Carceri: il tempo di fare e quello di informare di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2022 “La complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”: sono parole di Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, che ha messo il tema della qualità del tempo della carcerazione al centro della sua relazione al Parlamento per il 2022. E il tempo in effetti è il nodo centrale di tutto quello che in carcere non funziona proprio, ed è quindi il tempo che dovrebbe essere il cuore di un cambiamento radicale delle condizioni della detenzione. Il tempo in carcere e la pandemia Il tempo in carcere è spesso tempo vuoto, inutile, buttato, “ammazzato”, e lo è stato ancora di più durante la pandemia. Le persone detenute, ma anche il Volontariato e tutto il Terzo Settore, hanno vissuto la pandemia in carcere subendo ripetute chiusure e un “congelamento” di gran parte delle attività. Ma oggi, mentre fuori la vita è tornata a una “quasi normalità”, in galera qualcosa è cambiato? “Avevo ipotizzato e auspicato” ha detto il Garante “un ritorno alla normalità caratterizzato dalla riapertura di quei luoghi verso la ripresa di connessione con il mondo esterno. In realtà, tale connessione non si è ripresa: (…) ha prevalso e tuttora prevale un’idea riduttiva del rapporto con la realtà esterna”. Quello che chiediamo allora è che il programma dei grandi cambiamenti necessari per le carceri parta da qui, dalla constatazione che il tempo del Covid è stato tempo di interruzione di relazioni e di rottura del vitale rapporto con il mondo esterno, e questa doppia sofferenza va compensata con una liberazione anticipata significativa: doppia sofferenza, doppio valore di un giorno di galera. E così si raddrizzerebbero anche tutte le storture citate dal Garante, a partire dalla presenza nelle carceri di persone con pene inferiori a un anno, a due anni, a tre anni, che potrebbero più proficuamente scontare quella pena in una misura di comunità. E si potrebbe partire da numeri meno pesanti per dare un impulso vero ai percorsi rieducativi, gli unici che la nostra Costituzione mette al centro delle pene. Il tempo della rieducazione Il Garante ha parlato anche di come “stabilire quale sia il tempo necessario perché la finalità rieducativa di una pena possa realizzarsi”: noi diciamo che, per ridurre i danni prodotti dal carcere, quel tempo deve essere davvero limitato il più possibile e riempito di contenuti. E questo vuol dire rilanciare con forza la rieducazione: quindi progetti che durino negli anni e non “progetti spot”, perché il valore aggiunto è sempre la continuità; ampliamento degli orari delle attività, perché non è possibile che alle tre del pomeriggio le carceri “muoiano” e non è possibile che un detenuto che vuole lavorare e studiare non lo possa fare perché gli orari coincidono sempre; più personale educativo, perché non si può pensare di promuovere l’accesso alle misure di comunità se non si potenziano le aree educative, ma non bastano più educatori, va curata la formazione del personale, perché sono anni che nelle carceri non si fa formazione mettendo a confronto sguardi e competenze diverse. L’altra faccia del tempo della pena è fatta dall’attesa Non si vive affatto bene aspettando “appesi” alla decisione di un magistrato di Sorveglianza, che ha un ruolo terribilmente importante, quello, per dirla brutalmente, di decidere di farti assaggiare un po’ di libertà, magari dopo anni, decenni di galera, o di non ritenerti ancora pronto al ritorno alla vita vera. I magistrati sono un po’ come i medici: hanno la tua vita tra le mani e sarebbe importante che qualche volta si mettessero nei panni del “paziente” e provassero a immaginare, per esempio, come ci si sente ad aspettare che qualcuno decida del tuo destino. Proprio con lo scopo di responsabilizzare la Pubblica Amministrazione in merito al suo operato, e per tutelare i diritti dei cittadini, nel 1990 è stato introdotto il “silenzio assenso”. Ecco, anche nell’ambito della Giustizia dovrebbe valere l’urgenza di avere risposte, perché i cittadini-detenuti sono ancora più dei cittadini liberi in balia dell’attesa, e lo sono le loro famiglie, i loro figli che vorrebbero riavere indietro un genitore. Attese snervanti che rendono la carcerazione un logorante percorso a ostacoli. E se qualche ostacolo venisse finalmente rimosso, stabilendo per legge dei tempi più certi, e una specie di silenzio-assenso se non vengono rispettati? Il tempo di fare e quello di informare Noi siamo impegnati a fare le cose, non possiamo inseguire ogni notizia falsa o incompleta che circola sui temi della Giustizia: è questa un po’ la modalità di lavoro del Ministero della Giustizia, da quando ne è a capo Marta Cartabia. Capisco il fastidio di dover dedicare tempo ed energie a confutare notizie imprecise, parziali, se non del tutto false, ma credo che i tanti, che hanno sostenuto questa ministra e il suo modo competente ed equilibrato di affrontare i temi della Giustizia, e fra questi ci metto migliaia di persone detenute, abbiano bisogno di sentirsi dire ogni giorno che cosa si sta facendo per loro e di vedere “smontate” le tante notizie spazzatura che circolano in proposito. Realtà come Ristretti Orizzonti, che hanno maturato una competenza enorme sui temi della comunicazione nell’ambito della Giustizia, continuano a insistere ossessivamente che la cattiva informazione sulle pene e sul carcere condiziona in modo intollerabile l’opinione pubblica, e condiziona di conseguenza la politica, e va combattuta giorno per giorno. Ma si può, per esempio, non reagire di fronte al titolo ipocrita scelto da un quotidiano per definire le riforme che la ministra sta mettendo in campo “Adesso Cartabia vuole scarcerare un carcerato su tre”? Sottilmente ipocrita perché fa pensare che la ministra voglia buttar fuori dalle carceri feroci criminali, e non piuttosto persone che probabilmente in carcere non ci dovrebbero neppure stare, che magari hanno problemi enormi di tossicodipendenza, che hanno da scontare pene o residui pena bassissimi, per reati che in paesi come la Germania, per fare un esempio, sarebbero probabilmente sanzionati solo con pene pecuniarie. Ma il nostro è il paese del “In galera, in galera!”, e questo è uno slogan idiota che va continuamente, pervicacemente smontato, spiegando alla società sempre più spaventata che tanta galera rovina gli esseri umani e non rafforza affatto la nostra sicurezza. Il tempo degli affetti Verrà mai un tempo in cui questo Paese smetterà di ridicolizzare l’amore, gli affetti, il diritto a una relazione affettiva e sessuale di quegli esseri umani che sono anche le persone detenute? Che smetterà di creare definizioni squallide come “celle a luci rosse” o inventare scoop fasulli su milioni di euro stanziati per le “casette dell’amore”? o terrorizzare con quella immagine ridicola dei detenuti in regime di 41 bis che direttamente dalle casette dell’amore, attraverso le loro mogli, potrebbero dirigere le più feroci organizzazioni criminali? La realtà è che di amore ce n’è gran poco nelle carceri, e quel poco, paradosso dei paradossi, lo ha portato il Covid: una telefonata ogni giorno, invece che una a settimana, una videochiamata più o meno ogni settimana, la meraviglia di vedere sullo schermo dello smartphone (la sicurezza è sempre garantita dal controllo della Polizia Penitenziaria), a volte dopo anni di lontananza, le stanze della propria vita passata insieme ai volti dei propri cari: tutto questo DEVE RESTARE, è la base necessaria per ricostruire le relazioni distrutte dalla galera, per prevenire i suicidi, per tornare tutti a essere più umani. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Carcere, sempre carcere, disgraziatamente carcere di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 4 luglio 2022 Ricerca di una soluzione positiva alla ingiusta detenzione di coloro che sono carcerati con pene inferiore ai due anni, privi di risorse sociali, familiari, personali. Carcere, sempre carcere, disgraziatamente carcere! È ciò che si vede scorrendo i vari articoli che appaiono generalmente sugli stessi giornali, sul tema relativo al carcere e al suo viverci all’interno. Pare proprio che i problemi che la società esterna non sa affrontare e risolvere, vengano negati o rimossi, rimandandoli al forte alleato di sempre, contenitore di eccellenza: il carcere. Occorre dire che Il carcere esplode anche per una sua particolare utenza, quella dei detenuti con poca pena da espiare, corrispondente a persone che hanno grosse difficoltà a trovare un luogo dove eseguire le misure alternative, in quanto non desiderate dai familiari, o privi degli stessi o invisi da connazionali in caso di stranieri. Sul fronte di questa utenza è difficilmente immaginare quanto sia doloroso, avere un fine pena breve e rimanere in carcere solo perché privo di risorse personali necessarie per avere quei benefici, concessi ad altri, magari con meno merito ma con il merito di essere più fortunati economicamente in quanto provvisti di mezzi. La povertà è una colpa che paga, non un mezzo per ottenere aiuto, nonostante il fatto che le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva del reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16-20% contro il 66-70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero motivare la realizzazione di opportunità di accoglienza atte a favorire la concessione di misure alternative. Di fatto non si è mai giunti ad una onorevole giuridica soluzione in particolari dei condannati con pene inferiori ai 2 anni, quando la soluzione è a portata di mano, vista come parte del sistema e non come una cosa che accadde improvvisamente; se venisse attuato appieno il mandato dell’ordinamento penitenziario le piccole pene dal carcere non dovrebbero esserci, ed il rappresentare la detenzione degli ultimi 2 anni come normale fatalità legata a un processo naturale delle cose che vanno a finire, provoca l’immobilità del non fare perché è considerata naturale, anche se, invece, frutto del non fare, del non vedere e del non si può fare. Chiediamo ai detenuti e alla Polizia Penitenziaria se il problema del sovraffollamento, del disagio e della violenza in carcere è un fatto ciclico o è una costante, o quanto i suicidi tra detenuti con una maggioranza costituita da detenuti poveri, sono generalmente provocati dall’abbandono, in quanto dimenticati da tutti, giuridico compreso! Se potessimo dare un volto al detenuto escluso dai benefici della legge Penitenziaria e che rimane in carcere fino alla fine della condanna, quali i reclusi sotto i 2 anni di pena, si possono raggruppare in tre categorie: i detenuti stranieri, gli homeless (senza tetto), i malati mentali; in poche parole gli abandoned man di cui la società conosce la loro esistenza ma non attua alcun corridoi di aiuto valido per far cessare la condizione che portano inesorabilmente alla detenzione, occupando posti letto in carcere allo stesso modo di chi è accusato o condannato per grossi reati. Questo vuol dire che non avendo attuato prima, vie di accoglienza esterne al carcere valide, definite e costanti, queste mancano anche dopo, per la scarcerazione. Quello che occorrerebbe invece e subito, è un impegno continuo e costante tra diverse strutture che operino in rete, dove Ente locale e privato sociale possono offrire forme di accoglienza temporanee al fine di favorire il reinserimento del detenuto povero. Se oggi si pone la questione della detenzione, inferiore ai 2 anni, come drammatica e inverosimile inaccettabile, preciso che faccio leva su due possibilità: quella naturale, voluta dalla legge con la concessione delle misure alternative, garantendo posti letto all’esterno, con apertura di luoghi di accoglienza idonei al reinserimento di queste persone, senza divenire strumenti vicariali del carcere; sulla liberazione anticipata e non su altre misure come la liberazione condizionale, perché la liberazione anticipata rende partecipe il soggetto, come vuole la legge 354/75, attuando il buon comportamento, svolgendo le mansioni date, mantenendo un buon rapporto coi compagni di cella e col personale di polizia penitenziaria. Gestire in carcere detenuti per piccole pene, non è come può sembrare ai non addetti, un compito facile, anche perché, per i motivi prima descritti, spesso si lega a sindrome depressive dovute all’abbandono, come quelle che si riscontrano successive all’arresto, che possono portare dal lesionismo al suicidio, a violenze verso gli agenti di custodia, impropriamente ritenuti responsabili della sua ingiusta detenzione. Occorrono soluzioni, come già affermato, continue e ripetitive nella loro esperienza positiva, senza dare avvio a strutture a sé che facciano ricordare i vecchi mausolei di potere assistenziali del tempo passato; soluzione con una diversa applicazione della liberazione anticipata, proposta ed in parte attuata nel 2016 anche su una mia proposta, che ripropongo ora. Solo in questo modo si libera il carcere da soggetti con scarso gradiente di pericolosità, offrendo dei servizi, che se ben organizzati, contribuiscono ad evitare la recidiva ed il conseguente ritorno in carcere. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza Mario Serpa: morte di un ergastolano perbene di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2022 Ieri mi è arrivata la triste notizia che nel cimitero degli elefanti del carcere di Parma, dove vanno a morire molti ergastolani stanchi e malati, è mancato Mario Serpa, dopo 40 anni di carcere. In galera nascono le amicizie più vere e fra gli ergastolani quelle più profonde. Mario era un mio amico, un brav’uomo, perché si può commettere gravi reati ed essere una bella persona, ma non sempre purtroppo è vero il contrario. Non sempre chi non commette reati è una brava persona e non lo sono certo quelle persone delle istituzioni che hanno lasciato morire Mario chiuso in una cella, soprattutto perché lui da tempo non era più l’uomo del reato. Certo la legge e le istituzioni non possono avere cuore, ma credo che coloro che li rappresentano lo dovrebbero avere, ma capisco anche che spesso queste persone non lo possono avere perché la società spesso chiede giustizia, ma in realtà vuole solo becera vendetta, anche quando non è più necessaria. Per questo sono convinto che prima di pensare ad educare i detenuti bisognerebbe pensare ad educare la società al perdono sociale, perché una pena che fa male poi fa male soprattutto alla società. Chi era Mario? Un figlio del sud che lavorava la terra. Ancora giovanissimo, gli uccisero il padre per una vendetta trasversale, nel 1979. Nelle carte processuali era scritto che si era fatto giustizia da solo. Qualche persona “perbene” potrebbe pensare che “se l’è cercata”, perché ci ha messo del suo a diventare colpevole. Probabilmente è vero, ma Mario da anni non era più la persona del reato, quindi perché farlo morire in carcere? Si era sposato giovane e aveva avuto tre figli, di cui due nati con gravi disabilità. La moglie era morta di cancro durante i primi anni di carcere. Ho conosciuto Mario negli anni 90, nel carcere di Nuoro. Quando lo conobbi ebbi subito una buona impressione. Mi sembrò subito uno che nella vita ne aveva viste tante. I nostri occhi si capirono senza parlarsi. E diventammo subito amici. Mi accorsi presto che sorrideva poco e che la tristezza lo accompagnava come un’ombra. La sua unica ragione di vita erano i suoi figli e soffriva di non poter accudire almeno quelli disabili. Viveva distaccato ed estraniato da tutti gli altri prigionieri, nel suo mondo di solitudine e ombre e pensava spesso alla morte della moglie A volte ci facevamo coraggio a vicenda e ci dicevamo: “La lotta per la libertà è una strada lunga. Fatta di sacrificio. Dolore. Fallimento. Spesso per gli ergastolani una via senza nessuna uscita. Ma pur sempre una via che vale la pena di percorrere.” Grazie ai miei studi giuridici, gli feci io la prima istanza per superare l’ergastolo ostativo: mentre a me l’avevano rifiutata, a lui l’avevano accolta e ne fui tanto felice. Lo rincontrai anni dopo nel carcere di Padova: lo avevano chiuso dalla semilibertà, poi ho saputo che era stato assolto a formula piena, ma ciò nonostante non lo hanno fatto più uscire. Qualche lettore si potrà indispettire per il titolo di questa mia testimonianza, “morte di un ergastolano perbene”, perché molti pensano che non ce ne possano essere, ma io ne ho incontrati molti, anche di più di coloro che rispettano la legge o che vanno in giro con il rosario. Ciao Mario: in un modo o nell’altro ce l’hai fatta ad uscire, anche se meritavi molto di meglio. I corsi di informatica che aiutano i detenuti a darsi una seconda chance di Alberto Ferrigolo agi.it, 4 luglio 2022 Sono quelli gestititi da Cisco nel carcere di Bollate, estese ad altri penitenziari come quelli di Monza, Torino, Regina Coeli, Secondigliano, e presso l’IPM Beccaria. Second chance. C’è