Abolire il carcere che fabbrica criminali? Si deve, ma l’alternativa sia ragionevole di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 2 luglio 2022 La pandemia ha aggravato una situazione già esplosiva rendendo urgente l’adozione di nuove misure Cambiamenti capaci di soddisfare sia la domanda di giustizia dei cittadini che la dignità del condannato. Va preso con giudizio un titolo come quello dato, anche in questa sua seconda edizione, al libro di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, Abolire il carcere. Anche perché, non ostante le immediate apparenze, gli stessi autori lo accompagnano unendovi l’indicazione che si tratta di “Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”. Le tesi degli autori sono le stesse della edizione precedente, ma questa è sviluppata e aggiornata anche tenendo conto dell’esperienza maturata durante la pandemia da Covid-19 e del ritorno del sovraffollamento. Il carcere abolito viene sostituito da quale altra reazione pubblica al reato (per evitare quella vendicativa privata)? Storicamente la pena del carcere è stata sviluppata per rinunciare ai supplizi e alla pena di morte ed ottenere l’accettazione da parte di una opinione pubblica spesso feroce e di un ceto politico reticente. Successivamente la progressiva generale umanizzazione e la crescente insofferenza verso la crudeltà e la violenza hanno comportato l’attenuazione della originaria, intenzionale durezza del carcere. Così, almeno in linea di principio, il carcere ha visto la tendenziale sua limitazione alla sola restrizione della libertà. E si pensa che in tal modo il carcere sarebbe pena egualitaria perché egualmente penosa per tutti. Dovrebbe trattarsi di un’afflittività ridotta al minimo necessario, rispetto alla finalità che si assegna alla sanzione penale. Però il carcere non ha solo una funzione punitiva. Ad essa si aggiunge quella della segregazione, della esclusione dalla società libera. E se l’aspetto punitivo può astrattamente riguardare in modo eguale tutti e ciascuno dei condannati, non così la segretazione. Poiché la pericolosità sociale è diversa, in considerazione sia del tipo di reato commesso e magari reiterato, sia della personalità del reo. Si comprende allora come si sia instaurato un sistema di esecuzione della pena in carcere per circuiti differenziati: diversi essenzialmente per il grado di segregazione imposta al detenuto (rispetto all’esterno e all’interno del carcere). Il titolo-bandiera, che schiera gli autori su un fronte radicale di abolizione del carcere, vede bene quindi l’aggiunta che vi è unita, con menzione della ragionevolezza e della cura per la sicurezza dei cittadini. Una aggiunta che invita non solo alla lettura, ma anche alla seria considerazione delle alternative proposte. Si tratta di alternative che possono sostituire il carcere in molta parte del suo odierno utilizzo e così offrire la possibilità di limitare un istituto, quello del carcere, che presenta tanti aspetti di inumanità e di contraddizione rispetto alla finalità che la Costituzione gli assegna di tendere alla rieducazione del condannato (almeno nel senso minimale di contrastare la recidiva). Sulla realizzabilità del tendenziale scopo costituzionale della pena e in modo particolare di quella detentiva in carcere, il volume si dimostra complessivamente più che scettico. La detenzione in carcere infatti appare criminogena. Anziché rieducare predispone alla recidiva, senza rimedio. A questo proposito, nel suo “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto” (Einaudi, Torino, 2022), va in controtendenza l’esperienza che espone Cosima Buccoliero, che ora dirige il carcere di Torino dopo aver diretto quello modello di Bollate. Ma quell’esperienza conferma la necessità di distinguere nell’ambito della popolazione carceraria e considerare che proprio quella che è stata ammessa all’esperienza “aperta” di Bollate ha vissuto un “carcere non carcere” (almeno nel senso che alla parola va data se ci si riferisce alla generalità delle carceri). Si pone allora la necessità di distinguere: riconoscere la negatività della reclusione in carcere per farne un uso residuale quando ogni altra sanzione penale sia inutilizzabile, essenzialmente in vista dello scopo che lo Stato deve perseguire di assicurare la sicurezza. La ben giustificata reazione che determina la violenza esercitata nei confronti delle donne, mogli o compagne, nei casi in cui essa era preannunciata, indica da un lato l’astrattezza di un programma di abolizione del carcere e dall’altro la sua improponibilità politica e sociale. L’elenco delle possibili alternative all’attuale previsione della pena della reclusione in carcere è ampio nel libro. Si tratta di soluzioni che non pretendono di essere una novità, poiché da tempo molte di esse sono studiate dagli esperti studiosi del diritto penale e penitenziario. Recentemente diverse di esse (quella pecuniaria, in particolare, da rendere effettiva) sono state proposte dalla Commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi, parzialmente accolte nella legge di riforma del processo penale. Ma si tratta di una legge delega, il cui pieno sviluppo è ora nelle mani del governo che deve attuarla. Non credete a chi dice che non si può fare: 10 proposte concrete per abolire il carcere di Federica Graziani Il Dubbio, 2 luglio 2022 “Abolire il carcere” di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, edito da Chiarelettere, non somiglia in niente alla gran parte dei saggi italiani che circolano oggigiorno. Al posto delle dispute di scuola, l’osservazione diretta della realtà di cui si scrive. Al posto delle descrizioni scorate e orfane di pars costruens un decalogo di proposte cui manca solamente la buona volontà per essere applicate. Al posto di una sola voce, e gravata dai dettagli biografici, quattro autori che si avvicendano nei diversi capitoli in modo indistinguibile ma contribuendo ognuno con un’ottica e una professionalità sue alla tesi condivisa. Questo carattere anomalo di “Abolire il carcere” viene fuori proprio dal genere “ibrido” di cui il libro è esempio. Tra il saggio filosofico e il racconto storico, tra il reportage e il manuale d’istruzioni, tra la monografia giuridica e il libello polemico, sono tanti i fili che si possono tirare dalla lettura. E tutti quei fili precipitano intorno alla tesi, perentoria fin dal titolo, che il carcere si possa e si debba abolire, che si tratta di un orizzonte non solo auspicabile ma anche possibile. Una tesi che purtroppo si scontra con l’abito mentale che vuole la prigione come un luogo ineluttabile, innanzitutto dimostrando una verità tanto evidente quanto misconosciuta: il carcere così com’è nelle nostre società non funziona allo scopo che si prefigge: la rieducazione del detenuto e il suo reinserimento nella vita collettiva. Con le loro stesse parole: “Il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione, dal momento che quanti vi si trovano reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”. E per dimostrare quanto e come il carcere sia inutile, i quattro autori procedono lungo i capitoli del saggio con una strategia argomentativa da veri e propri illuministi. In principio sfatano il mito che il carcere sia sempre esistito, indagando la storicità della pena detentiva. Poi confrontano i differenti principi costituzionali che reggono il nostro sistema delle pene con le condizioni concrete della vita negli istituti penitenziari: con le carenze strutturali degli edifici, con la mancanza cronica di operatori qualificati e di attività risocializzanti, con la scarsità di opportunità formative e lavorative, con l’assenza di una reale presa in carico da parte dei servizi sul territorio e di percorsi individuali, con la composizione della popolazione carceraria rappresentata, per la maggior parte, da poveri, tossicomani, stranieri. E infine i quattro autori stendono il loro programma minimo di modifiche al sistema penale e penitenziario. Dieci cose da realizzare subito, dieci presupposti per un percorso di avvicinamento all’abolizione definitiva del carcere, dieci proposte concretissime che vanno dal superamento dell’ergastolo alla riduzione della carcerazione preventiva, dalle misure alternative alla detenzione fino alla soppressione della detenzione minorile. Ma non solo. Il libro, in questa nuova edizione aggiornata, contiene anche il racconto del carcere durante l’emergenza della pandemia di Covid 19. Si racconta della “mattanza della settimana santa”, dal nome dell’indagine scaturita dalle prime denunce della violenza massiccia e organizzata a opera di centinaia di agenti e funzionari di polizia penitenziaria ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vedere il 6 aprile 2020. E si racconta anche della morte di Stefano Cucchi, dei fatti di Asti, della vicenda di Rachid Assarag. È proprio in questi passaggi che il tono del libro cambia. È qui che le buone ragioni per l’abolizione ordinate fino a questo punto svelano l’urgenza etica degli autori. I quali scrivono perché vogliono rispondere alla sofferenza altrui, svelandone l’assurdità e limitandola, come possono. Sezioni di Alta sicurezza: dopo l’estate solo tre telefonate al mese di Cecilia Gabrielli * Il Dubbio, 2 luglio 2022 Da quattro settimane le Case di Reclusione hanno inaugurato un periodo di transizione verso la “normalità”, fatto che era preannunciato, temuto o minacciato da mesi. I colloqui visivi continuano in ipotesi a essere affiancati da quelli virtuali, secondo una scelta del detenuto, fino al concorrere delle ore complessive a lui spettanti e con peso specifico diverso in base alla modalità, ma le telefonate vocali sono entrate in un regime di progressiva riduzione. In questa prospettiva di spegnimento, dal prossimo settembre le chiamate torneranno a essere tre o quattro al mese a seconda del girone infernale in cui si trova il reo, mentre durante l’emergenza di ben due anni, ogni detenuto e la sua famiglia ne hanno avute tre a settimana. Qui è necessario chiarire, perché bisogna sapere ciò di cui si legge. Un individuo recluso in regime di alta sicurezza non può chiamare chi vuole ma solo due o tre numeri autorizzati e queste telefonate non sono come le immaginate. “Telefonata” in questo contesto indica una chiamata irripetibile, destinata a cadere nel nulla se il telefono è occupato o guasto o se il parente del caso sta lavorando. Se l’opportunità è raccolta, durerà 9.59 minuti e poi la linea cadrà. Per la precisione durerà 9.59 minuti meno 5 secondi perché dopo nove minuti un carosello suonerà un requiem che aprendosi come un ventaglio coprirà lo spazio per parlare, avvisando che bisogna salutarsi. Infine c’è da precisare per non allarmare i lettori, che le telefonate sono ascoltate e registrate sempre e se chi ascolta lo reputa necessario, interrompe immediatamente la comunicazione con le conseguenze che si possono immaginare. La comunità è sempre tutelata, perché non c’è messaggio o comunicazione illecita che possa passare. Eppure, entro la fine dell’estate, il soggetto ristretto, e con lui la sua famiglia, ritornerà da dodici telefonate mensili a tre. Aggiungendo due o tre colloqui (uno visivo e due digitali), vi sto raccontando che per quegli esseri umani negli altri 24 o 25 giorni al mese la vita resterà muta d’affetti. Ma era così anche prima, ci sono abituati - mi risponderete. È vero, è tutto a posto, loro sono abituati ad accettare in silenzio e noi a fare del male, gratuito. Nel bel dialogo che s’intitola “Inventarsi una vita”, Claudio Magris racconta a Paolo Di Paolo che in una lingua dell’Amazzonia il futuro è espresso con le stesse forme verbali con cui si esprime il camminare all’indietro, “sia perché non vedi, sia perché tornando indietro ti si allarga l’orizzonte”. Le carceri italiane si sono così proiettate nel futuro da essere tornate indietro, riempiendo il tempo di buio, di vuoti, assenze e carenze ben note al regime di alta sicurezza. Questo salto è giunto con ampio margine di previsione, con avvisi ripetuti come fossero minacce e oggi che il futuro è tra noi, ritroviamo il sapore insipido del passato, mentre qualcuno intona il “si sapeva”, cantilena che non conforta affatto. Siamo tornati al silenzio e non si può non convenire con gli indigeni che la prospettiva si sia fatta più ampia, perché abbiamo camminato tanto e vediamo molto di più, ma soprattutto non siamo più gli stessi e oggi sappiamo di una possibilità diversa, fatta della voce degli affetti e del sapersi l’un l’altro con un ritmo più umano. Prima eravamo nel futuro vero e non lo sapevamo e questa consapevolezza rende la sete più insopportabile. Si può solo sperare che chi ha il potere di farlo, voglia avvalersi di questa migliore visuale e spalanchi la mente alle nuove possibilità che lo stato di emergenza ci aveva indicato. Ricordo una frase della Allende, nel suo famoso romanzo “Paula”: “Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore tra due insondabili silenzi”. Le carceri tornano al silenzio degli affetti, così si possono ascoltare meglio i rumori dei blindati, delle chiavi, dei cancelli, le grida. Le carceri tornano al silenzio degli affetti, perché i detenuti sono fuori dalla vita di cui scrive la Allende e li trattiamo come se fossero vivi per sbaglio. È proprio tutto in ordine, l’inferno è un posto muto e sordo e ci stiamo dentro tutti. Ai reclusi davvero non resta che “inventarsi una vita” e per questo in molti scrivono e lo fanno benissimo. *Tutore di Giuseppe Grassonelli La magistratura di sorveglianza ancora nel mirino dei 5S: “Niente benefici agli assassini” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 luglio 2022 Non si placano le polemiche per la concessione da parte del Tribunale di Sorveglianza di Firenze della semilibertà a Giovanni Sutera, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Graziella Campagna. Durante la giornata il sessantenne potrà uscire dal carcere di Sollicciano per andare a fare volontariato presso un’associazione che fornisce assistenza agli anziani, mentre la sera dovrà tornare in cella. La vicenda è nota: la giovane commessa di una lavanderia di Villafranca Tirrena (Messina) fu uccisa nel 1985 perché aveva scoperto da un’agenda smarrita tra gli abiti di un cliente l’identità di Gerlando Alberti, boss di mafia di cui Sutera sarebbe stato braccio destro. Due giorni fa è stata presentata una interrogazione alla ministra Cartabia dai parlamentari del Movimento 5 Stelle della commissione Antimafia (Sarti, Salafia, Migliorino, Ascari, Aiello, Endrizzi, Pellegrini) in cui si ipotizzano anche azioni ispettive e/o disciplinari nei confronti dei magistrati di sorveglianza che hanno concesso il beneficio. Per i 5Stelle occorre “verificare la rispondenza al dettato normativo dell’operato della magistratura di sorveglianza di Firenze, onde scongiurare il rischio della concessione e applicazione di benefici penitenziari in assenza dei presupposti di legge nei confronti di soggetti condannati per gravi fatti di mafia”. Dunque la magistratura di sorveglianza torna di nuovo nel mirino, dopo le accese polemiche che avevano infuocato il dibattito durante la pandemia, quando si concesse la detenzione domiciliare per motivi di salute anche a condannati per gravi reati. Il fratello della giovane si è detto molto amareggiato: “Mi chiedo se i nostri politici quando fanno le leggi pensano che questa ragazza martoriata poteva essere loro figlia o sorella. Inoltre Sutera è un criminale che non si è mai pentito, come può lavorare mi chiedo per un’associazione di volontariato? Mi vergogno di essere italiano, hanno ucciso un’altra volta mia sorella”. Chi vuole fare chiarezza è il legale di Giovanni Sutera, l’avvocato Elena Augustin del foro di Prato: “Tutti qui parlano di mafia in riferimento al mio assistito, ma lui non ha mai ricevuto una condanna né per 416 bis né gli è stata mai contestata l’aggravante del metodo mafioso”. In merito all’interrogazione parlamentare: “Mi vergogno per chi prende delle iniziative senza conoscere i dettagli della vicenda giudiziaria né le norme dell’ordinamento. L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza è corretta ed equilibrata”. I motivi: “Nell’ultima istanza io avevo chiesto la libertà condizionale: gli era stata già concessa nel 2015, dopo aver beneficiato della detenzione domiciliare per problemi di salute, di tanti permessi premio, e della semilibertà. Ma poi nel 2018, quando mancavano circa due anni