Carceri: il “solito” allarme che non preoccupa più nessuno di Alessandro Capriccioli* Il Dubbio, 5 luglio 2022 L’esigenza di mettere in campo una riforma del sistema penitenziario è assente dall’agenda politica. Quando si dice che un fenomeno è “allarmante” si presuppone, per logica, che qualcuno si allarmi, e che quindi si dia da fare per risolverlo. Se però lo stesso fenomeno viene definito allarmante per cinque, dieci, vent’anni di seguito senza che nessuno si prenda la briga di affrontarlo significa che, a dispetto dell’aggettivo con cui lo si definisce, quel fenomeno è tutto fuorché “allarmante”. Prendiamo il carcere. Definire “allarmante” la relazione annuale presentata qualche giorno fa dal Garante dei detenuti Mauro Palma, da cui emergono gli stessi dati critici che come Radicali Italiani denunciamo ormai da decenni, è poco più di una formula di stile. La realtà è che il sovraffollamento carcerario, l’enorme numero di persone detenute in attesa di giudizio, l’elevatissimo tasso di suicidi, la presenza costante di bambini sotto i 3 anni costretti a vivere reclusi, le strutture inadeguate e fatiscenti, la mancanza di personale e di attività trattamentali non allarmano quasi nessuno, tant’è che negli ultimi anni nessuno ha messo in campo riforme strutturali. La sensazione è che quell’aggettivo, “allarmante”, esaurisca in sé tutta la (poca) preoccupazione che questo Paese è capace di provare per le condizioni dei suoi istituti penitenziari; e che per la maggior parte dei soggetti interessati, a partire dai rappresentanti delle Istituzioni, il compito si risolva nell’apposizione di quell’aggettivo, al punto che esso finisce per diventare quasi un alibi: abbiamo detto che la situazione è allarmante, che altro volete che facciamo? Va da sé che l’allarme, quello vero, dovrebbe esistere sul serio. Perché chi frequenta le nostre carceri, ad esempio svolgendo il proprio mandato ispettivo come nel mio caso, ha chiarissimo il fatto che le loro condizioni, oltre a violare la dignità e i diritti delle persone, vanificano ogni speranza di “rieducazione”, o per meglio dire di reinserimento sociale di chi le abita. Eppure, quelle condizioni sono là, immutabili nel tempo, così come immutabile è il fallimento di quei luoghi, testimoniato dagli spaventosi dati sulla recidiva, ossia sul numero di persone che tornano a delinquere dopo aver scontato la pena. Forse, ma è solo un’idea, sarebbe utile cambiare quell’aggettivo: la situazione dei nostri istituti penitenziari non è “allarmante”, ma “solita”. I soliti problemi, le solite criticità, il solito fallimento. Chissà, magari servirebbe a spostare quell’allarme dalle parole a qualche fatto. *Consigliere +Europa/Radicali Italiani Ergastolo. Il carcere fino alla morte crudele e insensato di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 5 luglio 2022 È agghiacciante pensare che viviamo in uno Stato che pratica una scelta così vendicativa. Uno Stato che cede all’aberrante violenta logica che al male si debba e si possa rispondere con altro male. Marco e Gabriele Bianchi sono stati condannati all’ergastolo per un crimine odioso che parla in modo tremendo al nostro cuore: la morte di Willy Monteiro per pestaggio. Eppure è agghiacciante pensare che viviamo in uno Stato che pratica una pena così crudele, il carcere fino alla morte. Uno Stato che cede all’aberrante, violenta logica che al male si possa e si debba rispondere con altro male finanche nella forma della vendetta perpetua del fine pena mai. È allo Stato che allora mi sento di rivolgere il nostro Nessuno tocchi Caino affinché nel nome di Abele, per difendere Abele, non diventi esso stesso Caino. Uno Stato-Caino che pratica, magari non più la pena di morte, ma fino alla morte. Marco e Gabriele Bianchi sono due fratelli. Sono stati condannati per un crimine odioso che parla in modo tremendo al nostro cuore: la morte di Willy Monteiro per pestaggio. Vengono in mente altri fratelli: Caino e Abele. Solo che la fratellanza, nella versione contemporanea, non è tra vittima e carnefice ma tra carnefici. Personalmente trovo la notizia della condanna all’ergastolo dei fratelli Bianchi agghiacciante tanto quanto quella del reato commesso. È agghiacciante pensare che viviamo in uno Stato che pratica una pena così crudele, il carcere fino alla morte. E degrada così la giustizia a vendetta. Uno Stato che cede alla aberrante, violenta logica che al male si possa e si debba rispondere con altro male finanche nella forma della vendetta perpetua del fine pena mai. È allo Stato che allora mi sento di rivolgere il nostro Nessuno tocchi Caino affinché nel nome di Abele, per difendere Abele, non diventi esso stesso Caino. Uno Stato-Caino che pratica, magari non più la pena di morte, ma la pena fino alla morte. Lo dico perché sono profondamente convinta che il modo in cui trattiamo Caino o i Caini, come in questo caso, è il modo in cui trattiamo Abele. Perché la violenza inflitta ad uno si ripercuote inevitabilmente nell’altro o negli altri. E ritenere che la vita stroncata di Willy possa trovare pace in una giustizia che manda per sempre in galera i suoi assassini penso sia una menzogna. Perché occorre sempre cercare forme tali da interrompere la catena perpetua del male che chiama altro male senza rassegnarsi mai a ciò che ci abbruttisce, a ciò che ci degrada ad essere animali da giungla. Il pensiero nonviolento aiuta in questo senso. Ha aiutato ad abolire la pena di morte, sta aiutando ad abolire la pena fino alla morte. Perché l’ergastolo va abolito. Ai condannati all’ergastolo, ai Caini, va invece il nostro Spes contra spem affinché decidano di cambiare se stessi, convertire la loro vita dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza. In questo senso ci viene incontro Aldo Moro, il suo schierarsi contro l’ergastolo e il suo straordinario dire e cercare “non un diritto penale migliore ma qualche cosa di meglio del diritto penale”. Se fa caldo fuori, figurarsi in carcere di Luca Sofri ilpost.it, 5 luglio 2022 Come ogni estate le ondate di caldo, sempre più intense e frequenti, complicano le già difficili condizioni nelle celle sovraffollate. Samuele Ciambriello, Garante in Campania dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, ha donato 50 ventilatori per i detenuti della casa di reclusione di Aversa, in provincia di Caserta. “Nei mesi estivi è necessario intraprendere nelle carceri iniziative che consentano ai ristretti di non vivere una doppia reclusione”, ha detto Ciambriello. In carcere l’estate è la stagione più dura. È un problema che si ripresenta ogni anno, e specialmente durante le ondate di caldo come quella in corso nelle ultime settimane, e come quelle sempre più frequenti e intense per via del riscaldamento globale. Le strutture di cemento e ferro si scaldano molto, le celle sono molto spesso sovraffollate e la carenza d’acqua e i servizi docce che funzionano a singhiozzo portano i disagi a livelli insostenibili. Non c’è un intervento organico ma di carcere in carcere ci si affida all’iniziativa dei direttori o dei volontari, sempre con l’approvazione delle direzioni. Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone, spiega: “è un problema che si ripropone di anno in anno. Il livello di malessere cambia anche a seconda della struttura del carcere, dello spessore delle mura, della posizione. Normalmente le porte delle celle sono formate da due elementi: una porta a cancello e una blindata. D’estate quella blindata rimane aperta. Il problema maggiore è per quelle celle che non hanno la porta a cancello. Ce ne sono a Regina Coeli, a Roma, con solo una pesante struttura in legno”. A fine giugno Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano, a Firenze, aveva lanciato un appello sul quotidiano La Nazione: “A Sollicciano si deve curare l’igiene, dobbiamo dare la possibilità ai detenuti di vivere una normalità, questo non sta accadendo. Loro devono convivere con gli scarafaggi e le cimici: la mattina mi fanno vedere le punture ed è inaccettabile. Poi c’è il problema del caldo, non si respira”. Sempre sulla Nazione Massimo Lensi, dell’associazione civica Progetto Firenze, ha spiegato che l’afa fa aumentare i casi di autolesionismo e disturbo psichico: “Gli psicofarmaci sono vissuti come unica soluzione per rendere tollerabile la vita quotidiana e sopportare i limiti di un carcere in cui è assente la funzione rieducativa. Così come è oggi Sollicciano è una discarica sociale”. Anche Lensi sottolinea il problema delle cimici: “i detenuti mi mostrano i loro corpi martoriati dalle punture”. A Sollicciano dovrebbero starci al massimo 490 detenuti, invece sono 650. Tre anni fa erano stati promessi stanziamenti per realizzare una doccia in ogni cella, l’ampliamento dei passaggi esterni e una nuova cucina. Sei passaggi esterni su 13 sono stati ampliati, la nuova cucina è stata costruita, ma le docce ci sono solo nel 20% delle celle. Antonella Tuoni, direttrice del carcere, ha da poco ordinato 80 ventilatori. “Per migliorare il clima”, dice, “nelle ore più calde della giornata restano aperti i blindi delle celle, affinché ci possa essere maggior circolazione dell’aria e più refrigerio”. I ventilatori sono stati ordinati in collaborazione con la Regione Toscana e con il Garante regionale dei detenuti. Quello del carcere di Sollicciano è solo un esempio. La stessa situazione si ripresenta in tutte le carceri italiane. E ogni estate la crisi provocata dal caldo insopportabile negli istituti viene affrontata in maniera estemporanea, senza che ci siano interventi organici. “I problemi maggiori si riscontrano nelle carceri dove c’è carenza d’acqua”, dice Scandurra. “Purtroppo ci sono istituti dove l’acqua manca del tutto o è molto razionata. In tanti carceri il razionamento è per così dire strutturale: dove non ci sono docce nelle celle, e cioè nel 50% dei casi, bisogna attenersi ai propri turni per poter usufruire dello spazio docce condiviso”. Per legge dal 2000 tutte le celle dovrebbero essere munite di docce. Non è così, appunto, ancora nella metà dei casi. “Ma ci sono celle”, continua Scandurra, “in cui mancano anche i servizi igienici”. Il 7 giugno fuori dal carcere di Poggioreale c’è stata una manifestazione per protestare contro le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti, soprattutto d’estate. Ha detto al Riformista una delle persone che protestavano: “l’estate è senza dubbio il momento peggiore per i detenuti: in 12 o 13 persone in celle strettissime, fa caldissimo, non ci sono ventilatori o frigoriferi. Non c’è aria, è come l’inferno. E io che sono stato detenuto lo so bene”. Il carcere di Poggioreale è il più sovraffollato d’Europa: ci sono oltre 2.200 detenuti ma l’istituto, uno dei più grandi d’Italia, ne potrebbe ospitare poco più di 1.500. La madre di un detenuto ha detto che d’estate nelle celle “stanno in mezzo alle blatte e ai topi”, aggiungendo poi che “in cella hanno dovuto fare una colletta per comprare di tasca propria i ventilatori per i quali spendono anche tre euro al mese per la corrente”. Il garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia, ha spiegato anche che la mancanza di frigoriferi fa sì “che con il grande caldo il cibo portato ai detenuti dai familiari vada tutto buttato”. Per Scandurra quello che sembra un problema minore è invece molto importante per i detenuti: “la vita in carcere è scandita da riti, come quelli del cibo in comunità, e da pochi piaceri condivisi. Fare a meno del cibo portato dai familiari è una rinuncia pesante”. A Bologna la denuncia sulla difficile situazione dovuta al caldo è arrivata anche dagli agenti di polizia penitenziaria, come riporta il giornale Il Dubbio: “è una situazione di palese limitazione dei diritti fondamentali sia per le persone ristrette, sia per i lavoratori”. Al carcere bolognese della Dozza sia i detenuti che gli operatori penitenziari sono esasperati dalla cronica mancanza d’acqua: è accaduto che un gruppo di detenuti abbia cercato di utilizzare senza autorizzazione le docce del campo sportivo causando, come hanno denunciato gli agenti, “tensione e confusione, che hanno rischiato di compromettere la sicurezza del personale”. Il rischio, dicono i sindacati della polizia penitenziaria, è che con il perdurare del gran caldo la situazione possa sfociare in qualcosa di molto più serio. Denunce e richieste di interventi si ripetono uguali di anno in anno. Nell’agosto del 2021 per esempio Sofia Ciuffoletti, Garante dei detenuti del carcere di San Gimignano, in provincia di Siena, aveva segnalato che le celle erano “forni incandescenti. Capita di stare in tre in dodici metri quadrati. I detenuti passano anche 20 ore al giorno in una cella con 45°. In più ad agosto non ci sono le attività e i corsi come la scuola, falegnameria e giardinaggio”. Sempre l’estate scorsa su Avvenire Lucio Boldrin, cappellano nel carcere di Rebibbia a Roma, aveva scritto: “Con l’aumento della temperatura e dell’umidità si moltiplicano gli odori sgradevoli: il caldo torrido, gli spazi ristretti, il sudore, l’uso promiscuo dei servizi igienici… Per non parlare dei rischi di contagio. Nelle celle sovraffollate, prevedibilmente, sono all’ordine del giorno contrasti e tensioni. E io non posso certo voltarmi dall’altra parte, perché diventerei inesorabilmente corresponsabile”. Protocollo Dap-Agenzia Dogane per il rinserimento dei detenuti gnewsonline.it, 5 luglio 2022 Un accordo di collaborazione triennale, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso percorsi formativi e sostenere i più indigenti. Questo l’obiettivo del Protocollo d’intesa sottoscritto oggi dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi e dal direttore dell’Agenzia delle Dogane, Accise e Monopoli, Marcello Minenna. L’accordo consentirà da un lato a gruppi di detenuti di frequentare i laboratori dell’Agenzia delle Dogane, sviluppando professionalità spendibili anche sul mercato, e dall’altro permetterà il riutilizzo di merci confiscate anche a criminalità organizzata: beni di prima necessità, come vestiario e calzature, andranno ai detenuti più indigenti, mentre legnami, tessile e altri materiali potranno essere impiegati nelle lavorazioni industriali svolte negli istituti penitenziari, come già avviene per le imbarcazioni dei migranti trasformate in strumenti musicali. “Si tratta di un’iniziativa molto importante: con il reimpiego di beni di provenienza criminale, destinati all’Amministrazione penitenziaria, si riafferma da un lato il valore della legalità, dall’altro si dà concreta attuazione ai principi costituzionali di solidarietà e reinserimento sociale. Ringrazio il direttore dell’Agenzia delle Dogane, Marcello Minenna, di questa collaborazione”, ha commentato il capo del Dap, Carlo Renoldi. “Il Protocollo d’intesa che l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli ha sottoscritto con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria costituisce un atto che va ben oltre la formalità istituzionale: è, di fatto, un impegno che la Pubblica Amministrazione rinnova con la società civile attraverso il sostegno e lo sviluppo di progetti a favore dei detenuti anche in vista del loro reinserimento nel tessuto sociale del nostro Paese. Ringrazio il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dott. Carlo Renoldi, per la sua sensibilità e per aver consentito di creare una sinergia tra Istituzioni che costituisce la vera chiave di volta