La torrida estate delle carceri, una tragedia umana senza fine di Luigi Manconi La Stampa, 29 luglio 2022 Il microclima di 40 gradi con 3-4 persone in celle da 10 metri quadrati. Ci sono istituti dove mancano le docce ed è stata razionata l’acqua. È esperienza di questi giorni scoprire che, a camminare sull’asfalto, vi si lascia l’impronta delle scarpe; e che, a mettere il braccio fuori dal finestrino dell’auto, si avverte la sensazione di attraversare le fiamme di un incendio. Questo nelle strade di una città, ma immaginiamo di trovarci in un altro luogo. Un microclima concentrazionario, 40 gradi e 3,4 maschi adulti in 10 metri quadrati. Ecco, quando si parla di sovraffollamento delle carceri e di celle surriscaldate, l’esempio più pertinente non è dato dalle condizioni climatiche e dall’insediamento umano di una spiaggia di Cesenatico alle ore 15 del 15 agosto e nemmeno da una moltitudine al concerto dei Måneskin: perché a quella congestione bollente e sudata di corpi ci si può, se si vuole, sottrarre. Dal carcere no, dal carcere in genere non si fugge; nemmeno d’inverno, peraltro, quando gli eventi stagionali (freddo e gelo, assenza di caloriferi, scarsità di acqua calda) non procurano una minore afflizione. L’associazione Antigone ha reso noto il suo rapporto semestrale dove, sin dal titolo, si dichiara quale sia il punto di osservazione: “La calda estate nelle carceri”. A leggerlo, ci si rende conto che davvero mancano criteri di comparazione per illustrare adeguatamente lo stato in cui versa una parte considerevole del sistema penitenziario italiano, dal momento che la realtà tende a superare il più cupo sguardo pessimistico. Qualche esempio: in alcuni istituti penitenziari “l’acqua viene razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegata dalla rete idrica comunale. In questo istituto ai detenuti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno mentre per le altre necessità è utilizzabile quella dei pozzi artesiani”. Si tenga conto che solo in pochissime celle si trovano frigoriferi; e che nel 58% delle carceri visitate da Antigone sono numerose le celle prive di doccia e, nel 44%, quelle le cui finestre sono schermate, con l’effetto di limitare il passaggio dell’aria. Infine, in quasi un terzo degli istituti non sono garantiti i 3 metri quadri calpestabili per ogni detenuto, come prescritto da una sentenza della Corte europea dei diritti umani, che nel gennaio del 2013 condannò l’Italia per “trattamenti inumani e degradanti”. Tutto ciò in un quadro generale dove, al 30 giugno scorso, si contano 54.841 detenuti, rispetto a una capienza regolamentare di 50.900 posti. Ne consegue un tasso di affollamento ufficiale del 107,7%, che tuttavia ignora come molti degli spazi conteggiati non siano effettivamente disponibili (secondo Antigone, ben 3.665 negli istituti visitati). Se, poi, diamo ascolto ai quotidiani appelli della Protezione civile, che chiede particolare attenzione e assistenza ai “soggetti vulnerabili”, non si può dimenticare quanti di essi siano reclusi nelle carceri italiane: dall’altissimo numero di tossicodipendenti alle persone con disabilità, fino ai più di mille ultrasettantenni e alle 24 madri con figli minori. A questo proposito va ricordato che la fine della legislatura ha avuto, tra le molte infelici conseguenze, quella di bloccare alcune riforme, diciamo, “di civiltà”, prossime a essere approvate. Tra queste, il provvedimento che avrebbe potuto cancellare dal nostro ordinamento quella che è, forse, la più oltraggiosa delle iniquità: la reclusione in carcere, con le proprie madri, degli “innocenti assoluti”, ovvero i bambini senza colpa. Di fronte a una simile situazione, è difficile non cedere a un sentimento di filantropia. Il che è giusto, figuriamoci, ma il rischio è che venga trascurata la dimensione politica di quella tragedia umanitaria che si consuma quotidianamente nelle prigioni italiane. Il carcere è l’articolazione ultima ed estrema di un sistema della giustizia penale che, negli ultimi decenni, ha fatto bancarotta: e al cui fallimento, le riforme promosse dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia possono opporre solo una linea di resistenza. C’è da temere che il quadro politico conseguente al voto del 25 settembre porti a un ulteriore deterioramento dello stato delle cose, dal momento che la tutela della dignità del detenuto e dei suoi diritti fondamentali ha un rapporto strettissimo con il sistema generale delle garanzie nell’esercizio dell’azione penale, nella conduzione delle indagini, nelle relazioni tra le parti e nel dibattimento in aula. Dunque, “visitare i carcerati” non è solo un precetto evangelico che può portare lenimento alle sofferenze dei reclusi: è anche un percorso necessario per fare sì che l’amministrazione della Giustizia sia un po’ - almeno un po’ - più giusta. Le carceri non portano voti, ma dimenticarle è disumano di Danilo Paolini Avvenire, 29 luglio 2022 Basta con le citazioni di Cesare Beccaria e dell’articolo 27 della Costituzione: in un’Italia dalla memoria cortissima, le parole (anche scritte) le porta via il primo refolo di vento. Basta parole, dunque, sulle condizioni delle carceri italiane, perché parlano, anzi urlano, i fatti: il sovraffollamento medio delle celle è del 112% (ma in alcuni istituti supera il 150%), i 38 suicidi di detenuti registrati da gennaio a oggi fanno segnare un tragico record, il numero degli ergastolani è raddoppiato negli ultimi 20 anni (utile promemoria per i tanti convinti che “in Italia in galera non va nessuno”) e abbiamo 25 bambini, venticinque, dietro le sbarre con le loro mamme. Ecco, dietro le sbarre e dietro ciascuno di questi numeri-fatti, resi pubblici ieri da Antigone, non ci sono parole, vane teorie securitarie, slanci filantropici buoni per fare bella figura in qualche consesso d’illuminati. Ci sono donne e uomini che hanno commesso errori anche gravissimi, che hanno compiuto il male, oppure che sono finiti dentro per sbaglio o per la propria fragilità. Non importa, ciascuno di loro è una persona e come tale va trattata, nel rispetto di una dignità che viene prima di qualsiasi reato. Lo chiediamo ancora una volta a quelli del “marciscano in prigione” e del “buttiamo via la chiave”: come può un essere umano, dopo aver trascorso alcuni mesi, anni o decenni, in una stanza con altri 4 o 5, senza spazio sufficiente, servizi igienici ridotti al minimo e in molti casi senza alcuna riservatezza, uscire dal carcere migliore di quando vi è entrato? Come può essere recuperato, reinserito nella società delle persone ‘per bene’? Non meravigliamoci del massiccio uso di psicofarmaci tra i detenuti, aumentato in seguito alla pur necessarie restrizioni anti-Covid che hanno comportato, per un lungo periodo, il divieto di visite da parte dei familiari. Pensiamo piuttosto al caldo pesante di questa estate, che ci sta opprimendo ormai da settimane, e cerchiamo di immaginare come si possa stare ‘dentro’. Citiamo ancora dal rapporto estivo di Antigone: nel 58% delle celle non c’è una doccia, nonostante il regolamento penitenziario del 2000 (un autentico ‘libro dei sogni’ rimasto in larga parte lettera morta) lo prevedesse; nel 44% le schermature alle finestre impediscono il passaggio dell’aria. Restare indifferenti è peccare di disumanità. Eppure per un’emergenza annosa come quella penitenziaria, il rischio è proprio quello di diventare una drammatica ‘normalità’, quasi fosse ineluttabile tollerare un simile scempio di civiltà. Rischio che si moltiplica in periodi di campagna elettorale come quello attuale, durante i quali ci si tiene in genere lontani da temi ‘scomodi’ come questo per timore di perdere voti o, peggio, si promette ancora più carcere per acchiapparne di nuovi. Senza contare che l’affondamento del governo Draghi e la conseguente interruzione traumatica della legislatura mette in pericolo i provvedimenti che erano in cantiere. Difficilmente, infatti, vedremo l’approvazione definitiva della ‘legge Siani’ che prevede la collocazione delle mamme detenute e dei loro bambini in apposite case-famiglia. Mentre l’esecutivo dimissionario potrebbe ancora dare attuazione alle misure deflattive (messa alla prova, pene alternative alla detenzione, giustizia riparativa, non punibilità per particolare tenuità del fatto) contenute nella legge delega 134 del 2021. Sarebbe ancora poco, ma almeno sarebbe qualcosa. Rapporto Antigone, l’insostenibile calda estate nelle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2022 Penitenziari affollati dove, con queste temperature altissime, si è costretti a vivere con finestre schermate e celle senza doccia. Emerge l’anomalia dei pochi indennizzi per ingiusta detenzione rispetto alle custodie cautelari. “Alle ondate di caldo sempre più forti prodotte dai cambiamenti climatici non sono immuni neanche le carceri che, sempre di più, dovranno far fronte anche a questa variabile che può mettere a rischio la salute e la dignità delle persone detenute e degli operatori”. A dirlo è stato Patrizio Gonnella - presidente di Antigone - durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto di metà anno dell’associazione che, dal 1991, si occupa di tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario. Un rapporto che, a partire dal titolo “La calda estate delle carceri”, ha al suo centro anche questa questione. In Lombardia in alcuni casi si riscontra un tasso di affollamento del 150% - Antigone denuncia che le carceri italiane non sono attrezzate per affrontare il caldo che ormai negli ultimi anni stiamo vivendo. Il sovraffollamento rappresenta un problema evidente. In carcere si sta stretti e nelle celle e nelle sezioni ci sono più detenuti - in alcuni casi molti più detenuti - di quanti ce ne dovrebbero essere. Il tasso ufficiale di affollamento a fine giugno era del 107,7%, con 54.841 persone recluse su 50.900 posti, anche se il tasso effettivo - conteggiando i posti letto realmente disponibili, che a luglio 2022 erano 47.235, è del 112%. In alcune regioni poi la situazione è ancora più difficile. In Lombardia, ad esempio, il tasso di affollamento è del (148,9%), mentre ci sono ben 25 carceri dove si riscontrano tassi superiori al 150%, cioè dove ci sono 15 detenuti laddove ce ne dovrebbero essere 10. I casi più critici si riscontrano negli istituti di Latina, con un tasso di affollamento reale del 194,5%; Milano San Vittore, che con 255 posti non disponibili ha un tasso di affollamento del 190,1%; Busto Arsizio, con tasso di affollamento al 174,7%; Lucca, con 24 posti non disponibili e un tasso di affollamento del 171,8%; infine il carcere di Lodi, con un tasso di affollamento al 167,4%. A Santa Maria Capua Vetere forniti 4 litri di acqua potabile al giorno - Il rapporto evidenza che alla questione affollamento si accompagnano anche questioni strutturali che riguardano gli istituti. In alcuni l’acqua viene razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegata dalla rete idrica comunale. In questo istituto ai detenuti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno mentre per le altre necessità è utilizzabile l’acqua dei pozzi artesiani. Nel 2020 era stata aggiudicata la gara d’appalto e l’impianto idrico comunale è stato completato. Manca solo l’allaccio che deve essere effettuato dal Dap e che si prevede venga completato in autunno. Nel 58% delle 85 carceri che l’osservatorio di Antigone ha visitato nel corso dell’ultimo anno c’erano celle senza la doccia, fondamentale per garantire igiene e refrigerio. Questo nonostante il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che ci fossero docce in ogni camera di pernottamento entro il 20 settembre 2005. Inoltre, in poco meno della metà degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria. “Per combattere il gran caldo il Dap, con una recente circolare, ha autorizzato l’acquisto dei ventilatori nel sopravvitto. Si tratterebbe di ventilatori da tavolo da collegare alla rete elettrica, mentre in alcuni istituti si trovano invece ventilatori a batteria. Ma la loro disponibilità varia da carcere a carcere e, inoltre, il fatto che l’acquisto sia a spese dei detenuti fa sì che non tutti abbiano possibilità di comprarne uno”, sottolinea l’associazione Antigone. Dall’inizio del 2022 si sono registrati già 38 suicidi - Ma non solo il caldo in senso meteorologico è stato al centro del rapporto di metà anno di Antigone. Tanti sono i temi infatti che hanno bisogno di un’urgente attenzione. Uno dei tanti è quello che riguarda interventi relativi all’affettività e all’aumento del numero di telefonate che consentirebbero di prevenire i suicidi, vero e proprio dramma che riguarda le carceri. Nel 2022 infatti sono già 38 le persone che si sono tolte la vita in un istituto penitenziario. Una delle situazioni più drammatiche nel carcere di Pavia dove, in 9 mesi, si sono tolte la vita 5 persone detenute (sul finire del 2021 in tre si erano suicidati in poco più di 30 giorni). In carcere ci si leva la vita ben 16 volte di più rispetto alla società esterna. “La caduta del governo ha portato ad un’interruzione del percorso di riforma che era stato iniziato, anche grazie al lavoro della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal prof. Marco Ruotolo. L’auspicio - ha dichiarato Patrizio Gonnella - è che il prossimo governo sappia recuperare questo lavoro per affrontare i temi caldi che gravano sulle carceri italiane”. Sovraffollamento: secondi solo a Romania, Grecia, Cipro e Belgio - Il rapporto di metà anno di Antigone sottolinea che l’Italia si conferma tra i paesi con le carceri più affollate dell’Unione Europea, seconda solo a Romania, Grecia, Cipro e Belgio: secondo l’ultimo rapporto Space del Consiglio d’Europa, uscito lo scorso aprile con dati al 31 gennaio 2021, il tasso di affollamento ufficiale in Italia era a quella data pari a 105,5%, ben oltre la media dell’Unione Europea del 92,1%. A causa delle molte sezioni chiuse per ristrutturazione, il tasso di affollamento reale sfiorava il 114%. Sempre a quella data, il 31,1% dei detenuti nelle carceri italiane era presunto innocente, non avendo ancora una condanna definitiva. La media UE era pari al 24%, di oltre 6 punti inferiore. I detenuti in attesa di primo giudizio restano in custodia cautelare nelle carceri italiane mediamente 7,6 mesi, dove la media nell’Unione Europea è pari a 5,2. Guardando al personale, se mediamente nelle carceri dell’Unione Europea vi è un poliziotto ogni 3,9 detenuti, in Italia ogni poliziotto deve occuparsi di solo 1,6 detenuti. Per quanto invece riguarda il personale che si occupa delle attività trattamentali, esso è il 3,6% del personale che fa capo alle amministrazioni penitenziarie in Unione Europea, mentre in Italia è il 2%. Nel 2021 solo 565 indennizzi rispetto a 24.126 custodie cautelari in carcere - Tra i vari temi affrontati nel rapporto, campeggia quello dell’abuso della custodia cautelare. Ricorda che a maggio del 2022 è stata presentata la relazione del ministero della Giustizia in materia di misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione. Molti dati contenuti nella relazione risultano sorprendenti, anzitutto il fatto che la più restrittiva delle misure cautelari personali, la custodia cautelare in carcere, è anche la più diffusa, adottata nel 29,7% dei casi in cui nel 2021 si è ritenuto che fosse necessario applicare una