La sanità questa sconosciuta nel girone infernale delle carceri di Cristina Calzecchi Onesti ladiscussione.com/184344/societa/la-sanita-questa-sconosciuta-nel-girone-infernale-delle-carceri/, 31 luglio 2022 Intervista a Sandro Libianchi presidente dell’associazione Co.No.Sci. Le carceri, come tutti i contesti confinanti, sono, per propria natura, concentratori di vulnerabilità sociali e sanitarie. Ma se a questo si aggiungono anche gli altri i problemi dei nostri istituti detentivi, dal sovraffollamento alle carenze di personale, la possibilità che si trasformino in luoghi ad alto rischio per la salute psichica e fisica diventa una certezza. Ne abbiamo parlato con il dottor Sandro Libianchi, dirigente medico per quasi 30 anni nelle carceri italiane e oggi cofondatore e presidente della associazione Co.No.Sci. Dottor Libianchi, di che si occupa la vostra associazione? È una associazione nata nel 2000 a Roma per la tutela della salute nelle carceri italiane, non solo nel periodo detentivo, ma anche in quello post-carcerario, durante il reinserimento sociale, e, se possibile, anche nel pre-carcerario. Cosa vuol dire esattamente? Faccio un esempio. Il problema della tossicodipendenza ha una forte incidenza sulla popolazione carceraria ed è il movente che spinge le persone a delinquere. Cerchiamo, quindi, di intercettarle prima, collaborando con i Ser.D. (Dipartimenti per le politiche antidroga). Quanto sono presenti nelle nostre carceri il problema della dipendenza dalle droghe e quelli di altra natura mentale? Secondo l’unica ricerca italiana, condotta nel 2014 su un campione di 16.000 persone, i detenuti affetti da patologie psichiche, psichiatriche e/o da tossicodipendenza rappresentano il 41,3% del totale. Quasi la metà degli intervistati. Per loro sono previste delle celle ad hoc e dei trattamenti sanitari specifici, è una misura che viene rispettata? Le rispondo con i numeri. Per le persone gravemente malate dal punto di vista psichico ne sono state programmate 32 in tutta Italia su circa 200 carceri (adulti e minori). Le Regioni, la cui competenza esclusiva è stata stabilita dal DCPM dell’1 aprile 2008, si giustificano per i costi sono troppo elevati, ritenendo che sia una responsabilità dello Stato reperire fondi speciali allo scopo. Il risultato è che non tutti usufruiscono dei servizi previsti. Mi sta dicendo che è possibile che coabitino persone con disturbi mentali, più o meno gravi, o dipendenze con persone che non li hanno, magari in celle sovraffollate e alle temperature elevatissime di questa estate rovente? Si, è possibile. E per quanto riguarda il caldo, le nostre celle non hanno l’aria condizionata né gli scuri alle finestre per una questione di sicurezza. Per avere dell’ombra usano le camicie o degli stracci. A questo aggiungiamo che il 71% dei detenuti sono fumatori e che possono fumare nelle celle, si può solo immaginare il risultato. Più che un carcere assomiglia sempre di più a un girone infernale e a una polveriera pronta a esplodere. Dobbiamo a questo l’aumento dei suicidi in carcere? È vero che i suicidi sono leggermente aumentati nell’ultimo anno, ma sono sempre stati tanti. In questi 30 anni hanno mantenuto la media dei 50-60 l’anno a causa di quel rischio di “malattia vera” indotta dal contesto. La cosa che i detenuti temono di più e che può farli precipitare nello sconforto totale sono i telegrammi, forieri quasi sempre di cattive notizie: la richiesta di divorzio dal coniuge in libertà, la perdita del lavoro o la sentenza con una condanna lunga attesa magari da molto tempo. E in quei momenti esiste una assistenza sanitaria che sostenga e accompagni il detenuto a elaborare la sua nuova dimensione? No, non si riesce a fronteggiare la situazione nel suo complesso e le risposte sono inappropriate e carenti. Il personale medico è troppo sottostimato e questo vale per tutte le malattie, pregresse o che si sviluppano in carcere. I medici sono circa la metà di quelli necessari e non sono mai stati neanche determinate le dotazioni organiche necessarie ad ogni carcere. Di che numeri stiamo parlando? Quante e quali patologie sono presenti? Impossibile avere un quadro d’insieme perché l’unico monitoraggio fatto dalle Regioni, che sarebbe obbligatorio per legge, risale al 2010. Secondo la ricerca che le citavo prima, più recente e imparziale, tra l’altro il 49,7% dei detenuti è sovrappeso o obeso per l’inattività, il 14,5% ha problemi all’apparato digerente e l’11,4% presenta patologie cardiocircolatorie, dall’ipertensione a cardiopatie vere e proprie, solo per fare degli esempi. Ognuno avrebbe bisogno di cure adeguate per non parlare della prevenzione, che è quasi totalmente assente. Di che tipo? Per quanto riguarda le epidemie, nelle carceri non esistono solo le malattie a trasmissione area, come il Covid, ma anche quelle a trasmissione ematica, attraverso i rapporti sessuali non protetti o lo scambio di siringhe che i tossicodipendenti continuano a usare di nascosto. La distribuzione dei presidi sanitari, come i preservativi o siringhe nuove, aiuterebbe a contenere alcuni di questi contagi. In altri Paesi europei lo stanno facendo, come in Germania, Grecia, Macedonia e Spagna. In questo momento c’è molta attenzione per l’epatite C, ma solo per la pressione delle case farmaceutiche, perché le cure sono tra le più costose. Di chi sono le responsabilità maggiori? Come ho detto, la competenza è regionale. Parliamo delle scelte politiche alla base della gestione dei bilanci. Se non si fanno i monitoraggi continui e sistematici, non si riesce neanche a produrre un modello organizzativo organico e uguale per tutti. Le Regioni vanno ognuna per conto loro, ma tutte presentano carenze o nel numero del personale o nei fondi messi a disposizione o nell’organizzazione. Questa assenza di cure e di assistenza può generare da parte delle persone detenute una sorta di rifiuto della società che a sua volta porta alle recidive? Si, sicuramente non li ben dispone. La maggior parte di morti di overdose sono persone appena uscite dal carcere che sentono il bisogno di “consolarsi”, di fare un qualcosa per sanare la sofferenza, fosse anche solo una sbronza. Oltre a una assistenza psicologica e sanitaria più attenta, cosa potrebbe aiutare un loro recupero? Il poter lavorare, occuparsi di qualcosa, costruirsi l’idea di un futuro post-carcerazione. Ora la sigaretta è il loro maggior passatempo. Quasi un detenuto su due soffre di disturbi psichici. Corleone: “Intervenire subito” di Marcello Conti La Repubblica, 31 luglio 2022 È la patologia più diffusa secondo le rilevazioni dell’Ars Toscana Presentata una ricerca sulla salute mentale nel carcere fiorentino di Sollicciano. Alessandro Margara, magistrato che per tutta la vita si è speso per i diritti dei detenuti, parlava del “carattere patogeno dell’istituzione penitenziaria”. Vale soprattutto per quanto riguarda la sanità mentale dei carcerati. Le rilevazioni sulla salute della popolazione detenuta condotte periodicamente da Ars Toscana segnalano non solo che i disturbi psichici sono da sempre la patologia più diffusa tra i detenuti, ma che la loro percentuale è in aumento: se nel 2017 le patologie psichiatriche rappresentavano il 38,5% del totale, nel 2021 erano il 49,2%. A riaccendere i riflettori sul problema una ricerca, “Salute mentale e assistenza psichiatrica nel carcere di Firenze Sollicciano”, promossa dall’Onlus Società della Ragione, condotta da tre giovani ricercatrici, Giulia Melani, Katia Poneti e Lisa Roncone, con la supervisione di Franco Corleone. “Molti credono che le prigioni siano piene di pazzi, ma non è esatto”, spiega Corleone. “Noi, con questa ricerca, abbiamo voluto fare una distinzione: ci sono relativamente pochi casi di soggetti affetti da malattie psichiatriche, ci sono invece molte persone che manifestano sofferenza o disagio psichico. Vanno trattati adeguatamente. La ricerca è nata da questa urgenza”. Nel 2015 una storica riforma ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sostituiti dalle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Il complesso passaggio dalle Opg alle Rems ha sollevato problemi. Tra questi proprio la gestione dei disagi mentali in carcere. “Mettiamo che in carcere c’è un detenuto che spacca un lavandino - continua Corleone - Un tempo l’amministrazione penitenziaria l’avrebbe mandato in una Opg. Ora se lo deve tenere e lamenta che “è pazzo, è ingestibile”. Gli psichiatri rispondono: “no, questo è uno che contesta la realtà del carcere, ve ne dovete occupare voi”. Questo scaricabarile va superato. Perché, per fare un altro esempio, se uno si fa tagli tutti i giorni, non mi interessa se sia un soggetto schizofrenico o meno, mi interessa che qualcuno si occupi di lui”. Le soluzioni? O cambiare il carcere o trovare soluzioni fuori dal carcere. Insomma “servono interventi politici, amministrativi, gestionali”. Altrimenti si corre il rischio che vinca la tentazione di tornare indietro, alle Opg. “Abbiamo bisogno di rivoluzioni - conclude Corleone - altrimenti vince la reazione”. Più cause ai giudici di pace, meno ai tribunali di Dario Ferrara Italia Oggi, 31 luglio 2022 Aumenteranno le cause davanti al giudice di pace e si ridurranno quelle davanti al tribunale in composizione collegiale. Diminuirà il numero delle udienze, mentre si punta ad arrivare alla prima con un quadro già chiaro di cosa va provato e deciso. Più udienze online e processo telematico davanti al magistrato onorario. Largo, inoltre, al procedimento sommario di cognizione, che ora si chiama “semplificato” e abbraccia tutte le controversie più semplici. In appello torna il consigliere istruttore, con ampi poteri. In Cassazione diventerà più facile definire i ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. Un solo rito e un solo tribunale per le cause su persona, minori e famiglia. È pronto, il nuovo processo civile: approvati dal Consiglio dei ministri i provvedimenti attuativi della legge delega 206/21 che rientrano negli obiettivi del Pnrr da raggiungere entro dicembre. Tempi stretti. Tempi duri per le liti temerarie: la sanzione pecuniaria tra 500 e 5 mila euro in favore dell’erario