Morire di carcere, morire in carcere di Giampaolo Cassitta* sardegnablogger.it, 30 luglio 2022 Ho visto uomini lasciarsi andare e non riuscire ad alzare la serranda delle opportunità. Il carcere non è una passeggiata e solo chi ha camminato sui lunghi corridoi delle sezioni e ha respirato quell’odore acre di tristezza, pomodori, caffè e disperazione può raccontarlo. Graziano Piana era uno che la galera la conosceva dalla parte sbagliata. Ci incontrammo la prima volta all’Asinara, diramazione centrale. Sguardo allegro, sornione, cicatrici segno di giorni, settimane e mesi dietro le sbarre. Un po’ guascone, un po’ sassarese, un po’ malinconico, un po’ collegato al suo destino avaro e complicato. Uno come Graziano finisci per rendertelo simpatico e quasi utile in quell’inutilità gigante del penitenziario. Lavorava il tanto che bastava e, come dicevano i poliziotti, sapeva fare il detenuto, accezione da me mai troppo amata, in quanto ho sempre mal sopportato quelli impegnati ad imparare un mestiere inutile nel mondo libero. Graziano però era un ragazzo pieno di sorprese, sapeva essere generoso e se gli chiedevi un favore come quello di prendersi un ragazzo difficile in cella lo faceva. Sapeva vivere in carcere, viveva di carcere e sapeva schivare le intemperie. L’ultima volta che ci incontrammo era per una mia visita al carcere di Macomer destinato alla chiusura. Lui c’era finito non per scelta ma in uno di quegli strani movimenti legati al sovrannumero del carcere di Sassari, quel San Sebastiano amato e odiato da Graziano e dove aveva visto, con i suoi occhi, il pugno duro e ingiusto dello Stato nei famosi fatti del 2000. Non ne aveva mai parlato, come non mi parlava mai del suo futuro, lo riteneva un ossimoro e sorrideva. Mi chiese di poter andare a Isili, non voleva rientrare nella sua Sassari. Forse quel vecchio istituto lo sentiva traditore e nemico. Non ci siamo più incontrati. Sapere della sua morte mi ha sorpreso. Graziano Piana non sarebbe mai morto di carcere ed è stato costretto, forse dal destino, forse da una serie di avvenimenti, a morire in carcere. Scontava piccole pene e le scontava sempre tutte, perché la giustizia funziona benissimo per quelli come lui. Dovremmo interrogarci su chi muore in carcere e chi muore di carcere. Ma sembra, davvero, argomento poco interessante per la maggior parte delle persone e destinato a divenire solo strumento in mano ai sindacati di categoria che continuano a guardare il dito e non la luna, ben sapendo che seppure ci fossero stati 40 poliziotti in quella sezione il fatto improvviso come la rabbia di un giovane ragazzo, con forse problemi psichici, non poteva essere previsto. Graziano ha vissuto di carcere ed è morto in carcere. Una parabola maledetta, ingiusta, con pochi colori. Di questo dovremmo occuparci. Ma non lo facciamo. *Direttore del Centro giustizia minorile della Sardegna, già dirigente dell'Ufficio detenuti del PRAP della Sardegna “Scaldabagno”: il ladro buono ucciso in carcere, la sua seconda casa di Pierluigi Piredda La Nuova Sardegna, 30 luglio 2022 Famiglia poverissima di Montelepre, vecchio quartiere fatiscente accanto all’ippodromo di Sassari, Graziano Piana aveva cominciato a rubare da ragazzino con personaggi storici quali “Topo Gigio”, “Platamona”, “Gesù bambino”. Graziano Piana era un figlio di quella Sassari smembrata tanti anni fa. Era nato e aveva vissuto i primi anni della sua vita a Montelepre, nei capannoni malsani e fatiscenti che c’erano un tempo accanto all’ippodromo. Lui e i suoi 11 fratelli hanno trascorso la prima infanzia lì nel degrado, giocando per strada e arrangiandosi come potevano. Era lì che era diventato “Scaldabagno” perché era basso e tracagnotto e aveva la forma dell’elettrodomestico. Poi il trasferimento forzato nel quartiere del Latte Dolce. E lì aveva cominciato il suo percorso che l’ha poi portato a trascorrere più tempo in carcere che in libertà, tanto che non aveva remore nel dichiarare pubblicamente che dietro le sbarre lui si sentiva a casa. Avrebbe potuto cambiare vita in una comunità, ci aveva anche provato ma era stato un fallimento. Il carcere era la sua casa ed è proprio all’interno di quelle mura in cui si sentiva al sicuro che ha trovato una morte orrenda. In quel carcere dove un’altra volta era stato tradito. Massacrato da chi avrebbe dovuto controllarlo. Era il primo aprile 2000. Lui era a San Sebastiano quando era esplosa la protesta dell’acqua. Aveva partecipato a quella sollevazione fatta di voci e di stracci infuocati lanciati dalle bocche di lupo per far capire che la situazione dentro il penitenziario era diventata invivibile. L’indomani era arrivata la risposta dello Stato. Durissima. Quella che doveva essere una operazione per riportare serenità si era trasformata in un massacro. Un pestaggio organizzato con centinaia di agenti di polizia penitenziaria che aveva riempito di botte tutti i detenuti. Graziano “Scaldabagno” era stato prelevato dalla sua cella in mutande e pestato a sangue per ore. A fine serata era stato trasferito con altri cinque o sei compagni di sventura nel penitenziario di Macomer. Ci era arrivato a bordo di un cellulare con indosso soltanto delle grandi buste di cellophane nere di quelle usate per la spazzatura. Nonostante tutto, però, non si era mai accanito contro chi l’aveva massacrato, forse perché sapeva che in carcere ci sarebbe dovuto restare e poi ritornare. E infatti entrava e usciva con una certa frequenza. Mai però per reati di violenza. Graziano era un ladro. Si vantava sempre di uno dei suoi primi furti a casa di un avvocato, lui e il fratello si erano arrampicati dalla grondaia per raggiungere l’abitazione del legale non appena l’avevano visto uscire. Il bello è che poi quello stesso avvocato l’aveva difeso più volte in tribunale. A rubare aveva cominciato da ragazzino con personaggi storici come “Topo Gigio”, “Platamona”, “Omicidio”, “Gesù bambino”, “Caggamudandi” e altri che popolavano il mondo della piccola criminalità. E insieme a loro era finito nel tunnel della droga. Senza il Parlamento, agli ergastolani ostativi penserà sorella morte? di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 30 luglio 2022 Nonostante l’ergastolo ostativo sia stato dichiarato incostituzionale, il Parlamento non ha fatto nulla per cambiare la legge. Il Governo è caduto e il Parlamento è stato sciolto. Grosso guaio. Quante cose sono adesso ancor più incerte, quante riforme erano in viaggio e si fermeranno; quante azioni erano lì per essere intraprese e non lo saranno. Si perderanno occasioni, si perderanno soldi, ci sarà da recriminare e da lamentarsi: forse si incepperà il tanto decantato Pnrr. Non è un bel momento, è chiaro. Per queste ragioni a molto pochi interesserà un sottoprodotto di tale situazione. Più di un anno fa la Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale il cosiddetto “ergastolo ostativo”, quello che colpisce attualmente più di mille persone in Italia. Gli ergastolani sono molti di più ma quelli “ostativi” sono appunto un migliaio. Un illustre giurista ha detto: condannati alla pena di morte a vita, che è citazione di una battuta da un film comico, ma è anche una constatazione di realtà. Ora, dire che una cosa è incostituzionale suona piuttosto serio, anzi grave, e crediamo che la Consulta nell’affermarlo intendesse darsi da fare per ovviare: l’Italia non può essere contenta di avere norme, leggi, prassi, regole… incostituzionali. Ma dopo un anno il Parlamento non ha cambiato la legge seguendo le indicazioni della Corte. Ha solo cominciato a “discuterne”. La Corte ha così dovuto concedere altri sei mesi per la discussione, che erano in corso. Ma ora il governo è caduto, le Camere sciolte... In fin dei conti a chi importa degli ergastolani ostativi? Non che contino granché. Anche se sono l’incarnazione palese che la Costituzione - per lo meno nell’articolo 27, dove si dice che la pena ha (dovrebbe avere) una finalità rieducativa. Come lo si rieduca un ergastolano? Ostativo, poi - è del tutto disattesa dal “sistema”, li si può ignorare. Non votano, dopo tutto. Sono ben altri i problemi di cui occuparsi e nessuno si sarà accorto dell’ennesima figuraccia di un Parlamento che rinvia, che non decide, che dilata i tempi… C’è ormai una inveterata abitudine a tutto ciò. Circa un mese fa uno di questi ergastolani ostativi, detenuto nella Casa di Reclusione di Opera, è morto. Dopo più di trent’anni di reclusione. Sarà morto di vecchiaia, di malattia, comunque è morto. Una non-notizia, mediaticamente parlando. Ma si chiamava Diego, c’era, aveva vissuto, aveva sbagliato, aveva espiato? Qualcuno senz’altro lo sa. Può darsi che anche lui aspettasse di sapere qualche cosa di nuovo; che anche lui fosse curioso di vedere come sarebbe andata a finire la discussione parlamentare, ma non è riuscito a vederne gli esiti, rimandati ora sine die. E ci viene in mente che, forse, sia proprio questa la via che viene scelta. Aspettando un po’, probabilmente non moltissimo considerando i dati dell’anagrafe, il problema di molti ergastolani sarà risolto per vie naturali. Il numero degli over 80 colpiti da questa misura è altissimo. Converrà dunque lasciar fare a sorella morte? È senz’altro una ragionevole ipotesi. Desolante, però. Caos carceri, Renoldi non può essere il capro espiatorio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2022 Le criticità del sistema penitenziario c’erano già prima del recente insediamento del Capo del Dap, attaccato da alcune sigle sindacali, mentre altre organizzazioni da tempo chiedono un decreto urgente. Che ci siano forti tensioni nelle carceri come denunciano i sindacati di polizia penitenziaria è indubbio, ma non è un problema che spunta fuori con l’insediamento del nuovo capo del Dap Carlo Renoldi. Da ricordare che in queste stesse pagine da tempo è stato fatto emergere i problemi, gravi, che si ritrovano ad affrontare gli operatori penitenziari. Alcuni sindacati chiedono da tempo un decreto urgente - Ecco perché, come d’altronde hanno chiesto alcuni sindacati, come quelli della Uilpa per voce di Gennarino De Fazio, con forza almeno un decreto carcere urgente per calmierare subito il problema. Anche per Massimo Vespia, segretario generale della Fns Cisl, è “indubbio che le strutture siano insufficienti, che gli spazi costringano a pericolose promiscuità di convivenza una popolazione detenuta sempre più insofferente anch’essa di questa condizione. Ma il problema non può e non deve essere confinato solo dentro le mura degli istituti penitenziari: dignità e sicurezza sono valori unici che valgono fuori dalle carceri come al loro interno. Siamo stanchi di urlare e protestare solo con l’Amministrazione penitenziaria, che, come i suoi dipendenti, come i poliziotti penitenziari, è probabilmente vittima del totale disinteresse della politica, delle Istituzioni e dei media”. Le riforme, doverose, sono a lungo termine e a causa dell’instabilità politica rischiano sempre di non arrivare a buon fine. Il rischio è che si rimandi sempre il problema. Renoldi: “Stiamo attuando una pluralità di interventi a tutela del nostro Corpo” - “Troppe sono le aggressioni subite dai nostri agenti, il Dipartimento ne è consapevole. Ciascuna è per me motivo di dolore. Stiamo attuando una pluralità di interventi a tutela del nostro Corpo e per migliorare la qualità complessiva della vita nei nostri istituti”, ha commentato il capo del Dap Renoldi all’indomani di una brutale aggressione nei confronti di quattro agenti da parte di alcuni detenuti nel carcere siciliano di Noto. Le aggressioni nei confronti degli agenti, ma anche tra detenuti - Ma le aggressioni avvengono anche tra detenuti. Graziano Piana è un detenuto del carcere sardo di Bancali ferito gravemente in cella da un altro recluso che lo aveva colpito con violenza alla testa con uno sgabello prima di essere bloccato dagli agenti della polizia penitenziaria. È accaduto martedì scorso, ed è deceduto il giorno dopo nel reparto di Rianimazione del “Santissima Annunziata” dove era ricoverato nella notte. Purtroppo non è un caso unico, ma sono gravi tragedie avvenute anche negli anni passati. Le critiche strumentali a Renoldi di alcune sigle sindacali - Appaiono strumentali alcune critiche mosse da sigle sindacali da sempre vicine a posizioni politiche che guardano in maniera esclusivamente punitiva all’universo carcerario. Ricordiamo che, come ha già riportato Il Dubbio, il capo del Dap ha annunciato tramite una circolare l’intenzione di costituire un sistema di raccolta ed elaborazione dei dati relativi che consenta, al di là della semplice registrazione degli episodi, uno studio puntuale e utile per la definizione della strategia da porre in essere. Un percorso che, con i dovuti confronti interni ed esterni, secondo il dipartimento deve essere tracciato secondo le seguenti direttrici: individuare le Direzioni maggiormente colpite dal fenomeno; analizzare, con il coinvolgimento dei Provveditori e dei Direttori, le cause e le possibili soluzioni; varare un programma di addestramento che aiuti il Personale, prioritariamente in ordine di incidenza del fenomeno, a evitare di correre rischi nel corso degli inevitabili contatti professionali con la popolazione detenuta; dotare il Personale delle attrezzature fondamentali per operare in sicurezza quando si deve intervenire per bloccare soggetti che si sono resi responsabili di azioni violente, magari compiute con strumenti rudimentali atti a offendere (si vuole ricordare che sono ormai prossime all’acquisizione, a conclusione delle relative gare, diverse forniture di materiale, tra le quali 20.000 guanti antitaglio, 8.500 caschi antisommossa, 2.000 sfollagente e 2.000 kit antisommossa). Tali attrezzature, una volta acquisite, saranno assegnate, in maniera calibrata, a tutti gli Istituti penitenziari. Non solo. Altra direttiva è quella di garantire un addestramento all’uso delle dotazioni in parola, direttamente nelle sedi, il quale dovrà essere accompagnato da un forte investimento sulla formazione, che intendiamo realizzare attraverso la previsione di protocolli operativi nella gestione degli eventi critici, che sappiano offrire agli operatori adeguate coordinate circa il ricorso a tecniche di negoziazione e sull’uso legittimo della forza. La nota circolare specifica che quanto illustrato è, evidentemente, parte di una programmazione degli Istituti che il Dap vuole portare avanti e che Renoldi intende rappresentare alle Organizzazioni sindacali per aprire una stagione di lavoro congiunto e partecipativo sulla qualità della vita e dell’ambiente lavorativo nelle carceri. Ma basterà? No, ma è quello che rientra nel campo del Dap. Per quanto riguarda una riforma complessiva sul sistema penitenziario che garantisca anche una più possibile serenità attraverso la riduzione della popolazione penitenziaria e l’umanizzazione dell’ambiente carcerario (e ciò si ripercuote anche sulla qualità di vita lavorativa della polizia penitenziaria come ben evidenzia la relazione della commissione Marco Ruotolo), quello è compito della politica. Ma reclamare più durezza, inasprimento della pena, sbattere le persone in cella e buttare via la chiave, vuol dire fare tanti passi indietro che ci riporta a una situazione che sfociò nella sentenza pilota Torreggiani. Assecondare tutto ciò come fanno taluni partiti pronti a governare il Paese, non rende giustizia nemmeno agli operatori penitenziari stessi. Misure alternative