una seconda possibilità per tutti nella vita. E agli errori commessi si può riparare, ci si può redimere. È la filosofia alla quale da oltre vent’anni di ispirano le Cisco Networking Academy, ovvero i corsi di specializzazione informatica del leader tecnologico mondiale che è poi il motore di Internet. Corsi che, solamente in Italia, formano al linguaggio informatico e alla sua tecnologia 60 mila persone di ogni età, ma che dall’anno 2000 rappresentano anche una realtà virtuosa e piuttosto consolidata all’interno di un circuito di reclusione come è il carcere di Bollate, in provincia di Milano. Dove il primo luglio, venerdì, è stato proiettato nella sala cinema dell’istituto penitenziario il documentario dal titolo “Second change”, presenti la ministra della Giustizia Marta Cartabia, l’Amministratore Delegato di Cisco Italia Gianmatteo Manghi, la narratrice Cristiana Capotondi e Erika Brenna, ideatrice e regista del documentario oltre anche alcuni detenuti della stessa struttura penitenziaria. La pellicola tratta storie forti, suggestive, diverse fra loro e malgrado ciò legate da un unico filo conduttore: per tutti esiste una seconda change, appunto, data dalla possibilità di mettersi alla prova e riscattarsi da esperienze di emarginazione e di esclusione. “Second change” tratta quattro storie, due delle quali direttamente ispirate e parte della realtà carceraria di Bollate in cui da una parte ci sono Luca e Giulia, che stanno scontando la loro pena, e dall’altra c’è invece Renato, finito a dormire su una panchina a Trastevere, e Nour e Hasan, coppia di giovani borghesi di Damasco che sono fuggiti dall’orrore della guerra con un bimbo di nove mesi fra le braccia. Storie di “rinascita” e nuove opportunita? che si sono improvvisamente aperte. Mentre invece il personaggio chiave - come si evince anche dallo stesso documentario - e? Lorenzo Lento, uno specialista informatico con la certificazione di docente presso i corsi Cisco, che fin dall’inizio ha scelto di dedicare la sua vita al volontariato nelle strutture penitenziarie. Ma qual è il vero significato di questa iniziativa? Lo sottolinea lo stesso colosso multinazionale dell’informatica che in un comunicato spiega che dopo il primo “esperimento” di Bollate - primo in tutto il mondo - “le Cisco Academy sono state estese nel 2016 anche ad altri penitenziari” come quelli di Monza, Torino, Regina Coeli, Secondigliano, e presso l’IPM Beccaria, tant’è che nell’anno che è ancora in corso, il 2022, “ne saranno aperte altre presso le carceri di Novara, Padova, Rebibbia (maschile e femminile)”. Nel frattempo, sempre a Bollate, e? stata inaugurata nel 2019 la prima Cisco Academy al mondo in una struttura penitenziaria femminile. Cisco racconta anche che attualmente “sono circa 200 i detenuti che frequentano i nostri corsi” di alta specializzazione informatica e di questi 200, ben 60 fra uomini e donne, appartengono al penitenziario di Bollate. Il risultato, pertanto - tira le somme Cisco - è che in oltre 20 anni “sono stati formati oltre 1000 detenuti”, molti dei quali “hanno conseguito le certificazioni Cisco e lavorano attualmente nel settore ICT”. Ma va sottolineato soprattutto un dato fondamentale, precisa il colosso dell’informatica: “Il tasso di recidiva di quei detenuti che hanno terminato almeno i corsi base e? pari a zero”, ciò che “significa che dopo aver saldato il proprio debito con la giustizia, avendo ormai in mano una professionalità concreta da offrire al mercato del lavoro, queste persone non sono più rientrate in carcere”. A dimostrazione che una seconda change è sempre possibile. Quanto al suo programma di formazione, Cisco sottolinea anche che la sua iniziativa lanciata a livello mondiale nel 1997 è attiva in Italia dal 1999 e attualmente sono 340 le Networking Academy che offrono percorsi formativi di base nel nostro Paese su tecnologie di diverso ordine e grado come IoT, la cybersecurity e le reti di percorsi “career ready” ce danno la possibilità di ottenere certificazioni subito spendibili nel mondo del lavoro. Nel fornire un quadro delle frequenze, la società racconta che le Cisco Networking hanno finora interessato 340 mila studenti con 57.710 iscritti ai vari tipi di corso nell’ultimo anno con un incremento pari al 23% per i corsi di cybersecurity. E con un sempre maggiore impegno a promuovere la presenza femminile nel mondo dell’ICT: attualmente le donne sono il 23% del totale degli studenti, percentuale che sale al 29, invece, tra gli istruttori che seguono gli studenti. Armando Punzo: “Il carcere è un luogo tra i più terribili. Continuo a indagarlo con il teatro” di Andrea Porcheddu L’Espresso, 4 luglio 2022 Negli anni Ottanta ha dato vita alla più incredibile esperienza del teatro italiano: la Compagnia della Fortezza. Ora, mentre il carcere di Volterra accoglie il teatro stabile, il fondatore vara un nuovo spettacolo. Me le ricordo bene le prime volte in cui si entrava nel carcere di massima sicurezza di Volterra. I documenti, i controlli, le sbarre, i metal detector, le lunghe attese allo spaccio bar o nei corridoi. Ci voleva tempo per arrivare nel cortile della rocca medicea del piccolo centro toscano. Eravamo emozionati e spaventati, noi spettatori chiamati ad assistere agli spettacoli della Compagnia della Fortezza, fondata e guidata da Armando Punzo. Dagli anni Ottanta - il 1988 è l’anno di fondazione del gruppo di teatro composto da detenuti attori - le mura spesse del carcere erano testimoni di una delle esperienze più incredibili della storia del teatro italiano. E noi spettatori di professione non potevamo non dare conto di tanta emozione: a leggere le cronache di quelle prime aperture, i critici abbondano di un “impressionismo” emotivo difficile da domare. Sappiamo bene cosa sono le carceri italiane: l’impatto era talmente forte che superava ogni lucida analisi critica. Ma il regista ci ha guidati, anno dopo anno, ogni luglio, a lavori sempre più complessi, raffinati, profondi. Creando una poetica tutta sua, intrecciata indissolubilmente alle presenze - ai corpi, alle voci, alle storie - dei detenuti-attori. Ora, mentre il carcere si apre per “Naturae-La valle della permanenza” (questo il titolo dello spettacolo 2022) e per un progetto che coinvolge anche comuni limitrofi, Punzo rivendica la potenza dell’Utopia. Se Michelangelo Pistoletto diceva che “gli artisti realizzano le utopie, altrimenti non sono”, Armando Punzo è l’uomo dell’utopia incarnata. Perché la sua ricerca - personale e collettiva - è davvero un costante richiamo alla meraviglia di un sogno impossibile che diventa reale. “Il desiderio di vedere un mondo e un Uomo che si possano trasformare. Il cambiamento non può essere solo una speranza differita nel tempo, un paradiso da raggiungere. Occorre agire quotidianamente per ottenere dei cambiamenti. E il mio lavoro lo testimonia. Utopia è una parola che ha avuto un declino terribile, ha assunto un’accezione quasi negativa. “Utopista” è un’offesa: indica qualcuno fuori dal mondo, che non ha capito che è meglio essere pragmatici, realisti. Insomma, un inconcludente sognatore. Invece, ho sempre cercato, e in particolare negli ultimi otto anni, di difendere l’Utopia. Ricordo bene cosa era il carcere quando siamo arrivati, quando è arrivato il teatro, quando è arrivata un’altra possibilità per l’essere umano. So come questo luogo è cambiato, quanto ancora si trasforma, quanto le persone si trasformano. E non è un aspetto che tocca solo i detenuti. Di solito, la trasformazione viene veicolata e banalizzata nel concetto di riabilitazione o di rieducazione. No: la prigione è un luogo della realtà tra i più terribili, concretissimo, monolitico, claustrofobico. Ma quando si incontra con un punto di vista diverso, non riesce più a rimanere tale, è obbligato a trasformarsi”. In effetti, la prospettiva di questo viaggio artistico e certamente politico è affascinante. Di solito, si sa, è il contesto a determinare il testo. L’ambiente influenza quanto vi accade - e non potrebbe essere altrimenti. Raccontava Susan Sontag che, quando andò a fare “Aspettando Godot” nella Sarajevo assediata, il testo “assurdo” di Beckett diventava quasi neorealismo: non c’era da mangiare, si dormiva all’aria aperta nel freddo e Godot, come la Nato, non arrivava mai. A Volterra, però, le cose sono andate diversamente. L’azione del teatro ha fatto sì che il “testo” - ossia la pratica scenica - sia riuscito a modificare il contesto. Adesso si sta lavorando per la costruzione di un vero e proprio teatro dentro il carcere: “Sì, un Teatro stabile in carcere”, dice Punzo: “Ne ho parlato la prima volta 22 anni fa. Ora ci stiamo riuscendo, i lavori inizieranno”. Insomma, questo progetto nato sul finire del secolo scorso sta trovando una rinnovata vitalità. Certo non è mutato l’ardore iniziale: la spinta, oscura eppure creativa, di un giovane regista che, dopo esperienze importanti (come con Jerzy Grotowski) arrivava nel carcere per capire, studiare, mettersi alla prova. “Mi sono reso conto che non è stata una scelta occasionale né superficiale. Non volevo fare qualcosa di “strano” per poi tornare nel teatro mainstream. Ho rifiutato tante proposte. Ho cercato invece un lavoro in profondità. E continuo a indagare questo luogo: luogo ordinario, ossia l’edificio, il carcere, con le sue contraddizioni e luogo che è “l’attore”, l’Uomo”. Già, l’essere umano. Quando noi spettatori ci perdevamo nel labirinto costruito per “Orlando Furioso”, quando ci incantavamo per un Pasolini spinto a un paradossale “elogio del disimpegno”, quando risuonavano le parole di Shakespeare, era - ed è - serrato il confronto tra individui chiamati senza reticenze a guardarsi negli occhi nella dimensione della detenzione. Chi sono quei reclusi-attori? Oggi Punzo invita a superare il canone occidentale, a sganciarsi dalla meravigliosa descrizione dell’Umano creata da Cervantes e Shakespeare. Con il Bardo la Compagnia della Fortezza ha fatto i conti: oggi non basta più. “È intoccabile Shakespeare? È vero: il suo racconto dell’Uomo è enorme. Noi siamo anche ciò che lui ha straordinariamente scritto. Ma ne dobbiamo uscire. Dobbiamo fermare la claustrofobica “ruota della vita”. Non sono buddista, ma quel concetto è concretissimo e terribile. Pensare che non potremo mai uscire dalla “ruota della vita” mi angoscia. Eppure, molti artisti, di fatto, ci chiudono comunque nell’eterna ruota della vita. Oggi abbiamo continuamente notizie che confermano quanto siamo orribili come esseri umani e quanto non riusciamo mai ad affrancarci da questa natura terribile. Ma perché dobbiamo continuare a raschiare il guazzabuglio brutto che siamo e che sono, e invece non proviamo a interrogarci su un “poi”? Come ci allontaniamo dal noi stessi di sempre?”. Punzo parla di “liberato in vita” cui aspirare, piuttosto che il “liberato in morte”, salvato o meno da religioni o credenze in un paradiso-altrove. E il concetto di libertà - per chi lavora in un carcere - è ovviamente nodale. La questione, però, non è tanto né solo uscire dalle celle, quanto piuttosto provare ad andare oltre sé stessi. Sembra quasi di sentire Antonin Artaud, il visionario folle, quando parlava di “corpo senza organi”, capace di “danzare alla rovescia”, liberato davvero dalla schiavitù dell’anatomia. Risuona in Armando Punzo: “Bruciare in scena. Morire a sé stessi: dobbiamo imparare a far morire la parte più ordinaria di noi, per liberare la creatività, il sé potenziale straordinario sommerso dalla quotidianità. La “Conferenza degli uccelli” di Farid al-Din Attar è il racconto di un viaggio cui mi piace accostare il nostro. L’upupa invita al volo: ma gli uccelli accampano pretesti per non muoversi. Ecco, noi stessi siamo i pretesti per non cambiare. Dobbiamo provare ad andare verso un oltre, per vivere l’esperienza della meraviglia, per coltivarla poi, dopo il teatro”. Negli ultimi anni, dunque, la Compagnia e Punzo hanno abbracciato questo percorso complesso e difficile. La svolta c’è stata con l’incontro con l’universo di Borges, che ha portato ad uno spettacolo di folgorante bellezza, “Beatitudo”. Ma anche il poeta argentino non è stato sufficiente. Di nuovo punto e a capo. La ricerca non si è fermata. Adesso arriva “Naturae”: “Ci siamo chiesti, senza pietà, se eravamo capaci di fare quel che sognavamo e che avremmo voluto e dovuto fare. Sono in grado, nella mia vita, di allontanarmi da me stesso, di mettermi in crisi, di pormi domande e mandare tutto all’aria? Borges ci ha aiutato, ha indicato personaggi diversi: di “Beatitudo” siamo contenti, la scena è bellissima, con un lago creato nel cortile del carcere. Ma i dubbi non passavano”. Ecco allora le indagini sulle “nature” dell’Essere Umano: nature sommerse, che cercano di uscire e cui noi, con mille scuse, non diamo spazio. “Cercare l’armonia”, dice Punzo, “è faticosissimo. Abbiamo le nostre abitudini, le soluzioni comode, e invece dobbiamo allontanarcene. Sembra, paradossalmente, che stiamo vivendo la migliore esperienza di vita possibile. E non parlo delle guerre, delle catastrofi, delle crisi. È assurdo, no? Invece quel che vorrei è passare da homo sapiens a homo felix”. La cosa strana, sorprendente, è che ci stiano provando in un carcere di massima sicurezza. E magari ci riescono. L’Anm dice no all’Alta Corte: “L’indipedenza delle toghe è a rischio” di Davide Varì Il Dubbio, 4 luglio 2022 Il comitato direttivo centrale approva un documento che boccia la riforma costituzione che prevede l’istituzione di un organismo con funzioni di giudice d’appello per le sentenze disciplinari del Csm (e non solo). Desta “grande preoccupazione” il progetto di riforma costituzionale che prevede l’istituzione di un’Alta corte, organismo con funzioni di giudice d’appello per le sentenze disciplinari del Csm e dei Consigli delle altre magistrature e di giudice dei ricorsi contro ogni altro provvedimento nei confronti dei magistrati. Una riforma che si potrebbe in contrasto con alcuni articoli della Costituzione e avrebbe ricadute negative sul principio di indipendenza della magistratura. È la posizione ribadita dall’Associazione nazionale magistrati in un documento approvato dal comitato direttivo centrale. “Sovra-ordinare al Csm un organo come l’Alta Corte, con composizione a maggioranza non togata, significherebbe sottrarre allo stesso Csm il governo autonomo della magistratura, con inevitabile stravolgimento dell’assetto costituzionale dell’ordine giudiziario - denuncia l’Anm - L’obiettivo dichiarato di restituire credibilità al Csm colpito ultimamente da gravi scandali non sarebbe certamente raggiunto dall’istituzione dell’Alta Corte che al contrario, in quanto giurisdizione speciale, potrebbe alterare gli attuali equilibri costituzionali”. L’Anm, si legge nel documento, “auspica che il Legislatore costituzionale tenga conto di questi rilievi, evitando un intervento di riforma che finirebbe per alterare l’equilibrio voluto dai costituenti e potrebbe compromettere in questo momento la concessione dei fondi del Pnrr, condizionati all’indipendenza della magistratura”. Strage di Viareggio: la giustizia o legge del taglione di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 4 luglio 2022 Che cosa in concreto avrebbe dovuto/potuto fare l’ingegner Moretti tale da evitare il disastro e colpevolmente non ha fatto? Finora nessun giudice lo ha spiegato. Se la condanna appena emessa trovasse conferma - che sarebbe ormai definitiva - l’ingegner Mauro Moretti passerà qualche anno in galera. Per gli smemorati ricordo il tipo. Nominato nel 2006 amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, rifiuta la nomina contemporanea a presidente ritenendo le due cariche incompatibili. Due anni dopo, per la prima volta chiude in attivo un bilancio delle Ferrovie (naturalmente a prezzo di tagli e sacrifici perché altro modo come si capisce non c’era). E infine è lui che porta a conclusione il progetto dell’Alta velocità da Torino a Salerno. Non è né un santo né un eroe, intendiamoci. Ma chiunque lo ha conosciuto, come è capitato a chi scrive, non ha dubbi: è una persona per bene. Ha però la sfortuna di essere alla testa delle ferrovie quando nel giugno 2009 alla stazione di Viareggio si rompe l’asse di un carrello di un vagone cisterna carico di gas liquido, il convoglio deraglia e nell’esplosione che segue 32 persone muoiono e molte altre rimangono ferite gravemente. Il vagone appartiene in realtà a una ditta tedesca, la sua manutenzione non è competenza delle ferrovie italiane ma non importa: automaticamente a Moretti viene affibbiata la “responsabilità oggettiva” del disastro e una pesantissima condanna. Ma che cos’è la “responsabilità oggettiva”? Come si concilia con il dettato costituzionale che la responsabilità penale è personale? Che cosa in concreto avrebbe dovuto/potuto fare l’ingegner Moretti tale da evitare il disastro e colpevolmente non ha fatto? Quale nesso di causalità è individuabile - come la giurisprudenza impone - tra la sua condotta e l’evento? Finora nessun giudice lo ha spiegato in un modo che pur legalmente ineccepibile fosse anche logicamente convincente: forse troppo attento alla rovente richiesta di giustizia che si leva dai parenti delle vittime. Una richiesta sacrosanta ma a una condizione: che sia richiesta di giustizia e non già la richiesta di applicare una barbarica legge del taglione. Magistratura Democratica già nel 1989 denunciò le storture del processo Tortora di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 4 luglio 2022 Questione Giustizia, la rivista di Magistratura Democratica diretta da Nello Rossi, ha appena scelto di pubblicare alcuni interessanti documenti relativi al caso Tortora. Essi ricostruiscono con chiarezza la dura presa di posizione che assunse all’epoca MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi. La ragione di questa scelta editoriale, per molti versi sorprendente, è chiarissima, ed è d’altronde rivendicata nell’editoriale di questo importante numero della rivista. Si intende orgogliosamente rivendicare una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. La magistratura italiana, si vuole dire insomma, non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale. La provocazione è coraggiosa e feconda, e merita attenzione e rispetto. Intanto, vediamo i fatti che essa documenta. Siamo nel marzo del 1989. All’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora, Giovanni Palombarini e Franco Ippolito, rispettivamente Presidente e Segretario di MD, nonché Sandro Pennasilico, segretario della sezione napoletana di MD, convocano una clamorosa conferenza stampa a Napoli, per denunciare le inammissibili “storture” di quel processo, l’inconcepibile gestione dei pentiti, il rapporto ancillare dell’ufficio istruzione rispetto alla Procura, la gestione della informazione giudiziaria. Tra l’altro, la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani, in ordine alla quale ben 400 avvocati del Foro hanno chiesto la rimozione del Procuratore capo Vessia. MD chiede con forza che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati resisi responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana” (così testualmente Palombarini). Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM (in quota magistratura Indipendente). Sarà tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa (anzi, premierà quei magistrati, aggiungo io). MD, che guidava l’ANM insieme ad Unicost, si dimette e determina la crisi della Giunta. Lo scontro è durissimo, MD denuncia che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”. E molto altro, che suggerisco davvero di andare a leggere con attenzione. Se questa iniziativa di “Questione Giustizia” e del suo direttore vuole rivendicare una nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, con noi penalisti sfonda una porta aperta. Da sempre diciamo: stiamo attenti a non replicare il tragico errore qualunquista e populista fatto con la politica (per enorme responsabilità proprio della magistratura, però, caro Direttore Rossi!), con la distruzione dei partiti ridotti ad icona di ogni nequizia. Il problema non sono “le correnti”, ma la loro degenerazione in meri luoghi di amministrazione del potere (giudiziario). Comprendo l’orgoglio per quella rivendicazione, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico. Il potere ipertrofico ed incontrollato delle Procure ed il suo micidiale connubio con i media ha la responsabilità storica di avere spostato l’oggetto del giudizio sociale sui fatti penali dalla sentenza alla incriminazione. Possiamo davvero dire che almeno una parte della magistratura italiana sia stata attraversata da una riflessione critica e autocritica su questi temi cruciali? O quella bella pagina “napoletana” è solo un lontano e sbiadito ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia? Parliamone, con lealtà e chiarezza: noi siamo pronti a farlo. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Campania. Niente fondi, a rischio 41 comunità per minorenni di Viviana Lanza Il Riformista, 4 luglio 2022 La macchina dell’accoglienza e del recupero dei minori a rischio è un fallimento. La notizia che da otto mesi il Centro di giustizia minorile non paga le 41 comunità campane che ospitano i ragazzi dell’area penale, quelli cosiddetti a rischio, quelli che hanno commesso reati, quelli tolti ai genitori per motivi familiari, è la cronaca di un vero e proprio fallimento. Lo dice a muso duro il garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. “Siamo di fronte alla certificazione di un fallimento di una istituzione che si occupa di carcere. Possibile che non vengano pagate 41 comunità che si occupano di centoventicinque ragazzi? Abbiamo diciassette carceri, quanto costano?”. I motivi del ritardo nei pagamenti sono vari. “In due parole - sintetizza Ciambriello - precarietà e sfruttamento”. Sono questi i termini che si abbinano alla realtà che si pone come alternativa al carcere. E pensare che si spendono duecento euro e più per ogni detenuto in cella. I soldi per i ragazzi a rischio messi in comunità con l’obiettivo di far vivere loro affettività e modelli di rieducazione, formazione e studio, quelli invece non vengono erogati con il giusto tempismo e con l’attenzione e la stabilità che simili progetti dovrebbero avere. E poi, unicum della Campania, c’è il tetto di tre ragazzi dell’area penale in ogni comunità, il che comporta promiscuità con ragazzi che provengono da altri contesti e avrebbero bisogno di percorsi formativi diversi. “Il problema è che si fanno battaglie ideologiche a tavolino fra chi non ha mai visto un carcere, non ha mai avuto contatti con questi ragazzi - racconta Ciambriello. Sono ragazzi a metà, con la morte nel cuore, alcuni hanno dipendenza da psicofarmaci o cocaina, bisogna che le comunità siano messe in condizione di offrire percorsi differenziati, una doppia diagnosi. Il dipartimento e la Regione dovrebbero organizzare meglio il sistema, fare in modo che la convivenza tra ragazzi con esigenze e storie diverse segua percorsi diversi”. Torniamo allo scandalo dei fondi. Ciambriello spiega che solo il Comune di Salerno paga per i suoi ragazzi amministrativi in tempo utile, gli altri Comuni della Campania non pagano. Tra questi c’è il Comune di Napoli. pagare una comunità dopo tre o quattro anni significa mandarla in affanno, spingerla alla chiusura. Come la sorte annunciata dalle 41 comunità che nei giorni scorsi hanno scritto alla ministra Marta Cartabia per accendere un faro sulla loro difficile situazione. E poi si parla di patti educativi, di misure alternative. Ancora troppe parole e pochi fatti. Calabria. Tra pm e avvocati è scontro, i magistrati replicano allo sciopero: “Populisti” lanuovacalabria.it, 4 luglio 2022 “La comunanza delle due esperienze professionali di avvocato e magistrato, diverse ma speculari, ci induce a rifuggire dal rispondere con pari violenza dall’attacco delegittimante lanciato dalle Camere Penali alla magistratura calabrese. Un intervento che addolora chi crede nelle istituzioni”. A sostenerlo il coordinamento di Area Democratica per la giustizia di Catanzaro, rappresentato da Graziella Viscomi e Gabriella Reillo in riferimento alla nota delle Camere penali calabresi con la quale proclamano sciopero dalle udienze del 14 e 15 luglio: “Al contrario con forza e determinazione si vuole ricordare con quanta fatica e scarsità di mezzi si opera nei Distretti Calabresi. Le costanti e gravi scoperture di organico, l’assenza di personale, le carenze dell’edilizia giudiziaria sono il precipitato di almeno un ventennio di riforme a “costo zero” che, qui al Sud, hanno aggravato una situazione organizzativa già sottodimensionata e precaria. Allontanare i cittadini dalla cultura della giurisdizione e dal rispetto per chi la esercita - proseguono oggi da Area Democratica - additando la magistratura della regione quale responsabile delle disfunzioni del sistema giustizia e facendo di tutte le erbe un fascio, generalizzando problematiche locali, costituisce un messaggio semplificato la cui portata populista non possiamo sottacere. La giurisdizione penale non è sede di discrezionalità ed arbitrio piuttosto spesso ultimo strumento per il cittadino per far valere i propri diritti, denunciando situazioni di abuso e violenza. Gli operatori del diritto della regione, quali gli avvocati e i magistrati, piuttosto che “darsi contro”, hanno il dovere morale di impegnarsi affinché questa terra sia dotata di risorse adeguate che consentano ad entrambe le categorie di lavorare con dignità e nel reciproco usuale rispetto. Questa la battaglia di civiltà di cui si deve seriamente e unitariamente discutere”. Firenze. I bavaglini per neonati prodotti dalle detenute del carcere di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 luglio 2022 Dodici detenute di Sollicciano realizzano bavaglini per neonati. È il progetto “Mi do da fare” promosso dalla cooperativa Convoi in collaborazione con il Comune di Sesto Fiorentino e la Fondazione Cr Firenze. I bavaglini vengono confezionati dalle detenute della sezione femminile del carcere di Firenze, nell’ambito di un laboratorio sartoriale per il reinserimento lavorativo che ormai va avanti da due anni. I bavaglini, una volta realizzati, usciranno dal carcere per essere venduti nelle farmacie del Comune di Scandicci (ma l’obiettivo del progetto è allargarsi anche a Firenze ed altre città). Inizialmente saranno realizzati circa 300 bavaglini, che saranno indossati dai nuovi nati del territorio. Un modo per avvicinare il carcere alla città, e permettere alle detenute di svolgere attività socialmente utili in un penitenziario dove sono ancora una minima parte i reclusi che lavorano. Nel corso del progetto due detenute potranno andare a lavorare, regolarmente retribuite, nel grande laboratorio della cooperativa Convoi. “Si tratta di un progetto di grande rilievo sociale e solidale che coinvolge il nostro Comune - hanno sottolineato le assessore di Sesto Fiorentino Camilla Sanquerin e Sara Martini - e che ci rende particolarmente orgogliose. Attraverso il lavoro, un lavoro giusto e sostenibile, contrastiamo la marginalità che troppe volte ostacola il reinserimento di chi vive l’esperienza del carcere e offriamo un prodotto per l’infanzia di qualità che racchiude in sé valori e storie”. Oltre ai bavaglini per neonati saranno realizzati anche grembiuli da giardinaggio. “Abbiamo scelto queste lavorazioni - ha detto Maurizio Rossi, presidente della cooperativa Convoi - perché molto semplici in termini di abilità, e quindi realizzabili anche dal laboratorio e le detenute, sotto la supervisione della cooperativa. Racconteranno la “propria storia” nell’etichetta e rilanceranno l’importanza per ciascun cittadino di darsi da fare per ricostruire e costruire nuove vicinanze”. Alessandria. La nuova opera pittorica dei detenuti diventa anche una fiaba per i bambini di Tatiana Gagliano radiogold.it, 4 luglio 2022 È stata pensata e realizzata per i figli dei detenuti del carcere di San Michele la grande opera pittorica che da giugno colora la zona all’aperto riservata ai colloqui con i famigliari. Il “Fantabruco” è una grande installazione lunga quasi otto metri e alta un metro e ottanta creata nel Laboratorio Artiviamoci del carcere di San Michele. Per sette mesi cinque detenuti hanno dipinto le tavole sagomate insieme al Maestro di pittura, Pietro Sacchi. Nel “Fantabruco” colori e le forme si sono aggrovigliati e hanno creato paesaggi che i detenuti hanno popolato di personaggi. Ognuno ha un nome e racconta un pezzo della storia di “Sissi”, la protagonista della fiaba, creata anche questa dai detenuti del Laboratorio Artiviamoci, per far volare libera la fantasia dei bambini che entrano nel carcere per andare a trovare un famigliare. “Abbiamo scritto la favola - ha spiegato il Maestro di pittura Pietro Sacchi - per invogliare i bambini a soffermarsi su tutti i dettagli dell’opera e ricercare nel dipinto i personaggi che incontra Sissi nella sua avventura per esaudire il suo desiderio più grande: avere un abbraccio che non si allenta, una coccola che dura per sempre” (per leggere la fiaba cliccate su questo link: www.icsalessandria.it/la-nostra-avventura-a-fantabruco/). Terminato il “Fantabruco” nel laboratorio Artiviamoci si sono già ripresi in mano i pennelli per realizzare una nuova opera per il carcere Don Soria di Alessandria. L’obiettivo di è consegnarla tra febbraio e marzo del prossimo anno. Si chiamerà “Fanfaluch”, ha anticipato Pietro Sacchi: “Il significato, in questo caso, non è però quello di racconta frottole. Per quest’opera ci siamo fatti ispirare dalle fiammelle che si alzano quando si smuove un ceppo rovente. Ci piace quell’immagine di libertà, anche se solo temporanea”. “Carceri. I confini della dignità”, di Patrizio Gonnella recensione di Antonio Salvati mentinfuga.com, 4 luglio 2022 Con l’attenuazione della condizione pandemica, le problematiche del mondo carcerario si sono ripresentate, resesi più gravi dalla dura prova rappresentata dalla emergenza sanitaria. Nel corso della pandemia non sono mancate le violenze subite dai detenuti ad opera di appartenenti alle forze dell’ordine, in relazione alle quali si stanno celebrando processi. Un sistema - quello carcerario - ancora decisamente malato ed incapace di garantire una pena in linea con il dettato costituzionale. La piaga del sovraffollamento, insieme alla inadeguatezza delle strutture, alla carenza di personale di sostegno e di sicurezza, di fatto genera una pena detentiva inumana. In tal modo, la reclusione diviene un inutile e passivo stato di limitazione della libertà che non risolve, anzi aggrava, la socializzazione del reo. Per meglio comprendere le dinamiche carcerarie è utile tornare su un libricino chiaro e snello come quello di Patrizio Gonnella, “Carceri. I confini della dignità” (Jaca Book 2014 pp. 140, € 12,00). Il carcere come pena - spiega Gonnella - impone una riflessione intorno alla sua funzione e alle sue modalità di esecuzione. La pena carceraria “in una società democratica ha dei limiti insuperabili, imposti dall’ordinamento giuridico e dal senso etico. Limiti che sono riconducibili alla protezione della dignità umana intesa nel suo significato kantiano di umanità e di non riducibilità dell’uomo a mezzo”. L’articolo 27 della Costituzione nel prevedere al suo terzo comma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” suggerisce di non mettere in competizione funzione rieducativa e rispetto della dignità. Come ha stabilito la sentenza 313/1990 della Corte Costituzionale, la rieducazione è infatti una delle qualità essenziali della sanzione penale, che “l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. Il verbo “tendere”, presente nel dettato costituzionale, rappresenta solo “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”. Questo implica necessariamente la centralità consenso del condannato nel percorso rieducativo. La rieducazione è un’opportunità che l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe offrire al condannato operando in sinergia con le istituzioni territoriali: purtroppo - come sostengono alcuni studiosi - è proprio qui che la distanza tra il dettato costituzionale e la realtà del sistema penale si fa smisurata. Se ci riferiamo in particolare al carcere, infatti, è indispensabile prendere atto di una situazione, già compromessa da anni di riforme mancate, che la pandemia ha soltanto reso più drammatica. La sfida è non relegare il carcere a un’isola separata dal mondo esterno, ma mettere sempre più in relazione con la città una comunità fatta di storie, relazioni, problemi. I giuristi hanno da tempo privilegiato quale ambito principale di interesse la funzione della pena, ovvero il secondo degli obiettivi costituzionali. Intorno ad esso - ha ricordato Gonnella - si sono costruite e cancellate riforme, sono state avallate tesi opposte. C’è chi ha eretto, “non solo metaforicamente, monumenti alla redenzione, chi ha inteso eliminare i non rieducabili e chi ha ancora elaborato un modello di carcere aperto al territorio e diretto al recupero sociale dei condannati. In tutti questi casi è stata evocata e usata la medesima espressione costituzionale. La retorica rieducativa, sganciata dalla dignità umana, ha per decenni ostacolato il nascere e il consolidarsi di una riflessione concettuale, normativa e giurisprudenziale intorno al primo degli obiettivi costituzionali, ovvero la pena secondo umanità”. La rieducazione è stata allora ridimensionata a mito e l’attenzione pubblica si è inevita­bilmente spostata intorno all’umanità, ovvero alla dignità umana. Al centro dell’attenzione sono stati posti la dignità umana e l’insieme dei diritti su di essa fonda­ti. Nel dibattito corrente - ricorda Gonnella - siamo abituati a opporre la funzione rieducativa della pena alle