scatta per la responsabilità processuale aggravata della parte che fa sprecare risorse alla Giustizia con la sua inutile azione o resistenza in giudizio. Il giudice di pace diventa competente nelle cause sugli incidenti stradali fino a 30 mila euro e sui beni mobili fino a 15 mila. E in tribunale? L’intervento sulla fase introduttiva consente al giudice verifiche anticipate per concentrare più attività nella prima udienza e, ad esempio, passare dal rito ordinario a quello semplificato. Addio all’udienza di precisazione delle conclusioni, sostituita dallo scambio di note scritte. Soppressa anche quella per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio, già esclusa durante la pandemia Covid. Giudice obbligato a predisporre il calendario del processo alla prima udienza: entro novanta giorni ci si deve rivedere in aula per l’assunzione delle prove. Tempi più stretti per la fase decisoria, con termini difensivi finali ridotti e a ritroso dalla rimessione della causa in decisione. Il procedimento semplificato di cognizione diventa obbligatorio nelle cause meno complesse, anche di competenza del tribunale in composizione collegiale. In quali ipotesi? Se i fatti di causa non sono controversi oppure quando la domanda è fondata su prova documentale o di pronta soluzione ovvero richiede comunque un’attività istruttoria non complessa. Scattano provvedimenti molto semplificati di accoglimento e di rigetto in una precisa serie di ipotesi: se i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate o quando è la domanda a risultare manifestamente infondata. Oppure se è omessa o risulta assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda ovvero l’esposizione dei fatti e degli elementi che costituiscono le ragioni della domanda ex articolo 163, terzo comma, numero 3) Cpc. Online o sostituite dallo scambio di note le udienze che prevedono solo la partecipazione di difensori, parti, pm e ausiliari del giudice, a meno che non siano le parti a opporsi. Atti sintetici e chiari: le parti devono collaborare con il giudice, che ne valuta la condotta processuale ai fini della decisione. Filtri sostituiti. In appello il consigliere istruttore acquista più peso nella direzione del procedimento. Cambiano ancora i filtri per le impugnazioni: basta la trattazione orale con una sentenza motivata in modo succinto per dichiarare la manifesta infondatezza dell’appello che non ha ragionevole probabilità di essere accolto. Il tutto anche con un rinvio a precedenti conformi. Nel giudizio di legittimità arriva un nuovo istituto, il rinvio pregiudiziale in Cassazione: il giudice di merito può sottoporre direttamente alla Suprema corte la questione di diritto di particolare complessità o novità che è chiamato a risolvere, dopo aver assicurato sul tema il contraddittorio fra le parti. E scatta una nuova ipotesi di revocazione contro la sentenza che ha un contenuto dichiarato contrario alla Convenzione dei diritti dell’uomo da parte di Strasburgo, violazione che non risulta possibile rimuovere con la tutela per equivalente. Semplificato il versamento del contributo unificato. Le nuove norme si applicheranno ai procedimenti instaurati dopo il 30 giugno 2023, salvo eccezioni. Dai pm antimafia al giudice romanziere: i candidati al nuovo Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 luglio 2022 Il 18 e 19 settembre i quasi diecimila magistrati italiani eleggeranno i nuovi componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. L’elenco dei principali candidati presentati dalle correnti e quelli indipendenti. Non saranno soltanto i politici a fare campagna elettorale sotto gli ombrelloni. Il 18 e 19 settembre i quasi diecimila magistrati italiani saranno chiamati a eleggere i nuovi componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, il tutto sulla base delle nuove regole elaborate dalla ministra Marta Cartabia con l’obiettivo di ridurre l’influenza delle correnti. I magistrati dovranno eleggere 20 componenti: 2 colleghi di Cassazione, 5 pubblici ministeri e 13 giudici. Per candidarsi, a differenza del passato, non sarà più necessario raccogliere un numero minimo di firme. Le toghe voteranno in sette collegi (uno per la Cassazione, due per la magistratura inquirente e quattro per la giudicante). Ciascun collegio eleggerà due componenti, ma sarà prevista anche una distribuzione proporzionale di cinque seggi a livello nazionale per i giudici e l’elezione del pm risultato miglior perdente. Un sistema bizantino, che difficilmente riuscirà a eliminare il peso delle correnti. Alla fine, il nuovo meccanismo elettorale dovrebbe paradossalmente premiare le correnti di Magistratura indipendente e Unicost, cioè quelle più coinvolte nello scandalo Palamara. Ciò anche in virtù della spaccatura avvenuta nella sinistra giudiziaria, con la decisione di Magistratura democratica di separarsi da Area. Magistratura indipendente, il gruppo “conservatore”, schiera otto candidati: Paola D’Ovidio nel collegio di Cassazione, due pm antimafia come Eligio Paolini (Dda di Firenze) e Dario Scaletta (Dda di Palermo), e cinque giudici, tra cui Maria Luisa Mazzola (gip a Bergamo), Edoardo Cilenti (giudice di corte d’appello a Napoli) e Maria Vittoria Marchianò (presidente del tribunale di Crotone). Unicost, il gruppo centrista un tempo guidato da Palamara, candida Milena Falaschi nel collegio di Cassazione, Maurizio Arcuri (sostituto procuratore a Roma) e Marco Bisogni (anche lui pm antimafia alla Dda di Catania), e ben otto giudici, tra cui Michele Forziati (giudice di corte d’appello a Roma), Roberto D’Auria (giudice del tribunale di Napoli) e Stefania D’Errico (presidente di sezione del tribunale di Taranto, nonché del collegio che ha condannato i Riva per la gestione dell’ex Ilva, nel processo “Ambiente svenduto”). Area presenta nove candidati: Antonello Cosentino nel collegio di Cassazione, due pm di peso come Mario Palazzi (sostituto procuratore a Roma che con l’aggiunto Paolo Ielo si è occupato dell’indagine sul caso Consip) e Maurizio Carbone (procuratore aggiunto a Taranto e già segretario nazionale dell’Anm), e sei giudici, tra cui Marcello Basilico (presidenze della sezione lavoro del tribunale di Genova), Emilia Conforti (giudice a Roma) e Tullio Morello (presidente di sezione del tribunale di Napoli). Magistratura democratica, che con Area componeva il fronte di sinistra, non candida pubblici ministeri, ma sei giudici, tra cui Gaetano Campo (presidente di sezione del tribunale di Vicenza) e Domenica Miele (presidente di sezione della corte d’appello di Napoli), e soprattutto nel collegio di Cassazione Raffaello Magi, magistrato noto per il suo impegno contro la criminalità organizzata (fu l’estensore della sentenza di primo grado del processo “Spartacus” contro i Casalesi). Autonomia e indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo, presenta candidature di peso che potrebbero scompaginare alcune previsioni, come Antonio Patrono (procuratore della Spezia, ex presidente dell’Anm e già per due volte membro del Csm), il giudice Roberto Oliveri Del Castillo (in servizio alla corte d’appello di Bari e autore di un famoso romanzo che “anticipò” lo scandalo giudiziario che poi avrebbe investito la procura di Trani), Cesare Bonamartini (giudice a Brescia) e Carlo Coco (consigliere della corte d’appello di Bologna). Un comitato denominato “AltraProposta” ha invece deciso di candidare una serie di magistrati scelti tramite sorteggio e poco conosciuti. Ai candidati delle correnti si devono aggiungere i tanti magistrati che hanno deciso di candidarsi in maniera indipendente. Tra questi il più noto (anche se più per i suoi flop giudiziari) è senza dubbio il pm napoletano Henry John Woodcock, ma sono da citare anche Gregorio Capasso (procuratore capo di Tempio Pausania, che indaga sulla vicenda di Grillo junior), Stefano Guizzi (magistrato di Cassazione), Stanislao De Matteis (sostituto procuratore generale in Cassazione), Eduardo Savarese (giudice del tribunale di Napoli) e Giuseppe Cioffi (giudice del tribunale di Napoli Nord). Chi è Andrea Mirenda, il magistrato anti correnti candidato al Csm di Paolo Comi Il Riformista, 31 luglio 2022 Il giudice Andrea Mirenda è candidato alle prossime elezioni per la componente togata del Consiglio superiore della magistratura. Sembra uno scherzo ma è vero. Mirenda, magistrato di sorveglianza a Verona e fautore da sempre del sorteggio per la scelta dei togati di Palazzo dei Marescialli, è stato a sua volta sorteggiato questa settimana dall’Ufficio elettorale presso la Corte di Cassazione. La riforma Cartabia, da poco in vigore, ha previsto infatti che se non si fosse raggiunto un numero di predeterminato di candidati in ogni singolo collegio, sarebbe stato necessario provvedere alla selezione dei magistrati mancanti tramite il sorteggio. La candidatura di Mirenda è certamente la più “anti sistema” che ci possa essere. Vale la pena ricordare la sua storia. Dopo essere stato per anni un esponente di primo piano della sinistra giudiziaria di Magistratura democratica, Mirenda si scontrò con la dirigenza del gruppo non condividendone scelte e modi di agire, poi raccontati nei libri di Luca Palamara. Quando ancora nessuno conosceva l’hotel Champagne, albergo romano dove nel maggio del 2019 Palamara e alcuni politici e magistrati si incontrano per discutere di incarichi, ad iniziare da quello di procuratore di Roma, Mirenda fece un gesto a dir poco rivoluzionario: rinunciare al suo incarico di presidente di sezione presso il tribunale di Verona per andare all’ufficio di sorveglianza. “È emerso ciò che molti sapevano ma che pochi avevano avuto il coraggio di denunciare pubblicamente negli ultimi trenta anni”, disse Mirenda all’indomani dello scoppio del Palamaragate e della pubblicazione delle chat che i magistrati scambiavano con il ras indiscusso delle nomine al Csm, per avere un posto. Quando esplose lo scandalo, Mirenda, che non aveva mai avuto il cellulare di Palamara, si era anche offerto di difenderlo davanti alla sezione disciplinare del Csm. Considerato come un reietto, Palamara, prima di affidarsi a Stefano Guizzi, non aveva trovato alcun collega disposto