Le garanzie processuali? Sono roba da ricchi di Paolo Biondani L’Espresso, 3 luglio 2022 “Siamo immersi sino al collo in una giustizia classista. C’è ormai un processo a due velocità che fluisce rapido e senza intoppi esclusivamente nei confronti degli ultimi della terra”, così Nello Rossi, che dopo una lunga carriera giudiziaria oggi è direttore editoriale di Questione giustizia. Scontri furibondi e denunce penali tra magistrati. Giudici indagati o arrestati per reati gravi. Scandali e misteri perfino nella lotta alla mafia. Processi lentissimi, norme incerte, sentenze contrastanti. E cittadini sempre più sfiduciati. La giustizia italiana attraversa una crisi profonda, strutturale. Per capirne le cause e i possibili rimedi L’Espresso ha intervistato Nello Rossi, che dopo una lunga carriera giudiziaria oggi è il direttore editoriale di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, storico laboratorio di pensiero e riforme giuridiche progressiste. La magistratura, che in passato riuscì a resistere ai peggiori attacchi esterni, oggi attraversa una crisi interna senza precedenti, amplificata da vicende emblematiche come il caso Palamara. Come se ne esce? Servono leggi diverse? Controlli ispettivi più severi? “Il caso Palamara? Innanzitutto chiamiamolo con il suo vero nome: caso Palamara - Ferri, dai nomi dei due principali protagonisti degli incontri dell’hotel Champagne. A partire da quello scandalo è nata una crisi che non passa e che rischia di innescare una spirale distruttiva di una struttura fondamentale dello Stato democratico di diritto. Come se ne esce? In primo luogo distinguendo tra i fatti, emersi dall’indagine di Perugia, e la narrazione, offerta da una parte dei medita sulla scia del best-seller di Sallusti e Palamara”. Se è vero che Palamara è stato radiato e inquisito per corruzione, il suo caso non si può liquidare come isolato o marginale: centinaia di giudici lo votavano e si riconoscevano in lui… “L’indagine ha svelato una storia brutta e grave di amministrazione distorta delle nomine, scoperchiando un verminaio di ambizioni personali, manovre di corridoio, sotterranee compromissioni con la politica. Nel ruolo di protagonisti sono emersi i rappresentanti della magistratura più clientelare e più corporativa. Grazie però alle abili cure di Sallusti, il vero dominus del racconto a due voci, la realtà dei maneggi sulle nomine si è trasformata in una narrazione completamente diversa. Una storia di condizionamento della giustizia italiana ad opera di un cosiddetto “sistema”, egemonizzato da una fantomatica sinistra giudiziaria. Il tutto senza addurre uno straccio di prova o di casi concreti. Palamara da manovratore è stato presentato come succube e vittima, mentre la parte più compromessa della magistratura si è defilata silenziosamente. Se non si ristabilisce un minimo di verità su tutto questo, la crisi è destinata a durare all’infinito, perché non si capirà in quale direzione ricercare rimedi realmente efficaci”. Autorevoli magistrati, avvocati e giuristi parlano da tempo di degenerazione delle correnti. Cosa pensa della recente riforma del Csm, che ha l’obiettivo proclamato di ridurne il peso? “Il sistema elettorale approvato dal Parlamento ha una netta curvatura maggioritaria che non convince. Quando il Csm decide sulle nomine o su altre questioni istituzionali, l’esistenza di una maggioranza predeterminata a priori è il peggio che possa capitare. Comunque, qualsiasi sistema elettorale non produrrà i frutti sperati senza una rigenerazione della democrazia interna alla magistratura. Alla questione morale si può rispondere con i procedimenti disciplinari e penali. Ma per restituire vitalità e correttezza al governo autonomo della magistratura occorre affrontare di petto la questione democratica, contrastando le oligarchie e promuovendo più discussione collettiva, più riflessione comune, più ricerca di un’etica condivisa. E ciò rimanendo fedeli al modello costituzionale, che parla di elezioni senza imboccare il vicolo cieco del sorteggio in tutte le sue fantasiose versioni. Un magistrato isolato non sarebbe più colto, né più indipendente, né più consapevole del suo ruolo e della necessaria imparzialità”. Molte delle ultime riforme penali hanno indebolito la pubblica accusa in nome di un garantismo che però premia soprattutto i colletti bianchi, mentre le carceri restano piene di detenuti per droga e invivibili. Emblematico il tema dell’impunità per prescrizione, che si doveva abolire e invece è raddoppiata con la cosiddetta improcedibilità. Stiamo tornando a una giustizia classista, debole solo con i forti? “Ma siamo già immersi sino al collo in una giustizia classista! C’è ormai un processo a due velocità che fluisce rapido e senza intoppi esclusivamente nei confronti degli ultimi della terra. Purtroppo è solo al di fuori di questa area che si comincia a discutere di garanzie e di ragionevole durata del processo. Diciamolo con chiarezza: un processo penale come il nostro, articolato in tre gradi di giudizio e fitto di subprocedimenti, non può essere breve. Occorreva moltiplicare le alternative al dibattimento, snellire le impugnazioni. La riforma Cartabia lo ha fatto solo in parte. E si è creduto di poter rimediare a questi vuoti mandando al macero i giudizi di impugnazione che superano una certa durata. Il macero: è questo il vero significato della formula esoterica “improcedibilità”. Era nettamente preferibile il sistema introdotto dalla legge Orlando”. La giustizia civile è un disastro quasi ovunque, con tempi infiniti, procedure cavillose e norme incerte, eppure se ne parla pochissimo… “È del tutto ovvio che non si vive bene, e non si investe, in un Paese in cui recuperare un credito, far rispettare un contratto, risolvere una controversia di lavoro, avere una causa con il fisco sono operazioni troppo lunghe e incerte. Perciò il Pnrr è mirato sulla giurisdizione civile e tributaria. Bisogna rinunciare ai troppi orpelli e semplificare. Molto si spera dal potenziamento dell’ufficio del processo, uno staff di collaboratori qualificati dei giudici, che dovrebbe aumentare il numero e accelerare i tempi delle decisioni senza uno scadimento di qualità. È una scommessa difficile ma si può vincere”. Alla strage di via D’Ameno è seguita la peggior indagine antimafia degli ultimi trent’anni: un’offesa alla memoria di Paolo Borsellino, un tradimento dei suoi insegnamenti. Come si spiega che un falso pentito sia diventato l’architrave di processi e condanne confermate? Perché nessun magistrato ha pagato per quello scandalo? “Quella vicenda è al tempo stesso un terribile errore giudiziario e un fittissimo ginepraio. E non sarò certo io, che non me ne sono occupato, a poterlo districare. Posso dire che, quando non si rispettano le regole, arrivano frutti avvelenati. E le cronache parlano cli numerose e gravi anomalie nelle prime indagini, tra cui colloqui riservati con il pentito e contatti con i Servizi. Purtroppo è morto il procuratore Tinebra, che in quel processo ha avuto un ruolo primario. Certamente vi sono state gravissime carenze di professionalità nella valutazione della credibilità del pentito e nella ricerca di riscontri. E così si è aperta la strada ai depistaggi. Sa perché l’errore giudiziario toglie il fiato anche ai magistrati che non l’hanno commesso? Perché è sempre un errore collettivo, una falla del sistema, una enorme ferita, prodotta da tante azioni e distrazioni inammissibili, sulla pelle di un innocente”. I laici del Csm contro Salvi per la gestione dello scandalo Palamara di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 luglio 2022 I componenti laici del Consiglio superiore della magistratura criticano il mancato esercizio dell’azione disciplinare da parte del pg della Cassazione, Giovanni Salvi, nei confronti di tante toghe coinvolte nelle chat di Palamara. La componente laica del Consiglio superiore della magistratura (quella eletta dal Parlamento) è in subbuglio rispetto a quanto sta emergendo sulla gestione dello scandalo Palamara da parte del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe. Nei giorni scorsi abbiamo raccontato di come lo scandalo, sul piano disciplinare, si sia risolto in una sorta di amnistia generalizzata, se si esclude la punizione di pochi capri espiatori. Contattato dal Foglio, il pg Salvi (in pensione dal 9 luglio) si è sottratto a qualsiasi confronto, chiudendo bruscamente la telefonata. Il pg ha invece scelto di rilasciare un’intervista al Corriere della Sera, che però si è rivelata un boomerang. Nell’intervista, infatti, Salvi ha risposto alle critiche affermando di aver esercitato in seguito allo scandalo Palamara 29 azioni disciplinari, che hanno portato a 20 rinvii a giudizio e 14 sanzioni. “Numeri miseri”, commenta con il Foglio l’avvocato Stefano Cavanna, membro laico del Csm, ricordando che nelle famose chat di Palamara risultarono coinvolte centinaia di magistrati. “Certo - aggiunge Cavanna - in queste conversazioni alcuni facevano semplicemente gli auguri di Natale a Palamara, ma moltissimi magistrati sono apparsi inseriti in quel sistema fatto di autopromozioni, raccomandazioni, denigrazione dei concorrenti e tentativi di influenzare le scelte del Csm”. Come è possibile che la montagna di condotte scorrette emersa dalle chat di Palamara abbia prodotto questi miseri numeri? La risposta è da rintracciare innanzitutto nelle circolari con cui il pg Salvi ha stabilito di non ritenere illecito disciplinare l’autopromozione praticata dai magistrati con Palamara per ottenere le nomine, così come le “condotte scorrette gravi” caratterizzate da “scarsa rilevanza”. C’è poi il grande tema della discrezionalità con cui il pg ha deciso di archiviare (o di non avviare neanche) l’azione disciplinare nei confronti delle toghe, su cui esiste un muro di segretezza di fatto impenetrabile. La procura di Perugia, che ha indagato su Palamara, ha però trasmesso alcuni atti direttamente al Csm per la valutazione di possibili casi di incompatibilità ambientale e funzionale dei magistrati. In diversi casi è così emerso il palese coinvolgimento di numerose toghe nell’attività clientelare e spartitoria messa in piedi da Palamara e dalle altre correnti. Si è anche scoperto, però, che diverse di queste toghe non sono state sottoposte ad azione disciplinare. Cavanna è tra i membri laici che negli ultimi mesi hanno lamentato nelle discussioni al Csm il mancato esercizio dell’azione disciplinare da parte della procura generale della Cassazione. Il caso più emblematico riguarda Anna Canepa, pm della procura nazionale Antimafia e antiterrorismo. Pur essendo stata beccata a chattare con Palamara, prima per raccomandare un collega per la guida della procura di Savona (definendo gli altri due concorrenti dei “banditi incapaci”) e poi per caldeggiare la nomina di un altro collega alla Dna (cioè al suo stesso ufficio), Canepa non è stata sottoposta ad alcuna azione disciplinare. “Mi sembra una cosa siderale - dice Cavanna - Sembra di essere nella giungla: se ho un amico forte faccio quello che voglio o almeno ci provo. Ma ci sono tanti altri casi simili, come quelli che riguardano i magistrati Massimo Forciniti, Donatella Ferranti, Valerio Fracassi”. “Come mai non sono stati sottoposti ad azione disciplinare?”, si chiede il membro laico. “Da avvocato e da cittadino mi stupisco. Oddio, ormai non mi stupisco più, perché so che il Csm è il regno del più forte, però francamente sono deluso e non mi posso meravigliare se la magistratura sia ai minimi storici in termini di credibilità”. La risposta alla domanda, comunque, la fornisce lo stesso Cavanna: “La procura generale può fare virtualmente quello che vuole, senza dare conto a nessuno. Nella giustizia ordinaria, il gip decide sulla richiesta di archiviazione del pm, disponendo l’archiviazione, oppure il proseguimento delle indagini e in certi casi estremi persino l’imputazione coatta. Questa è una garanzia del sistema, altrimenti il pm può fare quello che vuole. L’opposto di ciò che invece succede nel giudizio disciplinare