tesi retributive classiche, secondo le qua­li chi sbaglia paga, seppur in modo proporzionato. La funzione rieducativa della pena, “soprattutto in epoca recente, malata di securitarismo e intrisa di ideologia della vendetta, è spesso evocata anch’essa quale baluardo estremo contro gli arbitrii punitivi. […] la tensione rie­ducativa funziona peggio rispetto alla dignità umana quale limi­te da opporre a una pena illegale e violenta. E funziona peggio perché il correzionalismo - ovvero l’idea secondo la quale attra­verso la pena carceraria il detenuto vada ‘corretto’ nella sua indo­le deviante - non è concettualmente e logicamente in antitesi ai trattamenti contrari al senso di umanità. Lo è nella sua versione democratica, lo è nelle intenzioni di molti studiosi e operatori so­ciali e del diritto, non lo è dovunque e comunque”. L’uomo detenuto da rieducare diventa mezzo in funzione di un suo cambiamento, della tranquillità sociale, del perseguimento di un clima meno teso in carcere. Un detenuto non recuperabile può anche essere condannato a una pena disumana senza che questo metta teoricamente in crisi il modello correzionale. La di­sumanità del regime penitenziario mette in crisi invece il model­lo carcerario umanocentrico fondato sulla dignità. Anche se la nostra sicurezza personale non è così a rischio più di quanto non fosse in passato viviamo in un tempo che Zygmunt Bauman definì “tormentosa sfiducia esistenziale” che ci porta ad avere un’ansia di sicurezza personale, cui bisogna necessariamente rispondere con quella che Luigi Manconi definisce rassicurazione simbolica del diritto penale. Resta ancora difficile concepire una pena senza carcere, un processo a tappe di riduzione e di minimizzazione del carcere. Ritorna ad imperare il populismo penale, secondo il quale il sistema giudiziario continua ad essere la macchina delle soluzioni facili, a basso costo e a ad alto rendimento politico. Continuiamo ad accanirci - ricorda Manconi - con la componente esclusa della società, i principali destinatari della pena detentiva. Li esibiamo come una sorta di trofeo di una giustizia implacabile, senza risolvere nessun problema di sicurezza esistenziale e personale dei cittadini. Per Gonnella occorre “sfumare i riflettori dall’utopia rieducativa e accenderli sulla dignità umana e sui diritti da essa fondati aiuta a leggere le aporie del carcere, contribuisce a rifondare il sistema penitenziario in modo cristallino, imponendogli limiti etici non valicabili e rendendolo compatibile con le regole dello stato sociale di diritto”. Una volta effettuato questo cambiamento di paradigma, allora sì che la rieducazione diventa capace di acquisire un senso sociale alto, laicizzato e deideologizzato. Con lo sguardo fisso all’orizzonte della dignità umana, ogni intervento diretto a offrire opportunità di reintegrazione sociale esce dal gioco dell’ipocrisia e diventa un intervento di promozione dei diritti della persona. Evidentemente, non è sufficiente - aggiunge Gonnella - “la sola riviviscenza normativa, dottrinale e giurisprudenziale della dignità umana per riportare il sistema nella legalità effettiva. Esiste e persiste un gap tra le proclamazioni giuridiche e la pratica punitiva. Rimane il paradosso stridente di una pena illegale inferta nel nome della legalità infranta, il quale paradosso deve indurre a trovare meccanismi di soluzione non solo sul piano giuridico ma anche su quello culturale e su quello operativo”. Bye bye forca: come le serie tv hanno sdoganato il garantismo e il diritto di difesa di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 4 luglio 2022 La tensione perpetua tra legge e giustizia, tra morale astratta e diritti concreti è sempre stata al centro delle rappresentazioni hollywoodiane, con tutte le inevitabili semplificazioni e concessioni (al climax narrativo da una parte e alla cultura di massa dall’altra) proprie al filone giudiziario. Il racconto popolare si nutre infatti di schemi regolari, ripetitivi, è espressione dello spirito dei tempi ma allo stesso tempo lo condiziona, contribuendo a creare e a diffondere valori e pregiudizi. È l’immaginario collettivo, che fornisce il sostrato simbolico all’opinione pubblica, al suo formarsi e alla suo continuo mutare (o stagnare): le opere di finzione, cinema, tv, letteratura, teatro, sono in tal senso veicoli formidabili. Per decenni i legal drama hanno giocato con l’immedesimazione tra lo spettatore e i “coraggiosi giustizieri” che si scagliano contro poteri ordinari e straordinari, Che si tratti di avvocati o procuratori o addirittura poliziotti cambia poco, l’occhio della cinepresa è (quasi) sempre quello dell’accusa, una soggettiva continua di raddrizzatori di torti, che magari si battono con passione per scagionare un innocente, però con l’idea “davighiana” di dover scovare il “colpevole che l’ha fatta franca”. Nell’ultimo decennio l’avvento delle piattaforme streaming, in particolare Netflix, ha rivoluzionato profondamente questo paesaggio culturale anche grazie al format seriale, più dettagliato e analitico del film classico, che permette di spiegare ai profani la complessità di un’inchiesta e di un processo penale, la fragilità del sistema e la facilità con cui le giurie fanno sbattere in cella gli imputati nel paese più carcerario dell’occidente. E la figura più rappresentativa di questa evoluzione e quella dell’avvocato, spogliata dei suoi attributi mitologici e irrealistici, da supereroe degli studios, guerriero Marvel in toga, e ricollocata senza epica nella sua funzione ordinaria, quotidiana, imperfetta e per questo così preziosa per la vita democratica. Non c’è più bisogno di essere Perry Mason, o l’Atticus Finch de Il buio oltre la spiepe, o il Frank Galvin de Il Verdetto per interpretare con nobiltà il ruolo del difensore. Non è necessario scoperchiare complotti o far cadere governi per servire lo Stato di diritto con spirito probo. È uno switch importante per gli Stati Uniti, dove per tradizione i legali non godono di grande fama, al contrario: oltreoceano circolano barzellette di gran cinismo, amenità sarcastiche del tipo: “Come fai a capire se un pedone investito da un tir faceva l’avvocato? Facile: manca il segno della frenata sull’asfalto!”. Astuti, avidi, spesso senza scrupoli e in odor di zolfo, assimilati fisiologicamente ai propri clienti e ai loro presunti crimini. Gli avvocati dei criminali, degli stupratori, degli assassini, dei mafiosi o sull’altra sponda dei politici corrotti e delle grandi corporation, rappresentati come ingordi affaristi, altro che attori essenziali del diritto. L’unica figura tollerata nella cultura cinematografica Usa era, come dicevamo, l’avvocato-investigatore, la parte civile, che presta soccorso alla vittima di turno, che si tratti di una povera ragazza dei bassifondi che ha subito violenza sessuale a cui nessuno crede o di un povero diavolo truffato da una cinica multinazionale. Con il difensore che si trasfigura in paladino-accusatore e ripara l’ingiustizia anche se inizialmente deve affrontare avversari insormontabili e cattivissimi fino al meccanico colpo di scena in cui il bene trionfa sul male. Nella nouvelle vague giudiziaria delle serie tv questo manicheismo è assente, ma la critica è decisamente più profonda perché non riguarda il tal procuratore, il tal poliziotto, il tal personaggio pubblico, ma il sistema, la sua equità alterata dalle disparità sociali, dai preconcetti razziali, dal populismo penale e dai processi mediatici. Non parliamo solamente degli “errori giudiziari” in cui i diritti negati sono strettamente connessi al proprio status di “innocente” e l’empatia scorre automatica tra il pubblico. La gran parte delle serie ci porta ormai dentro la macchina giudiziaria, nei suoi meccanismi complessi a volte perversi. E molto spesso sono tratte da storie vere riadattate dagli sceneggiatori degli studios. Certo, il plot deve essere arricchito dalla fantasia degli autori, da situazioni immaginarie per ovvie esigenze di drammaturgia, si tratta pur sempre di fiction, ma mai come ora abbiamo potuto osservare così da vicino Prendiamo la bellissima For Life, scritta e ideata da Hank Steinberg, prodotta dal rapper 50 Cents che racconta la discesa agli inferi e poi il riscatto di Aaron Wallace, arrestato per spaccio di droga e condannato alla prigione a vita perché non ha voluto patteggiare una pena a vent’anni. In prigione Wallace decide di laurearsi in legge e diventare avvocato. For Life ci mostra i conflitti e le lotte di potere, tra i detenuti e tra chi fa funzionare la macchina infernale della prigionia, l’ottusità vendicativa delle guardie, il cinismo dell’amministrazione, l’iniziativa, spesso interessata e priva di scrupoli della procura. E lo fa senza retorica, senza piagnistei, con un tocco minimalista. Wallace combatte per se stesso, certo, e riuscirà a dimostrare la propria innocenza, ma incarna il ruolo dei difensore con fervore e lucidità: “Sono un avvocato, farei di tutto per i miei clienti!” Già, il diritto avere una difesa e un processo equo, che non significa soltanto disporre di uno svogliato legale d’ufficio, ma di un professionista appassionato capace di lottare contro il moloch giudiziario, di proteggere i suoi clienti dal bullismo dei procuratori. E sono tanti i tabù che saltano in aria. Come quello delle testimonianze oculari che le giurie d’oltreoceano e gli stessi procuratori hanno sempre santificato, come profezie scolpite nel marmo. La docuserie Innocence file, che illumina le vicende di otto detenuti condannati ingiustamente in seguito a indagini sbrigative, perizie approssimative e processi sommari. Una produzione ispirata al lavoro di The innocence project, organizzazione no profit che ogni anno riesce a far riaprire decine di casi giudiziari. Stando alle cifre ufficiali negli ultimi trent’anni sono circa 2500 le persone condannate ingiustamente che hanno potuto ribaltare la sentenza grazie all’aiuto di queste ong. A seppellirli in carcere testimoni che si dicono “certi” di averli riconosciuti sulla scena del delitto, o in fuga dal luogo del crimine, oppure aggirandosi sospetti nei dintorni di un omicidio o di una rapina, e d’altra parte chi può dubitare di una vittima che riconosce il volto del suo stesso carnefice? La psicologia forense e la semplice casistica ci spiegano invece quanto sia illusoria la memoria, anche a pochissime ore di distanza dai fatti, figuriamoci dopo molti mesi, se non anni. C’è poi la componente emotiva che distorce la percezione, dilata i tempi, provoca rimozioni e sostituzioni, offusca il giudizio. In alcuni casi le serie possono incidere direttamente sui destini di persone in carne e ossa come per Making of a Murderer che ha portato alla scarcerazione di Brendan Dassey, condannato all’ergastolo per omicidio volontario. Le registe hanno messo in luce la manipolazione delle prove da parte della polizia, gli interrogatori illegali, l’ostracismo verso gli avvocati, ma hanno anche ricevuto diverse critiche per l’estrema parzialità del racconto che non approfondisce le responsabilità di Dassey per concentrarsi solamente sui metodi brutali dei suoi accusatori. Uno degli effetti più importanti del processo Dassey è stata la messa in discussione della prova del Dna, vero e proprio dogma per inquirenti, giudici e giurie, dimostrando che la traccia genetica può venire alterata che non può essere affidabile al cento per cento. La produzione seriale americana è anche lo specchio dei grandi cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio in quella società. Il movimento Black lives matter ha messo a nudo la feroce discriminazione che la comunità afroamericana subisce ogni giorno nei mille ghetti d’America, dai dalle perquisizioni violente, alla detenzione abusiva, alla negazione del diritto di difesa, alle umiliazioni del sistema penitenziario federale. Una ferita che viene da lontano e che richiama alla mente le grandi battaglie peri diritti civili degli anni 60 e 70, In questa prospettiva si muove Processo ai Chicago 7, che racconta come i leader del movimento studentesco, della controcultura giovanile e del black power tra cui Bobby Seal della Pantere nere vennero usati come capro espiatorio per i celebri scontri alla convention democratica del 1968 sullo sfondo della contestazione alla guerra in Vietnam. Arrestati senza prove, dati in pasto alla gogna pubblica, incastrati da procuratori faziosi e giudici proni al potere alla fine riusciranno a dimostrare la loro innocenza e le manovre politiche che si sono giocate sulla loro pelle. Una serie toccante, che rimanda a fatti avvenuti mezzo secolo fa ma purtroppo ancora attuali, una serie anche figlia dei moti di Ferguson dopo l’uccisione nell’agosto del 2015 del 18enne disarmato Michael Brown da parte di un agente di polizia bianco che innescarono un movimento di massa, capace di far rimettere in discussione i poteri quasi militareschi concessi ai poliziotti e la compiacenza dei tribunali nei confronti dei loro continui abusi. Giustizia razziale, giustizia di classe, giustizia, politica, giustizia mediatica; conoscere le perversioni del sistema è il metodo più adatto per osservare l’andamento e la rettitudine di una società, e le tante serie tv che ci mostrano le vicende reali di avvocati, procuratori, giudici, imputati, testimoni, poliziotti e giornalisti tutti impegnati a far andare avanti la macchina, ci permettono di guardare da vicino come funziona una democrazia. Non c’è spazio per la vendetta ma solo “un campo” per perdonare l’imperdonabile di Valentina Stella Il Dubbio, 4 luglio 2022 La giustizia riparativa, nella quale crede molto la ministra Cartabia, è il leitmotiv della serie “The victim” della Bbc, trasmessa lo scorso anno in Italia su Sky Investigation. “Al di là delle idee di male e di giusto c’è un campo: ti incontrerò lì”: termina così, con una stupenda frase del poeta persiano Rumi, The Victim, una bellissima mini serie britannica andata in onda nel 2019 sulla Bbc e trasmessa lo scorso anno in Italia su Sky Investigation, ma disponibile ancora on demand. Si tratta di un prodotto che andrebbe mostrato ai vendicatori, ai rabbiosi, alle menti semplici. Ma anche nelle scuole nell’ora di diritto Costituzionale. La trama del thriller si sviluppa in quattro puntate, attraverso dei flashback. Kelly Macdonald interpreta Anna, una madre, infermiera ben voluta, in lutto il cui figlio di nove anni, Liam, era stato torturato e assassinato sedici anni prima da un ragazzo di 13 anni. All’assassino, dopo aver scontato una pena detentiva di sette anni, è stata data una nuova identità ma qualcuno l’ha scoperta, o almeno così si crede, e online viene reso noto l’indirizzo di Craig Myers (James Harkness) e la sua foto per incoraggiare le persone ad attaccarlo. Uno lo fa, brutalmente. L’ispettore Steven Grover (John Hannah) è incaricato di indagare sul crimine contro Myers e di rintracciare la persona che ha messo i suoi dettagli online. Grover viene presto condotto dalla madre di Liam, Anna appunto, corrosa dal dolore e dalla furia contro l’uomo che pensa abbia ucciso suo figlio e che secondo lei non ha scontato una giusta pena. È lei ora ad essere processata per aver pubblicato le informazioni su Myers fornitele da una terza parte, il che equivale agli occhi del Crown Office di Edimburgo a una istigazione all’omicidio. Nel corso della serie, Anna mina tutto ciò che il pubblico pensa di lei per la prima volta. È ferma nella sua convinzione che l’assassino di suo figlio debba essere rivelato e svergognato. Lo spettatore si rende conto che sotto il suo viso freddo, con i suoi capelli ordinati e tirati all’indietro e i suoi vestiti sgargianti, è una persona potenzialmente sconvolta in cerca di vendetta. E allora subito ci si chiede: Myers è l’assassino? Anche se lo è, ha il diritto di ricominciare da capo con la sua nuova famiglia, una moglie innamorata e una figlia? Se sì, è diventato ora lui la vittima? O è ancora Anna? Come recita la locandina del film ‘Secondo la legge c’è l’accusa e la vittima. Nella vita, non è tutto così semplice’. Questo è quello che ci spinge a fare la serie tv: a porci più domande che a trovare risposte, ad abbracciare le sfumature, a interrogarci sul cambiamento, sulle seconde possibilità, sul perdono. A tal proposito c’è un intenso e illuminante dialogo tra Anna e il suo nuovo compagno Lenny (Jamie Sives). L’uomo, vedendo la famiglia sgretolarsi per il processo e per l’odio che la moglie cova, la affronta: ‘Hai fatto di te stessa una vittima e ora gli hai dato il potere su tutti noi. Il ragazzo è stato condannato, la sua pena l’ha scontata. Che altro dovrebbe fare? Sei tu ad avere il potere, non lui. Lui non può cambiare niente, ma tu invece puoi per entrambi’. E lei: ‘Non starai mica parlando di perdono? Liam è l’unico ad avere il diritto di perdonarlo’. E lui: ‘Non parlo di quello che ha fatto a Liam, ma di quello che ha fatto a te’. Lei: ‘Certe cose sono imperdonabili’. E lui, magistralmente: ‘Ma sono le uniche volte in cui il perdono significa davvero qualcosa. Qual è il punto nel perdonare il perdonabile?’