misura, e la seconda misura più restrittiva, gli arresti domiciliari, è anche seconda per diffusione, scelta nel 25,7% dei casi. In pratica, guardando a questi numeri, rispettivamente 24.126 e 20.836, appare evidente che le misure cautelari personali più utilizzate sono quelle che comportano maggiori limitazioni alla libertà personale, e quelle che ne comportano meno sono usate meno: l’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria nel 15,8% dei casi, il divieto di dimora nel 5,6%, l’obbligo di dimora nell’8%. E questo nonostante proprio la legge n. 47 del 2015 abbia rafforzato il principio per cui le restrizioni alla libertà personale debbano essere il più possibile contenute. Antigone evidenza anche una anomalia sull’ingiusta detenzione. In Italia, nel 2021, sono stati pagati poco più di 24 milioni per 565 indennizzi: come si spiegano a fronte di 24.126 misure di custodia cautelare in carcere dello stesso anno con le poche centinaia di indennizzi? “Abbiamo un sistema che non fa errori, e che non dispone quasi mai misure cautelari in violazione della legge o a carico di persone che verranno poi assolte o prosciolte? Pare non sia così”, osserva Antigone. “Sovraffollamento e caldo insopportabile”, è emergenza nelle carceri italiane di Massimo Razzi La Repubblica, 29 luglio 2022 La denuncia dell’associazione Antigone: “Manca l’acqua e persino l’aria: il posto peggiore per affrontare il cambiamento climatico”. “Il carcere è forse il posto peggiore dove affrontare il cambiamento climatico: quello normale, tra il caldo e il freddo”. Lo dice Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà per il Lazio e l’Umbria. “In carcere - aggiunge - fa sempre più freddo o più caldo che a casa e mancano gli strumenti per fronteggiare le situazioni estreme come quella che stiamo vivendo in questi mesi”. Della situazione nelle carceri italiane in questa torrida estate si occupa ampiamente il ‘Rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione in Italia’, presentato da Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti delle persone detenute. L’ondata di caldo - Il caldo di questi giorni si è abbattuto sulle circa 190 carceri italiane che ospitano 54.841 detenuti contro una capienza effettiva di 47.535 posti e un tasso di sovraffollamento reale del 112%. Dati che si ripetono con una lineare costanza negli ultimi anni. La situazione non peggiora, si potrebbe dire, ma nemmeno migliora se si pensa che il tasso di affollamento degli istituti europei è, in media, del 92,1%. Sul dato dell’affollamento incidono pesantemente due questioni: il tasso elevatissimo (31,1% contro il 24% della media Europea) di persone detenute in attesa di giudizio (quindi innocenti fino a prova contraria) e la questione delle tossicodipendenze: il 34,1% dei detenuti italiani è dentro per reati legati al traffico (spesso piccolo o piccolissimo) di droga e il 28,1% ha problemi seri di tossicodipendenza cioè, quasi un terzo dei detenuti non è adatto alla vita in carcere. Basterebbero piccole modifiche alle norme sulla droga e un uso più attento della carcerazione preventiva per risolvere quasi del tutto il problema di affollamento delle nostre carceri. Sovraffollamento e poca aria - In attesa (probabilmente vana) di questi cambiamenti, le carceri restano affollate e il caldo (mai il detto sullo “stare al fresco” fu più sbagliato) comanda e deprime la giornata dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria che vivono gran parte della giornata con loro. Perché in molti casi (44%) le finestre sono schermate da fittissime grate che impediscono quasi del tutto il passaggio d’aria. Perché (come ci ha spiegato Alessio Scandurra di Antigone) molte celle (attenzione, si chiamano “camere di pernottamento) non hanno il cancello che chiude ma fa passare l’aria. Di notte, dunque, queste camere (dove dormono anche sei/otto persone) sono chiuse da una porta blindata che non fa passare neanche un refolo d’aria. Ma anche perché nel 58% per cento delle celle delle carceri italiane non c’è la doccia e per lavarsi bisogna farlo a turno nei bagni comuni. Questo anche se il regolamento del 2000 dava tempo 5 anni al sistema carcerario per dotare di docce nelle celle tutte le strutture. E lo stesso regolamento diceva che negli istituti femminili dovesse esserci un bidet per ogni cella. Ne manca ancora un buon 30 per cento. Senz’acqua - E oltre alle docce, in diversi istituti manca proprio l’acqua. Come a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove la struttura carceraria non è collegata alla rete idrica comunale. Certo, si sta lavorando, ma ci vorranno ancora mesi. Così si provvede con quattro bottiglie d’acqua al giorno per ogni detenuto e con i pozzi artesiani che provvedono all’acqua per lavarsi. O come ad Augusta (Siracusa) dove si è arrivati al razionamento. Il caldo, dunque, ha portato nelle carceri questioni che sembrano d’altri tempi. Come l’assenza quasi totale di frigoriferi e come la questione dei ventilatori. All’inizio di luglio, viste le temperature africane, il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) ha dato il via libera all’acquisto di ventilatori. Nessuno pensi che mentre noi cittadini moriamo di caldo nelle nostre case e ci dotiamo di strumenti per resistere in base alle nostre possibilità economiche, i carcerati italiani siano stati forniti di ventilatori a spese dell’amministrazione. Il Dap ha solo permesso alle direzioni delle carceri di metterli a disposizione dei detenuti che possono e vogliono acquistarli come tanti altri beni di consumo che fanno parte del cosiddetto “sopravvitto”. Ma siamo pur sempre in carcere e il ventilatore non dovrà avere pale rotanti che potrebbero essere pericolose e sarà meglio che funzioni a batteria perché non tutte le celle hanno le prese di corrente e perché potrebbero verificarsi pericolosi sovraccarichi. Insomma, pare che i ventilatori forniti ai detenuti che possono permetterseli siano abbastanza costosi e abbiano suscitato lamentele. La piaga dei suicidi - Piccole beghe di ordinaria calura? Non proprio, perché questi 54.841 nostri concittadini sono privati della libertà per decisione di un giudice che, però, non ha inflitto loro nessuna pena aggiuntiva come quella di morire di caldo. E invece, in carcere si continua a morire troppo di suicidio. Sono già 35 i detenuti che si sono tolti la vita nei primi sei mesi dell’anno (più tre a luglio). La proiezione dice che a fine 2022 saranno una settantina. I tentativi di suicidio e gli episodi di autolesionismo non si contano. Tutti i detenuti ti spiegano che quello di uccidersi è un pensiero continuo per chi sta dentro. Troppi lo fanno. Ne consegue un tasso suicidario altissimo in un Paese dove, tra le persone libere, il numero dei suicidi è basso (0,62 ogni diecimila abitanti). Se alla fine del 2022 si arrivasse a quota 70, avremmo avuto quasi 17 suicidi ogni diecimila detenuti. Un ulteriore dimostrazione di come il carcere andrebbe usato con molta attenzione e parsimonia. “Aiuto, soffochiamo!”. S.O.S. dalle carceri di Alessio Scandurra Il Riformista, 29 luglio 2022 I ventilatori li ha solo chi può permetterseli. In alcuni istituti l’acqua è razionata, in altri manca del tutto. Il sovraffollamento invece non manca mai. E i suicidi continuano ad aumentare. Abbiamo presentato “La calda estate nelle carceri”, il rapporto di metà anno di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia del 2022. Quest’anno è stato preparato nel corso di giornate rese bollenti dell’ondata di calore che colpisce il paese, ed il pensiero va a chi, in carcere, non ha modo di difendersi da questo caldo: l’aria condizionata non esiste ed anche i ventilatori in molti posti non ci sono, e dove ci sono li ha solo chi se li può permettere. Ma in carcere il gran caldo mette a nudo molti altri problemi. In alcuni istituti penitenziari l’acqua viene razionata, in altri manca del tutto. E anche quando in cella l’acqua c’è, molto spesso non c’è una doccia. Non mancano invece sovraffollamento e suicidi. Ieri abbiamo presentato “La calda estate nelle carceri”, il rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione in Italia del 2022. Quello del rapporto di metà anno è ormai un appuntamento fisso di Antigone, in cui presentiamo i primi esiti delle nostre visite e un quadro di quanto osservato e del lavoro svolto dall’associazione nel corso dei primi mesi dell’anno. Quest’anno il rapporto è stato preparato nel corso di giornate rese bollenti dell’ondata di calore che colpisce il paese, ed il pensiero inevitabilmente va a chi, in carcere, non ha modo di difendersi da questo caldo: l’aria condizionata non esiste ed anche i ventilatori in molti posti non ci sono, e dove ci sono li ha solo chi se li può permettere. Ma in carcere il gran caldo mette a nudo molti altri problemi. In alcuni istituti penitenziari l’acqua viene razionata, come ad Augusta, mentre in altri manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, un istituto aperto nel 1996 e ad oggi ancora scollegato dalla rete idrica. E anche quando in cella l’acqua c’è, molto spesso non c’è una doccia. Durante le visite effettuate in 85 istituti penitenziari negli ultimi 12 mesi, dal luglio 2021 al luglio 2022, abbiamo osservato come nel 58% delle carceri visitate c’erano celle senza la doccia, nonostante il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che ci fossero docce in ogni camera di pernottamento entro il 20 settembre 2005. E nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che limitano il passaggio di aria. In tutto questo ovviamente il sovraffollamento non aiuta. I dati ufficiali parlano di un affollamento medio del 107,7%, ma se si considera che al momento nelle nostre carceri ci sono 3.665 posti non disponibili, perché inagibili o in ristrutturazione, l’affollamento effettivo medio sale al 112% e sono ben 130, su un totale di 190, le carceri con un tasso di affollamento reale superiore al 100% e, dunque, sovraffollate. Le cause del sovraffollamento sono molteplici. Nel complesso diminuiscono gli ingressi ma si allungano le pene ed in definitiva i numeri delle presenze continuano a crescere. In tutto questo circa un terzo dei detenuti è in carcere per la violazione della legge sugli stupefacenti, una percentuale doppia rispetto alla media degli altri paesi europei ed è evidente che un intervento (più o meno) ambizioso sulla legislazione sulle droghe avrebbe comunque un impatto significativo sul carcere, provando a spezzare quella spirale di criminalizzazione e marginalizzazione che fa la fortuna delle organizzazioni criminali e scarica su tutti noi i costi di una guerra alla droga feroce solo con i deboli. Diminuisce invece il numero degli stranieri detenuti, nonostante l’aumento degli stranieri nel nostro paese, segno di una lenta “normalizzazione” della presenza di migranti nella nostra società. E in tutto questo, e non si può non parlarne, cresce il numero dei suicidi in carcere. Nel primo semestre del 2022 si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena 35 persone. A queste si aggiungono altre 3 persone che si sono uccise nel mese di luglio, portando a 38 il numero totale dei suicidi avvenuti in carcere dall’inizio dell’anno. Mai così tanti, neanche negli anni del grande sovraffollamento penitenziario, quando i detenuti erano molti di più. E se si guarda agli istituti dove nel 2022 si sono consumati più suicidi (Roma Regina Coeli, Foggia, Milano San Vittore, Palermo Ucciardone, Monza, Genova Marassi e Pavia), i problemi sono sempre gli stessi: cronico sovraffollamento, elevata percentuale di detenuti stranieri, di tossicodipendenti e di detenuti affetti da patologie psichiatriche, ed una carenza di personale specializzato per farsi carico di queste criticità. Appaiono insufficienti in particolare il sostegno psicologico e psichiatrico, e generalmente manca del tutto il personale tecnico ed infermieristico che li dovrebbe affiancare. E la gestione del disagio psichico è affidata essenzialmente ai farmaci. Dalle visite di Antigone emerge come il 28% delle persone detenute nelle carceri assume stabilizzatori dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, e il 37,5% assume sedativi o ipnotici. Numeri da capogiro, non paragonabili a qualunque contesto libero, che da una parte danno la misura di quanto il carcere faccia male alla salute, ma dall’altra anche della fragilità della popolazione detenuta, e della inadeguatezza della risposta a questa fragilità. In una spirale di disagio e di gestione penitenziaria del disagio che difficilmente può essere interrotta dal fine pena. *Associazione Antigone Acqua razionata, sovraffollamento e un suicidio ogni 5 giorni: viaggio nel pianeta carceri di Carmine Di Niro Il Riformista, 29 luglio 2022 Nelle carceri non si sta “al fresco”, come da luogo comune quando una persona viene sbattuta dietro le sbarre. Anzi, i penitenziari italiani sono sempre più vicini ad un inferno climatico, una sorta di fardello supplementare per chi sta già scontando la sua pena con la giustizia, magari in celle sovraffollate. È questo il quadro che emerge dal rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone, che da anni si occupa di monitorare i diritti delle persone private della libertà nelle 197 carceri italiane. Istituti in cui mancano i frigoriferi, i ventilatori e in casi estremi anche l’acqua, come a Santa Maria Capua Vetere, il carcere casertano finito sulle prime pagine per la mattanza compiuta dalla penitenziaria contro i detenuti: lì non c’è alcun collegamento con la rete idrica comunale, così per ‘sopravvivenza’ agli ospiti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno, prelavata da pozzi artesiani. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, illustrando il rapporto ha sottolineato che dalle osservazioni dell’associazione “è emerso che sono troppi i luoghi dove non si respira, si vive male. Sono condizioni durissime di vita per i detenuti e per coloro che lavorano all’interno delle carceri”. Dalle visite effettuate da Antigone è emerso infatti che in quasi un terzo degli istituti non sono garantiti i 3 metri quadri di spazio calpestabile per persona, nel 58% delle celle non c’è la doccia (anche se sono previste da regolamento dal 2005), e nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio d’aria. Quanto ai ventilatori, il cui acquisto è stato autorizzato da una recente circolare del Dap, nelle carceri ve ne sono ancora pochissimi. L’affollamento - Il sovraffollamento delle carceri resta un problema ormai storico per il Paese. Stando agli ultimi dati aggiornata al 30 giugno 2022 dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, sono 54.841 le persone detenute negli istituti di pena, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un tasso di affollamento ufficiale del 107,7%. Per Antigone questi numeri però non sono veritieri perché sul territorio nazionale ci sono al momento 3.665 posti non disponibili negli istituti di reclusione: la capienza effettiva dunque scende a 47.235 posti e il sovraffollamento effettivo sale al 112%. Ci sono poi alcuni casi limite, i 25 istituti dove il sovraffollamento reale è superiore al 150%, con picchi di oltre il 190%. Tra quelli più critici, segnalati dall’associazione, gli istituti di Latina con un tasso di affollamento reale del 194,5%; Milano San Vittore, che con 255 posti non disponibili ha un tasso di affollamento del 190,1%; Busto Arsizio al 174,7%. A livello regionale il tasso più alto si riscontra in Lombardia (148,9%), che è anche la regione con più detenuti, 7.962, seguita da Campania (6.726), Sicilia (5.955), Lazio (5.667) e Piemonte (4.015). Il record di suicidi - L’altra grande emergenza segnalata in questi primi sei mesi del 2022 è quella dei suicidi. Sono 38 i detenuti che da inizio anno si sono tolti la vita dietro le sbarre, uno ogni cinque giorni. Di questi 18 erano di origine straniera, due le donne, mentre 14 persone avevano tra i venti e i trent’anni. Guardando al passato, il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un massimo di 27. Solo nel 2010 e nel 2011 tale numero si avvicinava a quello di oggi, rispettivamente con 33 e 34 suicidi. Anni in cui però il sovraffollamento aveva raggiunto picchi ancora più alti rispetto a quelli odierni: i detenuti oggi sono in numero assai minore, eppure i disagi e i suicidi continuano. La soluzione - Una soluzione per risolvere almeno parzialmente i problemi all’interno delle carceri ci sarebbe, ma servirebbe anche una volontà politica difficile da trovare in Parlamento. Il ‘jolly’ sarebbe quello di concedere agli oltre 6mila detenuti con un residuo di pena inferiore ai tre anni di accedere a misure alternative, intraprendere cioè percorsi di esecuzione penale esterna. Torna di moda l’allarme sicurezza. Ma i detenuti stranieri continuano a diminuire di Federica Olivo huffingtonpost.it, 29 luglio 2022 La campagna elettorale di Salvini riparte da dove era stata messa in stand-by. E le sue frasi sull’immigrazione, la sicurezza dei confini che vuol dire “sicurezza degli italiani”, sembrano un remake del 2019. Non si distingue molto Giorgia Meloni, quando dice che “in Italia c’è un enorme problema di sicurezza”. Ma davvero gli stranieri delinquono sempre di più? I dati sulla popolazione detenuta, sebbene lascino fuori tutti gli eventuali casi non ancora passati sotto il vaglio delle forze dell’ordine, non sembrano confermare questa tesi. Nel rapporto di metà anno di Antigone, intitolato “La calda estate delle carceri”, emerge come i detenuti stranieri negli ultimi anni siano diminuiti. Sono il 31,3% della popolazione carceraria, mentre nel 2008 erano il 37,45%. Cifre comunque significative, ma la discesa è innegabile. Se si guarda ai dati degli ultimi anni il trend è ancora più evidente. Nel 2019 i detenuti non italiani erano 20224, oggi invece sono 17.182. Dai dati aggiornati al 30 giugno scorso, le nazioni più rappresentate, sul totale degli stranieri detenuti, sono il Marocco con 3.437 (20%), la Romania con 2.022 (11,8%), l’Albania con 1.852 (10,8 %) e la Tunisia con 1.709 (9,9 %). Per quanto riguarda le donne, tra le nazionalità in modo particolare sono rappresentate quella romena e quella nigeriana. La distribuzione della popolazione reclusa straniera negli istituti di pena italiani non è però omogenea. Le Regioni con l’incidenza più alta sono la Valle D’Aosta, con il 61,9% dei presenti, e il Trentino Alto Adige con il 59,8%, ma anche grandi regioni come la Lombardia (45,7%), l’Emilia Romagna (47,8%) e la Toscana (47,2%). Di contro, le Regioni con la presenza di detenuti stranieri più bassa sono la Basilicata (12,6%), la Campania (12,9%) e la Puglia (14,9%). Guardando ai singoli istituti di pena, quelli con i numeri assoluti più alti sono la casa circondariale di Torino (648 stranieri), San Vittore (579) e Bollate (557) a Milano, e gli istituti romani di Regina Coeli (505) e Rebibbia Nuovo Complesso (456). La percentuale più alta di stranieri reclusi si trova a Firenze Sollicciano (68,3%), a Bolzano (66,3 %) e nella casa di reclusione Onanì-Mamone (65,9 %). Nel report di Antigone si evidenziano inoltre l’alto tasso di suicidi nei penitenziari italiani, di cui HuffPost aveva parlato qui, il problema annoso del sovraffollamento, e l’elevato numero di detenuti per reati connessi alla droga. Sono, secondo i dati dell’associazione, il doppio rispetto al resto d’Europa. Ergastolo ostativo sul binario morto di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2022 Questo Parlamento sta mandando in fumo la riforma dell’ergastolo ostativo ai benefici per detenuti mafiosi, che da assoluto deve diventare relativo, per decisione della Corte costituzionale. Approvata alla Camera il 2 aprile scorso, la riforma giace in Commissione Giustizia del Senato. Durante la riunione dei capigruppo a Palazzo Madama, martedì, l’unico a chiedere che si voti in commissione Giustizia e poi in Aula, è stato il M5S, che ha raccolto il consenso solo del Pd. Tutti gli altri gruppi, dell’ex maggioranza e dell’opposizione, si sono sfilati. Quindi, a oggi, la riforma dell’ostativo sembra destinata al macero: per poter votare disegni di legge che sono sì allo step finale, ma che non rientrano nel perimetro degli “affari ordinari”, fissato dalla circolare del dimissionario Draghi, devono avere il consenso di tutte le forze. Almeno questa è sempre stata la prassi. Ma Palazzo Madama, volendo, può ancora cambiare idea. Il tempo perché possa approvare definitivamente la riforma c’è, la settimana prossima sarà stabilito il calendario dell’ultimo scorcio di questa legislatura. Il M5S tornerà a chiedere che si voti definitivamente una riforma che, sostiene, ha messo tutti i paletti possibili perché boss pericolosi, persino stragisti, che non hanno mai voluto collaborare con la giustizia, possano trovare una via giudiziaria per uscire dal carcere anche con la condizionale oltre che con i permessi premio “sdoganati”, in autonomia, dalla Consulta nel 2019, a determinate condizioni. Allora in Corte c’era come vicepresidente Marta Cartabia che, appena diventata ministro della Giustizia, il 21 febbraio 2021, ha ricevuto una lettera del boss Giuseppe Graviano, che continua a sperare nelle riforme del 41-bis e dell’ostativo. Lirio Abbate, nel suo libro Stragisti riporta stralci di quella missiva in cui Graviano riferisce a Cartabia che i suoi avvocati la “stimano” e le racconta pure che a Firenze ha risposto per molte ore ai pm. Sono i magistrati che indagano sui mandanti esterni alle stragi e che hanno acquisito anche quella lettera, cui la ministra non ha mai risposto. Se i senatori uscenti non voteranno l’ostativo, si dovrà ricominciare da zero. Ammesso che il nuovo Parlamento, una volta insediato, ne faccia una priorità e riesca in un battito d’ali a votare la riforma, almeno alla Camera, prima dell’8 novembre. È in quella data che la Corte costituzionale dovrà prendere un’altra decisione: entrare nel merito dell’ennesimo ricorso della Cassazione contro l’ostativo o, come aveva fatto a maggio, dare altri 6 mesi al Parlamento rispetto all’anno concesso nell’aprile 2021, quando ha chiesto di legiferare, proclamando incostituzionale anche l’ostativo alla condizionale. Formalmente la Corte non è vincolata ad alcuna scelta. Non c’è una norma scritta a tal proposito. Può proseguire con il galateo istituzionale oppure decidere perché il Parlamento ha disatteso quanto chiesto. Quindi, la responsabilità in merito al destino di questa riforma, già approvata in aprile a Montecitorio è tutta politica. Una cosa è certa, però, a differenza di maggio in Corte, l’8 novembre, non ci sarà più a presiedere Giuliano Amato, il suo mandato scade il 18 settembre. Il 19 si vota il nuovo presidente. Sarà una donna. A contendersi la presidenza Daria de Petris e Silvana Sciarra. Dietro le sbarre senza dignità di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 29 luglio 2022 Se in questa torrida estate nelle case non si respira, in cella si vive in un girone dantesco. Il caldo insopportabile è aggravato dal sovraffollamento che continua a crescere, dalla mancanza di spazio vitale con il 31 per cento degli istituti di pena che non garantiscono il minimo stabilito di 3 metri quadrati per persona, l’assenza di docce per il 58 per cento dei casi nelle camere di pernottamento ed infine la schermatura alle finestre che impedisce il passaggio di aria in quasi metà delle carceri. E c’è di peggio, in alcuni istituti come ad Augusta o a Santa Maria Capua Vetere d’estate l’acqua potabile è razionata: si ha diritto a soli 4 litri a persona al giorno e per le altre necessità si usa l’acqua dei pozzi. Il rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione in Italia, che ogni luglio l’associazione Antigone pubblica, è un tuffo in una realtà in cui manca il rispetto della dignità umana. Con 54.841 persone detenute, di cui 2.314 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti e dunque con un affollamento medio del 107,7 per cento, l’Italia si conferma come uno dei Paesi europei con le carceri più affollate. Celle stipate di persone, il 29 per cento delle quali non ha una sentenza definitiva e il 15 per cento è in attesa del primo giudizio, con il 36,6 per cento dei reclusi che sta scontando una condanna inferiore ai tre anni e potrebbero dunque accedere a misure alternative al carcere. E mentre calano i detenuti stranieri (il 31,3 per cento contro il 32,3 per cento del 2021) resta costante il numero dei tossicodipendenti 15.244(circa il 28,1 per cento del totale). Il rapporto di Antigone, realizzato attraverso costanti visite negli istituti di pena, racconta inoltre una popolazione detenuta sempre più anziana (1.065 detenuti hanno più di 70 anni), con un tasso di alfabetizzazione basso (solo il 2 per cento ha un diploma professionale), che studia ancora molto poco, ma soprattutto “un carcere psico-patogeno dove il disagio psichico, diagnosticato o non, è diffuso capillare ed omogeneo su tutto il territorio nazionale”. Oltre il 13 per cento dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave, “in numeri assoluti significa - spiega Antigone - che oltre 7 mila persone soffrono di disturbi psichici”. E se, in carcere, si continua a registrare la carenza cronica di supporti psichiatrici e psicologici, si abbonda invece nell’uso di psicofarmaci. Secondo i dati del rapporto, il 28 pe cento delle persone detenute assume stabilizzatori dell’umore, antipsicotici e antidepressivi e un altro 37,5 per cento sedativi o ipnotici. Un’altra faccia dello stesso problema sono i suicidi in cella: già 38 dall’inizio del 2022, oltre uno ogni 5 giorni. In carcere ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna. Alto anche il tasso dei tentati suicidi, 1,9 ogni 100 detenuti, e gli atti di autolesionismo, 19,2 ogni 100 reclusi. Tra i casi di suicidio riportati nel rapporto uno in particolare colpisce: quello di un ragazzo di 21 anni che secondo il Tribunale di Milano in carcere non doveva stare. Detenuto a San Vittore dall’agosto 2021 per il furto di un cellulare, nel mese di ottobre il giudice aveva disposto il suo trasferimento in una Rems (Residenza per le misure di sicurezza) in quanto una perizia psichiatrica dimostrava la sua incompatibilità con il regime carcerario. Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, il ragazzo si è tolto la vita. Nelle settimane precedenti ci aveva provato già altre due volte. “Ogni caso di suicidio ha una storia a sé, fatta di personali sofferenze e fragilità - spiega il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella - ma quando i numeri iniziano a diventare così alti non si può non guardarli come un indicatore di malessere di un sistema che necessita di profondi cambiamenti”. Salute nelle carceri: intesa Dap-Atena Donna per detenute e personale Il Messaggero, 29 luglio 2022 Il protocollo è stato sottoscritto nella sede del Dap dal Capo del Dipartimento, Carlo Renoldi, e dalla Presidente della Fondazione “Atena Donna”, Carla Vittoria Maira. Avrà validità annuale e sarà rinnovato tacitamente a ogni scadenza. La Fondazione “Atena Donna” e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno firmato ieri, 28 luglio, un protocollo operativo che intende realizzare percorsi di informazione e di cura rivolti sia alle donne recluse che al benessere del personale penitenziario, da concordarsi con i responsabili dei presidi sanitari degli istituti. Come? Con incontri tra detenute, personale femminile degli istituti penitenziari e personale medico altamente specializzato, dedicati alla cultura della prevenzione sanitaria, con il coinvolgimento di giornalisti del settore; momenti di formazione e sostegno al personale, con particolare riferimento al mondo femminile; sviluppo del progetto “Colora il tempo”, incentrato sull’abbellimento dei luoghi penitenziari. Sono le azioni che la Fondazione “Atena Donna” si impegna ad attuare negli istituti che di volta in volta saranno individuati grazie al protocollo. L’iniziativa, che segue di alcuni mesi una analoga precedente intesa fra le stesse parti, sul progetto #Liberalamente, che coinvolgeva operatrici e detenute degli istituti di Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, intende realizzare dei percorsi di informazione e di cura rivolti sia alle donne recluse che al benessere del personale penitenziario, da concordarsi con i responsabili dei presidi sanitari degli istituti. Il protocollo è stato sottoscritto nella sede del Dap dal Capo del Dipartimento, Carlo Renoldi, e dalla Presidente della Fondazione “Atena Donna”, Carla Vittoria Maira. Avrà validità annuale e sarà rinnovato tacitamente a ogni scadenza. Portare la musica nel carcere, per aiutare i detenuti a (ri)conoscersi di Sabina Pignataro vita.it, 29 luglio 2022 Da trent’anni Franco Mussida, ex chitarrista della Pfm e presidente del CPM, porta i suoi laboratori nelle carceri, “lasciando che la musica si “infiltri” nelle persone e agisca come un balsamo interiore che quieta le sorgenti dell’aggressività e porti consolazione e speranza”. Dopo due anni di pandemia i progetti sono ricominciati nel Carcere di San Vittore di Milano (nel raggio dei tossicodipendenti) e nella comunità di San Patrignano. Portare la Musica in luoghi estremi, facendo in modo che le noti si “infiltrino” nelle persone e agiscano come un balsamo interiore che quieta le sorgenti dell’aggressività e porti consolazione e speranza”. Dopo due anni di pandemia, Franco Mussida, l’ex chitarrista della Pfm e presidente del CPM, Music Institute di Milano, ha varcato di nuovo i nove grandi cancelloni di ferro che nel Carcere di San Vittore di Milano separano l’ingresso dagli spazi della Nave, il raggio dei tossicodipendenti, ed è tornato nella comunità di San Patrignano. I suoi progetti musicali, che puntano ad aiutare le persone a confrontarsi con le loro pulsioni, con la loro vita emotiva, hanno trovato larga condivisione dal Ministero della Giustizia nel quadro delle iniziative che si stanno sviluppando negli istituti di pena per alzare gli standard qualitativi del regime detentivo. Mussida, cosa sono i laboratori di “ascolto emotivo consapevole” che propone a San Vittore e a San Patriniano? I laboratori sono luoghi in cui si apprezzano gli effetti della Musica su sé stessi. Si apprezzano come puro suono, senza le parole. Niente canzoni, ma composizioni strumentali. Metto in pratica ciò che scrivo ne: “Il Pianeta della Musica” Salani, 2019. Si impara a scomporre il flusso musicale di brani di ogni genere, stile ed epoca: dalla Classica al Jazz fino alla Musica popolare. Si sperimentano climi emotivi, si apprende come confrontarsi con le pulsioni che emergono dal dialogo che sorge tra l’oggettività del suono e la soggettività di chi