per l’efficienza e l’ottimizzazione dei servizi che lo Stato deve ai propri cittadini”, ha dichiarato Marcello Minenna, direttore dell’Agenzia delle Dogane, Accise e Monopoli. Atena Donna nelle carceri femminili: incontri e screening ansa.it, 5 luglio 2022 Nel periodo estivo non si ferma l’azione di Atena Donna nelle Case circondariali femminili, con il progetto Together per la prevenzione e gli screening fortemente sostenuto come ricorda l’associazione “dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e dal nuovo Presidente del DAP Carlo Renoldi”. Oggi 4 luglio, in particolare, è previsto un incontro sulle tematiche dermatologiche nella struttura di Civitavecchia con il professor Luca Bianchi, Responsabile Uosd dermatologia del Policlinico di Tor Vergata e la giornalista e conduttrice del programma Check-up Luana Ravegnini. Su questi temi verterà anche il prossimo incontro, che si svolgerà invece nella casa circondariale di Pozzuoli che si terrà il 7 luglio. L’obiettivo a cui si sta lavorando è estendere il progetto a tutte le donne detenute. “Stiamo lavorando - spiega infatti Carla Vittoria Maira, presidente di Atena Donna - per estendere a tutti gli istituti femminili d’Italia il protocollo già esistente tra DAP e Atena Donna, che prevede prevenzione e screening per tutte le donne ristrette. Si vuole così dare alle detenute la stessa possibilità di accedere a visite e screening gratuiti, così come accade ogni 22 aprile per tutte le donne durante la Giornata Nazionale della Salute della Donna, istituita proprio su proposta della Fondazione Atena, che ogni anno raggiunge decine di migliaia di donne in tutta Italia e dà loro la possibilità di accedere a screening gratuiti”. L’intento è proseguire il percorso nei prossimi mesi attraversando l’Italia dal Lazio, al Triveneto, dalla Puglia alla Campania. Nel Pnrr tre Centri per minori reclusi con disagi psichici di Emilio Fattorello Avvenire, 5 luglio 2022 Non c’è solo l’edilizia carceraria fra i progetti finanziabili con il Pnrr. Un capitolo specifico riguarda i progetti per i minori reclusi negli istituti penali e per la formazione a loro riservata in vista del reinserimento nella società: in particolare per i giovani con disagi psichici sono previsti tre micro-comunità specifiche in Italia, una delle quali sorgerà a Napoli. È l’annuncio fatto durante l’incontro-dialogo di un gruppetto di ragazzi e ragazze (sui circa 45 oggi presenti) ospitati nel centro di Nisida con il ministro della Salute, Roberto Speranza, e il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi. “I ragazzi di Nisida ci hanno presentato i loro desideri, le loro esperienze, le loro speranze e anche la loro voglia di ripartire ed avere una seconda opportunità. Con loro abbiamo parlato di come sia necessario recuperare una normalità ed il futuro”, ha detto Manfredi al termine dell’evento, patrocinato dal Comune di Napoli e organizzato dalla Fondazione Rut e dall’Opera Don Calabria che nel penitenziario minorile hanno svolto nei giorni precedenti una serie di laboratori con 11 giovani, selezionati dal direttore Gianluca Guida, sul tema del diritto alla salute vissuto, dietro le sbarre, nelle sue diverse declinazioni. I ragazzi hanno consegnato ai due politici (presente anche Giuseppe Cacciapuoti, direttore generale per la giustizia minorile del ministero) delle cartoline con le loro richieste: dal potersi curare in Campania senza andare in un’altra regione alla creazione di una “camera dell’affettività” dove poter ricevere almeno una visita coniugale al mese (nelle strutture minorili i reclusi possono restare fino ai 25 armi) e alla riduzione delle pene per migliorare il loro equilibrio psicofisico. Inoltre, stimolati dagli operatori, indicano “felicità, libertà e famiglia” come fattori indispensabili per il benessere. “È stata un’esperienza che non dimenticherò mai - ha commentato il ministro Speranza, da sempre attento alla questione carceraria. Nei loro occhi ho visto una gran voglia di riscatto. Le nostre strutture di detenzione devono crescere nella loro funzione di rieducazione, come è scritto nella Costituzione. Grazie a chi ogni giorno lavora a questo obiettivo”. Anche a giudizio di Manfredi è stato “un incontro interessante”, ben preparato dalle attività laboratoriali che si sono svolte in collaborazione con il Centro Europeo di Studi di Nisida e che sono state sviluppate da Annamaria De Paola (Fondazione Rut) e Giuseppe Marino (per l’Opera Don Calabria che in Campania, proprio in quella Casal di Principe già “patria” del clan dei casalesi, sta portando avanti in un bene confiscato un progetto per un laboratorio alimentare di prossima apertura). “Scopo della nostra fondazione - ha spiegato De Paola - è quello di elaborare modelli innovativi di analisi dei campi del multilinguismo, dell’esclusione sociale e delle politiche di coesione. Ma contiamo di farlo ribaltando la logica: dando priorità alle buone pratiche da valorizzare più che alla solita denuncia delle cose che non vanno. E partiamo da qui perché consideriamo Napoli un “laboratorio sociale”. Al termine della visita è stato presentato alla stampa anche il progetto di ricerca “Buone pratiche di rigenerazione sociale nell’ambito della povertà educativa, del sostegno delle donne e dell’accoglienza in uno scenario post-pandemico”. La prima fase consiste nella distribuzione di un questionario fra 200 soggetti che operano nel sociale nel territorio napoletano. Nello Rossi: “Gli errori giudiziari devono allarmare tutti. Anche chi ne è estraneo” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 luglio 2022 Qualche giorno fa Nello Rossi, direttore della rivista di Magistratura Democratica “Questione giustizia”, ha pubblicato un articolo dal titolo “Md e il caso Tortora. Ma l’errore interroga tutti i magistrati”. Perché ha sentito l’esigenza a partire dal quel caso di compiere una “operazione verità” sulla fisionomia di Md? La tragica vicenda di Enzo Tortora deve essere sempre presente ai cittadini e ai magistrati. Nello scriverne ho voluto rievocare la posizione critica assunta da Md sul processo e sull’operato di alcuni magistrati e le veementi reazioni che suscitò in seno alla corporazione. Per ribadire che il garantismo di Md, spesso investita da polemiche pretestuose, ha radici lontane. Ma mi interessava ancora di più riproporre il tema, spinosissimo, dell’errore nel giudizio penale. Quando parla di “polemiche pretestuose” si riferisce a quelle di Matteo Renzi? Anche. Penso al tormentone sul preteso “cordone sanitario” di Md intorno a Renzi e “alle sue idee”. Solo il Dubbio, in una recente intervista, mi ha consentito di sgonfiare questo palloncino. Riportando “esattamente” la mia frase critica sulla visita di Renzi al despota saudita Bin Salman, indicato dall’intelligence americana come il mandante del barbaro omicidio del giornalista Khashoggi. Altri giornali non hanno ritenuto utile porre a Renzi le classiche domande: in che contesto, quando e perché? Lei scrive: ‘L’errore del giudice e l’errore giudiziario sono eventi diversi’. Non tutti gli errori giudiziari dipendono da un errore del giudice? Tutti gli errori commessi nel processo penale hanno un drammatico impatto su beni fondamentali come la libertà, l’onore, la reputazione. Ed il processo è articolato in tre gradi proprio per ridurre al minimo la possibilità dell’errore. Ma a volte l’errore si ripete sino alla sentenza definitiva perché la disattenzione, la superficialità, lo spirito burocratico che l’hanno generato coinvolgono tutta la catena dei pm e dei giudici (e magari anche dei difensori). Questo è l’errore giudiziario in senso tecnico: un fallimento del sistema che deve allarmare “tutti” i magistrati, anche quelli che non l’hanno commesso, e che può essere ridotto al minimo solo mettendo in campo un estremo rigore professionale e la cultura del dubbio. Mille risarcimenti all’anno tra ingiusta detenzione ed errori giudiziari sono fisiologici o patologici? Benvenuta nel labirinto del nostro processo penale. In altri ordinamenti la decisione del primo giudice o della giuria popolare è immediatamente esecutiva, l’appello solo eventuale, il giudizio di una Corte suprema è una ipotesi eccezionale. È una giustizia più rapida della nostra e che subisce meno smentite. Da noi molti errori vengono accertati nei diversi gradi di giudizio e grazie ai procedimenti di controllo sulle misure cautelari; e questo è un bene. Ma il meccanismo si scarica sulla lunghezza dei processi e questa, a sua volta, può stimolare il ricorso a misure cautelari, che comunque dovrebbero essere sempre applicate con mano tremante. La sen. Giulia Bongiorno ha stigmatizzato una intercettazione di un vostro iscritto riportata nel libro di Palamara: ‘Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione dicendo noi non siamo giudici imparziali, o meglio non siamo degli indifferenti, siamo di parte, siamo dalla parte del più debole perché questo è scritto nella Costituzione non perché questo è una rivoluzione’. In cosa consiste la vostra parzialità? Potenza dei ruoli! In veste di avvocato la sen. Bongiorno avrebbe avuto vita facile nel demolire quell’intercettazione. Nessun appartenente a Md direbbe mai che essa è nata “con una cultura della corporazione” ma, se mai, l’esatto contrario. Dunque il maresciallo ha capito male e trascritto peggio. E lo stesso vale per il più sofisticato discorso sulla non indifferenza rispetto ai valori e sulla imparzialità nel giudicare. Se anche fosse vuoto di idee e “atarassico”, un magistrato avrebbe comunque esperienze di vita (un divorzio, un furto subito, una lite condominiale e così via). E su tutte queste materie potrebbe essere chiamato a giudicare. Quello che si può e si deve pretendere è che il magistrato sappia tendersi verso l’imparzialità all’atto del decidere, facendo la tara del proprio vissuto e delle proprie idee in vista della rigorosa applicazione della legge. Questa consapevole tensione verso l’imparzialità è la più alta prestazione professionale del magistrato. Lei rivendica che Md ‘da decenni è il luogo nel quale, con più coerenza e ampiezza di riflessioni, si difendono le garanzie processuali ed i diritti dei cittadini’. Gli altri gruppi associativi non lo fanno o lo fanno meno? Non si tratta di stilare graduatorie. Ma sul terreno del garantismo ribadisco quello che ho detto e sono aperto ad ogni confronto. Ma voi non siete le famose “toghe rosse” politicizzate in lotta con Silvio Berlusconi? Detesto la definizione giornalistica di toghe rosse; ma fa troppo caldo per protestare con la necessaria vivacità. Però, sul filo dell’ironia, le regalo una piccola chicca. Da Procuratore aggiunto a Roma ho chiesto, silenziosamente e con la dovuta rapidità, l’archiviazione di una denuncia - infondata - sporta contro l’on. Silvio Berlusconi per il reato di manipolazione del mercato nella vicenda Alitalia. Ho fatto solo il mio dovere; ma conosco pubblici ministeri che hanno tenuto in piedi per anni procedimenti nei confronti di uomini politici e che, quando hanno chiesto, magari tardivamente, l’archiviazione, sono stati colmati di elogi e presentati come campioni della “giustizia giusta”. Sta parlando di Carlo Nordio e della sua inchiesta su D’Alema? Personalizzare sarebbe ingiustificato e riduttivo. Parlo di fenomeni, di tendenze. Non è materia di battibecchi stizzosi. Ma su questi temi un dibattito pubblico approfondito, serio e sereno, ci starebbe tutto. L’Unione Camere penali è mobilitata in difesa del principio di immutabilità del giudice. Concorda che sia un problema quello di essere giudicati da un giudice che non ha raccolto la prova? È disperante dover rispondere in tre righe a questa domanda. Comunque ci provo. L’immutabilità del giudice o della giuria popolare è un dogma assoluto in un processo immediato e concentrato in poche udienze. Per intenderci quello che si vede nei film americani. Ma quando questa immediatezza è pressoché impossibile (per il numero dei processi, i carichi di lavoro, i rinvii a lungo termine delle udienze, etc.) il principio dell’immutabilità del giudice può e deve essere ragionevolmente contemperato con altri principi ed esigenze. La sentenza delle Sezioni Unite, Bajrami, ha percorso questa strada, a mio avviso con equilibrio. Ritiene che il sistema del disciplinare dei magistrati vada cambiato per rendere accessibili a tutti le motivazioni delle archiviazioni in nome di una giustizia sempre più trasparente? Francamente no. E sono in buona compagnia, se ha presente le pronunce sul punto di Tar e Consiglio di Stato. Sì, ho presente. Ne ho scritto qualche giorno fa. Prego continui... I magistrati lavorano immersi nei più aspri conflitti e spesso sono dei parafulmini. Rendere pubblici - attraverso le motivazioni delle archiviazioni - i contenuti di esposti non solo infondati ma spesso solo insinuanti, malevoli, ostili significherebbe aprire in quest’ambito una rincorsa senza fine di polemiche, di ricorsi, controricorsi; e magari di denunce per diffamazione. Consiglio di Stato: “Porte girevoli, la riforma Cartabia ci crea parecchia confusione” di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2022 Per Palazzo Spada la riforma dell’ordinamento giudiziario appena varato dal ministro Marta Cartabia è un gran pasticcio, almeno per quel che riguarda la disciplina che punta a limitare le cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura. Sul tavolo lo status di Carlo Buonauro, consigliere del Tar, eletto sindaco di Nola nell’ultima tornata elettorale dello scorso 20 giugno, che potrebbe essere il primo caso a vedersi applicare la nuova normativa. Ma non è detto perché il neo primo cittadino ha giurato il giorno prima dell’entrata in vigore della riforma Cartabia che lui stesso ritiene non doverglisi applicare. Deciderà il plenum della giustizia amministrativa che ha chiesto un parere all’Ufficio studi chiamato a dirimere la controversia e pure a pronunciarsi su un’altra questione altrettanto delicata. Ossia se il nuovo sindaco di Nola (e tutti gli altri suoi colleghi magistrati che si lanceranno nell’agone politico in futuro) avranno diritto a continuare a percepire lo stipendio da magistrato oltre che a mantenere il trattamento contributivo e previdenziale nonché l’anzianità di servizio da parte dell’Amministrazione di appartenenza oppure no. Perché la Riforma Cartabia ha creato una sorta di terzo genere rispetto allo status dei magistrati eletti, a cavallo tra il collocamento fuori ruolo (che dà diritto alla conservazione dei tre trattamenti in godimento) e l’aspettativa (che invece non lo prevede). “Ancora una volta - ha detto il presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini - il legislatore non ci sorprende per aver fatto un po’ di confusione sul nomen iuris degli istituti: noi abbiamo studiato sui libri che l’aspettativa è concessa nell’interesse di chi lo chiede, mentre il fuori ruolo è concesso nell’interesse dell’amministrazione. Bisogna chiarire subito dal momento che abbiamo un collega che è appeso a una situazione non piacevole e che potrebbe cambiargli parecchio sotto il profilo del trattamento economico”. Terroristi rifugiati in Francia, ricorso della Procura generale contro il no all’estradizione di Liana Milella La Repubblica, 5 luglio 2022 La decisione della Procura generale dopo le parole di Macron, che aveva detto di voler sostenere le richieste dell’Italia. L’ira dei legali degli