. Non esiste il bianco e il nero, esiste appunto quel ‘campo’ dove vittima e carnefice, spesso in ruolo invertiti, saranno chiamati ad incontrarsi per ricominciare. Infatti l’ultimo episodio si apre con la decisione della Corte di dichiarare Anna colpevole per aver rivelato l’identità di Craig Myers e di aver cospirato per farlo aggredire ma non per ucciderlo. Poiché Anna crede di aver accusato l’uomo sbagliato, lei e Craig decidono di incontrarsi per una sessione di giustizia riparativa: uno dinanzi all’altro con un mediatore a presenziare all’incontro. Una utopia per il nostro sistema giudiziario, alla quale però crede molto la ministra della Giustizia Marta Cartabia che recentemente ha detto: “Si tratta di creare una struttura normativa che permetta di diffondere questo essenziale strumento per la risoluzione dei conflitti. Stiamo approvando dei decreti legislativi che vanno in questa direzione. La giustizia riparativa comporta anche un cambio culturale perché aggiunge alla giustizia penale un passo in più, che è quello di ricucire, ripristinare i rapporti lesi dal conflitto”. Tornando ai nostri protagonisti, Anna, durante l’incontro con Myers, cerca di spiegare le ragioni alla base delle sue azioni e di scusarsi con Craig. Ma poi arriva il primo colpo di scena: Myers ammette di essere davvero l’assassino di Liam. Con la verità finalmente rivelata, Anna fugge sconvolta dall’incontro ma il ragazzo le lascia di nascosto il suo numero di telefono. Lei lo chiama e i due si incontrano nel luogo in cui Liam è stato assassinato. Anna vuole sapere tutto ciò che è successo il giorno in cui suo figlio è stato ucciso. Craig descrive l’intera giornata dal suo punto di vista, a cui seguono le reazioni di Anna, che conducono a scene incredibilmente strazianti. Verso la fine dell’episodio, l’ex marito di Anna, Christian (Cal MacAninch), il padre di Liam, si avvicina ai due mentre stanno parlando, pronto ad uccidere Craig con un coltello per quello che aveva fatto a suo figlio. Tuttavia, mentre Craig è pronto ad affrontare la rabbia di Christian, il dramma conosce un’ultima svolta: Anna si mette davanti a Craig per fermare Christian. Non c’è più spazio per la vendetta ma solo per quel campo dove è possibile andare al di là delle idee di male e giusto. La sussidiarietà fa bene alla vita di Giorgio Vittadini ilsussidiario.net, 4 luglio 2022 Una ricerca condotta dalla Fondazione per la Sussidiarietà insieme all’Istat mostra quali sono i benefici della sussidiarietà a livello sociale. Più sussidiarietà, più benessere. Si potrebbero sintetizzare così i risultati di una ricerca statistica condotta dalla Fondazione per la Sussidiarietà insieme all’Istat, contenuta nel Rapporto 2022 sulla sussidiarietà, che presenteremo ufficialmente tra pochi giorni. L’analisi effettuata mostra che c’è una correlazione molto significativa tra la partecipazione ad attività collettive sussidiarie e lo sviluppo sociale. Si tratta di uno studio innovativo e molto avanzato, basato sulla messa a punto di indicatori inediti in grado di misurare fenomeni socio-economici complessi, che utilizzano come materiale statistico i cosiddetti BES, indicatori regionali del benessere equo e sostenibile, inteso come fenomeno multidimensionale, non limitato alla considerazione del Pil, Prodotto interno lordo. Si tratta di una forma più avanzata in Europa di misurazione dei fenomeni fondamentali della vita dei cittadini, come salute, istruzione, lavoro, ambiente, ecc. Così emerge, ad esempio, che vi è un nesso molto stretto fra impegno sussidiario e occupazione: l’indicatore, su una scala da 0 a 1, segna un robusto +0,7. Favorisce la creazione e la ricerca di posti di lavoro l’impegno in attività culturali e sociali fuori casa (l’indice di correlazione sfiora il +0,9). A riprova di questo, una stretta correlazione, questa volta negativa, emerge rispetto al rischio di povertà. E così pure, dove più alta è la presenza di organizzazioni non profit, la percentuale di Neet, ragazzi che non studiano, non hanno un lavoro e non lo cercano, è più contenuta che altrove. Nel complesso il coefficiente di correlazione tra “sussidiarietà” e “sviluppo sociale” risulta pari a +0,91. La ricerca ha voluto appurare che relazione esiste tra l’atteggiamento di fiducia e di apertura della persona, che nello studio è definito “sentimento di sé relazionale” e la partecipazione ad attività sussidiarie. Il nesso c’è ed è molto forte: l’indicatore segna un coefficiente pari a +0,95. Questo risultato ha una valenza teorica molto importante. Esso contesta il punto focale delle moderne teorie economiche, vale a dire l’homo homini lupus di Hobbes, l’io egoistico come protagonista, e afferma che è l’“io relazionale” il protagonista del progresso. In tutte queste dinamiche il ruolo del Terzo Settore si conferma fondamentale nel nostro Paese, un universo di 375.000 enti (25% in più di dieci anni fa) tra associazioni, fondazioni, cooperative e sindacati, con 900.000 addetti (di cui il 70% donne), 4 milioni di volontari e una produzione di servizi stimabile in 80 miliardi di euro, pari al 5% del Pil. A queste realtà destinano il 5 per mille ben 15 milioni di contribuenti. L’esplosione del Covid non ha fatto che mettere in rilevo l’importanza del Terzo Settore. Oltre all’emergenza sanitaria e alla crescita della povertà, esso ha prodotto tanta solitudine. Rispetto alla quale si è rivelata decisiva una rete di solidarietà capace di intercettare i bisogni in tempo reale. La sussidiarietà ha avuto un nuovo slancio fatto di attenzione, di ascolto, di vicinanza, di condivisione, di accoglienza. Lo si vede anche nei confronti dei profughi ucraini, dove la mobilitazione delle famiglie è stata immediata, insieme al flusso di donazioni da parte di imprese e di privati cittadini. Nel Rapporto sulla sussidiarietà 2022 si analizzano in particolare quattro realtà del Terzo settore scelte come casi paradigmatici di cultura sussidiaria. Sono: l’Associazione Portofranco (educazione e aiuto allo studio), la Federazione nazionale Banchi di Solidarietà (contrasto alla povertà), la Fondazione Progetto Arca (inclusione sociale) e la Fondazione Don Gnocchi (salute e assistenza sanitaria). Cosa dicono queste quattro esperienze? Che la sussidiarietà c’è e che è pervasiva e si espande e si diffonde laddove la società esprime un bisogno. Essa comporta anche un impatto strutturale sui beneficiari, generando coesione, partecipazione e capitale sociale. Infine si rileva, da un sondaggio condotto sui volontari, che l’azione di volontariato sussidiario fa bene a chi lo compie, e questo si riversa positivamente sulla comunità. La stragrande maggioranza dei rispondenti dichiara infatti che l’esperienza di volontariato ha incrementato la propria sensibilità verso il bisogno e verso le difficoltà degli altri, cambiando anche il modo di vivere la propria quotidianità e aumentando il desiderio di condivisione. Paradossi di cittadinanza di Giovanni Moro La Repubblica, 4 luglio 2022 Non è facile commentare il tormentato iter della proposta di legge di riforma della cittadinanza che si sta svolgendo alla Camera sulla base del testo messo a punto, con saggezza e realismo, da Giuseppe Brescia. La difficoltà è che sul tema gli elementi fattuali sono sopravanzati, o meglio travolti, dalle rappresentazioni, spesso volutamente false. Esempi di questa attitudine sono la confusione tra residenti di lungo periodo (o loro figli) e richiedenti asilo; l’impiego della espressione “ius soli” come parola magica negativa; la generalizzazione di singoli fatti quando non di titoli giornalistici; il silenzio sulle tasse e i contributi previdenziali pagati dagli immigrati; la smemoratezza sulle maggioranze di governo che hanno inaugurato la stagione delle regolarizzazioni di massa. Purtroppo il fact checking non è sempre risolutivo. Le ragioni di questo divorzio tra fatti e rappresentazioni sono soprattutto elettorali. Eppure, alla base della piccola guerra santa in corso c’è una concezione della cittadinanza che è già stata definitivamente messa in discussione, sia dalla ricerca scientifica, sia, soprattutto, dalla realtà. Ci sono tre elementi. Il primo è la centralità della nazione, intesa come comunità culturale, caratterizzata dalla condivisione di storia, linguaggio, costumi, religione, stili di vita, cultura materiale, che distingue “chi sta dentro” da “chi sta fuori” non solo in termini legali. Già dagli anni ‘80 la ricerca scientifica ha mostrato che questa idea “essenzialista” della nazione contrasta con la realtà: le nazioni sono piuttosto “comunità immaginate”, costruite attraverso narrazioni, simboli, riti che spesso con la storia effettiva non hanno niente a che fare. Implicita in questa idea di nazione c’è quella di “comunità di origine”: i cittadini sono coloro che condividono la medesima origine, e non altri. Ma quello che sta accadendo un po’ dappertutto nel mondo è che le comunità di origine sono in corso di ridefinizione come “comunità di destino”. Connessa a questa idea di nazione c’è quella di “integrazione”: la cittadinanza è un contenitore precisamente definito e immutabile nel tempo di norme, valori, consuetudini. Chi vuole entrare a farne parte deve assumere questi contenuti e lasciare i propri. La realtà ci dice invece che l’incontro tra stranieri e autoctoni è sempre un processo di reciproca contaminazione e trasformazione, che peraltro non ha bisogno di decisioni politiche per attuarsi perché avviene comunque. E infine, nascosto sotto questa concezione della cittadinanza c’è un modello antropologico, cioè un modello di uomo considerato canonico. Negli Usa sin dagli anni 60 questo modello fu individuato e criticato utilizzando l’acronimo WASP: i “veri” americani sono bianchi, anglosassoni e protestanti (le femministe aggiunsero “maschi”), malgrado tutte le evidenze contrarie. Quando da noi si sente dire, come è accaduto in molti casi nello sport, che “in nazionale devono giocare gli italiani”, si manifesta una delle caratteristiche nostrane di questo modello: gli italiani sono bianchi e non possono essere di un altro colore. L’Italia, come tutti i Paesi del mondo, vive dinamiche di trasformazione della cittadinanza, intesa come associazione tra eguali per presiedere alla vita comune, che sono complesse, accidentate e non necessariamente progressive. Tuttavia, fare finta che si possa conservare qualcosa che è già passato è tutto meno che una soluzione. Forse neppure per vincere le elezioni. Ius scholae: una questione di giustizia. Cosa preveda, chi la ostacola di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 4 luglio 2022 Prosegue questa settimana alla Camera l’esame del testo che spacca la maggioranza. Si consente ai figli di genitori stranieri di diventare cittadini italiani dopo un ciclo di studi di 5 anni. Una “legge di civiltà”, da varare il prima possibile, secondo Pd, M5S, Leu e sinistra. Una legge non prioritaria, non necessaria e perfino “dannosa”, secondo la Lega, Fratelli d’Italia e una parte di Forza Italia, che la avversano. Dopo il rinvio dei giorni scorsi, nella settimana iniziata oggi proseguirà l’esame in aula alla Camera del testo sullo Ius scholae, licenziato dalla commissione Affari costituzionali con una spaccatura nella maggioranza. Una legge che divide, dunque, col Carroccio che tramite il segretario Matteo Salvini più volte ha evocato lo spettro di una crisi di governo (tuttavia, il premier Mario Draghi ha detto che l’esecutivo non prenderà posizione). Nel caso in cui il testo dovesse ottenere il via libera della Camera, il confronto si sposterà poi a Palazzo Madama, dove in base agli equilibri politici e ai numeri dei singoli gruppi l’approvazione finale potrebbe essere più ardua. I contenuti della legge - Un quinquennio di scuola per essere italiani. Il provvedimento, com’è noto, poggia su un articolo cardine, quello che consente l’acquisizione della cittadinanza italiana per il minore straniero che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e che abbia risieduto legalmente e senza interruzioni nel nostro Paese, ma a una condizione. Quale? L’aver frequentato regolarmente, per almeno cinque anni, nel territorio nazionale uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione oppure percorsi di istruzione e formazione triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Ancora, in base al testo, affinché il figlio o la figlia acquisisca la cittadinanza italiana, i genitori del minore interessato in possesso dei requisiti - purché siano entrambi residenti in Italia - dovranno rendere una “dichiarazione di volontà” entro il compimento della maggiore età del figlio. A sua volta, la persona interessata potrà rinunciare alla cittadinanza acquisita entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, purché in possesso di altra cittadinanza. O, viceversa, fare richiesta di cittadinanza all’ufficiale di stato civile entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, ove i genitori non abbiano reso la dichiarazione di volontà. Infine, una norma puntualizza che il requisito della minore età si considera riferito al momento della presentazione dell’istanza o della richiesta da parte dei genitori. Le regole attuali - Attualmente gli stranieri possono chiedere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo 10 anni di permanenza continuativa sul suolo italiano. I loro figli, invece, devono aspettare il compimento della maggiore età, dimostrando di aver vissuto ininterrottamente qui dalla nascita. E le cronache degli ultimi anni sono zeppe di casi paradossali, compresi quelli di atleti in erba con primati internazionali, che non possono gareggiare per le Nazionali azzurre di categoria perché ancora non cittadini, benché nati e cresciuti in Italia. Pd-5S: un milione di ragazzi fuori dal limbo - “Non ci faremo intimidire dalle destre di Salvini e Meloni che, con puntuale benaltrismo, strillano che i problemi dell’Italia sono altri. Lo Ius scholae è un provvedimento di civiltà e lo sosterremo fino alla fine. Lo dobbiamo a un milione di italiani”, è il ragionamento della vicepresidente dell’Europarlamento, la dem Pina Picierno, che con tutto il Pd, a partire dal segretario Enrico Letta, è schierato sul fronte del sì. La pensa così pure M5s, come ha ribadito la capogruppo in commissione Affari costituzionali Vittoria Baldino: “Le mistificazioni del centrodestra per meri fini propagandistici sono inaccettabili. Davanti ai diritti delle nuove generazioni non ci sono priorità di serie A e B”. Di un provvedimento “tanto atteso da un milione di ragazzi, quanto osteggiato da una destra propagandistica” parla pure il capogruppo di Leu alla Camera Federico Fornaro, chiedendo alle forze politiche di non “tradire le aspettative” di tutti quei giovani. Alla Camera i numeri non mancano: con Julia Unterberger si è molto esposto a favore della legge il gruppo delle Autonomie, dicono “sì” anche gli ex 5s “di sinistra” e Italia viva, che però chiede “dialogo” in vista della tempesta che si annuncia al Senato. La mediazione dei moderati di Fi e dei “centristi” - Alla Camera, dove Forza Italia ha una folta pattuglia “moderata”, sono state avanzate proposte di compromesso in vista poi del passaggio al Senato. L’idea della deputata Annagrazia Calabria è quella di agganciare la cittadinanza alla conclusione del ciclo dell’obbligo, elementari più medie. Forze politiche che pure voterebbero lo Ius scholae, ma che ne temono la bocciatura al Senato, guardano con interesse a eventuali mediazioni. Tra queste forze Italia viva, ma anche la neonata Insieme per il futuro di Luigi Di Maio, che avverte i due poli: “No a bandierine e no a picconate al governo”. La Cei: una riforma che rispecchia la realtà - In una settimana importante per il futuro della legge sulla cittadinanza ai minori stranieri, interviene nel dibattito monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, presidente della commissione episcopale per le Migrazioni e della fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei: “La riforma - spiega il presule in un’intervista alle agenzie di stampa - va incontro alla realtà di un Paese che sta cambiando. Spero che le ragioni e la realtà prevalgano rispetto ai dibattiti ideologici, per il bene non solo di chi aspetta questa legge ma anche dell’Italia che è uno dei Paesi più vecchi”. Per Perego, è sbagliato mettere in contraddizione questa legge con altre priorità: “Ne parliamo da almeno quindici anni, contrapporre il caro-bollette non ha senso”. La realtà, continua Perego, è “quella di un milione e quattrocentomila ragazzi, dei quali 900mila alunni delle nostre scuole, che aspettano di essere cittadini italiani”. Per questo motivo, conclude, “la Chiesa italiana continuerà a sostenere questo tipo di