alla libertà assoluta e definitiva, quella condizionale gli è stata revocata a causa di una ordinanza di custodia cautelare emessa a seguito di una accusa di spaccio internazionale di droga, per cui è stato assolto in primo grado perché “il fatto non sussiste”. Tuttavia, essendo ancora pendente un procedimento per bancarotta fraudolenta, il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto di concedere la semilibertà e non di ripristinare la libertà condizionale. Aggiungo che questa concessione arriva dopo un primo rifiuto ad una mia richiesta fatta immediatamente dopo l’assoluzione. Quindi il Tribunale è stato molto scrupoloso”. L’avvocato Augustin ci tiene anche a sconfessare quanto letto su qualche testata per cui il suo assistito sarebbe in carcere dal 2008: “Lui è stato condannato al termine di 5 processi, celebratisi dal 1977 al 2008, due dei quali per omicidio. Il primo di un gioielliere nel 1982: ha iniziato ad espiare la pena nel 1986. Poi nel 1985 viene uccisa Graziella Campagna e lui arrestato. La sentenza diviene definitiva nel 2008. Grazie ad un cumulo di pena riesce ad espiare la seconda condanna attraverso gli anni di carcere comminati per la prima”. Per il delitto della Campagna si è sempre professato innocente: “La rivisitazione critica che deve operare un soggetto detenuto non deve necessariamente consistere nell’ammettere un reato ma altresì nel compiere un percorso di riabilitazione- conclude il legale -. Sutera ha svolto diverse attività di volontariato non potendo risarcire le vittime e non si è mai sottratto alle attività intramurarie”. Ai detenuti disabili il carcere toglie la libertà due volte di Melissa Aglietti rollingstone.it, 2 luglio 2022 Abbiamo intervistato alcuni carcerati con disabilità per farci raccontare i problemi quotidiani che affrontano ogni giorno, tra marciapiedi e scivoli sconnessi, bagni inadeguati, assenza di ascensori, carrozzine con le ruote bucate e ausili sanitari assenti. Sulle carceri italiane sappiamo molte cose: conosciamo bene il problema cronico del sovraffollamento, la composizione della popolazione carceraria, il tasso di recidiva. Ma sappiamo molto poco di come vive un detenuto disabile in carcere. L’ultima rilevazione sul tema è del 2015: all’epoca i detenuti con disabilità presenti nelle carceri italiane erano 628. Non esistono, però, dati più recenti, complice anche il mancato accordo tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e il Sistema sanitario nazionale per un monitoraggio permanente sulla disabilità in carcere. Nemmeno l’onda d’urto provocata dai fatti di Santa Maria Capua Vetere è riuscita a portare in superficie il tema della disabilità nelle carceri. E per molti detenuti disabili, il carcere è un luogo in cui “si impara a subire”. Essere un detenuto con una disabilità fisica o motoria significa non solo perdere la libertà, ma anche l’autonomia di poter disporre di se stessi. E, spesso, un ruolo attivo nella perdita di indipendenza lo giocano le strutture stesse. “All’inizio, quando sono arrivato in carcere, riuscivo ancora camminare con l’aiuto di stampelle”, spiega a Rolling Stone Marco, che è detenuto dal 2012. “Facevo anche riabilitazione con una cyclette. Ero anche in grado di vestirmi, svestirmi e andare in bagno da solo. Insomma, ero quasi una persona autonoma. Poi sono stato trasferito in un altro istituto penitenziario”. Senza una cyclette adatta e senza la possibilità di fare fisioterapia, Marco è finito in sedia a rotelle. “Nel nuovo carcere non ho potuto fare riabilitazione per tre anni e mezzo”, racconta. “Per un po’ ho continuato a camminare, ma senza i giusti esercizi sono finito in carrozzina. E adesso vivo in mano agli altri”. Anche se la situazione varia da istituto a istituto, in Italia sono poche le strutture adatte ad accogliere detenuti disabili, tra marciapiedi e scivoli sconnessi, bagni inadeguati, assenza di ascensori, carrozzine con le ruote bucate e ausili sanitari assenti o inefficaci. Tanto che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte l’Italia per il trattamento riservato ai detenuti con disabilità. “Il trattamento che il personale sanitario mi riserva è inumano”, racconta Marco. “Mi hanno anche dimenticato nel bagno. Non ho chi mi taglia la carne o chi mi lava la tazza con cui faccio colazione. Ma io chiedo solo di andare in bagno o di essere accompagnato a letto. Il personale sanitario mi umilia: non denuncio per paura di ritorsioni”. La riforma del 2008, che ha trasferito le competenze in materia di sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale ha finito per complicare il quadro. Come spiega Sandro Libianchi, Coordinamento Nazionale per la Salute nelle Carceri Italiane (Conosci): “Non c’è comunicazione tra Giustizia e Sanità”. E quindi i problemi stagnano. “In molti casi non c’è nemmeno la garanzia di ambienti adeguati alle limitazioni. Tutte le carceri dovrebbero essere adeguate alla disabilità. In realtà, sono rarissime le strutture con bagni attrezzati. Questo perché il numero di disabili è basso”. Anche i dispositivi sanitari sono carenti. “C’è una disputa tra Sanità e Giustizia su chi li debba fornire”, dice Libianchi. Una figura a cui le strutture fanno ricorso nel caso di detenuti disabili è quella del “piantone”, un altro detenuto che si prende cura della persona con disabilità in cambio di soldi. “Non hanno, però, una formazione adeguata”, spiega Libianchi. “La soluzione potrebbe essere quella di impiegare caregiver esterni. Ma non sono previsti dai budget regionali. Ci vorrebbero fondi aggiuntivi”. E i problemi non finiscono qui. “Una rete territoriale di caregiver si traduce poi nell’avere persone disponibili a chiamata, che si metterebbero a disposizione per un periodo limitato di tempo. Senza contare che il carcere resta un luogo poco allettante dove lavorare”. Per i detenuti disabili, quindi, il carcere si configura più come un accanimento terapeutico che come un luogo dove vedere rispettate le stesse garanzie del “fuori”, in attesa di un ritorno all’interno della società. Una pena nella pena che accentua difficoltà e fragilità, come in un eterno ritorno. “Lavori di pubblica utilità”: sì, ma non chiamateli lavori... di Oscar La Rosa* Il Dubbio, 2 luglio 2022 In questo ultimo ventennio, cosi carente di novazioni legislative sul tema del lavoro in carcere, senza alcuna proposta né incentivi oltre la Smuraglia e pochissima informazione e pubblicità sui benefici economici per le imprese che assumono detenuti, c’è stata una misura che negli anni ha assunto sempre più importanza e visibilità: il lavoro di pubblica utilità, attività gratuite e non retribuite da svolgere a favore della collettività presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Prevista inizialmente, nel 2000, come misura alternativa per i reati meno gravi o per far fronte al pagamento di multe e ammende, riscuote un discreto successo e il suo campo di applicazione viene esteso sempre di più. La mancanza del fattore economico si pone in contrasto con la definizione di lavoro, il quale deve sempre prevedere una giusta retribuzione ma, in questo caso, il corrispettivo economico è indiretto, in quanto va a saldare una pena pecuniaria o evitare quella detentiva. Determinante è anche il fatto che si tratti di una misura volontaria che viene richiesta dal condannato e non imposta da un giudice, differentemente da quanto avveniva nel passato con i cosiddetti lavori forzati. Nel 2013, si decide di estendere la possibilità di partecipare ai progetti di pubblica utilità anche alle persone recluse, che in maniera volontaria e senza alcun beneficio di ritorno desiderano impiegare il proprio tempo in queste attività. I lavori di pubblica utilità vengono così inseriti nell’ordinamento penitenziario e specificatamente all’art. 21, diventando uno dei modi per richiedere delle ore fuori dal carcere. La norma viene confermata, ampliata e definita ulteriormente dalla riforma del 2018, eliminandola dal testo dell’art. 21 e aggiungendo il nuovo art. 20 ter dell’ordinamento penitenziario, operazione corretta al fine di differenziare i lavori di pubblica utilità dai lavori tradizionali. Il legislatore è stato attento a non esplicitare nel testo di legge il termine “lavoro”, indicando sempre un’attività su base volontaria non retribuita, tranne che nel titolo dell’articolo: “Lavori di pubblica utilità” espressione ripresa anche nel dibattito pubblico, lasciando così spazi alle varie interpretazioni, tra chi denuncia lo Stato di sfruttare lavorativamente i detenuti e chi vorrebbe obbligare tutti i detenuti a prestare attività di volontariato, ossimoro alquanto evidente. Ancora una volta si rischia che la parola definisca il mondo che descrive; così come il gergo carcerario contribuisce a togliere dignità alla vita detentiva, è importante scegliere le parole giuste per indicare le varie attività: volontariato e lavoro; se non si fa questo si potrebbe creare ancora più confusione nella persona detenuta che da sempre si è posta in contrasto con lo Stato e le sue regole, rischiando di trasmettere il concetto che il lavoro legale sia solo un modo di sfruttamento della sua persona. Esiste infatti il volontariato e deve essere libero, va incentivato perché fondamentale nell’opera di risocializzazione, perché permette di scoprire la bellezza del mettersi a servizio, perché permette, più del carcere, di ricucire lo strappo avuto con la società civile, perché permette di condividere con persone fino a quel momento estranee; ed esiste il lavoro, anche esso fondamentale ma per funzioni differenti. Il primo riempie l’anima, il secondo deve riempire anche la tasca. *Founder Economia Carceraria Non si può cambiare la giustizia senza autorevolezza di Federico Bagattini* Corriere Fiorentino, 2 luglio 2022 Il 27 ed il 28 giugno scorsi si è consumata l’astensione dalle udienze penali a sostegno del principio di “immutabilità” del giudice. In altri termini, i penalisti italiani hanno inteso testimoniare con questa iniziativa la necessità che durante tutto il corso del processo il giudice-persona fisica rimanga sempre lo stesso. È innegabile la irrinunciabilità di questo principio: nessuno vorrebbe essere giudicato da un magistrato che non abbia partecipato al dibattimento per intero ma si sia limitato a “leggere i verbali” per decidere il nostro futuro e la nostra libertà. La prospettiva indicata dai promotori dell’iniziativa appare tuttavia sfocata e muta su certi temi connessi a quelli agitati con l’astensione che riguardano prima di tutto la professione di avvocato, la sua attuale condizione e il suo futuro. In effetti, ciò su cui sarebbe necessario interrogarsi non è tanto l’immutabilità del giudice, che intesa in senso assoluto è prospettiva chimerica (basta pensare a questo proposito agli inevitabili trasferimenti, alle gravidanze, alle malattie, alla concomitanza di impegni), quanto la durata del processo che è oggetto di attenzione costituzionale. L’articolo 111 della Costituzione, infatti, non vuole solo evitare che l’imputato resti sotto processo “a tempo indeterminato”, ma anche impedire che un giudice deliberi ad eccessiva distanza di tempo dall’assunzione della prova con il rischio di muoversi non sul terreno della freschezza e vitalità della prova ma su quello della memoria sfocata dal tempo e della arida lettura dei verbali di dibattimento. E allora, l’Avvocatura organizzata dovrebbe ancora interrogarsi anche e soprattutto sul tema della eccessiva lunghezza dei processi che necessariamente consegna al futuro legislatore, anche costituzionale, il dovere di riflettere sulla obbligatorietà dell’azione penale, su di una seria depenalizzazione e su di un vero potenziamento dei riti cosiddetti alternativi. Ma perché queste nobilissime battaglie possano avere una qualche prospettiva di successo è necessaria la ricorrenza di una imprescindibile condizione, ovvero che politica e professione forense si dotino di eccezionale autorevolezza e credibilità ora del tutto mancanti. In effetti, manca una politica forte, credibile e capace, quindi, di proporre nuovi scenari legislativi, anche costituzionali, affrontando senza timidezza le resistenze del potere giudiziario (il termine costituzionalmente corretto sarebbe “ordine”, ma oramai nessuno più sembra ricordarselo) da sempre ostile nella gran parte dei suoi membri a certe modifiche ordinamentali nelle prospettive auspicate dall’Avvocatura. Se poche speranze sembrano emergere per un “rinascimento” politico, ancora più pessimista sono rispetto allo stato dell’Avvocatura. Purtroppo, gli ultimi anni hanno registrato una caduta ingravescente della sua qualità professionale essendone probabilmente le cause un sistema di reclutamento insensibile all’eccellenza, di un sistema di aggiornamento inefficace, la mancanza di ogni controllo su certi comportamenti imbarazzanti che vanno dalla inadeguatezza del “dress code”, alla mancanza di educazione nel senso comune del termine, tutto ciò nell’ambito di una situazione economica che ha drammaticamente fatto fuori, per dirla con Luigi Pirandello, il piacere dell’onestà. Gli stessi “numeri” della recente astensione hanno offerto una dimostrazione sconfortante di questo fenomeno: mentre le aule di udienza erano deserte con una partecipazione all’astensione quasi del 100%, all’assemblea della Camera Penale tenutasi in Tribunale le seggiole, a parte le “poltrone” istituzionali, erano quasi del tutto vuote. Non si tratta di un caso ma di disinteresse preoccupante da parte della quasi unanimità dei colleghi che mette in discussione le reali motivazioni della partecipazione all’astensione e che fanno crescere il sospetto di come possa essersi trattato del perseguimento non della tutela dei principi nobili sottesi alla iniziativa ma di fini di ben minore spessore. Auspico che l’Avvocatura, prima di intraprendere battaglie di così alto valore, si interroghi su se stessa e si muova efficacemente per recuperare quel ruolo di traino culturale, non solo in campo giudiziario, che la storia ha assegnato alle libere professioni, prima fra tutte quella forense. *Avvocato La riforma del Csm non riduce il correntismo e lascia irrisolta la questione morale di Andrea Reale Il Domani, 2 luglio 2022 Questa riforma della Giustizia, dannosa e incostituzionale, aggraverà i mali dell’autogoverno per la cui soluzione era stata ideata e invocata, comprometterà ulteriormente l’indipendenza dei singoli magistrati e accentuerà pesantemente i pericoli di condizionamento indebito della funzione giurisdizionale. La cosiddetta riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, approvata definitivamente col voto del Senato del 16 giugno scorso, è caratterizzata da palesi profili di incostituzionalità (con riferimento ad esempio agli artt. 51, 101, 104 e 107 Cost. solo per citarne alcuni) e tradisce i ripetuti moniti del Presidente della Repubblica alle forze politiche. Essa appare del tutto inidonea a contrastare le degenerazioni del correntismo e ha come effetto quello di ulteriormente consolidare e rafforzare il potere delle correnti nel sistema di governo dei magistrati. Si va esattamente nella direzione opposta rispetto alle finalità dichiarate dagli stessi “riformatori” e invocate dal Capo dello Stato. La strada scelta è quella di magistrati e di uffici giudiziari, anche giudicanti, organizzati secondo criteri sempre più gerarchicamente orientati, di un governo della magistratura fondato su un merito finto e arbitrario e invero monopolizzato da lobbies e partiti, esterni e interni all’ordine giudiziario. Il controllo diretto dei dirigenti degli uffici sull’operato dei singoli magistrati, in assenza di criteri obiettivi definitori dei carichi di lavoro esigibili predeterminati su tutto il territorio nazionale, costituirà una ulteriore mortificazione del difficile lavoro del giudice. Il pacchetto di riforma ministeriale, licenziato dal Parlamento, lede palesemente i fondamentali principi costituzionali di legalità, indipendenza e imparzialità della giurisdizione, presidi primi ed essenziali dei diritti delle persone. Offende macroscopicamente le tanto declamate richieste dell’Europa, che pretende, a garanzia di tali diritti, un giudice in grado di “agire senza alcuna restrizione, impropria influenza, istigazione, pressione, minaccia o interferenza, diretta o indiretta, di qualunque provenienza o per qualunque ragione” (vd. Rec(94)12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sull’indipendenza, l’efficienza