ex brigatisti: “Frutto di una spinta politica, minata l’indipendenza della magistratura”. La procura generale di Parigi ricorre in Cassazione contro il rifiuto all’estradizione dei 10 ex terroristi rossi italiani interessati dall’operazione “Ombre Rosse”. Lo annuncia la stessa procura. Il ricorso “era prevedibile e fa pensare che l’abbiano fatto anche perché c’è stata una grande spinta politica”. Lo dice all’Ansa l’avvocato Alessandro Gamberini, legale italiano di Giorgio Pietrostefani, condannato come uno dei mandanti dell’omicidio del commissario Calabresi. La Procura generale parigina, infatti, ha chiarito l’avvocato, “ha un rapporto diretto col potere politico, a differenza delle nostre Procure generali”. Il legale ha precisato di non essere comunque in grado di dare una valutazione giuridica del ricorso “perché non l’ho visto, non l’ho letto”, dato che della procedura ovviamente si sta occupando un avvocato francese che assiste Pietrostefani. Ad ogni modo, come ha chiarito Gamberini, la Procura generale di Parigi dovrà riuscire “a superare gli stretti paletti” che ci sono per i ricorsi di questo tipo in Cassazione in Francia, dove si può ricorrere solo “per violazioni di legge”. Le sentenze de la Chambre de l’Instruction, che hanno respinto le istanze di estradizione, quindi, possono essere oggetto di ricorso solo per violazioni di questo genere. “Il ricorso - ha aggiunto Gamberini - era prevedibile alla luce dell’insistenza politica di questi giorni sul punto (tra cui le parole di Macron) tanto che è sembrata diventare una questione di solidarietà europea, senza tener conto, però, che in ogni Paese, Francia compresa, vige lo Stato di diritto”. La Procura generale di Parigi “dipende dal Ministero della Giustizia, risponde direttamente all’Esecutivo e se l’Esecutivo dice ‘fai ricorso’ lo fa”. E’ il commento dell’avvocato Giovanni Ceola, legale di Luigi Bergamin, uno dei 10 ex terroristi. “I giudici sono indipendenti - ha aggiunto il legale - la Procura generale no”. Furiosa anche Irène Terrel, da anni legale di gran parte degli ex terroristi rossi italiani fuggiti in Francia. “Non ho parole - dice - ho fatto una quantità di processi per estradizione nella mia carriera, ma quello che succede è scandaloso. Tutte queste presone hanno chiesto asilo in Francia in nome di quella dottrina che li proteggeva. E per anni non sono state estradate per gli stessi motivi per i quali adesso si chiede di estradarli. È incredibile, è estremamente scioccante che un presidente, che dovrebbe essere garante dell’indipendenza della magistratura, dei grandi principi costituzionali, dell’indipendenza dei poteri, faccia delle dichiarazioni a caldo su sentenze di cui non erano ancora state depositate le motivazioni. Macron si è permesso di fare dichiarazioni per discreditare politicamente la giustizia francese, non ho mai visto una cosa del genere, è il disprezzo dei nostri valori. Noi siamo la Francia, un paese retto da regole, principi. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, noi, la Francia, l’abbiamo ratificata. Come ci si può permettere di criticare queste decisioni?”. La Terrel, amareggiata, aggiunge che “in diritto, si tratta di un ricorso irricevibile. Vorrebbe dire che una decisione adottata da un tribunale ha violato la legge, e non è assolutamente questo il caso. Ma a questo punto non so più cosa dire”. Per i giudici francesi quella degli ex brigatisti è una vicenda umana di Lynda Dematteo* Il Domani, 5 luglio 2022 Ci sono diverse ragioni per cui la giustizia francese, da tempo, si oppone all’estradizione di questi ex brigatisti. In Francia, per esempio, non viene riconosciuto il processo in contumacia. Certe strumentalizzazioni della destra italiana, poi, non contribuiscono a risolvere una vicenda che è diventata inestricabile. Il giorno stesso in cui si è concluso il lungo processo dei terroristi del Bataclan, la giustizia francese ha negato l’estradizione degli ex brigatisti italiani per motivi umanitari. Dopo aver esaminato la richiesta urgente della ministra Marta Cartabia, la magistratura parigina ha confermato il suo parere privilegiando il diritto a un processo equo sugli esiti internazionali e i diritti dell’uomo sulla volontà presidenziale di porre fine a una lunga disputa. Perché i giudici francesi sono così restii a estradare gli ex brigatisti? Ci sono diverse ragioni. La dottrina Mitterand - Nel 1981 François Mitterrand è stato eletto presidente e, quasi subito, si è dovuto confrontare con il fatto che un numero notevole di ex militanti della lotta armata avevano attraversato le Alpi per sottrarsi ai procedimenti giudiziari. Il nuovo presidente francese era un difensore del diritto d’asilo, che risaliva alla Rivoluzione francese, ma era anche preoccupato della presenza clandestina di circa 300 estremisti che si temeva potessero aggregarsi ai movimenti terroristici locali. Alcuni avevano effettivamente commesso dei crimini, ma la maggior parte aveva solo aderito a organizzazioni estremiste senza necessariamente partecipare ad azioni armate. Trasferendosi in Francia molti di loro avevano cercano una via d’uscita dalla spirale della violenza. Mitterrand si era quindi impegnato in una politica di avvicinamento nei confronti di quelli che rinunciavano alla lotta armata. Durante una visita ufficiale di Bettino Craxi a Parigi, il 22 febbraio 1985, aveva definito quella che sarebbe stata in seguito chiamata la “dottrina Mitterrand”. Chi non aveva commesso crimini di sangue poteva rimanere in Francia, gli altri avrebbero dovuto fare i conti con la giustizia francese. Per Craxi era comunque una vittoria: aveva ricevuto la garanzia che i criminali sarebbero stati estradati. In quel periodo il presidente del Consiglio non era particolarmente desideroso di veder tornare in Italia tutti i terroristi che erano fuggiti oltreconfine. Nelle carceri italiane ce n’erano già a centinaia e le autorità temevano potessero diffondere le loro idee e la dottrina della lotta armata tra i criminali comuni. Così la Francia era diventata uno spazio di decompressione della violenza endemica che si era creata in Italia negli anni di piombo. Ma l’intesa tra Mitterrand e Craxi ha generato una situazione iniqua tra chi è fuggito e chi è stato incarcerato in Italia. La “dottrina” Macron - Permettendo agli ex brigatisti di rimanere in Francia, Mitterrand si era impegnato, come presidente della Repubblica, nei loro confronti. Da un punto di vista istituzionale e umano, la presidenza non poteva rimangiarsi la parola data anche se la riserva sui crimini di sangue era presto scomparsa da discorsi del presidente. Oggi Emmanuel Macron vuole tornare a una definizione più rigorosa della “dottrina Mitterrand” per chiudere la decennale incomprensione tra il suo paese e l’Italia. Non c’è motivo per cui la Francia diventi un rifugio per i criminali. Da molto tempo gli esuli italiani sono diventati un argomento di polemica anche a Parigi, sollevato soprattutto dalla destra francese. Il caso Battisti ha contribuito a modificare l’immagine di tutti gli ex terroristi riparati in Francia. Diventando uno scrittore di gialli, l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo, ha infranto la regola della discrezione che prevaleva fra gli esuli italiani. La sua fama, basata sul mito romantico del rivoluzionario perseguitato, ha spinto molti personaggi pubblici a schierarsi dalla sua parte. Oggi appare chiaro che ha ingannato i francesi sul suo passato. Problemi di diritto - Esiste poi un’altra distinzione tra il diritto francese e quello italiano che ostacola le estradizioni. In Francia una persona non può essere condannata in via definitiva se è assente al suo processo. La magistratura francese non riconosce il processo in contumacia. Per questo le domande di estradizione vengono rifiutate. In Italia tutto questo viene vissuto come un’ingiustizia. Ma gli italiani non devono dimenticare che le persone estradate andranno direttamente in carcere senza che il loro caso, a distanza di quarant’anni, venga riesaminato. Eppure le loro vite non si sono fermate il giorno in cui hanno varcato il confine. Lo scorso marzo quando si è diffusa la notizia di un’accelerazione del governo italiano sulle richieste di estradizione, diversi psichiatri e psicoanalisti francesi hanno testimoniato a favore degli ex brigatisi parlando della loro lunga e difficile ricostruzione psicologica, professionale, relazionale e familiare. Consegnarli alla giustizia italiana ora che sono diventati delle persone diverse è problematico. Alcuni di loro sono stati condannati all’ergastolo e finiranno i loro giorni in carcere. Bisognerebbe poter fare valere davanti alla giustizia italiana il fatto che gli ex brigatisti hanno rispettato il patto con Mitterrand comportandosi in modo esemplare in Francia. Ma questo non è possibile. Al contrario, tornate nel loro paese d’origine, queste persone verrebbero sottoposte a un regime di detenzione molto severo (le loro famiglie francesi non potranno fargli visita) anche se non rappresentano più un pericolo per la società italiana. La giustizia dovrebbe riconoscere sia l’umanità delle vittime sia quella dei criminali. In questa situazione inestricabile, riconoscere quella dei primi permettendo l’estradizione significa negare quella dei secondi che hanno rinnegato il passato e cambiato vita. La decisione dei magistrati parigini si basa di fatto sugli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Respingendo la richiesta di estradizione hanno riaffermato dei princìpi fondamentali, il diritto a un processo equo e al rispetto della vita familiare, in maniera indipendente dal potere politico. Il peso della storia - Ma se le richieste d’estradizione respinte fanno notizia in Italia, in Francia la questione è passata del tutto inosservata. La maggiore parte dei francesi non sa chi sono i terroristi italiani e non capisce il prolungarsi della controversia. Quelli che invece ricordano ancora le vicende complicate degli anni di piombo si interrogano sul senso di eseguire una pena dopo tanti anni. Il contesto politico è cambiato e le ragioni del coinvolgimento nella lotta armata sono diventate difficili da comprendere. Ciò che non è passato inosservato sono le strumentalizzazioni politiche della destra italiana. L’immagine di Matteo Salvini che, con indosso il giubbotto della polizia, riceve Cesare Battisti appena atterrato a Roma, ha contributo ad aumentare la percezione che certi atteggiamenti fascisti non sono siano stati del tutto superati in Italia. Presentandosi come colui che avrebbe lavato l’onta subita dal suo paese, l’ex ministro dell’Interno ha usato una retorica nazionalista a cui hanno risposto le mobilitazioni francesi a sostegno degli esuli italiani accompagnate dalle note di “Bella ciao”. Immagini che riportano alla memoria le vicende degli antifascisti italiani riparati in Francia durante il Ventennio. Se la situazione degli anni Settanta non può essere equiparata a quella degli anni Trenta, la storia ha ancora un peso. E questo non favorisce né l’acquietamento, né una via di uscita accettabile per tutti. *Antropologa Giugno, un femicidio ogni due giorni. In un bimestre uccise più donne che uomini di Lorenza Pleuteri Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2022 Un femicidio ogni due giorni, a giugno. Il numero di donne uccise che, nell’ultimo bimestre, supera il numero degli uomini ammazzati (23 a 19). Quindici nomi, 15 volti, 15 storie sbagliate. Nevila Pjetri di 35 anni, Camilla Bertolotti di 43 anni, Gabriela Genny Serrano di 36 anni, Lidija Miljkovic di 42 anni, Lorena Puppo di 50 anni, Gabriela Renata Tranfadir di 47 anni e la figlia Alexandra Renata di 22, Elena Del Pozzo di 4 anni, Elisabetta Molaro di 40 anni, Filomena Galeone di 61 anni, Donatella Miccoli di 38 anni, Caterina D’Andrea di 72 anni, Norma Megardi di 75 anni, Cristina Peroni di 32 anni, Crisitna Diac di 48 anni, Domenica Caligiuri di 71 anni. Il numero di donne uccise che, nell’ultimo bimestre, supera il numero degli uomini ammazzati (23 a 19). Il caso Napoli, capitale italiana degli omicidii, con 16 croci piantate nei cimiteri di città e provincia da inizio anno. I delitti della terza e della quarta età. I suicidi. Il peso malattia mentale, passata dall’essere la spiegazione passe-partout di gesti estremi alla negazione totale o quasi. Le banche dati e gli osservatori di siti e giornali con buchi ed errori, nomi storpiati o incompleti, persino una donna viva e vegeta messa tra le defunte, nessun cenno alle vittime maschili, 14 solo in giugno, Raffaele Balsamo di 38 anni, Fausto Iob di 69 anni, Gheorghe Paraschiv di 54 anni, Thomas Achille Mastrandrea di 42 anni, Donato Montinaro di 75 anni, Franco Deidda di 61 anni, Antonio Cristiano Loprete di 57 anni, Michele Della Corte di 66 anni, Massimo Deidda di 63 anni, Virgilio Cunsolo Terranova di 29 anni e il cugino Vito Cunsolo di 30 anni, Franco Severi di 55 anni, Giuseppe Incontrera di 45 anni. I femicidi sorpassano gli omicidi a maggio e giugno Scorrendo le cronache degli omicidi volontari commessi nel primo semestre dell’anno - incrociate con le statistiche operative e le indicazioni dalla Divisione centrale della polizia criminale - si individuano dinamiche e andamento del più grave dei reati. Il periodo - gennaio giugno 2022 è in linea con lo stesso arco temporale dei due anni precedenti, con un leggero calo di crimini estremi, che diventa più marcato in confronto al 2019: 142 omicidi volontari quest’anno (81 vittime di genere maschile e 61 di genere femminile), 148 primi sei mesi del 2021 (89 uomini e 59 donne) e del 2020 (87 uomini e 61 donne) e a 162 del primo semestre 2019 (106 uomini e 56 donne). Quella che aumenta è la percentuale dei femicidi (intesi come uccisioni di persone di genere femminile di tutte le età, per i moventi più disparati) sul totale degli omicidi, con il sorpasso (non inedito) a maggio (8 donne uccise e 5 uomini) e giugno (15 femicidi, includendo l’uccisione della parrucchiera trans di Sarzana, lasciata tra gli uomini nei riepiloghi ufficiali, e 14 omicidi). Ci si avvicina alla metà, non lontanissima: 43,0% le vittime di genere femminile e 57,0% le vittime di genere maschile nell’anno in corso, 39,1% e 60,7% nell’intero 2021, 40,9 e 59,1 nel 2020, 34,6 e 65,4 nel 2019. (I numeri di riferimento non sono ancora tutti consolidati. Potrebbero subire variazione per la diversa rubricazione dei crimini in sede giudiziaria (da omicidi volontari a omicidi preterintenzionali, ad esempio, e viceversa) o per l’inserimento di vicende emerse a posteriori (ad esempio il rinvenimento di cadaveri di persone scomparse e assassinate nei mesi considerati). Non solo femicidi: il caso Napoli, gli invisibili Napoli e provincia da sole totalizzano quasi un quinto dei delitti al maschile (16 vittime su 81, il 19,7 per cento del totale italiano), in gran parte inquadrati in contesti di criminalità organizzata e spicciola, faide, lotta per il controllo del territorio Nell’elenco partenopeo ricostruito a posteriori c’è un morto “invisibile”. Il 30 gennaio nel capoluogo campano o nei dintorni, si è saputo di recente, è stato ammazzato Khaled Bechkour di 43 anni. Digitando nome e cognome nei motori di ricerca e negli archivi informatizzati di agenzie e giornali non esce alcuna informazione sul delitto né sull’ucciso, senza storia e senza volto. Di Dona Dhimayanthi Chandralatha Uduwarage, una delle 