linea che legge una realtà che già c’è, la politica deve prenderne atto”. Le norme all’estero - Lo Ius scholae si distingue e può affiancarsi ad altri criteri per l’acquisizione della cittadinanza, come lo Ius sanguinis e lo Ius soli. Il primo è attualmente in vigore in Italia: è infatti cittadino italiano per “diritto di sangue” chi nasce da almeno un genitore in possesso della cittadinanza (ad esempio da madre italiana e padre tedesco, il figlio comunque può divenire, per via materna, cittadino italiano). Invece, in base al principio dello Ius Soli, il diritto di cittadinanza si ha al momento della nascita sul territorio di un determinato Stato, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza dei genitori (ad esempio, una coppia italiana ha un figlio a Parigi, il bimbo può divenire cittadino francese). Diversi paesi europei e non (fra i quali Regno Unito, Germania e Francia) adottano varianti dello Ius soli (prevedendo cioè, oltre alla nascita sul territorio dello Stato, altre condizioni variabili da Paese a Paese). In Nord e Sud America, ad aver adottato lo Ius soli sono il Canada, gli Usa, il Brasile e molte altre nazioni, per cui capita spesso che i figli di emigrati italiani in quei Paesi abbiano doppia nazionalità (e doppio passaporto), assommando a quella ereditata dal genitore quella conseguita nascendo nello Stato estero. Orfini: “Possiamo approvare lo Ius scholae alla Camera. La destra? Sa solo urlare” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 4 luglio 2022 Il deputato del Partito democratico, nell’intervista concessa al Dubbio, parla anche della legge per la Cannabis: “Non stiamo parlando di legalizzazione tout court, ma di consentire l’autocoltivazione di quattro piantine a casa”. Matteo Orfini, deputato del Pd e già presidente del partito, confida di unire le forze progressiste per approvare lo Ius scholae almeno alla Camera e attacca il centrodestra. “La verità - dice - è che Salvini e Meloni la buttano in caciara e non riescono a parlare del merito”. Sull’alleanza con i Cinque Stelle è netto: “Nei prossimi mesi - spiega - dovremo lavorare per rafforzare il Pd”. Onorevole Orfini, perché il Pd è tornato alla carica sullo Ius scholae, a pochi mesi dalla fine della legislatura? Per noi è una legge fondamentale e importante perché sana una discriminazione. Parliamo di centinaia di migliaia di ragazzi e bambini che sono italiani a tutti gli effetti ma non lo sono per la legge. E di conseguenza hanno meno diritti dei loro compagni e amici. Stiamo cercando di risolvere la questione da almeno due legislature, tanto che io stesso presentai una legge a inizio di questa legislatura riproponendo quella approvata in prima lettura alla Camera durante la scorsa. E ora se ne sta discutendo in Aula, con la ferrea opposizione del centrodestra. Come pensate di approvarla? Tra le mille difficoltà siamo riusciti almeno a portarla in Aula. Parliamo di un testo molto diverso da quello che avremmo voluto, che teneva dentro Ius Soli, Ius culturae e norme transitorie. Ma per venire incontro a chi ha posizioni diverse abbiamo scelto un testo molto scarno, con la sola prerogativa che si accede alla cittadinanza completando un ciclo scolastico. Lo abbiamo fatto anche accogliendo emendamenti del centrodestra, nonostante dall’altra parte sia prevalso un atteggiamento curioso e ostruzionistico con centinaia di emendamenti, di cui alcuni provocatori. I detrattori dicono che siete stati, e siete, al governo, da dieci anni quasi ininterrottamente. Perché non l’avete approvata prima? Penso sia stato un errore non mettere la fiducia al termine della scorsa legislatura. Gentiloni (allora presiedente del Consiglio, ndr) era convinto di riuscire ad approvarla senza fiducia ma così non andò. Con la fiducia avremmo avuto lo Ius soli già dalla scorsa legislatura. Ma se uniamo le forze progressiste siamo in grado di approvare il testo attuale almeno alla Camera, poi vedremo al Senato. Ci sono molti parlamentari di centrodestra che in più di un’occasione hanno espresso pareri positivi verso la legge. Dopodiché se alla nostra offerta di dialogo si reagisce con l’ostruzionismo diventa complicato sedersi a un tavolo. Ostruzionismo che si traduce con una porta sbarrata: non c’è il rischio che lo Ius scholae faccia la fine del ddl Zan? A proposito di ostruzionismo, ricordo a Giorgia Meloni che qualche anno fa di fronte all’ipotesi dello Ius soli disse pubblicamente che serviva lo Ius culturae. Si parlava di una fattispecie molto simile a quella di cui stiamo discutendo, eppure oggi la combatte. Tanto per fare un esempio, abbiamo avuto emendamenti che ci chiedevano di fare esami su come si cucina la carbonara. La verità è che Salvini e Meloni la buttano in caciara e non riescono a parlare del merito. Di pari passo c’è la legge sulla cannabis, anche quella osteggiata dal centrodestra: a che punto siamo? Non stiamo parlando di legalizzazione tout court della cannabis ma di consentire l’autocoltivazione di 4 piantine a casa. Avrebbe banalmente l’utilità di consentire un consumo sicuro, togliere risorse alla criminalità organizzata e rompere il meccanismo di contatto con gli spacciatori. Avrebbe solo effetti positivi, come peraltro riconosciuto da tanti magistrati e personalità della giustizia. È una cosa minima e di buon senso. Ma ci troviamo di fronte a urla, strepiti e minacce. Sono due leggi sulle quali la maggioranza degli italiani è a favore, compresi gli elettori di centrodestra. E sulle quali quindi andrete fino in fondo… Decideremo con le altre forze politiche ma credo si debba andare fino in fondo. E rispondere a tono alle obiezioni assurde che vengono fatte. La più ipocrita è il giochino di dire che ci sono altre priorità come le bollette e l’energia. Segnalo a Salvini e Meloni che mentre loro facevano tweet contro cannabis e Ius scholae il Parlamento lavorava fino alle quattro di notte per varare il decreto aiuti. Questo perché in Parlamento si possono fare più cose contemporaneamente ma forse Meloni e Salvini, frequentandolo poco, non se ne sono accorti. Eppure hanno diverse legislature alle spalle… A proposito di dinamiche parlamentari, non è che i vostri alleati del Movimento 5 Stelle escono dalla maggioranza? Io penso che dobbiamo lavorare per tenere dentro la maggioranza di governo le attuali forze politiche. In sostanza, dobbiamo evitare che la scissione di Di Maio metta in discussione la tenuta del governo. Dopodiché non sono mai stato un fan dell’alleanza con i 5 Stelle, ma a legge elettorale vigente occorre lavorare su uno schema di alleanze più largo possibile. Che tuttavia sarà forte soltanto se, in primis, sarà forte il Pd. Nei prossimi mesi dovremo lavorare perché il Pd si rafforzi come perno di una proposta politica allargata anche ad altri. Ma non vorrei che passassimo i prossimi mesi a discutere di alleanze invece che cercare i cittadini per convincerli a sposare il progetto del Pd. Non teme che il crollo dei Cinque Stelle possa portare problemi soprattutto al Sud, dove il Pd fatica mentre alle scorse Politiche i grillini ottennero la metà dei voti? Questo è vero fino a un certo punto. Come centrosinistra abbiamo vinto in Campania e in Puglia, a Taranto e a Catanzaro. Quando abbiamo un progetto credibile e forte vinciamo anche al Sud. Il Pd vincente, insomma, non finisce a Roma. Parte di queste vittorie sono state ottenute senza il Movimento, altre in alleanza. Rispetto al 2018 è cambiato il mondo, a partire dal peso dei partiti, quindi eviterei di fare paragoni. Quel che è certo è che la possibilità di vittoria dipende da quanto noi riusciremo a trainare gli alleati. Anche perché non dovesse vincere nessuno, c’è sempre Mario Draghi… Non penso che la stagione attuale sia facilmente ripetibile. Anche perché con l’attuale legge elettorale, sommata al taglio dei parlamentari, la possibilità di un pareggio è molto più difficile che in passato. Anzi, direi quasi impossibile. Casini: “Sullo ius scholae dico a Meloni di riflettere, non si tratta di baby gang” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 4 luglio 2022 L’ex presidente della Camera: “Vent’anni fa parlavo di ius soli e dal centrodestra non ci furono polemiche, oggi vedo una preoccupante involuzione. Dare la cittadinanza a ragazzi che studiano non solo è giusto, ma riguarda il nostro comune destino” Senatore Pier Ferdinando Casini, lo ius scholae divide il Parlamento... “E allora vi dico una cosa. Vent’anni fa ero presidente della Camera, eletto da una maggioranza di centrodestra. E in più occasioni feci delle dichiarazioni a favore dello ius soli, ma non ricordo nessuna polemica contro di me, neppure da parte di quello che allora si chiamava Polo delle Libertà...”. Era il centrodestra dell’epoca. Oggi invece Lega e Fratelli d’Italia sembrano pronti ad alzare le barricate in Aula... “Vent’anni dopo stiamo parlando di ius scholae e rispetto ad allora trovo persino più giusto che la cittadinanza oggi venga data a dei ragazzi che abbiano completato almeno un ciclo di studi. Ma tutte queste polemiche sono terribili, un segno di preoccupante regressione, d’involuzione. Oh attenzione, io sono un moderato. E non voglio essere provocatorio, non mi permetto di criticare. Però mi chiedo perché Giorgia Meloni, che si sta preparando a governare il Paese, non faccia uno sforzo di comprensione su questo punto. Lei ritiene, giustamente, il suo essere di destra più importante rispetto al dichiarare qualcosa politically correct. Ma questo non è politically correct, lo ius scholae riguarda milioni di persone in carne e ossa e il nostro comune destino”. Matteo Salvini dice che con lo ius scholae si finirà per dare la cittadinanza alle baby gang di immigrati... “É un finto problema, non si può fare una campagna elettorale sulle spalle degli immigrati. Nessuno vuol dare cittadinanza alle baby gang, qui non stiamo parlando di spacciatori delle periferie, ma di ragazzi fantastici che a scuola superano tutti gli esami e prendono voti migliori di quelli dei nostri figli. Ho letto alcuni dei 1.500 emendamenti presentati dal Carroccio: non si può legare la cittadinanza alla conoscenza delle sagre. Io sono di Bologna, bolognese fino al midollo. E magari è possibile che i figli degli immigrati non sappiano nulla della festa della Madonna dell’Acero di Monte Acuto. Ma credo che la ignorino anche molti dei nostri figli. Invece sono convinto, per esempio, che la Madonna di San Luca la conoscono bene anche loro, perché ormai sono più bolognesi di me, alcuni con la “s” addirittura più accentuata della mia. Lo ius scholae non restringe gli spazi di legalità, piuttosto li amplia”. Che vuol dire? “L’equazione clandestinità uguale illegalità non l’ha creata la destra, come vorrebbe da sempre una certa sinistra ideologica, ma l’ha creata la disperazione. Se arrivi in Italia e anziché venire accolto vieni respinto, è inevitabile poi cadere nella rete di gente senza scrupoli che ti sfrutta ovunque: nelle case, nei campi. E molti di quelli che li sfruttano sono proprio italiani. Italiani di cui vergognarsi”. E allora? “É tempo di costruire assieme un destino, noi e questi ragazzi che sono ormai italiani, anche se hanno la pelle di un colore diverso. Non si tratta di essere per forza filantropici, basta essere intelligenti: noi abbiamo bisogno di loro. Mio nonno Romeo a 2 anni partì per l’America col resto della famiglia, poi lui tornò ma metà dei suoi fratelli rimasero e vissero là per sempre. Gli Stati Uniti sono un grande Paese anche per questo: perché hanno saputo creare un sistema, anche duro, rigido, ma alla fine accogliente”. Cannabis, il governo dice sì alla depenalizzazione nella Relazione sulla tossicodipendenza di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 4 luglio 2022 Il documento, redatto dalla Presidenza del consiglio, ricalca di fatto gli obiettivi del testo in discussione alla Camera. Magi: “La destra non più ha scuse, la legge non può mettere in difficoltà la maggioranza”. Nella Relazione annuale sulla tossicodipendenza, redatta dal governo e inviata al Parlamento, c’è un termine che fa storcere il naso al centrodestra impegnato nella crociata contro il testo sulla cannabis approdato alla Camera e sponsorizzato da Pd, Leu e M5S. Il termine in questione è “depenalizzazione” ed è contenuto a pagina 516 del rapporto. Nel testo, redatto dalla Presidenza del consiglio dei ministri, viene messa nero su bianco la necessità “di rivedere le norme che prevedono sanzioni penali e amministrative a carico di persone che usano droghe”. Come? Sottraendo - si legge - “all’azione penale alcune condotte illecite” e “rivedendo contestualmente l’impianto sanzionatorio”. Parole che ricalcano gli obiettivi della proposta di legge all’esame di Montecitorio e su cui il governo non ha mai esplicitamente preso posizione, lasciando la questione al dibattito parlamentare e allo scontro tra partiti. Favorire la depenalizzazione della cannabis - La Relazione trasmessa alle Camere recepisce le indicazioni elaborate durante la Conferenza nazionale sulle dipendenze andata in scena a Genova lo scorso autunno e voluta dalla ministra Fabiana Dadone, responsabile delle politiche anti-droga. Le conclusioni del dossier inviato al Parlamento non lasciano spazio ad interpretazioni. Nel capitolo dedicato alle proposte di modifica alla legge italiana si parla di “forte urgenza” nell’intervenire sull’Art. 73 del testo unico sulle droghe. E di farlo favorendo la depenalizzazione della “coltivazione di cannabis a uso domestico”. Si tratta dello stesso principio che fa da cardine alla proposta sostenuta dal fronte progressista in Parlamento (coltivazione di massimo 4 piante e pene ridotte per i reati di lieve entità) e che, insieme alla legge sullo ius scholae, negli ultimi giorni ha subito un’accelerazione dopo anni di pantano. La reazione del centrodestra non si è fatta attendere. Fratelli d’Italia ha chiesto la cancellazione delle proposte, mentre Lega e Forza Italia hanno accusato il centrosinistra di insistere su una legge considerata divisiva e per questo in grado di compromettere il fragile equilibrio che sorregge l’esecutivo di unità nazionale. “La sinistra mette in difficoltà maggioranza e governo”, aveva detto Matteo Salvini. Magi: “La destra non ha più scuse” - “In realtà i suggerimenti della Relazione vanno addirittura oltre il nostro testo, prevedendo ad esempio la depenalizzazione della cessione della piccola quantità quando questa avviene senza scopo di lucro”, dice Riccardo Magi, deputato di +Europa e promotore della proposta di legge sulla cannabis. “Ci si chiede dunque come l’approvazione del testo possa mettere in difficoltà la maggioranza. Anzi, viste le indicazioni trasmesse dal governo potremmo addirittura chiedere un intervento per decreto”. Mario Draghi, però, non intende mettere bocca su una questione che reputa fuori dallo spazio di manovra dell’esecutivo da lui guidato. Un concetto, quest’ultimo, ribadito durante la conferenza stampa di giovedì scorso. “Su questo come altre proposte di iniziativa parlamentare il governo non ha mai preso posizione”, aveva detto. Fatto sta che mentre il dibattito sulla cannabis entra nel vivo, ad offrire una sponda al fronte pro-depenalizzazione potrebbe essere proprio il documento inviato dal governo. La grande chimera di una pace giusta di Lucio Caracciolo La Stampa, 4 luglio 2022 Chi oggi invoca pace subito in Ucraina prolunga la guerra. È inverosimile che Mosca e Kiev negozino qualsiasi trattato di pace - un nuovo, stabile assetto postbellico - visto il carico di odio fra i due popoli e di sfiducia fra le due leadership. È invece possibile e necessario annodare una trattativa segreta fra Putin e Zelensky per un cessate-il-fuoco. Premessa del lungo percorso verso il congelamento sine die del conflitto. “Pace” provvisoria. Ma non c’è nulla di meno temporaneo di una tregua fra nemici irriducibili (Corea insegna) quando nessuno ha a portata di mano la vittoria totale. L’ostacolo principale alla tregua è che aprendo formalmente il negoziato entrambi i capi rischierebbero il posto e la vita se dovessero apparire troppo corrivi verso il nemico. Perché finché esisteranno Russia e Ucraina saranno avversarie. La questione è solo se fredde o calde. Alla Casa Bianca - ma non in tutti gli apparati americani - vorrebbero che la guerra finisse presto. Mentre il Pentagono rinforza le capacità balistiche di Kiev con armi sofisticate, Biden e i suoi premono sugli ucraini per convincerli che rinviando la tregua negozierebbero poi da posizioni di estrema debolezza, vista l’inerzia che sul campo volge a favore dei russi. Contemporaneamente spiegano a Mosca di non avere affatto intenzione di rovesciare Putin. Lo ha messo nero su bianco Biden il 31 maggio in un articolo per il New York Times, aggiungendo: “Non vogliamo prolungare la guerra solo per infliggere dolore alla Russia”. Lo ha ripetuto Zalmay Khalilzad, messo della Casa Bianca, all’ambasciatore russo Anatolij Antonov, nel corso di un pranzo non proprio segreto da Cafe Milano a Georgetown. “Serve un accordo”, ha detto Khalilzad. Su questo Antonov ha convenuto. E si è informato: “A che cosa dovremmo rinunciare, secondo voi?”