni muore dopo poche ore, legato a un letto e senza mai avere ricevuto cibo o acqua nei quattro giorni del suo ricovero. Per la sua morte sono stati condannati in via definitiva infermieri e medici riconosciuti colpevoli di sequestro di persona. La totale mancanza di cura e di attenzione risulta evidente dalle 87 ore di filmato, che hanno registrato l’agonia e la lenta morte dell’uomo, legato al letto ininterrottamente. A partire da quella vicenda A Buon Diritto onlus ha ascoltato moltissime storie, impegnandosi a dare supporto a pazienti e familiari, organizzato campagne e animato dibattiti, unitamente a una rete di comitati e associazioni di malati, parenti, medici e infermieri, diffusa sull’intero territorio nazionale. Una impresa assai ardua, anche perché la contenzione meccanica viene utilizzata di frequente, ma solo di rado se ne viene a conoscenza. Così il Tso si trasforma, spesso, in un regime di privazione della libertà totalmente illegale, pur essendo prevista una procedura dettagliata per la sua applicazione. Ne consegue che una misura completamente irrazionale ed abusiva, come la sottrazione del telefono personale, venga comunemente accettata. Ma dove è scritto? Quale magistrato lo ha deciso? A quale criterio di sicurezza e di cura risponde? E lo stesso vale per gli incontri con i familiari. Tra le funzioni attribuite dalla legge al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale c’è, prioritariamente, quella di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà: ovvero, oltre al carcere, i luoghi di polizia, i centri per gli immigrati, le Residenze per le misure di sicurezza (Rems), i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), cioè i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori. Il Garante nazionale si sta muovendo in tale direzione, ma troppi sono i luoghi da sottoporre a controllo e vigilanza perché non si verifichino irregolarità e veri e propri crimini. Forse è giunto il momento di ripensare la struttura dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura e prevedere un sistema di controllo che garantisca la legalità al loro interno. L’accusa di Amnesty: “Con la guerra siamo diventati ostaggio dei dittatori” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 6 luglio 2022 “Sotto ricatto di nuovi fornitori di gas, per non finanziare Putin rischiamo di finanziare le repressioni in Egitto e Algeria”, denuncia il portavoce di Amnesty. “La Nato si allarga sulla pelle dei curdi: ora Erdogan ha mani libere per cancellarli”. “La Nato si è venduta a Erdogan gli eroi di Kobane”, denunciava Il Riformista qualche giorno fa. “La penso esattamente così”, ci dice una intervista Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Questa guerra - è la sua premessa - sta scompaginando tutto. Da un lato mettendoci sotto ricatto di nuovi fornitori di gas e petrolio, dato che dobbiamo diversificare le fonti. Non finanziando, giustamente, la guerra della Russia, rischiamo però di finanziare repressioni, vecchie e nuove, come nei casi dell’Algeria, dell’Egitto e degli Stati del Golfo. Il secondo sconvolgimento è che aumenta il potere di Stati noti per violare i diritti umani, di fronte ai quali si è costretti ad essere ancora più accondiscendenti. L’elemento politico che l’allargamento della Nato si fa a spese dei diritti di una popolazione, mi pare evidente. Ma questo non è solo un dato politico. È un dato che ha a che fare profondamente con i diritti umani. Perché prefigura che Stati molto generosi dal punto di vista dell’asilo cambieranno attitudine e prefigura anche che quella mano libera lasciata alla Turchia nel nord della Siria già dal 2019 continuerà ad essere libera e porterà a termine l’obiettivo, cioè di ripulire la zona di confine tra Turchia e Siria da ogni presenza curda”, afferma Noury. Ieri la visita di Draghi proprio ad Ankara. Sembra un’era geologica fa, quando il presidente del Consiglio italiano definiva Erdogan un dittatore, creando il gelo tra i due Paesi. Dopo la guerra tutto è cambiato. “Quel titolo de Il Riformista racconta una verità. A Madrid, nel vertice Nato, i curdi sono stati traditi e consegnati al loro carnefice: Erdogan”. A sostenerlo è Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia. “La Nato si è venduta a Erdogan gli eroi di Kobane”. Così titolava questo giornale in merito alle decisioni assunte nel recente vertice Nato a Madrid. Lei che ne pensa? La penso esattamente come titola Il Riformista. La premessa generale è che questa guerra sta scompaginando tutto. Da un lato mettendoci sotto ricatto di nuovi fornitori di gas e petrolio, dato che dobbiamo diversificare le fonti. Non finanziando, giustamente, la guerra della Russia, rischiamo però di finanziare repressioni, vecchie e nuove, come nei casi dell’Algeria, dell’Egitto e degli Stati del Golfo. Il secondo sconvolgimento è che aumenta il potere di Stati noti per violare i diritti umani, di fronte ai quali si è costretti ad essere ancora più accondiscendenti. L’elemento politico che l’allargamento della Nato si fa a spese dei diritti di una popolazione, mi pare evidente. Ma questo non è solo un dato politico. È un dato che ha a che fare profondamente con i diritti umani. Perché prefigura che Stati molto generosi dal punto di vista dell’asilo cambieranno attitudine e prefigura anche che quella mano libera lasciata alla Turchia nel nord della Siria già dal 2019 continuerà ad essere libera e porterà a termine l’obiettivo, cioè di ripulire la zona di confine tra Turchia e Siria da ogni presenza curda. Tutto questo con l’avallo di una Europa che continua a sottostare al ricatto turco rispetto all’esternalizzazione delle frontiere... Questo è iniziato nel marzo 2016, con l’accordo tra Unione europea e Turchia. Lì, 6 anni fa, è passato il principio che basta pagare lautamente un soggetto delegandogli il compito di tenere sotto controllo le frontiere dell’Unione europea perché il problema sia risolto. Quell’accordo Ue-Turchia ha poi avuto uno sviluppo che conosciamo bene... A cosa si riferisce? Al Memorandum d’intesa tra Italia e Libia dell’anno successivo, il 2017. Ma per tornare alla Turchia, 6 anni fa Erdogan ha preso il coltello che gli era stato dato dall’Unione europea, dalla parte del manico, e ora lo usa per il suo obiettivo, che