4 donne napoletane ammazzate nel primo semestre 2022, si è appreso poco di più e non in tempo reale. Aveva 55 anni, veniva dallo Sri Lanka. Il figlio l’ha picchiata a morte a San Valentino, durante una lite. Polizia e procura hanno tenuto nascosto il femicidio per una decina di giorni. Inasprimento delle pene e andamento dei reati La maggiore attenzione alle vittime di reati di genere e l’inasprimento delle leggi e delle pene (l’abolizione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, l’innalzamento delle pene base per gli omicidi di relazione, il codice rosso) non stanno abbattendo le violenze estreme all’interno di relazioni di coppia e in ambito familiare, dati alla mano. A togliere la vita alle donne sono stati mariti, compagni, fidanzati ed ex in più della metà dei casi (32 su 61) e in prevalenza per i “soliti” motivi: gelosia, incapacità di accettare la fine di una relazione, possesso, rivalsa… Per 19 la morte è arrivata da persone di famiglia, in 9 casi figli e figlie, per un mix di ragioni. Terre contese, soldi per comprare casa e macchina, un prestito mancato, 100 euro di ricarica per la playstation. Per la fine violenta di una bimba, Elena dal Pozzo di 4 anni, è stata arrestata e accusata la mamma, “processata” in tv e sui giornali, con “perizie” all’impronta affidate agli esperti e ai commentatori di turno. Un caso per ora isolato. Le uccisioni di figlie femmine (Giada Rossin di 13 anni, Giulia Maja di 16 anni, Fatima Skika di 3 anni e Renata Alexandra Tranfadir di 22 anni) nell’avvio dell’anno vengono attribuite in misura maggiore ai padri naturali e acquisiti, rispettivamente 2 e 2 (con responsabilità presunte, tutte da dimostrare in sede giudiziaria, per gli autori che non si sono suicidati) Discorso analogo per i figli maschi (e per la presunzione di non colpevolezza fino a condanna passata in giudicato): un omicidio con aspetti ancora oscuri è stato addebitato alla madre (Francesco Auciello di 2 anni), 2 bambini e un ragazzo hanno cessato di vivere per mano dei padri (Daniele Paitoni di 7 anni, Vincenzo Gabriele Rampello di 24 anni, Alessio Rossin di 7 anni). Gli omicidi della terza e della quarta età L’età delle vittime più rappresentata è quella matura (dai 41 ai 50 anni), sia sul fronte femminile (10 su 61), sia sul fonte maschile (18 su 81). Quasi il 40% delle donne uccise (24 su 61) aveva più di 59 anni (con 8 ultrasettantenni, 4 ultraottantenni e 3 ultranovantenni). Alda Pivano, per esempio. Il marito l’ha soffocata a 93 anni mettendole un sacchetto in testa e si è suicidato. Lei era malata di Alzheimer. Lui, si è ipotizzato, pensava di non essere più in grado di assisterla. Guglielmina Pasetto, 72 anni, altro caso che interroga. Il compagno di una vita le ha impedito di respirare con un cuscino premuto in faccia e poi ha detto addio al mondo. Il timore del Covid e dell’isolamento, con la moglie semiparalizzata e bisognosa di tutto, lo avevano fatto sprofondare nella depressione. Forse ha scelto lui per entrambi, forse è stata lei a spingerlo ad un doppio atto estremo. Alcuni osservatori - tipo Paola Di Nicola, consulente della Commissione parlamentare sui femminicidi e giudice di Cassazione - arrivano a negare che donne sofferenti e stremate abbiano potuto pregare di essere uccise da chi stava loro vicino. “Nessuna ha chiesto di morire”, è l’opinione personale della magistrata, parere discutibile e discusso. Altri li chiamano omicidi pietatis causa o omicidi altruistici e spesso sono seguiti dai suicidi degli autori, motivo per cui non si indaga a fondo e non è possibile arrivare a certezze assolute, non per l’intera casistica. Nel primo semestre 2022 si sono tolti la vita i 17 autori (sempre che siano stati resi noti tutti) di 3 stragi in famiglia e di omicidi singoli. Tra loro figura l’unica donna che tra gennaio e giugno 2022 ha ammazzato il partner, Franco Deidda di 61 anni. Fonti investigative locali e mass media hanno raccontato che i due si frequentavano (rapporto al momento non confermato dagli analisti della Direzione centrale della polizia criminale) e che le era molto malata. Si è buttata giù dal terrazzo, dopo aver sparato al compagno. Bimbi tolti alle madri, la commissione femminicidio acquisisce gli atti su Casalmaiocco di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 luglio 2022 “È successo ancora. Il 29 giugno in provincia di Lodi, a Casalmaiocco, un altro bambino è stato strappato ed allontanato in modo improvviso e traumatico dalla madre. È successo ancora, nonostante la recente sentenza della Cassazione sul caso di Laura Massaro abbia detto parole chiare sul punto definendo queste modalità fuori dallo stato di diritto. È successo ancora quello che la relazione della commissione Femminicidio sulla vittimizzazione secondaria ha denunciato con la forza dei numeri: donne e bambini vittime di violenza domestica che molte volte nel corso dei procedimenti giudiziari di separazione e di definizione della responsabilità genitoriale rischiano di essere vittime una seconda volta da parte di chi dovrebbe sostenerle e proteggerle”. Sono le parole della senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, che su Facebook denuncia l’ennesimo caso di alienazione parentale e prelievo forzato. Il fatto è accaduto nel comune di Casalmaiocco, in provincia di Lodi, dove una mamma, Deborah D., è stata trattenuta contro la sua volontà in municipio mentre degli agenti della polizia in borghese, nella piazzetta lì vicino, sottraevano il figlio di 9 anni affidato alle cure di un’amica per portarlo in comunità, come richiesto da un decreto del tribunale di Lodi. Sui social il video della madre che urla di lasciarla andare lascia senza fiato. E ora la Commissione Femminicidio acquisirà gli atti. Sull’accaduto sono anche state presentate due interrogazioni parlamentari. “Come Commissione chiederemo l’acquisizione degli atti che, come sempre, analizzeremo con la massima attenzione e il necessario rigore- aggiunge Valente- Ad ora se fossero confermate le prime indiscrezioni sembra che l’accusa sia sempre la stessa: la madre Deborah è stata giudicata `alienante´ e per questo Gabriele è stato strappato alla sua mamma, alla sua vita, ai suoi giochi dallo Stato con l’uso della forza pubblica. La violenza maschile contro le donne ancora una volta resta invisibile. E ancora una volta sono le donne insieme ai loro figli che rischiano di pagare il prezzo più alto”. Intanto Donatella Bussolati, l’avvocata di Deborah D., ha annunciato un esposto per verificare i possibili reati commessi sia da parte dei magistrati, sia delle altre figure coinvolte (servizi sociali, forze dell’ordine, addetti del Comune). “Ho ricevuto la videochiamata dei Servizi sociali, alle 9, mio figlio dormiva ancora, mi hanno chiesto dove fosse, se andasse al grest, poi hanno voluto vederlo: l’obiettivo era rintracciarlo - ricostruisce la madre -. Dopo 10 minuti la telefonata del Comune: dovevo consegnare subito le chiavi della casa popolare di mia mamma, morta da una decina di giorni. Mi sono ritrovata col sindaco Marco Vighi (interpellato ha risposto “no comment”), il comandante della Polizia locale, i servizi sociali: una decina di persone. “Ti dobbiamo leggere il decreto del Tribunale”, che ho rifiutato di firmare. Cercavo di uscire e mi strattonavano per farmi sedere. Hanno chiamato il mio medico di base e un’ambulanza ma lui ha detto che ero normalissima, il Tso non era necessario”. Intanto nella piazza vicino al Comune il bambino veniva prelevato e portato via da agenti in borghese, come racconta un’attivista di Maternamente e Movimentiamoci Vicenza che è finita al Pronto soccorso per farsi medicare. “Io ero con il bambino in piazzetta e aspettavamo che la mamma tornasse dopo aver parlato con il sindaco, e a un certo punto mi si è avvicinato uno sconosciuto che ha cominciato a parlare con il bambino senza presentarsi. A quel punto faccio per allontanarmi e cinque persone mi arrivano addosso, mi immobilizzano, prendono il bambino, e lo portano via. Forze dell’ordine in borghese che si dichiarano solo dopo avermi aggredita: il tesserino l’ho visto dopo”. Per l’avvocata Bussolati si tratta di un vero e proprio sequestro di persona “perché la mia cliente è stata trattenuta contro la sua volontà senza aver commesso alcun reato. Inoltre il giudice ha ammesso l’uso della forza pubblica in caso di mancanza di adempimento spontaneo della mamma ma il provvedimento non è stato notificato prima né a me né a lei; Deborah è stata attirata in Comune con l’inganno. La situazione è gravissima e diffusa: la Cassazione (sentenza Laura Massaro) ha stabilito che la Pas (alienazione parentale) non esiste. Serve una legge che consenta di operare con delle casistiche senza lasciare le sentenze alla morale personale dei magistrati in nome della bigenitorialità. I condannati per gravi reati sono liberi fino alla Cassazione: un minore che non vuole vedere il papà, invece, finisce subito in comunità. Se c’è conflittualità bisogna agire sui genitori. Inoltre in questo caso il padre non paga gli alimenti dall’autunno scorso e il bambino parla di un papà che lo umilia e lo prende a schiaffi”. Per il Tribunale di Lodi, che ha deciso con un decreto la collocazione del bambino in comunità, le Ctu “hanno evidenziato come la condotta manipolatrice della genitrice sia stata e sia tuttora pregiudizievole per la salute psichica del minore oltre che gravemente lesiva del diritto del padre” che “non riesce a tenere con sé il figlio dall’anno 2017 e non lo vede dal dicembre 2020”. La donna, invece, racconta un’altra storia. “Mi sono messa con il padre di mio figlio nel 2011 - spiega-, quando sono rimasta incinta lui neanche lo voleva. Mi diceva di abortire e al settimo mese di gravidanza mi ha messo un cuscino in faccia per soffocarmi mentre ero nel dormiveglia perché diceva che non potevamo permettercelo. Quando è nato il piccolo le cose sono andate meglio, e il primo anno sembrava un miracolo. Ma dopo questa breve luna di miele è cominciato l’incubo: lui beveva, spariva per giorni, mi umiliava continuamente, mi strattonava, mi prendeva per i capelli, urlava e una volta per poco non mi mette sotto con la macchina”. Dopo anni di violenze la donna si trasferisce dalla madre e il padre presenta ricorso chiedendo il trasferimento del bambino in una casa famiglia perché asserisce di non riuscire a vederlo. “In realtà - dice la donna - io gli portavo il bambino, lui lo poteva vedere quando voleva ma era nostro figlio che a un certo punto ha cominciato a rifiutarlo perché aveva paura. Una volta al parco ha cominciato a strattonare il piccolo e poi ha chiamato i carabinieri dicendo che io non glielo volevo dare”, racconta la mamma. Così arrivano gli incontri protetti che iniziano quando il minore ha quattro anni, incontri protetti che il bimbo rifiuta mettendosi seduto in un angolo della stanza. E da lì si è arrivati al decreto di fine giugno che è stato emesso nonostante il padre sia sparito per mesi e abbia anche smesso di versare gli alimenti. Ascoltato dal giudice il bambino avrebbe confermato la versione della madre e i maltrattamenti subiti dal padre ma per il tribunale è stato manipolato. Da anni gruppi di madri e di donne in tutta Italia protestano vigorosamente contro la violenza istituzionale. Donne che hanno figlie e figli da ex-mariti ed ex-compagni violenti che sono costrette di fatto dalla legge sull’affido condiviso (legge 54/2006) a condividere la genitorialità con l’ex-partner, pena la decadenza della responsabilità genitoriale o l’allontanamento - spesso definitivo - dai figli. Bergamo. Due morti in carcere. “Sta diventando sempre più una discarica sociale” di Davide Ferrario Corriere della Sera, 5 luglio 2022 Gino Gelmi, vicepresidente di Carcere e Territorio, e Valentina Lanfranchi, Garante dei detenuti: “In cella persone con problemi mentali o di droga che dovrebbero stare altrove”. I due deceduti, 30 e 35 anni, originari del Marocco. Il primo, 35 anni, è morto il 17 giugno. Il secondo, di 30, il 25. Uno in cella, l’altro in un secondo momento in ospedale. Erano due detenuti del carcere di Bergamo, marocchini entrambi. Cause naturali, il motivo, che escludono una morte violenta. Ma c’è un’indagine in corso per approfondire l’ipotesi che possano aver abusato di psicofarmaci o altri medicinali, o metadone. E questo scoperchia la pentola delle problematiche di quel mondo che, per i più, fuori, non si vede e non si sente. Gino Gelmi, vicepresidente dell’Associazione Carcere e Territorio, prende in prestito le parole del magistrato Giancarlo Caselli per sintetizzarlo in modo tanto crudo quanto efficace: “Il carcere sta diventando sempre di più una discarica sociale”. Per ora non è dato sapere se i due detenuti deceduti avessero problematiche di droga o psichiatriche, né perché fossero in cella. Quello che Gelmi vede, più in generale, è che “c’è un’incapacità di gestire queste problematiche, in aumento. Al di là degli sforzi, c’è una forte tensione per il numero e la tipologia dei detenuti”. Per esempio, dice: “Il carcere ha un servizio di psichiatria convenzionato, con il medico disponibile alcune ore, ma non basta. Diverse persone dovrebbero trovarsi in comunità, non qui. Inoltre, l’organico sanitario è in sofferenza fuori come dentro, e questo rende non facile la gestione di psicofarmaci e metadone”. L’Associazione cerca appartamenti e lavoro, come alternativa. Nella pila di richieste di colloquio che Gelmi ha c’era anche quella di uno dei due deceduti: “Non sa quante siano le richieste di un incontro. Ma il nostro è un intervento sociale - fa presente -, mentre questo è un problema legislativo, istituzionale, di risorse”. Tanti detenuti (“si era arrivati a 540, diversi sono stati trasferiti”) rispetto alla capienza di 315 posti (sul sito del ministero della Giustizia risultano 487 presenti), tanti problemi e il cronico nodo del personale. “Sicuramente non è aumentato rispetto, invece, al numero dei detenuti, tanti con problemi mentali”. Valentina Lanfranchi è la garante dei detenuti e sabato pomeriggio è appena uscita dal carcere dopo una lezione alle donne sulla Costituzione. Attende che sia chiarito cosa è successo: “Può capitare, penso, che un detenuto sotto terapia finga di prendere la pastiglia invece ne accumuli diverse e le prenda tutte insieme. Nonostante le buone intenzioni e il tanto lavoro, è difficile garantire il controllo in un contesto del genere. Se non si provvede prendendo delle misure adatte, casi come questi potrebbero accadere ancora”. Si sta per attivare. “Solleciteremo di nuovo il ministro e i nostri parlamentari - anticipa Lanfranchi. Bisogna che aumenti la detenzione domiciliare, ma per questo servono contributi per case e lavoro”. Parla di “sordità rispetto a questo quartiere”. Invisibile. “Ma non è che così risparmiamo. Il detenuto costa”. Cercata, non è stato possibile parlare con la direttrice del carcere. Napoli. Il dramma del carcere d’estate: “Niente ventilatori, famiglie per ore sotto il sole” di Rossella Grasso Il Riformista, 5 luglio 2022 La notizia della protesta tra i detenuti nelle carceri campane si rincorre di chat in chat, e di bocca in bocca. Il clima è teso e più volte al giorno i detenuti fanno la battitura: sbattono oggetti contro le sbarre negli orari della conta alle 8 del mattino, alle 15 e la sera e alle 20. Il motivo? I troppi disagi in carcere che d’estate diventano davvero insopportabili, non