e il ruolo dei giudici, che richiama, anche dal punto di vista letterale, l’art. 2 dei “Basic Principles” fissati dalle Nazioni Unite; vd. anche art. 3 statuto universale del giudice, approvato dall’Unione Internazionale dei magistrati, nel novembre del 2017 a Santiago del Cile). Qualcuno aveva sperato, vanamente, che il Presidente della Repubblica potesse rinviare alle Camere un intervento normativo contrassegnato da cotante criticità, come ebbe a fare un indimenticato predecessore di Sergio Mattarella nel 2014 in relazione ad altra riforma, di intensità assai minore della presente. Al contrario il testo è già stato promulgato in data 17 giugno 2022 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 giugno. I collegi territoriali - Tra le cose più sorprendenti vi è che già il giorno dopo l’entrata in vigore della legge il Ministero della Giustizia, con la collaborazione dei magistrati ivi distaccati, verosimilmente scelti con il manuale Cencelli tra le correnti, aveva già formato i bacini dei collegi territoriali in relazione alla nuova legge elettorale, approvati senza colpo ferire dalla stragrande maggioranza del CSM - delle correnti - la mattina del 23 giugno, a fronte di una richiesta di parere pervenuta il 22. In tempi record, dopo una inerzia protratta per tre anni dallo scoppio dello scandalo che ha travolto la magistratura italiana, nella imminenza delle elezioni - in evidente violazione dei codici etici in materia elettorale elaborati dalla Commissione di Venezia- il Governo ha modificato la legge che avrebbe dovuto debellare il correntismo e lo ha fatto con la benedizione dei partiti che occupano il CSM e con quella del Capo dello Stato. Non resta che ribadire, allora, che questa pseudo-riforma della Giustizia, dannosa e incostituzionale, aggraverà i mali dell’autogoverno per la cui soluzione era stata ideata e invocata, comprometterà ulteriormente l’indipendenza dei singoli magistrati e accentuerà pesantemente i pericoli di condizionamento indebito della funzione giurisdizionale, atteso che essa mira alla gerarchizzazione dei Tribunali con “pagelline”, verifiche della tenuta dei provvedimenti e sanzioni disciplinari per i direttivi che non segnalino criticità dei propri “subalterni”, in chiaro spregio dell’art. 107 della nostra Costituzione, che vorrebbe che i Magistrati si differenziassero soltanto per le funzioni svolte. La questione morale - Nel frattempo rimane del tutto irrisolta la questione morale scoperchiata dalle chat rinvenute sul telefono cellulare di un ex consigliere del CSM e dall’incontro nell’hotel Champagne di Roma di consiglieri in carica del CSM, politici ed ex componenti dell’organo di autogoverno. Mentre Luca Palamara e l’uscente Procuratore generale presso la Corte di Cassazione si promettono reciproche querele per le accuse incrociate nate a seguito della pubblicazione di un noto best-seller, resta il fatto che una direttiva del detentore monocratico del potere disciplinare nei confronti dei magistrati del 2020 ha di fatto amnistiato tutte le condotte di autopromozione e di etero-promozione dei magistrati presso il CSM, creando odiosi doppiopesismi in relazione a vicende passate e a quella che ha portato alla destituzione dall’Ordine giudiziario di Luca Palamara, di fatto premiando tutti quei direttivi e semidirettivi che hanno ottenuto il loro posto brigando con i singoli consiglieri e con i sodali di corrente. Il caso Salvi - La cosa strana è che per analoghe condotte commesse da altre categorie professionali (medici, professori universitari, amministratori di aziende sanitarie) anche in tempi recentissimi le persone coinvolte sono state raggiunte da provvedimenti cautelari personali o da sanzioni disciplinari esemplari. Per i magistrati, invece, la grave scorrettezza può essere di scarsa rilevanza e viene archiviata senza alcun vaglio giurisdizionale o di un organo terzo rispetto a quello dell’unico titolare dell’azione. E senza alcuna possibilità di consultare il provvedimento della Procura Generale presso la Corte di Cassazione, in virtù di un incomprensibile segretezza opposta da quell’Ufficio a chiunque possa averne interesse per comprendere le ragioni della benevola definizione del procedimento. Non è finita qui. Con una interpretazione particolarmente attenta a garantire la pretesa privacy dei suoi iscritti e tutelando oltre ogni misura l’asserito diritto di recedere liberamente dall’associazione, anche l’Anm ha consentito a decine e decine di colleghi coinvolti in condotte di interferenza nel funzionamento del Csm- che sicuramente integrano illeciti deontologici secondo il codice etico dell’Anm - di fuggire a gambe levate e “insalutato ospite” dal sindacato di magistrati, immediatamente dopo essere stati raggiunti dai provvedimenti di incolpazione e dalla loro convocazione davanti al collegio dei probiviri. Non c’è che dire: l’Anm e il Csm, e, soprattutto, le correnti che le governano in modo oligarchico, predicano bene e razzolano male. È facile comprendere la ragione per cui la fiducia nella credibilità e autorevolezza della magistratura sia crollata dal 70% al 30% in pochi anni. Se il trend proseguirà in questo modo, tra due anni saremo ai numeri relativi. L’unica speranza, a questo punto, è la strada dell’autoriforma, come quella che sta percorrendo, ad esempio, il Comitato Altra Proposta, promuovendo candidati sorteggiati per le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura. O come quella che auspichiamo intraprendano il Csm che verrà o l’attuale Anm con l’introduzione del criterio della rotazione negli incarichi direttivi e semidirettivi o con la individuazione dei carichi esigibili di lavoro. “Da Viareggio al Bataclan, giustizia penale non vuol dire vendetta” di Simona Musco Il Dubbio, 2 luglio 2022 Intervista a Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale alla Bicocca di Milano. “Nel processo si continua ad attribuire un ruolo predeterminato alla vittima, che tale è ai blocchi di partenza, e all’imputato, che è il carnefice. Si nega la funzione conoscitiva del processo, che finisce per ratificare queste certezze. La conseguenza è uno scivolamento verso la vendetta privata”. A dirlo al Dubbio è Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale alla Bicocca di Milano. Professore, si può parlare di un ritorno diffuso della giustizia come risarcimento delle vittime dei reati? Si afferma sempre di più l’idea che la persona offesa costituitasi parte civile non sia tanto latrice di una pretesa risarcitoria, quanto di una vera e propria pretesa punitiva. Si scivola sempre più verso il concetto della vendetta privata. Ma il nostro sistema di giustizia penale vede lo Stato come il monopolista della pretesa punitiva proprio per evitare che siano i privati a farsi giustizia da soli e a portare avanti in prima persona una richiesta punitiva. L’idea che sia la procura ad agire nei confronti dell’autore del reato è una garanzia di democrazia evoluta. Stiamo regredendo verso un sistema che non vorrei definire barbarico, ma che sicuramente lascia più spazio a quell’idea primitiva della giustizia penale intesa come affare privato. Vale anche nel caso della tragedia di Viareggio? Questo è un caso paradigmatico. Bisogna dirlo una volta per tutte: nel nostro sistema la pretesa risarcitoria della parte civile è messa al riparo dalla prescrizione già con la sentenza di prima grado. Quello che accade nei gradi successivi è ininfluente sulla validità della pretesa risarcitoria. Quando è stata dichiarata estinta la responsabilità di alcuni imputati in Cassazione, le parti civili hanno gridato allo scandalo, perché non veniva fatta giustizia. Però dal loro punto di vista giustizia era già stata fatta addirittura con la sentenza di primo grado. Il fatto che intervengano ancora adesso con la sentenza di appello bis è chiaramente il sintomo di un interesse punitivo. In più vorrei sottolineare un’altra cosa: noi continuiamo a parlare di “strage di Viareggio”, ma si tratta di una distorsione concettuale. La strage, nel nostro codice penale, è un delitto doloso, qui parliamo invece di un disastro colposo. Questo dipende anche dai media. È frutto del cortocircuito che porta alla regressione di cui parliamo? È molto indicativo. Anche nella narrazione mediatica vengono assimilati fatti che sono assolutamente incomparabili. Il nostro Paese ha conosciuto le stragi, ma non sono i fatti di Viareggio. Dal punto di vista dell’imputato, essere additato come l’autore di una strage è veramente fuorviante. Un’altra vicenda che ha creato molte aspettative e ha generato polemiche è quella che riguarda la mancata estradizione degli ex brigatisti. Ma perfino Mario Calabresi, figlio di una vittima di quel periodo terribile, ha sottolineato che non ha senso mettere in cella Giorgio Pietrostefani dopo mezzo secolo... L’idea di una pena retributiva, per cui ad un male di una certa gravità deve comunque corrispondere sempre una punizione di una certa gravità, non è quella fatta propria dalla Costituzione, che parla di pena rieducativa. E allora la pena deve fare i conti anche con il fattore tempo. La vicenda del Bataclan ci rassegna, invece, un’altra forzatura: Salah Abdeslam è l’unico a essere stato condannato all’ergastolo perché unico sopravvissuto tra gli attentatori e perché considerato “coautore” di ogni crimine commesso dal commando, anche se non ha partecipato materialmente alla sparatoria contro i poliziotti, l’unico evento che avrebbe consentito, data la legge vigente all’epoca, di condannare all’ergastolo ostativo l’imputato... Doveva essere una condanna esemplare. Il filo rosso che lega tutte queste storie è una torsione del sistema penale per dare una risposta che sia soddisfacente rispetto alle aspettative di vendetta privata. E questo è uno scivolamento verso qualcosa che pensavamo appartenesse solo al passato e che invece, purtroppo, sta tornando di estrema attualità. Come si inverte la rotta? Ci vorrebbe maggior fermezza da parte degli applicatori delle leggi, che dovrebbero comunque rispettare il quadro del sistema normativo e, soprattutto, dei valori costituzionali, che sono ben diversi rispetto a quelli della vendetta privata. E poi la politica dovrebbe riprendere una funzione di indirizzo direi quasi pedagogico, per trasmettere ai cittadini dei valori che ormai sembrano perduti. La politica però spesso - e anche nel caso di Viareggio - legifera rispondendo alle pulsioni dell’opinione pubblica... È quella che io chiamo legislazione emotiva. Adesso però abbiamo un banco di prova importante, perché la riforma Cartabia sta venendo a maturazione coi decreti delegati e se il governo la approverà anche sul versante della giustizia riparativa e del sistema sanzionatorio dovrebbe dare un segnale in netta controtendenza. Ma i partiti su questi punti hanno posizioni diverse… Abbiamo al governo un’ampia gamma di partiti che hanno, in qualche modo, fondato la loro fortuna elettorale anche su una visione populista e direi quasi primitiva della giustizia penale. Vediamo se avranno il “coraggio” politico di approvare questa riforma e ad un certo punto rivolgersi anche al loro elettorato per spiegare le ragioni di questa approvazione. Personalmente dubito che su alcuni punti le forze politiche saranno disponibili ad assumere la presa di posizione a cui sono chiamate, proprio perché il clima è questo: un cortocircuito mediatico-giudiziario che porta la politica a dare risposte ad aspettative di vendetta privata. La presenza delle parti civili nel processo penale come si inserisce in questo scivolamento? Nel processo penale la parte civile diventa un’accusa privata che porta ad una privatizzazione della giustizia. Sono da sempre d’accordo sull’idea di eliminare la parte civile dal processo penale, che peraltro sarebbe anche un modo per tagliare radicalmente i tempi del processo. La parte civile oggi come oggi porta due effetti deteriori: il primo è lo scadimento verso uno Stato che si fa strumento per un fine privato, il secondo è la monetizzazione della giustizia penale. Oggi come oggi avere una pena giusta significa passare inevitabilmente per un risarcimento integrale dei danni. Ed è un elemento di discriminazione, perché ovviamente l’imputato abbiente non avrà difficoltà a rispondere a questa richiesta, l’imputato meno abbiente invece ne avrà parecchia. In questo decadimento che ruolo gioca la stampa? Fondamentale, perché ha un effetto distorsivo. Si enfatizza l’idea che la giustizia penale debba rispondere ad un’esigenza di carattere retributivo e non a finalità diverse, di carattere costituzionale, che sono quelle rieducative o comunque di ricucitura dello strappo al tessuto sociale. Ma inteso come collettività, non come interesse del singolo. Qui invece c’è la legge del taglione, che è un principio inaccettabile. I media dovrebbero, come la politica, riappropriarsi di una funzione pedagogica, cioè spiegare esattamente anche quelli che sono gli interessi in gioco nel sistema penale. “Il futuro della giustizia tra garantismo, riforme e un codice dei crimini internazionali” di Viviana Lanza Il Dubbio, 2 luglio 2022 Intervista a Mariavaleria del Tufo, professoressa di Diritto penale all’università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Giustizia, criticità, riforme, la minaccia del panpenalismo e la rotta del garantismo, il processo giusto e il processo mediatico. E poi gli scenari futuri e le nuove sfide come quella dei crimini internazionali. Ne parliamo partendo proprio dai nuovi scenari internazionali visto che la professoressa è tra i componenti della Commissione sui crimini internazionali istituita dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Nei giorni scorsi la Commissione ha consegnato la relazione a conclusione dei lavori. Professoressa, perché una Commissione sui crimini internazionali? “Lo Statuto di Roma, firmato il 17 luglio 1998 e ratificato dall’Italia nel 1999, istituisce la Corte Penale internazionale - la prima giurisdizione penale internazionale a carattere generale e permanente - che può processare le persone fisiche sospettate di crimini di portata internazionale talmente gravi da minacciare la pace, la sicurezza e il benessere del mondo, quali l’aggressione da parte di uno Stato contro un altro Stato, il genocidio, i crimini contro l’umanità e l’apartheid, i crimini di guerra. Tali delitti, che riguardano l’insieme della comunità internazionale, non possono rimanere impuniti e la loro repressione deve essere efficacemente garantita a livello nazionale e internazionale. Ogni Stato Parte ha il dovere di esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti dei responsabili: la Corte penale internazionale interviene soltanto qualora lo Stato, o per assenza di volontà o per effettiva incapacità, non si sia attivato per perseguire tali reati. Per farlo è però necessario che disponga di strumenti giuridici adeguati, di cui l’Italia è ancora priva. La Commissione ha lavorato perché questa lacuna potesse essere colmata”. È stato proposto un codice... “L’intero Progetto di Codice costituisce una innovazione particolarmente significativa per il nostro ordinamento. In Italia infatti non c’è un corpus organico che disciplini i crimini internazionali. E proprio per la gravità eccezionale dei fatti, per la necessità di costruire una normativa specifica e coesa e di dotarla di visibilità e forza simbolica, la ministra Cartabia ha preferito che per tali crimini venisse elaborato un Codice ad hoc. È una novità anche la terminologia adottata: la parola “crimine” non è utilizzata nel linguaggio penalistico, che conosce il sostantivo “reato”, tecnicamente comprensivo di “delitti” e “contravvenzioni”. Si è invece voluto riprendere il lessico dello Statuto e la Ministra ha richiesto la scrittura di un Codice di crimini internazionali, anche per sottolineare la specifica pregnanza della nuova disciplina. Ovviamente, con l’uso del termine “crimini” ci si riferisce ai delitti. La proposta di Codice dei crimini internazionali, se tradotta in legge, permetterà all’Italia di disporre di una serie di disposizioni penali, corrispondenti per la massima parte a quelle previste dallo Statuto, ma descritte con maggior precisione e munite delle relative sanzioni, che il giudice interno potrà applicare nei confronti delle persone riconosciute responsabili di crimini internazionali. Il Codice introduce anche una serie di norme di carattere generale che