ad assisterlo. Dopo aver chiesto, insieme ad altri colleghi, lo scioglimento del Csm, Mirenda iniziò una battaglia di verità proprio sulle chat, utilizzate a corrente alternata al Csm: per alcuni una clava, per altri una carezza. Nel mirino del giudice veronese l’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, autore della criticatissima circolare che escludeva l’illecito per il magistrato che si fosse autoraccomandato con Palamara per un incarico. Un po’ quello che era successo a Salvi che aveva, secondo Palamara, organizzato un incontro su un roof garden di un prestigioso albergo romano per perorare la sua nomina a pg della Cassazione. Salvi aveva smentito, Palamara aveva confermato, ricordando anche le pietanze di quel giorno. Durissimo, poi, sulla riforma Cartabia. Mutuando le parole del capo dello Stato Sergio Mattarella che parlò di “modestia etica” a proposito delle vicende dello Champagne, Mirenda definì l’elaborato voluto della Guardasigilli frutto della “modestia riformista”, essendo un testo che non incideva sul potere delle correnti, aumentato il potere del Csm per la scelta dei capi degli uffici. Potere che sarebbe stato tolto se si fosse scelta la rotazione dei vertici. Critico, poi, contro la decisione dell’Anm di scioperare contro tale riforma. “Uno sciopero di facciata”, secondo il magistrato. E critico contro i conflitti d’interessi. Il primo rappresentato dal professor Massimo Luciani, difensore del Csm e nominato dalla ministra della Giustizia presidente della Commissione che doveva riformare l’organo di autogoverno delle toghe: “Siamo davvero certi della sua terzietà e indipendenza?”. Il secondo rappresentato dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, ex capo ufficio legislativo del Ministero della giustizia: “È come se Sergio Marchionne fosse stato nominato capo del Film”. Mirenda è stato anche fra i firmatari di alcuni referendum sulla giustizia promossi dai Radicali e dalla Lega. Ad esempio quello sulla separazione delle carriere fra pm e giudici e sull’abolizione della legge Severino: “Adesso è sufficiente un buffetto di una Procura per destabilizzare il quadro politico. Penso ad Antonio Bassolino, 17 azioni giudiziarie finite nel nulla”, ricordò. Due le frasi che ama ripete, una è di Sandro Pertini, “il giudice non deve accontentarsi di essere indipendente, deve apparirlo”, per quanto riguarda le condotte inopportune di certi suoi colleghi. L’altra, invece, è di Marco Pannella, “siete ladri di verità”, a proposito di chi voleva derubricare il Palamaragate all’azione di un singolo “mariuolo”. Come disse Bettino Craxi quando arrestarono Mario Chiesa. E poi si è visto cosa successe. Riuscirà ad essere eletto? Difficile fare previsioni. Certo è che il 42 percento dei magistrati aveva votato per il sorteggio in occasione del referendum consultivo promosso dall’Anm. Se le donne fanno politica calano i femminicidi: lo dimostra una ricerca italiana di Gloria Riva L’Espresso, 31 luglio 2022 Applicare le quote rosa nei consigli comunali riduce drasticamente il numero dei casi di violenza mortale. “Votare con le norme per la parità di genere modifica alla radice la cultura e la consapevolezza della popolazione nei confronti del corpo femminile”. In anteprima per L’Espresso i dati dell’indagine Gssi. Persino la violenza è discriminatoria nei confronti delle donne. Dice l’Istat che negli ultimi dieci anni gli omicidi si sono quasi dimezzati, passando da 0,8 casi ogni centomila abitanti nel 2012 a 0,5 nel 2019 (c’è il dato 2021?). Tuttavia, se consideriamo i femminicidi, ovvero l’uccisione violenta di donne per mano di un famigliare o di qualcuno che ha un legame affettivo con la vittima, allora le morti passano dal 30 al 50 per cento nell’ultimo decennio. Si tratta di una media di una donna uccisa ogni tre giorni. Più di mille donne dal 2012 al 2020, con una media di 115 donne uccise ogni anno. Un’anomalia che la Scuola Superiore Universitaria aquilana Gran Sasso Science Institute (Gssi) ha indagato per capirne le cause e provare ad abbozzare una soluzione attraverso l’inchiesta scientifica “The Councilwoman’s Tale. Countering Intimate Partner Homicides by electing women in local councils”, “Il racconto della Consigliera. Contrastare i femminicidi eleggendo più donne nei consigli comunali”, condotta dalla ricercatrice ed economista Daria Denti e del prorettore alla Ricerca del Gssi, Alessandra Faggian. L’Espresso racconta in anteprima l’esito di quell’indagine. Già il titolo svela molto: “Abbiamo scoperto che nei comuni in cui sono state elette più donne nei consigli comunali, il volume di violenze su di loro si attenua”, racconta la ricercatrice Daria Denti. Ma andiamo con ordine. La prima novità di questa indagine è che per la prima volta è stato realizzato un database comunale dei casi di violenza mortale ai danni di donne. Finora, infatti, era possibile avere contezza dei femminicidi solo grazie ai dati raccolti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno, che tuttavia sono su base nazionale, al più regionale. Risultato: “Grazie a questo database è stato possibile evidenziare che esistono alcuni comuni, alcuni distretti, in cui si concentrano maggiormente i crimini, ma complessivamente non è possibile dire che ci siano dei pattern geografici, come una distinzione Nord-Sud o aree urbane-aree rurali. Ci siamo quindi domandate perché in alcuni municipi si concentra un altro numero di casi e perché in altri non si verifichino”. Le ricercatrici hanno scoperto che i femminicidi non si spiegano guardando la situazione reddituale della famiglia. Nonostante vi sia un’ampia letteratura scientifica di origine americana che imputa i femminicidi a situazioni di disagio economico che colpiscono la coppia o la famiglia, come la perdita del lavoro e disuguaglianze reddituali fra partner, il fenomeno italiano sembra rispondere ad altre motivazioni: “Non c’è corrispondenza fra questi due dati in Italia, quindi le ragioni sembrano essere altre. Non c’è neppure corrispondenza con il grado di istruzione, la tipologia di nucleo familiare, il tasso di crimini violenti nel luogo di residenza, la percentuale di popolazione straniera. Un’altra ipotesi vagliata è quella degli stereotipi di genere, ovvero i pregiudizi radicati nella cultura di un popolo, secondo cui il corpo della donna può essere oggetto di maltrattamenti per il semplice motivo che c’è un retaggio culturale che le assegna un ruolo inferiore rispetto all’uomo. Bingo. In Italia funziona proprio così: “Il radicamento di una cultura machista e di norme di genere, ovvero di regole ataviche secondo cui l’uomo ha maggiore valore della donna, favoriscono i femminicidi. Si tratta di un grave problema, perché gli stereotipi culturali si instillano profondamente nella società e sono difficilissimi da eradicare, come hanno dimostrato diversi studi condotti da importanti economisti italiani, a partire da Paola Giuliano ed Alberto Alesina, con il loro studio del 2013, “Le donne e l’Aratro”“, dice Denti. Alesina e Giuliano, studiando i cambiamenti delle millenarie pratiche agricole, avevano scoperto che nelle aree in cui l’innovazione in agricoltura aveva estromesso le donne dal lavoro nei campi, relegandole a un ruolo domestico, queste erano più soggette a stereotipi di genere anche a distanza di secoli. “Abbiamo creato una mappa delle disuguaglianze storiche che evidenzia le aree più soggette agli stereotipi di genere e l’abbiamo sovrapposta alla nostra mappa dei femminicidi e abbiamo scoperto che i dati corrispondevano, dimostrando come l’uccisione di donne ha ragioni storiche molto profonde e siano quindi difficili da sradicare”, conferma Denti. Dunque, come sconfiggere il pregiudizio di genere al fine di ridurre i femminicidi? La seconda parte della ricerca si concentra sull’importanza dell’empowerment femminile nella società, ovvero come la possibilità per la donna di emanciparsi, attraverso il lavoro, lo studio, la politica, e di apparire con un ruolo di rilievo o di potere nella società civile favorisce un cambio culturale complessivo, fino alla riduzione della violenza estrema sulle donne. Le ricercatrici hanno infatti evidenziato che nei comuni in cui ci sono più donne nei consigli comunali il numero di femminicidi diminuisce drasticamente: “Succede soprattutto nei comuni in cui le donne siedono più numerose fra i consiglieri comunali. Ci siamo domandati se questo effetto fosse dovuto a maggiori investimenti nelle politiche sociali stimolati da una maggiore presenza di donne elette, ma abbiamo scoperto che no, in realtà è il riconoscimento che le donne sono capaci soggetti istituzionali da parte della comuni a fare la differenza “, dice la ricercatrice, che continua: “Nonostante gli stereotipi di genere siano duri a morire, abbiamo scoperto che nei comuni al di sopra dei 5mila abitanti, a cui dal 2013 si applica la norma per la parità di genere per favorire la presenza femminile nei consigli comunali sono aumentate le donne elette e diminuiti i femminicidi, a parità di altre condizioni tra cui le richieste di aiuto per violenza di genere”. In effetti in quella tornata elettorale il numero di donne nei comuni è aumentato di ben 22 punti percentuali rispetto alla media dei comuni con meno di 5mila abitanti. L’aumento delle donne ingaggiate nelle liste durante le campagne elettorali consente di aggiornare stereotipi e preconcetti attraverso il reale agire delle donne candidate: “Abbiamo osservato che nei comuni con più di cinquemila abitanti, dal 2013 a oggi, l’aumento dell’1% delle donne elette riduce l’incidenza dei femminicidi del 80 per cento. Al contrario non si è verificata una simile riduzione né nei comuni al di sotto dei cinquemila abitanti, dove non esisteva tale norma, né nei comuni sopra ai 5000 abitanti fino a quando non è arrivata la scadenza amministrativa che ha imposto di votare con le norme per la parità di genere”, hanno scoperto le ricercatrici. Un dato importante perché mette la parola fine rispetto all’utilità delle quote rosa in politica e in economia: “La nostra indagine dimostra come l’applicazione delle quote di genere favorisce una riduzione dei casi