solo per i detenuti ma anche per le loro famiglie e per tutti quanti in carcere ci lavorano, agenti e operatori compresi. Una situazione che da giorni denuncia il garante dei detenuti regionale, Samuele Ciambriello e napoletano Pietro Ioia. I due garanti, man mano che passano i giorni ne sono sempre più certi: “Il carcere così come si sta muovendo rischia di diventare una polveriera. I detenuti si sentono abbandonati. Chiediamo che d’estate il carcere non smetta d’esistere”. “Nella stanza hanno un solo ventilatore per 8 detenuti, alcuni sono rotti - dice la moglie di un detenuto - Poi ci sono i canali Tv assenti. Nelle stanze dei colloqui i cameroni sono senza ventilatore o condizionatore”. Il racconto diventa sempre più duro: “Per fare un colloquio aspettiamo anche dalle 7 alle 15, sotto il sole, in un cortile coperto solo parzialmente da un plexiglass trasparente che fa solo aumentare il caldo per noi che aspettiamo sotto. In quell’area i ventilatori sono rotti e se qualcuno funziona, è come se non ci fosse”. Sono queste storie che raccontano tanti familiari dei detenuti in tutta la Campania. L’attività dei garanti Ioia e Ciambriello negli ultimi giorni si sta intensificando sempre di più. Vanno e vengono dalle carceri portando i ventilatori che stanno riuscendo a mettere insieme per dare sollievo ai detenuti. Entrano ed escono, ascoltano le proteste dei detenuti e dei loro familiari e cercando di dare conforto. Ci sono problemi in tutte le carceri campane. “In questo momento dell’anno bisogna mettere in campo qualcosa in più, per i detenuti, per le loro famiglie, per gli agenti e gli operatori che si trovano a vivere in condizioni davvero difficili”. Uno dei problemi che maggiormente desta preoccupazione sono le ore di attesa fuori ai penitenziari da parte delle famiglie, spesso donne e bambini costretti ore sotto il sole per poter parlare un’ora con i loro cari. “Non tutti le carceri sono attrezzati per poter prenotare il colloquio, operazione che renderebbe tutto più semplice. Poi ci sono i detenuti fuori regione: perché non consentire loro i colloqui in video chiamata?”, aggiunge Ciambriello. E ancora: “Ci sono in tutta la Campania 6742 detenuti, alcuni di loro potrebbero avere permessi premio o misure alternative. Bisogna accelerare in questo senso”. In questo modo si potrebbero certamente ridurre almeno in parte tutti i disagi. Questo riguarda soprattutto i detenuti più anziani o quelli che soffrono di patologie varie che in questi giorni di caldo soffrono ancora di più per la reclusione. “In un carcere c’è un detenuto di 91 anni entrato a 87 - continua Ciambriello - Che ci fa lì? È un reato chiedere per lui i domiciliari? Continuerebbe comunque a scontare la sua pena. Ce n’è un altro che pesa 272 chili, non entra in cella. È andato via dal Cardarelli perché non c’era per lui un letto adeguato. Come fa a stare in cella?”. E invece pare che la tendenza sia a far rimanere tutti in carcere. “Sono tanti i detenuti che ci chiedono di far spostare l’ora d’aria nelle ore più fresche - dicono i garanti Ciambriello e Ioia - L’ora d’aria dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15 è come camminare in forni crematori di cemento. Ci vorrebbero fontane e punti doccia almeno. Poi i blindati se chiusi diventano roventi: dovrebbero stare più tempo aperti”. Poi c’è un’altra questione che per chi è costretto a stare in una piccola cella per venti ore al giorno diventa un problema enorme: “Non tutte le carceri hanno sintonizzato i canali, operazione che è necessario fare a livello centrale - spiegano i garanti - questo vuol dire non poter guardare nemmeno la tv”. Tutto questo accade in luoghi dove c’è anche carenza di personale. I garanti spiegano che su 104 educatori previsti da più di un ano ce ne sono 30 in meno. Poi d’estate qualcuno ha chiesto il trasferimento, qualcuno è in ferie. “Chi ci parla con i detenuti? - si chiedono i garanti - Chi può dare loro respiro? Succede così che gli agenti devono diventare anche medici, psicologi ed educatori. Si crea un vuoto relazionale con i detenuti che soprattutto in questo momento si sentono abbandonati. Noi garanti ce la stiamo mettendo tutta per dare una mano, consegnando e raccogliendo ventilatori, frigoriferi e cercando di dare una mano. Ma non sono solo i garanti e i volontari a dover sopperire a queste gravi mancanze. Sono tante piccole cose dal valore non quantificabile che fanno davvero la differenza”. I garanti da mesi denunciano gravi carenze anche a livello del personale sanitario. “Faccio un esempio - continua Ciambriello - A Poggioreale su 2.204 detenuti ci sono solo 2 psichiatri. Il 3 maggio scorso il Consiglio Regionale della Campania ha sottolineato l’importanza di occuparsi di detenuti malati di mente e mettere su una nuova Rems. Si sta avviando questa procedura? I magistrati di sorveglianza dicono che alcuni detenuti non sono compatibili con il carcere. Quindi dove devono andare? Se non c’è posto fuori restano in carcere. Sono dunque prigionieri politici?”. La situazione è critica anche nel carcere di Poggioreale dove la struttura antica e di cemento, il sovraffollamento e la carenza di personale rende tutto più difficile. “Con questo caldo sono tutti molto insofferenti - ha detto al Riformista il direttore del Carcere Carlo Berdini - Abbiamo 2.200 detenuti stipati qui, come possono vivere questo momento di grande caldo? Stiamo cercando di risolvere il problema dei ventilatori con il contributo dei garanti e stiamo cercando quanto più possibile di sfollare le celle spostando alcuni detenuti. Per quanto riguarda le famiglie a Poggioreale abbiamo le prenotazioni ma stiamo cercando di implementare l’aria condizionata e i ventilatori nelle zone dedicate ai colloqui”. L’ora d’aria a Poggioreale resta nelle ore più calde del giorno: “Non è facile gestire questa situazione: c’è carenza di organico e il piano ferie. Stiamo cercando di risolvere tutte le difficoltà, ce la stiamo mettendo tutta”. “In questo momento, più che mai, bisognerebbe raddoppiare le risposte da parte della collettività, bisogna accelerare nel dare risposte affinché ogni giorno smetta di essere una pena”, dicono i garanti. Ioia e Ciambriello stanno continuando a raccogliere ventilatori e frigoriferi per migliorare le condizioni di chi vive in carcere. “Chi volesse darci una mano si può rivolgere a noi - dicono i garanti che oggi hanno consegnato altri 70 ventilatori in carcere - Possono donare tutti: a titolo privato o come associazioni. Mercoledì prevediamo di portare un nuovo carico. Aiutateci a riempire le carceri di solidarietà”. Firenze. “Sollicciano? Andrebbe abbattuto” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 5 luglio 2022 La risposta dell’assessore Funaro al question time del consigliere Palagi. “Il carcere di Sollicciano è da rifare completamente”. Lo ha detto l’assessora alle politiche sociali Sara Funaro, ieri pomeriggio, in Consiglio comunale, rispondendo al question time del consigliere Dmitrij Palagi sulla situazione di sofferenza del penitenziario fiorentino, dove il caldo è torrido e dove la situazione igienico sanitaria non è delle migliori. “Sarebbe necessario - ha detto Funaro, riprendendo le parole del sindaco Nardella di qualche tempo fa - un intervento radicale ovvero rifarlo completamente, ci sono problemi che riemergono di continuo, per questo il carcere fiorentino avrebbe bisogno di essere rifatto”. Un’idea sulla quale si è detto contrario il consigliere Palagi: “Voi come amministrazione ritenete opportuno costruire un nuovo carcere, noi invece siamo per svuotare il carcere esistente e renderlo vivibile, per noi il tema è portare fuori le persone dagli istituti penitenziari, soprattutto quelle che hanno situazioni di marginalità e povertà, secondo noi la soluzione non è portare nuovo cemento”. Una posizione, quella della demolizione di un nuovo carcere, su cui concorda anche il cappellano del penitenziario don Vincenzo Russo in una lettera inviata al sindaco: “Caro sindaco, le chiedo di continuare a proporre con forza quanto da lei affermato in occasione della visita della Ministra Cartabia, ovvero la necessità di “abbattere, demolire” il carcere di Sollicciano, quell’orribile luogo di sofferenze e croci. A cosa serve mantenerlo in piedi se non a perpetuare nel tempo una condizione intollerabile ed incivile per chi vi è rinchiuso e, insieme, un inutile spreco di risorse pubbliche vanamente destinate a tenere in vita un malato incurabile?”. Una posizione che difficilmente potrà essere sposata dal ministero della giustizia visto che, nei mesi scorsi, durante la visita della ministra Cartabia al carcere di Sollicciano, erano stati annunciati 12 milioni di investimenti per la ristrutturazione dell’attuale penitenziario. Genova. Detenuto picchiato a Marassi, agente condannato di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 5 luglio 2022 I giudici di Cassazione: la perquisizione non può sfociare in violenza fisica. È stata confermata dalla Cassazione la condanna per lesioni a carico di un vice ispettore della polizia penitenziaria per aver picchiato pesantemente un detenuto inerme dopo averlo portato in una stanza per le perquisizioni del carcere Marassi di Genova, in concorso con un assistente capo verso il quale si è proceduto separatamente. Senza successo, la difesa dell’imputato ha provato a sostenere che non si era trattato di una aggressione violenta ai danni di Dziri S. - questo il nome della vittima - ma “dell’esercizio di un dovere di perquisizione” da parte dell’agente “che è sconfinato involontariamente in lesioni a causa del comportamento di opposizione” assunto dal detenuto. Al vice ispettore della polizia penitenziaria, imputato in questo processo, è stato contestato di aver condotto il detenuto nella stanza delle perquisizioni “dopo averlo fatto denudare, dapprima colpendolo con schiaffi in faccia, poi dopo che la vittima si era rannicchiata a terra con le braccia sulla testa per proteggersi dai colpi” gli aveva sferrato “calci sulla schiena, sulla testa e sul braccio sinistro”. Il pestaggio aveva causato al detenuto lesioni, edema, escoriazioni, eritema, con circa venti giorni di prognosi. Secondo i giudici - verdetto 25245 della Quinta sezione penale, presidente Gerardo Sabeone, relatrice Elisabetta Morosini - “la tesi dell’adempimento del dovere non riesce ad estendersi alla condotta effettivamente addebitata all’imputato, perché, anche a voler ammettere che la perquisizione fosse legittima, è la successiva, violenta aggressione fisica contro un soggetto inerme (riferita anche da due testimoni oculari esterni di cui l’imputato sembra dimenticarsi) a non trovare alcuna giustificazione”. Così il ricorso della difesa è stato dichiarato “inammissibile”. I magistrati hanno anche condannato l’imputato al versamento di tremila euro alla Cassa delle ammende. Sottolineano inoltre i supremi giudici che la dichiarazione di responsabilità del vice ispettore “si fonda su fonti di prova coerenti e convergenti”: il racconto reso da Dziri in sede di incidente probatorio, conforme alle dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria e al pm; le dichiarazioni “di altri due testimoni oculari del fatto, due detenuti che attraverso la porta socchiusa hanno assistito alle percosse alla vittima accasciata a terra”. Inoltre, a provare le accuse, ci sono anche “le riprese delle telecamere di videosorveglianza che documentano movimenti e tempi conformi al racconto” e “gli esiti della visita ambulatoriale” che ha rilevato “nella immediatezza le lesioni patite” da Dziri S. Infine, ad accertare le responsabilità dell’agente vi sono “le risultanze della consulenza tecnica disposta dal pm, dalla quale è emersa la perfetta compatibilità tra le modalità dell’aggressione, riferite dalla persona offesa, e le lesioni riscontrate”. Caltanissetta. Cultura, ambiente e bellezza per una rieducazione sociale di Annalisa Giunta Quotidiano di Sicilia, 5 luglio 2022 Questo l’obiettivo del progetto “Itinerari di legalità”, promosso dall’Ufficio di Esecuzione penale con l’associazione Inner Sicily. Un’iniziativa rivolta a chi sconta una pena esterna e ai detenuti. Percorsi e intrecci di storie utili a ricreare legami e a favorire la partecipazione e l’inclusione nella vita comunitaria. È il progetto “Itinerari di legalità” promosso dall’Ufficio di Esecuzione penale esterna di Caltanissetta-Enna in collaborazione con l’associazione culturale di promozione turistica Inner Sicily. Un’iniziativa rivolta a chi sconta una pena all’esterno del carcere ma anche ai detenuti e, più in generale, all’intera comunità che si snoderà fino al prossimo novembre attraverso percorsi formativi aventi a tema la legalità, la cura dell’ambiente, l’incontro con il paesaggio, l’arte e la bellezza. Le visite guidate e le escursioni nei territori dell’ennese e del nisseno possono rappresentare, infatti, un potente catalizzatore di sviluppo sociale rigenerante anche per l’acquisizione di competenze spendibili nel settore turistico e ambientale. Sei gli appuntamenti in programma. Il primo si è svolto lo scorso 28 giugno nella scalinata di piazza Mercato Grazia con la presentazione del libro “E se fosse vero. La vita come mi è capitata” autobiografia dell’autore Luciano Ricifari. Tema centrale dell’incontro - moderato da Maria Luisa Mondello psicologa, psicoterapeuta dell’età evolutiva e presidente del Centro studi Martha Harris - l’importanza di prendersi cura degli altri per curare anche se stessi. L’evento ha visto l’intervento di Carlo Alberto Romano professore di criminologia penitenziaria dell’Università di Brescia, Pietro Andrea Cavaleri psicologo e didatta ordinario presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Gestalt Hcc Italy e Giovanni Devastato professore del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche presso La Sapienza di Roma. Una presentazione preceduta dalla visita dell’autore Luciano Ricifari al carcere di San Cataldo, dove ha incontrato nove detenuti alla presenza della direttrice Francesca Fioria e del presidente del Tribunale di sorveglianza Renata Giunta. Questi gli altri incontri previsti: il 13 luglio a Caltanissetta si terrà la presentazione del libro “Paolo sono” di Alex Corlazzoli; il 6 agosto a Caltanissetta il concerto di Frida Magoni Bollani; il 24 settembre l’escursione “Via dei Minatori” a Sommatino; il 9 ottobre l’escursione al Monte Altesina e l’origine dei tre valli di Sicilia a Nicosa (Enna); il 13 novembre la visita guidata alla scoperta del centro storico di Caltanissetta. Caltanissetta. Carceri: due cani all’Ipm per la pet therapy ansa.it, 5 luglio 2022 Duma e Pedro, un rottweiler e un border collie, sono stati i protagonisti del progetto “Empathy Dog” che ha coinvolto i ragazzi dell’istituto penale minorile di Caltanissetta che frequentano la scuola all’interno della Casa di reclusione. Il progetto, che si è appena concluso, è partito dall’Asp di Caltanissetta e, come specificato questa mattina dal funzionario direttivo dell’Asp Massimo Capostagno, è solo l’inizio, perché l’intenzione è quella di implementare questo tipo di attività. Alla fine del percorso tre dei ragazzi sono stati portati insieme a uno dei due cani in una casa di riposo per fare familiarizzare gli anziani con il loro amico a quattro zampe. “In una prima fase il progetto - spiega Girolamo Monaco, direttore dell’Ipm di Caltanissetta - ha coinvolto