prospettano le regole da osservare in materia, ad esempio, di giurisdizione, di immunità, di responsabilità per ordine del superiore, di confisca ecc. Alcune scelte, come ad esempio quelle relative all’autorità giudiziaria chiamata a procedere per i crimini commessi da appartenenti alle forze armate italiane, o quelle attinenti all’inserimento della responsabilità degli enti, di carattere non soltanto tecnico, sono state rimesse a una decisione politica, ma anche per questi casi la Commissione ha presentato un articolato completo, sia pur alternativo, in grado di sostenere l’opzione ritenuta preferibile dal legislatore. Vorrei sottolineare come novità l’introduzione di una fattispecie di genocidio culturale, in base alla quale è punibile chiunque, per distruggere anche parzialmente un gruppo, metta in opera pratiche dirette a rimuoverne i caratteri identitari, ma anche le “nuove” previsioni dei crimini di aggressione e di apartheid”. L’idea di una giustizia che vuole stare al passo con i tempi è positiva, ammesso che nei fatti si riesca a garantire una giustizia realmente giusta. Nel nostro Paese purtroppo non sempre è così e le criticità sono ancora molte, dalla durata del processo alle carceri sovraffollate, alla riforma mancata. Come si può sperare di migliorare la giustizia italiana? “Il discorso sulla giustizia in senso ampio è veramente troppo complesso per poter essere sintetizzato in poche parole. Oggi i problemi da risolvere immediatamente, anche per rispettare le stringenti indicazioni europee, riguardano la numerosità e la lunghezza dei processi. Tuttavia è l’intera giustizia che dovrebbe essere riformata: e con ciò mi riferisco non soltanto al diritto penale sostanziale e al processo, ma all’intera organizzazione della macchina giudiziaria. Ci sono poi aspetti, quale il sovraffollamento delle carceri, che non possono aspettare oltre per trovare una soluzione, e vorrei soltanto ricordare che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 Cedu (divieto di tortura) proprio in riferimento a tale profilo, senza riuscire a tutt’oggi a provvedere in maniera adeguata. Ripensare il carcere è un obiettivo primario. In generale, lavorare per riforme di comparto non è un metodo soddisfacente in grado di assicurare una ristrutturazione organica del sistema o un profondo ripensamento dei paradigmi di intervento. In queste contingenze storiche e politiche è tuttavia difficile pensare a una possibile soluzione complessiva che richiederebbe tempo, una maggioranza politica ampia e coesa, con conseguente convergenza di obiettivi”. Pensa anche lei che sarebbe necessaria una seria depenalizzazione? E per quali reati? “La depenalizzazione sarebbe un’ottima strada, visto il numero di reati presenti nell’ordinamento. Già la “riserva di codice” prevista dall’articolo 3 bis del codice penale tende a una moral suasion nei confronti del legislatore rispetto all’introduzione nel sistema di nuove fattispecie di reato. Si potrebbe sicuramente procedere alla depenalizzazione per i reati di modesta entità, sanzionandoli in via amministrativa e lasciando al diritto penale soltanto la cognizione di fatti che per la loro gravità appaiano meritevoli di pena. Sarebbe tuttavia quanto mai opportuno non intervenire in maniera sporadica e contingente, come spesso è accaduto nel nostro Paese, ma di inserire tutto ciò in un quadro più generale, e organico, di intervento”. Garantismo e giustizia: come superare il populismo giustizialista e il panpenalismo degli ultimi decenni? “Populismo giustizialista e panpenalismo degli ultimi anni corrono sugli stessi binari, ponendosi come risposta all’allarme “percepito”, o fatto percepire al corpo sociale. Il diritto penale, da ultima ratio, da diritto penale estremo ma necessario per sanzionare fatti altrimenti ingestibili, viene così trasformato in primo strumento di intervento per reagire in modo del tutto irrazionale a bisogni indotti di rassicurazione, di individuazione di “bersagli da colpire”, di “colpevoli a tutti i costi”, di “capri espiatori”, tradendo completamente la sua funzione. Ciò ben si inserisce in un contesto di diritto penale “mediatico”, molto spesso esclusivamente simbolico, che ne favorisce un uso profondamente improprio: recuperare un sistema razionale di gestione dei problemi e dei bisogni sociali è compito arduo ma indispensabile per preservare ineludibili valori di civiltà ancor più in momenti, come quello che stiamo vivendo, di difficili transizioni”. Ma che cosa ha fatto esattamente Moretti nella strage di Viareggio? di Giorgio Meletti Il Domani, 2 luglio 2022 La sentenza del quarto processo per la strage di Viareggio è stata letta nel pomeriggio del 30 giugno in un’atmosfera da corrida. I capi della società Gatx proprietaria del carro esploso a causa della rottura di un asse “criccato” e i responsabili della società italiana che ha fatto male la manutenzione sono stati pesantemente condannati. Ma Moretti, essendo a capo delle Fs il giorno dell’incidente, qualche colpa la deve avere per forza, anche se, dopo 13 anni e quattro processi ancora nessuno è in grado di dire con precisione che cosa abbia fatto per meritarsi 5 anni di carcere. “Adesso sentiamo profumo di giustizia”, dichiara al Corriere della Sera Tiziano Nicoletti, uno dei legali delle famiglie delle vittime. Il clima è questo. Sembra di sentire la voglia di odore di napalm del colonnello Bill Kilgore in Apocalipse Now. La sentenza del quarto processo per la strage di Viareggio è stata letta nel pomeriggio del 30 giugno in un’atmosfera da corrida. Profuma di giustizia la condanna dell’ex numero uno delle Fs Mauro Moretti, dell’altro ex Michele Elia e dell’ex amministratore delegato di Trenitalia Vincenzo Soprano. Per i familiari delle 32 vittime bruciate vive la notte del 29 giugno 2009 la giustizia coincide con la condanna di Moretti, dichiarato colpevole dal sentimento popolare il giorno dopo il tragico incidente, quando è andato a Viareggio e ha detto subito, con una decisione inadatta al luogo e alle circostanze, ciò che 13 anni di indagini e processi hanno puntualmente confermato: “Dalle prime evidenze i macchinisti non hanno fatto errori. Sempre dalle prime evidenze c’è stato un cedimento strutturale nel primo carro: si è spezzato l’asse. I 14 carri del convoglio hanno immatricolazione delle ferrovie polacche e tedesche, e appartengono tutti ad una società viennese, rispondono a norme di trasporto dell’Unione europea e dell’Onu. I controlli sull’asse fanno parte di quelle revisioni che sono obbligatorie per le società. Dal controllo delle scadenze apposte sui vagoni sembra che la revisione sia stata effettuata regolarmente”. Le accuse a Moretti - I capi della società Gatx proprietaria del carro esploso a causa della rottura di un asse “criccato” e i responsabili della società italiana che ha fatto male la manutenzione sono stati pesantemente condannati. Ma Moretti, essendo a capo delle Fs il giorno dell’incidente, qualche colpa la deve avere per forza, anche se, dopo 13 anni e quattro processi ancora nessuno è in grado di dire con precisione che cosa abbia fatto per meritarsi 5 anni di carcere. Non lo hanno chiarito i giudici nelle tre sentenze precedenti, non le ha chiarite la pubblica accusa in questo quarto processo e probabilmente non lo chiariranno neppure le motivazioni della sentenza di giovedì, visto che è stata emessa interpretando la confusa sentenza di rinvio della Cassazione in senso restrittivo. Sono state rimodulate le pene (Moretti scende da 7 a 5 anni) dando per scontato che la Suprema corte avesse comunque confermato il giudizio di colpevolezza, cosa non chiara e che sarà al centro del nuovo giudizio in Cassazione, destinato a intricare ulteriormente la matassa. L’unica certezza è la responsabilità oggettiva: se un incidente ferroviario uccide 32 persone il numero uno deve per pura legge logica andare in galera. Il processo popolare - Ma è proprio il 1 luglio 2009 che scatta il processo popolare, e purtroppo non solo popolare, a Moretti. Se il codice penale prevedesse il reato di antipatia l’ex manager ferroviario sarebbe forse il candidato ideale all’ergastolo. Ma colpisce che questo spirito dei tempi tenga sotto assedio le aule di giustizia, non solo alimentando un labirinto processuale privo di logica. Quando l’imputato, giovedì mattina, ha chiesto la parola a chiusura del dibattimento, esercitando un suo diritto basilare, il pubblico in aula ha protestato contro la tracotanza di volersi difendere, voltando le spalle alla corte e costringendo il presidente a sospendere la seduta. Mentre Moretti parlava l’assessore toscano alle Infrastrutture Stefano Baccelli (un uomo delle istituzioni, come si ama dire) ha protestato via Facebook accusando l’imputato così: “Ha voluto avere l’ultima parola”, come se fosse una sua prepotenza e non un caposaldo della procedura penale, con l’aggravante di aver inflitto al pubblico “la sua saccente, egocentrica, auto assolutoria, scaricabarilistica ed infinita prolusione”. E c’è una cosa ancora più grave che riguarda l’insoddisfatta sete di giustizia delle famiglie delle vittime, delle quali bisogna sempre parlare con il rispetto dovuto a chi, in questa vicenda, paga comunque un prezzo superiore a quello dei condannati. Il giorno dopo la sentenza, in una conferenza stampa, una delle più agguerrite familiari delle vittime, Daniela Rombi, ha detto: “Adesso la verità è emersa ancora più forte e decisa: confermando le condanne, la sentenza del processo di appello bis per la strage di Viareggio ribadisce che ci sono delle responsabilità precise e che riguardo alla sicurezza il sistema è totalmente sbagliato. In 13 anni non è stato fanno nulla per cambiare le cose”. Con il che si sostiene che le condotte non solo omissive con cui Moretti avrebbe reso possibile o non impedito la strage del 2009 proseguirebbero immutate da 13 anni ad opera dei vari manager che si sono succeduti al suo posto, senza che però sia mai più esploso un carro cisterna carico di gpl. Torna la domanda: che cosa ha fatto Moretti e che cosa continuano a fare gli altri? Il sistema - Giovedì sera, durante il programma radiofonico Tra poco in edicola su Radiouno, il conduttore Stefano Mensurati l’ha chiesto all’avvocato di parte civile Gabriele Dalle Luche. Il quale ha risposto: “Siamo di fronte a una sentenza storica perché per la prima volta siamo alla condanna di manager di Stato, di certo quello che emerge da questi quattro processi è che, se tutti sono stati condannati, evidentemente il sistema delle ferrovie italiane non funzionava”. All’insistenza del giornalista perché andasse oltre la tautologia indicando una colpa concreta di Moretti, l’avvocato ha replicato che la Cassazione ha stabilito che “le scelte di Moretti sono di alta amministrazione, la scelta di individuare dove investire e dove no”. Il manager avrebbe scelto di risparmiare sulla sicurezza del trasporto merci pericolose per migliorare il conto economico delle Fs. Non solo. Avrebbe anche scelto di prendere in affitto da società straniere i carri merci anziché comprarli, sempre per risparmiare. L’avvocata di Moretti Ambra Giovene, ha documentato che Trenitalia al momento dell’incidente di Viareggio aveva in affitto poche decine di carri merci contro 45 mila di proprietà. E che l’incidente ha coinvolto un convoglio di 14 carri che faceva 24 viaggi all’anno, da confrontarsi con 3,5 milioni di treni merci circolanti ogni anno in Italia. Non solo. Moretti, nelle sue dichiarazioni spontanee a fine dibattimento, ha anche dimostrato che l’eventuale e non dimostrata omessa sicurezza sulle poche decine di carri in affitto avrebbe fatto risparmiare al gruppo Fs, che fattura ogni anno quasi 10 miliardi di euro, la cifra esatta di euro 70 mila. In realtà l’accusa di aver causato l’incidente di Viareggio con la sua politica di risparmi sul trasporto delle merci pericolose non figura tra i pur generici capi d’imputazione contestati a Moretti. Ma c’è di più. Il procuratore generale Salvatore Giannino, che in modo abbastanza inusuale ha sostenuto l’accusa sia nel primo grado al tribunale di Lucca sia nei due processi di appello, nella sua requisitoria del 28 aprile scorso ha concentrato la sua offensiva su due dirigenti Fs, Francesco Favo ed Emilio Maestrini, responsabili diretti della sicurezza e della manutenzione dei carri in circolazione sulla rete ferroviaria italiana. E ha contestato a Favo, chiedendone perciò la condanna, di non aver colpevolmente tenuto conto della nota di “prescrizione” del 2006, identificata con il numero 283, cioè un ordine proveniente da Rfi, la società che gestisce la rete ferroviaria, in cui, dice Giannino, “si parla proprio della manutenzione del materiale rotabile, modalità di controllo e validazione delle forniture di manutentivi affidati a parti terze, quindi nel 2006 Rfi aveva annunciato questa criticità”. Il fatto è che quella nota era firmata proprio da Moretti, il quale però, dice Giannino, “pur avendola sottoscritta ed essendo al vertice all’epoca della struttura che doveva occuparsi di verificare l’adempimento degli oneri in materia di sicurezza, se n’è totalmente disinteressato”. Favo e Maestrini sono stati assolti. Quindi Moretti firma una direttiva, Giannino accusa Favo e Maestrini di non averla rispettata, la corte d’appello assolve i due ma condanna Moretti che, evidentemente, è colpevole di non essere andato a controllare personalmente la manutenzione di ogni singolo carro. La prossima puntata di questa fiction giudiziaria sarà il nuovo passaggio, non semplice, in Cassazione. Intercettazioni, trojan limitato ai dati dinamici. No a copie di foto e contatti di Elisabetta Busuito Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2022 In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni mediante captatore informatico (trojan horse), la riforma introdotta dal Dlgs 29 dicembre 2017, n. 216, come ripetutamente modificata - da ultimo - dal Dl 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, si applica solo ai procedimenti penali iscritti dal 1° settembre 2020, con la conseguenza che quelli in materia di criminalità organizzata iscritti anteriormente a tale data sono soggetti alla disciplina precedentemente in vigore, nel rispetto dei principi affermati dalle sezioni Unite Scurato. Tra le principali innovazioni apportate dalle più recenti novelle legislative che hanno interessato la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni riveste un ruolo centrale il D.Lgs. n. 216/2017 che, nel recepire e positivizzare l’approdo cui erano giunte le Sezioni Unite Scurato del 2017, ha regolato una nuova forma di intercettazione: il c.d. trojan horse o captatore informatico. Il captatore consiste in un malware installato dagli investigatori su un apparecchio o dispositivo dotato di connessione telematica attiva (si pensi ad un dispositivo elettronico portatile) che consente di captare in qualsiasi momento i dati del traffico (sia in entrata che in uscita), di attivare da remoto il microfono e la telecamera registrando le attività in corso, di sondare gli hard disk e di fare copia integrale del loro contenuto e, ancora, di intercettare quanto viene digitato sulla tastiera del device (c.d. keylogger), di riprodurre le immagini e i documenti visualizzati fotografandoli attraverso la funzione screenshot. Risulta evidente che si tratta di uno strumento inedito particolarmente invasivo, mercé il quale diviene suscettivo di captazione non soltanto il suono carpito dal microfono del dispositivo elettronico, ma anche le immagini riprese dalla webcam, i files e i dati in esso contenuti. Inoltre, tale forma intercettativa consente di geolocalizzare il dispositivo posto sotto controllo, di guisa da realizzare un pedinamento dinamico, di tipo elettronico, del soggetto che ha la materiale disponibilità del dispositivo. Proprio in ragione di tale invasività il recente D.L. n. 132 del 2021 ha posto un ulteriore presidio di garanzia, stabilendo all’art. 267 c.p.p. che il decreto motivato autorizzativo dell’intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile debba indicare le “specifiche ragioni” che rendano necessaria tale modalità investigativa. Nei mesi scorsi la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi (e far chiarezza) su una interessante questione giuridica dallo spiccato sapere applicativo, legata al crescente impiego del captatore informatico nel contesto investigativo, e cioè: se possano essere