dei magistrati, dove la procura generale ha un potere assoluto, che si trasforma in potere autoassolutorio”. Non è tutto. Nell’intervista al Corriere della Sera, Salvi si è anche attribuito il merito di aver pubblicato “le sintesi delle decisioni di archiviazione”. I componenti laici sono trasecolati: nessuno sapeva niente di queste “sintesi”, al Csm non se n’è mai parlato. Una volta scoperta l’esistenza di queste “sintesi” (definite “massime”), pubblicate sul sito della procura generale della Cassazione, i consiglieri del Csm hanno pure constatato la loro inutilità: “Si tratta di attività di massimazione del tutto inutile a qualsiasi fine specifico del Csm - afferma Cavanna - Queste massime sembrano più rivolte a studiosi e difensori per individuare criteri generali di condotta della procura in merito a tale potere esercitato in piena autonomia. Si tratta, in sostanza, di un ‘niente’, superfluo e fuori tema rispetto ai casi macroscopici trattati recentemente dalla prima commissione e dal plenum. Sembra una presa in giro”. Inutilità a parte, l’elemento più paradossale è che i membri laici siano venuti a conoscenza di queste “massime” solo ora, a poche settimane dalla fine della consiliatura. Sembra una barzelletta, ma si chiama Csm. Referendum. La piattaforma della firma online può attendere di Stefano Iannaccone e Carmine Gazzanni Verità & Affari, 3 luglio 2022 La piattaforma nazionale per raccogliere le firme digitali, utili a promuovere un referendum, non c’è ancora. La promessa del ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, Vittorio Colao, è scaduta ormai da sei mesi. Il Garante della privacy e del ministero della Giustizia hanno infatti bocciato, qualche settimana fa, la bozza predisposta dagli uffici di Palazzo Chigi. L’Authority, che controlla la corretta gestione dei dati personali, aveva evidenziato “carenze assai significative”, perché non c’era “una adeguata valutazione degli specifici rischi per i diritti e le libertà costituzionali degli interessati”. Osservazioni molto severe, che hanno causato una riscrittura del testo del dipartimento affidato all’ex manager. Così, all’orizzonte, non si scorge ancora una nuova data per il rilascio della piattaforma che dovrebbe incentivare la partecipazione. La stima informale, nella più ottimistica delle ipotesi, è di qualche altra settimana, ma potrebbe slittare tutto in autunno. Accumulando ulteriore ritardo. Eppure già nell’estate scorsa, sull’onda della nuova norma che dava la possibilità di raccogliere le firme in formato digitale per richiedere referendum, Colao aveva assunto un solenne impegno: “Entro l’1 gennaio 2022, come previsto dalla legge, verrà sviluppata, testata e rilasciata una piattaforma sicura e integrata con l’anagrafe nazionale della popolazione residente”. Lo strumento avrebbe permesso di “sottoscrivere le proposte referendarie, previo accesso remoto sicuro mediante Spid o Cie, con la contestuale validazione temporale delle sottoscrizioni”. La scadenza è stata ampiamente oltrepassata. Attualmente le firme digitali possono essere raccolte con il ricorso a un’infrastruttura privata e con conseguenti costi per chiunque voglia portare avanti una campagna per indire un referendum. Solo per mettere in moto l’iter occorrono 2mila euro. Per la certificazione di ogni sottoscrizione, secondo quanto apprende Verità & Affari, bisogna poi spendere circa un euro e mezzo. Un investimento niente male. Basti pensare che per depositare in Parlamento una legge di iniziativa popolare servono sono necessarie 50mila firme. L’esborso è di circa 75mila. Per i referendum il costo è ancora più significativo: è necessario raggiungere un minimo di 500mila sottoscrizioni, più una soglia di sicurezza minima di altri aderenti. Ne sanno qualcosa Fratelli d’Italia, che, con Giorgia Meloni capofila, ha avviato una campagna per una consultazione sulla riforma della Costituzione in senso presidenziale, e Possibile, il partito fondato da Giuseppe Civati, che è tuttora impegnato a raccogliere firme per una legge di iniziativa popolare sul salario minimo. La questione è stata denunciata con un’interrogazione alla Camera dal deputato di +Europa, Riccardo Magi. “Credo che dobbiamo fare davvero di tutto per evitare che accada quanto spesso avviene nel nostro Paese nei tentativi di digitalizzazione e di innovazione tecnologica “, sottolinea il deputato. Quella solita tendenza, secondo cui per ragioni burocratiche, una “riforma tanto attesa e che sarebbe risolutiva, non vede la luce”. Una prospettiva che il governo, almeno nelle intenzioni, vuole scongiurare. “Abbiamo recepito le osservazioni e predisposto una versione aggiornata dello schema di decreto”, ha garantito Colao. “Siamo in procinto” ha aggiunto “di inviare per opportuna conoscenza al garante e al ministero della Giustizia, con la richiesta di concerto, unitamente a un manuale operativo, contenente già le specifiche tecniche di funzionamento”. Pietrostefani la faccia finita e dica la verità, prima che cali l’oblio di Pino Corrias Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2022 L’omicidio Calabresi. 50 anni dopo non serve il patibolo, ma sta a lui tornare e raccontare. Per mettere fine alle trappole di menzogna, di connivenza e di finto garantismo che il suo silenzio e quello di troppi altri hanno innescato. A far data dall’omicidio Calabresi, 17 maggio 1972, sono passati giusto cinquant’anni, cioè almeno tre se non addirittura quattro generazioni di inconsapevoli ragazzi che nulla sanno di quella che chiamammo la “Rivoluzione delle aspettative crescenti”. Bisognerebbe chiuderla, prima o poi, quella coda fiammante che manda ancora - a intermittenza, stavolta da Parigi dove dieci ex militanti si sono imprigionati al loro passato - il fumo e le ceneri di quel che accadde in Italia in quegli anni. E delle conseguenze per prima cosa sgocciolate nel sangue delle vittime - 350 morti, mille feriti dal 1969 al 1982, 5 mila incarcerati, altrettanti inquisiti - poi nelle lacrime dei familiari che restavano, in quelle dei colpevoli divisi tra irriducibili, dissociati, pentiti, quindi nelle paranoie di chi scappava per dieci anni, vent’anni, trent’anni. E infine nella comoda furbizia di chi la sfangava senza troppi danni, o addirittura nessuno, rimanendo dov’era, passando da capo politico a editore, da responsabile del Servizio d’Ordine a senatore, da ideologo a professore universitario, direttore di giornale, o persino titolare di discoteche, come capitò a certi peggiori che militavano tra i katanghesi di Milano. Ho conosciuto parecchi soldati e avventurieri della lotta armata. Dai brigatisti del nucleo storico, agli epigoni senza storia delle ultime Brigate rosse, sciocchi fino alla crudeltà. Ho ascoltato il dolore delle loro vittime, per esempio quello del figlio di Torreggiani, il gioielliere ucciso dai Proletari armati per il comunismo, anno 1979. Ho registrato e raccontato le piccole ragioni e i grandi torti dei renitenti al rendiconto, come capitò a Toni Negri, che pure preparava il suo ritorno in Italia, destinazione, Rebibbia, espatriati a Parigi, in Nicaragua, Brasile, Africa. I quali la buttavano in politica fin che potevano, come ha fatto Cesare Battisti, arrivato fino in Bolivia con il suo filo di menzogne, per poi ammettere le colpe e le ragioni della propria storia, appena catturato e solo all’ultimo chiedere scusa. Sarebbe ora che un tipo come Giorgio Pietrostefani, 79 anni, da una ventina latitante a Parigi, tornasse non tanto per espiare la sua condanna a 22 anni di carcere, non lo vuole neppure la vedova del commissario Calabresi, non lo vuole il figlio, ma per chiudere il cerchio di quel pezzo della nostra storia - che fu disastrosamente generazionale, ma ancora per un po’ patrimonio e insegnamento per tutti - prima che a farlo sia la dimenticanza collettiva tramite il malanno e l’anagrafe. L’esatto contrario di quel che auspica Paolo Mieli nel suo Terapia dell’oblio che vale nell’ambito dei sentimenti, forse, un po’ meno in quello storico. E il conto su quegli anni non lo può chiudere solo la verità formale, già accertata nei processi, nella collettiva ricostruzione degli eventi. Ma in quella sostanziale, raccontata dai singoli che ne furono artefici, con tutti i furori di allora a illuminare le storte ragioni che da un momento all’altro potrebbero tornarci tra i piedi, resuscitate dalle crescenti diseguaglianze sociali che prosperano nel nulla delle nostre periferie, nel nulla della nostra politica. Sarebbe utile per chiuderla finalmente quella storia. Per misurare il riverbero di quel sovversivismo che alla fine della Prima Repubblica si voltò, saldandosi persino con il nuovo radicalismo della destra che ha alimentato negli anni del trionfante berlusconismo, l’insofferenza alla legalità e l’odio per la magistratura, travestito dal garantismo delle élite per le élite. Non servono patiboli o gogne, non interessano abiure se non alla destra rancorosa che lucra qualche consenso sfruttando le salme sepolte dal terrorismo (senza mai interrogarsi sul proprio piombo), ma solo quel piccolo canestro di parole da offrire alla giustizia riparativa, la sola che possa rammendare lo strappo e il danno di quegli anni, parlandone. Dico Pietrostefani perché stava al vertice di Lotta Continua tanto quanto Adriano Sofri - l’altro condannato per quell’omicidio. Salvo che Sofri ha scontato i suoi anni a seguire senza mai alzarsi dai 7 processi e dalle infinite revisioni, accettando le sentenze senza ammettere mai la colpa e tuttavia scontandola in carcere e in questa sua lunga libertà vigilata in proprio: impossibile per lui ammettere alcunché, oggi o domani, dopo quel milione di parole speso per difendersi dalla sua ombra che ha finito per coincidere con la sua vita. Dico Pietrostefani - non Marino, non Bompressi, esecutori ma in fin dei conti comprimari - che invece ha ancora molto da spendere, vista la quantità di silenzio che in questo doppio decennio parigino passato a vendere e affittare case, ha accumulato a debito. Potrebbe sorprendersi e sorprenderci: alzarsi, tornare e prendere la parola. Dirci quello che pensava allora e quello che ne pensa oggi di quella esecuzione, la prima nell’Italia repubblicana, preparata e condotta alla maniera dei gappisti che praticavano con altre ragioni l’omicidio politico, confondendo gli anni dell’occupazione nazifascista, con quelli della Strategia della tensione che tramava appena sotto la superficie del brodo democristiano. Come nacque quella bolla spazio temporale. Quanti svagati o ipocriti la assecondarono, sganciandosi per tempo, dopo una firma, una petizione che impegnava la vita altrui, senza scalfire la propria. E potrebbe essere un uomo ragionevole come Luigi Manconi, ieri al vertice di Lotta Continua, spalla a spalla con Pietrostefani, oggi teorico della giustizia riparativa, ad accompagnare quel ritorno, parlandoci anche del suo. Molti ne sono usciti dignitosamente, con dissociazioni utili a sé stessi e agli altri. Tanti, se la sono data a gambe nella nebbia, proprio come capitò nel Dopoguerra a migliaia di magistrati, professori universitari, funzionari dello Stato, dell’esercito e delle forze dell’ordine. Per non dire dei doppiogiochisti passati direttamente dalle camere di tortura dell’Ovra ai nostri Servizi segreti, senza cambiare scrivania e dossier. Con tutti i danni a seguire transitati dalla grande storia a quella piccolissima, ma cruciale, dei parigini renitenti. Sospensione condizionale, sì alla revoca di diritto in executivis per causa ostativa non rilevata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2022 Il giudice dell’esecuzione sollecitato dalla Procura aveva ritenuto la propria incompetenza e la sussistenza del giudicato sul beneficio. Il giudice dell’esecuzione può revocare la sospensione condizionale della pena concessa se ricorre una causa ostativa che non era o non poteva essere nota al giudice di primo grado e che in appello non viene rilevata o sottoposta all’attenzione del giudice dal pubblico ministero. La Cassazione spiega - con la sentenza n. 25198/2022 - che in un caso del genere, dove la revoca andava pronunciata di diritto e non era rimessa alla discrezionalità del giudice, la decisione di appello non era coperta da giudicato preclusivo. La totale assenza di trattazione da parte del giudice di secondo grado della causa ostativa che era sopravvenuta in pendenza del giudizio di appello non preclude di stabilire in fase di esecuzione la revoca di diritto del beneficio. Si parla di giudicato “debole”. Diversamente dal caso in cui la revoca fosse stata oggetto di esplicita trattazione o di questione sollevata dal pubblico ministero. E la mancanza di preclusione a revocare il beneficio scatta anche nell’ipotesi di appello promosso dall’imputato: non agisce in tal caso il divieto di reformatio in pejus, in quanto si tratta di revoca non facoltativa. Infatti, in caso di revoca facoltativa non applicata dopo espressa trattazione della questione la relativa pronuncia acquista la forza di cosa giudicata precludendo un nuovo esame in fase di esecuzione. La vicenda - Nel caso concreto dopo la sentenza di primo grado che aveva concesso il beneficio era sopravvenuta un’altra condanna che sommata a quella comminata superava i due anni (nell’ambito del quinquennio) rendendo inapplicabile l’istituto della sospensione della pena. L’altra condanna intervenuta in pendenza del giudizio di appello, instaurato su iniziativa dell’imputato, era quindi causa ostativa al beneficio ignota al primo giudice e non rilevata dal secondo giudice di merito. In questa circostanza e divenuta definitiva la nuova condanna il giudice dell’esecuzione di fronte all’azione del Procuratore non poteva definirsi incompetente a stabilire la revoca di diritto in presenza di causa ostativa al beneficio. Bergamo. Morti due detenuti in carcere a distanza di pochi giorni, l’ipotesi: abuso di psicofarmaci di Ilaria Quattrone fanpage.it, 3 luglio 2022 Sono due i detenuti morti nel carcere di via Gleno a Bergamo: entrambi sono morti a una distanza molto ravvicinata. L’ultima avvenuta dieci giorni fa. La Procura del territorio ha deciso di eseguire le autopsie: l’ipotesi è quella di un abuso di psicofarmaci e non di morti violente. La dinamica è al vaglio degli inquirenti e le indagini, stando a quanto riportato dal quotidiano “L’Eco di Bergamo”, sono affidate agli agenti della polizia penitenziaria. Grave il compagno di cella di uno dei due - Le vittime sono di uomini di 30 e 35 anni. In uno dei due casi, sarebbe stato ricoverato in serie condizioni anche il compagno di cella: “I due decessi sono il segnale di un disagio. I detenuti con problemi psichiatrici non dovrebbero stare in carcere, ma in strutture apposite”, spiega al quotidiano la garante dei detenuti, Valentina Lanfranchi. In Lombardia, il 41 per cento dei detenuti è tossicodipendente. Tanti altri presentano, pur non avendo alcuna diagnosi, un disturbo psichico. Il problema del sovraffollamento - “I problemi riguardano il sotto-dimensionamento della polizia penitenziaria e dell’assistenza sanitaria. La presenza di persone con tossicodipendenza e problemi psichiatrici è in forte aumento”, spiega poi il vicepresidente dell’associazione Carcere e Territorio, Gino Gelmi. A non aiutare non è nemmeno il sovraffollamento: per esempio, secondo i dati aggiornati al 31 maggio scorso, sono 479 le persone recluse. I posti disponibili però sarebbero solo 315. Secondo il presidente della sezione di Bergamo della Camera Penale, Riccardo Tropea, la gestione di soggetti che non dovrebbero trovarsi in carcere perché hanno delle patologie psichiatriche di certo non aiuta: “Non è un problema solo di Bergamo, ma diffuso. La direzione presta la massima attenzione, questo è però un campanello d’allarme”. Basti pensare che solo alcune settimane fa un episodio simile si era verificato nel carcere di San Vittore. Modena. Torna in Tunisia la salma di Hafedh, uno dei 9 detenuti morti durante la rivolta del 2020 24emilia.com, 3 luglio 2022 Grazie ai fondi raccolti da alcune associazioni, a breve tornerà in Tunisia la salma di Chouchane Hafedh, uno dei nove detenuti morti durante la rivolta scoppiata l’8 marzo del 2020 (nella fase iniziale della pandemia) all’interno della casa circondariale Sant’Anna di Modena per protestare contro il pericolo di diffusione del nuovo coronavirus nella struttura penitenziaria. Il corpo di Hafedh è attualmente sepolto nel cimitero di Ganaceto di Modena, ma nella mattinata di martedì 5 luglio la salma sarà riesumata: dell’operazione si occuperà un’agenzia funebre fiduciaria del consolato tunisino di Genova, che poi provvederà al trasporto della salma a Milano e al successivo trasferimento in Tunisia. A contribuire alle spese sono state anche le associazioni Comitato per la verità e giustizia per la strage del Sant’Anna e Comitato verità e giustizia per le morti in carcere. Sul caso di Hafedh, tra l’altro, pende un ricorso dei legali dei familiari alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la decisione del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Modena, che nel giugno del 2021 aveva disposto l’archiviazione del fascicolo d’inchiesta sui nove decessi: le autopsie, infatti, avevano indicato nell’overdose da metadone e psicofarmaci la causa di otto di quelle nove morti, sopraggiunte dopo che i detenuti (oltre ad Hafedh anche Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lifti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah) durante la rivolta avevano saccheggiato la farmacia del carcere rimasta incustodita. L’indagine, dunque, si era conclusa senza individuare responsabilità personali, ma la famiglia Hafedh ha chiesto di chiarire i motivi per i quali i detenuti non sarebbero stati soccorsi tempestivamente. Nel frattempo a Modena, dopo gli esposti presentati da altri detenuti, sono state aperte altre inchieste, anche per il reato di tortura, che vedono indagati anche alcuni agenti penitenziari. Reggio Calabria. “Ergastolo ostativo e 41 bis sono cose diverse. Carceri non impermeabili” ilreggino.it, 3 luglio 2022 Il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri al convegno “Fine pena mai e diritto alla speranza sospeso”. “Oggi le strutture penitenziarie, anche nei circuiti di sicurezza, non garantiscono quella impermeabilità che dovrebbe essere necessaria. Non bisogna abbassare la percezione della pericolosità della criminalità organizzata. Il 41 bis è un istituto che serve a contrastare i collegamenti con l’esterno. In questo momento è necessario”. Così il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri lancia l’allarme intervenendo al convegno “Fine pena mai e diritto alla speranza sospeso”, organizzato dalla Camera penale di Reggio Calabria, da Magistratura democratica e dall’Ordine degli avvocati. “Parlare di carcere - ha detto Bombardieri - significa parlare alla pancia della gente e quindi alla politica che subisce l’emotività che certe vicende possono suscitare. Di carcere, invece, si dovrebbe parlare a mente fredda perché è una materia delicata e importante per la vita delle persone e per la vita della collettività. Bisogna sgombrare il campo”. Per Bombardieri, parlare di ergastolo ostativo non significa parlare di regime ex articolo 41 bis, che sono due argomenti diversi che bisogna tenere distinti e che spesso sono accomunati anche per elevare il senso di allarme. “Si è detto che se non ci sarà l’ergastolo ostativo non ci sarà più il 41 bis, quindi tutti nella stessa posizione e non è così. Bisogna chiarire che la sentenza europea e la sentenza della Corte Costituzionale aprono all’accesso di un procedimento di valutazione. Occorre stare attenti a non fare passare il messaggio che questo è possibile perché oggi la criminalità organizzata non è più pericolosa. Questo non è vero”. Bombardieri ha risposto, inoltre, al professore dell’Università di Milano Davide Galliani il quale, intervenuto prima, aveva messo in relazione l’ergastolo come strumento fallimentare per sconfiggere la mafia. “L’ergastolo - ha replicato il procuratore di Reggio - non significa contrastare la criminalità organizzata di stampo ‘ndranghetista. L’ergastolo esisteva prima della previsione del reato di mafia. Quindi non la metterei sotto il profilo che non c’è stata utilità perché la criminalità è sempre più forte”. Bombardieri non nasconde le sue perplessità sulla sentenza della Corte Europea in merito all’ergastolo ostativo e ha sottolineato l’importanza di conoscere certe forme di criminalità organizzata. Una conoscenza che “non è semplice da avere. Anche in Italia - ha affermato il procuratore - ci sono giudici che non conosco la mafia. Ci sono dinamiche che sfuggono, che non sono facilmente intellegibili così come certe metodologie di contatto di alcune organizzazioni criminali. Sicuramente Strasburgo ha fatto questa sentenza non perché non conosce la mafia. Ci mancherebbe altro”. Cagliari. Caput nuovo Garante dei diritti dei detenuti ansa.it, 3 luglio 2022 Francesco Caput è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti della Città Metropolitana di Cagliari. L’autorità indipendente che vigila sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà è stata nominata dal sindaco Paolo Truzzu. Il neo Garante è stato prescelto tra i candidati che hanno presentato domanda sulla base della formazione professionale pregressa. Caput, 72 anni, è un avvocato amministrativista con grande esperienza anche nel settore penale. E’ stato avvocato distrettuale dello Stato di Cagliari e ha ricoperto numerosi altri incarichi sia in ambito pubblico che privato. “Auguro un buon lavoro all’avvocato Caput in questo importante compito di tutelare le persone private della libertà personale, promuovendone la partecipazione alla vita civile nell’ottica dei principi di recupero e reintegrazione sociale”, afferma il sindaco Truzzu. “Sono onorato di essere stato prescelto per il conferimento di questo importante incarico e di mettermi al servizio della comunità”, commenta Caput. “La mia sensibilità istituzionale, maturata in tanti anni di esercizio della professione forense, mi ha consentito di occuparmi spesso dei soggetti più fragili della società, e del resto basta scorrere le statistiche delle persone private della libertà personale prima del processo e poi assolte per capire quanto questo tema sia cruciale”, aggiunge. L’incarico è a titolo gratuito, fatto salvo il rimborso delle spese sostenute e documentate per lo svolgimento dell’incarico. Ravenna. Alla Collegiata si parla di pena e giustizia Il Resto del Carlino, 3 luglio 2022 Incontro domani sera per la presentazione del libro di Paola Ziccone. “Verso Ninive-conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa”, è il titolo del libro di Paola Ziccone che sarà presentato domani, lunedì, alle 21, nel Chiostro della Collegiata di Lugo. Il libro, che contiene un dialogo col Cardinale Matteo Zuppi, neo presidente della Cei, nell’incontro vedrà l’autrice dialogare con Gianni Parmiani, organizzatore dell’incontro. ‘Verso Ninive’, dice Parmiani, “è un libro prezioso, che ti prende per mano e ti conduce, con poetica sapienza, alla riflessione. Riflessione necessaria e quanto mai attuale. Sul carcere, sulla giustizia e sulla speranza. Perché una giustizia che non si apre alla speranza non sarà mai vera giustizia”. Paola Ziccone vive a Bologna dove nel 1987 si è laureata in giurisprudenza. È stata direttore di carceri minorili in varie parti d’Italia. Si è poi dedicata all’esecuzione penale minorile dirigendo istituti penali di Firenze e per 10 anni, il Pratello di Bologna. Bolzano. Il teatro entra in carcere: laboratori e spettacoli di Silvia M.C. Senette Corriere dell’Alto Adige, 3 luglio 2022 Lo Stabile di Bolzano e il progetto Art of Freedom. Il Teatro Stabile di Bolzano è entrato in carcere con la compagnia Stivalaccio Teatro e gli attori Marco Brinzi e Caterina Simonelli. Lunedì, martedì e mercoledì Marco Zoppello e Michele Mori hanno coinvolto i detenuti in un workshop sulle basi della pratica teatrale partendo dall’uso del corpo e della voce per poi