difficili se il sex offender non confessa di Guglielmo Gulotta* Il Dubbio, 30 luglio 2022 Nonostante le censure di giurisprudenza e scienza. Il Tribunale di Sorveglianza è un luogo assai spinoso per noi avvocati: molto spesso le nostre ragioni non trovano ascolto. Se abbiamo la ventura o, a seconda dei casi, la sventura di essere il difensore di un sex offender, ottenere per il condannato la concessione di una misura alternativa alla detenzione è un’operazione molto difficile se il nostro assistito non ha confessato durante il processo e non lo ha fatto nemmeno dopo la condanna definitiva. Recentemente, in occasione della presentazione della Relazione annuale al Parlamento da parte del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, avvenuta in data 20 giugno 2022, è stato evidenziato da più parti il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Al termine del suo mandato, il Garante Mauro Palma ha affermato che “oggi in carcere, in Italia, ci sono 54.846 persone. Per me ce ne potrebbero essere solo non più di 40mila. Non sono buonista, ma la verità è che per un gran numero di loro stare dentro la cella non serve né a loro, né tantomeno alla sicurezza del Paese”. Ancora una volta la soluzione a questo problema proposta dal Garante è stata individuata in un maggiore accesso alle pene alternative: “detenuti con pene inferiori ai due anni sono una presenza che finisce per rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale”. Le dichiarazioni del Garante sono in linea con quanto sostenuto ripetutamente dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. In più occasioni, infatti, la Ministra ha affermato che è necessario orientarsi “verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La “certezza della pena” non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali”. Le medesime considerazioni sono state sviluppate anche in occasione della presentazione del XVIII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Se il nostro assistito non confessa durante il periodo di detenzione, allora, normalmente, nella relazione dell’esperto psicologo ex art. 80 O. P. è affermato che, non avendo confessato, il detenuto non può intraprendere una revisione critica della propria condotta. La conseguenza è che solitamente che il condannato non è ammesso alle misure alternative alla detenzione, quale, ad esempio, l’affidamento ai servizi sociali. La Corte di Cassazione ha censurato il rifiuto di ammettere ai benefici previsti dalla legge il condannato che non confessa, osservando che, se questa è la ragione principale del diniego, allora c’è un contrasto con il principio sacrosanto delle civiltà giuridiche per il quale nemo tenetur se detegere. Questo principio è affermato in numerose sentenze a dimostrazione del fatto che la questione è stata più volte presentata nei ricorsi degli avvocati A questo proposito la Suprema Corte ha sostenuto che non configura una ragione ostativa la mancata ammissione degli addebiti; occorre, invece, valutare se il condannato abbia accettato la sentenza e la sanzione inflittagli, in quanto ciò che assume rilievo è l’evoluzione della personalità successivamente al fatto nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, n. 10586 del 8/ 2/ 2019, Catalano, Rv. 274993 - 01). Talvolta la mancata concessione dei benefici viene altrimenti giustificata con altre ragioni, per esempio, il condannato è chiuso in sé stesso, non ha buoni rapporti con altri detenuti, o altre ragioni del genere. Si tratta di spiegazioni che spesso non trovano riscontro nelle relazioni redatte al termine del periodo di osservazione scientifica della personalità del condannato. È ben vero che il Tribunale di Sorveglianza può discostarsi dal contenuto della relazione, ma è anche vero che, se lo fa, la motivazione deve essere rafforzata, come si usa dire recentemente, anche perché il Tribunale di Sorveglianza non ha mai visto il detenuto, che invece è stato visto a lungo da uno specialista. A questo punto l’avvocato presenta ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza ha rigettato la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali. Tra la presentazione del ricorso e il probabile annullamento della Suprema Corte trascorre un lungo lasso temporale e l’assistito nel frattempo rimane in carcere, come se fosse possibile la revisione critica in questo ulteriore periodo. Il condannato, quindi, resta detenuto per tutto il tempo necessario affinché ci sia una nuova valutazione del Tribunale di Sorveglianza che non è detto si attenga, nello spirito, a quanto affermato dalla Corte di Cassazione. Mi voglio fermare su un altro aspetto dal punto di vista della psicologia forense: ci sono anche delle ragioni di carattere scientifico che contrastano con l’idea che la confessione possa limitare la recidiva. Già nel 2012 Ware e Mann, esaminando la letteratura con casistica empirica, concludono che l’assunzione di responsabilità è più basata “sul comune buon senso piuttosto che su una logica coerente basata sull’evidenza, infatti c’è una mancanza di prove affidabili e coerenti che indichino che tale negazione e minimizzazione porti a una maggiore recidiva. Di fatto c’è qualche prova che gli offender che negano o minimizzano possono rioffendere di meno”. Dunque quello che conta per il trattamento non è tanto la responsabilità verso il passato, ma piuttosto verso il futuro. Georgia Zara, che è professoressa dell’Università di Torino e ha svolto anche il ruolo di giudice onorario del Tribunale di Sorveglianza della stessa città, nel libro “Il diniego dei sex offender” (2018) spiega che “se il diniego non essendo un fattore che incide direttamente sul rischio di ricaduta criminale e sulla persistenza (o recidivismo) criminale sessuale, allora la convinzione giuridico- sociale, secondo cui l’assenza di diniego favorirebbe un processo di assunzione di responsabilità, non sembrerebbe più sostenibile né sul piano scientifico né tantomeno su quello clinico. Sul piano scientifico diversi risultati empirici suggeriscono che la presenza di diniego nei sex offender, anche se ad alto rischio, non influenza il rischio di continuazione antisociale”. Ma queste risultanze scientifiche sono conosciute dagli psicologi e assistenti sociali che scrivono le relazioni al termine dell’osservazione scientifica della personalità del condannato? Il Tribunale di Sorveglianza, organo collegiale a composizione mista, è formato dal Presidente, da un magistrato togato e da due magistrati onorari esperti in materie psicologiche, pedagogiche, sociologiche o mediche. Questi dati scientifici sono conosciuti dai giudici onorari? E se li conoscono, perché non li fanno valere? Tanto basti per noi avvocati che ci troviamo in questa situazione per far valere ancora più forte le nostre ragioni e per i Tribunali di Sorveglianza per ripensare alle loro prassi. A questo punto ritengo opportuno che l’Unione delle Camere Penali si occupi di questa vicenda. *Avvocato del Foro di Milano L’ambizioso obiettivo delle riforme: abbattere 40% dell’arretrato per il civile e 25% nel penale di Maurizio Caprino e Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2022 Erano stati individuati come necessari per l’attuazione del Pnrr e per questo annunciati in dirittura di arrivo nonostante lo scioglimento delle Camere. Infatti nella seduta di giovedì 28 il Consiglio dei ministri ha approvato i decreti attuativi della riforma della giustizia civile, oltre a quello che potenzia le funzioni l’ufficio del processo sia nel penale sia nel civile e ne prevede la presenza anche dove prima non c’era o non era chiaro che dovesse esserci. Sono tasselli fondamentali della riforma della giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia, per raggiungere entro fine anno gli obiettivi del Pnrr. Martedì a palazzo Chigi è fissato l’esame dei decreti di attuazione della riforma della giustizia penale. Politicamente quest’ultima è la parte più delicata, ma rientra anch’essa fra le condizioni per incassare i 21 miliardi previsti dal Pnrr. Ottenuto il via libera del Consiglio dei ministri la parola va alle commissioni Giustizia di Camera e Senato per il parere consultivo da esprimere entro 60 giorni. Le deadline per l’approvazione sono fissate al 19 ottobre per il penale, mentre l’ultima data utile per licenziare i decreti attuativi della riforma civile è quella del 26 novembre. Testimoniata dai numeri anche l’importanza della parte attuativa del civile, con 51 articoli distribuiti su 140 pagine. Lo schema di decreto legislativo, che entrerà in vigore il 30 giugno 2023, emanato in attuazione della legge delega 206/2021, interviene per ridisegnare, nella forma e nella sostanza, la disciplina del processo civile di cognizione, del processo di esecuzione, dei procedimenti speciali e degli strumenti alternativi di composizione delle controversie. Punto, quest’ultimo, qualificante della riforma, reso attrattivo da sgravi fiscali individuati dalla legge delega. Nelle norme attuative anche la riforma ordinamentale della famiglia, con l’istituzione del nuovo tribunale “per le persone, per i minorenni e per le famiglie”, che però si applicherà ai procedimenti introdotti dal 2025. Cuore della riforma è il processo ordinario, rivisto all’insegna della semplificazione. Nel primo grado, nell’ambito di una nuova ripartizione delle competenze degli organi giudiziari, viene alzato il tetto del valore della controversia che può rientrare nella competenza del giudice di pace: elevata a 15mila euro (e fino a 30mila nel contenzioso da sinistri stradali). Prevista pure una riduzione dei casi in cui il tribunale opera in composizione collegiale. All’insegna della semplificazione la soppressione di alcune udienze, come quella per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio e quella di precisazione delle conclusioni, sostituita dallo scambio di note scritte. Tempi tagliati anche con l’obbligo del giudice di predisporre il calendario del processo alla prima udienza e con la previsione di un termine non superiore a 90 giorni dalla prima per l’udienza per l’assunzione delle prove. In appello rivista la disciplina dei filtri nelle impugnazioni. Corsia rapida per il giudizio in Cassazione, per definire i ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. Per i giudizi presso la Suprema corte, introdotto anche il nuovo rinvio pregiudiziale per ottenere una decisione vincolante nelle questioni di puro diritto, nuove e di particolare importanza. In materia di lavoro previsto un unico procedimento per i licenziamenti con una corsia preferenziale per la trattazione dell’eventuale reintegrazione. Interventi anche nell’ambito della giurisdizione volontaria, con la possibilità di delegare determinate funzioni, oggi attribuite al giudice, anche a professionisti, principalmente ai notai. Sull’onda della pandemia sono stati inoltre rafforzati gli strumenti informatici e le modalità di svolgimento delle udienze da remoto. L’ufficio del processo - Per far “girare” adeguatamente le riforme, si punta sull’ufficio del processo, istituito nel 2012 ma solo ora destinato a decollare come squadra di assistenza ai magistrati per accelerare i procedimenti, usando meglio le tecnologie e trovando nuovi assetti organizzativi. Tutto ciò dovrebbe avvenire anche grazie alle competenze informatiche dei nuovi assunti e alla riqualificazione di addetti più anziani, sotto il coordinamento dei magistrati (i capi degli uffici dovranno fissare gli obiettivi ed eventualmente designare in aiuto altri colleghi) e con la partecipazione di magistrati onorari, cancellieri, tirocinanti e laureati in formazione professionale. L’accelerazione passa anche dall’attribuzione all’ufficio del processo di compiti come studio del fascicolo, redazione di schede riassuntive e bozze di provvedimenti, preparazione di udienze e camere di consiglio, ricerche di giurisprudenza e dottrina e verifica degli eventuali presupposti per mediare la lite. Lo schema di decreto istituisce l’ufficio del processo anche in Cassazione e nella Procura generale di quest’ultima e chiarisce che devono dotarsene anche i tribunali di sorveglianza. Il Governo con due Decreti legislativi finalmente taglia la durata dei processi di Paolo Ferrari Libero, 30 luglio 2022 Nonostante lo scioglimento delle Camere l’attività legislativa va avanti. Il Governo, in uno degli ultimi Consigli dei ministri prima della pausa estiva, ha approvato due decreti legislativi per la riforma della giustizia civile. Si tratta di provvedimenti molto attesi perché, secondo le intenzioni della Guardasigilli Marta Cartabia, dovrebbero consentire di raggiungere l’ambizioso obiettivo di abbattere del 40 percento la durata dei processi. I due decreti vanno ad incidere sul codice di procedura civile, sul processo civile telematico, sulla volontaria giurisdizione, sui minorenni e famiglia, sul lavoro. In particolare, ci sarà l’incremento degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (Adr), la valorizzazione e il rafforzamento della mediazione e della negoziazione assistita, anche con incentivi fiscali, l’introduzione di sistemi di filtro nella fase delle impugnazioni e del nuovo istituto del “rinvio pregiudiziale in Cassazione”, con cui il giudice può sottoporre questioni di diritto esaminate con le parti direttamente alla Corte di cassazione e la possibilità, infine, di delegare anche a professionisti determinate funzioni oggi attribuite esclusivamente al giudice, nell’ambito del processo del lavoro, del processo esecutivo e di alcuni procedimenti speciali. Viene creato, poi, il giudice “del diritto di famiglia e delle persone” che si occuperà in via unitaria di minorenni e famiglie. Archiviata, dunque, la pratica sul civile, resta in piedi il decreto sul penale, atteso in Cdm per martedì prossimo. Su questo testo ci sono al momento forti perplessità da parte dei partiti che appoggiano l’ex governo Draghi. Ma da via Arenula hanno fatto già sapere che non ci sarebbero problemi. Il fatto che il decreto penale non sia stato discusso ieri insieme al civile non sarebbe dipeso, infatti, da tensioni politiche ma dalla mole dei provvedimenti, impossibili da esaminare a Palazzo Chigi contemporaneamente. Come per il civile, il decreto sul penale supera abbondantemente le 300 pagine fra articolato e relazione. Il Ministero della giustizia, trapela, non ignora la maggiore reattività della politica sul penale, ma può contare su un calendario che non dovrebbe lasciare spazio a dei ripensamenti delle Camere (i cui pareri, come per tutti i decreti legislativi, sono consultivi e non vincolanti). I 60 giorni di tempo per le Commissioni parlamentari decorrono, comunque, dalla data in cui il governo presenta i testi. Se il penale fosse trasmesso martedì stesso, 2 agosto, si finirebbe per sforare rispetto alle elezioni politiche del 25 settembre. In ogni caso, ci sarebbe un “extra-time” in quanto la convocazione delle nuove Camere è stata prevista fin da ora per il 13 ottobre e fino a quella data restano in carica le vecchie. Se pure il Parlamento arrivasse a consumare tutti i 60 giorni che le leggi delega mettono a disposizione, il governo attuale potrebbe poi contare anche sul fatto che il giuramento dei successori arriverebbe, forse, verso fine del mese di ottobre. Prima di quella data ci sarebbe, dunque, il tempo per emanare in via definitiva anche il decreto sul penale. Le riforme del processo civile e penale, va ricordato, sono