è sempre il solito: risolvere quello che avverte come un enorme problema di sicurezza, vale a dire la presenza curda all’interno del paese e nelle zone di confine. E da oggi può farlo ancora più impunemente. Cosa fa davvero paura dell’esperienza curda, come quella, ad esempio, che si era tentata nel Rojava? I curdi hanno un proverbio: i nostri unici amici sono le montagne. Mai è vero come in questa occasione. Sono stati utilizzati nell’ultimo secolo più volte, in alcuni casi anche ingenuamente hanno fatto affidamento su promesse. Penso, solo per fare un esempio, alle promesse fatte agli inizi degli anni ‘90, quando alla fine della prima guerra contro l’Iraq si disse che i curdi potevano stare tranquilli. E poi Saddam Hussein rimase al potere e fece un massacro dei curdi, che nel frattempo erano insorti con la benedizione degli Stati Uniti. Quello che è successo in Siria lo conosciamo bene perché è storia recente. Abbiamo chiesto ai curdi di liberarci dallo Stato Islamico, li abbiamo ringraziati e poi traditi. La tragedia curda non fa più notizia, per non parlare di quella palestinese o yemenita. E non fanno nemmeno più notizia le stragi di innocenti che si continuano a consumare nel Mediterraneo. Per non parlare della Libia e dei lager di migranti che continuano a funzionare senza soluzione di continuità... È un tipico difetto delle leadership internazionali quello d’intervenire, spesso male, su una determinata crisi, su quella e basta. Oggi è il turno dell’Ucraina che ha fatto dimenticare l’Afghanistan. L’arrivo dei talebani a Kabul il 15 agosto scorso ha fatto dimenticare il Myanmar e costantemente vengono dimenticate tante altre vicende, come le guerre africane che poi producono quei flussi che arrivano in Libia e che trovano quel destino che sappiamo. Questo è un problema. Enorme. Questo atteggiamento miope delle leadership internazionali a cascata fa sì che i media mainstreaming seguano quella crisi, l’opinione pubblica s’informi e si attiportunista. vi su quella crisi e tutto il resto passa inosservato. Questi media mainsreaming di cui lei parla, non sono anche veicolo e al tempo stesso espressione di un pervasivo pensiero unico? Io parlerei di un pensiero politico dominante. E cioè quello che dobbiamo fare i nostri stretti interessi. Si è detto, lo hanno fatto e ripetuto le istituzioni italiane, che in Libia dobbiamo stare con un piede dentro, perché se togliamo quel piede che abbiamo messo dentro lasciamo la Libia nelle mani di Russia, Francia e Turchia. Mettere un piede dentro ha significato essere complici in crimini di diritto internazionale nei confronti di migranti e di richiedenti lo status di rifugiati. L’indulgenza che è totale nei confronti d’Israele fa sì che delle sorti e delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi non si sappia nulla. Si utilizzano termini quali “conflitti” e “scontri”, quando tutto quello che accade lì è conseguenza di quello che Amnesty International ha chiamato, documentandolo in numerosi rapporti, un sistema di apartheid d’Israele nei confronti dei palestinesi. E quando ci serve la Turchia, ecco dimenticati i curdi. Direi che c’è un pensiero politico unico di tipo opportunista, cinico, miope, basato essenzialmente, se non totalmente, sulle necessità di una parte del modo che è quella dove siamo noi. Per restare sulla Libia. In una nostra conversazione di un anno fa, lei definì la Guardia costiera libica “una creatura diabolica costruita dall’Italia. Un anno dopo è dello stesso avviso? Assolutamente sì. Nel frattempo abbiamo avuto i dati riguardanti il 2021 che portano il totale delle persone intercettate in mare da quella creatura malefica e riportate esattamente in quei luoghi infernali da cui erano fuggite, a oltre 70mila. In questo arco di tempo sono andate avanti inchieste giornalistiche e anche indagini giudiziarie su crimini attribuiti a quella sedicente Guardia costiera. Il giudizio mi pare più che attuale, purtroppo. Sono passati oltre undici anni, da quella guerra che portò all’abbattimento del regime di Muammar Gheddafi e all’eliminazione fisica del Colonnello. A distanza di oltre un decennio, come definirebbe la Libia di oggi? Un luogo di assenza dello stato di diritto, dei concetti basici di istituzioni statali, Non credo che per dire cosa sia diventata la Libia, vi sia una definizione migliore di quella di Francesca Mannocchi: “In Libia per avere il potere occorre avere le armi. E per avere le armi occorre avere il denaro. E per avere il denaro, occorre avere i migranti”. E noi siamo il soggetto un po’ erogatore di tutto questo. Un tempo c’era quello che si definiva “internazionalismo”, il sostegno a popoli in lotta per la liberazione dal giogo coloniale, da sanguinari regimi militari e così via. Oggi cosa è rimasto? Qualcosa è rimasto. Perché la simpatia che ha prodotto l’esperienza del Rojava vuol dire che in una piccola parte dell’opinione pubblica la solidarietà continua ad esserci. Ma tutto sommato è poco rispetto alla realtà. La realtà che è quella di utilizzare popolazioni quando servono e poi prendere uno scacciamosche per respingerle lontano. D’internazionalismo sul piano istituzionale, ne vedo ben poco, direi assolutamente nulla. Possiamo prendere qualsiasi parametro e la conclusione è sempre la stessa. Non c’è stato internazionalismo nella difesa di popoli oppressi. Non c’è stato internazionalismo nel garantire vaccini per tutte e per tutti, e scardinare questo meccanismo dei brevetti, l’unione tra Stati ricchi e aziende farmaceutiche. A pagare sono sempre gli stessi: i popoli del sud del mondo. Tornando al vertice Nato di Madrid: rispetto a quello che si è deciso non solo sui curdi ma anche sugli armamenti, la distinzione conservatori/progressisti scompare... Quando sono in gioco i diritti fondamentali, di queste distinzioni non ne vediamo poi molte. Ricordiamoci nel nostro piccolo che quella nefasta stagione che va avanti ancora adesso di collaborazione, da un lato, con le autorità libiche in materia di immigrazione e dall’altro di criminalizzazione della solidarietà, ha un nome e un cognome: quello dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. Non è ascrivibile a Salvini, per essere chiari. In generale, rispetto a quest’ultima fase, mi sembra che, quando