sondare la relazione con l’ambiente, l’espressività e la recitazione. Un’esperienza che si è conclusa con la messa in scena, negli spazi della cappella interna al carcere, di due spettacoli: Aspettando Risciò e Don Chisciotte. Tragicommedia dell’arte. Appuntamenti che, come chiarisce il direttore dello Stabile di Bolzano Walter Zambaldi, avviano il progetto “SE20231 Art of Freedom”, finanziato dal Fondo Sociale Europeo. “Ho lavorato per molti anni in carcere come operatore esterno e conosco bene questa realtà estrema spiega Zambaldi. Il senso di questo progetto, che mi auguro prosegua per anni, è veramente alto e importante: nasce da tutta la rete della cultura locale e si sovrappone a interventi che già da qualche tempo abbiamo attivato con laboratori interni alla casa circondariale e incontri per immaginare una possibilità, un ponte con l’esterno”. Non è stato facile portare una compagnia teatrale oltre le sbarre. “Un luogo di detenzione ha caratteristiche specifiche e la struttura di Bolzano è un luogo a tensione ancora maggiore sotto il profilo della fatiscenza - fa sapere il direttore dello Stabile -. È un luogo poco accogliente che già da molti anni dovrebbe essere altro, sia per le persone che ci lavorano sia per quelle detenute. In più è una casa circondariale di confine, con alto turnover, dove i laboratori iniziano con alcune persone e finiscono con altre”. La settimana in carcere a Bolzano chiude virtualmente il sipario sulla ricca stagione estiva dello Stabile. “Abbiamo appena concluso la rassegna “Fuori!” - dice Zambaldi -. L’obiettivo è sempre andare a scovare nuovo pubblico, coinvolgendo persone che possano “inciampare” nel teatro. Il carcere è un luogo iperbolico, che costringe a fare i conti con se stessi e con la società. Il teatro pubblico che entra in questi luoghi fa esattamente il suo mestiere. Il teatro va esercitato dove può portare conforto e un cambio di prospettiva. E questo vale sia per il teatro agito, con i laboratori, sia quello fruito, partecipato. Lo spettacolo è una ventata fresca, è qualcosa di esterno che per i detenuti è la libertà per eccellenza, a partire la libertà di cambiare ruolo e di essere qualcun altro nell’agire per gioco del laboratorio”. Immediato il feedback da parte del pubblico del carcere. “La risposta è disinteressata, nessuno ha niente da perdere - spiega Zambaldi -. Dietro le sbarre si dimenticano le forme di cortesia: è un’esperienza che mette a nudo i teatranti, come gli spettacoli che fai per gli amici veri in cui non ci sono filtri, scene o sovrastrutture. È essenza pura. Per questo abbiamo scelto di lavorare sulla commedia dell’arte, che va nella direzione del superamento delle barriere, dall’età alla lingua, ed è fruibile da chiunque in modo personale e diverso”. Milano. Presentato ieri “Second Chance”, il film sul reinserimento degli ex detenuti di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 3 luglio 2022 Ieri l’anteprima nella Casa di Reclusione di Bollate. Verrà poi trasmesso su Discovery. È la storia di 4 carcerati che ritrovano la retta via grazie al progetto Cisco per l’istruzione informatica. Tutti blindati, smartphone sequestrati, silenzio stampa obbligato fino a fine incontro. La ministra Cartabia è in visita alla casa circondariale di Bollate: sono misure precauzionali che non riguardano lei, ma regole di quando si entra in un carcere. Quando il mondo di fuori entra tra quelle mura, così si fa. E oggi questi due mondi si sono incrociati per la proiezione di “Second Chance”, docufilm ideato, prodotto e diretto da Erika Brenna con la voce narrante di Cristiana Capotondi (entrambe presenti). Verrà trasmesso su Discovery il prossimo autunno, ma qui oggi il film ha mosso i primi passi in pubblico: alla presenza del ministro della Giustizia, del direttore Giorgio Leggieri, dell’ad di Cisco Italia Gianmatteo Manghi, del cappellano del carcere don Gino Rigoldi e di alcuni detenuti e di un drappello di giornalisti si è tenuta l’anteprima: del film infatti Bollate e alcuni dei suoi ospiti sono parte fondamentale. “Second Chance”, la seconda occasione, è quella che viene offerta ai quattro protagonisti del documentario dal progetto Cisco Networking Academy, corsi di formazione informatica. Attraverso i corsi Cisco l’emancipazione e il reinserimento lavorativo dei detenuti, in questo caso parlano un ergastolano cui l’informatica ha dato un nuovo scopo perché a sua volta è divenuto formatore di altri carcerati, e una ragazza anche lei sottoposta a una lunga condanna (a Bollate nel 2019 Cisco ha aperto il primo lab in un reparto femminile). Poi ci sono quelli “fuori”, una coppia di rifugiati siriani della buona borghesia con bimbo in fasce strappati dalla loro vita dalla guerra e un quasi sessantenne che la sua guerra l’ha vissuta in Italia, una vita travolta dal Covid. “Qui vedo il carcere previsto dalla Costituzione” ha detto la Guardasigilli, dopo avere visitato anche altri laboratori presenti nella struttura. “Di una seconda chance abbiamo bisogno tutti, di una speranza e della possibilità di cambiare. Di luoghi dove questo cambiamento sia possibile. Per un ministro vedere una realtà che permette tutto ciò è un respiro di sollievo. Le storie di questo film allargano il cuore, anche se restano drammaticissime e non cancellano il dolore”. Offrire reali possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro una volta finita la detenzione allontana dal crimine: bassissimo quasi nullo il tasso di recidiva tra chi ha frequentati i corsi. E sono ormai migliaia: da quando nel 2011 il progetto Cisco prese l’avvio proprio a Bollate, è ora attivo anche nelle carceri di Monza, Torino, Regina Coeli, Secondigliano e nell’istituto per minori Beccaria, cui entro l’anno si aggiungeranno Novara, Padova, Rebibbia. Un patto sociale per chi ha di meno di Elsa Fornero La Stampa, 3 luglio 2022 C’era un tempo, nella seconda metà degli Anni Settanta, in cui quando, nel corso di macroeconomia, si arrivava a parlare di inflazione, gli studenti seguivano affascinati ed eri certa che ne avrebbero discusso la sera, a cena in famiglia. L’inflazione era allora esperienza comune di perdita di potere d’acquisto dei salari, dei rendimenti, e spesso anche del valore, dei “titoli” posseduti; dei profitti delle imprese più esposte alla concorrenza. Un’esperienza amara per la maggior parte delle famiglie a reddito fisso, occupate nel settore privato e con qualche risparmio e vissuta con difficoltà dalle imprese maggiormente esposte alla concorrenza estera. Il settore pubblico la guardava con minore preoccupazione, perché era più facile ai pubblici dipendenti chiedere, e agli enti pubblici concedere, aumenti compensativi dell’inflazione, finanziabili con tassazione o con debito. Era, infine, vantaggiosa per gli “sceicchi” e le “sette sorelle” del petrolio perché tutto aveva il suo centro nell’aumento dei prezzi dell’oro nero. Nell’ottobre 1973, a seguito della guerra tra Israele e i Paesi arabi, il prezzo del petrolio quadruplicò in poche settimane; con la rivoluzione iraniana del 1979, ebbe un nuovo balzo. La storia si ripete, oggi, poiché l’aumento dei prezzi dell’energia è in larga misura dovuto alla guerra russo-ucraina. Allora si parlò di “tassa degli sceicchi”; oggi si parla della “tassa di Putin” ma a queste cause originarie si aggiungono (oggi come allora), altre “tasse” da parte di chi, dominando un mercato nel quale vende i propri prodotti, riesce non soltanto a recuperare gli aumenti di costo ma anche a realizzare “extraprofitti”. Allora ne derivò una rincorsa prezzi-salari, alimentata anche da un meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni (e, in misura minore, delle pensioni) ai prezzi, che portò l’inflazione italiana a superare il 20 per cento e costrinse la lira a periodiche, ma non risolutive, svalutazioni, una sorta di “svendita” dei beni nazionali per incoraggiare la domanda estera. Una scappatoia impossibile oggi con l’euro. Le lezioni di allora sull’inflazione avevano un’importante postilla: qualunque ne sia l’origine, riducendo la circolazione di moneta i prezzi dopo un po’ si stabilizzano. A costo, però, di una recessione dell’economia, con conseguenze pesanti in particolare per la parte più fragile della popolazione. Anche oggi, con gli aumenti dei prezzi energetici, la medicina monetaria è la sola che le banche centrali possono percorrere, se lasciate sole. Riaffiora però il rischio di una brusca frenata delle economie, sorrette, in questi anni di crisi ripetute, da politiche espansive dei governi, generosamente finanziate proprio dalla Fed, dalla Bce e, novità assoluta, dalla Ue. C’è però un’altra medicina potenzialmente efficace e cioè la “politica dei redditi”, un patto sociale che riconosce che con inflazione “da costi” (energia e materie prime), il Paese nel suo insieme perde qualcosa a favore del resto del mondo ma al suo interno non tutti perdono. E che chi perde deve essere almeno parzialmente indennizzato, in una prova di coesione sociale e di equilibrio tra interessi contrapposti. Un’importante esperienza di questo tipo fu il “patto per la politica dei redditi e lo sviluppo” del ‘93, con Ciampi presidente del Consiglio, di cultura liberale e di forte sensibilità al problema della diseguaglianza. Partire dalla “politica dei redditi” invece che lasciare alla sola politica monetaria e al conflitto sociale la definizione dei vincitori e dei perdenti dell’inflazione sembra oggi ancor più necessario che in passato. Posto che lo shock esterno finisca con il termine della guerra (una data che nessuno conosce) e che a esso si riuscirà a porre rimedio solo nel medio periodo (con diversificazione delle fonti energetiche), la risposta nel breve termine non può che derivare da un accordo che tenga conto del fatto che i salari in Italia sono fermi da circa vent’anni e tra i più bassi d’Europa, sicché non è possibile che l’inflazione si scarichi sui redditi fissi e sulle innumerevoli partite Iva “di necessità”, di chi non riesce a trovare posti di lavoro a tempo indeterminato e soffre della precarietà del lavoro; soprattutto i giovani tra i quali cresce la povertà. Il debito (la soluzione preferita dai politici, perché non li obbliga a scegliere dove impiegare risorse sempre scarse) non può continuare a salire, e già oggi espone il Paese a ogni tempesta sui mercati finanziari. La politica fiscale va ripresa in mano con aggiustamenti che ristabiliscano un equilibrio tra lavoro e rendite, tra giovani e anziani, tra protetti e precari. La riduzione del cuneo fiscale deve avvenire in questo quadro, non semplicemente emettendo nuovi debito. Forse sarebbe bene, a proposito di “patti sociali”, ricordare la memorabile frase di Luciano Lama: “Non voglio vincere contro mia figlia”. L’inflazione, in definitiva, non è un fatto tecnico ma uno sconvolgimento sociale che rimescola quasi tutte le carte dell’economia e della società; è inevitabilmente materia di “alta politica”. Si vedrà se la nostra politica sarà capace, per una volta, di agire unitariamente in base a interessi generali invece di fissare l’attenzione soltanto sulle ormai prossime elezioni. Tutto l’orrore dei Cpr: “Migranti nel totale degrado” di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 luglio 2022 Detenzione amministrativa. Le visite dei parlamentari Nugnes, Sarli, Suriano e De Falco. Acqua non potabile, caldo soffocante, zero socialità, ma psicofarmaci. Deliri psicotici, lamette ingerite, suicidi tentati, fiumi di psicofarmaci, acqua non potabile, mancanza di cure, degrado igienico-sanitario, socialità negata. E poi il caldo, che sta colpendo tutto il paese ma nei luoghi di coscrizione moltiplica le sofferenze, trasforma le celle in serre e il cibo precotto in poltiglia maleodorante. Sono alcune delle istantanee scattate dai parlamentari che nelle ultime settimane hanno visitato i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo e Milano. Al loro interno hanno potuto ascoltare le storie individuali dei migranti trattenuti e verificare i problemi delle singole strutture, ma anche