attese dall’Europa in quanto indispensabili per l’erogazione dei fondi previsti nel Pnrr. Csm, la parità di genere diventa realtà: la Cassazione sorteggia le magistrate mancanti nelle liste di Liana Milella La Repubblica, 30 luglio 2022 Alla Suprema corte estratte ieri ben 39 donne per rispettare la nuova legge elettorale della Guardasigilli Cartabia. Inevitabile la proroga dell’attuale Consiglio perché le Camere sciolte non potranno eleggere a settembre i componenti laici. Tra il 18 e il 19 settembre saranno nominati i togati. E alla fine il Csm in carica - che ha rischiato di “saltare” quattro anni fa sul caso Palamara, ma è stato “salvato” dal rifiuto di Mattarella di andare a un voto sempre con la stessa legge elettorale - dovrà essere prorogato. Inevitabilmente. Per l’imprevedibile coincidenza delle elezioni politiche del 25 settembre che bloccano la scelta parlamentare dei dieci consiglieri laici, scelti tra avvocati e professori universitari. Li voterà il futuro Parlamento. Il “quando” è del tutto imprevedibile. Certo è che tra il 18 e il 19 settembre si svolgeranno le elezioni dei 20 componenti togati. Per la prima volta nella storia della magistratura si svolgerà una campagna elettorale con i palazzi di giustizia chiusi per ferie. Prospettiva che ha provocato più di una protesta. Ma gli eletti e le elette dovranno aspettare l’arrivo dei componenti laici. Gli uni e gli altri - ma chissà quando - dovranno a loro volta eleggere il nuovo vice presidente. Ma partiamo da una novità, nel rispetto della nuova legge Cartabia sul Csm. Che prevede, almeno per la pattuglia dei laici, la parità di genere nelle candidature. Lo stesso non si è potuto fare alla fine per i componenti scelti dal Parlamento perché è risultato impossibile trovare una soluzione che imponesse a deputati e senatori di selezionare e poi votare sia uomini che donne. Per i magistrati in corsa invece questo è stato possibile. E per le liste che non rispettano la parità di genere ha provveduto ieri la Cassazione sorteggiando le candidate femminili. In tutto 39 donne, qualcuna in più in vista di qualche eventuale rifiuto, distinte tra le candidate che corrono per i posti riservati ai giudici di legittimità, le toghe che lavorano in piazza Cavour. Sei le giudici selezionate, tra cui un nome noto come quello di Pina Casella, di Unicost, che però è già stata al Csm. E ancora 15 magistrate per i pubblici ministeri e 18 per i giudici, distribuite nei quattro collegi. Una novità rilevante del sistema elettorale contenuto nella legge Cartabia che certamente ha prodotto un gran numero di candidati. Di certo non le sparute liste del 2018, quando addirittura si candidarono, in un collegio unico nazionale, quattro pm per altrettanti posti. Alle correnti tradizionali - la sinistra di Area, la centrista Unicost, la destra di Magistratura indipendente, i davighiani di Autonomia e indipendenza - si aggiungono candidati del tutto autonomi, come il pm di Napoli Henry John Woodcock, e quelli sorteggiati dal gruppo di Altra proposta. Ma stavolta Magistratura democratica ha deciso di correre da sola dopo la “separazione” da Area. E dentro Area non sono mancate polemiche sui candidati scelti con le primarie del 7 e 8 luglio. Due magistrati milanesi - il pm Roberto Fontana e la giudice Luisa Savoia - hanno deciso di “correre” da soli. Avevano chiesto primarie non nazionali, come poi sono state, ma per distretto. Di fronte alla scelta del segretario Eugenio Albamonte hanno deciso di candidarsi in solitaria. Fontana, che è da pm a Piacenza dove ha seguito il caso Bellomo, si presenta con cento colleghi che sostengono la sua candidatura. Scorrendo le liste non mancano i nomi conosciuti, per citare i più noti ecco l’ex segretaria di Mi Paola D’Ovidio che corre in Cassazione, il procuratore di La Spezia Antonio Patrono, che per Autonomia e indipendenza punta a uno dei posti riservati ai pm. E ancora, sempre per i pubblici ministeri, il romano Mario Palazzi, e il procuratore aggiunto di Taranto Maurizio Carbone. Mentre a Roma, per Md, tra i giudici c’è il gip Valerio Savio. Sempre tra i giudici, per Unicost, ecco Roberto D’Auria, giudice penale del tribunale di Napoli. Cinquanta giorni di campagna elettorale che certo sconteranno il deserto dei palazzi di giustizia, almeno ad agosto. E poi, una volta eletti, i venti togati continueranno a fare il loro lavoro “in attesa” che il nuovo Csm parta. Tutto dipenderà da quando il Parlamento potrà riunirsi in seduta comune, dopo scadenze che inevitabilmente avranno la precedenza sul Csm. La scelta dei presidenti delle due Camere, il voto sul futuro governo, nonché la legge di stabilità che incombe come scadenza prioritaria. Un cammino difficile che potrebbe anche comportare una lunga proroga per l’attuale Csm. La responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando riflette sulla coincidenza tra il voto politico e quello per il Csm e dice: “Una delle conseguenze di questa insensata crisi di governo sarà l’inevitabile rinvio dell’elezione dei membri laici del Csm e della formazione del nuovo Consiglio. Ma c’è di più. Infatti una riforma attesa e di grande rilevanza come quella del Csm, su cui abbiamo sventato più volte tentativi di affossamento, prevede l’approvazione di decreti attuativi per essere completata. Sarebbe opportuno arrivare all’emanazione di questi decreti il prima possibile per dare piena attuazione alla riforma”. Nuovo Parlamento, nuove maggioranze, nuovi ministri. E una riforma, proprio quella del Csm, che a differenza delle nuove leggi sul processo civile e sul processo penale, vede più lontana la scadenza dei decreti attuativi, giugno 2023. Il nuovo Csm si troverà in pieno nel guado tra vecchie e nuove regole, e i suoi “numeri” interni dipenderanno anch’essi dal voto politico che, a seconda degli esiti, ne determinerà anche la composizione “politica”. Anche questa volta, com’è avvenuto nel 2018, a essere eletti saranno prima i togati - quattro anni fa furono votati all’inizio di luglio - e poi il Parlamento a settembre scelse i laici. Un “uno-due” che avvantaggia la politica nel determinare, con i laici, le future maggioranze nel plenum del Csm. Ma stavolta le elezioni politiche impediscono una contestualità, perché la data del 18 e 19 ottobre decisa per decreto da Mattarella, non è rinviabile. E perché il Parlamento dovrà prima insediarsi e poi pensare al Csm. “Sulla giustizia si riparta dai referendum: mai più attacchi a noi magistrati” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 luglio 2022 Crisi di governo, rinnovo del Csm, nuovo ministro della Giustizia: a colloquio con il segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro, esponente di spicco di Magistratura Indipendente. Lo scenario politico scaturito dalla crisi di Governo potrebbe mettere in pericolo diverse riforme della giustizia. Lei ritiene invece che sia prioritario approvarle? La ministra Cartabia sta procedendo a spron battuto su questa strada con l’intento di rispettare il timing fissato da Bruxelles che prevede l’approvazione, entro la fine dell’anno, dei decreti attuativi delle leggi delega sul processo penale e civile. Su alcuni punti dei decreti, venuto meno il collante tra le forze politiche, è prevedibile sorgano fibrillazioni, anche perché le previsioni in essi contenute vengono rese note solo ora. Anche l’Anm, che ha preso contezza delle prime frammentarie anticipazioni dagli organi di stampa, non ha avuto modo di conoscere le relazioni dei gruppi di lavoro, pronte da mesi, ed è stata tenuta completamente all’oscuro nella fase di elaborazione dei testi. Molto probabilmente martedì arriveranno in Cdm i decreti attuativi della riforma del processo penale. Movimento 5 Stelle e Lega dicono: approviamo solo le parti non divisive, tenendo fuori ad esempio la parte relativa alle misure alternative per condanne sotto i 4 anni irrogate direttamente del giudice di cognizione. Che ne pensa? Si tratta di valutazioni che spettano alle forze politiche, mi limito a osservare che non sarà agevole intervenire all’ultimo scorporando singoli tasselli di un assetto di riforma così ampio. Intanto, il voto dei laici del Csm è rimandato a data da destinarsi. Secondo lei ci sono delle criticità nell’ampia forbice temporale tra elezioni togati e elezioni laici? Sarà inevitabile la proroga di alcune settimane dell’attuale consiliatura per dar modo alle Camere, nella nuova composizione che uscirà dalle elezioni politiche, di designare i componenti laici del Csm. D’altronde con lo scioglimento delle Camere il Parlamento resta in carica solo per l’ordinaria amministrazione e personalmente riterrei inappropriato inscrivere nel novero di tali atti la designazione dei componenti di un organo a rilevanza costituzionale. La campagna elettorale politica ha messo in ombra quella per il Csm... So che i candidati alle elezioni del Csm, mai così numerosi, si stanno confrontando con i colleghi negli uffici giudiziari in vista dell’appuntamento con le urne. C’è grande inquietudine tra i magistrati per alcuni contenuti di una riforma ordinamentale che ha un’impostazione aziendalista e che gerarchizza profondamente gli uffici giudicanti, e per le possibili ricadute che alcune insidiose modifiche potrebbero avere sull’indipendenza, anche interna, e sull’autonomia della magistratura. Il nuovo Csm, che sarà chiamato ad applicare questa riforma e a riscrivere la disciplina secondaria per adeguarla al mutato quadro normativo, avrà un ruolo centrale e assai delicato: non dovrà lasciare solo il magistrato che oggi più che mai si sente stretto tra la richiesta di una produttività inesigibile e l’assillo della leva disciplinare. Il prossimo sarà il nuovo Csm dopo gli scandali del 2019. Come si volta davvero pagina? Qual è l’elemento principale che dovrebbe contraddistinguere il nuovo Csm? Alcuni suoi colleghi ad esempio lo rintracciano in una maggiore trasparenza... Gli scandali del 2019 hanno solo disvelato quanto fossero trasversalmente diffuse pratiche spartitorie e accordi di potere sulle nomine a incarichi direttivi e semi- direttivi. Si volta pagina cambiando quei comportamenti, cosa che sta già avvenendo. Se si vuole veramente che soffi un vento nuovo, bisogna soprattutto fondare su criteri oggettivi e prevedibili le decisioni sulle nomine: questo snodo è ineludibile. Ci sono secondo lei altre urgenze per il nuovo Csm? Altro obiettivo prioritario sarà, a mio avviso, dare attuazione alla norma di legge sui carichi esigibili, da oltre dieci anni rimasta lettera morta, tanto che l’ufficio legislativo di via Arenula ne aveva previsto la soppressione, scongiurata grazie all’intervento dell’Anm. Dire qual è il limite di produttività oltre il quale il lavoro giudiziario sconta pesanti cadute di qualità è adempimento divenuto imprescindibile per dare al magistrato la serenità di cui ha bisogno a fronte delle derive iper- produttivistiche che prevedibilmente innescherà la riforma Cartabia. Il fatto che la delega sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario venga esercitata dal nuovo Governo rassicura nel poter avere più margini per sanare le criticità rilevate in questi mesi? Una buona riforma non è frutto del lavoro appartato di pochi, ma nasce dall’ascolto delle categorie interessate e dalla conoscenza della realtà degli uffici giudiziari e delle ragioni d’affanno degli operatori. Auspico che il nuovo Governo adotti un metodo di lavoro maggiormente partecipativo che consenta alla magistratura, come all’avvocatura, di fornire l’essenziale contributo tecnico per riforme che, senza infirmare i principi posti a presidio della funzione giudiziaria, siano davvero in grado di ridurre sensibilmente i tempi della risposta di giustizia. I cittadini, a ragione, questo pretendono. La giustizia molto probabilmente non sarà questione della campagna elettorale. Ma dal suo punto di vista i partiti, sul fronte giustizia, su cosa dovrebbero impegnarsi nella prossima legislatura? Bisognerà tenere conto dell’esito dei recenti referendum e non riproporre battaglie ideologiche divisive, e soprattutto mettere da parte i sentimenti di rivalsa nei confronti della magistratura che hanno animato i più recenti interventi di riforma. Servirà poi fare squadra per risolvere problemi d’assoluta urgenza. Vede, non basta concentrarsi sulle modifiche processuali se si trascura l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che spetta al ministero della Giustizia garantire. Mancano oltre 1500 magistrati e occorre colmare le gravi scoperture, anche del personale amministrativo, specie in località ove è più forte la presenza della criminalità organizzata. La geografia giudiziaria andrebbe ridisegnata e le piante organiche dei magistrati necessitano di una profonda revisione per assicurare una equilibrata e razionale distribuzione delle risorse umane sul territorio, anche perché si riveleranno fatalmente insufficienti le misure adottate per deflazionare il contenzioso. C’è poi l’annoso tema dell’edilizia giudiziaria con spazi inadeguati e, talora, addirittura non a norma, su cui, con colpevole inerzia, si tarda a intervenire. Siamo indietro anche sul versante della digitalizzazione degli uffici giudiziari. Che eredità ci lascerà la ministra Cartabia e che profilo dovrebbe avere il nuovo Guardasigilli? La risposta alla sua domanda penso di averla implicitamente data. “Borsellino ucciso perché’ interessato a mafia-appalti”, la svolta dei pm di Caltanissetta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2022 La procura di Caltanissetta indaga sull’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti come causa della sua eliminazione. Sentiti già dei testi, tra cui l’ex Ros De Donno Dal 2018 “ Il Dubbio” ha condotto una inchiesta giornalistica sulla vicenda. Da qualche settimana la procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Salvatore De Luca ha riaperto l’inchiesta sul filone “mafia appalti” come causa scatenante che portò all’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. A rivelarlo è l’agenzia Adnkronos a firma di Elvira Terranova. Le bocche in procura sono cucite, l’indagine è top secret, ma come apprende l’Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta scandagliando le vicende legate al procedimento del dossier mafia-appalti redatti dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Giovanni Falcone. Tutte le sentenze hanno accertato l’interessamento di Falcone e Borsellino a mafia-appalti - I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui la pm Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente - come rivela l’Adnkronos - hanno anche fatto i primi interrogatori. Compresi quelli top secret. Tra le persone sentite, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori. Che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino riguardante il dossier mafia-appalti sia stata una concausa delle stragi, questo è accertato da tutte le sentenze. Quest’ultime hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti. Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti - C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti - si legge nelle sentenze - in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare” (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999). Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: “ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose”. Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire - Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 30 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo. Alla sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: “Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze”. I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi - Le motivazioni riportano anche la versione di Brusca: “Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti”. Dal 2018 Il Dubbio si interessa alla vicenda del dossier mafia-appalti - Il Dubbio, fin dal 2018, ha condotto una inchiesta giornalistica sulla questione del dossier mafia-appalti. “Mandanti occulti bis” dei primi anni 2000 a parte, in questi lunghissimi anni non sono mai state riaperte le indagini nonostante siano venuti fuori nuovi elementi come le audizioni al Csm di fine luglio 1992 dove emerge con chiarezza che cinque giorni prima della strage, il giudice Borsellino partecipò a una assemblea straordinaria indetta dall’allora capo procuratore capo Pietro Giammanco. Una assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. Dalle audizioni di alcuni magistrati emerge che Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Addirittura, come dirà il magistrato Nico Gozzo, si sarebbe respirata aria di tensione. Gli omicidi di Salvo Lima e del maresciallo Guazzelli per Borsellino sono legati a mafia-appalti Ed è lo stesso Borsellino, come si evince dalle parole dell’allora pm Vittorio Teresi nel verbale di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, a dire che a suo parere sia l’omicidio su ordine di Totò Riina dell’europarlamentare Salvo Lima che quello del maresciallo Guazzelli sono legati alla questione del dossier mafia-appalti perché si sarebbero rifiutati di intervenire per cauterizzare il procedimento mafia appalti. Da tempo sia Fiammetta Borsellino che il legale della famiglia Fabio Trizzino, chiedono di sviscerare cosa sia accaduto nel biennio del 91-92 all’interno del “nido di vipere” (definizione di Borsellino riferendosi alla procura di Palermo) e soprattutto quando fu depositata la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti mentre - come ha detto l’avvocato Trizzino al processo depistaggi - “stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi”. Toscana. Malattia mentale e tentati suicidi, Sollicciano è il carcere peggiore di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 luglio 2022 La ricerca sulle prigioni toscane. L’appello alla Regione della direttrice: “Ci serve aiuto”. La malattia mentale è sempre più un’emergenza nelle carceri toscane. Quasi un detenuto su due (esattamente il 49,2 per cento) soffre di disturbi psichici, mentre la percentuale era del 33,2 per cento nel 2009 e del 38,5 per cento nel 2017. A fare il punto sulla situazione è la ricerca della Onlus “La società della ragione”, curata dalla sociologa Giulia Melani con la supervisione scientifica dell’ex garante dei detenuti Franco Corleone. A rendere evidente il disagio mentale negli istituti penitenziari toscani, ci sono anche i numeri degli atti di autolesionismo compiuti dai detenuti. Se nel 2017 erano 854, sono diventati 934 nel 2019, per arrivare a 1.044 nel 2021 e addirittura 1.062 nel 2021. Il carcere dove se ne registrano di più è quello di Sollicciano, dove sono stati quasi 600 quelli compiuti nel 2021. E poi ci sono i sucidi, soltanto due nel 2021, tre invece l’anno precedente. Aumentano anche i tentati suicidi, che erano 104 nel 2017 e sono arrivati a 126 nel 2021. Non solo atti contro la propria persona però. Ad aumentare sono anche le aggressioni ai danni degli agenti penitenziari, in crescita esponenziale soprattutto nel penitenziario fiorentino, dove proprio nei giorni scorsi un’infermiera del reparto ha subìto un’aggressione a sfondo sessuale da un recluso. Ma perché sono aumentati così tanto i disturbi psichici all’interno dei penitenziari toscani? Ad influire ha giocato un ruolo importante la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (i cosiddetti Opg) che hanno dirottato molti reclusi con problematiche psichiatriche nelle carceri, a fronte di una carenza di posti nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. E cosa fare per risolvere la delicata situazione? Secondo Franco Corleone la prima cosa da fare è “un potenziamento dei dipartimenti psichiatrici all’interno dei penitenziari, che attualmente ci sono ma che in molti casi dovrebbero funzionare meglio”. È poi necessario, sempre secondo l’ex garante dei detenuti, “ridurre il sovraffollamento evitando di riempire il carcere con persone che hanno problemi di tossicodipendenza”. Infine, non ultimo, “organizzare più attività alternative all’interno dei penitenziari, dal lavoro alla cultura”. Corleone avanza poi la proposta di “realizzare nuove strutture per i detenuti in semilibertà, che non dovrebbero stare in carcere ma in luoghi adeguati, che ad esempio potrebbero sorgere nelle tante palazzine vuote che ci sono all’interno dell’area di San Salvi”. Una proposta per alleviare il disagio mentale all’interno di Sollicciano arriva anche dalla direttrice del carcere Antonella Tuoni che, intervistata ieri su Novaradio, ha lanciato un appello alla Regione proprio su questo tema: “Abbiamo bisogno di un potenziamento degli operatori sul disagio mentale e questo dipende dalla Regione perché la salute in carcere è una questione regionale. Il carcere non dev’essere il fanalino di coda della sanità, ma dev’essere territorio anche il carcere e centro di investimenti. Se non abbiamo specialisti, operatori, terapeuti, il disagio mentale in carcere si amplifica, gli agenti penitenziari da soli non bastano perché non hanno la formazione adeguato su questo fronte”. Campania. Assunti e poi sospesi, il mistero degli Oss in carcere di Andrea Aversa Il Riformista, 30 luglio 2022 Annamaria ha dovuto accettare per necessità. Ha iniziato a lavorare come ragioniere all’interno di strutture sanitarie private. Poi per non restare senza lavoro ha partecipato al bando pubblicato dalla Protezione civile. Marina ha sempre lavorato come operatrice socio sanitaria (Oss) nel settore privato. Divorziata e con due figli, non poteva restare disoccupata. Ecco perché ha accettato di lavorare come volontaria nelle carceri. Assunta è vedova. Il marito si è ammalato ed è poi deceduto. È di nuovo disoccupata da quando a marzo è stata sospesa dal servizio. Cosa hanno in comune tutte e tre? Sono state assunte nell’aprile del 2020 come Oss dopo l’approvazione dell’ordinanza numero 665. Annamaria Nunziata ha lavorato nel carcere di Poggioreale, Marina Amitrano e Assunta Vitiello in quello femminile di Pozzuoli. Sono tre dei 60 Oss destinati alla Campania e divisi tra i penitenziari della Regione. In tutta Italia gli Oss assunti e poi sospesi, nonostante una proroga dello scorso maggio (disposta con ordinanza numero 892), sono mille. Per tutti loro lo Stato ha stanziato fondi per 7.800.000 milioni di euro. In Campania gli unici ad avere ancora il lavoro sono i 13 operatori impiegati nella provincia di Caserta. Gli Oss sono stati assunti su base volontaria e sono stati pagati 100 euro al giorno. Un contributo definito solidale e forfettario. “Abbiamo fatto un lavoro eccellente in condizioni difficili - ha raccontato Annamaria - abbiamo lavorato come se avessimo avuto un contratto, anche sei ore al giorno e facendo i turni nel periodo natalizio”. “È come se fossimo stati sfruttati e poi cacciati via - ha spiegato Marina - Abbiamo messo a rischio la nostra salute, fatto enormi sacrifici per poi essere messi alla porta senza alcuna spiegazione”. “È stata un’esperienza importante - ha dichiarato Assunta - abbiamo instaurato un ottimo rapporto con il personale del penitenziario. Dai detenuti, agli agenti, agli educatori, agli amministratori”. Eppure, nonostante gli Oss siano più che necessari all’interno dei penitenziari, lo Stato e le regioni non hanno ancora stabilizzato queste mille unità. Le Asl non hanno l’obbligo di farlo. La priorità in Campania è giustamente data ai vincitori dei concorsi già presenti nelle varie graduatorie. Alle strutture detentive locali serve personale da poter impiegare a tempo pieno per garantire la copertura dei vari turni di lavoro. Secondo la Protezione civile territoriale pare non ci siano neanche le coperture finanziarie per rendere sostenibile il periodo di proroga. Ma l’aspetto economico è davvero poco chiaro: dall’ordinanza sembrerebbe che i fondi statali fossero sufficienti per retribuire queste risorse fino al 31 maggio 2022. Se poi le singole Asl avessero voluto usufruire degli Oss, le regioni di appartenenza dovrebbero entro il prossimo settembre presentare al governo il rendiconto per il rimborso delle spese affrontate. “Il tema delle coperture finanziarie è molto strano - ha affermato Cristiana Lami portavoce nazionale degli Oss - faccio l’esempio della mia regione, la Toscana: noi abbiamo lavorato fino a maggio e siamo stati pagati. Ma nella tabella dell’ordinanza non era indicato nessun contributo economico a carico dello Stato. Da quello che so io le coperture finanziare sono state comunque previste anche per il periodo di proroga”. Intanto, a Napoli e provincia, gli Oss devono ancora ricevere alcuni pagamenti per le prestazioni già effettuate. “Abbiamo contattato il dipartimento della Protezione civile nazionale - ha concluso Lami - ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta”. Sarebbe doveroso che i chiarimenti a tali interrogativi arrivino e anche al più presto, perché dietro ogni vicenda del genere ci sono delle persone: madri, padri e giovani, ognuno con la propria storia. Palermo. Lucia Bua: “Verità e giustizia per i miei figli Samuele e Paolo” di Antonio Sansonetti rainews.it, 30 luglio 2022 Samuele Bua è morto nel carcere Pagliarelli il 4 novembre 2018. La madre non ha mai creduto al suicidio e sulla base di una nuova autopsia chiede di riaprire le indagini. Intanto ha dovuto piangere anche un altro figlio, Paolo, deceduto in clinica. Il calvario di Lucia comincia nel maggio 2018 quando il suo figlio Samuele, schizofrenico diagnosticato, viene arrestato dopo una lite violenta in casa. Con la sua patologia dovrebbe essere ricoverato in una struttura, finisce invece al Pagliarelli. Dove muore sei mesi dopo. Le indagini della polizia penitenziaria concludono che si è impiccato in cella con dei lacci da scarpe. Vengono imputati e assolti due medici, ma Lucia non ha mai creduto al suicidio e commissiona un’altra autopsia, dove risultano delle anomalie: un alto tasso di alcol nel sangue e l’assenza di segni di strangolamento. Assistita dall’avvocato Giorgio Bisagna Lucia ha chiesto la riapertura delle indagini. Ma nel frattempo a dicembre scorso viene sequestrata la struttura a Castelbuono dove era in cura Francesco Paolo, il suo figlio maggiore: per gli inquirenti era una “clinica degli orrori”. Paolo viene trasferito a Palermo ma dopo soli 17 giorni, il 5 gennaio 2022, muore. Anche in questo caso è stata aperta un’indagine. La beffa finale: Lucia vuole seppellirlo nel cimitero dei Rotoli accanto a suo fratello, ma la salma è parcheggiata da mesi sotto i gazebo in attesa della tumulazione. Bologna. Sovraffollamento e attività ferme, la Dozza sotto la lente di Antigone di Francesco Betrò Corriere di Bologna, 30 luglio 2022 La presidente emiliana: “Positive le nuove casette per i colloqui privati”. Attività ferme e sovraffollamento. È questo lo scenario che i rappresentanti dell’associazione Antigone si sono trovati davanti martedì, quando hanno svolto la visita annuale di controllo alla casa circondariale di Bologna, la Dozza. L’associazione, attiva dal 1991 per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, ha rilevato che su una struttura che ha una capienza massima di 500 persone, i detenuti presenti erano 738. Di questi, più del 50% stranieri: 389, a fronte dei 349 detenuti italiani. Sono 68, invece, le donne: la sezione femminile della Dozza è la più grande in Emilia-Romagna. Questa volta, l’associazione non ha potuto visitarla perché messa in “bolla” a causa di alcuni casi Covid. Sul totale delle persone nella struttura, un dato importante arriva dalle condanne definitive, segnala Giulia Fabini, presidente di Antigone Emilia-Romagna: “Erano 483 quando siamo andati. Si tratta di un aspetto significativo dal momento che il carcere della Dozza è una casa circondariale, nata per accogliere una popolazione che dovrebbe avere un alto turn over”. Questo dato si porta con sé un problema che non è solo legato alla destinazione della struttura. L’alto numero di condanne definitive, infatti, sconta una relativa presenza di educatori che è insufficiente: “Sono cinque per una pianta organica che secondo noi è molto limitata, che è di nove unità. Cinque educatori su 738 detenuti sono pochi”, spiega Fabini. Alla carenza di educatori si aggiunge anche il problema dell’estate. Una stagione che in carcere si fa sentire di più perché da giugno le attività sono ferme. La scuola finisce, le associazioni vanno in pausa e non ci sono corsi professionalizzanti. Chi lavora continua, ma questo riguarda soltanto una parte dei detenuti. E dentro il carcere non avere attività significa restare senza fare niente. Alla mancanza di svago si aggiunge il caldo, affrontato senza ventilatori e con una finestra bloccata al primo piano. Fino a pochi giorni fa, poi, il terzo piano della Dozza era senza acqua: “Quando siamo andati la situazione era stata - dice la presidente regionale di Antigone. Abbiamo fatto la prova ed effettivamente l’acqua arrivava alle docce. Anche se noi andiamo la mattina, bisogna vedere la sera. Adesso hanno fatto degli interventi straordinari per ovviare al problema della mancanza di pressione, ma prima di questi chiudevano l’acqua per una/due ore al primo piano in modo tale da farla arrivare al terzo”. A gestire la situazione è stata la nuova direttrice Rosa Alba Casella, entrata in carica a marzo di quest’anno: “È un grosso cambiamento - spiega Fabini - perché Claudia Clementi, la ex direttrice, era qui da otto anni: a volte quando cambia la direzione cambia l’istituto. È un po’ troppo presto per dire che impronta ci sarà in questo caso, ma per il momento abbiamo avuto una percezione positiva”. Delle novità a cui l’associazione Antigone guarda favorevolmente, comunque, ci sono già state secondo la presidente emiliano-romagnola: “Una è l’installazione di tre casette, prefabbricati nell’area verde pensati per l’istituto della visita, con le pareti a vetri in modo da poter vedere quello che succede dentro. Alcuni detenuti possono usufruire di questi spazi per poter avere un colloquio con più di intimità. È un messaggio importante. L’altra novità - conclude Clementi - è la nuova cucina professionale, molto grande e ben tenuta. Qui cucinano per tutto il giudiziario e per tutte il penale maschile: dà lavoro a 12 detenuti”. Ivrea (To). Giustizia al collasso: “A ogni magistrato assegnati tremila fascicoli” di Alessandro Previati La Stampa, 30 luglio 2022 La competenza del tribunale è cresciuta da 184 mila a 515 mila abitanti ma sono vacanti quattro dei nove posti da sostituto procuratore. “Signori, si chiude”. La provocazione, tutt’altro che esagerata, arriva dal tribunale di Ivrea. Gli uffici giudiziari (procura compresa) sono in affanno da anni a causa della carenza di personale e dall’aumento spropositato delle pratiche. Con i pensionamenti in vista a settembre, specie nel reparto amministrativo, c’è il rischio di non poter garantire i servizi