inquadrate alla stregua di intercettazioni informatiche o telematiche e, quindi, ritenute legittime e utilizzabili anche le attività di c.d. online surveillance esperibili attraverso il captatore informatico. In particolare, la questione si è posta all’attenzione del Giudice di legittimità nell’ambito di una vicenda cautelare relativa a un’ipotesi di frode carosello IVA e di autoriciclaggio, in cui il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria aveva significativamente valorizzato, quale elemento indiziario a carico dell’indagato, destinatario di una misura custodiale in carcere, un file excel sul computer in uso a quest’ultimo, contenente la contabilità delle operazioni economiche ritenute illecite; file che era stato rilevato dal malaware inoculato sul device tramite l’utilizzo della funzione di screenshot del captatore informatico. Questa la vexata quaestio: come qualificare giuridicamente tale attività di ricerca della prova? Siamo in presenza di una vera e propria intercettazione, assoggettabile alla disciplina di cui agli art. 266 c.p.p. e seguenti, oppure di una peculiare specie di ispezione e perquisizione informatica? Da un lato, prende forma la lettura esegetica fatta propria dal Tribunale del Riesame, che ha configurato la predetta attività alla stregua di un’intercettazione in senso stretto, in forza del rilievo che l’acquisizione del prospetto excel era stata contestuale e inscindibilmente correlata alla captazione in corso, costituendo un’estrinsecazione della captazione stessa. Dall’altro, l’indagato, nell’impugnare innanzi la Suprema Corte l’ordinanza cautelare, ha censurato tale lettura, ritenendo che l’attività di online surveillance, in concreto realizzata dagli investigatori, dovesse essere ricondotta nel paradigma definitorio e regolativo della perquisizione. Di conseguenza, arguisce il ricorrente, l’attività intrusiva, in quanto assimilabile a una perquisizione informatica con conseguente acquisizione del documento informatico tramite sequestro, dovrebbe stimarsi illegittima in considerazione del fatto la stessa sarebbe stata eseguita da remoto e, soprattutto, in violazione delle norme e delle garanzie difensive e tecniche che il combinato disposto degli artt. 244 e 247, comma 1-bis, c.p.p. detta per l’esecuzione dell’ispezione e perquisizione informatica: ad esempio, il diritto di assistenza del difensore, l’invio dell’informazione di garanzia, l’implementazione delle misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali. Così delineati i due poli tematici che fanno da sfondo alla pronuncia in commento (Cass. Pen., Sez. I, 7 ottobre 2021, dep. 1° febbraio 2022, n. 3591, ric. Romeo), deve evidenziarsi che il Supremo Collegio, rigettando il ricorso, si è uniformato all’interpretazione del Tribunale del Riesame. A sostegno della decisione si è ritenuto tranchant osservare che: • la “attività investigativa non ha riguardato l’estrapolazione dal supporto digitale di documenti informatici preesistenti all’attività intercettiva, bensì esclusivamente la captazione di flussi di dati in fieri, cristallizzati nel momento stesso della loro formazione. Una tale attività di mera “constatazione” dei dati informatici in corso di realizzazione, pur non costituendo una “comunicazione” in senso stretto, costituisce certamente, invece, un comportamento cd. comunicativo, del quale è ammessa la captazione - previo provvedimento autorizzativo dell’AG - nonché la videoregistrazione, dunque anche la fotografia, nel caso di specie mediante screen shot della schermata. • Pertanto, non è stata ravvisata alcuna perquisizione, essendo mancata qualsiasi ricerca e successiva estrapolazione di materiale preesistente dal supporto informatico, e - deve aggiungersi - non rileva che in tale prospetto in fieri figurino dati preesistenti alla sua formazione, ciò risultando necessitato dalla natura del medesimo, riportante poste di contabilità, ex se riepilogative di operazioni economiche già effettuate ovvero in corso di realizzazione, delle quali si aggiorna annotazione e memoria. Come è stato affermato in arresti giurisprudenziali di questa Corte, “sono legittime le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche, di cui all’art. 266-bis cod. proc. pen., effettuate mediante l’istallazione di un captatore informatico (c.d. “trojan horse”) all’interno di un computer collocato in un luogo di privata dimora” (Sez. 5, n. 48370 del 30/05/2017, Occhionero, Rv. 271412).” A ben vedere, al fondo di tale dictum si pone una lettura estensiva della nozione di comportamento comunicativo che consente, nella prospettiva della Corte, di ricondurre nell’alveo della disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche ex art. 266-bis c.p.p. anche le attività di sorveglianza poste in essere mediante il captatore informatico e i dati informativi così acquisiti. Tuttavia, non può trascurarsi che tale lettura pare stridere con gli approdi a cui era precedentemente pervenuta la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di intercettazioni. In particolare, sostenere che lo screenshot di un file visualizzato tramite captatore informatico costituisca un’attività strettamente intercettativa: a) mai si concilia con la granitica definizione di intercettazione elaborata dalle Sezioni Unite Torcasio del 2003: “la captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti “; b) così come diverge, in sostanza, dall’esegesi giurisprudenziale che qualifica come comportamenti comunicativi quegli “ atti finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero con la parola, i gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo, mentre sono comportamenti “non comunicativi” […] tutti quelli, diversi dai primi, che rappresentano la mera presenza di cose o persone ed i loro movimenti, senza alcun nesso funzionale con l’attività di scambio o trasmissione di messaggi tra più soggetti “ (Cass. Sez. III, 21 novembre 2019, n. 15206)”; c) ancora, collide con l’oggetto dell’intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche previsto dall’art. 266-bis c.p.p. che, per espressa previsione legislativa, inerisce al flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi. Al riguardo, merita far menzione dell’insegnamento pretorio alla luce del quale “per flusso di comunicazioni deve intendersi la trasmissione , il trasferimento, di presenza o a distanza , di informazioni da una fonte emittente ad un ricevente, da un soggetto ad altro […] non potendo ritenersi sufficiente l’elaborazione del pensiero e l’esternazione, anziché mediante simboli grafici apposti su un supporto cartaceo, in un documento informatico realizzato mediante un sistema di videoscrittura ed in tal modo memorizzato” (Cass. Pen., Sez. V, 14 ottobre 2009, n. 16556, sentenza Virruso). Tali discrasie, da leggersi in uno con il crescente utilizzo che viene fatto del captatore informatico in ambito investigativo e della sua natura particolarmente insidiosa e impattante sulla tutela dei diritti fondamentali della persona, rendono condivisibile l’opinione che va acquisendo sempre più credito in dottrina, secondo la quale è quanto mai opportuno un preciso intervento del legislatore volto a regolare analiticamente l’esecuzione e il regime probatorio delle attività di online surveillance esperibili tramite il captatore informatico, così da bilanciare i contrapposti interesse che sono in gioco. Calabria. I penalisti in subbuglio: “In sciopero contro la fine dello Stato di diritto” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 luglio 2022 Proclamata l’astensione per il 14 e il 15 luglio. “Il processo trasformato da luogo della cognizione a strumento mediante il quale lo Stato regola i propri conflitti sociali”. Esiste ancora lo Stato di diritto in Calabria? Il dubbio sorge a leggere le motivazioni con le quali per i prossimi 14 e 15 luglio le Camere penali territoriali hanno proclamato due giorni di astensione dalle udienze. È la prima volta che tutte insieme organizzano unitariamente una iniziativa di questo tipo, a significare che la situazione è grave, a partire dalla “trasformazione del processo da luogo della cognizione del fatto di reato e della responsabilità individuale a strumento mediante il quale lo Stato regola i propri conflitti sociali”. Non a caso la Calabria era stata scelta ad inizio anno quale luogo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione delle Camere Penali. ““Se” il contrasto alla criminalità è obiettivo condiviso e condivisibile, non più differibile - denunciano i penalisti calabresi - è una chiara e netta presa di posizione dell’Avvocatura che riguardi il “come” e con quali “effetti” concreti sulla vita dei cittadini ciò stia avvenendo”. Alcuni esempi emblematici: “Lo squilibrio interno alla giurisdizione è esteriorizzato (anche) dal rapporto quantitativo - non più tollerabile - tra il numero (elevato) di requirenti e il numero (esiguo) di giudicanti nelle Sezioni giudiziarie in cui si decide la libertà personale ed economica dei cittadini”. Per non parlare del fatto che “il sistema della “pesca a strascico”, prodotto nei fatti dalla riesumazione dagli archivi del modello inquisitorio, ci costringe ad assistere oramai disarmati - in danno dei cittadini - all’abuso nell’applicazione e nel mantenimento delle misure cautelari, con ribaltamento ideologico e di sistema della presunzione di innocenza; un abuso costante, reso ancora più insopportabile dal circuito mediatico-giudiziario che si attiva nella fase, spesso spettacolare (con buona pace dei moniti europei), di esecuzione delle misure coercitive”. Senza dimenticare poi che la Calabria detiene “il primato costante del numero degli errori giudiziari, rispetto ai quali i Distretti di Reggio Calabria e Catanzaro si posizionano, costantemente, in cima alle classifiche”. Ma forse la questione più stigmatizzabile di questa “erosione dei principi fondamentali dello Stato di diritto e del garantismo penale” riguarda la vicenda “degli “appelli cautelari”, emersa solo nello scorso mese di febbraio, nella quale l’Avvocatura ha appreso, accidentalmente, della illegittima corsia preferenziale riservata (con circolare interna!) alle impugnazioni del requirente; una prassi “esclusiva” pensata e voluta dall’allora Presidente facente funzioni del Tribunale del Riesame di Catanzaro che, in violazione del principio di legalità processuale, per otto mesi ha sovvertito i criteri normativi fissati dal codice di rito, in una materia, quella cautelare, invece presidiata dal principio costituzionale del minor sacrificio possibile per la libertà personale”. Ma l’elenco non finisce qui: “nei maxi-processi (e, in alcuni circondari, anche nei giudizi monocratici) si assiste impotenti al fenomeno delle udienze fiume, senza vincoli di orario, in cui molto spesso viene modificato “a sorpresa” l’ordine prestabilito dei testi a carico da escutere, con conseguente mortificazione dell’attività del difensore, impossibilitato in tal modo ad offrire ai propri assistiti una risposta qualitativa idonea a tutelarne i diritti”. Un altro campo minato è il sistema della prevenzione che “segna un trend sbilanciato sugli accenti autoritari e di polizia che caratterizzano le c.d. misure ante o praeter delictum, la cui esondazione ha travolto persino il terreno delle misure patrimoniali non ablative, con effetti devastanti sul circuito dell’economia legale; in tal modo, abbandonando la logica recuperatoria che ne ispira il “sotto-sistema”, spesso si decide la “morte aziendale” dell’imprenditoria sana”. Per tutto questo, ma non solo, “i penalisti calabresi intendono lanciare con forza un grido di allarme, nella convinzione che i principi costitutivi del nostro patto sociale e con essi gli argini della legalità costituzionale debbano essere riedificati”. Genova. Monitorato in carcere, 70enne riesce a togliersi la vita. Il pm apre un’inchiesta Marco Fagandini Il Secolo XIX, 2 luglio 2022 La procura di Genova ha aperto un fascicolo per capire se il suicidio dell’anziano poteva essere evitato. Ieri sera il sostituto procuratore Patrizia Petruzziello ha effettuato un sopralluogo in carcere accompagnata dal medico legale Francesco Ventura e dalla polizia scientifica. Con una chiave a T, un utensile di metallo, aveva colpito più volte la compagna alla testa, nel sonno. Un’esplosione di violenza avvenuta nella notte fra il 21 e il 22 giugno scorso. L’altro giorno, in carcere a Marassi, dove si trovava in seguito al provvedimento di fermo per tentato omicidio emesso nei suoi confronti, il settantenne di Sori si è tolto la vita. Sulla tragedia il sostituto procuratore Patrizia Petruzziello ha aperto un fascicolo per il reato di istigazione o aiuto al suicidio. Un passaggio tecnico, per poter eseguire l’autopsia, affidata al medico legale Francesco Ventura. Quello che vogliono verificare gli inquirenti, infatti, è se, oltre alle misure prese in carcere, poteva essere fatto qualcos’altro per evitare un epilogo del genere. L’ipotesi, insomma, è di una possibile omissione, non di un’istigazione attiva al suicidio. Incentrata, tra l’altro, sul fatto che l’uomo fosse in una cella monitorata da telecamera. Secondo quanto ricostruito sinora da chi indaga, il settantenne si è tolto la vita intorno alle 15.30. In circa 10 minuti, il tempo in cui i suoi due compagni di cella erano usciti all’aria aperta. Dopo il lungo sopralluogo del magistrato, del medico legale e della scientifica, è stata esclusa in maniera quasi definitiva la pista di un’aggressione mascherata da gesto volontario. L’uomo, che era stato fermato dai carabinieri, si trovava a Marassi nella sezione di assistenza sanitaria intensiva, dopo cinque giorni di isolamento per scongiurare eventuali infezioni da Covid. Il 23 giugno lo psichiatra che lo aveva sottoposto a un colloquio avrebbe escluso intenti suicidi. Ma anche in considerazione della sua età e del reato commesso (a muovere l’uomo sarebbe stata la gelosia, per gli inquirenti) era stato escluso l’inserimento in una normale sezione. Ecco quindi il trasferimento nella cella video sorvegliata. La Procura aveva chiesto di monitorarlo in funzione della perizia che, di lì a pochi giorni, avrebbe dovuto valutare la sua capacità di intendere e volere. Ma quella videocamera, le cui immagini dovrebbero essere osservate 24 ore su 24 dalla polizia penitenziaria, non è riuscita a scongiurare la tragedia. Perché, si chiedono gli investigatori. Secondo gli accertamenti dei carabinieri, alcuni mesi fa l’uomo era stato trasferito in pronto soccorso dopo aver ingerito una forte dose di farmaci. Un campanello d’allarme, per gli inquirenti. Ma non emerso nei colloqui a Marassi con lo psichiatra. “Le carceri della Liguria non possono più reggere il peso dell’indifferenza dell’amministrazione penitenziaria - dice Michele Lorenzo, segretario per la Liguria del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - è indispensabile incontrarci e capire cosa non funziona. Crediamo sarebbe stato opportuno che quest’uomo, forse, venisse assegnato a una Rems, non accompagnato in un carcere”. Si tratta delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (che hanno soppiantato gli ex ospedali psichiatrici giudiziari). In realtà, per accedervi una persona deve essere già stata dichiarata inferma o seminferma e pericolosa, attraverso una perizia. E deve essere stata emessa nei suoi confronti una misura di sicurezza provvisoria. Nessun giudice aveva però disposto nulla di tutto ciò per il settantenne. Venerdì Il Secolo XIX ha cercato di contattare i vertici del carcere, ma senza ottenere risposta. Nel frattempo sono migliorate le condizioni della compagna dell’uomo. Bergamo. In pochi giorni muoiono due detenuti, avrebbero fatto abuso di psicofarmaci di Sabrina Pedersoli bergamonews.it, 2 luglio 2022 Due morti nel giro di pochi giorni nel carcere di via Gleno. Si tratta di due uomini di origini nordafricane detenuti nella quarta e ottava sezione, che avrebbero fatto abuso di psicofarmaci. Un dato che fa riflettere e che rispecchia la situazione critica delle carceri, amplificata dall’esasperazione e dal sovraffollamento. A dimostrarlo gli episodi che si sono verificati nelle scorse settimane, con un agente della Polizia Penitenziaria rimasto ferito. “Quella del carcere di Bergamo è una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende pericoloso il lavoro degli operatori, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero. Il Ministro Cartabia da più di