comporre una fotografia d’insieme del sistema della detenzione amministrativa. Un unicum tra le ipotesi di privazione della libertà personale per due ragioni: non è motivata da reati o da finalità di prevenzione; è affidata a privati, sul modello statunitense, che nella gestione delle strutture perseguono i loro interessi economici. Secondo i dati del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale, resi disponibili dal Garante nazionale, al 30 giugno scorso i reclusi nei dieci Cpr italiani erano 667 uomini e 5 donne. In tutto il 2021 sono stati 5.147. Di questi è stato espulso il 49%. “La situazione è drammatica. Il caldo in questa parte di Sicilia è devastante e nella struttura non c’è un albero, un luogo dove prendere un po’ di fresco. Non ci sono tv, possibilità di distrarsi, leggere un libro”, dice Simona Suriano, deputata del gruppo Manifesta. Giovedì è entrata nel Cpr di Pian del Lago, provincia di Caltanissetta, mentre fuori si teneva un presidio di solidarietà con i reclusi organizzato da Lasciatecientrare e altre associazioni. “Nei giorni scorsi ci sono state delle proteste. Ho visto persone con gli arti fasciati. N., 25 anni, ha pianto tutto il tempo. Diceva di essere stato picchiato. Le forze dell’ordine negano, ma interrogherò la ministra Lamorgese”, continua. All’altro capo dell’Italia, mille chilometri a nord-est, c’è il Cpr di Gradisca d’Isonzo. Ha riaperto a gennaio 2020 e da allora sono morte già tre persone: Vakhtang Enukidze, Orgest Turia e Anani Ezzeddine. Il 17 giugno scorso la senatrice Paola Nugnes (Misto) e la deputata Doriana Sarli (Manifesta) hanno effettuato un’ispezione. “Le persone sono chiuse in gabbie da sei. Non escono mai. Le finestre sono sbarrate da pannelli di plexigas che creano un calore assurdo. La situazione è oltre ogni limite”, dice Nugnes. L’ispezione è durata otto ore. Non c’era il medico, ma solo un infermiere che secondo quanto riferito dall’ente gestore, la cooperativa Ekene che ha anche il Cpr di Macomer, rimarrebbe dentro per due-tre giorni con turni continui. Le parlamentari hanno riscontrato molte difformità con il regolamento d’appalto. “Dal Viminale alla prefettura, dalla questura alle forze dell’ordine presenti c’è una catena di comando che dovrebbe rendersi conto della situazione. Che le cose non sono a norma non è un’ipotesi, è evidente alla vista”, denuncia Nugnes. “La Ekene si chiama Onlus ma segue il modello del profitto: meno ti dà, più guadagna”, sostiene Sarli. “Un signore diabetico vomitava sangue. Non era curato e aveva smesso di mangiare per paura che gli salisse la glicemia. Un altro ragazzo non parla con nessuno, è inavvicinabile, ma urla tutta la notte: come può un paziente psichiatrico in uno stato psicotico così forte essere tenuto lì?”, continua la deputata. Le parlamentari stanno preparando un esposto in procura e una relazione al Garante nazionale. Il Cpr di Via Corelli, a Milano, è stato visitato il 29 maggio scorso dal senatore Gregorio De Falco (Misto) e dall’infettivologo Nicola Cocco, esperto di medicina penitenziaria. Rispetto alla precedente ispezione di giugno 2021 è cambiato il gestore, da Engel Italia a Martinina (peraltro con una procedura poco chiara), ma sono rimasti i problemi già denunciati nel rapporto Delle pene senza delitti. Tra questi: mancanza di visite specialistiche, assenza di medicinali, cibo scadente, limitazione del diritto alla difesa. Particolare degno di nota: l’ispezione non ha potuto accertare se l’acqua della struttura è potabile o meno, come farebbe pensare un cartello sul lavandino dell’infermeria. Il direttore del centro non ha trovato, né poi fatto avere, la certificazione di potabilità dell’acqua. Tra le persone incontrate dalla delegazione tre ragazzi finiti dietro le sbarre dopo aver chiesto asilo in questura, un uomo che ha moglie e sei figli e risiede in Italia dal 1993, altri due che ci vivono da 22 anni. Emblematica la storia di D. D., egiziano di 28 anni. Il ragazzo ha terminato di scontare un periodo di detenzione nel carcere di Trento il 18 maggio scorso. Scarcerato per buona condotta non è stato rimesso in libertà, ma portato senza preavviso al Cpr di Milano. Qui non ha ricevuto le cure per la malattia di cui soffre, l’epilessia, e in 48 ore ha avuto due violente crisi. Una gli ha causato un trauma facciale. In prigione D.D. aveva ottenuto la certificazione di italiano A2 e superato la terza classe dell’educazione per adulti. Aveva anche studiato tutto l’anno per un esame che avrebbe dovuto fare all’uscita. Alla data della prova, però, ha capito che dal Cpr non sarebbe stato portato a Rovereto per sostenerla. E ha tentato di uccidersi. Il caso si è chiuso solo grazie all’intervento del Garante nazionale, quattro giorni prima dell’ispezione di De Falco. Così D. D. è stato liberato, ha superato l’esame e si è ricongiunto con moglie e figlio. Ma resta irregolare e in qualsiasi momento può finire di nuovo al Cpr. Nugnes, Sarli, Suriano e De Falco concordano sul fatto che la detenzione amministrativa vada superata. I problemi non dipendono solo dalle singole strutture, ma da un sistema che toglie la libertà a chi non ha commesso reati. L’ultimo tassello del più ampio mosaico delle politiche anti-migranti che hanno creato i lager in Libia, trasformato il Mediterraneo in un cimitero e portato le frontiere fin dentro le città, intorno ai corpi degli “irregolari”. I Cpr, si legge in un’anticipazione del report curato da De Falco che sarà pubblicato nei prossimi giorni, sono “la chiusura del cerchio di un preciso progetto di razzismo istituzionale di costante respingimento e rifiuto, che pretende di sanzionare con la privazione della libertà individuale un mero illecito amministrativo”. Ius scholae, la Cei contro il centrodestra: “Basta ideologie, si approvi la legge” di Adriana Police Il Manifesto, 3 luglio 2022 La battaglia in Parlamento. Lega e FdI schierati contro, resistenze da Forza Italia. Monsignor Perego: “Ne parliamo da almeno 15 anni, la norma viene letta con parametri ideologici che non guardando alla realtà”. La discussione alla Camera dello ius scholae (l’ottenimento della cittadinanza al minore straniero che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno e abbia frequentato la scuola per almeno 5 anni) ha subito provocato la reazione veemente della Lega, schierata contro in sintonia con Fratelli d’Italia, ma anche le resistenze di Forza Italia. E il passaggio al Senato si annuncia ancora più complicato. Ieri è arrivata la preso di posizione a favore della legge della Cei con monsignor Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni: “La riforma della cittadinanza va incontro al paese che sta cambiando. Spero che le ragioni e la realtà prevalgano sui dibattiti ideologici, per il bene di chi aspetta ma anche dell’Italia che è uno dei paesi più vecchi”. La Lega ha presentato 1.500 emendamenti ironizzando sul Pd: “Spiace che il partito che una volta rappresentava i lavoratori adesso abbia come priorità gli immigrati”. A Salvini, secondo cui daremmo la cittadinanza alle baby gang, Perego replica: “È il contrario. Rendere la persona più partecipe e non creare due città, quella degli esclusi e quella degli inclusi, favorisce la sicurezza sociale. Non capisco perché si voglia mettere in contrapposizione una situazione sociale, di crisi economica che stiamo vivendo, con un diritto”. Da Fi Tajani ieri ha ribadito: “Siamo favorevoli al principio ma deve esserci una formazione vera: elementari e medie più un esame finale. Lo ius scholae in questo momento non rappresenta una priorità”. Anche su questo la Cei replica: “Ne parliamo da almeno 15 anni, contrapporre il caro bollette non ha senso. La legge viene letta con parametri ideologici che non guardando alla realtà. Quella di un milione e 400mila ragazzi, dei quali 900mila alunni delle nostre scuole, e gli altri che hanno più di 18 anni, che aspettano di essere cittadini italiani. L’Italia è cambiata con 5 milioni e mezzo di migranti. Occorre utilizzare lo strumento della cittadinanza per rendere partecipi di questa trasformazione le persone che attendono ma anche gli italiani che sempre si sono detti favorevoli, che sono oltre il 70%”. E ancora: “La cittadinanza aiuterebbe anche una circolarità del mondo migratorio in Europa”. La forzista Renata Polverini si è dissociata dal patito: “Voterò a favore. Il centrodestra sui nuovi italiani è anacronistico. Ma se si accogliessero le richieste di Fi sui cicli scolastici si allargherebbe il consenso”. Di Maio ha utilizzato il tema per schierarsi a difesa dell’esecutivo: “Mi auguro che si trovi un compromesso in Parlamento, mi sconcerta che si usi come una bandierina per picconare il governo”. Lo Ius Scholae darà cittadinanza alle baby gang straniere? Perché Salvini non dice il vero di Federica Olivo huffingtonpost.it, 3 luglio 2022 Dati alla mano i giovanissimi non italiani non delinquono più degli altri. Huffpost ne parla con Scandurra (Antigone), Ferri (ActionAid) e Tartaglione (Arimo). Rispolverato il linguaggio da Papeete, Matteo Salvini tuona contro lo ius scholae con varie argomentazioni. Una, affidata al Corriere della Sera, è la seguente: “I dati Istat dimostrano un’elevata devianza fra i giovani immigrati, notevolmente superiore ai coetanei italiani, come dimostrano i recenti fatti di cronaca, per esempio a Desenzano”. Potremmo obiettare che fatti come quelli di Desenzano sono troppo recenti per essere già stati analizzati dall’Istat, ma sorvoleremo, perché la sfilza di obiezioni è lunga. I fedelissimi di Salvini hanno mantenuto la stessa impostazione: “La metà dei reati commessi da minorenni, sono in capo a immigrati”, hanno detto vari parlamentari durante la riunione con i deputati della Lega mentre alla Camera iniziava la discussione della legge. Sarà vero? Premessa: se è vero, come è vero - e lo vedremo nel dettaglio - che i reati nascono in contesti di marginalità sociale, non sarebbe uno scandalo se i dati citati dai leghisti fossero esatti. Peccato che, statistiche del Ministero della Giustizia alla mano, non è così. Semmai è vero il contrario: cioè, che soprattutto per quanto riguarda i reati gravi, i minori (o comunque i giovanissimi) italiani delinquono di più degli stranieri. Il contesto cambia da reato a reato, ma per ogni giovane straniero che delinque, ci sono due italiani che compiono lo stesso reato. Neanche questo dato deve allarmare, fatte le dovute proporzioni, ma le cifre dimostrano che i leghisti hanno detto una cosa inesatta. Basta sfogliare le 32 pagine dell’analisi statistica dei dati su “minori e giovani adulti a carico dei servizi minorili” fornita dal Ministero della Giustizia, e aggiornata al 15 giugno, per rendersi conto della situazione. Il report tiene in considerazione i minorenni e i ragazzi tra i 18 e i 24 anni. La maggior parte dei giovanissimi che commettono reati non viene reclusa in carcere, ma è affidata agli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm). Bene: dall’inizio dell’anno fino al 15 giugno, sono stati trattati dai servizi sociali gli autori minorenni (o comunque molto giovani) di 50.519 reati. Chiaramente ogni ragazzo preso in carico dall’Usmm può avere commesso più reati, e i fatti non sono necessariamente recenti. Ma andiamo a vedere quanti fatti delittuosi sono stati commessi dagli italiani e quanti dagli stranieri. Su 86 omicidi volontari 59 sono stati commessi da italiani e 27 da stranieri. Le lesioni volontarie, invece, sono 6.444: 4708 compiute da italiani e 1664 non italiani. E ancora, di 703 violenze sessuali sono accusati giovanissimi italiani, agli stranieri ne sono addebitate 248. La forbice si allarga sulle percosse: 459 sono gli autori (presunti o accertati) italiani, 182 gli stranieri. Per i reati contro il patrimonio la forbice tende ad assottigliarsi, ma non si può comunque dire che gli stranieri contribuiscano per il 50%. Ad esempio: 5533 furti sono addebitati agli italiani, 3758 agli stranieri, 3290 rapine sarebbero in capo a nostri connazionali, 2083 a stranieri. E così via. Anche un’analisi storica