alla cittadinanza. L’allarme arriva dalla Cgil che ha sposato in pieno la relazione firmata, meno di un mese fa, dalla procuratrice capo d’Ivrea, Gabriella Viglione. Ed è proprio la procuratrice, nelle conclusioni, a sottolineare che la situazione, “più che grave è drammatica, tale da pronosticare che non tutti i servizi saranno sempre garantiti e che, entro breve, sarà forse necessario ridurre gli orari di apertura all’utenza”. Tra i servizi a rischio, ad esempio, quello del casellario. “La procuratrice, così come il presidente del tribunale, ha perfettamente ragione - dice Gabriele Gilotto, segretario della funzione pubblica Cgil Torino - la situazione è drammatica. Ed è un danno per tutti: dai cittadini alle imprese”. Problema ormai storico: quando nel 2012 si è rivisto l’assetto giudiziario italiano, tribunale e procura di Ivrea sono passati da 184mila a 515mila abitanti di competenza. La pianta organica, però, è rimasta la stessa: oggi manca un terzo del personale, per ogni giudice ci sono solo due amministrativi (contro gli otto previsti), non ci sono dirigenti e direttori, la sezione di polizia giudiziaria della procura è ridotta all’osso e ci sono più di 16mila fascicoli pendenti. E visto che dei nove posti da sostituto procuratore quattro sono vacanti, ogni magistrato si trova a gestire un carico medio di 3000 fascicoli. “Gli uffici vanno avanti solo per la grande abnegazione del personale - confermano dalla Cgil - ci sono assistenti che fanno il lavoro dei funzionari e non arrivano a prendere 1500 euro al mese. Senza contare quelli che hanno già maturato la pensione e ancora danno una mano ai colleghi”. Il problema, un po’ comune in altre realtà canavesane (a partire dall’Asl), è che alla carenza generale di dipendenti del Ministero, si somma il fatto che nessuno vuole prendere servizio a Ivrea. Problema noto, sia chiaro, perché in dieci anni le interpellanze ai ministri di turno si sono sprecate: tutti hanno promesso, nessuno ha risolto. “Per questo serve uno slancio nuovo da parte del territorio - conclude Gianni Ambrosio della Cgil eporediese - sindaci, sindacati, imprese, politici: facciamo fronte comune e convinciamo il Ministero a cambiare rotta, innanzitutto considerando Ivrea sede disagiata anche per il personale amministrativo. Se da Roma non cambiano le cose qui andiamo incontro ad un disastro”. Trento. Pasticcieri e pizzaioli: detenuti a lezione per cambiare vita Corriere del Trentino, 30 luglio 2022 Il riscatto di una vita con il lavoro e il sogno della libertà e di un nuovo futuro. È questo il significato dei percorsi lavorativi all’interno del carcere di Spini di Gardolo. La giunta provinciale ha approvato l’offerta formativa per la casa circondariale di Trento per il 20220-2023 che quest’anno si arricchisce di nuove proposte. A partire dal corso per pizzaiolo, che affiancherà un percorso di qualificazione professionale in “tecniche di estetica”, rivolto in particolare alle detenute, e di panificazione e pasticceria. Il corso per pizzaioli sarà invece riservato alla sezione maschile. Si tratta di percorsi formativi mirati a un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Il progetto si inserisce in una consolidata offerta forti estiva che privilegia anche gli aspetti culturali e del benessere con l’obiettivo di utilizzare l’attività sportiva quale fattore di protezione sociale e culturale in grado di promuovere stili di vita salutari. È previsto inoltre il potenziamento dell’attività estiva multidisciplinare. Per l’anno scolastico sono previsti anche i consueti corsi di alfabetizzazione e scolastici. Intanto ieri la giunta ha deciso di assegnare un finanziamento integrativo per le Rsa messe a dura prova dalla pandemia da Covid. Il fondo sfiora i dieci milioni di euro (9 milioni e 725.000 euro per l’esattezza). Soldi che consentono alle aziende pubbliche di servizi alla persona e ai gestori privati di chiudere in pareggio i bilanci del 2021. La giunta ieri ha anche dato il via libera al primo progetto previsto dal Pnrr. È stato infatti approvato l’Avviso pubblico 1 per l’attuazione del Programma Gol-Garanzia Occupabilità dei lavoratori. Si tratta del primo bando che permetterà di avviare nel concreto le azioni in tema di politiche attive del lavoro. Le proposte riguardano la formazione digitale, linguistica e imprenditorialità. “Un programma strategico - rimarca l’assessore provinciale allo sviluppo economico, Achille Spinelli - per l’aggiornamento delle competenze delle persone disoccupate nel nostro territorio e il loro reinserimento nel mercato del lavoro”. L’avviso è rivolto agli enti già accreditati per la formazione Fse, compresi raggruppamenti temporanei d’impresa. Sono 3.300 i potenziali beneficiari. Torino. “A 15 anni ho ucciso un prete. Ora spiego ai detenuti che possono avere una seconda possibilità” di Federica Cravero La Repubblica, 30 luglio 2022 Dopo l’omicidio, avvenuto 40 anni fa, Ulisse era finito nel carcere minorile Ferrante Aporti. Ieri ci è tornato per confrontarsi con i ragazzi reclusi: “Mi hanno riempito di domande”. L’ingresso di corso Unione Sovietica è cambiato, il portone non è più lo stesso, questa è la prima cosa che Ulisse nota, “ma il corridoio è rimasto quello di una volta, anche se ben imbiancato, entrarci è stata un’emozione potente”. Sono passati 40 anni da quando quest’uomo ora brizzolato ha varcato per la prima volta a 15 anni la soglia del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, condannato a nove anni e mezzo di reclusione per omicidio. Ora ha 55 anni, fa il grafico, ha dei figli, “ che sono il segno che la vita mi ha perdonato”, e ieri per la prima volta è tornato dietro quelle mura per incontrare ragazzini che stanno vivendo una condizione simile a quella vissuta da lui tanti anni fa. “Si è chiuso un cerchio e adesso se ne apre un altro”, annuncia Ulisse, che ha iniziato a collaborare con l’associazione Acmos e il progetto Anduma per aiutare i giovani detenuti a riscattarsi. “Mi hanno riempito di domande - dice Ulisse - Hanno bisogno di aiuto ma non lo chiedono neanche. Ho visto in loro la consapevolezza di un destino segnato, invece c’è ancora la possibilità di salvarli, ma bisogna darsi da fare ora. Mi hanno chiesto di tornare a trovarli e lo farò, ma occorrono progetti continuativi”. E racconta che “ai miei tempi era stato introdotto dalla giunta Novelli un percorso che rieducasse i ragazzi detenuti. Così anche io sono venuto in contatto con l’arte, la poesia, il teatro... E questo ha cambiato la mia vita”. Con il giornalista della Stampa Marco Accossato ha scritto un libro “Nemmeno mai è per sempre”, i cui proventi saranno impiegati in progetti educativi, ed è in quel momento che ha scelto di chiamarsi Ulisse, per il viaggio travagliato che è stata la sua vita. L’infanzia in provincia, i genitori molto affettuosi ma impegnati a far quadrare i conti e a cui lui non voleva essere di peso, tanto da accettare di andare in collegio a studiare. Del motivo per cui è entrato in carcere parla poco “per rispetto della vittima”. Lascia il racconto a un estratto di giornale con la cronaca della sentenza nei confronti di due ragazzini accusati di aver ucciso un religioso nel collegio “per risolvere i loro problemi interiori”. Ed è iniziata l’esperienza del carcere. “Mi sento ancora uno di loro”, dice Ulisse. Il primo giorno in cella pensi sia la fine di tutto, l’ultimo giorno hai quasi paura di andarsene via e di perdere i punti di riferimento. Di quegli anni ha tenuto delle amicizie straordinarie, con il cappellano don Mecu che ha celebrato il suo matrimonio, con alcuni educatori (e uno è stato anche il suo testimone di nozze), con alcuni agenti della penitenziaria e una volta all’anno fa una cena, per incontrare di nuovo coloro che lo hanno aiutato a sopportare le difficoltà della vita, il rapporto con il paese che aveva ostracizzato la sua famiglia...”. Il libro è stato un modo per fare pace con me stesso - analizza - e ho già iniziato a portarlo anche nelle scuole. In cella ho conosciuto ragazzi che sentivano sparare in casa da bambini e a 13 anni hanno fatto la prima rapina. La società ha delle colpe”. Le attività educative sono un modo “per dare a chi ha sbagliato una seconda possibilità - conclude - Io ce l’ho fatta, ma quasi tutti i miei compagni sono morti... Oggi ai ragazzi insegno che c’è il libero arbitrio e possono scegliere, anche se in certe situazioni, quando nasci in certe famiglie o in certi luoghi è molto, molto difficile”. Ferrara. “Al Parco contadino aiutiamo chi ha bisogno. Ma ci serve una mano” di Don Domenico Bedin Il Resto del Carlino, 30 luglio 2022 Da un anno circa, con persone che provengono dal carcere o da situazioni di emarginazione stiamo lavorando sodo per rilanciare una Impresa Sociale Agricola che si trova a Cona ai Prati di Palmirano detta Pratolungo. Abitiamo in 6 in una casa che era stata negli anni 80-90 una comunità terapeutica pubblica. Io abito con loro e stiamo sistemando i locali abitativi, l’orto e un allevamento di ovaiole. La scelta di accogliere e lavorare con persone che non hanno nessun reddito puntando solo sul nostro lavoro mi ha permesso di intercettare soggetti che non sono sostenuti economicamente dai servizi sociali. Questa scelta non ci ha però permesso di avere un bilancio a pareggio. Infatti abbiamo accumulato circa cinquemila euro di morosità dovute all’affitto, alle utenze e ai lavori urgenti che sono stati necessari per rendere un minimo abitabile la casa centrale. Inoltre abbiamo accolto gratuitamente un nucleo di ucraini di 5 persone che ora sono passate in un’altra struttura. Attualmente abbiamo in affitto dal Comune un terreno di circa sei ettari, ma l’intera proprietà comprende altri 20 ettari di prati e boschi. Il nostro sogno si è trasformato in un progetto di custodia di questa straordinaria realtà per metterla a disposizione di tutti i ferraresi e lo abbiamo presentato al Sindaco. Non avendo avuto risposte certe dal Comune fino a qualche giorno fa avevamo deciso a malincuore di chiudere tutto e andarcene, ma poi, il Vicesindaco ci ha incoraggiati e rassicurati. Abbiamo anche già avuto buoni risultati perché un ex detenuto ha trovato lavoro in un’altra città e un alcolista da mesi ha smesso di bere, altri due carcerati stanno facendo tirocini formativi e una persona che viveva per strada ora verrà assunto come invalido presso una struttura sanitaria. Stiamo aspettando altri ospiti dal carcere con misure alternative e una famiglia con 4 bimbi che si trova temporaneamente per strada. Nel frattempo abbiamo curato tutta l’area verde e monitorato, documentandola con fotografie, una famiglia di caprioli che da alcuni anni si è insediata nel bosco… anche quest’anno sono nati almeno due cuccioli. Pensiamo dunque di andare avanti. Ma, come vi ho detto, abbiamo urgente necessità di aiuto economico. Mi rivolgo a chiunque è interessato a questo progetto che tiene insieme la solidarietà sociale ed ambientale. Per aiutarci: Parco contadino Pratolungo Srl, via Palmirano 92, Cona Ferrara. Iban IT09S0538713003000002961618. Ancona. Dall’orto del carcere di Montacuto un altro quintale di cibo per le famiglie in difficoltà anconatoday.it, 30 luglio 2022 Giusto la settimana scorsa erano stati consegnati, per la successiva distribuzione, 80 chili di ortaggi alle Patronesse del Salesi. Pomodori e melanzane in quantità. Un quintale portato questa mattina al Mercato Dorico direttamente dall’orto del carcere di Barcaglione per dare una mano alle famiglie anconetane in difficoltà, segnalate dall’ufficio Politiche Sociali del Comune di Ancona. Solidarietà che si origina dal lavoro dei detenuti che, seguiti dal tutor dell’orto Antonio Carletti, presidente di Coldiretti Federpensionati Ancona, e di Sandro Marozzi, l’agronomo della struttura, imparano un lavoro e si preparano al reinserimento sociale rendendosi utili per la comunità. Giusto la settimana scorsa erano stati consegnati, per la successiva distribuzione, 80 chili di ortaggi alle Patronesse del Salesi. Il carcere di Barcaglione in questo è un esempio a livello nazionale. Sono circa 60 i detenuti che si occupano, in forma volontaria, dell’orto sociale. Il primo passo verso l’azienda agricola vera e propria dove si producono olio extravergine di oliva dall’oliveto, miele dalle arnie e, ultimamente, anche formaggi e latte con un gregge di 20 pecore e il caseificio interno. “Matteo va alla guerra”, la mafia vista dalla parte della mafia di Lucio Luca La Repubblica, 30 luglio 2022 L’interessante libro di Giacomo Di Girolamo, giornalista trapanese, che racconta la stagione delle stragi da un’altra prospettiva: quella dei boss. A partire dall’imprendibile Messina Denaro. E’ tutta una questione di prospettiva. Nella vita, negli incontri, negli amori, nella morte. E anche nella mafia. La storia stessa è una questione di prospettiva. La puoi interpretare dalla parte dei vincitori o da quella dei perdenti, da quella dei buoni o da quella dei cattivi. Resta comunque una questione di prospettiva: ti siedi da una parte e hai una certa visione, ti siedi dall’altra e la realtà sembra cambiare totalmente. Non deve essere stato semplice per Giacomo Di Girolamo, bravo e coraggioso giornalista trapanese da sempre impegnato sul fronte giusto - o meglio, dalla parte giusta della prospettiva - accomodarsi per una volta là dove stanno i nemici della sua terra, i mafiosi stragisti, l’inafferrabile Matteo Messina Denaro, capo incontrastato della mafia trapanese, l’ultimo grande latitante sfuggito alle mani dello Stato. “Matteo va alla guerra”, il libro di Giacomo Di Girolamo che racconta la mafia e le stragi del ‘92 a partire dall’inizio (Zolfo Editore, 282 pagine, 18 euro) è un’operazione complessa ma sicuramente riuscita. L’autore fa raccontare l’intera vicenda, con tanti particolari rimasti ancora nell’ombra, a una voce narrante che altri non è che un fedelissimo del boss. E noi che l’attacco al cuore dello Stato di trent’anni fa, culminato con le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’abbiamo sempre visto dall’altra parte della barricata, ci troviamo improvvisamente catapultati tra capibastone e gregari, killer e favoreggiatori, mammasantissima e colletti bianchi. Non dev’essere stato semplice mettersi nei panni dei cattivi. E raccontare di quella che fu una vera e propria guerra allo Stato, ideata con il contributo di una mafia segreta e intoccabile. Non solo, attraverso il racconto dal “di dentro” scopriamo che la strategia stragista di Cosa nostra servì al giovane boss Matteo Messina Denaro, figlio prediletto di don Ciccio, il capomafia storico di Trapani, per attuare un ricambio generazionale e prendere il comando dell’organizzazione. Con Matteo ‘u siccu o Diabolik o L’invisibile com’è stato più volte soprannominato, Messina Denaro jr. fece compiere un salto di qualità a Cosa nostra, trasformandola in maniera profonda con conseguenze che riusciamo a capire solo oggi. “Matteo va alla guerra” non è la biografia di Totò Riina o Messina Denaro, né un libro di storia, non si parla di depistaggi, di accordi indicibili. Di Girolamo piuttosto individua un preciso momento storico, i primi anni Novanta, un preciso luogo, la Sicilia occidentale, e lì scava in profondità per capire e raccontare - per la prima volta - il punto cieco in cui nasce una delle pagine più nere della nostra storia recente. “Penso che si scrive “con gli occhi” - spiega Di Girolamo - bisogna far vedere