tutta la popolazione detenuta all’interno dell’Ipm con attività di presenza, accompagnamento e gestione del cane e poi con un’attività interna al gruppo dei ragazzi di riflessione su quello che è stato fatto. La seconda fase del progetto ha riguardato una casa di riposo per anziani e lì i nostri detenuti hanno avuto la possibilità di vedere veramente il significato del dare cura. L’utenza minorile penale - aggiunge Monaco - non è quasi solo rappresentata dal delinquente ma abbiamo persone che, oltre ad aver commesso un reato, hanno problemi di natura psichiatrica. Per cui ci troviamo a gestire questi giovani che spesso seguono terapie di contenimento, che non sempre accettano facilmente. Ma gli effetti di questa esperienza sono stati positivi”. Uno dei risultati osservati è che i giovani hanno empatizzato con entrambi i cani. “Nella prima fase - spiega Milena Avenia, pedagogista dell’Asp di Caltanissetta - il protagonista è stato un rottweiler, un cane possente, però anziano, quindi molto saggio che con grande equilibrio si è rapportato ai ragazzi. Nella seconda fase si è trattato di un border collie giovane, esuberante, giocherellone. Sicuramente il rapporto con l’animale facilita l’espressione delle emozioni. Nell’esperienza conclusiva insieme al border collie nella casa di riposo per anziani si sono presi cura del rapporto tra il cane e gli anziani e sono stati loro stessi i protagonisti dell’incontro”. Paola (Cs). “Narratori dentro. Storie fuori da carcere”, i racconti dei detenuti cosenzachannel.it, 5 luglio 2022 Appuntamento presso il Chiostro di San Domenico, a Cosenza, il 5 luglio alle 17.30. Si tratta di una serie di racconti scritti in dialetto. “Siamo orgogliose di presentare un libro che abbiamo amato ancor prima di leggere, perché vissuto, scritto con il cuore. Stiamo parlando di “Narratori dentro. Storie fuori da carcere”, nato da un progetto di Antonio Carpino e scritto dai detenuti della CC di Paola, edito dalla nostra amata casa editrice Le Pecore Nere - Italia” spiegano le. libraie di Raccontami. “Si tratta di una serie di racconti penati e scritti, nella forma a loro più congeniale, ossia il dialetto, da chi, nelle carceri ci trascorre la quotidianità. Antonio li ha tradotti (ci sarà, quindi, il doppio testo) per dare a tutti e tutte la possibilità di entrare in un universo ancora troppo sconosciuto. Noi avremo l’onore di dialogare con l’autore, ma anche con Loredana Giannicola, dirigente USP di Cosenza e Maria Pina Iannuzzi, editrice de Le Pecore Nere. Altro grande onore sarà ascoltare alcuni estratti del libro dalla calda voce di Ernesto Orrico. Lo faremo in un posto che ci accoglierà per la prima volta e che noi amiamo, il Chiostro di San Domenico, a Cosenza, il 5 luglio alle 17.30, in una sala che (non temete!) sarà dotata di aria condizionata”. “Vi invitiamo ad esserci, a sfidare l’afa cosentina, per qualcosa che rimarrà sempre nei cuori e nelle menti”. Questo Antonio scrive nella prefazione. “L’empatia è cara, l’empatia ha un prezzo alto che paghi in silenzio, ogni giorno, ogni volta che nel ripetersi della normalità ti fermi a pensare. La sera ti spogli, entri nel letto, ti adagi sotto il piumone caldo, e pensi. Pensi che Pasquale ora sta in un letto non suo, sotto coperte dure, poco accoglienti, magari al freddo. La mattina ti alzi, fai scorrere l’acqua che diventa calda, ti insaponi nella tua doccia di un metro per un metro, e pensi. Pensi che Carmine, evidentemente in sovrappeso, che non dovrebbe mangiare tanto e che a vederlo sembra un gigante dal suo metro e novanta, ora si sta lavando, una metà per volta”. Napoli. Luglio musicale nelle carceri, oggi primo appuntamento a Secondigliano anteprima24.it, 5 luglio 2022 È in programma oggi, a partire dalle ore 10:00, nella Casa circondariale di Secondigliano, il primo appuntamento dell’iniziativa “Luglio Musicale”, promossa nelle carceri campane dal Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello. A calcare il palcoscenico del teatro del carcere sarà il gruppo “Gli anelli di Saturno”, ensemble nata dieci anni fa con la collaborazione di diversi professionisti e con l’intento di creare delle occasioni di concerti per giovani artisti. Il gruppo, composto prevalentemente da strumenti a ‘corde pizzicate’, porta in scena pezzi di repertorio dal ‘500 al ‘900 e pezzi ‘cameristici’, quindi con la partecipazione di soprani e tenori. Per l’evento di domani, a cui parteciperanno gli studenti del Polo universitario penitenziario, è stato preparato un concerto di classici napoletani, da Eduardo Di Capua a Libero Bovio, nonché brani strumentali e alcuni pezzi inediti. In particolare, sul palco ci saranno due chitarristi, due mandolinisti, due violoncellisti, un pianista e un tenore. “Sarà un momento assai emozionante, anche perché uno dei musicisti, in particolare un violoncellista, è un detenuto del carcere di Secondigliano. La musica ha un valore inestimabile, specie dietro le sbarre. La musica - sottolinea Ciambriello - è in grado di abbatte le distanze e soprattutto i pregiudizi. Il concerto di domani a Secondigliano è solo il primo di una serie di eventi che ho pensato di organizzare in altri istituti penitenziari della Campania, per tutto il mese di luglio. Un momento distensivo per i detenuti, ma anche un momento di riflessione su se stessi e sugli altri. Un momento per generare emozioni”. Terni. Al carcere di è tornato il teatro umbriaon.it, 5 luglio 2022 Dopo tre anni di stop a causa del Covid, la compagnia di detenuti Tal de Tali ha messo in scena “Il condominio dei diversi”. Dopo tre anni di stop a causa del Covid, è tornata la magia del teatro al carcere di Terni. La compagnia ‘Tal de Tali’, formata da persone attualmente ristrette nel Casa circondariale, ha messo in scena ‘Il condominio dei diversi’, spettacolo ideato e scritto da Francesca Capitani, storica volontaria e presidente dell’associazione Toto Corde. Cinque repliche che sono culminate con la giornata conclusiva di venerdì 1 luglio, quando gli attori si sono esibiti davanti ai cittadini ternani che per l’occasione hanno oltrepassato i muri di separazione tra il carcere e la città. Lo spettacolo - “Dopo tre anni finalmente la nostra compagnia teatrale è tornata in scena - ha detto Francesca Capitani - e tutti gli attori sono stati molto emozionati perché il palco ci era mancato tanto. ‘Il condominio dei diversi’ parla di una famiglia di cuore, di rapporti interpersonali, di gente che vuole aiutarsi, è uno spettacolo profondo ma anche estremamente divertente, perché la vita è così, drammaticamente spiritosa e incredibilmente imprevedibile”. Lo spettacolo è stato l’atto finale di un percorso che ha visto i volontari dell’associazione e i detenuti impegnati nei laboratori di prova per diversi mesi. “Il percorso messo in atto non è un corso di teatro né una scuola per diventare attori, ma un laboratorio di pedagogia teatrale - ha aggiunto la presidente dell’associazione - il teatro è il mezzo utilizzato per permettere alla persona di esprimere sé stesso, di trovare un equilibrio tra le sue difficoltà e le sue potenzialità, utilizzando la cultura come strumento di crescita”. Genova. Al Teatro dell’Arca spettacolo interpretato da detenuti dell’Alta sicurezza Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2022 Mercoledì 6 e venerdì 8 luglio alle ore 20.30, per la prima volta sul palco del Teatro dell’Arca, andrà in scena uno spettacolo interamente interpretato da attori detenuti della sezione di alta sicurezza della Casa Circondariale di Genova Marassi. Non era mai accaduto, nel corso di oltre 15 anni di attività, che l’associazione Teatro Necessario riuscisse a sviluppare un progetto teatrale con i detenuti di questa sezione. Gli spettacoli della Compagnia “Scatenati” vengono sempre rappresentati, oltre che al Teatro dell’Arca, anche presso il Teatro Ivo Chiesa in quanto gli attori detenuti delle sezioni comuni sono in possesso dei requisiti necessari per recarsi all’esterno della struttura penitenziaria. Siccome i detenuti della sezione di alta sicurezza non sono in possesso di tali requisiti, lo spettacolo “7 minuti” sarà rappresentato esclusivamente presso il Teatro dell’Arca che, come noto, essendo collocato nell’intercinta del carcere di Marassi, consente anche a questa tipologia di detenuti di esibirsi, oltre che per gli altri detenuti, anche per il pubblico esterno. Il progetto è stato realizzato grazie al contributo del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e Regione Liguria con il supporto dell’Istituto Vittorio Emanuele II - Ruffini ed il sostegno di Compagnia San Paolo nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra”. 7 minuti e? liberamente ispirato al testo di Stefano Massini, recentemente vincitore del premio Tony Award 2022 per Lehman trilogy, uno dei principali autori che si muove oggi nei territori del teatro politico e sociale, il quale si e? ispirato per 7 minuti ad un fatto di cronaca realmente accaduto in una fabbrica francese. Nella versione messa in scena da Sandro Baldacci e Igor Chierici la vicenda, originariamente al femminile, è stata ambientata nel centro siderurgico di Taranto. Il consiglio di fabbrica è riunito in una grande stanza: il centro siderurgico e? stato venduto ad una multinazionale... quale sarà? il destino degli operai? C’e? pesante aria di attesa. Finalmente il portavoce del consiglio, rientrando dall’incontro con i vertici dell’azienda, comunica che non ci saranno licenziamenti e gli operai possono tirare un sospiro di sollievo... Pero?... Pero? c’e? una piccola clausola nel nuovo accordo. Chiusi nella stanza a discutere, gli undici operai dovranno decidere se questa clausola e? insignificante come sembra o se, al contrario, non nasconda una trappola in grado di provocare pesanti conseguenze. A poco a poco il dibattito si accende e ognuno sarà? costretto a ripercorrere pubblicamente la propria vita prima di arrivare al voto. Per consentire lo svolgimento delle necessarie procedure per l’ingresso all’interno della Casa Circondariale di Genova Marassi è necessario confermare prenotandosi direttamente al seguente link: https://www.teatronecessariogenova.org/tno-tda/eventi/7-minuti/ Comandante Alberto, una parabola drammatica di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 luglio 2022 Anni Settanta. Per Einaudi, “Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione” di Monica Galfrè. E per Laterza, “Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Br” di Mario Di Vito. Con il suo bel libro “Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione” (Einaudi, pp. 276, euro 18.50) Monica Galfrè ha compiuto una missione impossibile: dire qualcosa di non ancora detto sul terrorismo degli anni ‘70-80, schiudere un nuovo orizzonte non solo per la ricerca ma per la comprensione generale di quell’epoca. L’autrice racconta una storia nota, quella del militante di Prima Linea Marco Donat-Cattin: uno come tanti con un padre che non era come tanti. Carlo Donat-Cattin era stato più volte ministro, era uno dei principali leader della Dc. A chiamare in causa il figlio del potente era stato nella primavera del 1980 Patrizio Peci, il primo grande pentito delle Br, alludendo alle confidenze di un militante di Pl, Roberto Sandalo. Cossiga, allora presidente del consiglio, mise al corrente del grosso guaio l’amico Carlo, subito prima che lo stesso Sandalo fosse arrestato. Il leader DC fece comunque in tempo a incontrare a Torino “Roby il Pazzo”, che di suo figlio era non solo compagno e complice ma anche amico. Quando Sandalo finì in manette e si pentì seduta stante coinvolse nello scandalo ministro e premier, un ventilatore che girando a velocità massima spargeva fango sino ai vertici delle istituzioni. Lo scandalo fu enorme e tuttavia non ebbe alcuna conseguenza. Solo Donat-Cattin si ritirò per qualche tempo dell’agone e sarebbe rientrato in campo presto, di nuovo ministro. Galfrè ricostruisce dettagliatamente, nella prima parte del libro, la fragorosa vicenda ed è impossibile non constatare come il cerimoniale della politica e del dibattito mediatico siano in Italia sempre uguali, impermeabili al passare del tempo e al mutare delle ere storiche. Però nel diluvio di chiacchiere e nel minuetto dello scontro parlamentare si afferma una mutazione reale, un cambiamento dell’ottica complessiva rispetto agli anni precedenti. Per la prima volta non “un terrorista” ma, grazie alla celebrità del nome, “i terroristi” vengono riconosciuti come propri figli, a volte in senso proprio, sempre in senso figurato. Non più anonimi e gelidi nemici senza volto ma parte del Paese, ragazzi della camera accanto. Figli o figli di amici o amici dei propri figli. È appena un inizio ma pochi mesi prima considerare gli emissari del terrore qualcosa in più di piatte figurine bidimensionali sarebbe stato considerato un affronto, quasi un delitto. L’autrice segue la stessa pista nella seconda e più sostanziosa parte della sua ricerca, quella dedicata alla disperazione del figlio. Sceglie di affidarsi alle carte processuali e non alla memorialistica dei decenni successivi perché convinta che, nonostante gli evidenti condizionamenti dovuti alle circostanze, quegli interrogatori e quelle deposizioni siano comunque più immediati e veri, meno viziati dalla tendenza a riscrivere il passato, delle ricostruzioni a posteriori. Scelta azzardata ma a conti fatti vincente perché quel che l’autrice cerca necessita proprio della verità del presente, delle emozioni e delle riflessioni in corso “all’epoca dei fatti”, senza il filtro che inevitabilmente applica chi guarda a ritroso. La ricercatrice si concentra su ciò che viene abitualmente trascurato, come il rapporto sempre incombente con la morte. La morte rischiata. Ancor più la morte data. Nelle ricostruzioni del terrorismo, una scelta di potenza enorme come l’uccidere, il togliere la vita ad altri esseri umani, finisce quasi per sembrare burocratica routine. Si trattò invece spesso di un tormento, di una lacerazione tanto insanabile da spiegare probabilmente, persino più dei pentimenti e delle dissociazioni, la disfatta della lotta armata. Risalta come altrettanto importante il rapporto con il gruppo, con i compagni, che esercita un vincolo stringente, fatto di lealtà ma anche di costrizione. Che lo si chiami “ritirata strategica” come faceva Donat-Cattin oppure dissociazione o persino pentimento, il sottrarsi alla lotta armata si configura anche come un recupero di individualità, una ripresa di possesso della propria singolarità sottratta alla tirannia solidale del gruppo. Anche per questo l’autrice si sofferma su un ulteriore aspetto sempre taciuto o sfiorato solo in superficie dell’esperienza dei terroristi: la vita privata, che esisteva anche in clandestinità. I rapporti e i drammi sentimentali. Le amicizie e gli amori. La vita. Quando, denunciato da Sandalo nel maggio 1980, il “comandante Alberto” riparò in Francia per poi essere arrestato ed estradato nel febbraio 1981, aveva già imboccato la strada che in seguito si sarebbe definita della dissociazione. Sarebbe poi stato ucciso da una macchina sull’autostrada, nel giugno 1988, mentre tentava generosamente di prestare aiuto e salvare vite dopo un incidente. Libero ma ancora intimamente tormentato dal suo passato. La parabola tragica di Marco illustra quella della sua generazione, spiega lo smottamento non solo della lotta armata ma più in