affermavo all’inizio che la guerra sta scompaginando tutto, tale scompaginamento ha prodotto anche questo risultato, cioè rischiare di far cambiare attitudine a quegli Stati generosi nei confronti dell’immigrazione, di dare ancora più peso a un leader autoritario come Erdogan e far dimenticare tutto il resto. Mi lasci aggiungere che la battaglia non è finita a Madrid. Se Erdogan ha una lista di persone di cui vuole ottenere l’estradizione da Svezia e Finlandia, qui si lede un principio fondamentale del diritto internazionale, cioè il principio del non rimpatrio, che prevede che nessuno possa essere espulso, rimpatriato, respinto verso il luogo di origine se lì rischia di subire violazioni dei diritti umani. Al di là del caso specifico, chi è la persona, se è un dissidente, se ha partecipato alla lotta armata, chiunque sia, quel principio si applica a tutti. Io mi auguro che abbia inizio una stagione di lotte, di attivismo e anche di contenzioso giudiziario. Le avvocate e gli avvocati per i diritti umani e le organizzazioni per i diritti umani in Svezia e Finlandia utilizzino l’arma del ricorso alla giustizia per impedire che ci sia quell’esito che Erdogan vuole e che al vertice di Madrid è stato accettato, cioè farsi rimandare in casa persone considerate nemiche. La deterrenza nucleare: un genocidio programmato da disinnescare Il Manifesto, 6 luglio 2022 Il 7 luglio ricorre l’anniversario del Tpan (Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari), adottato a New York nel 2017, un Trattato, entrato in vigore nel 2021 dopo la cinquantesima ratifica (adesso siamo a quota 66 ratifiche), proprio di recente sottoposto a revisione dalla Conferenza degli Stati parti tenutasi a Vienna, dal 21 al 23 giugno. L’importanza di questo strumento giuridico sta nel fatto che proclama l’illegalità della deterrenza nucleare, cioè si va oltre la condanna della minaccia dell’uso, lo stesso possesso degli ordigni atomici è considerato da bandire. Dobbiamo innanzitutto premettere l’assoluta incompatibilità della deterrenza nucleare con ogni tipo di etica pubblica, come bene argomentato dal teologo e attivista pacifista, Padre Richard Mc Sorley (“È un peccato costruire un’arma nucleare”). E dall’arcivescovo di Seattle, Padre Raymond Hunthausen. “Una volta accettata la possibilità di usare l’arma nucleare, qualsiasi altro male, è al confronto, un male minore, ed ogni speranza di un miglioramento generalizzato della moralità pubblica è condannata al fallimento”. Passando però alle considerazioni sul piano più strettamente giuridico, noi consideriamo la preparazione di una guerra atomica molto più di un crimine di guerra: è una presa in ostaggio delle popolazioni minacciate di rappresaglia per “dissuadere” uno Stato ostile da un attacco nucleare. Quindi siamo di fronte a un crimine contro l’umanità, ovvero, di un “genocidio programmato”, secondo la fattispecie definita nel 1948 dalla Assemblea generale dell’Onu, accolta nell’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale firmato a Roma il 17 luglio 1998. Quando si parla di “deterrenza” abbiamo quattro modi diversi in cui può essere affrontato il rischio di un attacco atomico, non necessariamente incompatibili l’uno con l’altro; vale a dire: 1) La distruzione preventiva delle armi avversarie; 2) L’intercettazione delle armi atomiche; 3) La protezione fisica contro gli effetti delle esplosioni; 4) La minaccia di rappresaglia, caso che rappresenta il minimo comune denominatore di ogni dottrina di deterrenza. In questo senso possiamo considerare la “deterrenza nucleare”, ad essere più precisi e specifici, come un tentato genocidio, perché lo sterminio indiscriminato è sicuramente programmato, minacciato, organizzato, ma non è stato, con tutta evidenza, al momento perpetrato (e preghiamo e lavoriamo perché questa eventualità non abbia mai a verificarsi!). Ma torniamo alla sede internazionale che condanna senza mezze misure la deterrenza nucleare, e la pone fuori legge: è, come si diceva all’inizio, il percorso della proibizione delle armi nucleari che a Vienna qualche giorno fa ha attraversato una sua tappa fondamentale. Nella dichiarazione finale di Vienna troviamo scritto: “Gli Stati parti hanno riaffermato la complementarità del trattato con il regime internazionale di disarmo e non proliferazione, compreso il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), e si sono impegnati a continuare a sostenere il Tnp e tutte le misure che possono contribuire efficacemente al disarmo nucleare”. Affermando che il Tpnw (trattato di proibizione) è più che mai necessario in queste circostanze, gli Stati parti hanno deciso di “procedere con la sua attuazione, con l’obiettivo di stigmatizzare e delegittimare ulteriormente le armi nucleari e di costruire costantemente una solida norma globale perentoria contro di esse”. Ora questo strumento del Tpnw andrà a confrontarsi direttamente con le potenze nucleari ad agosto a New York rispetto all’ordine giuridico rappresentato dal Tnp. La dichiarazione di Vienna si conclude con le seguenti parole: “Di fronte ai rischi catastrofici posti dalle armi nucleari e nell’interesse della stessa sopravvivenza dell’umanità… Non ci fermeremo finché l’ultimo Stato non avrà aderito al Trattato; l’ultima testata non sarà stata smantellata e distrutta e le armi nucleari non saranno state totalmente eliminate dalla Terra”. È un fatto positivo che alcuni Paesi della condivisione nucleare Nato, quelli dell’Unione europea come Germania, Belgio e Olanda, abbiano deciso di prendere parte come Stati “osservatori” alla Conferenza di Vienna, di fatto avallando positività e utilità di questo percorso. Ed è invece deprecabile che il governo italiano abbia disertato l’incontro, in uno spirito di accodamento alla egemonia americana. A Vienna una ottantina di delegazioni di Stati hanno quindi concordato posizioni importanti e aperto un dialogo con i Paesi della condivisione nucleare Nato, Germania, Belgio e Olanda, presenti come Stati osservatori. Sono tutti ben coscienti, questi Paesi, che il possesso di armi nucleari non serve affatto ad assicurare la pace ed è piuttosto una seria minaccia verso l’umanità intera e l’intero ecosistema globale. Una scelta, quella italiana, ancora più vergognosa e grave in questo