le cose. E per farlo ho deciso di ribaltare il punto di vista: facciamo parlare il male. Mettiamoci dalla parte del torto. La scrittura è anche questo: immergersi nei corpi e nelle contraddizioni dell’altro, anche nelle zone d’ombra. Aiuta molto a capire, a comprendere. Ovviamente, comprendere non significa giustificare”. Matteo va alla guerra non si sottrae alla domanda che da trent’anni continuiamo a farci senza risposte. O meglio, senza risposte giudiziarie. E’ proprio il narratore mafioso del libro che, di fatto, ci risponde: “Abbiamo fatto tutto da soli? La risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai…”. Qualcuno - è la tesi dell’autore - ha armato Cosa nostra, l’ha quasi spinta a fare una guerra eliminando personaggi scomodi sia per la mafia che per lo Stato. Falcone e Borsellino, dunque, ma anche poliziotti, giornalisti, uomini delle istituzioni. Un piano concordato, insomma, quasi una “trattativa”, se non fosse che un processo ha recentemente stabilito che quella trattativa non c’è mai stata. Verità giudiziarie, appunto, verità da rispettare anche tenendosi i propri legittimi dubbi. “My Brothers Dream Awake”, la storia dei 10 ragazzi morti in un carcere minorile del Cile giffonifilmfestival.it, 30 luglio 2022 Ultimo giorno di film in concorso per la sezione Generator +16 impegnata a vedere il lungometraggio drammatico “My brother dream awake”, diretto dalla regista cilena Claudia Huaiquimilla. Ispirato a fatti realmente accaduti in un carcere minorile nel 2007, questa storia vuole portare alla luce ciò che molti ragazzi incarcerati per varie tipologie di crimini, sono costretti a subire all’interno delle carceri in Cile. Abusi sessuali, ripercussioni psicologiche, somministrazione forzata di droghe per tenerli a bada, sono alcuni dei soprusi e delle violenze, che sono costretti a subire quotidianamente, in attesa di tornare liberi con la speranza di dimenticare ciò che hanno subìto in carcere. I protagonisti di questa storia avvenuta ormai 15 anni fa, sono Ángel e suo fratello minore Franco, arrestati e portati in un carcere minorile per scontare un anno di detenzione. I ragazzi si troveranno a relazionarsi con altri detenuti trattati come gli adulti da poliziotti, senza scrupoli. Condividendo la stessa sorte e ambienti, Franco e suo fratello riescono a stringere diversi rapporti di amicizia, portandoli a parlare dei propri sogni e di ciò che faranno, quando usciranno dalla prigione. L’arrivo di un altro ragazzo, dal carattere particolarmente irrequieto, cambierà l’atteggiamento di tutti gli altri, portandoli a pensare per la prima volta a una possibile via di fuga. Nel momento in cui, decidono di attuare il piano di evasione, appiccando un incendio all’interno della struttura, qualcosa va storto. A perdere la vita saranno ben 10 ragazzi. La presenza in sala della regista è stata incisiva nelle reazioni dei giffoner, particolarmente entusiasti di questo film. Ad aver portato la Huaiquimilla a voler trattare in un film, un tema così sentito in Cile è da intendersi come un atto di denuncia nel confronto delle vittime. “Quando è avvenuta la tragedia sono state tolte le foto delle vittime in Cile, perché quando i 10 ragazzi sono morti, sono stati considerati come dei criminali che hanno perso la vita e non come dei giovani che hanno smesso di vivere e sognare. Ricordiamo, che tra le vittime ci sono due ragazzi di 14 e 16 anni. La legge in Cile non tutela in alcun modo i detenuti, compresi quelli delle carceri minorili. Ma ultimamente qualcosa sembra stia cambiando nel sistema giuridico cileno”. La regista ha anche aggiunto: “In Cile non si parla di questa tematica. Sembra che sia tutto bellissimo, ma non è così. Esistono queste realtà e volevo enfatizzare la dignità e la resilienza di queste persone. Per questo motivo parlo di queste persone nei miei film”. I diritti dimenticati: le associazioni dettano la loro agenda alla politica di Federica Graziani Il Riformista, 30 luglio 2022 Dallo ius scholae al salario minimo: le riforme dimenticate dal Parlamento. Le realtà che animo il dibattito pubblico su questi temi hanno discusso su come far pressione durante la prossima legislatura. “Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?” La supercazzola del conte Mascetti al vigile che sta lì lì per spiccare una multa in “Amici miei”, com’è noto, si adatta a diverse situazioni in cui si voglia stordire il proprio interlocutore, che sia l’amante tradita, il prete al capezzale, l’usciere d’albergo che non permette l’ingresso. È uno strumento malleabile e sempre valido, che ben si è adattato anche alle risposte che il Parlamento ha riservato alle vicende dei diritti nella legislatura che si appresta a concludersi. Il bilancio con cui si chiude è una disfatta assoluta. Non c’è stato alcun passo in avanti su cannabis, matrimonio egualitario, ius scholae, eutanasia, immigrazione, ambiente, salario minimo, partite Iva. Eppure le associazioni protagoniste della mobilitazione popolare intorno a questi temi si contano a decine. Meglio Legale, Associazione Luca Coscioni, Open Arms Italia, Italiani senza cittadinanza, Circolo Mario Mieli, A Buon Diritto, Gaynet Italia, Libera di abortire sono le prime che vengono in mente. Dietro ciascuna di queste sigle, per chi abbia seguito anche da lontano il corso della politica più recente, spunta fuori un’istanza, dietro ogni istanza un segmento sociale, dietro ogni segmento sociale un diritto rivendicato. Saranno in fondo questioni di piccolo conto, quelle trattate, o forse non aggregano poi chissà quanta parte della società o, ancora, queste organizzazioni non avranno ottenuto i consensi sperati? Insomma, non sarà che hanno fallito? Al contrario. I referendum proposti sui diritti hanno sempre raggiunto in pochi giorni i numeri necessari, e in pochi altri li hanno raddoppiati, le leggi di iniziativa popolare hanno sempre coinvolto centinaia di sostenitori, gli appelli hanno sempre raccolto firme su firme e le manifestazioni di piazza hanno sempre registrato un alto numero di partecipanti. E allora? Allora “Antani, come se fosse antani, anche per il direttore, la supercazzola con scappellamento”. Oppure, variazione sul tema: “L’attenzione alle proposte di legge di iniziativa popolare sarà massima, perché sono convinto si tratti di strumenti particolarmente utili per tenere saldo il rapporto fra cittadini e istituzioni” (dichiarazione rilasciata da Roberto Fico, Presidente della Camera dei Deputati, all’inizio dell’ancora attuale legislatura). Ma tutte le proposte firmate dai cittadini sono fallite, anzi, nessuna legge di iniziativa popolare è neanche arrivata alla discussione in aula. Che fare? Quelle decine di organizzazioni hanno convocato un’assemblea pubblica, giovedì 28 luglio al Monk di Roma. È solo il primo appuntamento di una serie dal titolo di ostinata e deliberata ingenuità: “Che fine fanno i diritti?”. Dopo cinque anni di dialoghi con le istituzioni quelle organizzazioni, e i loro sostenitori, si ritrovano al punto di partenza. L’assemblea convocata, come si legge sull’invito a parteciparvi diramato da Meglio Legale, vuol essere allora l’occasione per discutere insieme sugli strumenti utili perché “la prossima legislatura esca dal solco di questo intollerabile stallo”. E quegli strumenti sono almeno tre. L’obbligo di discussione delle leggi di iniziativa popolare perché non si ripeta l’eterno rimandarne la calendarizzazione, l’introduzione della firma digitale per incentivare la partecipazione popolare al processo democratico e l’adozione del referendum propositivo al fianco di quello abrogativo. Tre strumenti che uniscono associazioni, cittadini e militanti che si occupano di temi diversi ma che cercano congiuntamente di allargare le possibilità di incidere sulle decisioni politiche anche dall’esterno del Parlamento. Con lo scenario che si prospetta per le prossime elezioni, non occorre lambiccarsi in raffinate analisi sondaggistiche per concordare che forse l’unico modo di non cedere terreno alla supercazzola epocale è quello di irrobustire le fila di questo primo incontro, e di quelli che seguiranno. La realtà confusa con la fiction e la banalità dell’indifferenza di Michela Marzano La Stampa, 30 luglio 2022 Quei testimoni con lo smartphone ci interrogano: che mondo vogliamo per i nostri figli? Pare che alcuni passanti abbiano filmato tutta la scena: un uomo, furioso per gli apprezzamenti rivolti da un ambulante di origini nigeriane alla compagna mentre i due si trovavano in corso Umberto, a Civitanova Marche, avrebbe iniziato a litigare con il nigeriano colpendolo più volte alla testa con una stampella e uccidendolo. Pare che questi video, assieme a quelli dei sistemi di sicurezza, siano già stati acquisiti dalla polizia che, nel frattempo, ha fermato il presunto assassino. L’inchiesta seguirà il suo corso, e non è mia intenzione commentare la violenza del gesto, la futilità del motivo, il contenuto dei commenti dell’ambulante o l’aggressività dell’italiano. Lo si potrà fare più tardi, quando tutti gli elementi dell’accaduto saranno stati messi in fila con ordine. Ciò su cui, invece, vorrei interrogarmi sin da ora, è la reazione (o assenza di reazione) dei testimoni dell’accaduto. Persone che, a quanto pare, conoscevano l’ambulante - che frequentava da tempo corso Umberto - e che, di fronte all’uomo che lo stava picchiando a morte, hanno tirato fuori dalla tasca (o dalla borsa) il cellulare e hanno filmato la scena. Perché nessuno di loro è intervenuto? Perché il primo impulso è stato quello di filmare l’aggressione invece che bloccare l’assassino? Cosa avrei fatto io se mi fossi trovata a Civitanova Marche? Sarei intervenuta? Avrei urlato? Avrei chiamato aiuto oppure anch’io mi sarei limitata ad accendere la videocamera del mio smartphone? Che cosa scatta quando si assiste ad atti di violenza estrema? Si prova pena oppure si resta indifferenti? Alcuni anni fa, in Svezia, venne fatta una sorta di esperimento sociale. Con una telecamera nascosta, un gruppo di operatori di un’associazione impegnata sui temi della violenza contro le donne ha osservato le reazioni di 53 persone che, in ascensore, assistevano al litigio furioso di una giovane coppia. Mentre lui urlava, prendeva per il collo la compagna e la scuoteva violentemente, lei subiva silenziosamente, incapace anche solo di chiedere aiuto. Ovviamente si trattava di due attori, ma nessuno degli spettatori lo sapeva e quindi, almeno in teoria, sarebbe potuto intervenire e avrebbe potuto dire (o fare) qualcosa per aiutare la giovane donna. Invece che cosa successe? Niente. Assolutamente nulla. A parte una donna che alzò la voce minacciando di chiamare la polizia, gli altri 52 passeggeri restarono silenziosi: alcuni, imbarazzati, iniziarono a fissare lo schermo del proprio cellulare; altri, nervosi, uscirono dall’ascensore il prima possibile; altri ancora, indifferenti, filmarono la scena. Proprio come ieri a Civitanova Marche. Sebbene poi, ieri, la lite si sia conclusa con la tragica morte di una persona. Qualcuno, commentando l’esperimento sociale svedese, obiettò che spesso non si interviene per paura o mancanza di coraggio e che talvolta, intervenendo, non solo non si evitano le tragedie, ma si rischia pure di peggiorare le cose. Nel caso della lite di coppia, però, non solo praticamente nessuno intervenne, ma nessuno dette nemmeno l’allarme una volta uscito dall’ascensore. Occhio non vede, cuore non duole, recita un noto proverbio. Forse anche perché l’indifferenza, il cuore, ce l’ha indurito da tempo. Con l’aggravante supplementare, ormai, che si è talmente abituati alle immagini di violenza che, forse, si fa pure fatica a distinguere la realtà dalla fiction. Il male, diceva Hannah Arendt, è talvolta banale. Non di per sé, certo. Ma perché lo si commette banalmente. Talvolta per opportunità. Talvolta per negligenza. Talvolta anche solo per assenza di compassione. E se è vero che il coraggio non lo si compra un tanto al chilo, è anche vero che il fatto che tanta gente possa assistere a un omicidio con un cellulare in mano non può lasciare nessuno del tutto indifferente: in che tipo di mondo vogliamo che crescano i nostri figli? Il “Climate social camp” riempie la piazza di Torino di Mauro Ravarino Il Manifesto, 30 luglio 2022 Il meeting dei Fridays for future chiude con un corteo aperto dai giovani del sud del mondo. Cantano canzoni dalle origini lontane, ma che ancora interpretano il senso della lotta. Anche quella del XXI secolo, per il clima e per il pianeta. E, così, succede che in un corteo Bella Ciao, ormai più che internazionale, si mescoli facilmente a El pueblo unido jamás será vencido. Nessun afflato nostalgico, sono ragazzi e ragazze da ogni dove e guardano al futuro. A un futuro prossimo, perché non c’è più tempo da perdere. E scendono in piazza. Ieri, si sono conclusi il Climate Social Camp e il meeting europeo di Fridays for future con un grande e colorato corteo, dal parco Colletta al centro storico di Torino. Ad aprire la marcia, gli attivisti del Sud globale, dei Paesi cosiddetti Mapa (Most affected people and areas), quelli che più subiscono le conseguenze del cambiamento climatico nonostante il maggior responsabile sia il Nord del mondo. Giovani dall’Asia e dall’America Latina, con i cartelli in solidarietà alle comunità indigene e un invito a non dimenticarsi dell’Afghanistan. Quella di dare visibilità ai Paesi più in sofferenza, nonostante fosse soprattutto un meeting europeo, è stata una scelta di campo precisa: decolonizzare la visione, la proposta e, pure, il movimento. Con l’idea che la giustizia climatica debba incorporare un profondo senso di giustizia sociale. In oltre mille, dietro allo striscione “Join the fight time is now” (unisciti alla lotta adesso), i giovani di Fridays hanno percorso le strade di Torino, che per una settimana è stata la capitale degli ecologisti, provenienti da 45 diversi Paesi. Bandiere verdi con lo stemma dei Fridays, ma anche No Tav, No Muos, contro Stuttgart 21 (il costoso progetto di riconversione della stazione ferroviaria di Stoccarda), quelle della pace e dell’Ucraina, i colori di Non una di meno e di Legambiente, lo striscione di Torino Respira “per una città libera dallo smog”. E tanti altri. Slogan contro l’Eni e le multinazionali. Strumenti improvvisati e cartelli di materiale riciclato: “Stop terra dei fuochi”, “Sbloccate le rinnovabili”, “Fossil kills”. Anche un messaggio ai politici: “Voteremo solo per giustizia climatica e sociale”. In piazza, Eleonora Evi dei Verdi, Nicola Fratoianni e Marco Grimaldi di Sinistra italiana: “Il nostro mondo è in fiamme, non lo sappiamo da ieri”, ha sottolineato il segretario nazionale di Si. Attraversando Vanchiglia, i ragazzi gridano “another world is possible, we are unstoppable”, per avvertire che la loro protesta continuerà a lungo. Il 23 settembre ci sarà un nuovo sciopero globale per il clima. In questi cinque giorni intensi si sono confrontati tra di loro e con altre realtà, a partire dal mondo del lavoro con cui il dialogo è stretto. Mercoledì il movimento ha, inoltre, messo a punto azioni in città, “sanzionando” alcune aziende considerate responsabili della situazione in cui ci troviamo (Snam, Microtecnica, Intesa Sanpaolo). Greta Thunberg non è potuta venire ma ha parlato da remoto. Il movimento, avviato da questa ragazza svedese in grado di scioperare ogni venerdì per il clima, è cresciuto e cammina con le