lo ascolta. Quali sono gli obiettivi? L’intento è lasciare che la musica si “infiltri” nelle persone, agisca come un balsamo interiore che quieta le sorgenti dell’aggressività attraverso positivi attivatori sonori che portando consolazione favoriscono il riannodarsi di nuovi fili di speranza nel rapporto con l’elemento sociale. L’auspicio è quello di far venire alla superficie i sentimenti, evocare solo la musica, linguaggio universale senza parole, ha capacità di destare. Mettere in luce la sorgente prima della vita emotiva individuale. Accorgersi delle proprie intime tendenze caratteriali. Accettarle e percepire il senso di intima comunione che ci lega agli altri. Comprendere che la gioia non ha nazione, così come non lo ha il dolore interiore, la nostalgia, la dubbiosità, la propensione rabbiosa, la voglia di serenità e di calma. Non ultimi offrire un tempo di calma ritemprante e far comprendere che la Musica è per sua natura, un naturale stabilizzatore dell’umore. L’intento è lasciare che la musica si “infiltri” nelle persone, agisca come un balsamo interiore che quieta le sorgenti dell’aggressività attraverso positivi attivatori sonori che portando consolazione favoriscono il riannodarsi di nuovi fili di speranza nel rapporto con l’elemento sociale. Per lei la a Musica è come “una lente di ingrandimento, un telescopio al contrario capace di rendere lucidamente percepibili le nostre disposizioni spirituali”. Ci può spiegare? Le pulsioni emotive non sono risposte casuali, sono risposte precise ad altrettante precise sollecitazioni sonore esterne, sono parte costitutiva del processo Musica-Persona. La Musica è un’esperienza di relazione come lo è il dialogo tra noi e noi stessi, tra l’Io e il Tu, tra noi e gli altri, la natura, il cosmo. In trent’anni abbiamo lavorato assieme a migliaia di uomini e donne. Questa pratica di ascolto permette di accostarsi alle disposizioni spirituali individuali, specie quelle legate all’energia emotiva, apre alla visione del sorgere dei sentimenti. Utilizzata così la Musica diventa uno strumento formativo di natura umanistica, un popolare, potente mezzo di autocoscienza e di educazione emotiva. Chi incontra oggi nei suoi laboratori? Nei laboratori oggi attivi a San vittore e San Patrignano, incontro, Amal, Elena, Pedro, Aziz, Eduardo, Fredrick, Kerol, Yichen, Dimitri, Arun, Adilson, Incontro Giuseppe, Antonio, Ugo…. Persone comuni che per trovare o ritrovare sé stesse in quei luoghi, devono guardarsi allo specchio con sincerità. Fare appello a positive energie solari, capaci di resettare il passato, compiere un piccolo grande prodigio: accettarsi e consolarsi. Non c’è vera redenzione della pena se non si arriva a compatire. La compassione non ha una natura intellettuale, ha radici profonde: coinvolge il Cuore. La Musica è in grado di arrivare a quelle radici. E’ il più efficace tra i codici non verbali per la comunicazione affettiva. Un codice universale che parla tutte le lingue del mondo senza bisogno di parole. Il ruolo del suono è questo, lo si voglia o no! La Musica è stata immaginata per questo, non per alimentare il mercato delle emozioni attraverso un iper produzione di forme e suoni sempre nuovi e diversi, affidate ad ascoltatori evoluti più che a musicisti. Pare che ci siamo scordati del suo vero ruolo e scopo, come mai sia stata immaginata millenni fa. Nonostante questo, lei, la Musica è sempre qui, a nostra disposizione per provare a renderci migliori. Chiedetelo ad Amal, Elena, Pedro, Aziz, Eduardo, Fredrick, Kerol… La più recente iniziativa è CO2 “Controllare l’odio” l’installazione di speciali audioteche di sola musica strumentale divisa per stati d’animo, offerte a 12 carceri italiane, compreso il carcere minorile Beccaria di Milano. Come funziona? In passato lo abbiamo portato anche nella sezione femminile della Casa Circondariale di Rebibbia e nella Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia. Il progetto mira ad offrire momenti di raccoglimento, pause di libertà in carcere, utilizzando il “non luogo” della musica, che ha anche la finalità di ricomporre il rapporto con gli altri, attraverso la creazione di gruppi di ascolto. Nell’audioteca si trovano catalogati circa 3.000 brani (solo Musica strumentale) suddivisi per stati d’animo. Sono offerti all’ascolto attraverso un percorso a tappe che parte dalla visione sullo schermo di un Ipad, di nove famiglie emotive stilizzate con disegni tipo emoticon legate a: fermezza, calma, entusiasmo, nostalgia, malinconia. La visione invita a sceglierne uno che possa rispecchiare il “sentire” del momento; o altri, appaganti, in grado di produrre un distacco da quello del momento, magari angoscioso. Scelto il clima, appare una lista di brani con titolo e informazioni, tra cui il genere musicale. Selezionato e ascoltato un brano, il software, tradotto in 10 lingue, fa domande di gradimento a cui si risponde. Si innesca così un rapporto approfondito, non solo con la Musica, ma, con ciò che provocano le domande, con un approccio a noi stessi, al nostro sentire. Via libera alla riforma della giustizia civile. Sul penale il futuro per Cartabia resta a tinte fosche di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 luglio 2022 Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri i decreti attuativi della riforma della giustizia civile, la cui delega scadeva il 24 dicembre 2022. Un risultato di grande importanza per il governo, che nel quadro del Pnrr si è impegnato a raggiungere l’obiettivo di abbattere del 40 per cento la durata dei processi civili entro cinque anni. I decreti prevedono numerose novità per velocizzare la giustizia civile, la cui lentezza produce da sempre effetti devastanti sul piano economico e sull’attrazione degli investimenti esteri. Innanzitutto, vengono valorizzate le forme di giustizia complementare: la mediazione viene potenziata, anche con incentivi fiscali, la negoziazione assistita tramite avvocati viene estesa anche alle controversie di lavoro e si potenzia l’arbitrato. Per semplificare il procedimento civile, si prevede inoltre che la causa debba giungere alla prima udienza già definita nelle domande, eccezioni e prove. Inoltre si procede con una semplificazione della fase decisoria, anche con una stabilizzazione delle innovazioni telematiche introdotte durante l’emergenza Covid-19. Interventi anche sul giudizio di primo grado, con una rideterminazione in aumento della competenza del giudice di pace e con una riduzione dei casi in cui il tribunale opera in composizione collegiale. I decreti prevedono, infine, una compiuta e sistematica regolamentazione dell’ufficio per il processo, istituito per sostenere gli uffici giudiziari ad abbattere il carico e l’arretrato. Passato con successo l’ostacolo della giustizia civile, materia ad alto tasso tecnico, il futuro della riforma penale, materia da sempre oggetto di scontro ideologico fra i partiti, resta a tinte fosche. L’approdo in Consiglio dei ministri dei decreti attuativi (la cui delega scade il 19 ottobre) è previsto per la prossima settimana ma, come sottolineato ieri su queste pagine, ormai l’accordo fra i partiti è del tutto saltato. Se Partito democratico e Forza Italia mantengono posizioni responsabili, Lega e Movimento 5 stelle non sono più disponibili ad accettare compromessi su alcuni temi chiave, come l’accesso alle pene alternative al carcere per le condanne sotto i quattro anni, la definizione dei criteri dell’azione penale, la giustizia riparativa. Tutto ciò significa che il tentativo di approvare un testo condiviso in Cdm la prossima settimana è destinato a fallire, a meno che dal ministero della Giustizia non decidano di escludere dai decreti le norme più criticate da leghisti e grillini, con il rischio però di svuotare la riforma di parti importanti. Fonti consultate dal Foglio, smentiscono questa ipotesi: Cartabia e il suo entourage sembrano intenzionati ad andare dritti per la propria strada, senza tanto badare alle rimostranze di Lega e M5S. Se confermata, sarebbe l’ennesima prova della debole sensibilità politica mostrata fino a oggi dalla Guardasigilli e dai suoi consulenti tecnici - magistrati, stimati docenti universitari e funzionari - attorno alla riforma penale, la stessa che ha impedito negli ultimi tre mesi al ministero di accelerare sulla scrittura dei decreti quando ormai le tensioni nella maggioranza di governo, prima della loro deflagrazione, si facevano sempre più evidenti. Non una novità, ma la conferma della difficoltà della “classe tecnica” chiamata a governare, abituata al passo lento dello studio, dell’analisi e della riflessione, di comprendere la politica, le sue mediazioni, e di stare al passo con i suoi tempi e i suoi improvvisi stravolgimenti, con le sue regole e le sue sregolatezze. Così, mentre i consiglieri della Guardasigilli mostrano calma e ottimismo, in aula alla Camera va in scena una bagarre senza senso al grido di “Lamorgese! Lamorgese!”. Due mondi a parte. Qualora fosse confermata l’intenzione della ministra Cartabia di evitare un passaggio preliminare dalle parti di Lega e M5s prima del Cdm, l’unica strada percorribile resterebbe l’approvazione dei decreti attuativi a maggioranza. Una forzatura non da poco per un governo dimissionario, tanto più su un tema così delicato che molto probabilmente spingerebbe i gialloverdi alle barricate. Approvati a maggioranza, i decreti sarebbero poi inviati alle commissioni parlamentari competenti per ottenere un parere non vincolante entro sessanta giorni. Ciò significa che in caso di melina da parte dei partiti, la scadenza cadrebbe dopo le elezioni del 25 settembre. Le commissioni resterebbero in carica, visto che la convocazione delle nuove Camere è prevista per il 13 ottobre, ma in caso venissero avanzate profonde richieste di modifica dei decreti, il governo uscente non potrebbe non tenerne conto. Indagini, procure, comunicati e punti di vista di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 luglio 2022 I Procuratori della Repubblica, rimasti gli unici legittimati a dare rare notizie ma solo a mezzo di comunicati stampa e solo quando ravvisino un rilevante interesse pubblico, cioè fanno un lavoro che non è e non dovrebbe essere il loro. All’entrata in vigore del giro di vite sulle notizie giudiziarie date dalle autorità, mascherato dal pretesto di attuare la direttiva europea sulla presunzione di innocenza degli indagati, era stata facile profezia prevedere - tra i tanti guasti collaterali al paradossale rinfocolare il “mercato nero” delle notizie nell’opacità del finto proibizionismo - anche un effetto sui Procuratori della Repubblica, rimasti gli unici legittimati a dare rare notizie ma solo a mezzo di comunicati stampa e solo quando ravvisino un rilevante interesse pubblico: l’effetto di non accorgersi di essere gradualmente trascinati (spesso anche dalle comprensibili aspettative di forze dell’ordine e pm) a fare un lavoro che non è e non dovrebbe essere il loro, quello di selezionare quali notizie dare e come darle. Si può ad esempio dire - come ieri un comunicato della Procura di Milano - che “oggi è stato notificato un avviso di conclusione delle indagini nei confronti di 27 indagati ritenuti responsabili a vario titolo di associazione di tipo mafioso, traffico di droga ed estorsioni aggravate dal metodo mafioso”, e che “contestualmente è stata eseguita anche un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 4 soggetti ritenuti autori di estorsione”. Oppure si può dire - come ricava chi non si fermi al comunicato ma si procuri le 850 pagine di ordinanza nella solita semi-clandestinità - che il pm nell’aprile 2021 aveva chiesto al gip 27 arresti, ma che il Gip li ha respinti tutti, escludendo l’associazione mafiosa per i 10 a cui era contestata, e le esigenze cautelari per tutti i 27 negli altri reati pur ritenuti esistenti ora dopo 15 mesi; e che nel contempo il gip ha invece accolto il supplemento di richiesta del pm l’8 luglio di mettere agli arresti 3 persone (e 1 all’obbligo di firma) per una pesante estorsione. Nessuna delle due versioni è falsa, dipende dai punti di vista. E dal sottile confine tra informazione e marketing. La memoria dei testimoni spesso “sbaglia”. Come evitare errori giudiziari di Andrea Lavazza Avvenire, 29 luglio 2022 Il neuro-scienziato Giuseppe Sartori ha pubblicato un manuale che svela tutti le incoerenze nelle quali può cadere chi riferisce un fatto e come oggi, nelle aule di tribunale, ciò può essere evitato. Nel nostro sistema penale il racconto del testimone di per sé non ha bisogno di riscontri esterni e permette, se ritenuto fondato, di basare la sentenza su di esso. Il modello è quello detto del “testimone notaio di se stesso”. Il testimone racconta ciò che ha appreso e certifica che il contenuto del racconto è ciò che egli crede vero. La psicologia e le scienze correlate ci stanno però mostrando sempre di più come la memoria sia una facoltà fallace e l’individuo, in perfetta buona fede, possa riferire i fatti in modo fortemente difforme dal loro reale svolgimento. Giuseppe Sartori, docente di Neuropsicologia forense all’Università di Padova, scienziato di fama internazionale, è stato protagonista di alcuni importanti recenti processi come perito e consulente del giudice o delle parti. Sulla base delle conoscenze scientifiche e della sua esperienza forense, ha scritto un manuale (La memoria del testimone, Giuffrè, pp.390) che è destinato a mutare la percezione delle testimonianze giudiziarie. In un colloquio con l’autore, andiamo alla scoperta di tutti gli “errori” della memoria. Professor Sartori, molti processi si basano sulla memoria del testimone. Che la memoria a volte ci faccia brutti scherzi lo sappiamo da sempre. Ma oggi le scienze cognitive ci dicono che la memoria ha meccanismi specifici che vanno conosciuti se si vuole avere una valutazione attendibile dei resoconti dei testi. Quali sono state le prime evidenze dell’affidabilità generale della memoria nei processi? Storicamente, una delle prime ricerche empiriche è stata quella di Musatti che, nel 1930 circa, ha rilevato come l’accuratezza e completezza del ricordo di un gruppo di testimoni variava moltissimo. Così come ci sono persone che sanno fare i calcoli a mente meglio di altre, ci sono testimoni che ricordano molto bene ed altri molto male. Nei processi, però, non si fanno valutazioni della capacità di base di ricordare, e tutti i testimoni sono trattati in modo uguale. Il metodo migliore per comprendere la frequenza con cui la memoria umana commette errori consiste nell’analizzare situazioni nelle quali tanti testimoni vedono, e successivamente descrivono, la medesima scena. I casi giudiziari nei quali questo avviene non sono moltissimi, ma in queste situazioni si osservano delle diversità notevoli nel racconto da un testimone all’altro. Quali sono i tipi più frequenti di distorsioni della memoria che si riscontrano nelle testimonianze rese in un’aula di tribunale? Ci sono moltissimi fattori che riducono la precisione con cui il testimone ricorda. Ad esempio, l’elevata distanza di tempo, l’età del testimone, quante volte ha ripetuto il racconto, se ha sentito il racconto da altri co-testimoni, se è stato interrogato con metodi inadeguati dagli investigatori... Forse uno degli elementi principali che riducono l’accuratezza del ricordo è la confondibilità