generale della militanza e del senso di appartenenza collettivo che trovò il suo punto di svolta proprio nel 1980. Nella cronologia storica è il pentimento di Peci a segnare l’inizio della fine per il terrorismo rosso. Però quel pentimento, seguito da una ressa di allontanamenti dalla scelta armata, è a sua volta sintomo e conseguenza di un processo più profondo. L’impossibilità di reggere oltre una deriva che aveva portato i militanti rivoluzionari verso sponde opposte a quelle che cercavano. Quella deriva la racconta un altro libro che scarta rispetto al punto di vista abituale. Mario Di Vito è nipote di Mario Malandrelli, il magistrato che indagò sul sequestro e l’assassinio del fratello di Patrizio Peci, Roberto. Ricapitola ora, attraverso lo sguardo “esterno” del magistrato di San Benedetto del Tronto, quel che fu a tutti gli effetti il precipitare negli inferi di una generazione politica in “Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Br” (Laterza, 2002, pp. 172, euro 19). Potendo contare sui dettagliatissimi diari di sua nonna, Di Vito racconta giorno per giorno l’evolversi di una delle vicende più orrende nella storia degli anni di piombo. Segue il percorso e gli stati d’animo del nonno mentre vede la sua vita cambiare di giorno in giorno, sempre meno padrone del suo tempo perché sempre più minacciato e protetto. Ma soprattutto mentre assiste, con lo sbigottimento raggelato che campeggia in queste pagine, allo snodarsi assurdo e inesorabile di una tragedia di oscena ferocia: il sequestro di Roberto nell’agosto 1981 a opera dell’ala Br che sarebbe presto diventata il “partito guerriglia”, il grottesco “processo” filmato, lo slittamento verso una dinamica non più politica ma mafiosa, sino all’esecuzione e poi alle indagini e al processo in cui il nonno dell’autore incarnò l’accusa. C’è una parola che ricorre ossessiva nelle deposizioni, nei volantini, nelle rivendicazioni di quei giorni e che riassume per intero quella deriva impazzita: “Annientamento”. Narrato quasi come un romanzo, il libro di Mario Di Vito restituisce tutta l’angoscia di quel momento: non solo dei protagonisti ma di tutti quelli che assistettero al precipitare nell’orrore del sogno rivoluzionario. Consapevoli di essere di fronte al punto di non ritorno. Lo Ius Scholae è scritto nel rap dei nuovi italiani di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 5 luglio 2022 Il 59 per cento degli italiani intervistati da YouTrend si è detto a favore della proposta di legge sullo Ius Scholae. Che cos’è lo sapete, ma ripetiamolo: è il diritto di cittadinanza per i minori stranieri residenti in Italia (attualmente quasi un milione) rilasciato in base alla frequenza di un ciclo di studi (almeno cinque anni di scuola). Mi sento in dovere di fare qualcosa per il 40 per cento e spiccioli di sondaggiati che si dicono contrari (ma davvero siete così tanti o sono i sondaggi, talvolta un po’ stronzi e diciamo pure pregiudiziali, che vi disegnano così? O è la Questura? O l’infelicità? Cosa? Come fate? Perché? Temete che vi venga sottratto il telecomando?). Ora, per quanto non mi piaccia l’idea che il diritto di cittadinanza vada acquisito per merito, poiché noialtri nativi italiani non abbiamo meritato niente di niente, siamo nati per caso in un posto, e fine, ecco, ciò premesso (e non mi piacciono nemmeno le premesse), domando a costoro se non sia, in fondo, persino poetico che frequentare la scuola faccia maturare un diritto, renda formalmente cittadini di un Paese, specie se quel Paese è l’Italia, che la scuola la sevizia da anni. E due. Non potendo andare a citofonare a casa di tutti, come vorrei in effetti fare (il mio ideale procedurale, nella vita, è sempre Erin Brockovich), vivamente consiglio a costoro di ascoltare un paio di canzoni che sono l’editoriale perfetto su questa questione, e più in generale sulla questione del diritto di cittadinanza, le seconde generazioni, la pressoché unica chance che abbiamo di fare di questo Paese un posto civile e cioè renderlo abitabile per i nuovi italiani, che non nascono per forza in Italia o per forza da italiani. La prima canzone è di Ghali, nato a Milano da genitori tunisini, ha qualche anno, si chiama Cara Italia e fa così: “Oh eh oh quando mi dicon va’ a casa, oh eh oh, rispondo e dico son qua, oh eh oh, io t.v.b. cara Italia, oh eh oh, sei la mia dolce metà”. L’altra si chiama Nuove Strade, è di Ernia, Rkomi, Madame, Gaia, Samurai Jay, Andry The Hitmaker. Ascoltatela. Meritiamoceli noi, questi ragazzi, se siamo capaci. “Cpr, Caltanissetta e gli altri vanno chiusi: violano ogni diritto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 luglio 2022 Dopo le segnalazioni di pestaggi e mancata assistenza pervenute nelle ultime settimane alla rete di attivisti, giovedì mattina, la deputata Simona Suriano del gruppo parlamentare ManifestA si è recata in visita ispettiva presso il Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) di Caltanissetta. Mentre la parlamentare effettuava il sopralluogo, accompagnata da un suo assistente, all’esterno del Cpr si teneva un presidio di solidarietà - preannunciato nei giorni precedenti dalla campagna LasciateCIEntrare - che chiedeva la chiusura definitiva del Cpr. Al presidio hanno partecipato anche Borderline Sicilia, Rete Antirazzista Catanese e Arci Porco Rosso. “Chiediamo la chiusura del Cpr - ha detto Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare - perché luogo di ingiusta detenzione dove vengono negati i diritti umani e dove la violenza contro le persone continua ad essere l’unica risposta alle legittime richieste - di assistenza sanitaria, psicologica, legale - espresse dai trattenuti. Come attivisti e solidali pretendiamo immediate cure per i richiedenti e la liberazione di tutte le persone trattenute”. La parlamentare Suriano, all’indomani della visita, ha scritto: “Inutile dire le condizioni in cui vivono questi ragazzi, per lo più rei di non avere documenti. Le condizioni sono proibitive per qualunque essere vivente; caldo asfissiante, condizioni igienico sanitarie critiche e tanta disperazione tanto che un recluso recentemente si è gettato da un cavalcavia mentre era in viaggio per l’ospedale piuttosto che rientrare in questi luoghi”. E ha aggiunto: “I Cpr così come concepiti sono dei veri lager che vanno chiusi e violano ogni minimo diritto alla decenza umana. Prepareremo con le colleghe di ManifestA che hanno girato per altri Centri delle azioni parlamentari affinché si dia una giusta e dignitosa risposta a chi fugge da guerre e miserie”. LasciateCIEntrare riferisce che, dopo la visita della parlamentare, sono state rilevate gravi criticità a livello sanitario e la presenza di persone trattenute con importanti vulnerabilità. “Inoltre - rileva sempre la campagna - a seguito delle negligenze da parte degli operatori del centro, diversi sono stati i tentativi di autolesionismo delle persone trattenute. Ieri pomeriggio, a conferma della grave situazione, c’è stata una nuova protesta da parte dei trattenuti per chiedere assistenza sanitaria nei confronti di un cittadino tunisino con importanti problemi renali trattenuto nel Cpr da mesi”. LaciateCIEntrare, infine denuncia: “Ancora una volta, le forze dell’ordine hanno risposto con la violenza: sono entrate nella struttura e hanno picchiato due detenuti, uno dei quali era la persona che necessitava di assistenza medica per i problemi renali. Una gravissima aggressione, l’ennesima: nei giorni scorsi dal Cpr erano già arrivate denunce relative alle violenze della polizia nei confronti di un cittadino tunisino”. Abou Soumahoro, sciopero della fame e della sete per il salario minimo e i diritti Il Manifesto, 5 luglio 2022 La protesta. L’attivista sindacale e sociale, fondatore della Lega braccianti, si è incatenato a piazza Montecitorio e chiede un piano contro gli infortuni sul lavoro e la “patente del cibo” per braccianti e contadini schiacciati dalla grande distribuzione. L’attivista sindacale e sociale Aboubakar Soumahoro, fondatore della Lega dei braccianti ha iniziato ieri uno sciopero della fame e della sete e si è incatenato sotto il sole cocente in piazza Montecitorio a Roma. Nel pomeriggio è stato ricevuto a Palazzo Chigi presso la presidenza del consiglio dei ministri. “Chiedo tre cose al governo - ha detto - introduzione del salario minimo legale, adozione del piano nazionale contro gli infortuni sul lavoro, riforma della filiera agricola con l’introduzione della patente del cibo e il rilascio di un permesso di soggiorno a tutti gli invisibili. E’ necessario riformare la filiera agricola con l’introduzione della Patente del Cibo, perché noi braccianti e contadini non possiamo continuare ad essere schiacciati sotto il rullo compressore della potente Grande Distribuzione Organizzata”. “La mia esistenza è al servizio degli invisibili, che soffrono materialmente e nell’anima. Non posso continuare a guardare milioni di donne e di uomini soffrire senza fare niente. Il Palazzo ascolti il Paese”. L’attivista ha denunciato la scomparsa di Yusupha Joof, il ragazzo morto nell’incendio scoppiato nel ghetto di Torretta Antonacci, nelle campagne tra San Severo, Foggia e Rignano Garganico. “Senza un impegno concreto del Palazzo per dare risposte alle sofferenze delle lavoratrici e dei lavoratori del Paese Reale - ha aggiunto - sono pronto e preparato a portare il mio sciopero della fame e della sete ad oltranza. Ieri pomeriggio il sostegno a Soumahoro è stato dato da Angelo Bonelli ed Eleonora Evi (Europa Verde) e Laura Boldrini (Pd). Nel giugno del 2020 il sindacalista si era incatenato durante gli Stati generali convocati dal governo Conte 2 fuori da Villa Pamphili. Stati Uniti. Quella sottile linea blu del “partito della polizia” di Luca Celada Il Manifesto, 5 luglio 2022 Mille morti l’anno per mano della polizia, un terzo neri. La violenza è una tela invisibile che collega l’esperienza afroamericana. Negli Stati Uniti la polizia uccide 1.000 persone ogni anno, il risultato di una concezione violenta e punitiva di ordine repressivo. Ma non solo. Un terzo delle vittime sono infatti afroamericane, in un paese dove i neri rappresentano solo il 13% della popolazione. È quindi inequivocabile un fattore legato a doppio filo agli scheletri nell’armadio razziale e razzista del paese. La scia di sangue e della cattiva coscienza della nazione si ricollega agli “strani frutti” dei linciaggi sudisti, a Emmett Till con la faccia ridotta in poltiglia in una pozzanghera del Mississippi per aver guardato una donna bianca, allo stillicidio infinito della cronaca: Michael Brown, Stephon Clarke, Freddie Gray, Breonna Taylor, Laquan McDonald, Adam Toledo, Philando Castile, Walter Scott, Eric Garner, Alton Sterling, George Floyd…. Unico ricorso delle vittime, la rabbia roca e disperata espressa regolarmente - e futilmente - nelle piazze e contro le vetrine di Los Angeles, Ferguson, Baltimora, Cleveland, Chicago, Sacramento, Atlanta… e questa settimana davanti al tribunale di Akron. Gli afroamericani chiedono come possano regolarmente essere arrestati, senza colpo ferire, suprematisti bianchi armati fino ai denti come Dylan Roof (Charleston), Kyle Rittenhouse (Kenosha) o Payton Gendron (Buffalo), mentre sono regolarmente freddati giovani neri rei di non essersi fermati ad uno stop o avere un fanalino rotto. Rimane dunque una nazione che divora i propri figli dalla pelle scura. Così è stato per Devin Brown, tredicenne crivellato dai proiettili del LAPD, Tamir Rice di 12 anni falciato a Cleveland, Adam Toledo tredicenne morto in una strada scura col terrore negli occhi e le mani in alto, Ma’khia Bryant, uccisa a Columbus, Ohio a 16 anni e ora Jayland Walker, 25 anni, ad Akron. In ogni caso è stato sufficiente addurre l’autodifesa per avere l’esonero automatico. Nella narrazione ufficiale la polizia rappresenterebbe la thin blue line, la sottile linea che protegge i cittadini onesti e l’ordine sociale dalla minaccia dei “malviventi”. Ma la “sottile linea blu” delinea sempre di più lo spirito di corpo e la polemica di un “partito della polizia” contrapposto al movimento afroamericano. Nel fine settimana dalle finestre del commissariato di Akron è stata illuminata una sottile linea di luci azzurre, dichiarazione inequivocabile a favore degli agenti sparatori. Come ricorda Connie Rice, da decenni attivista per le riforme a Los Angeles, molti corpi di polizia discendono direttamente dalle pattuglie per il recupero degli schiavi fuggiaschi. Nessuno è riuscito (o ha voluto) contenere la dimensione suprematista della polizia come strumento di controllo sociale e di mantenimento dell’ordine razziale. Vista dalla parte sbagliata di una pistola, la sottile linea blu mantiene quella fondamentale connotazione di confine fra privilegio ed elementi sottomessi. Lo slogan defund the police invece si riferisce soprattutto alla decostruzione di questa concezione. E i militanti BLM non a caso si autodefiniscono “neo abolizionisti” per sottolineare la continuità secolare della loro lotta. Intanto la lezione interiorizzata da ogni nuova generazione di afroamericani è di vivere nel pericolo. Come scrive Ta Nehishi Coats, “la polizia esprime (…) una minaccia costante che incombe sui corpi neri del paese come un dato immutabile e inevitabile, come un terremoto o un uragano”. La violenza è una tela invisibile che collega l’esperienza afroamericana. Daunte Wright, ucciso dalla polizia di Brooklyn Center, era stato studente della compagna di George Floyd. Caron Nazario, minacciato e torturato da due agenti in Virginia l’anno scorso, è parente di Eric Garner strangolato a Staten Island da altri poliziotti nel 2014. La madre di Fred Hampton, leader delle Pantere Nere di Chicago, assassinato dal Fbi nel 1968, era stata babysitter di Emmett Till, la cui cugina era seduta con la famiglia di George Floyd durante il processo di Minneapolis…. Una storia parallela e nascosta che ogni afroamericano conosce intimamente ed ogni bianco può facilmente rimuovere. Stati Uniti. I 60 colpi di pistola della polizia su Jayland il nero di Maria Laura Rodotà La Stampa, 5 luglio 2022 “Pochi giorni fa applaudivano la Corte Suprema, sul diritto di portare un’arma. Ora giustificano i poliziotti che hanno sparato 60 volte contro Jayland Walker perché, forse, portava un’arma”. Lo ripetono i non-conservatori, non-repubblicani, non-pro armi sui social; l’obiezione vale per tutti gli Stati Uniti. Nell’Ohio è un po’ peggio. Da qualche mese i cittadini, che già potevano portare “concealed weapons”, armi celate in tasca, alla cintura e Dio sa dove, ora possono farlo senza un permesso. E hanno il diritto - ne aveva diritto anche Walker - di non dire alla polizia se sono armati e perché. Ora poi gli Ohioans possono legalmente acquistare “coltelli a gravità, coltelli a serramanico, coltelli a molla” e tenerli addosso senza essere disturbati. “È un gran giorno”, ha detto Doug Ritter del gruppo Knife Rights per i diritti dei coltelli. Ritter è bianco, di mezza età, armato fino ai denti al netto delle lame, e come milioni di poliziotti e civili bianchi di mezza età ha un’idea “originalist” dell’America e dei diritti. E sarebbe: l’America, 250 anni fa come oggi, è di noi maschi bianchi eccetera, gli altri devono stare al loro posto. Dall’elezione di Donald Trump in poi sentono di poterlo dire apertamente. I sostenitori dei diritti di lame e proiettili, da allora, hanno preso