. Senza entrare in particolari, Khalilzad si è informato su che cosa Putin vorrebbe per “normalizzare” i rapporti con gli Usa. Risposta: “Rispetto. E garanzie di sicurezza”. Prove di second track. Negoziato parallelo Russia-Usa, giacché il conflitto in Ucraina è dal punto di vista strategico una guerra russo-americana, con gli ucraini vittime sacrificali. Altre diplomazie si muovono più o meno sotterraneamente. Su tutte la turca. Erdogan ha marcato fin dall’inizio della guerra la sua semi-equidistanza fra Russia e Ucraina. Ora vuole cogliere i frutti di tanta acrobazia offrendosi (dis)onesto sensale nell’eventuale filo telefonico fra Putin e Zelensky. Per il presidente turco, che nel giugno prossimo dovrà mettere a rischio il suo mandato in elezioni che non ha già in tasca, affermarsi come mediatore di successo fra i due nemici sarebbe notevole innalzamento di status internazionale e di prestigio interno. Se, come e quando si arriverà alla tregua lo capiremo nelle prossime settimane. Più passa il tempo, più il conflitto può prendere una dinamica inarrestabile. Le conseguenze geopolitiche ed economiche della guerra stanno destabilizzando vaste aree africane e mediorientali, mentre è già oggi in questione la tenuta energetica e non solo di tutti i paesi europei, Italia inclusa. Il nostro governo, consapevole dei rischi anche se assai prudente nel comunicarli, è stato il primo a disegnare un ambizioso progetto di uscita dalla guerra per tappe, partendo dalla tregua (e magari finendo con essa). Draghi stesso, nella visita di maggio a Washington, ha segnalato a Biden l’urgenza del cessate-il-fuoco prima che tutto salti. Putin e Zelensky sono pronti a trattare sul serio? O forse intendono avviare un dialogo con il retropensiero di sabotarlo e attribuire all’altro la colpa del fallimento? Il ritiro russo dall’Isola dei Serpenti è segnale di buona volontà o finta sul ring? Le pressioni di alcuni Stati europei sulla Lituania perché ammorbidisca il mezzo blocco di Kaliningrad calmeranno le ansie di Mosca per il destino della sua exclave baltica? Contro un vero negoziato militano calcoli tattici e carenze strategiche. Quanto alla tattica, Mosca è ingolosita dalla prospettiva di potersi spingere nei prossimi mesi ben oltre il Donbass, lungo le piane fertili e ricche di grano che si aprono davanti alle sue armate. Mentre Kiev spera di resistere il tempo necessario per rifornirsi di armi efficienti e di truppe fresche, capaci di tamponare gli invasori. Per poi riprendere la strategica Kherson, sulla foce del Dnepr, da cui dipendono i rifornimenti d’acqua alla Crimea. Così Zelensky lascerebbe socchiusa la porta al futuro rovesciamento del fronte. La grande incognita è l’indefinitezza dei rispettivi scopi di guerra. Davvero i russi stanno ingaggiando un giro d’Ucraina a tappe che mira al traguardo di Kiev, non importa quanti mesi, anni o decenni serviranno? E gli ucraini credono sul serio nell’inversione del circuito, tale da recuperare tutti i territori rubati dai russi, inclusa la Crimea? Non illudiamoci: la tregua sarebbe ingiusta, perché lascerebbe l’aggressore in condizione di vantaggio. Ma la pace “giusta”, comunque la si voglia definire, implica la guerra a oltranza, all’ombra dell’atomica. Meglio una tregua imperfetta che il suo perfetto contrario. Libia. Abbandonati in mare per 9 giorni: muoiono 22 maliani di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 luglio 2022 La “guardia costiera” di Zawiya è intervenuta solo venerdì. La maggior parte dei 61 sopravvissuti sono ora in detenzione. Secondo i dati Oim quest’anno nel Mediterraneo centrale le vittime sono quasi 800. Erano tutti maliani i 22 migranti morti sul barcone partito dalle coste libiche di Zuara il 22 giugno scorso. Sono rimasti in mare per nove giorni, senza alcun aiuto. Solo venerdì 1 luglio è intervenuta la “guardia costiera” libica, il ramo di Zawiya, che ha raggiunto il barcone e riportato a terra 61 sopravvissuti. L’operazione sarebbe avvenuta all’interno delle acque territoriali libiche, anche se su questo elemento non ci sono conferme ufficiali. Alcuni dei migranti erano in gravi condizioni, soprattutto a causa di disidratazione e ipotermia. Tre sono stati trasferiti dal personale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nell’ospedale di Zawiya, altri in diverse strutture sanitarie della zona. Sono stati loro a raccontare che 22 compagni di viaggio, tra cui tre bambini, non erano riusciti a resistere tutto quel tempo trascorso alla deriva, sotto il sole cocente. Anche i superstiti sono per la maggior parte maliani. Con loro tre persone provenienti da Liberia, Guinea Conakry e Sierra Leone. Sette le donne e nove i bambini. La maggior parte sono finiti nel centro di detenzione di Al Maya. Le informazioni vengono dalla portavoce Oim a Ginevra Safa Msehli che ha diffuso la notizia nella serata di venerdì. “La continua perdita di vite nel Mediterraneo centrale è un dramma umanitario ma anche politico - afferma Msehli - Sappiamo che ci sono partenze e che la situazione in Libia è terribile. Chi viene intercettato finisce di nuovo in detenzione e nelle mani dei trafficanti. Però non vengono messe in campo operazioni istituzionali di ricerca e soccorso per evitare che avvengano queste tragedie, le Ong stanno facendo un lavoro enorme per riempire questo vuoto ma sono state lasciate sole. È una vergogna che la priorità non sia salvare vite umane”. Anche Flavio Di Giacomo, portavoce Oim per il Mediterraneo, sostiene che “queste morti sono evitabili. Non è accettabile che un barcone con oltre 80 persone non venga soccorso per nove giorni, che nessuno lo veda. L’insufficienza di un sistema di ricerca e soccorso in mare è palese”. Dall’inizio dell’anno quasi 800 persone sono scomparse lungo la rotta migratoria del Mediterraneo centrale. Si tratta dei morti accertati presenti nel database del progetto Missing Migrants, sempre di Oim. Ma i calcoli sono per difetto perché di tante persone si perdono le tracce. Il portale Sudan Tribune, ad esempio, ha diffuso nei giorni scorsi la notizia di 36 migranti, per la maggior parte sudanesi, annegati al largo della città libica di Al Khoms lunedì scorso. L’articolo cita le dichiarazioni di un’autorità di Karthoum. Il barcone sarebbe stato aggredito da una seconda imbarcazione, presumibilmente di contrabbandieri, con l’obiettivo di rubargli il motore. Questo avrebbe provocato l’affondamento. A bordo le persone sarebbero state una settantina. Al momento però non esistono conferme ufficiali da parte di autorità libiche o internazionali. Intanto la Geo Barents è arrivata ieri nel porto di Taranto dove sbarcherà 69 persone soccorse lunedì dopo che il gommone su cui viaggiavano è collassato. Una madre e il suo bebè sono stati evacuati d’urgenza lo stesso giorno, mentre a bordo c’è il cadavere di una donna incinta deceduta sulla nave umanitaria nonostante i disperati tentativi di rianimazione. 30 i dispersi del naufragio. Altri 228 naufraghi attendono un porto sulla Ocean Viking di Sos Mediterranée. Nella notte tra venerdì e sabato, invece, la Guardia costiera italiana ha salvato a 138 miglia a sud-est di Portopalo 140 migranti partiti dalla città libica di Tobruk. 66, di cui 15 minori non accompagnati, sono stati sbarcati a Portopalo (5 siriani e 61 egiziani). 74, tra cui 11 minori, a Siracusa. La notizia è stata data dal giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura. Nessun comunicato ufficiale da parte delle autorità italiane. Libia. Lo spettro di una nuova guerra civile. Crisi politica e proteste di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 luglio 2022 Un’ondata di manifestazioni violente da venerdì scuote il Paese, riproponendo lo spettro minaccioso della guerra civile diffusa: a scatenarle, la consapevolezza che l’impasse politiche non pare avere via d’uscita. Ha motivi scatenanti relativamente nuovi e però anche radici antiche l’ondata di proteste e manifestazioni violente che da venerdì scuote la Libia, addirittura riproponendo lo spettro minaccioso della guerra civile diffusa. “Vogliamo elettricità, basta con i tagli, non ne possiamo più!”, gridano le folle arrabbiate nelle piazze del Paese. A Tobruk due giorni fa hanno fatto irruzione nel parlamento e dato fuoco agli uffici. A Tripoli minacciano gli edifici pubblici assieme ai ministeri e la sede della Noc, la compagnia petrolifera nazionale. A Misurata, come a Bengasi e nei maggiori centri sulla costa, la gente ferma in coda ai benzinai vuoti esasperata dalle oltre 12 ore di blackout a oltre 40 gradi centigradi non teme più neppure la repressione muscolare delle milizie armate. Ma la causa che ha fatto precipitare la protesta nasce dalla consapevolezza diffusa per cui in questo momento l’impasse della politica pare non avere vie d’uscita e dunque i disagi sono destinati a restare, senza soluzioni in vista. Tra i motivi principali restano il prevalere degli interessi tribali che frammentano la società libica, assieme all’incapacità dei premier dei due governi di Tripolitania e Cirenaica a trovare un accordo che garantisca la formazione di una coalizione unitaria e dunque la preparazione di nuove elezioni. Negli ultimi tempi nel Fezzan sta addirittura crescendo un movimento di protesta che vede alleati fanatici dell’Isis ed elementi dei vecchi circoli legati all’ex regime di Gheddafi. Il fallimento giovedì scorso dei colloqui di Ginevra mediati dall’Onu ha sottolineato l’impotenza della comunità internazionale e allo stesso tempo la mancanza di leader locali in grado di andare oltre gli interessi immediati di parte in nome del bene comune. Ad aggravare la situazione c’è adesso anche la volontà di Mosca di esacerbare la litigiosità interna per bloccare l’export di gas e petrolio verso l’Europa, che infatti stanno cadendo ai minimi storici del periodo della guerra del 2011. Tutti i pozzi della Cirenaica sono chiusi e quelli della Tripolitania appaiono a rischio. Ieri il premier di Tripoli, Abdulhamid Dbaibah, è tornato a ribadire la necessità del voto il prima possibile. Ma persino il suo elettorato sa bene che si tratta di un paravento privo di qualsiasi concretezza. In realtà, le commissioni per la formulazione della legge elettorale sono bloccate ormai da anni. Non c’è intesa sulla eleggibilità di personaggi come lo stesso Dbaibah, oppure l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, e Saif al Islam, il figlio più politico di Gheddafi ricercato per “crimini di guerra” dal Tribunale Internazionale dell’Aja. Lituania condannata della Corte di giustizia europea per la detenzione dei richiedenti asilo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 luglio 2022 Incurante della condanna emessa il 30 giugno dalla Corte europea di giustizia, preceduta tre giorni prima da una dura denuncia di Amnesty International, il governo della Lituania ha fatto sapere che continuerà ad attuare la legislazione introdotta nel settembre 2021 in materia d’immigrazione e asilo. La sentenza della Corte ha stabilito che la normativa che impone la detenzione automatica delle persone che entrano illegalmente nel territorio della Lituania e nega loro di fatto il diritto d’asilo, è incompatibile con le leggi dell’Unione europea. Commentando quella sentenza, la ministra dell’Interno lituana Agne Bilotaite ha parlato di “un attacco ibrido della Bielorussia contro la Lituania”, dal quale per “interesse di sicurezza nazionale” “la Lituania si difenderà”. Il riferimento a “un attacco ibrido” porta all’estate del 2021, quando il regime bielorusso organizzò un cinico e ingannevole trasferimento di migliaia e migliaia di profughi, spesso provenienti da zone di conflitto del Medio Oriente e dell’Asia, garantendo loro un agevole ingresso nell’Unione europea. Un gesto dai più visto come una rappresaglia per le sanzioni imposte dai Ventisette. “Lo stiamo facendo per voi”, è stato l’ulteriore commento delle autorità lituane, rivolto agli stati dell’Unione europea. Il capo delle guardie di frontiera, Rustamas Liubajevas, ha ribadito che i respingimenti - oltre 10.000 nell’ultimo anno, secondo fonti ufficiali - sono l’unica soluzione efficace ammonendo che chi si mostrerà più morbido della Lituania rischierà di vedersi deviare i flussi alle proprie frontiere. La Tunisia torna autoritaria per Costituzione di Arianna Poletti Il Domani, 4 luglio 2022 La nuova legge fondamentale è stata scritta in un mese, in assenza del Parlamento, i cittadini l’hanno conosciuta solo una volta divenuta legge. Se confermata dal referendum senza quorum previsto a luglio, sostituirà quella del 2014, frutto di un difficile compromesso tra le parti politiche negli anni post rivoluzione e citata come modello perché garante di importanti diritti fondamentali. Il nuovo testo non prevede indipendenza dei giudici, né che il presidente renda conto. “La democrazia è un privilegio che non ci possiamo più permettere”, dice Marwa, insegnante, per le strade del mercato di Tunisi. “Noi, popolo tunisino, approviamo”. È con un lungo preambolo a nome del popolo con continui riferimenti alla thawra, la rivoluzione, che si apre il testo della nuova Costituzione della Tunisia, tanto da far pensare che si tratti del risultato di un processo collettivo e partecipato. A scriverlo, però, è un ristretto gruppo di esperti nominato direttamente da Kais Saied, presidente che dal 25 luglio dell’anno scorso tiene strette le redini del paese affiancato da un governo, senza parlamento. Dietro il progetto di Costituzione non c’è quindi un’assemblea costituente, ma un decreto presidenziale che a fine maggio ha istituito l’istanza detta “per la riscrittura della Costituzione”. In appena un mese, il testo era già pronto: Sadok Belaïd, accademico e presidente dell’istanza, l’ha consegnato al presidente tunisino il 20 giugno. I cittadini venivano informati dell’incontro attraverso i canali social della presidenza. In assenza di una conferenza stampa, nessuna informazione sulla bozza è trapelata fino al giorno della pubblicazione integrale sulla gazzetta ufficiale della Repubblica, giovedì 30 giugno. Inizia così il secondo luglio “caldo” della Tunisia, che si concluderà con un referendum costituzionale indetto il 25 luglio, festa della Repubblica nonché giorno in cui Saied ha congelato le attività del parlamento ormai un anno fa. Se dovesse venir approvata (come probabilmente accadrà, non essendoci un quorum), la nuova Costituzione sostituirà quella del 2014, frutto di un difficile compromesso tra le parti politiche negli anni post rivoluzione, spesso citata come modello perché garante di importanti diritti fondamentali. Elaborata dopo la caduta di Ben Ali, avrebbe dovuto proteggere il paese dal rischio di autoritarismo, attribuendo al presidente della Repubblica un ruolo marginale. Per otto anni, però, quel testo fondamentale lodato dalla comunità internazionale è stato costantemente violato perché presidenza, governi e parlamento non hanno mai nominato una Corte Costituzionale. Senza l’organo garante dell’effettivo rispetto della Costituzione, quindi, gli articoli sono rimasti una semplice traccia, difficile da far valere nei tribunali tunisini. A provarlo, è il destino della giustizia di transizione: “da maggio 2018, almeno dieci processi per la repressione violenta della rivoluzione hanno preso avvio presso le Camere penali speciali, istituite per occuparsi dei reati commessi durante la dittatura, ma non è stata emessa ancora alcuna sentenza. I funzionari del ministero dell’Interno attuale e passato si sono rifiutati di rispondere ai mandati di comparizione del tribunale”, ricordava in un comunicato Amnesty International in occasione dei dieci anni dalla rivoluzione di gennaio 2011. Senza Corte Costituzionale, il lungo percorso di transizione democratica della Tunisia, troppo spesso dato per assodato, in realtà non si è mai concluso. Gli stessi partiti che oggi si oppongono a Kais Saied in nome della “ritorno alla democrazia” - l’ex partito di maggioranza Ennahda in primis - hanno accuratamente evitato di portare a termine il processo democratico, ritardando per anni l’istituzione della Corte. Proprio a causa delle lacune di quello che è stato raccontato come “il modello tunisino” il paese oggi prende tutt’altra direzione. Il 25 luglio 2021, Kais Saied ha congelato le attività del parlamento appoggiandosi proprio su un’interpretazione dell’articolo 80 dell’ormai ex Costituzione, che prevede la possibilità di prendere generiche “misure eccezionali in situazione di pericolo imminente” con l’approvazione di governo e parlamento, che però non sono mai stati interpellati. Nei mesi che hanno seguito la decisione del presidente, un gruppo di avvocati