dell’evento che deve essere raccontato. Ad esempio, una pugnalata è un evento non confondibile, che viene ricordato molto meglio, a parità di tutto il resto, rispetto ad una conversazione casuale al bar. Di coltellate non ne abbiamo mai viste, mentre le conversazioni al bar sono cose che succedono ogni giorno Come si può valutare l’attendibilità dei riconoscimenti di persona? È stato dimostrato come gli errati riconoscimenti di persona (tipicamente effettuati mediante il riconoscimento all’americana o mediante riconoscimenti fotografici) siano la fonte più frequente di errore giudiziario. Le ricerche scientifiche hanno messo a fuoco le procedure migliori per evitare questi errori di riconoscimento alla luce di una grande quantità di studi empirici, procedure incluse in precise linee guida. Un riconoscimento all’americana dovrebbe partire, ad esempio, da come il testimone descrive verbalmente l’autore del crimine (es. 60 anni, calvo, con i baffi) e tutti i soggetti inseriti nel confronto dovrebbero avere queste caratteristiche. Raramente, però, questo criterio viene seguito. In un caso il sospettato, uomo di circa 80 anni, è stato messo a confronto con due giovani di circa 25 anni. È chiaro che una procedura come questa non permette di avere la certezza che l’80enne presentato fosse effettivamente l’80enne che aveva commesso il crimine. Esistono davvero le amnesie per il crimine? Può essere che un assassino rimuova il ricordo del delitto? Che conseguenza ha tutto ciò sul processo? L’amnesia per il crimine viene riferita molto frequentemente dal criminale, il quale usa questo termine quasi sempre in modo improprio. Le vere amnesie per il crimine (tecnicamente si chiamano amnesie lacunari psicogene) sono molto rare. Più frequentemente, si tratta di un impoverimento del ricordo dovuto alla mancanza reiterazione del ricordo. Ad esempio, a un omicida che ha ucciso il figlio non piace ripercorrere mentalmente quello che ha fatto. La mancata ripetizione del ricordo determina un impoverimento del ricordo stesso, ma questa non si può considerare una vera amnesia. Ci sono infine le amnesie utilizzate come strategie defensionali per evitare di riferire aspetti del crimine che magari possono dar origine a contestazioni di aggravanti che, segnalando l’amnesia, il criminale spera di evitare. Che valore possono avere i racconti dei bambini? Cambia qualcosa se sono le presunte vittime o soltanto testimoni? Uno dei parametri che influisce sull’accuratezza del ricordo è il grado di maturazione dei meccanismi della memoria umana. Nel bambino la capacità di memorizzazione diventa simile a quella dell’adulto verso gli 11-12 anni. Prima dell’acquisizione minimale del linguaggio, però, il bambino non potrà riferire verbalmente quello che ha visto. Anche dopo i 3-4 anni il ricordo è molto limitato in termini di completezza ed accuratezza e molto influenzato dalla sua (limitata) conoscenza del mondo. Solitamente il giudice, soprattutto se il bambino è piccolo, si avvale di un perito per capire se il piccolo testimone può produrre una testimonianza valida. Inoltre, la precisione con cui si raccontano i fatti cambia molto se il comportamento da descrivere viene visto o è agito in prima persona dal testimone. In generale, quali sono le tecniche che il giudice oggi può impiegare per capire meglio se il ricordo del testimone, le dichiarazioni dell’imputato o della vittima sono sincere e realistiche o dovute a una distorsione della memoria? Come ho scritto nel libro, il giudice, il pm e l’avvocato sono i professionisti che più frequentemente hanno a che fare con la valutazione della memoria, forse più frequentemente dei cosiddetti esperti, psicologi e psichiatri. Sono loro che dovrebbero diventare i veri esperti nella valutazione del testimone. Molte volte il senso comune aiuta la valutazione, ma in molti altri casi quello che dice un testimone dovrebbe essere valutato sulla base dei dati scientifici. Un grande problema è la valutazione del testimone che mente. È cosa nota a livello scientifico che non è possibile dire, nemmeno per un esperto investigatore, se una persona mente o meno. Eppure c’è il convincimento comune che il mentitore riveli se stesso dal comportamento (per esempio, si mostra nervoso, arrossisce, è troppo sicuro). Gli studi scientifici permettono di comprendere quando il testimone sbaglia a ricordare pur essendo sincero e quindi convinto di riferire cose da lui ritenute come realmente accadute. Ci può raccontare qualche caso giudiziario famoso in cui la valutazione affidabile o non affidabile della memoria ha giocato un ruolo importante? Un caso recente famoso è quello del giudice della Corte Suprema americana Brett Kavanaugh. Quando si è prospettata la sua candidatura, una sua compagna di liceo ha denunciato alla stampa alcuni presunti comportamenti molesti di Kavanaugh avvenuti 30 anni prima a una festa studentesca dove scorreva molto alcol. In questo caso si sono intrecciati i tipici fattori che rendono problematica la valutazione della accuratezza del ricordo di un testimone. Distanza di tempo elevatissima, influenza delle opinioni politiche sulla “coloritura del ricordo”, gli effetti del trauma sulla accuratezza del ricordo. Il pm che ha svolto le indagini ha archiviato il caso proprio sulla base di tutti questi fattori che rendono incerto il ricordo della donna. Altri casi famosi sono quelli di Dominique Strauss Kahn che ha visto interrotta la sua corsa all’Eliseo per una accusa di abuso sessuale, oppure quello di Julian Assange, fondatore di Wikileaks o del calciatore Neymar. Tutti casi poi archiviati in quanto l’incertezza nel racconto impediva una ricostruzione affidabile di quanto realmente accaduto. I giudici e gli avvocati saranno disposti a dare più spazio alle scienze cognitive e agli esperti nella valutazione dei resoconti dei testi? Perché c’è resistenza all’ingresso delle neuroscienze nelle aule di giustizia? La tendenza generale è quella della “scientificizzazione” del processo penale. Fino a 50 anni fa c’erano solo i testimoni per ricostruire il fatto di interesse. Adesso ci sono, oltre ai testimoni, i social networks, le email, la geolocalizzazione che aiutano molto. Nonostante questo, il testimone gioca e giocherà sempre un ruolo centrale nel processo penale e quindi la sua valutazione resterà sempre importantissima. Le scienze cognitive mettono a disposizione molti dati certi, utili a valutare la qualità di una testimonianza. L’utilizzo di questi dati però si deve scontrare con il convincimento degli operatori del processo che la testimonianza non rientri a pieno titolo fra le aree di indagine scientifica e che la sua valutazione possa fondarsi solo sulla intuizione. In realtà, il testimone del processo penale ha caratteristiche molto diverse da quelle del testimone reale. È un testimone che dice il vero fino a prova contraria e il cui ricordo non è influenzato da fattori come il passare del tempo. A questo riguardo, ci sono processi nei quali il testimone chiave viene risentito dopo 10-15 anni, ma a questa distanza di tempo l’accuratezza del ricordo (a parte casi particolarissimi) è decisamente bassa. L’eventuale accuratezza del ricordo dopo un lungo periodo dovrebbe essere vista con sospetto dai giudici, in quanto non si riferisce a percezioni dirette ma più spesso a rilettura della documentazione o ad altre situazioni. Sassari. Il Garante dei detenuti: “Bancali, situazione esplosiva” di Dario Budroni La Nuova Sardegna, 29 luglio 2022 Le reazioni dopo l’omicidio di Piana, colpito con uno sgabello da un altro detenuto. La Fns Cisl: “È il fallimento dello Stato”. Don Galia: “No alle strumentalizzazioni”. Si lascia alle spalle le porte del carcere con un grande senso di amarezza. A Bancali è stato appena ucciso un uomo e Gianfranco Favini, il Garante dei detenuti, va dritto al punto. “Sarà la magistratura a fare luce sull’accaduto, ma a Bancali si registrano gravi carenze - dice Favini dopo il sopralluogo. L’autore del gesto, per esempio, non era stato sottoposto a visita psichiatrica”. Martedì notte il detenuto Graziano Piana, 51 anni, sassarese, è stato aggredito da quello che sarebbe dovuto diventare il suo nuovo compagno di cella, Giuseppe Pisano, 27enne di Sorgono ma residente ad Austis, appena arrestato per ubriachezza e maltrattamenti in famiglia. Piana, noto come Scaldabagno, stava dormendo nella sua cella e, una volta svegliatosi, avrebbe pronunciato qualcosa, magari una battuta indirizzata al 27enne. Pisano, che era appena entrato in cella, ha quindi afferrato uno sgabello e, con estrema violenza, ha più volte colpito alla testa il 51enne, poi morto alcune ore più tardi nonostante un intervento chirurgico. Ieri sera Pisano è stato raggiunto da un’ordinanza di arresto con l’accusa di omicidio volontario, emessa dal gip del tribunale di Sassari, Giuseppe Grotteria. E sempre ieri Pisano è stato sottoposto alla visita del medico legale Francesco Serra per verificare se avesse ferite o segni di una colluttazione. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Angelo Beccu, che oggi affiderà l’incarico per l’autopsia sul corpo di Piana, sono affidate alla polizia penitenziaria, in collaborazione con i carabinieri. La famiglia della vittima è assistita dall’avvocato Paolo Spano. Il garante - Gianfranco Favini, da alcuni mesi garante dei detenuti di Bancali, torna a parlare di carenze del personale e dell’assenza di efficaci percorsi educativi e formativi. E a proposito di organici ridotti all’osso, Favini dice: “Ci sono solo cinque medici e 21 infermieri, naturalmente suddivisi in turni. Possiamo immaginarci cosa sia accaduto, l’altra sera, quando è arrivato il detenuto da Austis. In quel momento mancava lo psichiatra e quindi il detenuto, già reduce da una situazione di violenza, una volta entrato a Bancali non è stato sottoposto a nessuna visita psichiatrica”. Secondo Favini, dunque, una visita specialistica avrebbe magari evitato l’inserimento di Pisano nella cella di Piana. “Ripeto, sarà la magistratura a fare luce su tutto - prosegue il garante. Ma non posso non sottolineare la grave carenza di specialisti e di agenti di polizia penitenziaria. Purtroppo a Bancali si verificano troppi casi di violenza e la struttura non riesce a controllare e prevenire certi episodi. Sono molto amareggiato. La situazione a Bancali è drammatica ed esplosiva”. Il sindacato - E sull’accaduto interviene anche il segretario regionale della Fns Cisl, Giovanni Villa. “Il fallimento dello Stato nella gestione del sistema penitenziario passa anche da qui - dice Villa -. Ogni giorno assistiamo a pestaggi di poliziotti da parte di detenuti che, per la maggior parte, hanno problematiche mentali. Oggi ci scappa il morto a causa di un soggetto che non dovrebbe stare in carcere ma in strutture dedicate”. Messe nel mirino le politiche governative, la Fns Cisl chiede l’intervento del presidente della Repubblica. Il cappellano - Don Gaetano Galia, cappellano del carcere di Bancali, nella sua riflessione vuole invece seguire una strada diversa. “Non bisogna strumentalizzare il caso singolo - dice don Galia, che conosceva bene il detenuto ucciso. Il sistema fa acqua da tutte le parti, ma, secondo me, quanto accaduto non è direttamente collegato all’inefficienza dello Stato all’interno delle carceri. È un brutto episodio e in quanto tale non va strumentalizzato”. Milano. “Carceri senza frigo né docce. San Vittore ormai esplode” Il Giorno, 29 luglio 2022 Le carceri italiane non sono attrezzate al gran caldo di questi giorni e ribollono. Lo sottolinea nel suo rapporto sulle condizioni di detenzione l’associazione Antigone, che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. “Ci sono al momento 3.665 posti non disponibili, con un sovraffollamento del 112%, ovvero ci sono 112 persone per 100 posti letto. Questa è la media, poi ci sono situazioni più complesse, dove i detenuti sono quasi il doppio di quelli che le carceri dovrebbero ospitare”, come a San Vittore, “che ha 255 posti non disponibili e un affollamento del 190,1%; Busto Arsizio è al 174,7%”. L’associazione dipinge scenari preoccupanti, con niente frigo in cella, pochi ventilatori, schermature alle finestre e in qualche caso anche carenza d’acqua. Antigone fa il quadro dei problemi che in questi giorni di caldo record aggravano una situazione sui cui già pesa la cronica necessità di posti. “Dalle nostre osservazioni - spiega il presidente dell’associazione, Patrizio Gonnella - è emerso che sono troppi i luoghi dove non si respira. Sono condizioni durissime di vita per i detenuti e per coloro che lavorano all’interno delle carceri”. Più è bassa la qualità della vita più è alta la conflittualità, e si moltiplicano le notizie di aggressioni. Secondo i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria aggiornati al 30 giugno 2022 sono 54.841 le persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti. Ma i numeri nella realtà sono diversi. “Il sovraffollamento - rimarca l’associazione - è del 112%”. Come fronteggiare le alte temperature? “Il Dap, con una recente circolare, ha autorizzato l’acquisto dei ventilatori nel sopravvitto ma la loro disponibilità varia da carcere a carcere e, inoltre, il fatto che l’acquisto sia a spese dei detenuti fa sì che non tutti abbiano possibilità di comprarne uno”. Nell’elenco delle carenze, il frigorifero, che nelle celle è rarissimo, in alcuni casi sono nelle sezioni. Dalle visite effettuate da Antigone, è emerso che nel 58% delle celle non c’è la doccia (anche se sono previste da regolamento dal 2005) e nel 44,4% degli istituti ci sono camere con schermature alle finestre che impediscono il passaggio d’aria. “Le riforme avrebbero potuto migliorare le condizioni di vita nelle carceri ma non ci sono state: c’erano buone intenzioni ma la legislatura si è interrotta e le intenzioni non si sono tradotte in un nuovo regolamento penitenziario”, aggiunge Gonnella, che auspica modifiche. Una riguarda le comunicazioni telefoniche, che potrebbero contribuire, almeno in parte, a prevenire i suicidi. Nel 2022 si sono tolte la vita già 38 persone, 16 volte più che all’esterno. L’altra è portare l’aria fresca con i ventilatori, per abbassare la tensione. Roma. “Bipolare e in carcere: mio figlio è pericoloso per se stesso e gli altri” di Simona Musco Il Dubbio, 29 luglio 2022 La denuncia di Loretta Rossi Stuart: “Giacomo non può stare in cella”. A gennaio la Cedu ha condannato l’Italia per aver tenuto il giovane in carcere due anni nonostante il suo stato di salute mentale. “In carcere mio figlio è pericoloso per se stesso e per gli altri”. Quello di Loretta Rossi Stuart, madre di Giacomo Seydou Sy, è un grido disperato. Un grido che pensava di non dover lanciare più, dopo la condanna inflitta dalla Cedu all’Italia proprio per la vicenda relativa a suo figlio, trattenuto per due anni in carcere nonostante il suo stato di salute mentale. E ora che è finito di nuovo in cella, la situazione rischia di diventare tragica: “Chi sarà responsabile di ciò che può succedere all’interno del carcere?”, si chiede la donna. Il giovane, che ha una diagnosi di disturbo bipolare borderline, è stato arrestato il 18 luglio a Roma per una presunta aggressione a scopo di rapina ai danni di un passeggero sul tram 14. All’arrivo dei carabinieri, il giovane - con un passato da pugile - ha reagito con