proprie gambe. Insieme ai temi più globali sono stati affrontati anche quelli locali. Per Luca Sardo, uno degli organizzatori e attivista torinese di Fridays For Future, “il comune di Torino deve essere più incisivo sulle politiche per il clima e disincentivare il trasporto in auto, dando un’alternativa. Poi tutelare le aree aree verdi, evitando le cementificazioni”. La lotta ecologista si trasferisce per il weekend in Valsusa per la sesta edizione del festival dell’Alta felicità a Venaus: un’esperienza di comunità tra natura, musica, sport, dibattiti, cibo e incontri all’insegna dell’ecosostenibilitá. Africa Unite, Max Casacci, Bandakadabra, Zerocalcare e Moni Ovadia tra gli ospiti. Due novità: l’unione con il Climate Social Camp (uniti dalla difesa dell’ambiente) e la passeggiata del 30 luglio al “fortino” di San Didero. “Una distesa di centinaia di metri fatta di jersey di cemento armato, ferro e filo spinato” a difesa del cantiere del contestato nuovo autoporto valsusino, opera connessa alla Torino-Lione: “Al contrario di quello che si pensa, non esiste alcun cantiere, ma solo una recinzione vuota, presidiata giornalmente da decine di forze dell’ordine che fanno la guardia al nulla”. I migranti e la guerra ibrida: a chi giovano gli sbarchi di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 30 luglio 2022 Il concetto di “guerra ibrida” ha molti padri, a cominciare da Sun Tzu, secondo cui il massimo dell’acume bellico è “sottomettere il nemico senza combattere”. La chiamano “Strategia del caos” e l’Italia è al suo centro, dai nuovi migranti spinti a lasciare le coste libiche della Cirenaica, fino alle elezioni del 25 settembre, che potrebbero essere condizionate anche da questi arrivi. E’ l’evoluzione della “Guerra ibrida” russa, diventata assai più ambiziosa dopo l’intervento in Siria, che unisce gli strumenti bellici tradizionali a quelli più asimmetrici per destabilizzare l’Occidente e l’ordine basato sulle regole condivise. Ormai è così evidente, che chi non la riconosce può solo esserne complice. Il concetto di “guerra ibrida” ha molti padri, a cominciare da Sun Tzu, secondo cui il massimo dell’acume bellico è “sottomettere il nemico senza combattere”. In tempi più moderni, l’ex Marine Frank Hoffman l’aveva codificata per analizzare il caos in Iraq e Afghanistan, ma a farne un elemento strutturale della strategia russa era stato il generale Valery Gerasimov, con il suo ormai famosissimo articolo pubblicato nel febbraio del 2013 sul Military Industrial Kurier. Si basava sull’idea che le potenze militari più avanzate dell’Occidente possono permettersi la guerra tradizionale, mentre quelle più limitate come Mosca devono affidarsi a soluzioni innovative e non lineari, dalla disinformazione alle tattiche digitali, dagli interventi ridotti alla corruzione delle società e dei politici avversari. Da allora in poi quella è diventata la “Dottrina Gerasimov”, capo delle forze armate di Putin, e l’anno dopo gli “omini verdi” manovrati dal Cremlino sono entrati in Crimea. Gli studi accademici su questa strategia abbondano, e il Center for European Policy Analysis l’ha aggiornata sulla base dell’intervento in Siria, che davanti all’assenza di una forte risposta occidentale ha incoraggiato la Russia a diventare ancora più sfrontata nella sua realizzazione, allargandola all’idea del caos generalizzato. Tanto chi non è più una superpotenza dominante, come appunto Mosca, non ha nulla da perdere. E quindi tanto vale accelerare su tutti i fronti possibili. L’Ucraina non va confusa come un’eccezione, perché anzi l’incapacità di Putin di rovesciare Zelensky, e ora lo stallo sostanziale dei suoi progressi nel Donbass, confermano che il Cremlino non ha la forza di sfidare la Nato in campo aperto. Perciò punta a destabilizzare Kiev per impedire la sua integrazione nell’Occidente, anche con tattiche come la “filtration operation” denunciata dall’ambasciatore americano all’Osce Mike Carpenter, in sostanza una pulizia etnica del paese a base di torture e deportazioni. Così si spiegano pure il disperato uso dell’energia e del cibo come armi, le scellerate minacce di impiegare l’arsenale atomico, e ovviamente i tentativi di incrinare l’unità degli avversari. Qui entra in scena l’Italia, per natura considerata un “anello debole”, e quindi obiettivo perfetto della “strategia del caos”. L’anomalia Draghi ha creato enormi problemi, dalla fermezza con cui ha sostenuto l’Ucraina e l’unità europea, all’impegno per il “reverse flow” del gas, cioè fare del nostro paese l’hub energetico capace di portare in Europa le risorse del Sud, soppiantando quelle russe. Una minaccia mortale, per gli interessi di Putin e la strategia del ricatto. Non a caso Mosca ha celebrato la sua caduta, confermando tutti i sospetti sul proprio coinvolgimento. Ora, dopo il blocco del grano che serviva proprio ad alimentare flussi migratori destabilizzanti dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa, viene anche l’accelerazione delle partenze dei profughi dalla Cirenaica, che guarda caso coincide con la regione dove operano i mercenari russi di Wagner in Libia, focolaio di un caos creato da altri, ma adesso sfruttato dal Cremlino a suo favore. Considerando l’enfasi che Salvini ha sempre messo su questo tema, e l’impatto emotivo che un’ondata di sbarchi alla vigilia del voto avrebbe a favore della sua campagna, non è difficile intuire chi si gioverebbe alle urne del nuovo fronte caos. Il conflitto dimenticato dai partiti che guardano alle elezioni di Francesco Verderami Corriere della Sera, 30 luglio 2022 Il governo prepara un nuovo invio di armi per settembre. Letta teme di perdere i voti dei pacifisti. E per il Cavaliere la guerra danneggia le aziende. La guerra continua a Kiev. La guerra è dimenticata a Roma. Oggi l’unica campagna che (quasi) tutti i partiti italiani riconoscono, è quella elettorale. Mentre il conflitto in Ucraina è tenuto fuori dal dibattito. Non per disinteresse ma per non provocare effetti negativi nell’opinione pubblica quando si andrà al voto. È vero, i leader parlano di Putin e dell’ingerenza russa nelle dinamiche politiche nazionali. Ma (quasi) nessuno parla della guerra dal punto di vista militare o per le conseguenze economiche e sociali che produrrà nel Paese. E (quasi) tutti glissano davanti alla domanda che pure interessa i cittadini: cosa farà il prossimo governo quando - dinnanzi al perdurare delle operazioni - dovrà scegliere tra la pace i termosifoni? La quarta fornitura di armi all’Ucraina è passata sotto silenzio, sebbene proprio la polemica di Conte su questo decreto abbia fatto da innesco alla crisi delle larghe intese. Eppure il ministro della Difesa Guerini è andato pochi giorni fa al Copasir per riferire che “la guerra di attrito è destinata a durare”, che “l’esito del conflitto dipenderà dall’aiuto che saprà fornire l’Occidente” a Kiev. E che pertanto “il governo si prepara a un’altra spedizione di materiale” per settembre, quando in Italia si staranno allestendo le urne. D’altronde la resistenza ucraina non può attendere lo spoglio delle schede. Il “quinto decreto” è già vissuto come un problema dalle coalizioni, attraversate da forti contraddizioni interne. C’è un motivo se Letta - tra i tanti temi toccati durante la direzione del Pd - si è limitato solo a ricordare che “inoltre c’è un conflitto”. Nonostante il 24 febbraio si sia schierato “senza se e senza ma” a fianco di Kiev - cambiando la linea del suo partito - il leader dem è preoccupato che l’eco della guerra possa avere un impatto sull’elettorato di sinistra e pacifista che va dalla comunità di Sant’Egidio fino a Leu. E siccome anche quei voti gli servono, omette l’argomento, lo sfuma, lo lascia appena sullo sfondo. Mentre Guerini a ogni assemblea di partito rammenta come il conflitto sia “entrato nella politica italiana e continuerà a essere presente”. Perché l’operazione verità serve, a sinistra come a destra. Dove la Meloni - in vista della prima riunione per redigere il programma dell’alleanza - ha dato disposizione ai suoi legati che nel documento “su tre punti non si potrà derogare”: nessuna concessione a favole propagandistiche, linea di sostanziale continuità con il governo Draghi sulla politica energetica e pieno appoggio a Kiev. Per chi sta puntando a palazzo Chigi, questi capisaldi sono necessari all’avvio del dialogo (e dell’accreditamento) con i partner internazionali. Ma un conto è il modo in cui mise subito a tacere i mal di pancia nel partito, quando prese posizione sulla guerra, altra cosa per la Meloni sarà gestire gli alleati. Da un lato c’è l’approccio “pacifista” di Salvini, la cui svolta non si sa se è avvenuta nelle tante cene con l’ambasciatore russo. Dall’altro ci sono i convincimenti economici del Cavaliere, secondo il quale la prosecuzione del conflitto provocherebbe “gravi problemi alle aziende italiane”. Berlusconi è così tetragono sull’argomento che tempo addietro, durante il rituale pranzo di Arcore, discusse animatamente di pace e condizionatori con la figlia Marina, convinta sostenitrice della linea atlantica. Se la guerra di Kiev è stata dimenticata, è perché a Roma è in atto la guerra dei seggi, che si concentrerà al Senato. Lì dove il Pd cercherà il pareggio per dichiarar vittoria. Perciò il Nazareno sta accumulando alleati. Perciò gli avversari - sicuri ormai dell’accordo tra Calenda e i dem - accusano Letta di aver “costruito non un cartello elettorale ma un carrello elettorale”. La missione del centrodestra sarà superare il 40% nel proporzionale e conquistare 50 collegi su 74 all’uninominale, così da arrivare a una maggioranza di 104 senatori. Oppure subirà lo smacco. L’Ucraina è distante per i partiti. Un po’ come Draghi, che nei giorni in cui decise di lasciare, confidò: “Mi spiace farlo proprio ora che la guerra a Kiev sta per prendere una piega diversa”. Nel Pd ci fu chi lo prese per matto. Ora gli ucraini stanno organizzando la controffensiva a Kherson. Ma siccome non è un collegio elettorale, interessa poco. In Finlandia i senzatetto stanno sparendo: come? Più case per tutti di Riccardo Staglianò La Repubblica, 30 luglio 2022 In pochi anni il Paese ha quasi dimezzato il numero degli homeless. Come? Non abolendo la povertà, ma partendo da un principio ispiratore che si chiama housing first: mettere un tetto sulla testa di chi non ce l’ha. Reportage. Sul letto singolo in ferro bianco c’è un piumino rosa con tre cuscini fucsia e un grande orso di pelouche, sempre nel colore più schifato dalle femministe, con un cuore rosso cucito sulla zampa. Sotto la tv puttini in ceramica; sopra, una cornice multipla per foto con al centro la scritta Love. Se non fosse per la testa di Bob Marley stampata su un manifesto di stoffa, nessuno potrebbe dubitare che si trattasse della cameretta di una decenne in fiore. E invece ci vive Tuja, cinquantadue anni precocemente appassiti grazie a una potente marinata di droghe e alcol. Con un figlio che occasionalmente la viene a trovare, due figlie di cui preferisce non parlare e il dolore di un paio di cari amici morti di recente. Scalza, con una vezzosa cavigliera, chiacchiera al tavolino con un’ospite. Dopo anni a dormire per strada e un passaggio in una struttura più tradizionale, ha finalmente vinto l’equivalente della lotteria essendo stata ammessa qui, nella tranquilla via Alppikatu, assieme a un’ottantina di altri ospiti. In una delle comunità assistite che, sfidando la candidatura al Premio Lapalisse, han deciso che per risolvere il problema dei senzatetto non ci fosse niente di meglio che mettergliene uno sulla testa. Compiendo così una rivoluzione silenziosa (i beneficiati sono categoria senza ufficio stampa) che confina col miracoloso: mentre in tutta Europa gli homeless aumentano, in Finlandia sono calati di quasi metà. Com’è stato possibile? La risposta breve è: volendolo fortemente. Tutti insieme: comune, governo, chiesa. E poi facendolo, secondo un approccio sperimentale già visto all’opera per il reddito di base, testato per due anni, verificato e non ripetuto perché il benessere dei partecipanti era aumentato ma non le immissioni nel mercato del lavoro. Questo non è un Paese per guerre di religione: c’è un problema, si cerca una soluzione, se non funziona se ne cerca un’altra. Per chi suona il campanello - Juha Kaakinen, appena andato in pensione da presidente della Y-Foundation che ha finanziato l’imponente sforzo immobiliare, è quanto di più vicino al papà dell’Housing First finlandese, che si ispira agli insegnamenti teorizzati nella New York degli anni 90 dallo psicologo Sam Tsemberis: “Quello alla casa è un diritto umano”, “separazione di accoglienza e trattamento”, “riduzione del danno”. Principi messi in pratica anche qui, ma con un di più scandinavo: “In verità ci siamo arrivati per conto nostro e rispetto a loro puntiamo di più su sistemazioni permanenti. Perché per sentirsi davvero a casa, un essere umano ha bisogno di un nome su un campanello”, dice Kaakinen riassumendo una presentazione a slide battenti di Marko Lahtela, il giovane gestore della struttura gestita dall’Esercito della salvezza. Dati salienti: 81 appartamenti (monolocali da una ventina di metri quadrati) per 85 residenti. Ognuno con un contratto d’affitto sui 500 euro al mese (pari a circa 250 nostri, considerato l’incommensurabile potere d’acquisto) che, in otto casi su dieci, viene integralmente pagato da sussidi statali: “Dalle loro tasche, quando sono in condizione di farlo, esce al massimo un centinaio di euro che possono guadagnare prendendo parte a piccole attività quotidiane”, tipo pulire le aree comuni, per un massimo di otto euro al giorno. Colazione e pranzo inclusi, per cena ognuno provvede da sé, cucinando in stanza o nei locali condivisi. Alcol e droghe - La frase più memorabile pronunciata da Lahtela è: “L’abuso di sostanze da parte dei nostri ospiti deve essere rispettata” perché l’accesso alla casa è “incondizionato”, non un premio per chi si comporta bene. Tuttavia tra le venti persone dello staff ci sono anche assistenti sociali e siamo “felici di sostenere il tentativo di un ritorno a una vita sobria, se questo è ciò che desiderano”. Ma senza insistere. Possono continuare a bere e drogarsi, a patto che non disturbino le vite degli altri (tra i problemi di convivenza più frequenti: musica alta, visitatori esterni che ogni tanto fanno casino e questo spiega gli scudi di plexiglass davanti ai televisori e i lucchetti ai computer negli spazi condivisi). Resta però che questo approccio ultra-permissivo, praticamente l’anti-San Patrignano, almeno un problema l’ha risolto se nel 1987 in Finlandia gli homeless erano 18 mila e nel 2021 se ne contavano 3.950 (che significa un calo del 78 per cento, che si riduce al 40 se si calcola dal 2008 quando il programma è ufficialmente partito). Considerato che a San Francisco, dove il problema è andato così fuori controllo da aver fatto dichiarare lo stato di emergenza, ogni tenda di una tendopoli comunale costa sui 60 mila dollari all’anno per manutenzione e pulizia - e resta comunque la più precaria delle sistemazioni - vale la pena prestare molta attenzione all’eterodossia finnica. Come ha fatto la Colorado Coalition for the Homeless quantificando in oltre 15 mila dollari il risparmio annuale in termini di servizi sociali, giudiziari e di emergenze sanitarie che un senza domicilio, per il fatto stesso di rimanere in strada, finisce per consumare. Una cifra che essenzialmente coincide con quella risparmiata a testa in un esperimento nella finlandese Tampere. Clamoroso: essere buoni conviene! Kaakinen, uomo di rara gentilezza, mi riassume una lunga carriera nei servizi sociali cittadini a cena all’Alexanderplats (gioco di parole con la più famosa piazza berlinese) con vista sulla centralissima Esplanadi: “La nostra fondazione è nata nel 1985 per comprare, sul mercato privato, case da destinare agli homeless. Poi abbiamo cominciato anche a costruire edilizia sociale. Nel 2013, quando ho cominciato a dirigerla, avevamo 6.300 appartamenti, oggi 18.300. Siamo il quarto proprietario immobiliare del Paese, con un patrimonio di oltre 1.3 miliardi di euro di case”. E chi glieli ha dati questi soldi? “Una buona parte iniziale è venuta dalle imposte sul gioco d’azzardo. Un’altra grossa fetta da mutui quarantennali, a interessi molto bassi, che gli ospiti dovrebbero ripagare con i loro canoni”. Ovviamente è possibile perché in questo Paese pagare le tasse è un vanto civico (“Ho ritrovato una lettera di mio padre dal fronte che, terminato il racconto di una bomba che gli era caduta vicino, si raccomandava con mia madre che gli mandasse i moduli delle dichiarazioni da riempire”). Ma il messaggio che deve passare, per esportare la pratica, è che converrebbe a tutti. Sempre Kaakinen: “Durante un’intervista con un giornale irlandese ho scoperto che, con quel che lì spendevano per alloggi temporanei avrebbero potuto comprare 900 appartamenti!”