momento storico segnato dalla guerra in Ucraina, in cui la minaccia nucleare si fa seria per le possibilità di escalation e l’opposizione popolare maggioritaria è attestata da tutti i sondaggi. Peraltro, la presenza delle testate Usa ad Aviano (Pordenone) e a Ghedi (Brescia) lungi dal garantirci, difenderci e rassicurarci, ci rende solo più vulnerabili, per l’appunto “ostaggi” della guerra atomica, vittime potenziali del genocidio programmato in corso. Noi, come società civile, saremo presenti a New York ad agosto alla revisione del Tnp, perché intendiamo batterci nello spirito di Vienna, affinché il Trattato di proibizione venga riconosciuto come strumento di attuazione dell’articolo VI del Tnp: le trattative in buona fede che devono condurre al disarmo completo. Ed in Italia continueremo ad insistere per la presentazione di un disegno di legge di ratifica del Tpnw. Al di là della approvazione immediata, non alla portata purtroppo di questo Parlamento, riteniamo comunque utile che il tema del disarmo nucleare e del suo rapporto con i rischi bellici, ecologici e sociali, debba fare parte del dibattito nella campagna elettorale per le prossime politiche del 2023. Alfonso Navarra - Disarmisti esigenti (tra le organizzazioni membre Ican) Antonia Sani - Coordinamento antinucleare europeo Alex Zanotelli - Missionario comboniano Moni Ovadia, Artista Migranti, il piano Ue sulle quote di Marco Bresolin La Stampa, 6 luglio 2022 Ventidue Paesi entrano nel meccanismo di solidarietà. Entro l’estate il via libera alle prime redistribuzioni. Roma: corsia preferenziale per chi è stato salvato in mare. “Entro l’estate scatterà la prima redistribuzione dei migranti che sbarcano sulle coste mediterranee”. La rivelazione fatta da una fonte diplomatica europea poggia su un dato di fatto: nelle riunioni delle ultime due settimane tra le delegazioni degli Stati membri è cresciuto il numero dei Paesi che hanno sottoscritto impegni concreti, offrendo il loro contributo alla piattaforma di solidarietà lanciata dalla Commissione. Un contributo non soltanto sotto forma di aiuti finanziari, ma anche in termini di accoglienza. Lunedì il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese è attesa a Praga per un vertice informale con i suoi colleghi che servirà proprio per fare il punto della situazione e possibilmente sancire il via libera al nuovo meccanismo ideato nei mesi scorsi dalla presidenza francese. Si tratta di un sistema “temporaneo” (durerà un anno) e su base volontaria, visto che il regolamento di Dublino non è stato ancora riformato. Ma il piano rappresenta comunque una svolta perché gli impegni presi dagli Stati che ne faranno parte saranno vincolanti, alleggerendo così il carico su quelli che si trovano in prima linea: al momento sono 22 gli Stati che hanno accettato di partecipare alla piattaforma, tra cui anche Norvegia, Svizzera e Liechtenstein (che non fanno parte dell’Ue). Tra i big ci sono Francia, Germania e Paesi Bassi, ma spicca anche la presenza della Repubblica Ceca che, da presidente di turno dell’Unione, si è sganciata dal resto dai Paesi di Visegrad per offrire la sua solidarietà ai Paesi più colpiti dagli sbarchi. Tra i beneficiari del piano, oltre all’Italia, ci sono Spagna, Grecia, Cipro e Malta. In questi giorni gli Stati hanno comunicato alla Commissione il loro contributo e lunedì c’è stato l’ultimo confronto in vista del vertice dei ministri della prossima settimana. Alcuni hanno deciso di limitarsi ad aiuti di tipo logistico-finanziario ai Paesi più esposti (in termini di controllo delle frontiere, ma anche offrendo un sostegno per i rimpatri) oppure ai Paesi africani, stabilendo partnership economiche attraverso progetti locali per frenare le partenze. Altri invece hanno già fatto sapere alla Commissione il numero di migranti che sono disposti ad accogliere. I governi hanno però deciso di mantenere il più stretto riserbo sulle cifre offerte da ogni singolo Paese per evitare di finire travolti da polemiche interne che rischierebbero di far cadere il meccanismo, ma fonti diplomatiche assicurano che la cifra dei diecimila ricollocamenti ipotizzata nelle scorse settimane dalla presidenza francese “è assolutamente alla portata”. I Paesi volontari hanno la possibilità di esercitare le loro preferenze in merito alla “tipologia” di persone che sono disposte ad accogliere, per esempio indicando le nazionalità. Il sistema prevede che venga data priorità ai più vulnerabili e a quelli che hanno sicuramente diritto alla protezione internazionale, ma l’Italia sta facendo pressione sulla Commissione affinché venga assicurata una corsia preferenziale a tutti i migranti sbarcati in seguito a operazioni di ricerca e salvataggio in mare. Si tratta di un aspetto fondamentale per il governo guidato da Mario Draghi, che otterrebbe così la possibilità di ridistribuirli in modo rapido e senza distinzioni. Roma è infatti riuscita a far creare una categoria ad hoc nel database di Eurodac per i migranti salvati in mare e nella dichiarazione sottoscritta dai Paesi che partecipano al sistema c’è scritto chiaramente che “le ricollocazioni dovrebbero favorire principalmente gli Stati membri che devono far fronte a sbarchi in seguito a operazioni di ricerca e soccorso lungo la rotta del Mediterraneo e dell’Atlantico occidentale”. Una volta ricevuti gli impegni dai Paesi partecipanti, sarà la Commissione europea a gestire il meccanismo, coordinando le offerte d’aiuto con le esigenze degli Stati in prima linea, in collaborazione con Frontex e con l’Agenzia europea per l’asilo. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto potrebbe scattare la prima ridistribuzione. Per compattarsi la Lega ha scelto il no alla cannabis di Giulia Merlo Il Domani, 6 luglio 2022 Al vertice coi parlamentari si registra fastidio verso il governo. In attesa di ciò che farà il M5S, la Lega annuncia “barricate” sulla droga, puntando a ritrovare feeling col suo elettorato su un ddl dei dem e dei grillini. Su quello si potrà andare allo scontro politico in parlamento, marcando le proprie differenze anche in ottica elettorale, senza che Mario Draghi si senta coinvolto o messo in discussione nel suo agire di governo. “Abbiamo condiviso il fatto che dobbiamo tornare a farci sentire sui nostri temi e smetterla di subire per il bene di questa maggioranza. Ne va delle prossime elezioni politiche”, spiega un senatore che era alla riunione. La situazione rimane tesa in casa Lega. Dopo il vertice coi dirigenti, è stato il momento per il leader Matteo Salvini di incontrare i suoi parlamentari. Obiettivo: misurare davvero il clima tra i gruppi, anche in vista di un possibile strappo al governo. La data, nel caso, è già fissata e si ripete da settimane: 18 settembre, pratone di Pontida, appena prima di cominciare a discutere una legge di Bilancio che si preannuncia complicatissima. Di qui a settembre, però, mancano ancora molte settimane e i ranghi del partito sembrano sempre più divisi in fazioni. Dall’incontro con i parlamentari, tuttavia, è emersa la battaglia che potrebbe compattare tutti: il no alla legge sulla legalizzazione della cannabis, che stanno portando avanti per via parlamentare il Pd e il Movimento Cinque stelle e che dovrebbe rendere legale la coltivazione domestica di quattro piantine ed elimina la punibilità per i fatti di lieve entità e per il possesso di quantità modiche di sostanza. “Mani libere e barricate i Aula”, fanno filtrare i parlamentari a margine dell’incontro con il leader, compatti sulla linea della “tolleranza zero” sul tema della droga. Il dossier potrebbe arrivare alla Camera all’inizio della prossima settimana e potrebbe essere lo strumento giusto per Salvini per riprendere spazio, anche a livello comunicativo. Quello sulla cannabis sembra essere la questione perfetta, quasi un regalo che sta arrivando dal centrosinistra alla Lega in difficoltà: non essendo nel programma della maggioranza di governo ma trattandosi di una iniziativa parlamentare, i toni potranno essere alzati senza che l’esecutivo possa mettere bocca. Tradotto: si potrà andare allo scontro politico in parlamento, marcando le proprie differenze anche in ottica elettorale, senza che Mario Draghi si senta coinvolto o messo in discussione nel suo agire di governo. Infatti in questa direzione è andato il ragionamento politico di Salvini, che hai suoi parlamentari ha spiegato che la Lega non rinuncia alla “responsabilità” ma nemmeno ai suoi principi in materia di controllo dei confini, fisco e anche droga. L’interrogativo è: fino a quando si potrà tirare la corda con il governo? La risposta che Salvini si sarebbe dato e avrebbe esteso anche al gruppo dei parlamentari è che spazio di manovra ci sarebbe, lamentando i “due pesi e due misure” utilizzati da Draghi, con atteggiamenti di favore nei confronti dei rissosi Cinque stelle molto più che nei confronti del centrodestra. “Abbiamo condiviso il fatto che dobbiamo tornare a farci sentire sui nostri temi e smetterla di subire per il bene di questa maggioranza. Ne va delle prossime elezioni politiche”, spiega un senatore che era alla riunione. L’insofferenza nei gruppi parlamentari è sempre maggiore: il calo di consensi della Lega e i tanti - troppi secondo alcuni - bocconi amari ingoiati al governo portano più d’uno a guardare con sollievo all’ipotesi di un addio al governo proprio nel giorno simbolico di Pontida. “Responsabili sì, ma fessi no”, è la sintesi colorita del capogruppo in Senato, Massimiliano Romeo. Certo, ogni decisione spetta a Salvini, il quale ha ben chiaro che il suo partito non è fatto solo di parlamentari: i ministri del governo come anche il gruppo dei governatori del nord remano contro qualsiasi soluzione drastica che mini la fragile stabilità economica. Tuttavia, anche l’ala governista sarebbe stata colpita dall’esito delle amministrative, perdendo un po’ della sua incrollabile fiducia nei confronti dell’esecutivo. Tuttavia, per ora, la linea rimane una sorta di soluzione intermedia, in attesa di capire le prossime mosse di Draghi, soprattutto nei confronti del Movimento 5 Stelle. L’incognita sulla stabilità del governo, infatti, viene dal fronte di Giuseppe Conte e la Lega tiene gli occhi puntati sul vertice di oggi: se il premier facesse troppe concessioni al leader grillino, si confermerebbe la tesi dei due pesi e due misure e lo strappo sarebbe ancora più probabile. Una mossa del genere, però, andrebbe comunque preparata per evitare l’incubo di un nuovo Paapete. Già da dopo le amministrative, infatti, Salvini ha scelto una gestione più concertativa del partito: più riunioni e maggior dialogo, anche per evitare di essere l’unico a portare il peso politico di questa fase di magri consensi. Per ora, dunque, la Lega si limiterà allo scontro parlamentare sulle misure definite “di bandiera della sinistra”, chiedendo anche a Draghi di bloccare queste mosse “provocatorie” ma rimanendo responsabili sui provvedimenti del governo, a cui pure va ribadita l’agenda leghista: flat tax, protezione dei confini e autonomia. Una strategia, questa, che offre un po’ di respiro: intestandosi la battaglia per il no alla legalizzazione della cannabis, Salvini spera di aver trovato un tema polarizzante per l’elettorato e molto identitario per il centrodestra, che possa permettergli di cominciare a recuperare il consenso perduto in questi mesi e travasato a Fratelli d’Italia. E di farlo addirittura con l’assist del centrosinistra, tenendo fuori dallo scontro l’esecutivo. Cannabis, Germania pronta a legalizzare. Rifornisti italiani battete un colpo di Leonardo Fiorentini* Il Riformista, 6 luglio 2022 La Lega minaccia le barricate contro la legge sull’autocoltivazione di cannabis che la prossima settimana dovrebbe arrivare in Aula. In Germania invece si va verso la legalizzazione: la repressione ha fallito. Si è conclusa a fine giugno la consultazione a cura del Ministero della Sanità tedesco di oltre 200 esperti e parti interessate alla regolamentazione legale della cannabis, voluto dalla coalizione di governo rosso-giallo-verde. Spd, Verdi e Liberali cominciano ad affrontare i temi, in alcuni casi spinosi, della legalizzazione che secondo le stime porterebbe nel bilancio statale circa 4,7 miliardi di euro fra nuove entrate e minori spese. Si parte dalla considerazione che la repressione ha fallito nel suo scopo primario: la diminuzione dell’offerta e della domanda. L’obiettivo è la redazione di un documento base per l’autunno e l’avvio del processo legislativo entro l’anno. Per vederlo concluso bisognerà