violenza, al punto da rendere necessario l’utilizzo del taser per bloccarlo. E dopo la convalida dell’arresto, Seydou Sy è stato trasferito nel carcere di Regina Coeli, dove si trova rinchiuso da allora. Il fatto è finito subito su tutti i giornali: il giovane è infatti nipote del noto attore Kim Rossi Stuart, da lì titoli “roboanti” e notizie “inesatte”, ha lamentato su Facebook Loretta Rossi Stuart - anche lei attrice e amministratrice di sostegno di Giacomo -, nelle quali non si faceva cenno allo stato di salute psichica del giovane. Che subito dopo l’arresto, “in evidente stato psicotico, ha compiuto gravissimi atti di autolesionismo”. “Si ha sempre il bisogno di poter catalogare - spiega la donna -: è un malato di mente, è un criminale. Nessuna delle due, ha una doppia diagnosi e ancora non ci sono strumenti adeguati per trattare moltissime persone con questa particolare caratteristica”. Una carenza del sistema che era apparsa evidente proprio “grazie” al suo caso: nel 2018, infatti, il giovane, all’epoca 24enne, era stato arrestato per furto, molestie nei confronti dell’ex fidanzata e resistenza alle forze dell’ordine. E anche se considerato “socialmente pericoloso”, Sy è stato ritenuto consapevole solo parzialmente dei reati commessi, proprio a causa dei gravi disturbi psichici dai quali è affetto. Ma non solo: secondo quanto stabilito da diverse perizie, il suo disturbo di personalità, aggravato dall’utilizzo di sostanze stupefacenti, avrebbe richiesto cure e riabilitazione terapeutica al posto della detenzione, dunque non compatibile con il suo stato di salute. Nonostante questo e nonostante la Corte europea di Strasburgo abbia chiesto all’Italia di trasferirlo in un Centro Residenziale per l’esecuzione delle misure preventive (Rems), Giacomo è rimasto recluso a Rebibbia due anni, in quanto le autorità non sono state in grado di trovare un’alternativa al carcere. Proprio per tale motivo, la Cedu, il 24 gennaio scorso, ha condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti che sono stati riservati al giovane, stabilendo un risarcimento di 36.400 euro per danni morali. Dopo essere stato affidato “ad una valida Rems presso cui è in atto un percorso di recupero positivo; ancora fragile rispetto alla dipendenza da sostanze, riesce ad allontanarsi dalla struttura e, avendo fatto uso, compie atti illeciti in stato di squilibrio mentale - spiega la madre -. Viene arrestato, il giorno dopo è condotto dalla polizia penitenziaria al pronto soccorso del Santo Spirito, con evidenti segni di autolesionismo, ed è attualmente in un reparto di Regina Coeli dove, in tale stato psicotico, è esposto ed espone gli altri a situazioni di conflittualità difficilmente controllabili. Avrei pensato, visti i pregressi, che sarebbe stato urgentemente ricondotto nel luogo di cura a cui era affidato”. Ma così non è stato: “Chi mi assicura che in carcere segua la terapia? E chi mi assicura che non faccia uso di sostanze stupefacenti?”, si chiede ancora la donna, ora in attesa di una perizia che certifichi nuovamente la sua incompatibilità con il carcere. “Abbiamo vinto la battaglia a livello europeo, ma in Italia non si è mosso molto, nonostante anche la Corte costituzionale abbia sancito che esiste un problema a livello di Rems, dando un anno di tempo al governo italiano per sistemare la legge”. Napoli. Medici in carcere, l’Asl annuncia nuove assunzioni tra Poggioreale e Secondigliano di Viviana Lanza Il Riformista, 29 luglio 2022 Ieri abbiamo riportato la notizia di Salvatore, detenuto 72enne cardiopatico morto nel carcere di Secondigliano, ottava persona a morire di carcere dall’inizio dell’anno in Campania. Ora arriva la notizia che l’Asl ha deciso di procedere con un avviso pubblico per assumere quarantacinque medici da destinare alle carceri di Poggioreale e Secondigliano, sessanta infermieri e un nutrito gruppo di operatori socio sanitari. Insomma di correre ai ripari, per quel che si può. La decisione di rinforzare il personale sanitario riconosce fondatezza alle pubbliche denunce da tempo fatte dal garante regionale Samuele Ciambriello: le lacune segnalate erano più che reali, la necessità di colmare i vuoti nell’assistenza sanitaria di chi vive in cella è stata per molto tempo una questione lasciata in sospeso, ci sono ormai troppe carenze e cominciano a esserci anche troppe vittime del sistema penitenziario. Da qualunque lato lo si voglia osservare, questo mondo rinchiuso tra sbarre e alte mura è un fallimento. Il sovraffollamento è il grande problema, ma non l’unico. C’è anche il problema del diritto alla salute che in carcere non è tutelato come dovrebbe. “Nel carcere di Poggioreale e in quello di Secondigliano non ci sono medici di reparto”, denuncia da tempo il garante Ciambriello. Cosa vuol dire? Che se un detenuto si sente male bisogna trasportarlo da un piano all’altro, bisogna attraversare corridoi e scale e impiegare tempo, oltre che risorse in termini di agenti della polizia penitenziaria che dovrebbero scortare il detenuto nel tragitto dalla cella all’infermeria. Gli agenti in servizio all’interno delle carceri sono normalmente in sottorganico, in periodi come questo estivo dove il personale si alterna nelle ferie si arriva ad avere anche un solo agente per ogni reparto. Per non parlare del personale medico in servizio all’interno degli istituti penitenziari. Numeri risicatissimi a fronte di una popolazione detenute in continua crescita. “Manca il medico h24 in ogni reparto - sottolinea Ciambriello - e gli ambienti in cui vivono i detenuti a causa del sovraffollamento sono estremamente angusti, senza la possibilità di usufruire della doccia più volte al giorno. Tutto questo può provocare disagi e malori. Non è possibile che all’interno delle carceri ci siano così pochi medici generici e così pochi medici specialisti, che manchino quasi del tutto attrezzature di diagnostica, che per sottoporsi a una visita specialistica o a un accertamento un detenuto debba attendere tempi lunghissimi”. È il sistema nel suo insieme che non funziona. Da alcuni anni la gestione della sanità all’interno degli istituti di pena è stata affidata alle Asl territoriali e già questo ha creato una distonia con il resto del sistema penitenziario. Si procede con passi diversi: le Asl hanno poco personale e le carceri continuano a essere riempite di detenuti. Detenuti, tra l’altro, sempre più anziani (molti, infatti, finiscono in cella a distanza di dieci/venti anni dai reati per i quali sono stati condannati a causa dei tempi biblici della giustizia), e spesso malati. Detenuti con problemi psichiatrici o di dipendenza da sostanze stupefacenti per i quali i protocolli dovrebbe essere diversi ma nella realtà così non accade, perché mancano le strutture, manca appunto il personale. E allora il carcere diventa un girone infernale. Due detenuti su tre hanno problemi di salute, il 48% ha malattie infettive, il 32% soffre di disturbi psichiatrici, il 20% ha cardiopatie e malattie cardiovascolari. Sulla carta la soluzione ci sarebbe: pene alternative. Ma di fatto si tratta di misure sconosciute ai più, ignorate, non applicate. Un cane che si morde la coda, dicevamo. Sì perché in questo sistema di ingranaggi rotti o mal sincronizzati, c’è anche il grande vuoto della Sorveglianza, tra magistrati che non hanno mai visto di persona un carcere e magistrati talmente oberati di istanze da riuscire a rispondere con ritardi al di fuori di ogni principio costituzionale. Piacenza. “Progetto Vita” dona un terzo defibrillatore al carcere delle Novate liberta.it, 29 luglio 2022 Si rinnova l’intesa tra Progetto Vita a la Casa circondariale di Piacenza. L’associazione della dottoressa Daniela Aschieri ha donato un terzo defibrillatore al carcere delle Novate, che si aggiunge agli altri due già presenti, e partirà a settembre con un progetto unico in Italia, per insegnare l’uso del Dae sia al personale lavorativo sia ai detenuti. “Si tratta dell’ultimo in ordine di tempo - ha detto il direttore del carcere Maria Gabriella Lusi - donato da Progetto Vita un mese fa, è il primo passo di un’intesa più ampia che mira a rendere più cardioprotetto il nostro istituto di pena. Ne siamo orgogliosi perché a settembre partirà un altro progetto che prevede un percorso di crescita per il nostro personale, che parteciperà a corsi di Bsd su queste tematiche e, in seconda battuta, riguarderanno anche la popolazione detenuta per l’utilizzo del defibrillatore”. Un percorso che coglie in pieno l’aspetto rieducativo e sociale dei detenuti che vivono in una vera comunità: “Le Novate lo sono, il carcere comprende personale di Polizia Penitenziaria, personale amministrativo e medico, ma anche insegnanti e volontari, non è un caso che il defibrillatore sia stato posto alla portineria dell’istituto perché è qui l’accesso al banco detentivo, luogo dove sono veramente numerose le persone che accedono, sia per lavorare sia per altri motivi”. Roma. Detenuto e allenatore, ecco un progetto di speranza di Andrea Santoni Corriere dello Sport Il catenaccio difende la porta. In un campo di calcio, un tempo, una frase simile aveva un senso chiaro, magari citando Viani o Rappan. Ma dite questo, ancora oggi, in una prigione e vedrete che suonerà diversamente. Magari le prime lezioni di tattica potranno partire proprio da qui, da questo “gioco”, ma quello che conta è il progetto di futuro, anzi i progetti pilota che ci stanno dietro. “Alleniamoci alla speranza”. È di questo che stiamo parlando, ovvero di un corso per allenatore di base riservato ai detenuti che alla fine potranno conseguire il patentino C o D e di uno dedicato a minorenni che saranno allenati in carcere da tecnici dell’Assollenatori. Gli istituti coinvolti sono quelli di Bergamo, Trani e Paola oltre a quelli minorili di Bari, Airola (Benevento) e Torino. Si partirà il prossimo autunno, con tecnici presenti sul territorio e il coinvolgimento anche di nomi di primo piano. Nonostante la fine della legislatura e il clima politico acceso, ieri, nella Sala Caduti di Nassirya di Palazzo Madama, la senatrice Angela Anna Bruna Piarulli e Renzo Ulivieri, presidente dell’Aiac, lì anche in rappresentanza dell’intera Figc di Gabriele Gravina e alla presenza di Vito Tisci (SGS), hanno presentato questa iniziativa, frutto di un lavoro congiunto iniziato da tempo, che si inserisce nel solco di altri progetti simili (17) messi atto con buoni risultati nel passato. Con loro anche Carlo Renoldi (capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Dap) e Gemma Tuccillo (capo dipartimento della Giustizia minorile e di comunità). Sua la testimonianza più tristemente illuminante sulla realtà rimossa del nostro sistema carcerario: “Un ragazzo di Catanzaro, uscito da poco, ha compiuto un piccolissimo reato, pur di poter tornare in carcere e poter finire il percorso lavorativo intrapreso. Perché paradossalmente è il solo ambito in cui a un giovane detenuto viene offerta qualche opportunità”. La filosofia delle due proposte è chiara, per come è stata illustrata da Piarulli (già direttore di istituti penitenziari prima del mandato senatoriale): “Lo sport in generale e il calcio in particolare rispondono alla necessità di inclusione, di rispetto delle regole, di socializzazione, di riduzione della conflittualità basilari in una struttura carceraria”. Ulivieri, già animatore in passato di lezioni calcistiche nelle carceri di Rebibbia, Napoli, Potenza, Caltanissetta, ha spiegato in cosa risieda l’ambizione di questi progetti pilota: “Agli adulti offriamo un vero corso allenatori, secondo i moduli Uefa: 156 ore di lezione, 20 di tirocinio e un esame finale per il patentino, con la speranza di offrire loro un’opportunità una volta fuori dal carcere. Ai ragazzi faremo fare calcio, con 3 allenamenti alla settimana, più un torneo. Le regole sportive le scriveremo insieme, per renderle ancora più stringenti; chiederemo anche chi voglia scrivere di questa esperienza, ricordando sempre come nel calcio l’io e il noi siano legati. E dunque che il recupero di una condizione di libertà sia possibile farlo tutti insieme. È una strada difficile. Di certo noi non siamo per buttare via la chiave”. Meglio buttare il catenaccio. Palermo. I giovani detenuti del Malaspina diventano sceneggiatori blogsicilia.it, 29 luglio 2022 I giovani detenuti del Malaspina scrivono la sceneggiatura di un film e aiutano anche nella realizzazione del set. Ciak e macchina da presa sono arrivati fin dentro il carcere, oltre che allo Zen e in altri luoghi della città. L’ultimo giorno di riprese si svolgerà sabato 30 luglio in centro storico. Trenta giovani coinvolti, le loro testimonianze - Il progetto ha coinvolto trenta giovani dell’Istituto penitenziario minorile di Palermo. Il film qualche segno lo ha già lasciato. “Voglio fare l’attore”, “Appena esco da qui mi piacerebbe lavorare nel mondo del cinema”, “Mi sono sentito parte di qualcosa”; sono solo alcune delle testimonianze dei ragazzi. La cinepresa è la loro finestra sul mondo. La voglia di riscatto è tanta per dei ragazzi che spesso vengono da contesti che non forniscono alcuna alternativa e che adesso questa alternativa l’hanno trovata dentro al carcere. Il progetto “Officine Malaspina” - Si chiama “Officine Malaspina” il progetto dell’associazione centro studi Pianosequenza finanziato dal dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale della Presidenza del consiglio dei ministri. Regista e ideatore del progetto è Luciano Accomando, a fare da tramite tra ragazzi e troupe ci hanno pensato la direttrice dell’Istituto penitenziario minorile Malaspina Clara Pangaro e le educatrici Maria Mercadante e Laura Costa. I laboratori propedeutici alla realizzazione del film - Prima della realizzazione del lungometraggio nell’istituto si sono svolti diversi laboratori sui mestieri del cinema: regia e sceneggiatura diretto dallo stesso Luciano Accomando con la scenografia messa a punto assieme ad Azzurra Sichera e ai ragazzi del Malaspina. Poi, i laboratori di ripresa e fotografia guidati da Antonio Rao, scenografia con Alessia D’Amico ed Emilia Gagliardotto, suono con Mirko Cangiamila. Si tratta di una favola moderna ambientata a Palermo. Protagonista una ragazzina che scopre di avere dei poteri magici. Nel cast oltre alla piccola protagonista Giulia Fragiglio per la prima volta sullo schermo, figurano Lollo Franco, Maurizio Bologna, Stefania Blandeburgo, Nicola Franco, Salvo Piparo, Daniele Verciglio, Patrizia d’Antona, Giuseppe Santostefano, Giuditta Perriera e Daniela Pupella. Il regista: “Riscatto sociale attraverso il cinema” - “I ragazzi del Malaspina hanno dato una grande mano d’aiuto nel rivedere e ricucire la sceneggiatura - osserva il regista Luciano Accomando - soprattutto per ciò che attiene i dialoghi che erano stati inizialmente scritti in un palermitano non sentito, non vissuto perché io non sono di Palermo e loro in questo sono stati fondamentali. Abbiamo tutti vissuto emozioni fortissime, per loro è stata una continua scoperta e noi che vivevamo tutto attraverso i loro occhi ci siamo commossi di rimando. I giovani detenuti hanno realizzato pure tutti gli oggetti di scena che sono utilizzati nel film. E poi vedere nei loro volti questa forte emozione sul set nei giorni di riprese in carcere è stata un’esperienza bellissima perché potevano interagire con gli attori e con