di femminicidio, perché modifica alla radice la cultura e la consapevolezza della popolazione nei confronti delle donne. L’effetto si riscontra nei consigli comunali, rispetto alle istituzioni politiche regionali o nazionali, perché quella è l’istituzione più prossima, quella in cui ci si riconosce di più che riflette meglio prospettiva di genere di una comunità. Altri studi, su paesi diversi dall’Italia, hanno mostrato che ci sia anche un effetto fra la presenza di consigliere comunali e la spinta a una maggiore denuncia nei confronti del partner violento: di nuovo, la presenza di donne nelle istituzioni locali sembra agire facendo sentire le donne più riconosciute, aiutandole a superare alcune delle barriere che bloccano le denunce”. L’indagine scientifica non si ferma qui. Il prossimo passo sarà quello di analizzare l’effetto delle quote rosa nel mondo economico, per verificare se la legge Golfo-Mosca del 2011, che ha istituito le quote rosa, ovvero che almeno il 30 per cento dei membri dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate in borsa e delle società a controllo pubblico sia riservato al genere meno rappresentato, cioè alle donne: “Andremo a valutare l’impatto delle quote rosa sulla cultura di genere”, promette l’economista Daria Denti. Indifferenti sulla scena del delitto, la comunità nigeriana vuole giustizia di Mario Di Vito Il Manifesto, 31 luglio 2022 Civitanova Marche. Alika Ogorchukwu, 39 anni, ucciso in pieno centro tra i passanti che filmano ma non intervengono. La città marchigiana è divisa. “We need justice”. Abbiamo bisogno di giustizia. È gridando queste parole che la comunità nigeriana del maceratese ieri è scesa in strada a Civitanova Marche, dove venerdì pomeriggio Alika Ogorchukwu, 39 anni, è morto dopo essere stato picchiato da Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo in pieno centro, davanti a tanti testimoni che hanno ripreso la scena senza però intervenire. Una cinquantina di persone guidata dal pastore evangelico Amen Richwarrant ha fermato il traffico, in mano dei cartelli con le immagini del pestaggio e la foto della vittima. Tra loro c’era anche Charity Oriaki, la vedova di Ogorchkwu, che a un certo punto si è accasciata a terra in lacrime. A placare gli animi è poi arrivato il sindaco Fabrizio Ciarapica, che ha promesso vicinanza e impegno a non lasciar cadere la vicenda nel vuoto. Sul luogo del delitto qualcuno ha deposto mazzi di fiori. Su uno c’è una dedica: “Mi vergogno per chi ti ha fatto questo levandoti la vita, per chi ti ha filmato mentre venivi massacrato”. Civitanova, il giorno dopo l’omicidio, è attonita, il tempo sembra scorrere più lentamente del solito: il traffico è quello di sempre e i turisti hanno affollato le spiagge in mattinata e si sono ritirati già nel primo pomeriggio, quando un acquazzone si è abbattuto sulla città, ma sulle panchine e nei bar non si parla che di quello che è accaduto a Alika. Anzi, di quello che è accaduto alla città, perché dopo l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi (luglio 2016) e l’attentato di Luca Traini (febbraio 2018), siamo all’ennesimo caso simile. Nella notte tra venerdì e sabato, poi, nella vicina Recanati, un giovane marocchino è stato accoltellato a più riprese da un 47enne del posto. A evitare il peggio ci ha pensato un barista, che prima ha sedato lo scontro e poi ha chiamato i carabinieri. A Civitanova la divisione è tra chi pensa che, invece di filmare l’omicidio, qualcuno dei presenti poteva pure intervenire per fermare l’aggressione e chi invece sostiene che in certi momenti sia difficile capire cosa fare e che la paura sia un atteggiamento naturale. Nel dibattito, però, a scomparire è la vittima: i pensieri che si fanno sembrano più utili a cercare di scacciare i sensi di colpa che a cercare di capire davvero come e perché una cosa del genere sia potuta succedere. Fiori sul luogo in cui è stato ucciso il migrante nigeriano Alika Ogorchukwu foto Ansa Intanto, al commissariato di polizia, il vicequestore Matteo Luconi fa il punto insieme ai cronisti: “È stato un omicidio commesso per futili motivi. C’è stato un comportamento insistente da parte della vittima per ottenere l’elemosina della coppia, non ci sono state avance (come in un primo momento aveva detto l’aggressore) ma c’è stata una reazione abnorme”. Ferlazzo è in stato di arresto e si trova nel carcere di Montacuto (Ancona), accusato di omicidio volontario e rapina (ha rubato il cellulare alla vittima). I video registrati dai testimoni e quelli del circuito di videosorveglianza del centro di Civitanova non lasciano molti dubbi sulla dinamica del delitto: dopo l’avvicinamento della coppia (“Bella, comprami i fazzoletti o dammi un euro”, avrebbe detto la vittima), Ferlazzo ha cominciato a colpire Alika Ogorchukwu con violenza, l’ha scaraventato a terra, gli si è buttato addosso, l’ha colpito anche con la sua stessa stampella e poi l’ha finito schiacciandogli la testa sul marciapiede. Il tutto sarebbe durato quattro minuti. La fidanzata dell’uomo non era presente al momento dell’aggressione e, stando così i fatti, per il momento gli investigatori escludono il movente razziale. L’avvocata di Ferlazzo, Roberta Bizzarri, fatica a trovare le parole per descrivere la situazione: “Lui è addolorato, non si capacita e chiede scusa per quello che ha fatto”. Ferlazzo, a quanto è trapelato, avrebbe dei problemi di natura psichiatrica, è sottoposto ad amministrazione di sostegno e di mestiere fa l’operaio in una fonderia di Civitanova. “Chiederemo certamente una perizia psichiatrica”, taglia corto Bizzarri. Domani è prevista l’udienza di convalida dell’arresto, nei giorni successivi poi verrà eseguita l’autopsia sul corpo della vittima. Il sentiero giudiziario, per il resto, appare già tracciato, nella sua tragica semplicità. Alika Ogorchukwu lascia una moglie e un figlio di otto anni. Chi lo conosceva, o anche solo era abituato a incontrarlo per le strade di Civitanova o di Macerata, lo ricorda come una persona piuttosto mite e gentile: si guadagnava da vivere vendendo fazzoletti, accendini e altri oggetti di uso comune, talvolta chiedeva dell’elemosina. Qualche mese fa, mentre era in bicicletta, era stato messo sotto dalla macchina guidata da un ubriaco: aveva preso i soldi dell’assicurazione e si preparava a fare da parte civile al processo. Da allora Alika era costretto ad andare in giro accompagnandosi con un bastone. Da San Severino, la cittadina dove viveva insieme alla sua famiglia, era solito spostarsi verso Macerata nei giorni di mercato e, soprattutto d’estate, verso Civitanova, per intercettare la gran quantità di turisti che la affolla. Una vita andata avanti così, fino al giorno sbagliato in cui sulla sua strada ha incontrato l’uomo che l’ha ucciso. Padova. Detenuto di 36 anni muore suicida alla Casa di Reclusione Ristretti Orizzonti, 31 luglio 2022 Si chiamava Ademi Gerjon ed era stato arrestato nel giugno 2019, accusato di violazione della legge sugli stupefacenti. Roma. Detenuti e cani, insieme per la libertà di Stefano Liburdi Il Tempo, 31 luglio 2022 Borse di studio e impieghi per i ragazzi del carcere minorile di Casal del Marmo. Uomini e animali si riprendono la propria vita attraverso un percorso comune di recupero. A mettere detenuti e cani uno affianco all’altro a formare questa insolita “coppia” è il progetto “Fuori dalle Gabbie”, ideato dalla fondazione “Cave Canem”, per il reinserimento di persone recluse e cani senza casa. La fondazione in tre anni di attività e attraverso l’investimento di oltre mezzo milione di euro ha coinvolto quattrocento persone e oltre duemila cani abbandonati, maltrattati, vittime di sequestri o bisognosi di recupero comportamentale. Dal 2019 inoltre, tra Lazio, Umbria e Campania, sono stati coinvolti tre istituti penitenziari, oltre 150 autori di reato, tra cui molti minori, e più di duecento amici a quattro zampe. Il progetto è partito dalla casa di reclusione di Spoleto, dove sono stati attivati corsi di formazione professionali in materia di gestione, accudimento e recupero comportamentale dei cani. Nella cittadina umbra occasione per far conoscere “Fuori dalle Gabbie” è stato anche il recente Festival dei Due Mondi. La collaborazione con l’istituto penitenziario di Secondigliano, ha favorito l’apertura de “La Collina di Argo”, primo canile comunale di Napoli. A Roma invece, il progetto si è svolto all’interno dell’istituto penale per minorenni di Casal del Marmo. Con il percorso di giustizia riparativa “Cambio Rotta”, i minori autori di reato sono stati inseriti in un progetto di formazione e lavoro nel canile “Valle Grande” che ha tra i suoi “ospiti” cani abbandonati o sequestrati ad attività illecite. Coinvolti trentuno giovani di cui ben 24 hanno beneficiato dell’estinzione del reato commesso grazie al buon esito del programma definito per ognuno di loro dall’Ufficio Servizi Sociali per minorenni. In quattro hanno già ottenuto un incarico professionale e tredici hanno beneficiato di una borsa lavoro o di studio. A detenuti e animali viene data così una seconda possibilità per essere reinseriti nella società. I cani vengono tolti dalle gabbie e (ri)abituati alla convivenza con le persone prima di essere affidati. I ragazzi che hanno sbagliato vengono formati a lavori socialmente utili, dando così compimento al dettato della Costituzione dove all’articolo 27 è sancito che la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento del recluso. Dare una formazione spendibile anche dopo aver terminato la condanna, significa facilitare il reinserimento nella società di chi è stato privato della libertà. Inoltre con il lavoro e lo studio, si raggiunge l’obiettivo di sostituire la cultura criminale con cui la persona ha varcato la soglia del penitenziario, con la cultura della legalità. Solo così è possibile abbattere la “recidiva”, cioè quel fenomeno che fa tornare a delinquere chi uscendo dal carcere si trova senza un impiego e un futuro. Fare questo tipo di lavoro con i giovanissimi reclusi a Casal del Marmo, assume poi un’importanza ancora maggiore. Cave Canem è una fondazione no profit nata dalla volontà di due donne: la