attendere l’autunno 2023. Durante le consultazioni esperti da Malta, Uruguay, Canada e Usa hanno spiegato come hanno regolamentato, e come è possibile garantire la protezione dei minori, una delle preoccupazioni più forti anche in Germania. Studi e statistiche dimostrano come, dopo le legalizzazioni, non si è avuto alcun aumento dell’uso fra gli adolescenti. Anzi: l’uso fra i minori è diminuito, mentre è aumentata sia l’età media di primo consumo che la percezione del rischio. La maggioranza che sostiene Scholz oltre che convincere i dubbiosi, in particolare nelle file dell’Spd, dovrà affrontare altri due ostacoli. Il primo è il consenso politico nella camera federale, ancora a guida Cdu. Il secondo è il nodo dei trattati internazionali. Potrà seguire la strada di Canada e Uruguay, portando alle estreme conseguenze l’interpretabilità delle convenzioni sancita nel 2016 all’Assemblea Generale dell’Onu sulle droghe, ovvero aprire una fase di ricontrattazione dei termini delle stesse, per sé o per tutti, opzione che però appare irrealistica. Poi ci sono gli accordi europei, a partire da Schengen. Se la parziale depenalizzazione del referendum italiano o quella totale della legge maltese non vi confliggevano, la regolamentazione legale di produzione, distribuzione e vendita nei negozi fa invece più fatica ad inquadrarsi nell’attuale tessuto dei trattati europei. Sia dal punto economico che politico, la svolta in Germania sarebbe un impulso inarrestabile in Europa e nel mondo. Anche nella rivisitazione del diritto internazionale a partire da quello europeo. Un supporto dal basso potrebbe venire dalla Iniziativa dei Cittadini Europei che - su impulso di Eumans - la Società Civile sta preparando con l’obbiettivo, dall’autunno prossimo, di raccogliere oltre un milione di firme per rendere l’Unione Europea Cannabis friendly. Rientrando in Italia i dati dell’ultimo Libro bianco sulle droghe confermano il disastro della gestione in chiave proibizionista delle sostanze. Il 35% dei detenuti è in carcere per droghe, il doppio della media europea (18%), molto di più della media mondiale (22%). È un dato più alto anche di paesi che in quanto a repressione non scherzano, come la Russia (29%). Le persone che usano sostanze che restano in carcere sono il 28% sul totale: un record negli ultimi 16 anni. La cannabis è la sostanza al centro della repressione: rappresenta il 75% dei sequestri (piante escluse), oltre il 50% delle operazioni antidroga e il 43,5% dei denunciati (dati DCSA). Oltre un milione di persone è stata segnalata ai prefetti per mero uso di cannabis dal 1990 ad oggi. Dati disarmanti, che denunciano come la legislazione sulle droghe sia il vero fulcro dell’attività repressiva dello stato e la causa vera del sovraffollamento carcerario. Paragonata al dibattito in Germania, la discussione politica italiana è altrettanto sconfortante. Nello sprint di fine legislatura, Ius Scholae e Cannabis sembrano esser diventati il centro dello scontro politico. Fra una minaccia di uscita dal Governo di Salvini e l’altra, i più attenti avranno notato come la parola “cannabis” è puntualmente evitata dal segretario del PD Enrico Letta, con una precisione tale da sospettare un sostegno solo formale. Eppure, i sondaggi mostrano un trasversale favore alla legalizzazione della cannabis, con picchi di consenso nel “campo largo” e fra i giovani. Giovani che in massa hanno firmato per il referendum e che in 20.000 hanno seguito la scorsa settimana la diretta parlamentare sulla discussione del progetto di legge Magi-Licatini. Sono quegli stessi giovani che i partiti da anni cercano di intercettare, riuscendoci poco e male. Riflettano Enrico Letta, il “campo largo” e tutti coloro che si definiscono riformisti: Muijica, Trudeau e i referendum vinti a ripetizione negli USA insegnano che la regolamentazione legale di una sostanza che è stata usata da più di un terzo della popolazione non è più questione elettoralmente neutra. La legge in discussione, peraltro, si limita a dare certezza legislativa ad un principio già assunto dalla massima giurisprudenza della Cassazione: coltivare poche piante ad uso personale non è condotta penalmente rilevante. Con la norma si definisce e limita (più che liberalizzare) questo ambito di non punibilità. Ha poi il pregio di differenziare le condotte di spaccio di lieve entità fra cannabis e droghe più pericolose. Una distinzione che esisteva già, ma che per un complicato susseguirsi di eventi - culminato con l’illegittimità costituzionale della Fini-Giovanardi - è venuta meno. A ben guardare la legge Magi-Licatini allinea semplicemente il dettato del Testo Unico sulle droghe al Diritto vivente e alla sua ratio originaria di differenziazione delle pene a seconda delle sostanze. Ammirando l’onda verde arrivare in Europa, non si tratta certo della legge di riforma complessiva che in tanti si aspettano. La sua approvazione sarebbe però un primo passo. Permetterebbe di liberare centinaia di migliaia di persone dal cappio penale, rompendo il legame con il mercato criminale, esentando le forze dell’ordine dal controllare balconi ed armadi (sic!) ed evitando di intasare i tribunali di migliaia di processi inutili. Un passo in piena linea con le conclusioni della Conferenza Nazionale sulle dipendenze di Genova del novembre scorso, anche se dispiace che la Ministra Dadone giochi oggi in retroguardia e sia incapace di rivendicarne politicamente gli esiti. *Forum Droghe Julian Assange. Alzate la voce per la sua libertà di Adolfo Pérez Esquivel* Il Manifesto, 6 luglio 2022 Si vuole far tacere col terrore i giornalisti che provano a dare informazioni sulle violazioni dei diritti umani commessi dagli Stati Uniti e da altre potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Le sofferenze che Julian Assange sta soffrendo per la sua ingiusta detenzione sono provocate dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna che vogliono silenziare e punire un giornalista che ha avuto il coraggio e l’etica professionale di pubblicare informazioni sui crimini commessi dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. Il trattamento inumano, fisico e psicologico, che sta soffrendo in prigione e gli anni di persecuzione gli hanno provocato un deterioramento fisico e