la troupe. Vedere il loro prodotto finalmente realizzato e sentirsi parte integrante di un progetto. Per loro è stato anche un senso di riscatto. L’idea della nostra associazione e della presidentessa di Centro Studi Pianosequenza Patrizia Toto è stata sin dall’inizio rendere possibile l’idea di un riscatto sociale e di una piena realizzazione di sé, sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammatica situazione di esclusione sociale in cui versano i giovani detenuti. Grande accoglienza infine ci hanno mostrato allo Zen durante i giorni di riprese nel quartiere sia l’associazione “Zen Insieme” che gli abitanti del posto”. La direttrice dell’istituto penale minorile: “Esperienza coinvolgente ed emozionante” - “Con Officine Malaspina si è cercato di creare un legame attivo con il complesso mondo del cinema, coniugando arte e formazione professionale - dice la direttrice dell’Ipm, Clara Pangaro - Dal regista, al direttore della fotografia, al tecnico del suono, allo sceneggiatore, una pluralità di mestieri a cui i giovani hanno avuto modo di approcciarsi acquisendo conoscenze e competenze professionali in un settore per loro nuovo e affascinante. La possibilità di partecipare concretamente ad alcune giornate delle riprese del film è stata per i ragazzi una esperienza coinvolgente ed emozionante che ha visto le nozioni teoriche acquisite tradursi in operatività sul campo. Qualcuno ha così immaginato il proprio futuro da attore, qualcun altro si è reso conto che le storie possono essere “riscritte” combinando in modo diverso gli elementi di cui si dispone per essere protagonisti attivi del proprio futuro e ricucire il patto con la società”. Nola (Na). “Albe nuove dietro l’imbrunire”, vite rinate dentro il carcere diocesinola.it, 29 luglio 2022 La parrocchia di San Palo Bel Sito in ascolto di voci di speranza dal carcere. Il 1 agosto incontro pubblico con don Benito Giorgetta, Salvatore Sirignano e don Vincenzo Miranda. In occasione della festa patronale di Maria SS Addolorata, la parrocchia San Paolo Eremita e SS Epifania di San Paolo Bel Sito, promuove l’incontro pubblico “Albe nuove dietro l’imbrunire. Vite rinate dentro il carcere” che si terrà lunedì 1 agosto 2022, alle ore 18.15, presso la chiesa parrocchiale. Dopo i saluti di don Fernando Russo, parroco di San Paolo Bel Sito, di Raffaele Barone, sindaco di San Paolo Bel Sito, e di Raffaele De Lucia, comandante della Caserma dei Carabinieri di San Paolo Bel Sito, seguiranno gli interventi di don Benito Giorgetta, autore di Passiamo all’altra riva. Dialogo con Luigi Bonaventura ex mafioso ora collaboratore di giustizia, Salvatore Sirignano autore di 50 tessiture d’Amore e don Vincenzo Miranda direttore dell’Ufficio di pastorale carceraria diocesi di Nola. “Attraverso le voci di chi ha vissuto il carcere, sia come detenuto che come cappellano - spiega don Fernando Russo, parroco di San Paolo Bel Sito - potremo toccare con mano la concretezza della speranza, la concretezza di una possibilità di rialzarsi da una caduta tragica quale può essere un errore di vita che conduce in carcere. Ogni essere umano è chiamato al bene. Questa chiamata è incessante, a ciascuno di noi il compito di ascoltarla, accoglierla per convertire il proprio cuore e la propria vita”. La moderazione è affidata a Mariangela Parisi, direttore Ufficio per le Comunicazioni sociali diocesi di Nola. Sfollati per clima 10 milioni di bambini solo nel 2020 Il Dubbio, 29 luglio 2022 Unicef e Oim: quasi la metà dei bimbi ne mondo vive in 33 paesi ad alto rischio climatico. Lanciate le nuove linee guida del primo quadro politico globale per proteggere e promuovere l’empowerment dei piccoli migranti. Solo nel 2020, circa 10 milioni di bambini sono stati sfollati in seguito a shock di natura meteorologica. Circa 1 miliardo di bambini (quasi la metà dei 2,2 miliardi di bambini nel mondo) vive in 33 Paesi ad alto rischio per gli impatti causati dal cambiamento climatico, altri milioni di bambini potrebbero migrare nei prossimi anni. Lo denunciano Unicef e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), che con la Georgetown University e l’Università delle Nazioni Unite hanno lanciato nuove linee guida per fornire il primo quadro politico globale che aiuterà a proteggere, includere e promuovere l’empowerment dei bambini migranti nel contesto del cambiamento climatico. Le linee guida (Guiding Principles for Children on the Move in the Context of Climate Change) forniscono nove principi che affrontano le vulnerabilità uniche e complesse dei bambini che si spostano sia all’interno dei Paesi sia attraverso le frontiere a causa degli impatti negativi dei cambiamenti climatici. Attualmente, la maggior parte delle politiche migratorie legate all’infanzia non considera i fattori climatici e ambientali, mentre la maggior parte delle politiche sul cambiamento climatico trascura le esigenze specifiche dei bambini. Le linee guida mostrano che i cambiamenti climatici si intersecano con le condizioni ambientali, sociali, politiche, economiche e demografiche preesistenti che contribuiscono alla decisione delle persone di spostarsi. Sviluppate in collaborazione con i giovani attivisti per il clima e le migrazioni, accademici, esperti, policymaker, operatori e agenzie delle Nazioni Unite, i principi guida si basano sulla Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ratificata a livello mondiale, e si basano anche sulle linee guida e sui quadri operativi esistenti. I principi guida forniscono ai governi nazionali e locali, alle organizzazioni internazionali e ai gruppi della società civile una base per costruire politiche che tutelino i diritti dei bambini. Le organizzazioni e le istituzioni chiedono ai governi, alle organizzazioni internazionali e ai gruppi della società civile di recepire i principi guida per aiutare a proteggere, includere e promuovere l’empowerment dei bambini che migrano in contesti di cambiamento climatico. “Ogni giorno, l’innalzamento del livello del mare, gli uragani, gli incendi e la perdita delle coltivazioni stanno spingendo un numero sempre maggiore di bambini e famiglie lontano dalle loro case - dichiara Catherine Russell, direttore generale dell’Unicef - I bambini sfollati sono esposti a maggiori rischi di abuso, tratta e sfruttamento. Hanno maggiori probabilità di perdere l’accesso all’istruzione e a cure mediche. Lavorando insieme governi, società civile e organizzazioni internazionali possono proteggere meglio i diritti e il benessere dei bambini che migrano”. L’arma dei migranti sul voto: i barconi spinti in Italia dai mercenari della Wagner di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 29 luglio 2022 Dai porti della Cirenaica controllati dalla brigata di combattenti russi stanno partendo molti più scafi rispetto agli ultimi due anni. Per mettere sotto pressione il nostro Paese e l’Europa. Una mano ha aperto il rubinetto umano della Cirenaica. Dalle coste della Libia sotto il controllo delle milizie del generale Haftar supportate dai mercenari russi del Gruppo Wagner stanno partendo molti più migranti rispetto agli ultimi due anni. Salpano da due zone in particolare - i litorali nei pressi dei porti di Derna e di Tobruk - che erano “dormienti”. Sembravano blindati e, invece, come raccontano i profughi a chi li soccorre in mare, sono tornati a essere hub per i trafficanti. “La Libia - ragiona con Repubblica una fonte qualificata dei nostri apparati di sicurezza - è un cannone puntato sulla campagna elettorale: l’immigrazione è forse l’arma più potente per chi ha interesse a destabilizzare e, dunque, a interferire sul voto di settembre”. I nostri servizi di intelligence avevano lanciato il primo alert già poche settimane dopo l’inizio della guerra in Ucraina: il Cremlino può utilizzare la sua influenza in Cirenaica per aumentare le partenze dei richiedenti asilo. A giugno un nuovo alert, più circostanziato. Negli ultimi giorni, in concomitanza con la crisi del governo Draghi, i segnali raccolti dal terreno non hanno lasciato più dubbi. Il rubinetto è stato aperto. E a beneficiarne sarà chi cerca il consenso sventolando di fronte agli elettori lo spauracchio dell’invasione dei migranti: in primis, Matteo Salvini. Dalla Cirenaica, la regione orientale del Paese nordafricano, hanno ricominciato a partire i barconi, vecchi pescherecci di legno che galleggiano a malapena caricati con cinquecento-seicento persone alla volta. A fare rotta verso le coste siciliane non è soltanto la disperazione di chi fugge da conflitti, fame e persecuzioni, ma anche la volontà politica di chi, attraverso quei barconi, intende mettere sotto pressione l’Italia e l’Europa. La Russia di Putin, di sicuro: con almeno duemila mercenari (secondo alcune fonti non ufficiali, gli uomini della Wagner in Libia sono cinquemila) presidia quattro basi militari nel territorio del governo non riconosciuto di Tobruk (Brak al Shati, Jufrah, Qardabiyah e Al-Khadim) e consente ad Haftar di rimanere saldo al potere. Ma, vedremo, non solo la Russia. Gli sbarchi in Italia dall’inizio dell’anno sono 38.778, contro i 27.771 di tutto il 2021 e i 12.999 del 2020 in piena pandemia. Dopo i dati in ribasso di febbraio e marzo scorsi, l’impennata sospetta ad aprile e maggio, proseguita a giugno e luglio. “Siamo partiti da un porticciolo vicino al confine con l’Egitto”, ha riferito sei giorni fa un ragazzo soccorso su un barcone, individuato a 124 miglia dalla Calabria dalla Guardia costiera italiana. Con lui c’erano 674 profughi: siriani, egiziani e palestinesi. Cinque erano morti di stenti e di sete. A Lampedusa, tra domenica e martedì sono arrivati 72 gommoni dalla Libia e dalla Tunisia. E sulla rotta est, dalla Turchia, si contano sinora diecimila ingressi. In aumento. A complicare la situazione sul terreno libico è ciò che vi sta sotto: giacimenti di petrolio tra i più ricchi al mondo. Insieme con l’Egitto, nell’ultimo biennio la Russia ha potuto garantire, complice il Covid, flussi migratori ridotti in uscita dalle zone orientali. La crisi in Ucraina, tuttavia, ha cambiato le carte in tavola. Dopo mesi di muro contro muro, per la prima volta c’è stato l’avvicinamento tra il primo ministro insediato a Tripoli, Abdul Hamid Dbeibah, e il generale Haftar, propiziato - spiegano gli analisti - dalla convenienza a gestire insieme la National Oil Corporation (Noc), la società che possiede i pozzi. Nel giro di quattro giorni la produzione quotidiana è più che raddoppiata: da quattrocentomila a un milione e centomila barili. Che relazione ha questo con l’Italia? Da un lato una parte dei miliziani di Haftar vede l’avvicinamento con le autorità di Tripoli come fumo negli occhi e ha reagito allentando la stretta sui porti di partenza dei migranti. Dall’altro, c’è chi negli apparati di sicurezza libici non ha preso bene le ultime mosse del Partito democratico. In Parlamento, mercoledì, il Pd ha votato contro il rinnovo dei finanziamenti per il monitoraggio dei confini marittimi, poco meno di 12 milioni di euro fino al 31 dicembre 2022. Una notizia passata quasi sotto silenzio in Italia ma che ha avuto grande eco oltre mare, soprattutto tra chi fa affidamento su quel denaro. In sostanza, e in sintesi: un governo di destra in Italia, oggi, fa comodo non solo al Cremlino, ma anche al nuovo assetto di potere che si sta costruendo in Libia. Dove, forse per la prima volta, il nostro Paese non ha più un ruolo: la partita la stanno giocando la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’Egitto di Sisi e, in sordina, la Francia di Macron. Migranti. Una visione del Mediterraneo: 11 salvataggi in 72 ore di Caterina Bonvicini La Stampa, 29 luglio 2022 La Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha fatto 11 soccorsi in 72 ore. Il primo in Sar Maltese il 25 luglio nel primo pomeriggio. Era un barchino di legno lungo non più di dieci metri con 52 persone a bordo e due ponti (segnalato da Alarm Phone e da Seabird, l’aereo da ricognizione di Sea Watch). Almeno una decina di loro aveva viaggiato in stiva. Da lì abbiamo tirato fuori una bambina del Camerun che compirà tre anni a ottobre. È simpaticissima e molto chiacchierona, subito ha voluto giocare con i Lego. Facevamo un castello. Corre per il ponte di coperta e attacca bottone con tutti. Quando salgo si precipita verso di me e mi schiaccia un cinque. Ma in questo momento non ho molto tempo per giocare con i Lego. L’avviso via radio “Sar Team, Sar Team, ready for rescue” arriva in continuazione. Significa che in meno di sette minuti bisogna cambiarsi, mettersi salvagente, casco, pantaloni impermeabili, scarpe da trekking, guanti e essere in posizione per il lancio del rhib (gommone di salvataggio). Le gru ci calano in mare senza neanche fermare la nave e noi, a circa 59 chilometri orari di velocità, raggiungiamo l’imbarcazione in pericolo. Durante la notte ci sono state due segnalazioni di Alarm Phone. Intorno a mezzanotte abbiamo salvato un barchino piccolo con 13 persone (tutti siriani e un palestinese). L’altro caso invece è andato male: il gommone è stato intercettato dalla Guardia Costiera libica e riportato a Tripoli. Chissà quanti bambini c’erano a bordo. La mattina del 26 luglio ci siamo svegliati con la radio che chiamava di nuovo “Sar Team, Sar Team”. Era stata avvistata una barca di legno con il binocolo dal ponte di comando. Erano quasi tutti bengalesi e c’era una bambina siriana di cinque anni. Molto timida e per niente contenta di trovarsi sempre intorno quella di tre anni con i Lego in mano. Poco dopo abbiamo soccorso un gommone giallo (sempre Alarm Phone). Quando ci siamo trovati lì davanti eravamo sconsolati. Era più piccolo di un tender, con i tubolari sgonfi, la prua rialzata e 48 persone sopra: un’imbarcazione di così pessima qualità da essere pericolosa anche in spiaggia. Dentro c’erano 5 bambini ivoriani e un neonato del Mali (un mese). Con i bambini ivoriani ho subito legato perché conosco il francese. Poi ho tirato fuori qualche parola in bambara (ridevano molto per la mia pronuncia) e non mi hanno più mollata. La bambina di otto anni mi ha subito fatto vedere una brutta bruciatura sulla gamba, provocata dalla miscela maledetta di benzina e acqua di mare. Nonostante il dolore è allegra e affettuosissima. Quando ho un minuto per stare sul ponte, lei e il fratello vengono a abbracciarmi, giro per il deck con loro addosso. Poi a mezzogiorno abbiamo soccorso un barchino (sempre Alarm Phone) che sarebbe stato adatto per poche persone ma sopra ce n’erano 20. Erano tutti libici e colpiva la grande differenza sociale. Erano borghesi, vestiti eleganti e con una ventina di bagagli, trolley e zaini con topolino. Gli altri, partiti senza niente, li guardavano con gli occhi sbarrati. Eppure in quei trolley c’era tutta la loro vita. Nel barchino dei libici c’erano 20 bambini e un neonato di pochissimi mesi, avvolto in una bella coperta di spugna. Sul ponte di coperta, in mezzo agli altri, quei bambini libici abituati a vivere come noi erano molto spaesati. Una di loro, di sette o otto anni, mi ha chiesto dove poteva cambiarsi. Aveva nello zaino dei vistiti di ricambio, come avremmo noi. Mangiavano patatine e bevevano i succhi di frutti di frutta che le mamme tiravano fuori dalla borsa, come durante una gita in barca. Intorno alle due e mezza, è stata la volta di un barchino pieno di siriani e libici, con