presidente Adriana Possenti e la sua vice Federica Faiella. Proprio la vicepresidente spiega: “Per evitare il rischio di recidiva, la fondazione finanzia borse di studio, borse lavoro e in alcuni casi fornisce incarichi professionali. Offriamo occasioni di riscatto e riavvicinamento al mondo del lavoro a persone detenute, accuratamente selezionate e formate”. Per svolgere questa missione seguendo il modello progettuale ideato, l’associazione ha lanciato una raccolta fondi sulla piattaforma di Intesa Sanpaolo “For Funding” iniziata a maggio per la durata di sei mesi. Per contribuire secondo la propria capacità di spesa, con un importo che va dai venti ai trecento euro, è sufficiente visitare la pagina web dedicata: https://www.forfunding.intesasanpaolo.com/DonationPlatform-ISP/nav/progetto/fuori-dalle-gabbie L’obiettivo di Cave Canem è raccogliere trentamila euro: “Trasformeremo in aiuti concreti la generosità di chi deciderà di sostenerci”, assicura Federica Faiella. Cuneo. I Radicali cuneesi scettici sull’inizio dei lavori nel carcere di Alba cuneo24.it, 31 luglio 2022 Nel Consiglio Comunale di ieri il sindaco Carlo Bo ha annunciato l’inizio dei lavori di adeguamento della casa circondariale, ma sono in molti a smentirlo e non emergono conferme nemmeno dallo stesso carcere. “Ulteriori rinvii non sono più tollerabili” è questo il monito che emerge dall’Associazione Radicali Cuneo - Gianfranco Donadei che in una nota ha commentato la situazione della casa circondariale di Alba che, come avevano fatto notare gli stessi radicali nella loro visita alla fine del 2021, presentava diverse criticità dal punto di vista dei servizi a disposizione dei detenuti, soprattutto nella parte inagibile della struttura. Nel consiglio comunale albese che si è tenuto nella giornata di ieri, il sindaco Carlo Bo ha annunciato l’inizio dei lavori di riqualificazione della struttura per porre rimedio anche a queste difficoltà. I Radicali cuneesi, però, di fronte a questa affermazione si sono dichiarati scettici, commentando nella loro nota ufficiale: “Molti smentiscono questa affermazione. La notizia dell’inizio dei lavori non è peraltro mai stata inviata ai giornali e ad oggi l’amministrazione del carcere ha preferito temporeggiare di fronte ad una nostra specifica domanda. Tutto ciò ci fa pensare che i lavori di ristrutturazione non siano ancora incominciati”. “Se ciò fosse effettivamente vero - continuano i radicali - ci troveremmo di fronte ad un fatto di una gravità inaudita, che mette a rischio l’integrità stessa delle strutture”. Torino. L’edicola è chiusa per ferie, niente giornali ai detenuti di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 31 luglio 2022 La protesta del blocco B: “Dall’8 al 28 agosto sospeso il servizio interno di distribuzione”. I detenuti ristretti nel blocco B del carcere “Lorusso e Cutugno” protestano per le gravi difficoltà nel ricevere i mezzi di informazione all’interno della struttura: dall’8 al 28 agosto - scrivono infatti in un comunicato - viene sospeso il servizio interno di distribuzione dei giornali e delle riviste. Motivo tanto banale quanto insuperabile, pare: “L’edicola esterna di via delle Primule chiude per ferie e quindi 1.400 detenuti (che tra l’altro non dovrebbero invece più di 1.062, ndr) non possono usufruire del servizio: troppo “difficile” rivolgersi a un’edicola diversa, che per turno rimane aperta ad agosto”. Non è la prima volta: “La sospensione del servizio aveva già segnato, anche, il periodo tra il 20 aprile e il 2 maggio”. Nel blocco B delle Vallette ci sono 12 sezioni, tra cui quella che ospita i detenuti impegnati in attività lavorativa esterna all’istituto, una per detenuti studenti di corsi professionali, due per studenti iscritti a un corso professionale della durata triennale, due sezioni di prima accoglienza per soggetti nuovi giunti, una per nuovi giunti tossicodipendenti. Per loro, resta un’amara conclusione: “Limitazione al diritto all’informazione tra burocrazia cronica, turni di riposo e ferie tra il personale penitenziario e menefreghismo”. Salerno. Fuorni, una giornata all’insegna della musica nel carcere anteprima24.it, 31 luglio 2022 “La musica è un balsamo interiore, che può agire sull’aggressività, sul rancore… un’ora di poesia, un’ora di speranza, un’ora d’amore incondizionato. Sto organizzando questo luglio musicale anche come occasione, per far vivere ai detenuti - in un periodo in cui non ci sono attività scolastiche formative- relazioni, attenzione del mondo esterno. Il carcere resta per la maggioranza delle persone una “discarica sociale”, un luogo senza tempo. Io mi auguro, invece, che singoli cittadini, associazioni, mondo dell’avvocatura, mondo ecclesiale, continuino anche in questa estate rovente ad accendere i riflettori sia sul carcere che sull’universo giustizia.” Così, Samuele Ciambriello, Garante regionale dei detenuti della Campania, ha introdotto l’evento, da lui promosso, che si è tenuto ieri nella Casa Circondariale di Fuorni, Salerno, alla presenza della direttrice Rita Romano. Sono andati in scena il musicista Espedito Marino, accompagnato dalla figlia Marta, il giovane artista Patrizio Izzo e, in chiusura, il noto cantante neomelodico Ciro Rigione. Dopo lo spettacolo la fondazione “Casamica” di Salerno ha offerto un aperitivo ai presenti. Si tratta di uno solo dei tanti eventi musicali che andranno in scena nelle carceri campane, i prossimi eventi musicali si terranno lunedì a Secondigliano con Andrea Sannino e martedì nel carcere di Aversa con le cantanti Miriam Rigione e Sara Altieri e l’esibizione di un gruppo di ballerine. Testimoniare l’orrore di Massimo Recalcati La Stampa, 31 luglio 2022 Un amico oncologo mi raccontava il suo stupore nel non sentirsi più di tanto coinvolto nei drammi dei suoi pazienti di fronte alla malattia. “Il tempo - mi spiegava - è come se avesse disattivato le mie emozioni”. Accade anche con ogni esperienza di lutto: il fattore tempo è determinante per spegnere il bruciore inizialmente insopportabile della perdita. “Impossibile continuare senza, ma impossibile non continuare senza”, scriveva Beckett. Ma quello che avviene nelle pieghe più intime della nostra vita privata si ripete anche nella dimensione pubblica della nostra vita collettiva. Un esempio fra tutti è quello della guerra in Ucraina. Le maratone televisive e i servizi giornalistici febbrili dei primi tempi hanno lasciato il posto ad una informazione tristemente routinaria. Della guerra in sé si tende a non parlare più, a non dedicarvi più la nostra attenzione se non per le conseguenze dirette che essa provoca sulle nostre vite: aumento delle bollette, caro vita, maggiore precarietà economica e sociale, futuro incerto. È scattato quel meccanismo di assuefazione psichica che ha coinvolto anche il mio amico oncologo. Freud ne parlava proprio a proposito della guerra e dell’indifferenza alla quale essa costringe gli esseri umani di fronte ai numerosi cadaveri anonimi che genera quotidianamente. Il peso emotivo che la vista del cadavere di una persona affettivamente cara può provocare sembra scomparire. L’assuefazione è l’effetto di un distanziamento psichico finalizzato alla neutralizzazione di un fattore giudicato perturbante. Ma, in realtà, questo distanziamento è, a sua volta, l’effetto di un’eccessiva prossimità inconscia all’oggetto dell’angoscia. Accade anche allo psicoanalista che quotidianamente è esposto all’incontro con la sofferenza dei suoi pazienti. Lacan, non a caso, paragonava la sua funzione a quella di una discarica: raccogliere ed evacuare il peggio, il negativo, l’insopportabile. Il fenomeno dell’assuefazione è un fenomeno di difesa dal trauma: l’abitudine vorrebbe poter ridurre lo scandalo - indigeribile psichicamente - di ciò che accade. Avviene anche di fronte alla violenza di ogni genere: anziché restare storditi, colpiti, offesi dalla brutalità e crudeltà del male, esiste nell’umano un’insidiosa tendenza all’adattamento, all’assimilazione di ciò che non può essere affatto assimilabile. Avviene con la fame nel mondo che più che una piaga che mobilita il dovere civile del soccorso, viene percepita come se fosse una fatalità naturale. Avviene con la violenza razzista, con quella femminicida, con gli incidenti sul lavoro e in tante altre occasioni della nostra vita collettiva. Come indicano diversi antropologi, la nostra civiltà dello spettacolo tende a trasformare ogni evento in una sorta di apparizione televisiva o cinematografica, destinata a scadere di interesse in tempi sempre più brevi per gli spettatori annoiati dal “già visto”, quali, in fondo, tutti noi tendiamo ad essere. La guerra in Ucraina resta un evento in sé al limite del concepibile, indigesto, scandaloso, ma il sistema della comunicazione sa bene che il carattere eccezionale di tutti i fenomeni che divengono oggetto assiduo di informazione tende a durare sempre di meno, dunque, a generare meno audience. L’assenza di risposta allo stimolo è infatti un fenomeno comportamentale tipico di ogni fenomeno dell’assuefazione. Ora, dopo il tempo della guerra, è il turno della campagna elettorale a polarizzare i nostri interessi. È quello lo spettacolo che ha inevitabilmente calamitato l’attenzione dei media. Col rischio però che vi sia assuefazione anche nei confronti della nostra vita politica. Non a caso assuefazione e disaffezione, come mostra il fenomeno dell’astensionismo elettorale, possono essere due facce della stessa medaglia. Eppure cosa c’è di più coinvolgente - in senso letterale - della vita politica? I nostri interessi personali e collettivi ne sono profondamente toccati. Ma questo dato di realtà non è sufficiente e rischia di non essere nemmeno percepito. Accade lo stesso con una guerra, che nonostante sia esplosa nel cuore dell’Europa, non è in grado di disinnescare il fenomeno dell’assuefazione. Assuefazione diviene infatti sinonimo di assimilazione; il carattere indigeribile della guerra viene rimosso rendendo la guerra parte del nuovo paesaggio dell’Europa. Sembrerebbe inverosimile ma è proprio quello che sta accadendo. Del resto, in pagine divenute giustamente celebri, Primo Levi, parlando della