psicologico. L’annuncio della sua estradizione negli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni di carcere, equivale ad una condanna a morte. Le conseguenze di questa politica repressiva, che viola il diritto alla libertà di stampa, puntano a controllare i mezzi di comunicazione. Si vuole far tacere col terrore i giornalisti che provano a dare informazioni sulle violazioni dei diritti umani commessi dagli Stati Uniti e da altre potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Di tutto ciò non si parla, si copre l’impunità dei crimini commessi contro i popoli, minacciando chi li denuncia. È deplorevole che la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, presieduta da Michelle Bachelet, non abbia la forza e gli strumenti giuridici per difendere la libertà di stampa, impedire l’estradizione di Assange e chiedere la sua liberazione. Le Nazioni Unite devono essere trasformate e democratizzate. Attualmente questo organismo non ha la possibilità di agire e di difendere la pace e la vita dei popoli e delle persone. È un faro spento che ha bisogno della forza e della volontà dei popoli per essere nuovamente acceso e tornare ad illuminare l’umanità. Mi appello ancora con forza alle associazioni di giornalisti, al mondo della cultura, ai giuristi, alle organizzazioni per i diritti umani: non rimanete indifferenti, alzate la vostra voce e chiedete la liberazione di Julian Assange. *Premio Nobel per la Pace Stati Uniti. La lunga carneficina delle sparatorie di massa di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 6 luglio 2022 Negli Stati Uniti il 4 luglio non sarà più ricordato semplicemente come la data in cui nel lontano 1776 il paese ha adottato la Dichiarazione d’indipendenza dalla Gran Bretagna, ma anche come il giorno in cui si commemoreranno le sei vittime della sparatoria di massa avvenuta a Highland Park, a nord di Chicago nello stato dell’Illinois. Oltre ai sei decessi le autorità sanitarie locali hanno prestato soccorso a trentuno feriti, di età compresa tra gli 8 e 85 anni. Dopo otto ore di ricerca i reparti speciali della Swat e la polizia locale schierata per presidiare la parata del 4 luglio hanno fermato il presunto killer di 22 anni, accusato di aver sparato contro la folla con un fucile da un tetto limitrofo al luogo delle celebrazioni. Non è ancora chiaro il movente alla base dell’attacco ma la sindaca di Highland Park, Nancy Rotering, ha detto in un’intervista rilasciata a Today show che l’arma pesante è stata ottenuta in maniera legale: “Non so da dove provenisse l’arma, ma so che è stata ottenuta legalmente”. La demografia dell’area non fa pensare che sia un attacco a sfondo razziale, scrive il New York Times. Stando all’ultimo censimento, l’84,7 per cento della popolazione di Highland Park è bianca, seguita dai latino americani (8,9 per cento) e dagli asiatici (2,9 per cento). Gli afroamericani sono solo l’0,8 per cento dei residenti. Sempre lo scorso 4 luglio, a poco meno di 800 miglia di distanza, a Philadelphia, c’è stata un’altra sparatoria. Il bilancio è di due agenti feriti, ma la polizia locale non è ancora riuscita a identificare e arrestare chi ha sparato sulla folla, che anche qui - come a Highland Park - stava festeggiando l’Independence day. Le sparatorie del 4 luglio sono soltanto le ultime in ordine cronologico di un trend che negli ultimi anni è in crescita. Stando alle statistiche del Gun violence archive, un ente di ricerca no-profit che elabora report basandosi sui documenti della polizia, notizie giornalistiche e altre fonti aperte, dal 1° gennaio 2022 al 5 luglio ci sono state 315 sparatorie di massa, dove per queste si intende un evento in cui almeno quattro persone vengono rimaste ferite o uccise. Sempre secondo l’organizzazione, la sparatoria di Highland Park è stata la quindicesima di quest’anno in cui almeno quattro persone sono state uccise negli Stati Uniti (nel 2020 la conta si è fermata a 28). Nel 2021 si sono verificati 692 sparatorie di massa, un aumento rispetto alle 611 del 2020 e soprattutto alle 417 del 2019. Negli Stati Uniti al 2014 al 2019 non si sono mai superate le 400 sparatorie di massa per anno e negli ultimi tre anni i dati dimostrano che la media è sempre più alta. I numeri di quest’anno sono in linea con il massimo dell’anno scorso se si confrontano i dati fino al 5 luglio. Dal 2020 a oggi è aumentato anche il numero delle vittime. 105 nel 2020, 153 nel 2021 e 87 solo fino al 4 luglio di quest’anno (incluse anche le sei vittime accertate dell’attacco a Highland Park). La pesante cronologia sanguinaria del 2022 è iniziata lo scorso 23 gennaio a Milwaukee quando la polizia ha trovato sei persone morte uccise a colpi di pistola all’interno di un’abitazione. Si ricorda poi quella del 3 aprile a Sacramento quando cinque uomini armati hanno ucciso sei persone e ferito altre 12. Il 12 aprile a New York è stata sfiorata la tragedia quando un uomo, arrestato nelle ore seguenti dalla polizia e ora accusato di attentato terroristico, ha sparato all’interno di uno dei vagoni della metropolitana ferendo dieci persone. Altre 16 persone sono rimaste ferite in una sparatoria avvenuta sempre a Milwaukee il mese seguente. Sempre a maggio, il 14, un giovane ha sparato contro 13 persone in un supermercato di Buffalo ferendone a morte dieci. Per gli investigatori l’aggressione è “racially motivated”, ovvero a sfondo razziale. Le vittime erano tutte afroamericane. Dieci giorni più tardi, a Uvalde, in Texas, si è consumata la strage peggiore avvenuta in una scuola dal 2012 quando nella Sandy Hook elementary school (in Connecticut) sono stati uccisi 20 bambini e sei adulti. A Uvalde un giovane è entrato con armi pesanti nella Robb elementary school e ha ucciso 19 bambini e due insegnanti. Il primo giugno sono state uccise cinque persone vicino al San Francis hospital a Tulsa, mentre tre giorni più tardi a Filadelfia in una sparatoria sono morte quattro persone altre 12 sono rimaste ferite. Una lunga lista che si è aggiornata anche ieri, quando in Wisconsin una persona è stata uccisa e quattro sono rimaste ferite nella 315esima sparatoria di massa dell’anno. A ogni strage torna al centro del dibattito pubblico americano il tema della prevenzione e del controllo delle armi. Ma il caso dell’Illinois