dei dati non restituisce un aumento di minori stranieri affidati ai servizi sociali per minorenni. Anzi, negli ultimi 5 anni la cifra è rimasta sostanzialmente la stessa, con oscillazioni minime. Tanto per gli italiani quanto per gli stranieri. Fatto sta che, a fine 2021 gli italiani affidati alle Usmm erano 16197, gli stranieri 4600. Un quarto, o giù di lì. La percentuale sale lievemente se guardiamo ai collocamenti in comunità, dove gli stranieri sono il 39%. E si impenna - di questo a Salvini dovremo dare atto, ma solo in parte - quando si analizzano i dati dei giovanissimi nelle carceri minorili. La giustizia minorile è considerata il fiore all’occhiello del sistema, perché è strutturata in modo che solo una minima parte di giovani autori di reato viene recluso in un penitenziario. Al 15 giugno, i giovanissimi negli istituti di pena a loro dedicati erano 374. Tra questi 171, il 46% del totale, sono di origine straniera. Ma, come abbiamo visto analizzando le cifre di prima, non significa che la metà dei reati sono commessi da stranieri: “Non si può dire che gli stranieri vadano in carcere più degli italiani perché fanno reati più gravi, semmai è vero il contrario. La questione è che per loro le alternative al carcere sono più difficili”, spiega ad HuffPost Alessio Scandurra di Antigone. “Il problema - continua - sono le condizioni di partenza. In molte zone del Paese i minori italiani non vivono nelle stesse condizioni dei minori stranieri. E non è un caso se, anche tra gli italiani, quelli che non riescono ad accedere a una misura alternativa vengano soprattutto da alcuni territori”. I dati delle carceri minorili, insomma, ben poco ci dicono sulla devianza (copyright: Salvini) dei minori stranieri. Ci dicono, semmai, che per i giovanissimi di origine non italiana autori di reato essere affidati ai servizi sociali, o andare in comunità, è più difficile. Chi lavora sul campo conferma questa tendenza: “Lavoriamo nel settore da tanti anni - dice ad HuffPost Paolo Tartaglione presidente di Arimo, cooperativa sociale con sede a Milano che si occupa dei minori in difficoltà in Lombardia - e non posso dire di aver riscontrato un aumento di stranieri autori di reato. In cinque anni ne abbiamo ospitati 113 e non ho intercettato alcun allarme: gli stranieri non delinquono di più o peggio di un tempo. Anzi, statisticamente i loro reati sono contro il patrimonio e non contro la persona”. Il punto su cui si dovrebbe ragionare, per il presidente di Arimo, è un altro: “Semmai si potrebbe dire che bisogna fare in modo che ci sia una pari distribuzione delle possibilità e, quindi, di accesso alle misure alternative”. Peraltro la delinquenza minorile non può essere paragonata a quella degli adulti: “Nella maggior parte dei casi - aggiunge - dietro la commissione di un reato c’è una richiesta di aiuto. Allora, in quest’ottica, può essere normale che un minore straniero incontri una difficoltà maggiore nella crescita. Non deve, quindi stupire, se ci sia un certo numero di giovanissimi non italiani che commettono reati”. Abbiamo appurato che i dati della Lega non sono veri. Ma, è il senso del ragionamento di Tartaglione, se anche fossero veri “sarebbero facilmente spiegabili” con le condizioni di marginalità e la difficoltà nel ricevere aiuto. “In ogni caso - sostiene - quella dei minori non è una scelta di delinquenza. Nella maggior parte dei casi si tratta di ragazzi che cercano di capire come diventare grandi. E purtroppo a volte gli adulti che li circondano non hanno gli strumenti per sostenerli”. Comunque stiano le cose, “non bisognerebbe mettere in correlazione questi dati con lo ius scholae e strumentalizzare una cosa così delicata”. La concessione della cittadinanza ai giovani arrivati in Italia entro i 12 anni, che hanno frequentato almeno 5 anni di scuola nel nostro Paese, potrebbe essere anche un modo per “disinnescare delle tensioni sociali”. Ne è convinto Francesco Ferri, migrant advisor di Action Aid Italia, che sta seguendo passo dopo passo l’iter del disegno di legge in Parlamento. “Il fatto che ci siano giovanissimi stranieri che commettono reati dovrebbe semmai essere un motivo in più per interrogarsi. Un elemento in più per credere che sia meglio includerli nella sfera dei diritti”, osserva. Action Aid, con Cittadinanzattiva e Legambiente, al termine del festival della partecipazione di Bologna ha promosso un appello perché il via libera alla legge il più presto possibile. “Non è intollerabile - continua Ferri - che arriva e cresce in Italia da bambino sia escluso dalla cittadinanza. Se da piccolo non nota la differenza, quando arriva l’adolescenza si interroga e può avere un problema con l’autoriconoscimento”. Senza contare tutti i problemi pratici cui si va incontro: “Il peso del non avere la cittadinanza cresce con l’età, con i primi viaggi di istruzione, con le difficoltà sul lavoro, con le peripezie per il rinnovo del permesso di soggiorno”, argomenta Ferri, che è convinto che alla fine il testo sullo ius scholae passerà. Nonostante la posizione della destra: “In altri Paesi le destre sono favorevoli alla concessione della cittadinanza perché la considerano un elemento forte dell’identità nazionale”, aggiunge. Non è così in Italia. O, almeno, non è così per la destra che siede in Parlamento. Perché, secondo un sondaggio, una vasta fetta degli elettori di Lega e FdI sarebbero favorevoli allo ius scholae: “Quei dati hanno stupito anche me - spiega ancora Ferri - perché dimostrano che la base elettorale va in controtendenza rispetto alla classe dirigente”. Mentre in Parlamento e sui giornali si dibatte del tema, ci sono tanti giovanissimi stranieri - più ottocentomila, secondo le stime - che aspettano di capire se potranno diventare cittadini italiani o no. E sono costretti a sentire frasi come “la cittadinanza va meritata”. “C’è molta delusione - conclude Ferri - intorno a questo tema. E c’è, soprattutto, il rischio che un’intera generazione continui a vivere con la percezione, costante, di essere stata rifiutata”. Rifiutata dal Paese in cui vive. E di cui si sente, pienamente, parte. Droghe. La valanga di fake news che la destra ha detto in Parlamento sulla cannabis di Rita Rapisardi L’Espresso, 3 luglio 2022 Durante la discussione della legge per la legalizzazione e depenalizzazione della droga leggera (poi posticipata a metà luglio), meloniani e leghisti hanno usato il solito copione di allarmismi e balle smentite da anni. Ricostruiamole una a una. Un solo pomeriggio di discussione è stato sufficiente per fare un elenco completo di tutte le fake news che circolano sulla cannabis. Aula di Montecitorio, dal 29 giugno si discute la proposta di legge (nata dall’unione dei disegni dei deputati Riccardo Magi, +Europa, e Caterina Licatini, ora nel gruppo di Di Maio) per consentire la coltivazione domestica di cannabis, per uso personale e la diminuzione delle pene per i reati di lieve entità. Destra ed estrema destra contrarie al provvedimento, sfilano in aula con una serie di interventi che alimentano leggende metropolitane e credenze ampiamente superate dalla scienza e dagli studi degli ultimi anni. C’è anche confusione sull’argomento stesso del ddl: molti parlano di liberalizzazione, ma il tema è la legalizzazione (e depenalizzazione). Cannabis droga di passaggio - Una delle leggende più dure a morire è quella sulla cannabis droga di passaggio. In pratica fumare una canna sarebbe l’anticamera dell’utilizzo di droghe pesanti come cocaina ed eroina. Ciro Maschio, parlamentare di Fratelli d’Italia, parla di “primo step”. È il ragionamento per cui visto che “oltre il 90 per cento delle persone tossicodipendenti da eroina hanno iniziato con la cannabis”, la cannabis sarebbe la causa. Ma perché non un bicchiere di vino o una sigaretta? Questa tesi non ha alcun riscontro, basterebbe pensare che ci sono circa sei milioni di consumatori di cannabis (stime al ribasso), a cui vanno aggiunti quanti la provano e smettono: dovremmo quindi avere una presenza di tossicomani da eroina in milioni. Dire che “tutti” gli eroinomani hanno fumato cannabis è una correlazione spuria, cioè due eventi sconnessi che avendo lo stesso trend (in realtà l’uso di eroina è in costante diminuzione, mentre quello di cannabis in aumento) si associano. Si potrebbe fare lo stesso ragionamento con le sigarette o con l’alcool. E c’è chi si lascia andare a dati senza citare fonti, come Luca Paolini, Lega: “Se si drogano in 100 in modo leggero, probabilmente, saranno in 20 a passare alle droghe pesanti. Se sono 1000, saranno 200. È statistica non è un’opinione più o meno vaga”, il quale ha citato anche la cannabis allo 0,2% di thc non sapendo che è già legale in Italia, la cosiddetta “cannabis light”. La “cannabis geneticamente modificata” - C’è anche un’altra credenza che ha le gambe lunghe, tanto da guadagnarsi una pagina su Wikipedia, è quella della “cannabis geneticamente modificata”. In pratica la cannabis presente sul mercato è modificata e altamente tossica, coltivata con tecniche violente, arriva a un principio attivo di thc anche del 55%, molto più forte di quella di un tempo che invece non andava oltre il 5% di concentrazione. Questa supposizione senza fondamento si chiama teoria del 16%, nata tra gli anni ottanta e novanta, ha diffuso i concetti di “supermarijuana”, “marijuana OGM” o “modificata geneticamente”. Una teoria finta perché non abbiamo analisi sulla percentuale di thc della cannabis non moderna. Questo non sembra interessare però i parlamentari che si lasciano andare a tesi un po’ strampalate: “La cannabis geneticamente modificata va da 0 a 15 capacità produttiva di thc, quindi quattro piante modificate possono produrre l’equivalente di 40 o 60 piante naturali non modificate”, spiega Paolini, avvocato, che dice anche di aver “avuto a che fare con piante di cannabis, non come consumatore, ma come difensore”. Cannabis, la droga più pericolosa - Il sottotesto dietro a molti interventi è quello per cui la cannabis non andrebbe legalizzata perché fa male. Nessuno, però, tra i contrari si sofferma sulle droghe attualmente legali - assai più pericolose e tossiche della cannabis - e rese tali proprio per avere un maggiore controllo qualitativo su esse. Candidamente Roberto Bagnasco, Forza Italia, non si accorge che proprio una delle sue argomentazioni spinge in questa direzione: “Alcool e tabacco sono soggetti a limiti di età, ma l’effetto nocivo avviene per dosi progressivamente crescenti di alcool e in un tempo molto più lungo”. Il pregio dell’alcool sarebbe quindi che uccide lentamente? E aggiunge: “Lo smaltimento fisico di una canna è molto più lento, dura dai quindici ai venti giorni rispetto a una sbronza, tanto per capirci bene”, facendo confusione sul persistere nel sangue della sostanza del principio attivo ed effetto. Bagnasco tra l’altro è farmacista e dimentica che in Italia le terapie a base di cannabinoidi sono difficili da ottenere non per la mancanza di medicinali, ma perché i medici, mossi dallo stigma verso la pianta, non la prescrivono facilmente. Nonostante una legge che da 15 anni riconosce la cannabis terapeutica, quella sì al 22% di thc, ai pazienti, al momento il 71 per cento di essi deve interrompere la terapia, come denuncia l’associazione Pazienti cannabis. Dipendenza e pericolosità - “Le sostanze psicotrope cosiddette leggere provocano gravi danni alla salute, dipendenza fisica e psicologica pari e superiore su alcuni elementi del fumo delle sigarette normali o dell’alcool”, dice ancora Maschio, affermando una falsità visto che nel 2020 la Commissione delle Nazioni Unite sugli Stupefacenti ha votato una serie di misure proposte dall’Organizzazione mondiale della sanità sulla riforma internazionale della cannabis: la più importante di queste è la cannabis è stata declassificata come sostanza non pericolosa, prima messa accanto a cocaina ed eroina, e il suo uso medico è riconosciuto in sempre più patologie. Sulla dipendenza da cannabis poi (calcolata tra il 4-9%) ci sarebbe tanto da dire. Banalmente altre