tragedia della vita nei campi di sterminio, ha mostrato quanto la spinta dell’umano all’adattamento in condizioni di vita inverosimili possa raggiungere vertici tenebrosi. Per questa ragione ammoniva sulla necessità di testimoniare con tenacia l’orrore per impedire non solo che esso potesse ripetersi, ma che possa anche divenire possibile assuefarsi alla sua esistenza. È, infatti, solo la testimonianza insistita dell’orrore a riconoscere l’orrore come tale impedendo la sua assimilazione assuefatta. Il conflitto e l’ipocrisia, serve un nuovo soggetto politico: l’umanità di Carlo Rovelli* Corriere della Sera, 31 luglio 2022 Mi unirei al coro generale se fosse sincero. Se condannando un attacco a un Paese sovrano, aggiungessimo che ci impegniamo a non fare mai più nulla di simile. Raramente mi sono sentito così lontano dalla retorica dei giornali. Forse dall’adolescenza, e forse per lo stesso motivo: quando la gioventù si ribellava d’istinto - prima ancora che a ingiustizia sociale, autoritarismo o vietnamiti massacrati dal napalm - al dilagare dell’ipocrisia. L’Occidente si è lanciato a cantarsi come detentore dei valori, baluardo della libertà, protettore dei deboli, garante della legalità, speranza per la pace. Il peana su quanto siamo buoni e giusti mentre gli “autocratici” sono infingardi è un coro all’unisono. La ferocia russa e cinese è ostentata, ripetuta, declamata. Mi unirei al coro se fosse sincero. Se condannando un attacco a un Paese sovrano, aggiungessimo che ci impegniamo a non fare più nulla di simile. Non fare quanto l’Occidente ha fatto in Afghanistan, Iraq, Libia, Serbia, Yemen, Grenada, Panama… Con la partecipazione dell’Italia sono stati invasi Iraq e Afghanistan che non avevano attaccato nessuno, causando un milione di morti. Rivangare il passato non serve: ci impegniamo per il futuro? Mi unirei al coro contro il riconoscimento del Donbass che ha innescato la guerra ucraina, se aggiungessimo che ci siamo sbagliati riconoscendo Slovenia e Croazia, innescando la guerra civile Iugoslava. O per i bombardamenti su Kiev, dove la scusa era che Kiev massacrava il Donbass, se la Nato si impegnasse a non fare più nulla di simile, come ha fatto bombardando Belgrado, dove la scusa era che Belgrado massacrava il Kosovo. Mi unirei al coro contro la Russia che cerca di cambiare il regime di Kiev, se l’Occidente si impegnasse a non fare più la stessa cosa, come ha fatto abbattendo e destabilizzato governi democraticamente eletti dal Medio Oriente al Sud America, dal Cile all’Algeria, dall’Egitto alla Palestina. Mi unirei al coro che si commuove per i profughi ucraini, se si commuovesse anche per yemeniti, siriani, afghani e altri con pelle di tonalità diverse. Ipocrisia senza limiti. I giornali gridano sulle politiche “imperiali” di Cina e Russia. Il lupo e l’agnello. La Cina non ha quasi soldati fuori dei suoi confini, se non in missioni Onu. La Russia ne ha a pochi chilometri, in Siria e Transnistria. Gli americani hanno centomila soldati in Europa, basi militari in Centro e Sud America, Africa, Asia, Pacifico, Giappone, Corea… ovunque, eccetto in Ucraina dove stavano insediandosi. Hanno portaerei nel mare della Cina. Dalle coste cinesi si vedono navi da guerra Usa, non si vedono navi da guerra cinesi da New York. Chi è l’impero? Si paventa, non abbastanza, l’uso dell’atomica. L’Occidente è l’unico ad averla usata. A guerra vinta, per affermare il dominio con la violenza; nessun altro lo ha fatto. Si scrive che la Cina è aggressiva; non ha fatto guerre dopo Corea e Vietnam; l’Occidente ne ha fatte in continuazione ovunque. Chi è l’impero? Il Pentagono pubblica liste di persone uccise dai suoi droni nel mondo, molti innocenti. Il New York Times è arrivato all’orrore di denunciare il fatto che i soldati che li guidano non hanno supporto psicologico per lo stress di ammazzare innocenti. Lo scandalo non è ammazzare innocenti, è che chi li ammazza non ha supporto psicologico. L’impero assiro era arrivato a tale arroganza. Ma i nostri giornalisti ricordano indignati una persona uccisa anni fa a Londra dai russi… Gli americani invocano la Corte Penale Internazionale, da cui hanno sempre dichiarato che non si fanno giudicare. O la legalità internazionale, quando le loro guerre sono condannate dall’Onu. Onu che la maggioranza del mondo vorrebbe autorevole, ma Washington ostacola. Sarei in disaccordo, ma non mi sentirei disgustato, se sentissi “siamo forti, vogliamo dominare con le armi per difendere il nostro privilegio”. Non ci sarebbe ipocrisia e potremmo discutere se sia una scelta intelligente. Se non sia più lungimirante collaborare. Non fraintendetemi. Amo l’America, molto. Vi ho vissuto dieci anni e sono stato cittadino Usa. Ne conosco splendori e orrori. La brillantezza delle università, la vitalità dell’economia, la miseria dei ghetti neri e bianchi, la violenza per noi inconcepibile delle strade. Amo l’Europa, la civiltà, tolleranza e cautela ereditate dalla devastazione della Guerra. Ma non posso non vedere il nostro piccolo mondo ricco chiudersi su se stesso in un parossismo di ipocrisia. Amo anche Cina e India, di cui pure ho visto miserie e splendori. Ci perdiamo in chiacchiere su quale sistema sia meglio, come dovessimo fare tutti la stessa cosa. Il problema del mondo non è che singolo sistema politico adottare tutti. Il problema del mondo è convivere, rispettarsi, collaborare. Il problema del mondo è costruire un nuovo soggetto politico: l’umanità, con le sue diversità. Tanti Paesi ce lo ripetono, non li ascoltiamo. Rifiutano le sanzioni contro la Russia. Perfino di condannare la Russia. Perché? Perché vedono l’ipocrisia dell’Occidente, che si sente libero di massacrare, e poi fa l’anima candida. L’umanità vorrebbe che i problemi reali, riscaldamento climatico, pandemie, povertà che ricomincia a crescere, fossero affrontati insieme. L’80% degli italiani non è favorevole all’aumento delle spese militari. Considera l’emergenza climatica il problema grave. Il direttore della Cia afferma in una intervista che cerca di convincere i politici, che non ascoltano, della stessa cosa. Le persone ragionevoli sanno che collaborare è meglio. L’Occidente rifiuta. Vuole “avversari strategici”, nemici, vuole schiacciare gli altri. Ha le armi. L’Ucraina si potrebbe risolvere come la crisi Iugoslava: con una separazione. Ma l’Occidente non vuole soluzioni, vuole fare male alla Russia: non fa che ripeterlo. Ora si sente inquieto perché la Cina sta diventando ricca. La provoca, la accusa con pretesti (ce ne sono: scagli la prima pietra chi è senza colpe). Cerca lo scontro. Vorrebbe umiliarla militarmente prima che cresca troppo. La classe dominante occidentale ci sta portando verso la terza guerra mondiale. Nelle foto si allineano facce sorridenti dei leader occidentali, felici delle portaerei, delle bombe atomiche, trilioni di dollari di armi, con cui si potrebbero risolvere i guai del mondo, usati per rafforzare il dominio. E tutto imbiancato da belle parole: democrazia, libertà, rispetto dei confini, legalità. Dietro, come zombi, giornalisti, editorialisti e politici di stati vassalli come il nostro, a ripetere. Sepolcri imbiancati. Su una scia di sangue di milioni di morti straziati dalle nostre bombe. Da Hiroshima a Kabul, e continueranno. *Fisico, saggista e accademico “Lavoratori morti per il caldo uccisi dalla mancata prevenzione. Le leggi esistono ma nessuno le applica” di Chiara Sgreccia L’Espresso, 31 luglio 2022 Le norme per garantire la sicurezza sul lavoro, anche a elevate temperature, ci sono. Il punto è rispettarle. C’è voluta una nota di Inps e Inail per ricordare alle aziende di ricorrere alla cassa integrazione quando si superano i 35 gradi. Ma la norma c’era già dal 2016. Sviene. Batte la testa e muore un operaio di 61 anni. A Rivoli, in provincia di Torino, all’interno della fabbrica Dana Graziano, lo scorso 21 luglio. È successo molto probabilmente per il caldo e non è l’unico caso. Lunedì un imprenditore di Castelfranco Emilia, Modena, si è accasciato davanti agli occhi degli operai: era sul tetto di una villetta per effettuare interventi di efficientamento energetico, con una temperatura di 38 gradi. Sabato scorso un lavoratore di 47 anni ha avuto un malore ed è morto mentre lavava i piatti in un albergo di Diano Marina, in provincia di Imperia. Il 19 luglio un operaio di cinquant’anni ha avuto un infarto sul tetto di un capannone nel cantiere Ferretti a La Spezia. Giorni prima era morto un bracciante di 20 anni che lavorava in una serra di una azienda agricola del Casertano, il 6 luglio un altro di 59 anni in un agrumeto nella provincia di Cosenza. “Sono molti i lavoratori e le lavoratrici la cui morte viene liquidata come “morte per il caldo”. Come se chi lavora esposto ad alte temperature, in ambienti non adeguatamente termoregolati oppure all’aperto nelle ore più calde, senza protezioni adatte, senza poter bere o ripararsi dal sole, dovesse mettere in conto che la propria vita è a rischio” commenta Graziella Silipo, responsabile del dipartimento salute e sicurezza sul lavoro di Cgil Piemonte. “Ma ovviamente non è così. Perché le norme per tutelare i lavoratori esistono: ci sono leggi, raccomandazioni e linee guida. Il problema è che manca la garanzia che vengano rispettate le condizioni di salute e di sicurezza”. C’è la possibilità per le aziende di ricorrere alla cassa integrazione in caso di temperature superiori ai 35 gradi, anche quando sono percepiti e non reali. Grazie alla causale “eventi meteo” che può essere invocata per sospendere o ridurre l’attività lavorativa a causa delle temperature elevate. Soprattutto per i lavoratori più a rischio. La possibilità era prevista da tempo, dalla circolare Inps n.139 del 2016, ma c’è stata la necessità di una nota congiunta di Inps e Inail per ricordarlo. Anche l’Ispettorato nazionale del lavoro oggi ha pubblicato un memo: una circolare pensata per tutelare i lavoratori dai rischi legati ai danni da calore che richiama contenuti già divulgati negli anni passati, per rendere più incisiva la prevenzione. C’è il Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro che prevede: “Nei luoghi di lavoro