è singolare. In un articolo del New York Times si legge che questo stato è al sesto posto tra quelli che hanno adottato leggi più severe in tema di sicurezza delle armi mentre è al nono posto per il tasso di possesso di armi. A Highland park, invece, nel 2013 un’ordinanza locale ha vietato le armi d’assalto come gli Ak-47. Tra gli ultimi provvedimenti c’è la legge approvata dal Congresso a un mese dalla strage di Uvalde. Il testo prevede l’aumento dei controlli sul possesso di armi degli aspiranti acquirenti condannati per violenza domestica o crimini giovanili significativi. Il giorno della firma della legge il presidente Joe Biden aveva detto: “Se Dio vuole, salverà molte vite”. Medio Oriente. Giornalista uccisa in Cisgiordania, il proiettile che imbarazza Biden di Rossella Tercatin La Repubblica, 6 luglio 2022 L’esame balistico non ha stabilito se il colpo sia stato esploso dall’arma di un soldato israeliano oppure no. “Chiediamo al governo degli Stati Uniti di mantenere la sua credibilità e di dichiarare Israele pienamente responsabile del crimine”, commenta il portavoce del presidente dell’Anp. Nessuna certezza. Anche l’esame balistico del proiettile che ha ucciso la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh non ha consentito di stabilire se il colpo sia stato esploso dall’arma di un soldato israeliano oppure no. Troppo danneggiata la pallottola secondo il Dipartimento di Stato americano, una posizione che ha suscitato l’ira dei palestinesi alla vigilia dalla visita nella regione del presidente Usa Joe Biden il 13 luglio. Abu Akleh è morta lo scorso maggio durante uno scontro tra militari dell’Idf e miliziani palestinesi a Jenin. Sin dall’inizio testimoni e Autorità nazionale palestinese hanno accusato gli israeliani non solo di aver colpito Abu Akleh ma anche di averla presa di mira di proposito. Dal canto suo Gerusalemme ha respinto con forza le accuse che i soldati potessero aver ucciso la giornalista intenzionalmente, ma ha ammesso che a esplodere il colpo potrebbe essere stato uno di loro. Solo una via - si pensava - avrebbe potuto stabilire con sicurezza l’accaduto, il confronto fra l’arma sospetta e il proiettile. Quest’ultimo, nelle mani dell’Anp, che per settimane si è rifiutata di consegnare il reperto a Israele o agli Usa. Nell’ultimo periodo però gli americani hanno alzato la pressione perché Ramallah cedesse, sperando di archiviare il caso prima dell’arrivo di Biden. Il nulla di fatto ha invece riacceso l’indignazione dei palestinesi verso l’accaduto e anche verso Washington. “Chiediamo al governo degli Stati Uniti di mantenere la sua credibilità e di dichiarare Israele pienamente responsabile del crimine della morte di Shireen Abu Akleh”, commenta Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente dell’Anp Abu Mazen. E il procuratore generale Akram al-Khatib definisce le conclusioni raggiunte “inaccettabili”, sottolineando che “il proiettile è in condizioni tali da poter essere esaminato” e accusando gli Usa di un atteggiamento “timido”. Una rabbia, quella dei vertici palestinesi ma anche della popolazione - Abu Akleh era un volto popolarissimo - che rischia di gettare un’ombra sulla visita di Biden in Medio Oriente (oltre che a Gerusalemme e Ramallah, il presidente si recherà anche in Arabia Saudita). Sullo sfondo del viaggio, l’obiettivo dichiarato di “integrare ulteriormente Israele nella regione”, anche tramite il rafforzamento degli Accordi di Abramo. Cui i palestinesi continuano ad opporsi. Algeria. Celebrazioni per i sessant’anni d’indipendenza, graziati migliaia di condannati africarivista.it, 6 luglio 2022 Il presidente tunisino Kais Saied, quello nigerino Mohamed Bazoum, il palestinese Mahmoud Abbas, o ancora il presidente della Repubblica araba sahrawi indipendente, Brahim Ghali, sono presenti ad Algeri a fianco del presidente Abdelmajid Tebboune, in occasione delle celebrazioni del 60° anniversario dell’indipendenza dalla Francia. Oggi è prevista una parata militare ad Algeri, la prima in 33 anni. Dopo 132 anni di colonizzazione francese, il dominio e la guerra per l’indipendenza sono tuttora regolarmente motivi di attriti con Parigi. In occasione dei 60 anni d’indipendenza dell’Algeria, il presidente della Repubblica Abdelmajid Tebboune ha firmato, ieri, cinque decreti di grazia per detenuti, in conformità con la Costituzione e le disposizioni del codice di procedura penale e del codice penale, e su parere consultivo del Consiglio superiore della magistratura. Le misure di grazia ordinaria riguardano 14.914 detenuti, condannati in via definitiva per reati ordinari, e perseguiti per reati casi, tra l’altro, di occultamento di oggetti rubati, frode, danneggiamento di immobili e utilizzo dei social media a fini eversivi. I detenuti interessati beneficeranno di una riduzione della pena di 18 mesi, per i soggetti di età inferiore ai 65 anni, e di 24 mesi, per quelli di età superiore ai 65 anni. Anche le persone non detenute beneficeranno di una remissione di 24 mesi. Misure di grazia eccezionale riguardano invece detenuti condannati in via definitiva alla pena capitale, nel senso che 14 detenuti beneficiano, in virtù di tale provvedimento, di una commutazione della pena capitale con la reclusione a 20 anni. La seconda categoria riguarda i detenuti condannati all’ergastolo per reati ordinari, diversi da omicidio, nel senso che 27 detenuti beneficiano, in virtù di tale provvedimento, di una commutazione della pena dell’ergastolo in 20 anni di reclusione. La terza categoria riguarda i detenuti affetti da cancro e insufficienza renale, condannati in via definitiva che ottengono una remissione di 24 mesi della pena. Una quarta categoria riguarda i detenuti che sono stati definitivamente condannati ed ammessi agli esami scolastici, di formazione e maturità che ottengono una remissione della pena di 24 mesi. Tebboune ha anche raccomandato misure di pacificazione a beneficio dei giovani perseguiti penalmente e posti in detenzione per aver commesso reati di assembramento. Infine, e nell’ambito dei provvedimenti presi dal presidente attraverso consultazioni con rappresentanti dei partiti politici e della società civile, è in corso di elaborazione una legge speciale a favore dei detenuti condannati in via definitiva.