. Tentativi di imitazione - L’Housing first sta facendo proseliti in Scozia, Danimarca e a Houston, la quarta città più popolosa degli Stati Uniti, dove nell’ultimo decennio sono riusciti così a togliere dalle strade 25 mila homeless, più che dimezzandoli rispetto a un decennio prima. Ma solo qui è una politica nazionale. Coerente, realistica, che non alimenta false illusioni: “Sono rari i casi dei nostri ospiti che tornano alla vita attiva, nel mercato del lavoro. Quando succede è un bonus supplementare. Ma il nostro scopo è ridurre il numero dei senzatetto. C’è un valore in ciascuna persona e, nella mia esperienza, le sorprese positive hanno di gran lunga superato quelle negative. Molti continuano a bere, ma bevono meno: non è già uno splendido risultato?”. Mi torna in mente, per differenza, Michael Shellenberger, autore di San Fransicko, pamphlet di successo su “come i progressisti rovinano le città”. Uno che, facendomi fare un mini-tour dell’orrore tra gli homeless raddoppiati tra 2005 e 2020 nella città californiana, attribuiva tutte le responsabilità al fatto che si trattava di “gente che dà per scontato il diritto all’assistenza. Invece devono meritarsela, riprendere in mano le loro vite”. Un’etica alla John Wayne che, come su armi e sanità, non ha sortito risultati invidiabili. A Helsinki invece, senza eccessivo dispendio di retorica, l’attuale governo ha annunciato l’obiettivo di cancellare il problema entro il 2027 (oltre ad aumentare dal 25 al 35 per cento la quota di edilizia sociale sul totale delle nuove costruzioni). Negli ultimi due anni, però, i numeri dei senzatetto di lungo periodo hanno smesso di scendere. Chiedo a Kaakinen se, come a San Francisco, c’entri il Covid che ha ridotto gli spazi nei rifugi lasciando più gente per strada: “Forse c’è anche questo, ma temo che abbiamo pensato di aver risolto il problema e ci siamo rilassati. Invece bisogna impegnarsi ancora di più, mettendo in campo anche strutture più piccole che talvolta funzionano meglio”. Cinema e caffè - Quella gestita dalla Deaconess Foundation è di dimensioni medie. Una bella palazzina di mattoni a vista, con i primi quattro piani riservati agli uomini e i successivi tre alle donne. Su cui sovrintende Minna Kiviaho, una signora sorridente con un vestito a fiori di Marimekko, la gloria locale del design. Sono le tre ed è l’ora del caffè, servito da due assistenti sociali nella cucina condivisa. Anche qui la prima cosa che mettono bene in chiaro è che “bisogna rispettare lo stile di vita dei residenti”. Però, per chi vuole, ci sono attività di disintossicazione e, sebbene non fisso, un medico è reperibile in ogni momento. La prima ospite ad arrivare è Marre che, dall’alto dei suoi quindici anni qui (ne ha cinquantadue ed è la prima volta in assoluto che, tra quasi coetanei, il cronista non è quello che li porta peggio), è una veterana. Un’assistente la spinge in carrozzina perché ha una gamba fasciata: “Sono caduta mentre ero in visita da mio figlio. Ma non perché stavamo litigando” aggiunge con excusatio non petita non proprio tranquillizzante. Un’èra fa è stata infermiera. Poi il divorzio. L’alcol. Il marciapiede. Non necessariamente in quest’ordine. È felice di avere finalmente un posto suo. Dove fumare, guardare la tv, pensare ai fatti propri e ricevere ospiti. Due piani più sotto c’è anche il secondo marito (il primo è morto in strada), ma si frequentano il giusto. Ecco Ewelina che però non parla inglese. E la trentunenne Laura, sovrappeso e scalza, che tra i vantaggi dello stare qui cita il senso di sicurezza e la possibilità di essere aiutata su tutto. Provo a chiedere come sarà la loro estate, come vorrebbero che fosse. Ma è una domanda stupida da fare a dei sopravvissuti. Una volta all’anno escono per andare al cinema, appuntamento che era saltato col Covid e adesso ripartirà. Sarà una festa. Mai come la cena a base di tartufo organizzata a fine giugno per i senzatetto di Milano dall’Associazione nazionale tartufai italiani. Con la differenza che quella ti svolta una serata, l’housing first una vita intera. Ucraina. Bombe sul carcere, muoiono 53 detenuti: accuse reciproche tra Kiev e Mosca di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 30 luglio 2022 Ennesimo giorno di guerra in Ucraina, e ancora un’altra strage con il consueto corollario di accuse reciproche senza che si possano verificare gli avvenimenti. Questa volta è stato colpito un carcere nella regione del Donetsk, si tratta della struttura pre-processuale a Olenivka. Il sito è stato raggiunto da una selva di razzi che ha causato la morte di 53 detenuti e il ferimento di altri 130. Il carcere era controllato dai separatisti filorussi che immediatamente hanno addossato la responsabilità dell’eccidio agli ucraini. Il leader dell’autoproclamata Repubblica del Donetsk, Denis Pushilin ha dichiarato che: ‘si tratta di un bombardamento intenzionale che mira a eliminare i membri del battaglione Azov che hanno iniziato a testimoniare’. Completamente di segno opposto la versione arrivata da Kiev, per il consigliere del presidente ucraino Zelensky, Mykhailo Podolyak, che ha accusato i russi: ‘ Lo scopo di questo attacco, attentamente pianificato, è nascondere le prove della crescente portata dei crimini di guerra e della tortura russi, interrompere gli accordi di scambio, screditare le forze armate dell’Ucraina per l’uso di alcuni tipi di armi straniere che terrorizzano gli occupanti russi’. Il riferimento del dirigente ucraino è quello relativo al sistema missilistico, fornito dagli Stati Uniti dallo scorso giugno, Himars. Un sistema di lancio multiplo che in qualche modo sta sostenendo i tentativi dell’esercito di Kiev di riconquistare porzioni di territorio nel sud del paese. Non a caso il ministero della Difesa russo aveva immediatamente affermato che l’attacco era stato effettuato con i missili di fabbricazione statunitense accusando l’Ucraina di una provocazione ‘deliberatamente perpetrata’. Al momento i media internazionali non hanno potuto fornire notizie certe e le uniche immagini disponibili sono quelle fornite dalla tv di stato russa che ha mostrato alcune rovine fumanti di quella che presumibilmente era la prigione. Unico particolare è che la struttura sembra essere stata colpita da dispositivi incendiari e non esplosivi. In ogni caso, che si tratti di una false flag o di un errore ucraino, rimane il fatto che ormai la guerra coinvolge chiunque anche se non in uniforme. Se quest’ultimo avvenimento dà il segno che ogni possibilità di riaprire una trattativa sembra essere ben lontana, qualcosa invece si muove sul fronte dell’accordo che ha sbloccato le esportazioni di grano ucraino. Da almeno 5 mesi, 17 navi sono trattenute nei porti del Mar Nero, in virtù dell’intesa raggiunta grazie alla mediazione turca le imbarcazioni, già cariche di grano e altri cereali, sono pronte a partire. I preparativi sono evidenti e il ministro delle Infrastrutture ucraino, Oleksandr Kubrakov, ha fatto sapere che il convoglio potrebbe salpare entro la fine di questa settimana. A questo proposito Zelensky, durante una visita a sorpresa ad Odessa, ha confermato quello che sta succedendo: ‘ Siamo pronti ad esportare grano ucraino. Stiamo aspettando segnali dai nostri partner sull’inizio del trasporto. Per noi è importante rimanere garanti della sicurezza alimentare globale. Mentre qualcuno, bloccando il Mar Nero, toglie la vita ad altri Stati, noi permettiamo loro di sopravvivere’. Restano da mettere a punto alcuni dettagli operativi ma trapela ottimismo anche da parte delle Nazioni Unite. La posizione russa rimane cauta, anche se la vicenda delle esportazioni di grano sarà oggetto di un colloquio telefonico, che potrebbe avvenire già oggi, tra il ministro degli esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Usa Blinken. È stato proprio il capo della diplomazia di Mosca a rivelarlo anticipando i contenuti dell’incontro. Oltre al grano, si parlerà di uno scambio di prigionieri tra americani e russi. Questi ultimi a dire il vero hanno precisato che il tema verrà affrontato ‘se il tempo lo consentirà’. Due giorni fa Blinken aveva fatto trapelare che ‘nei prossimi giorni’ avrebbe affrontato il rilascio della giocatrice di Basket Brittney Griner e del professore Paul Whelan, entrambi incarcerati a Mosca. Eventualità sulla quale al Cremlino sono rimasti piuttosto freddi non ritenendo che si siano verificati significativi passi in avanti. Iran. Record di esecuzioni, uccisa anche una sposa-bambina che aveva ucciso il marito di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 luglio 2022 Una terrificante ondata di esecuzioni capitali è in atto in Iran dall’inizio di quest’anno, più di una al giorno, di media, nei primi sei mesi del 2022 e, lungi dall’arrestarsi, ha visto nelle ultime ore finire impiccate tre giovani donne. Tra queste anche Soheila Abad, riconosciuta colpevole di avere ucciso il marito molto più anziano di lei al quale era stata data in moglie quand’era poco più di una bambina contro la sua volontà, e giustiziata in carcere. Una “macchina della morte statale che mette in atto un abominevole assalto al diritto alla vita”, l’ha definita nei giorni scorsi Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord e che sta indignando il mondo. Trentadue esecuzioni sono avvenute nella Repubblica islamica nella sola scorsa settimana, 251 nei primi sei mesi del 2022. Non è difficile prevedere che il totale dell’anno supererà quello del 2021, pari a 314. Senza contare che, secondo Amnesty International e il Centro Abdorrahman Boroumand, un’organizzazione iraniana per i diritti umani, il dato sarebbe sottostimato. Sarebbero ormai triste routine esecuzioni di massa all’interno delle prigioni, ai danni soprattutto di detenuti di etnia beluci: minoranza che rappresenta il 5% della popolazione iraniana ma il 26% tra quelli messi a morte. E, secondo un’altra ong per i diritti umani, lo scorso anno solo il 16,5% delle esecuzioni è stato reso pubblico. La maggior parte delle esecuzioni del primo semestre del 2022, 146, ha riguardato il reato di omicidio, secondo il censimento delle ong svolto in base a testimonianze raccolte da prigionieri, familiari di persone messe a morte, difensori dei diritti umani, stampa, organizzazioni per i diritti umani. E le condanne a morte sarebbero state eseguite “al termine di processi gravemente irregolari”. Inoltre, almeno 86 prigionieri sono stati messi a morte per reati di droga per i quali, secondo il diritto internazionale - osservano ancora le ong - non dovrebbe essere inflitta la pena capitale. Ma non sono poche anche le donne giustiziate per impiccagione, la maggior parte per avere ucciso il marito a seguito di reiterate violenze domestiche. A volte denunciate, ma il più delle volte derubricate dai tribunali a “dispute familiari”, senza alcun seguito. “Questa nuova crescita delle esecuzioni, comprese quelle in pubblico, mostra ancora una volta quanto l’Iran non stia al passo col resto del mondo, dove 144 Stati hanno abolito nelle leggi o nella prassi la pena di morte - ricorda Roya Boroumand, direttrice generale del Centro che porta il suo cognome ed è dedicato al padre dissidente. Chiediamo all’Iran di istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni in vista della completa abolizione della pena capitale”. Burkina Faso. Condannato all’ergastolo, Compaoré ora chiede scusa alla famiglia Sankara di Stefano Mauro Il Manifesto, 30 luglio 2022 35 anni dopo. Presidente-dittatore per 27 anni, considerato il mandante dell’uccisione del “Guevara africano” durante il golpe del 1987. Polemiche per il mancato arresto al suo breve rientro dall’esilio. “Chiedo scusa al popolo del Burkina Faso per tutti gli atti che potrei aver commesso durante la mia presidenza e più in particolare alla famiglia del mio fratello e amico Thomas Sankara”. Il messaggio dell’ex presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré, letto dal portavoce del governo burkinabé Lionel Bilgo, sta dividendo in questi giorni l’opinione pubblica nazionale. Blaise Compaoré, 71 anni, salì al potere nel 1987 in seguito a un colpo di stato che costò la vita all’allora presidente Thomas Sankara, conosciuto come “il Che Guevara africano” e ad altre 12 persone. Le decisioni prese da Sankara nei quattro anni della sua presidenza furono per l’epoca rivoluzionarie: dalle riforme sociali e ambientaliste per eliminare la fame e la povertà, alla costruzione di scuole e ospedali per tutti, fino a quelle legate alla parità di genere, alla lotta contro le mutilazioni genitali femminili e alla centralità della donna nella società. Compaoré era fuggito, dopo 27 anni di presidenza/dittatura, nell’ottobre 2014 in Costa d’Avorio a seguito di una rivolta popolare e lo stesso governo ivoriano gli aveva concesso la cittadinanza per impedire una sua possibile estradizione. Il 6 aprile è stato condannato in contumacia all’ergastolo per il suo ruolo di “mandante politico del gruppo militare che uccise il presidente Sankara”. Il suo breve rientro nel paese a inizio luglio senza essere arrestato dalle autorità burkinabé è stato etichettato dalla stampa locale come “un attentato alla giustizia” e ha suscitato una raffica di critiche da parte di politici e società civile, secondo i quali “la riconciliazione non dovrebbe essere sinonimo di impunità”. Compaoré è stato invitato dal tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, attuale presidente di transizione salito al potere con un colpo di stato lo scorso gennaio, con l’obiettivo di “favorire la riconciliazione nazionale” di fronte agli attacchi jihadisti che stanno duramente colpendo il paese. Dopo aver incontrato il nuovo uomo forte del paese, Compaoré ha espresso “la sua profonda gratitudine” alle autorità di transizione e ha invitato tutte le forze politiche “a una sacra unione, alla tolleranza, alla moderazione, ma soprattutto al perdono perché prevalgano gli interessi superiori della Nazione”.