chiusi, è necessario far sì che tenendo conto dei metodi di lavoro e degli sforzi fisici ai quali sono sottoposti i lavoratori, essi dispongano di aria salubre in quantità sufficiente anche ottenuta con impianti di areazione”. C’è un Decalogo elaborato dall’Inail che informa i datori di lavoro sulle modalità attraverso cui attivare la prevenzione per le patologie da calore. Si parla di riorganizzazione dei turni di lavoro, di favorire le pause e rendere accessibili le aree ombreggiate. Di pensare a strategie di prevenzione e protezioni individuali per i lavoratori, di designare un responsabile che garantisca l’adeguata applicazione delle norme. E infine c’è il Documento di valutazione dei rischi, il prospetto che racchiude rischi e misure di prevenzione per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, che ogni azienda con almeno un dipendente è obbligata a redigere. In questo “il datore di lavoro deve tener conto dei gruppi di lavoratrici e lavoratori per età, genere, provenienza, visto che sono fattori che possono accrescere il rischio legato ai danni di calore”, spiega Silipo. Come aveva dichiarato a La Repubblica qualche giorno fa il ricercatore del Cnr Marco Morabito, che conduce il progetto Worklimate per individuare l’impatto dello stress termico ambientale sulla salute e sulla produttività dei lavoratori, “ogni anno l’Inail stima che siano oltre 4 mila gli infortuni collegati al caldo”. I più esposti al rischio sono gli operai addetti al trasporto e alla produzione di materiali, gli addetti ai macchinari e agli utensili e quelli che lavorano all’aperto. Come i manovratori, gli installatori, gli asfaltatori, i cantonieri stradali, chi lavora nell’edilizia, gli agricoltori e gli impiegati nel settore dell’elettricità, gas e acqua. Il caldo può facilitare la perdita di attenzione, favorire l’insorgere di malori e può causare minore prontezza nel reagire agli imprevisti, accrescendo il rischio di infortuni. “Ma non si muore per il caldo. Si muore di sfruttamento, di ricatti, di precarietà, di massimizzazione di profitti e minimizzazione di costi ed investimenti, di incuria, di sottovalutazione e non valutazione dei rischi. Si muore di mancata prevenzione”, conclude la responsabile del dipartimento salute e sicurezza sul lavoro di Cgil Piemonte. Migranti. Record di sbarchi a Lampedusa, hotspot al collasso di Giulia Cannizzaro Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2022 Oltre 1.900 ospiti nel centro a fronte di una capienza massima di 350. Arrivano dai porti della Tunisia e della Libia. Record di sbarchi di migranti a Lampedusa: 23 dalla mezzanotte con 932 arrivi e l’hotspot di Contrada Imbriacola in sofferenza con oltre 1.900 ospiti a fronte di una capienza massima di 350. E la polemica politica scoppia subito con il leader della Lega Matteo Salvini che - a margine di un sopralluogo in Stazione Centrale a Milano- parla di “record di arrivi rispetto a tutti gli ultimi anni”. “Non c’entrano i russi, cinesi, turchi, - riferendosi al rapporto dell’Onu secondo il quale il gruppo di mercenari della Wagner avrebbe continuato ad essere foraggiato dal Cremlino anche durante la guerra in Ucraina - c’entra un nord Africa abbandonato a sé stesso e una politica italiana a guida Pd e Lamorgese assolutamente assente, se non complice”, dice. Mentre per la capogruppo del Pd alla Camera, Debora Serracchiani, “la legge Bossi-Fini sull’immigrazione va profondamente cambiata, altrimenti continueremo ad essere un territorio su cui arrivano immigrati irregolari”. Di parere opposto la presidente dei senatori di Fi, Anna Maria Bernini, che chiede un “rafforzamento delle norme di contrasto all’ immigrazione irregolare, perché spetta ai governi italiani, non certo agli scafisti o alle Ong, decidere quanti e quali migranti possono entrare dentro i nostri confini, e a questo servono i decreti flussi”. Le polemiche sono alimentate dai numeri degli sbarchi. Durante la notte sulla maggiore delle isole delle Pelagie sono approdati, con 10 diversi barconi, in tutto 580 profughi. Tre gli sbarchi autonomi. 43 bengalesi, eritrei ed egiziani sono giunti direttamente al molo commerciale, altri 45 egiziani a molo Madonnina; altri 68 sono invece sbarcati in contrada Madonna nei pressi del santuario. A bloccare i primi due gruppi sono stati i militari della Guardia di finanza, i 68 sono stati intercettati e fermati dai carabinieri. Fra i gruppi soccorsi, su un barchino di 6 metri, assieme a 24 tunisini e un cane. Due i fronti aperti dai quali continuano a salpare, verso la Sicilia, le imbarcazioni cariche di profughi: quello tunisino e quello libico. I 10 natanti - con un minimo di 11 e un massimo di 117 passeggeri - giunti a partire da mezzanotte a Lampedusa, sono salpati da Mahdia, Sidimansour, Zazis in Tunisia e da Zouara, Zawia, Zuwara, Zebrata, Saborata, Zaira in Libia. Il costo del viaggio pagato dai profughi per raggiungere le coste italiane oscilla tra i 15 mila e i 20 mila dinari libici a testa, circa 3 mila/ 4mila euro a testa. In giornata altri 161 migranti, su sette barchini, sono stati intercettati a circa un miglio dalla costa di Lampedusa. La motovedetta Rv2170 di Frontex ha bloccato un barchino di 5 metri con 16 tunisini, mentre quelle della Guardia di Finanza hanno soccorso, al largo di Capo Ponente, 23 persone in fuga da Camerun, Guinea, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Mali e Guinea e 9 tunisini. Altri undici sbarchi, nel pomeriggio con 306 persone approdate a Lampedusa. L’hotspot dell’isola al collasso. Oltre 1.900 ospiti nel centro a fronte di una capienza massima di 350. La struttura di contrada Imbriacola resta dunque in ginocchio, nonostante la notte scorsa in 351 siano stati imbarcati sulla nave Diciotti della Guardia costiera che sta viaggiando verso Porto Empedocle. La prefettura di Agrigento, d’intesa con il ministero dell’Interno, ha già disposto l’ulteriore imbarco di altre 350 persone sul traghetto Pietro Novelli che andrà a Mazara del Vallo. Il capo della polizia ucraina: “Oltre mille collaboratori di Mosca sotto processo da noi” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 31 luglio 2022 Ihor Klymenko: “Qualcosa li ha convinti a imboccare la via del tradimento. Di solito quello che ricevono in cambio è più potere”. Fra le più clamorose, nei giorni scorsi, ci sono state le rimozioni del capo del servizio di sicurezza (Sbu) Ivan Bakanov e del procuratore generale Iryna Venediktova: “Sospesi temporaneamente - ha spiegato il consigliere dell’Ufficio del presidente Andriy Smirnov - per indagini sulle loro eventuali responsabilità nei crimini contro la sicurezza nazionale e nel loro collegamento con i servizi speciali della Federazione Russa”. Ai nomi così importanti e alle ipotesi di alto tradimento pensa direttamente il presidente Volodymyr Zelensky. Ma poi c’è tutto il resto: collaboratori e sabotatori che aiutano il nemico in cambio di potere. Il capo della polizia nazionale ucraina, Ihor Klymenko, offre un caffè e apre la cartelletta che ha davanti. Quanti sono i procedimenti penali per collaborazionismo? “Fino a oggi abbiamo contato più di mille casi che riguardano proprio l’articolo del codice penale sulla collaborazione. Di queste 180 persone hanno già ricevuto un avviso di garanzia”. Mille collaborazionisti sono tanti… “Per me sarebbe tanto anche uno solo, mi creda”. Chi sono queste persone? “Gente che viveva e lavorava sul territorio del nostro Stato e riceveva benefici sociali. Poi qualcosa li ha convinti a imboccare la via del tradimento. Di solito quello che ricevono in cambio è più potere”. Sono cittadini comuni, funzionari statali, amministratori? Chi? “Ci sono diversi livelli. La maggior parte dei collaborazionisti sono persone che non hanno coperto nessun incarico come autorità statali o nelle forze dell’ordine. Avevano posizioni lavorative poco qualificate; hanno cercato di aiutare il nemico quando è arrivato nei loro territori. Mi viene in mente il caso di una donna che lavorava come addetta alle pulizie, a Kherson e per aver collaborato col nemico ha ottenuto la carica di amministratrice di una società televisiva-radiofonica”. Gli altri livelli? “Quello successivo riguarda i dirigenti di piccole imprese o persone in posizioni basse nel servizio amministrativo. Incontrando i russi hanno cercato in cambio di aumentare le loro fortune o rivendicare qualche tipo di leadership fra le autorità statali dei territori occupati. E poi c’è il terzo livello”. Che sarebbe? “Le persone che in precedenza avevano ricoperto incarichi nelle nostre amministrazioni e negli enti locali oppure nelle forze dell’ordine. Anche se rappresentano una minoranza, gli sforzi maggiori dei servizi speciali russi sono stati rivolti a loro, con offerte di posizioni rilevanti e livelli dirigenziali nelle amministrazioni, nei villaggi, negli uffici dei sindaci”. Un esempio? “Ad esempio la polizia di Kherson: è gestita attualmente da una persona che aveva lavorato nella milizia ucraina 10 anni fa”. Che cosa fa esattamente un collaboratore? “Può fare diverse cose. Per esempio segnalare la resistenza ucraina o sostenere il nemico nell’imposizione delle sue regole sulla popolazione. Chi collabora con il nemico non ama il nostro Stato, è veicolo della propaganda, è avvelenato dall’idea e dalla narrazione che il mondo russo impone attraverso i media che controlla nelle regioni occupate”. È accusato di collaborazionismo anche l’insegnante che a scuola segue il programma russo? “Sì. In un articolo della nostra Corte criminale sul collaborazionismo c’è un articolo a parte dedicato proprio all’educazione pro-russia dei nostri ragazzi. Sta succedendo nei territori occupati: c’è chi accetta di insegnare la lingua russa e la storia secondo la prospettiva russa”. In quale regione sono stati aperti più procedimenti penali contro i collaborazionisti? “Al momento le regioni più interessate sono quelle di Kherson, Luhansk e Zaporizhia. Molti dei procedimenti penali sono stati istruiti a distanza in territori attualmente occupati. Monitoriamo le attività di queste persone in remoto, riceviamo costantemente informazioni sul loro conto, incrociamo i dati e se