sostanze legali e ampiamente accettate dalla società, hanno un tasso di dipendenza molto più alto di quello della cannabis, per cui è il tabacco ha giocare un ruolo chiave visto che lo si utilizza per assumerla. Caffé - che è una droga visto che la caffeina è una sostanza psicoattiva - o zuccheri per esempio, ma anche energy drink o coca cola. Questi ragionamenti proibizionisti se fossero applicati all’alcool, droga assai più pericolosa, porterebbero presto alla sua proibizione, a danno dei consumatori e a favore del mercato nero. Le legalizzazione non combatte le mafie - Che la legalizzazione della cannabis possa aiutare la guerra contro le mafie è una certezza che arriva da vari richiami della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, che già nel 2016 ha espresso parere positivo su tutte le leggi per legalizzazione e coltivazione domestica, anche per liberare le numerose forze dell’ordine impegnate nella guerra alla cannabis (la cannabis da sola rappresenta quasi il 50% di tutti i sequestri annuali di stupefacenti, per un valore di 7 miliardi su 16 totali). Gianni Tonelli, Lega, però dice di non aver mai sentito l’ex procuratore Cafiero de Raho su questo. Eppure l’ultimo intervento, in ordine di tempo, del magistrato è avvenuto sulle pagine di Repubblica il 30 giugno: “Le tonnellate di droga sequestrate dimostrano l’interesse delle mafie verso questa sostanza. Resto contrario a qualsiasi autorizzazione al consumo illimitato di stupefacenti, ma ben venga questa legge, se può contribuire a tenere lontani tanti giovani da spacciatori senza scrupoli, impoverendo così le organizzazioni criminali e consentendo, alle forze dell’ordine di concentrare sforzi e risorse sui grandi traffici”, ha detto de Raho. In compenso però Tonelli fa uno strano parallelismo con la cicala e la formica, per cui legalizzare renderebbe i giovani come le cicale della fiaba: senza speranze e dediti alla “cultura dello sballo e del carpe diem”. La parola resta sempre alle armi di Emiliano Manfredonia* Il Manifesto, 3 luglio 2022 Pace e guerra. Se qualche anno fa Emmanuel Macron constatava la “morte cerebrale” della Nato, ora, come effetto immediato dell’aggressione russa all’Ucraina, l’Alleanza atlantica riprende vita, accetta l’ingresso di nuovi soci un tempo neutrali e, soprattutto, ridefinisce i suoi modelli strategici aumentando il dislocamento di personale militare e di armi. La guerra in Ucraina sta imperversando sempre di più, diventando ancora più feroce. Ci stiamo abituando a questa maledetta situazione di morte che sta costringendo gli Ucraini ad una resistenza estrema nel sud del paese e a convivere con una situazione di pericolo e precarietà che sta destabilizzando la vita, dividendo le famiglie, facendo crescere i nostri figli in un mondo pieno di paure e morte. Putin ha compiuto un passo incredibilmente folle, che noi ritenevamo ormai relegato nella storia remota. I suoi piani si sono infranti sull’orgoglio del popolo ucraino ma anche sulla compattezza dell’Europa e della Nato che ha ritrovato un senso (un nemico) e rinnovati finanziamenti per esercitare quella pressione difensiva che Putin voleva allontanare dai confini. Se qualche anno fa Emmanuel Macron constatava la “morte cerebrale” della Nato, ora, come effetto immediato dell’aggressione russa all’Ucraina, l’Alleanza atlantica riprende vita, accetta l’ingresso di nuovi soci un tempo neutrali e, soprattutto, ridefinisce i suoi modelli strategici aumentando il dislocamento di personale militare e di armi. È proprio questo primato alla dimensione muscolare che non convince: se la risposta alla Russia è fortemente e comprensibilmente condizionata dalla sua brutale politica aggressiva, non si vede l’ombra della diplomazia, anzi. Si parla di aumento delle spese militari, grandi proclami per militari in stato di allerta, investimenti in tecnologie sempre più distruttive, alleanze basate su logistiche di efficientamento bellico. Non si intravede un piano per il cessate il fuoco e per avanzare un dialogo. Chi può farlo se non le democrazie occidentali che come primo obbiettivo non hanno quello di armarsi ma di spengere questo conflitto? La guerra sembra la cosa più razionale a cui pensare, la pace la più banale, da relegare ai buoni sentimenti. Solo che la guerra porta alla lunga a scenari impensabili a distruzione, morte, a conflitto perenne a grammatiche incentrate sulla forza, sulla prevaricazione. È la pace che, faticosamente, può portare a periodi di stabilità. Non dimentichiamo poi la grande ipocrisia che in questi anni ha prevalso nelle diplomazie internazionali dove la terza guerra mondiale a pezzi stava già iniziando e dove la Russia stava già dando dimostrazione di quello che poi ha realizzato: guerra in Ucraina (dal 2014), l’intervento in Bielorussia e Kazakistan per reprimere delle contestazioni popolari, e interventi volti a destabilizzare le democrazie occidentali facendo grande uso di fake, troll e finanziamenti ai partiti sovranisti. Un’ipocrisia che forse faceva comodo per giustificare altre invasioni (ad esempio Afganistan), e per continuare un capitalismo sfrenato che si è servito dei miliardi e dei miliardari Russi. Quello che più spaventa del nuovo corso Nato è l’individuazione della Cina come vera minaccia del XXI secolo, anche qui di fatto riducendo la sfida con Pechino ad un mero fatto militare. Questo è un grave errore. Prima di tutto perché non c’è bisogno di altri nemici ma, al contrario, di una maggiore cooperazione tra gli Stati, tenendo conto degli interessi e dei rapporti che negli anni si sono costruiti. Poi dobbiamo sforzarci di sconfiggere la Cina sul piano commerciale, soprattutto sull’idea di sviluppo economico che non può essere quello coloniale-estrattivo basato solo sul consumo di risorse naturali ma una grande sfida sulla cooperazione internazionale. È ancora accettabile che paesi come la Nigeria, uno dei più grandi esportatori di petrolio e gas al mondo e primo in Africa, debba poi importare il 90% di carburante raffinato perché priva di infrastrutture di raffinazione? Esiste la possibilità di ricercare nuovi investimenti finalizzati ad una crescita complessiva dei paesi in via di sviluppo per convocarli non alla corte di qualche forza militare ma a quella di un’economia più umana e, quindi, più giusta e inclusiva? La differenza tra guerra e pace è questa e sta tutta nella logica della distruzione o della vita. Dal vertice Nato arriva anche un’altra preoccupazione, quella relativa alla questione curda, ridotta a merce di scambio con il Governo turco per l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica, cosa che non depone a favore della tutela degli interessi dei più deboli, che invece viene sempre sbattuto in faccia ai pacifisti per giustificare le strategie di potenziamento. In conclusione, anche se non tutto quello che scrive e pensa un pacifista può essere condiviso o realizzato, credo che tutti abbiamo bisogno di riflettere, trovare parole, promuovere diplomazia e gesti profetici perché la preoccupazione è che laddove servirebbe la politica, si preferisce dare sempre la parola alle armi. *Presidente nazionale Acli Marocco. “Lasciati morire”, le testimonianze dopo la tragedia di Melilla di Marco Santopadre Il Manifesto, 3 luglio 2022 Le accuse dei superstiti. Sull’autobus che li portava ad Agadir, alcuni sono morti durante il viaggio. “La polizia marocchina ci ha portati ad Agadir in autobus. Eravamo feriti, ma non gli importava. Alcune persone sono morte durante il viaggio. Ci hanno abbandonati senza vestiti né cibo”. Lo racconta a El Español Yousef, un ragazzo sudanese che il 24 giugno ha partecipato al tentativo di penetrare a Melilla che si è saldato con la morte di 37 migranti. Ci vogliono 12 ore per raggiungere Agadir da Nador, la città marocchina più vicina a Melilla. Yousef ha viaggiato con una ferita in testa. Come a lui, a centinaia di migranti è stato impedito di farsi curare in ospedale le ferite riportate nel tentativo di arrampicarsi sulle reti o causate dall’intervento dei gendarmi marocchini. Il giorno dopo la scalata alle recinzioni che blindano l’enclave spagnola, Rabat ha fatto deportare nel sud del paese 1.300 migranti che non erano riusciti nell’impresa. Altri 65 sono in galera, a processo per vari reati. L’intento è allontanare il più possibile dalla frontiera tutti coloro che sembrano immigrati irregolari pronti a scalare i reticolati o a salire su un barcone. Le retate e le deportazioni sono iniziate a marzo, quando il Marocco ha riallacciato i rapporti con Madrid dopo che Pedro Sánchez ha riconosciuto l’annessione a Rabat del Sahara Occidentale occupato dal regno di Mohammed VI negli anni ‘70. Da allora, gli agenti marocchini proteggono Ceuta e Melilla con sistematicità e brutalità. È tale lo zelo che nelle retate finiscono anche immigrati in regola con i documenti o che hanno ottenuto la protezione dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati. “I marocchini ci hanno ucciso e lasciato morire” denuncia a Público Nasreddin Kenu, uno dei migranti che è riuscito a saltare le barriere ed è stato rinchiuso per giorni nel Centro di Permanenza Temporanea di Melilla. È arrivato dal Sudan, a piedi; ha 19 anni e ci ha messo quattro anni per attraversare Ciad, Libia, Algeria e Marocco. Sui monti attorno a Nador si è organizzato con altre migliaia di subsahariani per tentare l’assalto al settore di barriera del “Barrio Chino”, più vecchio e vulnerabile. Ringraziando gli agenti marocchini per il lavoro svolto, il premier spagnolo Sánchez ha puntato il dito contro “le mafie che gestiscono la tratta di esseri umani”, accusate di aver programmato un “assalto violento e organizzato”. “Le più grandi mafie del Marocco sono il governo e la polizia. Sui monti di Nador nessuno è in grado di pagare un’organizzazione mafiosa” spiega Nasreddin. Le ong che ai due lati della frontiera coordinano le proteste e i soccorsi spiegano che chi ha soldi da dare ai trafficanti lo fa semmai per salire su un barcone diretto alle Canarie o in Italia. Ma dalla Libia è diventato sempre più caro e pericoloso partire; così in molti, provenienti soprattutto da Ciad, Sudan, Sud Sudan, Niger ed Eritrea, si spingono ora fino al Marocco. Scalare le reti di Ceuta e Melilla è gratis, economicamente parlando. Ma gli accordi tra Madrid e Rabat, dicono le associazioni che venerdì hanno manifestato in 60 città della Spagna, rendono questa via sempre più rischiosa. Omar Naji, presidente dell’Associazione Marocchina per i Diritti Umani, ha cercato di entrare nell’obitorio di Nador per confrontare i volti dei cadaveri con le foto dei giovani scomparsi che alcune famiglie gli hanno mandato dal Sudan. Non gli hanno permesso di entrare. Libia. Violenze in tutto il Paese per i continui blackout e la crisi economica di Francesca Mannocchi La Stampa, 3 luglio 2022 L’impasse politica e gli scontri tra milizie bloccano la produzione di gas e petrolio. Un gruppo di manifestanti ha assaltato e dato fuoco alla sede distaccata del ministero delle Finanze di Sebah, a Misurata i cittadini hanno assaltato la sede del consiglio Municipale, a Tripoli i gruppi armati fedeli al governo hanno sciolto le manifestazioni colpendo la gente con colpi di arma da fuoco, a Sirte invece la gente è scesa in piazza con le bandiere verdi, quelle gheddafiane. A qualche centinaio di chilometri, a Bengasi, nell’est del Paese, sono state date alle fiamme le immagini di suo figlio Saif al Islam Gheddafi. Da ultimo venerdì gruppi di manifestanti hanno preso d’assalto e incendiato la sede del parlamento della Cirenaica a Tobruk. È la cronaca delle ultime settimane libiche, eventi che sembrano da un lato riportare indietro il Paese di dieci anni, dall’altro riportarlo - per l’ennesima volta dal 2014 - sull’orlo di un conflitto armato. La storia del Paese insegna che le evoluzioni e i passi falsi della vita politica si legano al petrolio e che il petrolio si lega alle attività delle milizie armate. Gli eventi di questa estate libica seguono, purtroppo, lo stesso copione. Venerdì