un anno parla di forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi. Ma a oggi sono solo parole. Venga a Bergamo e resti in cella 24 ore. Poi ne riparliamo”, aveva commentato Alex Galizzi, consigliere regionale della Lega e vicepresidente della Commissione Antimafia. E infatti, a Bergamo, i posti regolamentari sono 315, mentre il totale dei detenuti ammonta a 487. “Troppi detenuti e pochi agenti”, aveva sottolineato il sindacato Fns Cisl in seguito ai fatti. Fanno riflettere anche i dati diffusi dalla relazione annuale del Garante al Parlamento. Oltre mille persone in Italia in cella con condanne di meno di un anno, duemila donne, venti con figli al seguito; 1800 gli ergastolani e solo lo scorso anno 29 suicidi e 17 detenuti morti per cause ancora da accertare. Numeri impressionanti. Nelle carceri italiane ci sono 54.846 detenuti, con le consuete contraddizioni per via dell’alto numero di persone in attesa di giudizio; 35.184 i condannati in via definitiva. Alto anche il numero di detenuti cittadini stranieri: 17.184. Il maggior numero di detenuti (11.480) deve scontare pene tra i 5 e i 10 anni. In attesa che il Parlamento sciolga il nodo dell’ergastolo ostativo (riguarda i mafiosi), va sottolineato il dato degli ergastolani: al momento sono 1.838. Milano. Bollate, Cartabia: “Il carcere della Costituzione è possibile” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 2 luglio 2022 “Il carcere della costituzione è possibile”. Visita i laboratori del carcere di Bollate la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e lo dice e lo ripete. Mentre parla con le detenute impegnate nella sartoria, con gli operai della falegnameria, con gli impiegati del call center, con chi produce mascherine chirurgiche oppure è nel laboratorio informatico Cisco, dove gruppi di detenuti vengono formati, conseguono un diploma, e poi trovano un impiego. La Guardasigilli, al suo arrivo nella casa circondariale milanese, è stata accolta dal direttore, Giorgio Leggieri, dall’AD della Cisco Italia, Gianmatteo Manghi, dal presidente della Cooperativa Universo - Cisco Accademy, Lorenzo Lento, e dalla comandante di reparto, Samuela Cuccolo, che l’hanno accompagnata prima nelle aule di informatica, dove intanto proseguivano le lezioni, e poi nell’area industriale. “Io parlo del carcere della Costituzione, voi ne siete la prova, voi lo fate” ha ribadito la Guardasigilli. La Ministra si è poi spostata nel teatro del carcere, per partecipare alla proiezione del documentario “Second chance”, curato da Cristiana Capotondi, voce narrante. “Di una seconda chance - ha detto Marta Cartabia, che aveva nel frattempo preso appunti per condividere con i presenti le sue sensazioni “come si fa in famiglia quando si vede qualcosa di bello” - abbiamo bisogno tutti, di questa speranza, della possibilità di cambiare. Di luoghi dove sia possibile cambiare. È un respiro per un ministro venire a vedere una realtà come questa”. E poi, riferendosi “alle storie di speranza che allargano il cuore, ma che al tempo stesso sono storie drammaticissime, che non cancellano il dolore” ha ricordato che “la speranza non è un colpo di spugna sulla storia che uno si butta alle spalle. La storia prosegue e la speranza convive con il dolore”. Cartabia, consapevole che il cambiamento ha bisogno di risorse, ha condiviso con i presenti la sua soddisfazione perché “dopo 25 anni si stanno facendo i concorsi per i direttori, che dal ‘97 erano fermi”. Infine, la Ministra ha avuto un pensiero per coloro che ogni giorno, per mestiere o per scelta, si tratti del personale che negli istituti lavora oppure dei volontari che si mettono a disposizione, é là con i detenuti, e ha rivolto loro una domanda: “Cosa sostiene chi mette a disposizione la propria disponibilità? Cos’é che ogni mattina vi fa ricominciare? E’ qualcosa di più di un gesto di beneficenza o di generosità; è qualcosa di più solido che tutti noi che lavoriamo in questo settore, così difficile e così affascinante, abbiamo bisogno per rinnovare ogni giorno il nostro impegno”. Milano. Dal carcere al lavoro nel bistrot, la seconda possibilità per le detenute di Manuela Messina La Repubblica, 2 luglio 2022 Si chiama “Uscita di sicurezza” il progetto di Cascina Cuccagna e Comunità il Gabbiano per dare un lavoro esterno alle donne. Ecco le loro storie. Anche gli oggetti più comuni di una cucina possono disorientare, se hai passato gli ultimi anni in carcere. I bicchieri, per esempio, perché negli istituti penitenziari vetro e specchi sono banditi. Figuriamoci i coltelli, consentiti solo di plastica. E poi il rumore. Le voci si mischiano, talvolta diventano più squillanti per dare ordini, per rispondere ai comandi, per scherzare, imprecare e litigare. È un saliscendi di tensione, perché tutto deve funzionare come in un’orchestra, e ogni giorno a pranzo e a cena c’è la “prima” dello spettacolo. Può anche capitare di sentirsi riprendere per un gesto maldestro, e di piangere per lo stress. Ma non c’è mai nulla di personale. È solo lavoro. “Qualche lacrima è scappata, si diventa più sensibili dopo tanti anni” ammette Z., 53 anni, che tutte le mattine esce dal carcere di Bollate per lavorare al bistrot da Base, in via Tortona. “Non sapevo fare nulla all’inizio, qualcuna l’ho combinata in cucina. Ma i colleghi sono persone speciali, sono stati pazienti e non hanno avuto pregiudizi, che era ciò che temevo di più”. Z. è ristretta da dodici anni ed è arrivata qui con altre 8 donne a luglio dello scorso anno per partecipare a “Uscita di sicurezza”, progetto della Cascina Cuccagna nato da un’idea della Comunità Il Gabbiano e altre associazioni. La referente Luisa Della Morte spiega che ha “l’obiettivo di creare uno spazio di lavoro, socializzazione, sostegno psicologico e formazione di donne detenute ed in espiazione penale esterna”. Si è partiti con dei tirocini nelle cucine di “un posto a Base” e “un posto a Milano”, e alla fine in quattro sono state assunte con contratti a tempo determinato. “I nostri lavoratori sono stati molto attenti e aperti alle nuove arrivate - spiega Giacomo Faina di Cascina Cuccagna - sono dell’idea che se le coinvolgi, se fai capire che c’è un obiettivo in più nel lavoro, tutto diventa più facile”. Valentina Rocca è stata il punto di riferimento delle detenute nel loro inserimento. “Abbiamo avuto catering da 200, 300 persone e loro sono state all’altezza del ruolo. L’organizzazione è tutto”. Un’altra donna che ha partecipato al progetto S., 44 anni, racconta: “Abbiamo preparato il pranzo ai nostri figli per anni, ma tagliare un cetriolo a casa e farlo qui non è lo stesso”. Stesso discorso per le patate. “Tagliarle a cubetti? È difficilissimo. Devono essere uguali al millimetro, altrimenti devi rifare da capo”. Per lei la detenzione è durata solo un anno, e ora è in affidamento in prova. Deve rispettare delle prescrizioni, ma per il resto è libera. Francesca Gittardi, cuoca, si è occupata della formazione: “Erano molto interessate, entusiaste. Il risultato è stato bellissimo”. “All’inizio abbiamo imparato l’arte bianca, quella della panificazione. Per cinque giorni solo teoria, abbiamo studiato le farine e i lieviti sulle slide. Poi siamo passati alla pratica, alle focacce e ai dolci. Ho imparato un mestiere e sono molto felice di questo. Se non ti fanno lavorare che cosa diventi una volta uscito? Resti una delinquente”. Z., che alla fine della giornata deve rientrare in carcere, racconta di non avere mai lavorato prima: “L’ho fatto una volta dentro e adesso ho questa possibilità. Sono cambiata e spero che l’affidamento in prova arrivi presto. Finalmente vedo una prospettiva”. I colleghi? “Sono fantastici, hanno avuto tantissima pazienza. Gli chef Francesco e Reno sono persone speciali. Ci hanno insegnato tutto da zero e oggi qualcosa l’abbiamo imparato” Volterra (Pi). “Che gioia: mi sembra di tornare alla normalità” di Ilenia Pistolesi La Nazione, 2 luglio 2022 Le porte del carcere di Volterra tornano a spalancarsi al pubblico dopo due anni e mezzo per la ‘Colazione Galeotta’, iniziativa che si muove nel solco delle ‘Cene Galeotte’ interrotte per lo tsunami pandemico e che torneranno dal prossimo 5 agosto, per poi ripartire con la classica cena natalizia nella ex chiesa dell’istituto di pena. Un momento di incontro e socialità che porta la firma di Unicoop Firenze e che ieri ha visto 30 detenuti coinvolti nella preparazione del primo pasto della giornata, fra delizie all’italiana, portate esotiche, proteiche o melting pot, con la rivisitazione a cura della chef Luisanna Messeri (assente per motivi personali), sostituita in cucina dallo chef Alessandro Miotto. Sono 160 i commensali che i detenuti hanno messo a tavola per la colazione nel giardino della Fortezza, all’ombra del maestoso Maschio: un’impronta di rinascita in un carcere divenuto simbolo per la capacità di integrazione, di creare forti legami con il mondo esterno e per gli importanti percorsi rieducativi adottati. Ne è testimonianza il fatto che alcuni locali della città si stanno rivolgendo al carcere per le professionalità raggiunte dai detenuti come chef o camerieri, grazie alle Cene e all’istituto alberghiero presente da anni nella struttura penitenziaria, con l’obiettivo di impiegarli durante la stagione turistica, data la generale mancanza di personale che stanno vivendo un po’ ovunque alcuni ristoranti. La ‘Colazione Galeotta’ rappresenta quindi un importante momento di integrazione che rivitalizza la cifra distintiva della Fortezza Medicea, istituto dove l’elemento della cultura sociale e l’obiettivo di un reinserimento sono l’architrave fondante. Antonio ha 36 anni, è detenuto a Volterra e fa parte dello staff delle Cene Galeotte. “Rivedere persone esterne qua dentro è un’emozione indescrivibile - racconta - in questi due anni abbiamo avvertito un vuoto enorme, quasi incolmabile”. Ecco Giovanni, 34enne cameriere alle Cene Galeotte, da 5 anni nel carcere volterrano, pronto a servire tramezzini e pancake agli ospiti. “Stiamo vivendo una giornata che non si vedeva da anni, sembra quasi di non essere dentro a un istituto penitenziario”. Francesco di anni ne ha 46 e nella Fortezza di Volterra è riuscito a diplomarsi cuoco all’istituto alberghiero. “Avverto una sensazione molto forte, come se dopo due anni stessimo davvero tornando a quella normalità che vivevamo prima del Covid, con la possibilità di vedere persone, rimettendoci con gioia a cucinare e a servire pietanze per loro. Non avevo mai fatto il cuoco ma in carcere ho imparato un mestiere, ho preso il diploma e vedo una strada di fronte a me, anche se sarà un cammino lungo”. Aversa (Ce). Ventilatori per i detenuti donati dal Garante campano Edizione Caserta, 2 luglio 2022 Cinquanta ventilatori sono stati donati ai detenuti della Casa di Reclusione di Aversa (Caserta) dal Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, che farà un’analoga donazione, la settimana prossima, insieme al garante metropolitano di Napoli, Pietro Ioia, ai carcerati della casa circondariale napoletana di Poggioreale. “Il fatto che in carcere si stia al fresco è un luogo comune - dice, ironicamente, Cambiriello - nei mesi estivi è necessario intraprendere, nelle carceri, iniziative che consentano ai ristretti di non vivere una doppia reclusione. Se si diminuissero le ore d’attesa per i colloqui con i familiari, se fossero maggiormente concessi permessi premio e misure alternative, se si desse la possibilità ai detenuti di poter usufruire dell’ora d’aria non sotto il sole cocente, ma magari nel pomeriggio inoltrato, se nelle aree passeggio si istallassero punti doccia o fontanelle , se si organizzassero attività ricreative, se si tenessero per più tempo i blindi aperti visto che le celle sono forni crematori di cemento e letti a castello, se si consentisse di acquistare al sopravvitto i ventilatori, se a livello sanitario si avesse una maggiore attenzione per i detenuti anziani, per gli obesi, i cardiopatici e i diabetici, se la politica si riappropriasse del suo ruolo e, specie nei mesi da giungo a settembre, andasse a visitare le carceri, dai consiglieri regionali ai parlamentari, allora sì che avremmo un carcere più umano e potremmo parlare di detenzione dignitosa”. “Il carcere - conclude il garante - non dovrebbe essere ‘governato’ da persone che sono piene di sé, autoreferenziali e vendicative, ma da chi nella narrazione avanza se e dubbi, proponendo risoluzioni. Specie in questi mesi di forte caldo, è importante mettere in campo idee che aiutino a vivere meglio nell’istituto penitenziario non solo i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari e gli operatori tutti”. Bolzano. “Art of Freedom”, il teatro arriva dentro il carcere di Lorenzo Barzon Corriere dell’Alto Adige, 2 luglio 2022 Si chiama “Art of Freedom” il progetto finanziato dal Fondo sociale europeo con l’obiettivo di avvicinare i detenuti al mondo del teatro. Si tratta di un’iniziativa volta al reinserimento sociale e culturale di detenuti ed ex detenuti, coordinata dalla Biblioteca Culture del Mondo, dalla cooperativa Alpha&Beta, in partnership con il Comune di Bolzano, la Caritas, Uepe, Ussm, Magistratura di sorveglianza e La Strada - der Weg. Marco Zoppello, attore a autore della compagnia teatrale Stivalaccio, racconta: “Abbiamo organizzato - spiega - tre mattinate di laboratori direttamente nella casa circondariale di Bolzano. Ci siamo occupati di commedia dell’arte, dell’uso della maschera espressiva nella recitazione. Al termine dei tre appuntamenti abbiamo realizzato un piccolo spettacolo di presentazione delle competenze acquisite”. Il progetto è stato accolto positivamente dai detenuti, la partecipazione è stata ottima. Mariagrazia Bregori, direttrice della casa circondariale di Bolzano, ricorda: “La cultura è importante dovunque e per chiunque, a maggior ragione in una realtà particolare come quella penitenziaria, dove alcuni detenuti non hanno avuto magari la possibilità di terminare il loro percorso scolastico. La cultura diventa quindi un aiuto importante per il raggiungimento del percorso rieducativo dei detenuti”. Alla presentazione dello spettacolo per i detenuti ha partecipato anche il sindaco Renzo Caramaschi. Felice dell’iniziativa promossa anche grazie al Comune di Bolzano, il primo cittadino ha spiegato: “Il Teatro Stabile di Bolzano ci ha ormai abituato a molte iniziative lodevoli, di grande qualità. Questa nuova avventura, recitata direttamente tra i detenuti, trovo sia davvero un fiore all’occhiello del programma 2022. Grazie a tutti per l’impegno”. Visto il successo dell’iniziativa, sono già previste anche delle prossime edizioni, anche per il 2023. Cosenza. Nel carcere la Festa della musica, promossa da LiberaMente quicosenza.it, 2 luglio 2022 La Festa della musica viene celebrata il 21 giugno nelle carceri di tutta Europa, proprio perché le sette note sono “portatrici di cambiamento”. È stata celebrata nella casa circondariale di Cosenza, la festa della musica. L’evento è stato organizzato dall’associazione “LiberaMente”, presieduta da Francesco Cosentini, che opera da anni in carcere. La direzione artistica è stata curata dal commediografo e regista Franco Barca. All’iniziativa erano presenti la direttrice della struttura Maria Luisa Mendicino e, per l’area educativa, Bruna Scarcello e Maria Francesca Branca, oltre alla polizia penitenziaria e ad un gruppo di giovani detenuti. Nella sala teatro del reclusorio si sono esibiti gli artisti Ornella Feletti, Natascia Lavalle, Rossella Scola, Egidio De Sossi, Santo Francella e Raffaele Gallo per oltre due ore di buona musica, capace di suscitare una standing ovation da parte dei detenuti. La festa della musica viene celebrata il 21 giugno nelle carceri di tutta Europa, proprio perché le sette note sono in grado di superare le barriere create da alfabeti diversi, di coinvolgere, di essere portatrici di cambiamento. Assange non è solo. Perché è in gioco la democrazia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 2 luglio 2022 La Fnsi avvia una grande mobilitazione. L’offensiva politica e legale contro il fondatore di WikiLeaks - la strumentale esclusione dalla categoria dei giornalisti - si è sbriciolata. La partita tutta politica sul caso di Julian Assange si sta giocando in questi giorni. Il collegio degli avvocati difensori ha depositato presso l’Alta Corte di Londra l’istanza di ultimo appello contro l’estradizione negli Stati Uniti. Dopo rimarrà esclusivamente il ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Prima del viaggio della morte oltre oceano. Nel frattempo, una delle premesse dell’offensiva politica e legale contro il fondatore di WikiLeaks - ovvero la strumentale esclusione dalla categoria dei giornalisti- si è sbriciolata. Infatti, il consiglio nazionale della Federazione della stampa nella seduta dello scorso giovedì (apertosi con un flash mob) si è espresso nelle sue varie anime con nettezza contro le misure repressive, come - del resto- la FNSI aveva già fatto. E presso la sede del sindacato si era tenuta nei giorni scorsi la conferenza di presentazione dell’appello del premio Nobel per la pace Pérez Esquivel, che sta raccogliendo numerosissime adesioni anche nel mondo della cultura e dello spettacolo. La Federazione internazionale (IFJ) ha lanciato una vera e propria campagna per la libertà di Assange, a partire dalla presidente Dominique Pradalié con il suo efficace slogan “Quando tu denunci un crimine e sei chiamato criminale, significa che è il governo stesso ad essere criminale”. Viene, dunque, smentito l’assunto manipolatorio che ha fatto del giornalista australiano un generico attivista estraneo alla tutela prevista dai principi della libertà di informazione, ivi compresi il primo emendamento della Costituzione di Washington e l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tra l’altro, in Australia come in gran parte del mondo non esiste un Ordine professionale. Comunque, l’Ordine italiano con la voce di Carlo Bartoli è stato assai netto. E che Assange, con la sua vasta redazione figlia delle nobili origini di organizzazione non profit e indipendente, sia un buon esempio di esercizio del pericoloso mestiere è notissimo a chi ci ha studiato su. Basti leggere l’accuratissimo volume di Stefania Maurizi (Il potere segreto, 2021) o la tesi scritta da Chiara Signoria per il corso di laurea dell’università di Padova tenuto da Raffaele Fiengo. La cura nella costruzione delle notizie e l’attenzione a non mettere a rischio le vite umane (per sfatare un’ulteriore diceria odiosa) sono sempre state il cuore dell’enorme produzione di WikiLeaks. La prova di tutto ciò sta nell’autorevolezza dei media partners rimasti in stretto rapporto per un periodo non breve. Si tratta di alcune delle principali testate del villaggio globale: l’Espresso, la Repubblica, Washington Post, Der Spiegel, Le Monde, El Pais, Publico, Aftenposte, Pagina 12 e decine di altri. Naturalmente, appena si sentì puzza di bruciate, gli autorevoli fogli abbandonarono immantinente la loro prolifica fonte. Bene ha fatto una delle proposte presentate nel consiglio della FNSI a suggerire di conferire il premio Pulitzer al medesimo Assange. Diverse iniziative sono previste in svariate città, organizzate dagli specifici Comitati: ad esempio, domani a Milano presso il Consolato britannico di Milano e a Roma in piazza Trilussa. Il 3 di luglio cade il compleanno di una persona da anni detenuta e su cui incombe una possibile condanna a 175 anni in un carcere speciale degli USA. La mobilitazione è essenziale, come ci ricorda proprio Pérez Esquivel, che si salvò all’ultimo minuto dal lancio omicida dall’aereo dei militari argentini grazie alla forza del movimento di opinione creatosi contro i crimini della dittatura. Solo una analoga coscienza diffusa può, mutatis mutandis, rovesciare il filo nero che avvolge la vicenda del fondatore di WikiLeaks. Su il manifesto di ieri il senatore Gianni Marilotti ha documentato il successo ottenuto dagli emendamenti inseriti insieme ad alcun colleghi in un testo dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa contro l’estradizione. Quest’ultima va persino al di là del suo orribile effetto sul condannato, risultando una minaccia contro chiunque osi uscire dal seminato imposto dal pensiero dominante e dall’informazione omologata. Insomma, Julian Assange è il nemico numero uno, da crocifiggere per educare coloro che tentano di raccontare le verità scomode. Appare questo il motivo profondo di un accanimento assurdamente spietato e privo di accuse reali, salvo il ricorso tragico e insieme grottesco alla legge sullo spionaggio del 1917 (Espionage Act). Già nell’omologa storia dei Pentagon Papers, che svelarono gli arcani della guerra del Vietnam, si tentò di formulare l’accusa di spionaggio, ma prevalse la copertura del citato primo emendamento, che attribuisce al diritto di cronaca la valenza di pilastro costituzionale. Eccoci di nuovo. Cyberbullismo e bullismo, la ripresa dopo la pandemia di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 2 luglio 2022 Il fenomeno fotografato da una ricerca dell’università di Torino e del Piemonte Orientale condotta da 957 studenti. Due ragazzi su tre non sanno che esiste una legge a difenderli, i genitori non si accorgono del problema, i giovani influencer non sono abbastanza protetti dagli odiatori. Gli atti di bullismo e cyberbullismo sono ripresi dopo il rallentamento registrato durante la pandemia. Il bullismo si è manifestato come prese in giro e insulti secondo la percezione del 24,3% di chi ne è stato vittima. Due ragazzi su tre non sanno che esiste una legge a difenderli, i genitori non si accorgono del problema, i giovani influencer non sono abbastanza protetti dagli odiatori. Gli atti di bullismo e cyberbullismo sono ripresi dopo il rallentamento registrato durante la pandemia. Appena tornati a scuola nel primo quadrimestre dell’anno scolastico 2020/21, il bullismo si è manifestato come prese in giro e insulti secondo la percezione del 24,3% di chi ne è stato vittima, il 31,1% dei “testimoni” e il 40,5% degli insegnanti. Ma anche come diffusione di informazione false nel 16,6% dei casi, contatti “da chi voleva approfittarsi” per il 14,7% delle vittime, inviti a challenge online. I dati sono emersi da una ricerca dell’università di Torino e del Piemonte Orientale presentata ieri durante il convegno “Bullismo e cyberbullismo: impatto su salute, socialità e legalità” organizzato dal Consiglio regionale a Palazzo Lascaris. Secondo i dati della ricerca, condotta su un campione di 957 studenti, 297 docenti e 108 Ata in 48 scuole piemontesi, due terzi dei ragazzi intervistati non conoscono la legge 71 del 2017 che riconosce a partire dai 14 anni la possibilità di richiedere ai gestori dei social un’istanza di rimozione dei contenuti diffusi in rete. Gli ultimi dati dell’ires, illustrati al convegno, segnalano che in Piemonte le condizioni di benessere psicologico sono peggiorate con indici che passano dal 68,5 nel 2019 al 66,8 nel 2021. Più che nel resto d’italia. Le vittime di bullismo possono soffrire di disturbi d’ansia e dell’umore, ideazione suicidaria, autolesionismo. Violenze che arrivano sempre più spesso nelle aule di Giustizia. “Il fenomeno non viene riconosciuto: quando il caso finisce sulle scrivanie di magistrati e avvocati, tutti cadono dalle nuvole”, ha fatto notare Claudio Strata, intervenuto a nome dell’ordine degli avvocati. “Finché non facciamo leggere le chat, i genitori non ci credono. E poi c’è chi scoppia a piangere, soprattutto le mamme”. I casi aumentano anche tra i giovanissimi influencer, che da un giorno all’altro si ritrovano con milioni di follower sui social. Odiatori compresi. “Il diritto li equipara a personaggi pubblici come politici o “celebrities”, ma le politiche dei social dovrebbero proteggerli di più da reati come la diffamazione”, ha sostenuto Riccardo Lanzo, consigliere regionale e avvocato di Khabi Lame, 22enne di Chivasso, da poco incoronato il più seguito al mondo su Tik Tok. Il suicidio di Cloe Bianco. Quali danni ai “nostri ragazzi” da una gonna e una parrucca? di Roberto Saviano Corriere della Sera, 2 luglio 2022 Cloe Bianco, una insegnante dell’istituto tecnico Scarpa-Mattei di San Donà di Piave, si è suicidata perché subiva discriminazioni per la sua identità di genere di cui aveva deciso di mettere a parte il suo ambiente lavorativo. Non conoscevo Cloe Bianco, non sapevo del dramma che stava vivendo, fino alla sua morte. Troppo tardi, ho pensato istintivamente. Sono cresciuto con una serie di moniti, quello che più mi si è piantato in testa è: non credere che ciò che accade agli altri non possa accadere a te. Chi mi ha cresciuto probabilmente si riferiva a incidenti quotidiani come la rottura di un braccio o di una gamba per eccessiva esuberanza, una caduta dal motorino, un litigio che finisce in rissa. Però io ho rielaborato questo concetto al punto da finire col pensare che tutto ciò che accade agli altri può davvero accadere a me, dunque richiede la mia attenzione. Perché se non accade a me, può riguardare un mio familiare; se non lei o lui, persone legate a loro, e così via, in una catena che di fatto annulla ogni distinzione tra noi e loro. Per essere ancora più chiari, non urlerei mai da un palco: “Sono Roberto, sono un uomo, sono italiano, sono cristiano”: affermare sé stessi in questo modo significa negare gli altri. Significa dire: io sono questo e tutto il resto è altro da me. La discriminazione - Ecco, io non la penso così. Io penso che siamo tutti partecipi di un destino comune e se Cloe Bianco si è suicidata perché subiva discriminazioni per la sua identità di genere, ciò mi riguarda. Perché può accadere a te che mi leggi, o a qualcuno a cui vuoi bene. O può accadere a qualcuno vicino ai tuoi affetti. E allora lo vedi che tutto ciò ci riguarda? Cloe Bianco era una insegnante dell’istituto tecnico Scarpa-Mattei di San Donà di Piave che, entrata in ruolo, decide di mettere a parte il suo ambiente lavorativo della sua identità di genere. Nulla di scandaloso, ma una coraggiosissima e direi sana volontà di aggiungere verità alla propria vita. Come ha reagito il mondo attorno a lei? Non posso giudicare ogni singola reazione perché immagino - e spero! - non siano state tutte solo di scherno e disapprovazione. Queste, però, devono essere state prevalenti e avere avuto il sopravvento sulle altre. Quando c’è di mezzo la scuola, quando c’entrano i “nostri ragazzi”, ci si consentono le più indicibili enormità. E allora “l’abbigliamento di Cloe non era consono”, e ancora: “gli studenti sono rimasti traumatizzati”. Viene chiamata in causa l’assessora di Fratelli d’Italia all’istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità Elena Donazzan, che ha fatto tutto quanto in proprio potere per silenziare Cloe Bianco, per costringerla a vivere nascosta. Oggi leggiamo testimonianze discordanti: dagli ex studenti che denunciano pesantissime discriminazioni verso la loro insegnante, al dirigente scolastico secondo cui la scuola non fece nulla per metterla in difficoltà. Però Cloe fu sospesa per tre giorni, e la sospensione è una punizione, significò sanzionare il suo coming out. Che messaggio è questo? Menti, fingi, non mostrarti per quello che sei, la società non ti accetta, la tua comunità ti espellerà come corpo estraneo. Ma sono davvero queste le esperienze che devono fare i “nostri ragazzi”? L’assessora Donazzan non infanghi il ceto produttivo - Ho commentato questa terribile vicenda e l’assessora Donazzan mi ha risposto tirando in ballo il ceto produttivo veneto che avrei offeso non ho ben capito perché. Ma ora sono io a esortare l’assessora a smetterla di infangare il ceto produttivo veneto che, sono certo, non vorrà prendere come propria stella polare l’ignoranza di una classe politica che si crede in diritto di poter esprimere qualunque idea, del tutto incurante delle conseguenze. Giorgia Meloni, capo politico del partito nelle cui file milita l’assessora Donazzan, ritiene che la Costituzione garantisca a lei e a chiunque altro la libertà di poter dire qualunque cosa. Ma non è così quando le nostre parole sono discriminatorie e lesive della dignità altrui. La Costituzione italiana stabilisce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La tua libertà, di parola e di pensiero, non mi deve discriminare; se questo accade, stai facendo qualcosa che non dovresti. Elena Donazzan non si è dimessa e non ha nemmeno chiesto perdono, ha anzi mantenuto la sua posizione sulla tragedia di Cloe Bianco. Per la scuola, per gli studenti e per la comunità tutta, questo è il vero danno. Non una prof che decide di fare coming out e indossa una gonna e una parrucca. Dare il giusto peso ad azioni e parole è fondamentale. Svezia e Finlandia hanno tradito i curdi per entrare nella Nato di Futura D’Aprile Il Domani, 2 luglio 2022 Helsinki e Stoccolma hanno ceduto ai ricatti di Erdogan, facendo propria una definizione del terrorismo vigente in Turchia. Viene usata per reprimere ogni forma di dissenso in patria e ora anche all’estero. La Turchia ha ritirato il veto all’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, ma a pagare il prezzo del compromesso raggiunto in occasione del summit di Madrid sono la democrazia e i diritti umani, soprattutto quelli dei curdi e dei dissidenti turchi che pensavano di aver trovato nei paesi scandinavi un rifugio dalle politiche persecutorie del governo di Recep Tayyip Erdogan. In cambio del suo via libera, non ancora definitivo, il presidente turco ha ottenuto importanti concessioni da Stoccolma ed Helsinki, riuscendo a imporre il proprio volere su quei due paesi europei da sempre considerati paladini della difesa dei valori democratici e dei diritti umani, ma pronti invece a sacrificare una parte della loro popolazione pur di entrare nella Nato. Punto centrale del memorandum firmato in occasione del summit di Madrid è la lotta al terrorismo. Per la Turchia, sia il Partito dei lavoratori curdo (Pkk) sia l’amministrazione autonoma del Rojava, sia le milizie curdo-arabe (Ypg/Ypj) sono considerate delle organizzazioni terroristiche, ma a livello europeo solo il primo rientra in questa categoria. Ciò ha permesso all’occidente di sostenere i curdi siriani nella lotta all’Isis e di instaurare delle relazioni anche diplomatiche con l’amministrazione del Rojava, ignorando le rimostranze della Turchia. Almeno fino a questo momento. Con il memorandum infatti Svezia e Finlandia si impegnano a sostenere la Turchia contro le minacce alla propria sicurezza nazionale, aderendo pertanto alla definizione di terrorismo vigente nel paese anatolico. Una definizione particolarmente ampia e vaga, usata indiscriminatamente per mettere a tacere ogni forma di opposizione tanto in patria quanto all’estero. Nello specifico, Helsinki e Stoccolma sono disposte a interrompere ogni sostegno alle Ypg/Ypj, al Pyd, il partito dell’unione democratica attivo in Rojava, e all’organizzazione guidata da Fethullah Gulen (Feto). Per soddisfare le richieste di Ankara, i due paesi scandinavi sono anche disposti a modificare le leggi nazionali in materia di terrorismo e a collaborare con la Turchia nel contrasto a tutte le attività di soggetti legati direttamente o indirettamente al Pkk. Svezia e Finlandia però non tengono conto né della recente sentenza della Corte europea dei diritti umani che mette in discussione l’inserimento del Pkk nella lista delle organizzazioni terroristiche, né dell’uso strumentale che viene fatto in Turchia dell’accusa di legami con il partito dei lavoratori. Il governo di Ankara, tramite la magistratura, fa ampio ricorso a questo capo di imputazione per colpire chiunque ne metta in discussione l’operato e per indurre giornalisti, politici e attivisti all’autocensura. Ugualmente contraddittoria è la posizione adottata tramite il memorandum da Svezia e Finlandia nei confronti del movimento islamico guidato da Fethullah Gulen, ex alleato dal presidente e accusato di aver guidato il fallito colpo di stato del 2016. Anche in questo caso, Erdogan ha usato l’accusa di legami con Feto per eliminare dall’apparato istituzionale e accademico turco i suoi oppositori, molti dei quali sono stati costretti a trovare rifugio all’estero per sfuggire a pesanti condanne. Ciò che curdi e dissidenti turchi adesso maggiormente temono è di essere estradati in Turchia, uno scenario impensabile fino a pochi giorni fa. Secondo quanto previsto dal memorandum, i paesi scandinavi riesamineranno le richieste di estradizione presentate da Ankara, che nelle ultime ore ha inviato ai governi di Stoccolma ed Helsinki una lunga lista di persone che vorrebbe fossero riportate in patria per essere prontamente processate. Per Erdogan, i due paesi scandinavi sono stati troppo a lungo un rifugio sicuro per coloro che in patria erano definiti dei terroristi, ma che secondo la legislazione di Svezia e