gli indizi diventano sufficienti apriamo un fascicolo penale. Un esempio viene da Berdiansk, nella regione di Zaporizhia, dove abbiamo a che fare con un procedimento che riguarda un attuale capo delle forze dell’ordine”. Che cosa rischia chi collabora con il nemico? “Dipende. Rischia fino all’ergastolo se l’attività di collaborazione ha portato a gravi conseguenze associate alla morte di persone”. Sono già stati celebrati processi? “Abbiamo sentenze per questi crimini ogni settimana”. E poi ci sono i sabotatori... “Quello è un argomento a parte, però. 1.500 persone sospettate di essere coinvolte in attività di sabotaggio”. Anche nel 2014, con le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, ci sono stati passaggi nelle file russe? “C’è una differenza fondamentale fra allora e adesso. All’epoca quasi l’intero gruppo dei servizi speciali, delle forze dell’ordine e delle autorità è passato al nemico. Erano i ranghi superiori. Adesso vediamo passaggi soltanto nei ranghi inferiori. Vediamo un altro panorama rispetto a quello che succedeva nel 2014 con l’annessione della Crimea o nel Donbas”. Quanti sono gli uomini al suo comando? “L’Ucraina dispone di 100 mila agenti di polizia”. Egitto. Un digiuno a staffetta per Alaa Abd el Fattah scomparso nel nulla di Riccardo Noury Il Domani, 31 luglio 2022 È dal 16 luglio che non si hanno notizie dirette dell’attivista egiziano. Quel giorno alla madre, in visita al carcere, è stata consegnata una sua lettera scritta giorni prima Come sta Alaa? Alaa Abd el Fattah, una delle figure più iconiche del movimento egiziano per i diritti umani degli ultimi decenni, condannato da un tribunale d’emergenza, alla fine del 2021, a cinque anni di carcere solo per il suo impegno in favore dei diritti umani, dovrebbe essere arrivato alla fine del quarto mese di sciopero della fame. Una protesta estrema, la sua, intrapresa il 2 aprile contro l’ingiusta condanna, le inumane condizioni detentive e il rifiuto, da parte della direzione delle carceri, di garantirgli i diritti consolari di cittadino con passaporto britannico. Niente più notizie Scrivo “dovrebbe”, perché del “Gramsci d’Egitto” (come viene chiamato in Italia dopo l’uscita di Non siete ancora stati sconfitti, una raccolta di suoi scritti pubblicata da hopefulmonster) non si hanno notizie dirette dal 16 luglio, quando alla madre in visita al carcere venne consegnata una sua lettera. Scritta chissà quanti giorni prima e dunque le ultime notizie risalgono ancora a giorni addietro. Un detenuto in sciopero della fame, proprio per via delle condizioni di salute critiche in cui si trova, dovrebbe poter avere accanto avvocati e familiari; gli dovrebbero essere garantite tutte le cure mediche cui ha diritto, comprese visite di medici indipendenti vincolati al rispetto della loro etica professionale. Dovrebbero essere date notizie aggiornate e in forma trasparente su di lui, alla famiglia e agli avvocati. La beffa egiziana - Nulla di tutto questo, purtroppo. L’ostinazione con cui la direzione della prigione di Wadi el-Natroun tiene Alaa isolato dal mondo esterno provoca un’angoscia indicibile nei suoi familiari: soprattutto nella madre che, negli ultimi giorni, si è ripetutamente presentata all’ingresso del carcere chiedendo di vedere suo figlio. Oggi, giorno di riapertura alle visite, ci tornerà nuovamente. Beffardamente, le autorità egiziane dichiarano periodicamente che è Alaa che non vuole vedere nessuno, che tutto va bene, che le condizioni di salute sono ottime e che mangia abbondantemente e regolarmente. La famiglia si è chiesta, pubblicamente, più volte in questi giorni: Come sta Alaa? È ancora vivo? Ha preso il Covid? Non è in condizioni tali da poter prendere parte a un colloquio? È disperato e davvero non vuole vedere nessuno? I governi che tacciono Una prova indiretta che Alaa è ancora vivo è paradossalmente arrivata nelle ultime ore dal fatto che è stato convocato dal procuratore generale riguardo a una denuncia di torture presentata tre anni fa. L’interrogatorio è durato un attimo: Alaa ha chiesto la presenza di un addetto del consolato britannico. Il funzionario gli ha chiesto perché, Alaa ha risposto che è cittadino britannico. Il funzionario ha replicato che non gli risultava. Kafka ci avrebbe scritto un altro libro. Se il comportamento delle autorità egiziane è scandaloso, non lo è da meno il silenzio del resto del mondo: soprattutto delle autorità del Regno Unito. Era sembrato, a un certo punto, che le pressioni e le manifestazioni avessero smosso il governo Johnson a intervenire e qualcosa era cambiato: trasferimento di prigione dalla famigerata Tora a Wadi el-Natroun, accesso ai libri, qualche breve periodo nel cortile fuori dalla cella. Poi, come sappiamo, la crisi di governo a Londra ha tolto il nome di Alaa dall’agenda. Lo stesso qui in Italia: di Alaa, con scarne eccezioni in Parlamento e nell’informazione, non interessa niente a nessuno. Per non parlare di “storie egiziane” persino più vicine a noi. Eppure, dal 28 maggio tante persone hanno preso parte, e stanno ancora prendendo parte oltre due mesi dopo, a un digiuno di solidarietà a staffetta di 24 ore. Una pratica antica, direi novecentesca, alla quale hanno aderito e stanno aderendo persone che ne hanno memoria. Per le nuove generazioni, rinunciare al cibo per alcune ore pare un atto arduo. Alaa ce la sta facendo da 120 giorni. O meglio, “dovrebbe” starcela facendo. Chi vuole partecipare al digiuno solidale a staffetta può inviare una e-mail a info@invisiblearabs.com *Amnesty International Iraq. Baghdad, i sadristi assaltano di nuovo il parlamento di Michele Giorgio Il Manifesto, 31 luglio 2022 Ieri era prevista una votazione che avrebbe formalizzato l’incarico di premier al filo-iraniano Mohammed Al Sudani e gli uomini di Moqtada Al Sadr sono scesi in strada sospettando che l’assemblea potesse votare in una sessione a porte chiuse. Almeno 125 feriti: un centinaio di manifestanti e 25 agenti di polizia che hanno lanciato gas lacrimogeni e granate stordenti per disperdere le migliaia di sostenitori del leader sciita nazionalista Moqtada al Sadr che ieri per la seconda volta 72 ore hanno assaltato il parlamento. I dimostranti hanno scavalcato le barriere che circondano la Zona Verde che delimita gli edifici governativi e le ambasciate straniere e hanno scandito “Il popolo è con te Sayyid Moqtada” usando il titolo di discendente del profeta Maometto che vanta Al Sadr. Le forze di sicurezza hanno fatto di tutto per fermare i manifestanti prima che riuscissero a superare il cordone di sicurezza. Il primo ministro uscente, Mustafa al-Kadhimi, ha chiesto alla polizia di fare il necessario per difendere le istituzioni statali e gli organismi governativi. “Siamo qui per una rivoluzione”, ha replicato un manifestante, citato dalla tv Al Jazeera “non vogliamo i corrotti, non vogliamo che tornino quelli che erano al potere al 2003: ci hanno solo fatto del male”, ha aggiunto. Nelle ultime ore si sono fatte insistenti le voci che prevedono un futuro nero per l’Iraq se non sarà trovata una soluzione alla crisi nella maggioranza sciita del paese. Il nuovo atto di forza ha voluto impedire la nomina a primo ministro di Mohammed Shia al Sudani, del partito islamista Dawa ed ex ministro dei Diritti umani durante il governo di Nuri al Maliki (2010-2014), indicato dai rivali pro-Iran del Quadro di coordinamento sciita come premier incaricato di formare il governo che l’Iraq attende da dieci mesi, ossia dalle elezioni dello scorso ottobre dalle quali il movimento sadrista era emerso come il gruppo parlamentare più consistente. Al Sadr, leader del disciolto Esercito del Mahdi, la principale resistenza armata sciita all’occupazione statunitense dell’Iraq, trae gran parte del suo sostegno da un collegio elettorale formato in maggioranza da iracheni che vivono in povertà. Indicato superficialmente come un anti-iraniano, al Sadr in realtà è contro l’ingerenza straniera nel suo paese, non solo dell’Iran ma anche degli Stati uniti, ed in fatti mantiene legami con Teheran dove in alcune occasioni ha trovato rifugio. Il suo messaggio nazionalista e populista gli ha fatto vincere le elezioni di ottobre ma ciò non è bastato a fargli formare l’esecutivo di carattere inclusivo e nazionale - con dentro anche sunniti e curdi - che ha teorizzato dopo il voto, mettendo in allarme le altre forze sciite rivali. Ieri era prevista una votazione che avrebbe formalizzato l’incarico Al Sudani e i sadristi sono scesi in strada sospettando che l’assemblea potesse votare in una sessione a porte chiuse. Ora si temono le reazioni del Quadro di coordinamento sciita, la coalizione di partiti e movimenti iracheni vicini all’Iran, che ha invitato i suoi sostenitori a organizzare una contro-manifestazione in difesa dello Stato. “Seguiamo con preoccupazione gli sfortunati eventi a cui Baghdad ha assistito negli ultimi giorni, in particolare gli assalti alle istituzioni costituzionali, l’assalto al parlamento e le minacce di attacco all’autorità giudiziaria, ai dipartimenti ufficiali e alle forze di sicurezza”, si legge in una dichiarazione del Quadro di coordinamento di cui fa parte la Coalizione per lo Stato di diritto dell’ex premier Nouri al Maliki (l’avversario principale di Al Sadr), il partito Al Fatah di Hadi al Amiri (che è anche il leader delle Forze sciite di mobilitazione popolare), il partito Hikma guidato da Ammar al Hakim e l’alleanza Nasr guidata dall’ex primo ministro Haider al Abadi. “Lo Stato - aggiunge la dichiarazione - la sua legittimità e la pace sociale sono una linea rossa. Gli iracheni li difenderanno con tutti i mezzi pacifici”. A questo avvertimento ha replicato Saleh Mohammad al Iraqi, noto come “L’Ombra di Moqtada al Sadr”, affermando che “i droni carichi di esplosivo danneggiano il prestigio dello Stato e non proteggono le istituzioni dalla corruzione”. Al Iraqi si è riferito ai recenti attacchi con droni e missili in Kurdistan e nella provincia di al Anbar attribuiti da più parti alle milizie vicine all’Iran. A nulla, per il momento, sono serviti gli inviti a ridurre l’escalation giunti all’Unami, la missione Onu di assistenza all’Iraq.