e alcuni deputati dell’opposizione hanno tentato di far valere l’incostituzionalità di tale misura, senza mai riuscirci. Il testo fondamentale completerebbe quel processo di accentramento del potere e smantellamento dello Stato di diritto iniziato un anno fa dal presidente, mettendo nero su bianco quel funzionamento delle istituzioni che già trova conferma nei fatti e sancendo il ritorno all’iper-presidenzialismo della Tunisia. Il nuovo testo fondamentale stabilisce che “il Presidente della Repubblica esercita il potere esecutivo, assistito da un governo presieduto da un capo del governo da lui nominato”, governo che però non sarà presentato al Parlamento per ottenere la fiducia. Contrariamente alla Costituzione del 2014, l’indipendenza degli organi giudiziari non è garantita e il presidente non è tenuto in alcun modo a rendere conto delle proprie decisioni. Nonostante il parlamento torni quindi ad avere un ruolo marginale, la nuova Costituzione mette fine al monocameralismo, istituendo due camere: l’Assemblea dei rappresentanti del Popolo e una sorta di consiglio delle Regioni. Da mesi, infatti, circolano voci sulla volontà di Kais Saied di mettere al muro i partiti attraverso un nuovo sistema di assemblee regionali elette a suffragio universale diretto. Inizialmente, le dichiarazioni di Saied facevano pensare a una possibile riorganizzazione del parlamento per garantire maggiore rappresentatività ai territori. Una delle prime misure prese dalla presidenza, invece, è stata quella di accorpare il ministero delle collettività regionali - a cui i rappresentanti dei governatorati facevano riferimento - a quello dell’Interno. Secondo informazioni ottenute dal quotidiano Le Monde, i governatorati tunisini verranno presto ridotti da ventiquattro a quattro macro-regioni. Quanto ai deputati delle due camere, verranno eletti a dicembre 2022. Non si sa ancora secondo quale legge elettorale, e se questa includerà i partiti. Nonostante il progetto di Costituzione continui, almeno in teoria, a garantire alcuni diritti fondamentali come la libertà di stampa, il diritto allo sciopero (ma non per giudici, polizia ed esercito) o quello di manifestare, alcuni articoli restano molto vaghi o di dubbia interpretazione, come quello sul “diritto alla vita”, “sacro e intoccabile se non in casi estremi determinati dalla legge”, che potrebbe essere invocato per limitare l’accesso all’aborto, legale in Tunisia dal 1973. Un articolo simile era però già presente nella Costituzione del 2014. Al di là delle garanzie date dal testo, nella Tunisia di Kais Saied continuano ad aumentare gli abusi delle forze di polizia nei confronti di qualsiasi opposizione, a partire dalla stampa, così come l’uso della giustizia militare per processi civili. “La democrazia è un privilegio” - A un anno di distanza dalla presa di potere del Presidente, le voci critiche legate alla società civile o al mondo degli intellettuali si moltiplicano. Kais Saied continua però a godere del sostegno silenzioso di buona parte della popolazione, che considera la svolta autoritaria una tappa necessaria per eradicare la corruzione. “La democrazia è un privilegio che non ci possiamo più permettere”, riassume Marwa, insegnante, per le strade del mercato di Tunisi. Per una parte dell’opinione pubblica tunisina, infatti, partito è sinonimo di clientelismo, e Kais Saied non aveva altre opzioni se non quella di escludere il parlamento dalla vita pubblica. Eletto nel 2019 con il 70 per cento dei consensi contro Nabil Karoui, un uomo d’affari tunisino accusato di corruzione, Saied ha promesso in campagna elettorale una sorta di operazione “mani pulite” nel paese, facendo leva sulla rabbia dell’opinione pubblica nei confronti di quella manciata di famiglie che continuano a spartirsi buona parte dell’economia tunisina sfruttando, effettivamente, appoggi politici. Per ora, però, cause e arresti sembrano prender di mira non tanto l’élite economica, quanto quella politica. A finire in tribunale sono gli esponenti del partito d’ispirazione islamica Ennahda o quelli del suo alleato più radicale, Al-Karama. Il 23 giugno, la polizia ha arrestato l’ex premier di Ennahda, Hamadi Jebali, con l’accusa di riciclaggio. Appesi al Fondo monetario - Più che le manifestazioni di piazza portate avanti dai partiti di opposizione, a far traballare il consenso silenzioso di cui gode Saied potrebbero essere le decisioni che il governo sarà costretto a prendere nei prossimi mesi in caso di accordo con il Fondo monetario internazionale. A fine giugno, l’Fmi ha annunciato di aver ricevuto l’ok da parte del governo di Najla Bouden per procedere con nuove negoziazioni. In cambio di una tranche di aiuti che permetterebbe alla Tunisia di evitare un non improbabile default, a Kais Saied toccherà giustificare all’opinione pubblica l’impopolare taglio dei sussidi ai generi alimentari di prima necessità come il pane, proprio nei mesi in cui il prezzo della farina non fa che aumentare. In un contesto di aumento dell’inflazione - che torna a raggiungere le percentuali del periodo pre rivoluzione del 2011 - nuove proteste di piazza combinate a un regime iper-presidenziale rischiano di tradursi in un aumento della repressione. Stati Uniti. I diritti dopo la sentenza sull’aborto: le leggi non bastano, c’è bisogno della lotta di Alessandra Algostino Il Manifesto, 4 luglio 2022 La sentenza della Corte Suprema Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization che ha cancellato il diritto di aborto negli Stati uniti rappresenta una prepotenza dirompente che ci scaraventa indietro di decenni. Essa mostra la fragilità e insieme la forza dei diritti: ci ricorda il legame fra diritto e società e fra diritti e lotta; ci richiama al senso del costituzionalismo; ci interroga sul ruolo dei giudici; ci stimola ad agire per l’attuazione del diritto. Diritti e conflitti. I diritti nascono nei conflitti, dai conflitti: non sono dati per sempre, ma vivono contestualizzati nella storia, esito di rapporti di forza e di lotte. I diritti, cioè, sono calati nelle vicende umane e ne vivono le dinamiche. Questo a un tempo rappresenta una debolezza, li può rendere fragili di fronte al potere (patriarcale, coloniale, di classe…); dall’altro, ne testimonia la forza, data dal loro radicamento nello snodarsi delle esistenze nel tempo. Diritti e Costituzioni. Le costituzioni tentano di mettere al riparo dalle turbolenze della storia dignità, libertà, uguaglianza, e, nella versione più avanzata, un progetto di giustizia sociale. Costituiscono validi argini, ma il diritto è anch’esso un fenomeno sociale che ha con la realtà un rapporto allo stesso tempo conformativo e recettivo: regola la vita sociale e insieme traduce quanto si manifesta nella società. Le costituzioni sono la legge suprema, fondano i diritti e limitano il potere con la forza del diritto “più alto”: sono il terreno sul quale appoggiarsi per rivendicare diritti, denunciare violazioni, chiedere giustizia, ma possono essere oggetto di interpretazioni che ne contraddicono il senso o essere abbandonate, sovrastate da una differente egemonia. Resta tuttavia che esse presentano anche una eccedenza oltre il loro essere al vertice delle fonti: esprimono la tradizione giuridica del costituzionalismo, principi che con fortune alterne nel corso della storia sono stati affermati per limitare il potere e garantire i diritti. In questo senso le costituzioni attraversano il tempo: si fondano sul passato, garantiscono per il presente, si proiettano nel futuro. Il ruolo dei giudici. Nelle aule universitarie si insegna che la magistratura è strumento di garanzia dei diritti, che la Corte costituzionale è organo di tutela della Costituzione che quei diritti sancisce. Questo è vero, ma non è l’unica storia. La vicenda della Corte suprema Usa che in pochi giorni ha eliminato il diritto all’aborto, rafforzato il diritto di portare le armi, aperto il cammino ad una generalizzata regressione nella tutela dei diritti, ci ricorda che i giudici possono anche restringere i diritti, chiudere attraverso l’interpretazione spazi di libertà e uguaglianza. E il pensiero va, fra gli ahimè tanti esempi, all’accantonamento dell’utilità sociale come limite e indirizzo dell’iniziativa economica (articolo 41 della nostra Costituzione), ma anche ai molti processi oggi intentati nei confronti di chi dissente, di chi è solidale, di chi vive una situazione di disagio. Una ambiguità strutturale? Un potere che è allo stesso tempo contropotere? Effettività dei diritti. Il pericolo di ripercussioni della pronuncia statunitense in Italia è tutt’altro che remoto e già aleggia nei discorsi di questi giorni, rinvigorendo insistenti attacchi al diritto ricorrenti negli ultimi anni. Ma la questione non è solo il rischio che proviene da oltreoceano; in Italia il diritto all’aborto è già dimidiato dalle difficoltà che incontra la sua concretizzazione, a partire dalla disponibilità di medici ad eseguirlo. Non è sufficiente sancire un diritto, occorre garantirlo sul piano dell’effettività, della concretezza. La nostra Costituzione in questo è maestra, laddove considera il “fatto”, gli ostacoli, la realtà: per giungere ad una trasformazione materiale e non solo proclamata, ad una uguaglianza sostanziale e non solo formale. Occorre esigere la possibilità concreta di esercitare il diritto, su tutto il territorio, a livello di informazioni, strutture e personale. Non solo: l’effettività ci ricorda come la mancata concretizzazione di un diritto agisca da moltiplicatore delle diseguaglianze (se un servizio pubblico sul territorio non garantisce il diritto di aborto, solo chi ha gli strumenti, sociali ed economici, potrà esercitarlo rivolgendosi altrove). La sentenza della Corte suprema genera amarezza, rabbia, anche sconforto per la perdita di quanto si pensava acquisito. La via è sempre la stessa: la lotta per i diritti, che non può che essere permanente, nella consapevolezza che la Costituzione, il costituzionalismo, possono essere degli alleati perché sono dalla stessa parte, contro il dominio, nelle varie forme in cui esso può manifestarsi. Stati Uniti. Afroamericano ucciso dalla polizia con 60 colpi: video shock come per Floyd di Massimo Basile La Repubblica, 4 luglio 2022 Era disarmato. Proteste In Ohio, nella città di LeBron. I video non fermano le pallottole ma evitano che la morte di qualcuno finisca nell’oblio. Stavolta le immagini, definite dalla stessa polizia “sconvolgenti” e “difficili da vedere”, sono quelle che documentano la morte di Jayland Walker, 25 anni, ex dipendente Amazon, ucciso dai poliziotti, che gli hanno scaricato addosso almeno una sessantina di colpi dopo un inseguimento in auto. È successo ad Akron, Ohio, città dove è nato il campione di basket LeBron James, che ha commentato: “Prego per la mia città”. Centinaia di persone sono scese in strada per contestare la brutalità della polizia. L’episodio è avvenuto lunedì, ma il caso è diventato nazionale dopo che la polizia ha annunciato il rilascio del video shock registrato dalle body cam in dotazione ai poliziotti. Video poi diffusi. Walker, che lavorava per un’app di consegne di cibo a domicilio, era a bordo di un’auto quando, per un’infrazione stradale, non si è fermato all’alt della polizia. Da quel momento è partito l’inseguimento. La polizia sostiene che Walker abbia sparato con una pistola, ma i familiari dicono che non è vero. Dopo un breve inseguimento, il giovane afroamericano è uscito di corsa dall’auto e si è messo a correre lungo un parcheggio. Qui gli agenti lo hanno raggiunto. Due avrebbero provato a fermare Walker usando il Taser, la pistola paralizzante, prima che in otto sparassero una novantina di colpi, dei quali almeno sessanta andati a segno. Walker è morto subito. Tutti e otto i poliziotti sono stati sospesi in attesa che l’inchiesta ricostruisca l’episodio. Negli Stati Uniti, a meno che non si sia bianchi o platealmente arresi, i poliziotti non mirano mai alle gambe, ma al petto, alla testa. È successo così anche stavolta. L’avvocato della famiglia della vittima, Bobby DiCello, ha confermato il ritrovamento di novanta bossoli. “Ci sono ferite in tutte le parti del corpo”, ha aggiunto DiCello. La polizia ha detto di aver recuperato la pistola usata dal giovane, ma i familiari contestano questa versione. Un’arma spunta spesso quando qualcuno viene ucciso dagli agenti. Adesso restano il dolore e la rabbia, amplificati dal video, la cui diffusione potrebbe infiammare la protesta. Il sindaco di Akron, il democratico Daniel Horrigan, ha annullato la festa in programma per il 4 luglio, Independence Day. “Questa - ha spiegato - è la festa in cui si riuniscono le famiglie e gli amici. Non è il momento per una celebrazione”. Secondo il Washington Post, l’anno scorso sono state 1.040 le persone uccise dalla polizia. Metà erano bianche, ma gli afroamericani sono colpiti in una misura sproporzionata: negli Stati Uniti sono soltanto il 13 per cento della popolazione, ma muoiono il doppio dei bianchi per mano della polizia. E nella maggior parte dei casi non c’è un video che possa aiutare a chiedere giustizia. Russia. Scienziato muore a Mosca in carcere: “Spiava per la Cina” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 4 luglio 2022 Dmitrij Kolker era malato di cancro ma era stato comunque messo in cella e trasferito dalla Siberia alla capitale. Gli ultimi istanti di vita racchiusi in uno scarno telegramma ai familiari: “Vi informiamo che il detenuto Dmitrij Borisovich Kolker il 2 luglio è stato trasferito nel centro medico GKB-2 dove è morto alle 2.40”. Il noto scienziato russo è morto così: in un ospedale carcerario, lontano da famiglia e amici. Era un malato terminale: quarto stadio di cancro al pancreas. Il 29 giugno era stato ricoverato in una clinica privata di Novosibirsk. Alle sette del mattino seguente l’irruzione delle forze di polizia. Prelevato dal suo letto di ospedale, Kolker è stato trasferito in volo a Mosca dove è stato incarcerato nel famigerato centro di detenzione cautelare Lefortovo di Mosca. “Un malato che stava per morire e che si nutriva attraverso un tubo in vena. Il procuratore dice che lì a Mosca le condizioni sono ottime, c’è anche un frigorifero. Mio padre mangia da un tubo in vena, non da un frigorifero”, aveva protestato il figlio Maksim. “Questa è una forma sofisticata di tortura. Papà non può camminare, mangiare o prendersi cura di sé”, aveva commentato la figlia Alina Mironova, condividendo alcune foto del padre scattate nel giorno del ricovero, alla vigilia dell’arresto. Un uomo scheletrico, guance scavate, ciuffi sparsi di capelli. Un fantasma di se stesso. “Il quarto stadio del cancro al pancreas è già una sentenza. Ma scontarla tra le mura di un centro di custodia cautelare senza cure mediche adeguate è la cosa peggiore che possa capitare”. In carcere Kolker non è durato neppure un paio di giorni. “L’Fsb ha ucciso mio padre. Grazie Paese mio!!!”, ha scritto ieri il figlio Maksim sul social russo VKontakte pubblicando una foto del telegramma delle autorità carcerarie. L’ultimo affronto. Kolker, 54 anni, era un brillante scienziato: dottore in fisica e matematica, detentore di molti brevetti, era a capo del laboratorio di tecnologie ottiche quantistiche presso l’Istituto di fisica laser della filiale siberiana dell’Accademia delle scienze russe e dell’Università statale di Novosibirsk, nonché professore presso il Dipartimento di sistemi laser. Era stato condannato a due mesi di detenzione cautelare con l’accusa di “tradimento di Stato” e “spionaggio” per uno “Stato straniero”, reato punibile con vent’anni di carcere. Aveva tenuto alcune lezioni a una conferenza internazionale in Cina, dove peraltro era stato sempre accompagnato da un agente dell’Fsb ed era stato obbligato a comunicare solo in russo per evitare che diffondesse informazioni sensibili. Lezioni che teneva regolarmente in Università. Nessun tradimento, solo un pretesto, secondo il figlio: Kolker si sarebbe rifiutato di testimoniare contro due colleghi, Sergej Bagaev e Aleksej Taichenachev, accusati di frode. Nei giorni scorsi, un altro scienziato di Novosibirsk, Anatolij Maslov, 75 anni, è stato detenuto e trasferito a Mosca con la stessa accusa. E negli ultimi cinque anni, almeno 12 impiegati della filiale siberiana dell’Accademia russa delle scienze sono stati perseguiti. Non è una novità. In Russia gli scienziati sono regolarmente accusati di spionaggio e condannati in casi a volte molto controversi. Il caso più clamoroso è stato quello di Viktor Kudryavtsev dell’Istituto di ricerca centrale per la costruzione di macchine, avviato nel 2018: detenuto a Lefortovo per oltre un anno e poi posto agli arresti domiciliari, è morto a 77 anni nel 2021 senza mai essere stato processato. Il suo studente Roman Kovalyov, condannato per tradimento nel 2020, è morto lo scorso aprile dopo essere stato liberato perché malato di cancro.