il NOC, la National Oil Corporation libica, ha dichiarato lo stato di forza maggiore sulle esportazioni di petrolio dopo settimane di proteste generate dalla spaccatura nella classe politica libica su chi dovrebbe governare il Paese. La contrapposizione, oggi, è tra Fathi Bashaga, il primo ministro nominato dal parlamento all’inizio di quest’anno, e il primo ministro Abdul Hamid Dbeibah, nominato lo scorso anno attraverso un processo sostenuto dalle Nazioni Unite. Dbeibah, secondo il processo di pace inaugurato nel 2020, avrebbe dovuto svolgere il suo ruolo ad interim fino alle elezioni di dicembre che, però, non si sono mai tenute, e oggi, a processo di pace fallito, si rifiuta di cedere il potere. Così il Parlamento con sede nell’est ha affermato che il governo di unità provvisoria di Abdul Hamid Dbeibah fosse scaduto e ha nominato Fathi Bashagha per sostituirlo. Il conflitto tra i due governi ha dato vita a intensi combattimenti tra le influenti milizie della parte occidentale del Paese, da una parte la Brigata Nawasi, fedele a Bashaga, dall’altra la Stability Support Force, che invece sostiene Abdul Hamid Dbeibah. Ad assistere, una volta ancora, le Nazioni Unite che, dopo il fallimento del processo di pace di Ginevra del 2020, dopo il mancato accordo dell’inizio di giugno durante i colloqui tenuti al Cairo, giovedì scorso hanno affermato che le negoziazioni tra le fazioni rivali non riescono a sanare le differenze e le distanti visioni sul futuro del Paese. Così, una volta ancora, la Libia resta spaccata a metà e ha due parlamenti. Un pezzo del Paese è sotto il controllo di Fathi Bashaga, sostenuto dal Parlamento con sede in Cirenaica, a Sirte, nell’est della Libia, un altro pezzo sotto il controllo di Dbeibah con sede a Tripoli. In mezzo i cittadini e la ricchezza libica - il petrolio - minacciata dalle milizie che hanno bloccato pozzi e raffinerie. Negli ultimi mesi le condizioni di vita dei libici sono peggiorate molto, così come è aumentata la frustrazione di un Paese che vive sul gas e sul petrolio e fa i conti con una cronica mancanza di carburante. Dallo scorso aprile alcuni dei principali terminal petroliferi sono stati bloccati, e la National Oil Corporation ha contabilizzato perdite per oltre 3,5 miliardi di dollari. Il blocco aveva lo scopo di tagliare le principali entrate statali al primo ministro Dbeibah, che però si è di nuovo rifiutato di dimettersi. Giovedì il presidente del NOC, Mustafa Sanalla, parlando alla stampa libica, ha detto di aver cercato in ogni modo di evitare di dichiarare lo stato di forza maggiore, ma le condizioni erano diventate insostenibili in tutto il Golfo di Sirte, nei terminali di Sidra, Ras Lanuf, oltre al campo Al-Feel, e Brega e Zueitina. A causa dei blocchi la National Oil Corportation non era più in grado di alimentare le “centrali elettriche di Zuetina, Bengasi e Sarir, a causa del collegamento tra produzione di greggio e gas dei giacimenti delle società Waha e Mellitah, che ha portato ad una mancanza di fornitura di gas naturale al gasdotto costiero”. Significa niente petrolio e niente gas nelle raffinerie, niente esportazioni, e niente elettricità per i cittadini. Significa soprattutto che non ci sono entrate dalla vendita delle risorse energetiche da cui dipende l’intera economia libica. Con le rendite del petrolio vengono pagati gli stipendi dei lavoratori pubblici, finanziate le infrastrutture, i generatori di corrente usati dai cittadini e dagli ospedali, e i prezzi dei beni di prima necessità, come il pane. “Il petrolio è la linfa vitale dei libici - ha detto Mustafa Sanalla dopo aver dichiarato lo stato di forza maggiore - ed è usato come merce di scambio, questo è un peccato imperdonabile”. Non è la prima volta che accade, né è la prima volta che Sanalla denuncia che i pozzi e le raffinerie siamo sotto la costante minaccia delle milizie, i gruppi armati che da anni rendono la sicurezza delle infrastrutture un’arma di ricatto sul piano politico. Le proteste delle ultime settimane hanno di nuovo paralizzato le esportazioni di petrolio, mentre il mercato è alle prese con la perdita della fornitura del petrolio russo a causa delle sanzioni occidentali. Secondo il NOC la produzione è “bruscamente diminuita” e le esportazioni giornaliere sono diminuite di 865.000 barili al giorno rispetto ai normali tassi di produzione, perdita a cui si aggiunge quella pari a 220 milioni di metri cubi di gas, necessari per alimentare la rete elettrica. Senza petrolio non c’è elettricità, si è detto. E senza elettricità la Libia vive in uno stato di cronici blackout anche di 18 ore al giorno, mentre il dinaro libico si è svalutato del 300% in pochi anni. La rabbia per le condizioni di vita e la sfiducia per i rappresentati politici è esplosa negli assalti alle sedi governative in tutto il Paese. Le immagini più drammatiche sono arrivate da Tobruk, sede di una delle due amministrazioni rivali della Libia, dove i manifestanti hanno preso d’assalto il parlamento e dato fuoco a una parte dell’edificio. Le prima immagini mostrano colonne di fumo che si alzano dal palazzo mentre i manifestanti bruciano pneumatici all’esterno gridando “vogliamo elettricità”. Un altro video, diffuso ieri dal media libico al-Wasat, mostra un manifestante alla guida di un bulldozer che sfonda una delle recinzioni del Parlamento: alcuni manifestanti si fanno strada nell’edificio, mentre altri sventolano le bandiere verdi del regime di Gheddafi. Ieri dall’altra parte del Paese, nella capitale Tripoli, le strade di mezza città erano chiuse, sbarrate dai mezzi corazzati delle milizie. È troppo presto per dire se le manifestazioni di questi giorni siano il seme di una protesta più strutturata, ma non c’è dubbio che abbiamo dei denominatori comuni: la disperazione collettiva per la situazione economica e il ladrocinio delle risorse, la frustrazione per i mancati accordi politici, la richiesta di un cambiamento. Soprattutto sono proteste guidate da giovani che assistono da dieci anni al fallimento delle promesse della rivoluzione del 2011. La speranza per il prossimo futuro è che le istanze di queste proteste dell’Est, del Sud e dell’Ovest della Libia riescano a convergere e spronare la classe politica al cambiamento. Il realismo dice però che è assai più probabile che queste manifestazioni siano il preludio della prossima guerra civile. Libici in rivolta contro lo stallo politico e le condizioni di vita di Michele Giorgio Il Manifesto, 3 luglio 2022 Assaltato il Parlamento di Tobruk, centinaia in strada a Tripoli, Bengasi e Misurata per chiedere elezioni politiche e presidenziali e priorità all’economia. Ma i due primi ministri, Abdulhamid Dabaiba e Fathi Bashagha, non fanno passi indietro. “Le manovre militari hanno accresciuto la fiducia tra i paesi partecipanti e migliorato la comprensione e la cooperazione reciproche”. È una parte del comunicato diffuso venerdì sera dall’ambasciata Usa a Tripoli per sottolineare la soddisfazione di Washington per la partecipazione della Libia alle recenti esercitazioni Phoenix Express 22 in Tunisia assieme a 11 Stati arabi ed europei. In quello stesso momento stava esplodendo nel paese la protesta popolare più ampia dal 2011, per il netto peggioramento delle condizioni di vita e la paralisi della politica. È solo uno dei paradossi che strangolano il paese nordafricano oggetto degli appetiti dell’Occidente, per i suoi giacimenti di petrolio e la sua posizione nel Mediterraneo, e allo stesso tempo abbandonato al suo destino. A Tobruk venerdì sera sono divampate le proteste più ampie e dure. I dimostranti hanno dato alle fiamme spazzatura e copertoni davanti alla sede della Camera dei Rappresentanti. Poi sono entrati nell’edificio distruggendo documenti, scrivanie, scaffali mentre la piazza scandiva lo slogan più noto delle rivolte arabe del 2011: “Il popolo vuole la caduta del regime”. La protesta in poche ore si è allargata ad altre città. A Bengasi, roccaforte dell’uomo forte, il generale Khalifa Haftar, centinaia di persone hanno scandito “Libia, Libia” e chiesto migliori condizioni di vita. A Misurata i manifestanti hanno cercato di fare irruzione nella sede della municipalità. Poi l’onda ha raggiunto Tripoli dove centinaia di persone, soprattutto giovani, si sono radunate nella Piazza dei Martiri, l’ex Piazza Verde, per chiedere lo svolgimento di elezioni presidenziali e parlamentari. Quindi i manifestanti si sono diretti verso il quartier generale del primo ministro. Le forze di sicurezza li hanno allontanati sparando in aria. Ma la protesta non è cessata. Ieri sono state alzate barricate sulle principali arterie stradali a est della capitale, in particolare a Tajoura. Impoveriti, penalizzati da interruzioni di corrente elettrica fino a 18 ore al giorno con temperature che arrivano anche a 45 gradi, danneggiati dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, senza carburante anche se il paese ha tra le più grandi riserve di petrolio accertate dell’Africa, i libici sono impantanati nel caos provocato dalle varie fazioni, spesso anche armate, e dai ripetuti round di conflitto tra i leader di Tripoli e Bengasi. Ciò mentre i colloqui di questa settimana a Ginevra, volti a rompere la situazione di stallo tra le istituzioni libiche rivali, non sono riusciti ad accorciare le differenze. Le elezioni presidenziali e parlamentari, originariamente fissate per il 24 dicembre dello scorso anno, avevano lo scopo di concludere il processo avviato dall’Onu dopo la fine dell’ultimo round di guerra e violenze nel 2020. Ma il voto non ha mai avuto luogo a causa di candidature controverse e profondi disaccordi tra i centri di potere contrapposti a est e ovest. A febbraio lo stallo si è persino aggravato. Il primo ministro ad interim Abdulhamid Dabaiba ha proclamato di non voler lasciare il governo di Tripoli, mentre l’ex ministro degli interni Fathi Bashagha, sostenuto dalla Camera dei rappresentanti (assaltata a Tobruk) e dall’uomo forte Khalifa Haftar, si è proclamato nuovo premier. Da lì non si sono fatti passi in avanti. Eppure, l’economia dovrebbe essere la priorità assoluta perché il paese importa quasi tutto il suo cibo e la guerra in Ucraina ha fatto salire i prezzi al consumo a livelli insostenibili. Il settore energetico, che durante l’era Gheddafi finanziava il welfare, è vittima di divisioni politiche, con un’ondata di chiusure forzate di impianti petroliferi. La cosiddetta l’amministrazione orientale ha chiuso i rubinetti del petrolio per imporre il trasferimento del potere a Bashagha. E la National Oil Corporation ha annunciato perdite per oltre 3,5 miliardi di dollari a causa delle chiusure e del calo della produzione di gas, che ha un effetto a catena sulla rete elettrica. Un clima che il premier di Tripoli Dabaiba ieri ha colto per cavalcare la protesta e attaccare i suoi avversari. Iran. Nei primi sei mesi dell’anno eseguite 252 condanne a morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 luglio 2022 Oggi, 2 luglio, è il giorno numero 183 dell’anno in corso. In Iran, dall’inizio dell’anno e secondo i dati raccolti da Iran Human Rights, le esecuzioni di condanne a morte sono state già 252. Di questo passo il totale delle esecuzioni del 2021, 314, sarà presto superato e rischia di essere avvicinato, se non raggiunto il record negativo del 2017, quando vennero messi a morte 517 detenuti. L’ultimo bagno di sangue è avvenuto il 29 giugno a Rajai-Shahr, la prigione della città di Karaj: 10 esecuzioni in un solo giorno, otto delle quali per omicidio e le altre due per stupro e sodomia. Come ha fatto notare Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore di Iran Human Rights, quest’anno non c’è stato un aumento particolare della criminalità tale da giustificare, semmai si potesse giustificare, l’aumentato uso della pena di morte. Piuttosto, va evidenziato come il mese peggiore, maggio, con una media di quasi due esecuzioni al giorno, abbia coinciso con l’inizio delle proteste di massa, nel sudovest dell’Iran, per l’aumento del prezzo dei generi alimentari.