Finlandia rientravano nell’ambito dei perseguitati politici. Almeno fino a oggi. Helsinki e Stoccolma hanno anche promesso ad Ankara di impegnarsi nella lotta alla disinformazione, un termine al momento molto vago e la cui definizione avrà importanti risvolti per la stessa libertà di informazione ed espressione nei due paesi. In Turchia tale concetto ha una portata molto ampia ed è usato frequentemente per condannare al carcere non solo giornalisti ma anche semplici cittadini che si lamentano sui social della crisi economica, inducendo ancora una volta le persone all’autocensura per evitare il carcere. Come è facile immaginare, Erdogan non si accontenterà della definizione di disinformazione vigente in Europa, pertanto il rischio è che anche all’estero criticare il governo turco possa ben presto trasformarsi in reato. Grazie alla firma del memorandum di Madrid, Ankara ha anche ottenuto la fine dell’embargo sulle armi imposto da Svezia e Finlandia nel 2019 a seguito dell’operazione militare turca contro il Rojava. L’export bellico dei due paesi verso la Turchia non è in realtà particolarmente rilevante, ma per Erdogan non era possibile ammettere all’interno della Nato due paesi così apertamente schierati in difesa del nord est della Siria. La ripresa delle esportazioni dunque non fa che confermare la fine del sostegno scandinavo ai curdi siriani e arriva tra l’altro nel momento in cui Erdogan minaccia una nuova operazione militare nel Rojava. L’intesa tra Svezia, Finlandia e Turchia è stata definita un successo dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che fin dall’inizio aveva invitato i paesi scandinavi a prendere in considerazione le richieste turche, di fatto legittimando il ricatto imposto dal presidente Erdogan. Secondo il numero uno dell’Alleanza, l’ingresso - ancora non ufficiale - di Stoccolma e Helsinki nella Nato corrisponde a un aumento della sicurezza generale degli alleati, ma nel suo discorso Stoltenberg dimentica un dettaglio importante. Proprio la Turchia, che accusa i due paesi scandinavi di essere un santuario del terrorismo a causa della presenza di curdi e dissidenti politici, è quello stesso membro della Nato che ha consentito ai jihadisti di attraversare senza problemi il confine turco-siriano per andare a ingrossare le fila dell’Isis, garantendo ad alcuni di loro anche assistenza medica nel proprio territorio. Sempre la Turchia è attualmente alleata dei gruppi jihadisti che controllano la cosiddetta zona sicura nel nord-est e la regione di Idlib. Quest’ultima è una spina nel fianco per il regime di Bashar al Assad, ma rappresenta un problema per la sicurezza anche per gli Stati Uniti: le ultime operazioni condotte dagli Usa contro la galassia jihadista ancora attiva in Siria hanno interessato proprio l’area di Idlib, una delle ultime roccaforti dell’estremismo. Ma legare la maggiore sicurezza degli alleati Nato alle richieste della Turchia è un precedente pericoloso anche per i curdi che vivono nel resto d’Europa, Italia compresa. Emblematico è a questo proposito il comportamento della questura di Roma, che in occasione della manifestazione di inizio giugno ha cercato di vietare le bandiere del Pkk, da sempre presenti durante i cortei organizzati dal movimento curdo in Italia. Alla fine il simbolo del partito, che rappresenta più in generale il popolo curdo, è stato esposto durante il corteo ma questo tentativo di vietarne l’utilizzo è il primo segnale di un aumento del controllo sulla minoranza presente in Italia. I curdi da estradare nella lista di Erdogan: dissidenti, studiosi, ribelli di Marta Serafini Corriere della Sera, 2 luglio 2022 Dopo il compromesso sul sì all’ingresso nella Nato, il “sultano” dice di aspettare dalla sola Stoccolma l’estradizione di almeno 73 membri della minoranza indipendentista ricercati in Turchia. C’è già chi la chiama la lista dei sacrificabili. Nomi e cognomi che il quotidiano turco Hürriyet ha pubblicato e che appartengono agli esponenti curdi che il presidente Recep Tayyip Erdogan vuole in cambio dell’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Si inizia dai nomi - 12 dalla Finlandia e 33 dalla Svezia - e si arriva alle sigle. Bülent Kenes, Levent Kenez e Hamza Yalç?n, Murat Çetiner, esperto di cyber security, Mehmet Filiz ricercatore universitario. Poi ci sono Sezgin Cirik, Osman Yagmur e Delil Acar, accusati qualche anno fa di aver provato ad appiccare il fuoco davanti l’ambasciata turca ad Helsinki. Nella lista, ricostruita da Globalist, c’è anche Musa Dogan, attivista condannato in Turchia nel 1993 all’ergastolo per aver partecipato a numerose manifestazioni. Oltre a Mehmet Demir, ex co-sindaco di una città dell’Anatolia del Sud, costretto a fuggire dalla Turchia per le sue origini curde. Poi Burcu Ser, impiegata in una associazione internazionale per i diritti delle donne. Giornalisti, insegnanti, ricercatori, che hanno paura di tornare in Turchia ed essere condannati. E attivisti accusati di far parte del Fetö, il movimento di Fethullah Gülen, ex alleato del presidente turco e oggi considerato dissidente e organizzatore principale del tentato golpe del 2016. O affiliati del Pkk , il Partito dei lavoratori del Kurdistan o, ancora del TKP/ML-TIKKO il partito marxista leninista turco. Dagli Anni 70, Svezia e Finlandia hanno accolto i curdi in fuga dalle zone di guerra . Nel parlamento svedese sono stati eletti sei deputati curdi, una è Amineh Kakabaveh. Nata nel 1970 nel Rojhilat, il Kurdistan iraniano, ha aderito al movimento guerrigliero marxista-leninista Komala che era ancora un’adolescente. A 19 anni ha cercato rifugio in Svezia: si è laureata mantenendosi come collaboratrice domestica. Fino all’ingresso in parlamento con il Left Party. Il suo è uno dei nomi che dieci giorni fa l’ambasciatore turco a Stoccolma, Hakki Emre Yunt, ha indicato come prede degli appetiti di Ankara. Un nome poi ritrattato e che non compare nella lista di Hürriyet ma che rende l’idea. Il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag è stato molto preciso nell’affermare che - dopo l’accordo tra Ankara, Helsinki e Stoccolma di Madrid - saranno nuovamente mandate ai Paesi scandinavi le richieste per l’estradizione di 17 membri del Pkk e di 16 affiliati alla rete Fetö. Ma la lista di Hürriyet comprende più nomi. Inoltre nella lista comune dell’Ue delle organizzazioni terroristiche c’è il Partito dei lavoratori curdi (Pkk) ma non ci sono né le due organizzazioni sorelle curde siriane Ypg (Syrian Kurdish People’s Protection Units) e Pyd (Democratic Union Party), né il Fetö o altre sigle. In tutto ciò alla Turchia continua a spettare l’ultima parola sul l’allargamento Nato e difficilmente cederà su questi nomi. I dubbi - Ma le richieste del ministero della Giustizia turco (33 nomi ricercati da Ankara) non combaciano con i numeri comunicati dal presidente Erdogan, che ha detto di attendere dalla Svezia 73 terroristi. Dichiarazioni che non fanno che aumentare i dubbi su quanto possano effettivamente combaciare le definizioni di terrorismo date in Turchia e in Scandinavia. In questo quadro, la prima ministra svedese Andersson, in difficoltà perché accusata di “svendere” i diritti dei curdi sull’altare della Nato, ha dichiarato che la Svezia continuerà a seguire la legge nazionale e internazionale. Turchia. Così Ankara ha piegato i leader di Usa ed Europa di Federico Fubini Corriere della Sera, 2 luglio 2022 Recep Tayyip Erdogan è riuscito a imporsi sui leader democratici - di cui presto potrebbe aver bisogno per un salvataggio - per togliere il suo veto all’ingresso della Finlandia e della Svezia nella Nato. Non è onorevole il compromesso che gli Stati Uniti e i governi europei hanno accettato perché la Turchia levasse il suo veto all’ingresso della Finlandia e della Svezia nella Nato. Non lo è, anche se non si sa per ora quali e quanti fra i presunti “terroristi” ricercati dal regime di Ankara - per reati essenzialmente di opinione - verranno estradati. Saranno i tribunali di Helsinki e di Stoccolma a decidere con l’indipendenza che, si spera, dovrebbe caratterizzare due Paesi ai vertici della classifica di Freedom House dei sistemi più democratici e trasparenti al mondo. In attesa di capire cosa accadrà nei prossimi mesi, è possibile mettere a fuoco ciò che è accaduto negli ultimi giorni: alcuni dei Paesi sul piano economico e tecnologico più forti al mondo si sono piegati al diktat della Turchia, una nazione la cui moneta ha più che dimezzato il proprio valore sul dollaro in pochi mesi. Il dittatore seduto su un’economia debolissima, dall’inflazione al 73%, Recep Tayyip Erdogan, è riuscito a imporsi sui leader democratici di cui presto potrebbe aver bisogno per un salvataggio. Sul piano legale è possibile perché l’Alleanza atlantica decide all’unanimità, dunque l’opposizione di un solo governo bastava a bloccare Svezia e Finlandia. Ma sul piano politico una forzatura del genere sarebbe stata impensabile dalla fine degli anni Ottanta fino all’11 settembre 2001, quando le democrazie occidentali erano all’apice del loro potere globale. Oggi i rapporti di forza sono irriconoscibili. E non solo perché senza Ankara non sarà mai riaperto il Mar Nero per lasciar passare il grano ucraino. Se Erdogan ha osato un ricatto tanto sfacciato sui Paesi più ricchi al mondo, è perché questi ultimi vengono da una serie di sconfitte che lasciano proprio alla Turchia un potere crescente. L’Europa e gli Stati Uniti hanno perso in Siria, al punto che l’esercito turco ormai è il solo attore a contenere la presenza russa a fianco del dittatore di Damasco Bashar al-Assad. Hanno perso in Iraq e in Afghanistan, gli occidentali. Hanno perso anche in Libia dopo la caduta di Muhammar Gheddafi, al punto che il Paese produce per l’Italia 2,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno e non dieci miliardi come potrebbe. Anche lì la Turchia è il solo contrappeso alla Russia. Noi occidentali abbiamo perso, perché i governi e le opinioni pubbliche non sopportano più impegni sul terreno in teatri instabili ed è in questo vuoto che si inserisce Erdogan. Del resto lo fa persino sui giacimenti di gas nelle acque territoriali di Cipro. L’audacia del dittatore turco, dentro e fuori la Nato, non è che lo specchio del declino dell’Occidente nel suo potere globale. Russia. Navalny: “Per rieducarmi mi costringono a fissare per ore il ritratto di Putin” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 2 luglio 2022 Nella sua lettera in 13 tweet l’oppositore condannato a nove anni di carcere dice di restare “un ottimista che cerca il lato luminoso anche nell’esistenza al buio”. La giornata del prigioniero più famoso di Russia inizia alle sei del mattino. Dieci minuti scarsi per rifare il letto, radersi, lavarsi, “etc”. Ginnastica. Colazione. Perquisizione. E poi via: sette ore di cucito - che di sabato diventano cinque - “seduti su uno sgabello più basso del ginocchio”. Si pranza alle 10.20. Quando non lavora, Aleksej Navalny è costretto a stare “seduto per ore su una panchina, sotto un ritratto di Putin”. La chiamano “attività educativa” ma, scrive l’oppositore condannato a nove anni di carcere, “non so chi possa “educare” questo tipo di attività, se non uno storpio con male alla schiena”. Un ironico riferimento a se stesso e ai suoi problemi di salute. E siccome la domenica è un “giorno di riposo” e non si cuce, le ore in panchina a contemplare il ritratto diventano dieci. Tutto merito, scrive l’attivista anti-corruzione, degli “esperti in relax” nell’amministrazione Putin o ovunque sia stata decisa la “sua routine” nel carcere di massima sicurezza di Mekhelovo Ik-6, a circa 250 chilometri dalla capitale, dov’è stato trasferito a metà giugno. Nella sua lettera dal carcere in 13 tweet, Navalny dice di restare “un ottimista che cerca il lato luminoso anche nell’esistenza al buio”. In prigione ha imparato a memoria il monologo in inglese dell’Amleto di Shakespeare. “I prigionieri di turno con me dicono che quando chiudo gli occhi e borbotto cose in inglese shakespeariano, tipo “in thy orisonse be all my sins remembered”, sembra che io stia evocando un demonio. Ma non mi passa nemmeno per la mente, perché invocare un demonio sarebbe una violazione dei regolamenti interni”. L’oppositore scherza, ma la verità è che le autorità carcerarie lo accusano in continuazione di reati fittizi col solo scopo di inasprire le sue condizioni di detenzione. Come a Pokrov, nel carcere Ik-2, dove si trovava fino a due settimane fa, anche a Mekhelovo per Navalny è stata creata una “prigione nella prigione”: una baracca con una recinzione alta sei metri. “Roba così l’ho vista solo nelle nostre inchieste sui palazzi di Putin e Medvedev. E se i ministri stanno sei ore nell’anticamera di Putin per avere udienza, i miei avvocati aspettano 5/6 ore per vedermi. C’è anche un altoparlante che a gran voce riproduce le canzoni tipo “Gloria al servizio all’Fsb”. Penso che da Putin ci sia la stessa roba. Ma la somiglianza finisce qui”, ironizza Navalny. A svelare la cruda realtà dietro alla sua ironia, è il suo stretto collaboratore Leonid Volkov: “Per ogni evenienza, spieghiamo di che cosa stiamo parlando: parliamo di condizioni di tortura”. Navalny, precisa Volkov, ha problemi alla schiena, ma ciononostante è costretto a stare in una posizione scomoda per 70-80 ore a settimana. In più è costretto a scegliere: “l’avvocato o un pasto, l’avvocato o la possibilità di lavarsi”. Tutto questo, conclude Volkov, è “molto grave e pericoloso. Ad Aleksej non piace lamentarsi e scrive di ciò che gli sta accadendo in uno stile così ironico. Ma queste sono pessime notizie, davvero, e un motivo per suonare le campane a martello. E allora, suoniamole!”. Mali. L’Onu rinnova la missione, ma il governo rifiuta l’indagine degli abusi di Stefano Mauro Il Manifesto, 2 luglio 2022 Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha rinnovato, mercoledì 30 giugno, il mandato di Minusma (la missione per la stabilizzazione del Mali) per un altro anno. Nessun grande cambiamento per la forza di pace (oltre 13mila militari di 57 paesi) ma l’Onu dovrà pubblicare entro gennaio “uno studio per valutare la missione e le sue esigenze”. Nella nuova risoluzione la Francia ha abbandonato definitivamente “i voli di ricognizione e supporto ai caschi blu”, mentre il contenzioso della trattativa si è concentrato sul “rispetto dei diritti umani”, con una “relazione trimestrale di monitoraggio da parte di Minusma”. Proprio riguardo alle violenze sui civili l’ultimo rapporto Onu, di inizio giugno, aveva evidenziato circa “320 violazioni imputabili alle forze di sicurezza, sostenute in determinate occasioni da elementi militari stranieri, con abusi, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e atti di tortura”, e il divieto da parte delle autorità maliane all’invio di caschi blu nelle aree colpite. “Diventa difficile poter garantire il mantenimento della missione - ha indicato il rappresentante britannico - senza che i criteri dei diritti umani, definiti dall’Onu, vengano rispettati e monitorati”. Pur non essendo pienamente soddisfatto, il governo maliano ha ottenuto il mantenimento della forza delle Nazioni unite, l’abbandono dei voli di supporto francesi e la non stigmatizzazione diretta dei mercenari russi di Wagner. Un ulteriore punto controverso è quello relativo alla libertà di movimento e di indagine sugli abusi commessi dalle Forze armate del Mali (Fama) per cui sarà necessario un previo “accordo del governo maliano”, come richiesto dal ministro degli esteri Abdoulaye Diop. Nell’incontro preliminare di metà giugno Diop aveva difeso “i risultati convincenti dell’esercito, i jihadisti neutralizzati e le città liberate”, e auspicato il rinnovo del mandato Onu. Da parte sua il rappresentante Onu in Mali e capo della missione, il mauritano el-Ghassim Wane si è detto “soddisfatto del rinnovo della missione, a causa del progressivo peggioramento della situazione in tutto il paese, con altri 5 caschi blu uccisi nell’ultimo mese e il ritiro dei militari francesi ed europei delle missioni Barkhane e Takuba”. Una preoccupazione che sta emergendo in queste ultime settimane nella zona di Ménaka dove lo Stato Islamico del Gran Sahara (Eigs) sta colpendo numerose basi militari delle Fama e villaggi di civili. “Abbandonare il Mali - ha detto Wane - significherebbe lasciare campo libero ai gruppi jihadisti presenti non solo nel paese, ma anche in Burkina Faso e in Niger”.