il Partito repubblicano isolando i mollaccioni, reso le loro teorie complottiste oggetto di dibattito, visto frange estremiste ma non più tanto assaltare il Campidoglio. Si sentono più forti dopo una sentenza della Corte Suprema che bocciava una legge di New York che limitava il porto d’armi. E si sentono, come quasi tutti ora in America, all’inizio di una guerra civile. E così alcuni di loro, in divisa, sette bianchi e un nero, hanno pensato di vedere una pistola nell’auto di un giovane afroamericano non specchiato, e quando è scappato hanno sparato tutti. Il video fa spavento, sembra una battaglia, è un attacco furioso a un unico bersaglio. I poliziotti hanno detto di aver provato a usare i taser. Il sindaco di Akron (un tempo capitale degli pneumatici, ora capoluogo di oppioidi, eroina e fentanyl, veri responsabili del genocidio bianco nel Midwest) ha dichiarato lo stato di emergenza. Si sono viste le scene rituali, i dimostranti arrabbiati, la polizia in assetto antisommossa. Ma parecchio è cambiato dall’estate del 2020, dalla mobilitazione nazionale dopo l’assassinio di George Floyd. I fondatori di Black Lives Matter non sono più eroi, decine di milioni di dollari raccolti sono spariti dai bilanci, alcune ville in California sono apparse a loro nome. E l’opinione pubblica, la cittadinanza attiva, gli indignati dei social sono stanchi, sopraffatti da cattive notizie e brutte sentenze. E nell’Ohio, negli stessi giorni, hanno sparato sessanta volte a un venticinquenne per non farlo scappare, e hanno vietato di abortire a una bambina di dieci anni. Sembrano episodi emblematici dell’estate americana 2020, se ne temono altri, anche peggiori. Russia. La caccia alle spie uccide il luminare della fisica di Anna Zafesova La Stampa, 5 luglio 2022 Dmitry Kolker era ricoverato in terapia intensiva: arrestato in ospedale, è morto dopo due giorni in carcere. Nessuno probabilmente aveva più illusioni sul fatto che in Russia chiunque possa venire arrestato senza motivo e condannato senza prove, e che nelle prigioni del regime si praticavano torture fisiche e psicologiche. Ma quello che è accaduto al fisico Dmitry Kolker segna un nuovo, impensabile precedente di spietatezza. Il 54enne luminare di fisica è stato arrestato nel reparto di terapia intensiva di una clinica di Novosibirsk, dove era ricoverato d’urgenza per un aggravamento del tumore al pancreas. Provava dolore, non riusciva più a mangiare, si alimentava attraverso un sondino, era reduce da tre interventi chirurgici ed era stato considerato ormai troppo debole per reggere la chemioterapia. In altre parole, era in fin di vita. Nonostante questo, all’alba del 30 giugno è stato arrestato da una squadra di agenti dell’Fsb, la polizia politica, caricato su un aereo e trasferito nel carcere di Lefortovo a Mosca, la prigione dei servizi. Due giorni dopo è stato ricoverato e alle 2.40 di domenica è morto. La sua famiglia è stata informata del decesso domenica mattina, con un telegramma senza firma. Una vicenda talmente assurda che perfino il figlio dello scienziato Maksim all’inizio si era rifiutato di crederci, e quando aveva ricevuto all’alba del 30 giugno una telefonata dall’inquirente che lo informava dell’arresto di suo padre in terapia intensiva aveva riattaccato, credendo a un brutto scherzo. Solo alla terza telefonata, con suo padre che gli confermava l’arresto, e gli chiedeva di aprire la porta del suo appartamento per la perquisizione, aveva capito che era vero. “L’Fsb ha ucciso mio padre, e non gli ha permesso nemmeno di dire addio alla sua famiglia!”, ha scritto sul social russo VKontakte. La legge russa proibisce la detenzione di imputati in condizioni sanitarie così gravi, e la famiglia aveva assunto un avvocato per cercare di liberare Kolker. Ma un giudice Novosibirsk aveva convalidato l’arresto senza aspettare l’arrivo del legale della difesa, che poi non è riuscito a trovare traccia dello scienziato nelle carceri di Mosca: sembrava sparito, e il fascicolo sul suo caso sembrava non esistere. Un agente dell’Fsb intanto aveva tranquillizzato la moglie dello scienziato, dicendole che le condizioni di detenzione a Lefortovo erano ottime, e “in cella c’è perfino un frigorifero”. Il fatto che Kolker non era più in grado di mangiare sembrava essere stato ignorato dai suoi carcerieri. Ancora più surreale, se possibile, è stato il motivo per il quale Kolker era stato arrestato: l’Fsb lo sospettava di spionaggio a favore della Cina. Dottore in fisica e matematica, lo scienziato dirigeva il laboratorio delle tecnologie ottiche quantistiche nell’Istituto della fisica dei laser della famosa Cittadella accademica di Novosibirsk, oltre a insegnare all’università e al politecnico della città siberiana celebre come capitale intellettuale della Siberia. Nel 2018, aveva tenuto lezioni in Cina, ma sua figlia Alina dice che le rigidissime regole dell’istituto dove lavorava rendevano totalmente impossibile passare informazioni non autorizzate: i testi delle lezioni venivano approvati prima, e per verificare che lo scienziato non se ne discostasse gli era stato proibito parlare in inglese. Le lezioni venivano tenute in russo, e un ufficiale dell’Fsb accompagnava Kolker ovunque per assicurarsi che non dicesse una parola in più. Era già stato interrogato più volte, e aveva sempre negato qualunque responsabilità. Ma due giorni prima era stato arrestato un altro scienziato di Novosibirsk, anche lui accusato di spionaggio a favore di Pechino: Anatoly Maslov, 75 anni, era uno dei principali ricercatori dell’Istituto di meccanica teorica e applicata, specializzato in tecnologie ipersoniche. Anche lui era stato fermato da un team di agenti venuti da Mosca e, dopo la rapida convalida dell’arresto da parte di un giudice, era stato caricato su un aereo speciale per essere trasferito a Lefortovo. È evidente che qualcuno nei servizi vorrebbe svelare un “complotto” accusando scienziati di grande fama e reputazione, molto noti negli ambienti accademici (Kolker era anche un musicista che si esibiva spesso in concerti di musica di organo). In una via di Novosibirsk è nato un memoriale spontaneo con i ritratti di Maslov e Kolker, con decine di persone che hanno depositato fiori e lasciato scritte di protesta, mentre i colleghi stanno raccogliendo soldi per la difesa del primo e i funerali del secondo. “Subito un’indagine sulle morti di migranti a Melilla. Sia la giustizia marocchina ad occuparsene” di Karima Moual La Repubblica, 5 luglio 2022 Il 24 giugno scorso, almeno 37 di 2.000 migranti che cercavano di attraversare il confine a Melilla sono rimasti uccisi. Driss el-Yazami è attualmente il presidente del Ccme, il consiglio della comunità marocchina all’estero. Ma è anche un grande attivista per i diritti umani di fama internazionale. È stato Presidente del Consiglio nazionale dei diritti umani (CNDH) in Marocco tra marzo 2011 e dicembre 2018. A colloquio con Repubblica, ha parlato del massacro di Melilla avvenuto il 24 giugno scorso quando almeno 37 migranti sono morti nel tantativo di attraversare il confine europeo. L’evento ha fatto scattare pesanti condanne internazionali contro Spagna e Marocco per la cattiva gestione dell’emergenza e la mancata trasparenza. El-Yazami auspica un’indagine: “La cosa migliore sarebbe che la giustizia marocchina se ne occupasse”. Dottor El Yazami com’è la situazione dell’immigrazione interna in Marocco? Anche se si conosce poco, il Marocco è in realtà una vecchia terra di immigrazione con rapporti politici, religiosi, commerciali e umani molto antichi con l’Africa subsahariana in particolare. Dall’indipendenza nel 1956, ci sono stati accordi di libero accordo con paesi come il Senegal, la Costa d’Avorio, ecc. e si è sviluppata la migrazione per studi di cittadini neri africani. Ma da trent’anni la dinamica principale è che il Marocco sta gradualmente diventando una terra di immigrazione, una terra di insediamento permanente. Non è più solo un paese di transito, di passaggio. L’esistenza delle due città occupate sul territorio hanno anche reso il Marocco una meta centrale per tutti i flussi che vogliono raggiungere l’Europa. Non solo l’Europa si trova a 14 chilometri attraverso lo Stretto, ma è in un certo senso nello stesso Marocco. Come affronta il Paese questo fenomeno? Il Marocco ha reagito in almeno tre modi. Internamente, il re del Marocco ha avviato nel 2013 una politica nazionale di accoglienza che ha dato vita a due eccezionali operazioni di regolarizzazione e allo sviluppo della SNIA, una strategia nazionale di integrazione e accoglienza. Due progetti di legge, uno sulla politica dell’immigrazione e l’altro sull’asilo, sono stati elaborati ma non sono ancora stati presentati in parlamento, cosa che mi rammarico. I figli dei migranti vengono educati indipendentemente dalla situazione amministrativa dei genitori e il Marocco collabora con l’ufficio dell’Alto Commissario per i Rifugiati a Rabat per la concessione dell’asilo. A livello regionale, il re del Marocco è stato nominato leader africano sulle migrazioni dal vertice dell’Unione africana, al quale ha presentato una roadmap continentale su questo tema, che riguarda principalmente l’Africa: quattro migranti africani su cinque vanno da un paese africano a un altro africano Paese e la migrazione africana rappresentano solo il 14% della popolazione migrante mondiale. Rabat ospita da tempo l’Osservatorio africano sulle migrazioni dell’Unione africana. A livello internazionale, il Marocco ha svolto un ruolo di primo piano a livello delle Nazioni Unite nella preparazione e organizzazione della conferenza internazionale sulle migrazioni, che nel dicembre 2018 ha adottato il Patto di Marrakech per una migrazione sicura, ordinata e protetta, che ad oggi costituisce l’unico quadro internazionale per la governance delle migrazioni. Molti definiscono il Marocco il guardiano dell’Europa, a causa della lotta all’emigrazione irregolare verso la Spagna. Ma secondo lei le politiche europee che in questi anni si sono concentrate soprattutto sul respingimento dei migranti a sud del Mediterraneo sono giuste? L’Europa è vista come una sorta di fortezza assediata e la prima destinazione di tutte le dinamiche migratorie. Il che è vero solo in parte. Il discorso dei leader europei e delle politiche pubbliche a livello nazionale ed europeo è quindi incentrato sul controllo delle frontiere esterne nei confronti dei migranti del sud. Questa politica è costosa in termini di vite umane, finanziariamente e in termini di principi democratici su cui si basa l’Europa. È anche inefficace e miope, perché non affronta assolutamente i problemi di fondo. Suscita paure e xenofobia. L’Europa sembra dimenticare in questo senso di essere stata il centro più importante delle migrazioni umane dalle scoperte fino alla fine della seconda guerra mondiale. Possibile che non ci siano altre alternative alla gestione del fenomeno? Naturalmente ci sono alternative. Le migrazioni umane sono in via di sviluppo, ma sono ancora molto minoritarie (circa il 3% della popolazione mondiale). Sono di tutti i tipi e hanno ragioni diverse: migrazioni per studio, per ragioni economiche, per crisi politiche e guerre, per turismo, ecc. La storia dell’umanità mostra che i movimenti di popolazione possono inizialmente creare problemi (il cinema americano ha mostrato questo una dozzina di volte) ma sono sempre poi positivi a lungo termine. Il ruolo svolto dalle rimesse dei migranti è essenziale, ad esempio, in molti paesi. Quello che dobbiamo fare è lavorare per una governance internazionale condivisa, basata sul rispetto dei diritti umani e su una visione strategica comune dei reciproci interessi. C’è chi parla di violazione dei diritti umani, dopo quanto accaduto nelle enclavi spagnole. Come risponde a queste accuse? Ci sono stati morti e decine di feriti tra migranti e forze dell’ordine, alcuni dei quali in gravi condizioni. È del tutto normale che i migranti, le loro famiglie e l’opinione pubblica marocchina e internazionale siano preoccupati e indignati e richiedano trasparenza. Sono favorevole a un’indagine e la cosa migliore sarebbe che la giustizia marocchina se ne occupasse. Un cittadino europeo può recarsi in Africa senza avere garanzie o un consistente conto in banca, per un giovane africano, invece, è difficile o addirittura impossibile poter viaggiare in Europa senza garanzie economiche. Cosa possono fare i leader africani per consentire ai propri cittadini di viaggiare legalmente e con meno ostacoli? L’umanità oggi è infatti divisa in due: una minoranza circola liberamente sul pianeta e l’altra, la maggioranza, è agli arresti domiciliari. I cittadini del sud non possono accedere all’Europa anche se hanno tutti i mezzi finanziari e vogliono visitare le loro famiglie o fare un giro turistico. Questa situazione è in primo luogo di competenza dei leader dei paesi del Nord. I leader africani hanno ovviamente il dovere di gestire il movimento degli africani nel continente e di offrire ai propri cittadini una vita dignitosa, ma questo non esonera i Paesi del Nord dalle loro responsabilità Palestina. Storia di Banat, aggredito in casa e ucciso dai servizi segreti di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2022 Il 24 giugno 2021 le autorità palestinesi mostrarono tutto il loro disprezzo nei confronti del dissenso interno. Non fu né sarebbe stata la prima volta. Quella notte, nella zona di Hebron, un’unità congiunta del dipartimento della Sicurezza preventiva e dei servizi segreti fece irruzione nell’abitazione del noto attivista Nizar Banat, conosciuto per le sue critiche nei confronti del presidente Abu Mazen, dopo aver fatto esplodere la porta di casa. I militari presero Banat a manganellate in testa, gli spruzzarono in faccia spray al peperoncino, lo spogliarono fino a farlo rimanere in mutande e lo trascinarono via a bordo di un veicolo militare. Morì un’ora dopo l’aggressione, mentre veniva trasportato di corsa in ospedale. Le indagini hanno prodotto il rinvio a giudizio di 14 funzionari di basso rango in corte marziale, in violazione delle norme internazionali che richiedono processi civili in caso di violazione dei diritti umani di un civile, anche se sono implicati dei militari. Il processo è iniziato lo scorso settembre. Il 1° novembre l’avvocato degli imputati ha accusato uno dei testimoni, Hussein Banat, parente della vittima, di aver dichiarato il falso. Nei mesi successivi l’avvocato della famiglia Banat, Ghandi al-Rabi, ha denunciato ripetuti rinvii e un clima d’intimidazione. Il 18 maggio ha annunciato il ritiro dal processo in quanto la famiglia non crede più nella giustizia. Il 21 giugno gli imputati sono stati rilasciati per un periodo di “vacanza”, con la garanzia dei loro superiori che sarebbero tornati in cella dopo due settimane. Mentre scrivo, non so se questa garanzia sia stata rispettata. Una farsa dunque. Nessun funzionario di alto grado è stato sfiorato dalle indagini. Chi diede l’ordine di arrestare Banat, di farlo senza mandato e sulla base di quale ragione? A un anno di distanza queste domande restano senza risposta. La Commissione indipendente per i diritti umani, che è realmente indipendente, dal 1° gennaio al 31 maggio 2022 ha ricevuto 55 denunce di tortura ad opera dei servizi palestinesi che rispondono alle autorità di Ramallah. Altre 60 denunce sono arrivate da Gaza. *Portavoce di Amnesty International Italia