tanti figli piccoli. Anche loro erano borghesi, con meno bagagli ma ben vestiti, però l’imbarcazione faceva paura: mancavano pezzi del motore, era tutta rotta. Chissà cosa avevano promesso i trafficanti a quelle famiglie. La sera avevamo già sul ponte 266 persone: gente diversissima, per cultura, per origine, per lingua e per livello sociale. Ma il Mediterraneo è così: è complesso, e sorprende sempre. Il 27 luglio la Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha fatto altri tre salvataggi e l’ultimo della giornata è stato memorabile: un barcone di legno con 232 persone, molti di loro viaggiavano in stiva. La mattina intorno alle 8, Gabriel Bouza, il driver argentino, è salito sul ponte di comando per il suo turno di guardia, ha preso in mano il binocolo e subito ha avvistato un’imbarcazione. Abbiamo lanciato i rhib (i gommoni di salvataggio) immediatamente. Il primo è stato un salvataggio triste, anche se è andato tutto bene. Tanto per cominciare 38 siriani e curdi viaggiavano su un barchino malconcio, che era la metà del nostro gommone. A bordo c’era un bambino disabile di cinque o sei anni, mentre lo portavamo sulla nave lui piangeva disperatamente, la madre lo teneva in braccio e il padre cercava di fargli vento con il suo cappello. C’era anche una neonata con un grande tumore in testa, che sanguinava. La mamma glielo tamponava con un fazzoletto. Altre due bambine, spaventate, erano in lacrime. Allora ho cercato di distrarle mandando baci. Hanno cominciato a mandarne anche loro a me e a ridere, era una specie di gioco in rhib. Poi verso mezzogiorno è stata la volta di una barca di legno di medie dimensioni, con 100 persone a bordo. La maggior parte erano eritrei. Il soccorso non è stato semplice perché erano agitati, continuavano ad alzarsi in piedi, rischiando di far ribaltare l’imbarcazione. Ma tutto questo è stato niente in confronto a quello che ci aspettava nel pomeriggio: un grande barcone di legno con 232 persone a bordo. Il terrore di tutti i soccorritori perché queste imbarcazioni grandi e sovraffollate si capovolgono facilmente e finiscono in acqua centinaia di persone. Anche questo non era segnalato, è stato intercettato con il binocolo. Eravamo pronti, perché i naufraghi ci avevano detto che insieme a loro erano partite altre barche. Ma non immaginavamo così grandi. Dal bridge si intuiva che era qualcosa di grosso, ma dalla nave era impossibile quantificare. Abbiamo fatto un grande respiro. “Ready?” “Ready”. Ma a bordo di Mike, il nostro rhib, ci eravamo dimenticati il nostro rituale di buona fortuna: un abbraccio tutti e cinque. Ci è tornato in mente quando la gru ci stava per calare. Alt. Un momento. Ci siamo stretti in fretta, con i salvagenti fra le gambe. Mai ignorare le superstizioni, specie davanti a un rescue così difficile. Mentre viaggiavamo a cinquantanove chilometri orari, guardavo l’altro rhib davanti a noi, Orca, e mi sembrava piccolo in confronto alla barca di legno. Buttava male. Arrivati lì, ci è mancato il fiato. Via radio, Fulvia Conte, la Sar Team leader, ha annunciato che si contavano più di duecento persone. E anche parecchio agitate, spingevano tutte verso poppa, dove venivano distribuiti i salvagenti. Allora Samuel Sanchez Caragena, il leader di Mike, ha preso la decisione di fare la manovra “effetto magnete”, che consiste nell’ usare il nostro gommone per attirare l’attenzione della folla a prua e evitare così uno sbilanciamento di peso, che in questi casi può essere fatale. Giulia Attiani, soccorritrice esperta e bravissima, intanto slacciava sacchi e sacchi di salvagenti. Ne avevamo abbastanza per tutta quella gente? Stavamo zitti e concentrati, a guardare Orca che cominciava, tenendo stretto il Centifloat (un tubo galleggiante di dieci metri che si usa in caso di naufragio). Calmi ma in tensione. Gabriel Bouza, il driver, con grande sensibilità, si è chinato verso di me e mi ha sussurrato: “Cate, preparati a qualsiasi cosa”. Ho fatto cenno di sì. Mi sono sempre chiesta cosa avrei provato davanti a un grande barcone. Immaginavo il cuore a mille, la salivazione azzerata. Invece no. Ero molto tranquilla. E credo di sapere perché. Tutto dipende dalla squadra dei soccorritori: sulla Geo Barents è magnifica, siamo affiatati, complici, affettuosi, uniti. Se hai vicino persone così, non puoi avere paura. Dato che il ponte era sovraffollato e continuava a uscire gente dalla stiva, non potevamo distribuire i salvagenti a tutti prima di caricarli sul rhib, avrebbero fatto troppo volume e avrebbero costretto la gente a spingere ancora di più, rischiando di far ribaltare la barca. Allora Fulvia ha deciso di fare tre cose che di solito non si fanno mai. La prima, imbarcare sul rhib la gente senza salvagente. La seconda, portare verso la nave quaranta persone alla volta invece che venti. La terza, sistemare i naufraghi anche sui tubolari del nostro gommone per aumentarne la capienza. E così abbiamo salvato tutti e 232. Finito l’imbarco, il team di Mike si è occupato del relitto. Giulia e Samuel sono saliti sul barcone vuoto per controllare che non ci fosse nessuno in stiva. Non ne avevo mai visto uno da vicino: è spaventoso. La scatola dell’invertitore (con le marce) era divelta. L’interno era pieno d’acqua, non funzionava la pompa di sentina (fatta con due tubi di plastica che sporgevano dalla scafo). Sul ponte c’era una specie di scatola di legno costruita con assi rudimentali che serviva da passaggio verso il ponte inferiore, chiamiamolo così, quel buco. Dal bridge hanno dato l’ordine di non entrare. A sostenere i due ponti c’era un palo arrugginito e sbilenco che poteva crollare e là sotto si può restare soffocati dalle esalazioni di benzina. Ma Samuel ha visto che laggiù erano rimasti due passaporti e voleva prenderli. Ha avuto il permesso. È sceso, mentre Giulia controllava che non gli succedesse niente. Poi con lo spray abbiamo segnato lo scafo, scrivendoci sopra “MSF /SAR/ 27.7.22”. E siamo tornati sulla nave, dove, dopo un grande applauso, ci siamo abbracciati di nuovo. Tutti e dieci, stavolta. Che squadra. Avendo a bordo già 596 naufraghi, abbiamo cominciato a risalire verso Nord. Decisione straziante, perché in Sar libica non è rimasto più nessuno. Alla Sea Watch 3 con 438 persone a bordo è appena stato assegnato il porto di Taranto, che comporta 2 giorni di viaggio, dopo 6 di attesa. E la Ocean Viking, dopo 5 rescue, con 387 naufraghi, sta ancora aspettando da 5 giorni. Ma le navi Ong, per quanto grandi, hanno una capienza, quindi un limite. Che si può forzare, certo, però non più di tanto. Quindi a un certo punto bisogna prendere la triste decisione di andarsene. Chi salverà le persone che sono partite e adesso si trovano alla deriva? L’alternativa è straziante: la Guardia Costiera libica che riporterà la gente nell’inferno da cui è fuggita oppure nessuno. Senza navi Ong presenti, resta solo la Libia o la morte. Per questo, oltre all’insostenibilità di un ponte di coperta troppo pieno, sarebbe necessario avere un porto subito: non assegnarlo, molto semplicemente, significa uccidere chi si trova in quel tratto di mare. E non si muore solo per annegamento, nel Mediterraneo. Si muore anche di fame e di sete, lentamente. L’ultimo rescue della Geo Barents, l’undicesimo, mi ha fatto capire quanto possono soffrire dei naufraghi dopo due giorni alla deriva, sotto al sole, senza acqua. Ma andiamo con ordine. La mattina del 28 luglio, ci siamo svegliati con due casi segnalati da Alarm Phone (“casi aperti”, li chiamiamo. Intorno alle 10,30 è arrivata la chiamata via radio. La voce di Fulvia che diceva: “Sar Team, Sar Team. Ready for rescue”. Ero nel ponte di coperta, pienissimo e rumorosissimo, e stavo intervistando un ragazzo (in piedi, perché non c’era spazio neanche per sedersi per terra). L’ho mollato lì (“Scusa, scusa, devo andare a fare un salvataggio”) e sono corsa a vestirmi. La nave aveva avvistato l’imbarcazione ma era lontana quindi ha ranciato i rhib. Il mare era un po’ mosso e Gabi, il driver, andando a tutta velocità gridava “onda!” per prepararci al volo e al tonfo. Stavo aggrappata ma mi sembrava tutto più scivoloso, forse per colpa della crema cinquanta. Poi mi sono accorta di essermi dimenticata i guanti, erano ancora attaccati al salvagente. Quando siamo arrivati sul posto, Giulia e io ci siamo guardate e abbiamo detto la stessa cosa: “Sembra un pedalò”. Stessa forma e stessa dimensione, ma lo scafo era ridotto a una sagoma azzurra, tutto il resto era sommerso per il peso di 37 persone e dell’acqua che era entrata. Samuel ha deciso di fare la “manovra sandwich”, che consiste nel mettere i due rhib ai due lati del barchino, uno di qua e uno di là, gommoni come fette di pane. Abbiamo imbarcato la gente in fretta, per raggiungere anche l’altro barchino segnalato. Ma c’era un problema: era a 20 miglia di distanza. Alla fine, il ponte di comando ha deciso che dovevamo raggiungerlo noi, che andavamo più veloci della Geo Barents. Significava tre cose. La prima, che dovevamo navigare in rhib per almeno un’ora. La seconda, che avremmo perso la connessione radio (ma avevamo a bordo un satellitare). La terza, che saremmo stati in mezzo al nulla, in Sar Maltese, per un bel pezzo e fuori dalla vista della nave madre. Quindi ci hanno ordinato di viaggiare paralleli, senza separarci mai, così in caso di problemi, un rhib poteva aiutare l’altro. Infatti i problemi ci sono stati. Dopo essere partiti come schegge, tipo offshore, uno dei motori di Orca si è rotto. C’era l’altro, d’accordo, ma bisognava rallentare tutti. E così ci abbiamo messo un’ora e mezza a raggiungere la posizione. Un po’ di incoraggiamento però è arrivato: a un certo punto abbiamo visto volare sulle nostre teste Seabird, l’aereo di Sea Watch, che ha disegnato in cielo la rotta per noi. È stato bellissimo, sembrava di essere guidati da una presenza sovrannaturale. Qualcuno che ti indica la via giusta. Quando siamo arrivati, i naufraghi erano così sfiniti che quasi non hanno reagito. Si sono a malapena voltati. Erano in 26 su una barchetta a remi con un motore attaccato, sullo scafo c’erano anche gli scalmi. Una barchetta a remi di quelle che si usano per fare un giro in un lago con le papere. E loro avevano raggiunto Malta. Non c’era neanche bisogno di fare il crowd control, non si muovevamo. Non parlavano nemmeno. Erano tramortiti da un viaggio di due giorni e due notti, senza acqua, sotto il sole d’estate. Un sole che stordiva anche noi, dopo quattro ore di seguito in mare, senza ombra. Io sono tornata sulla nave ondeggiando. Immaginate loro dopo due giorni. L’unico movimento che hanno fatto è stato alzare con fatica le braccia al cielo, per ringraziare Dio. È stato un rescue al rallenti, barcollavano, dove li mettevi stavano, al massimo si afflosciavano contro il vicino. Abbiamo dato a tutti la nostra acqua, che molti hanno subito vomitato, dopo tante ore di sete. Alcuni si sono addormentati in rhib, non riuscivano neanche a tenere gli occhi aperti. Così si muore nel Mediterraneo: di stenti. Ma loro non sono morti. Ucraina. Quando il numero delle vittime di guerra sarà rilevante per porre la parola fine? di Adriano Sofri Il Foglio, 29 luglio 2022 Forse i contendenti sono indifferenti alla statistica: i russi perché muovono le loro truppe come carne da cannone; gli ucraini perché sentono che la loro causa giustifica il sacrificio e anzi lo consacra. Ci sono discussioni che è meglio non aprire? Due giorni fa Zelensky, rivolto ai cittadini russi, ha aggiornato il conto ufficiale di parte ucraina dei soldati russi morti: “circa” 40.000. Ieri erano 40.070, ora chissà. La cifra tonda, 40 mila, rende meglio l’idea. L’idea è ancora quella della sentenza attribuita, molto incertamente, a Stalin, che una singola morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica. Anche 40 mila morti sono una statistica. Com’è noto, sono cifre inattendibili, che si dilatano e restringono come un soffietto secondo l’origine, o secondo l’indole più o meno sobria dei portavoce. La Cia sembrava attestarsi sui 15 mila pochi giorni fa, e fino a 45 mila feriti. Ieri fonti di congressisti Usa alzavano ancora il numero. Ma, come succede appunto quando ci si misura con una cifra, e dal mucchio non viene fuori una faccia, uno sguardo, un nome, una maglietta rossa, i numeri non fanno una grande differenza: il risultato è comunque fissato, ed è quello di una carneficina. Da ambedue le parti, da quella dei civili ucraini uccisi, più di 5 mila, e dei militari, probabilmente meno numerosi dei russi ma tanti. Innumerevoli, per così dire, gli uni e gli altri. Quella cifra provvisoria - 40.000, in appena cinque mesi - qualche giornale non l’ha riportata, qualche altro sì, con un titoletto e poche righe neutre. L’interrogativo che forse è meglio non aprire è un altro. Come si reagisce alla cifra, oltre che inorridendo, o anestetizzando (“è certo un’esagerazione, saranno certo di meno”), o semplicemente passando oltre? Il numero dei caduti, militari e civili - quanto all’aggressore pressoché solo militari - è, o comunque sarà, uno dei fattori che decideranno della interruzione o della fine della guerra, e del suo esito? Chi si augura che le forze d’invasione russe siano fermate e anzi costrette a retrocedere, si compiacerà della crescita del numero sul contatore? C’è un numero limite che segnerà il finale di partita? E com’è scomposto: quanti buriati per un daghestano, e quanti daghestani per un russo, e quanti russi della campagna per uno di Mosca o di San Pietroburgo? Forse interrogarsi è inutile. Forse i contendenti sono indifferenti alla statistica: gli uni, gli invasori, perché muovono le loro truppe, soldati siberiani e caucasici e mercenari internazionali, come carne da cannone, come sempre; gli altri, i difensori, perché sentono che la loro causa giustifica il sacrificio e anzi lo consacra. Gli americani ci misero più di dieci anni e 60 mila morti ad averne abbastanza - i nordvietnamiti civili e militari morirono in più di 3 milioni. In Bosnia e Herzegovina, nei 3 anni e mezzo di cosiddetta guerra, morirono in 94 mila: 64 mila bosniaci, 24 mila serbi... 320 militari delle forze Onu. Forse, anche in Ucraina, si può guardare il contatore che continua a girare così velocemente, ripetersi che è una carneficina, estrarre dal mucchio qualche faccia, qualche bambina col cappottino rosso, e non affidare al punteggio progressivo alcun valore, quanto all’esito. Stati Uniti. Il “mercante di morte” in cambio della cestista di Marina Catucci Il Manifesto, 29 luglio 2022 Scambio di prigionieri: gli Stati uniti pronti a rilasciare il trafficante di armi Viktor Bout per riavere Brittney Griner e l’ex marine Paul Whelan. Gli Stati uniti hanno proposto alla Russia uno scambio di prigionieri per liberare la cestista Usa Brittney Griner, arrestata a febbraio all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca con l’accusa di contrabbando di droga. Insieme a lei l’ex marine Paul Whelan, arrestato per spionaggio in Russia nel 2018. In cambio gli Usa dovrebbero liberare un cittadino russo, Viktor Bout, uno dei maggiori trafficanti d’armi degli ultimi decenni. Secondo la Cnn la proposta sarebbe stata sostenuta proprio da Biden già a inizio luglio, nonostante la posizione contraria del dipartimento di Giustizia, che non è favorevole agli scambi tra prigionieri. Durante una conferenza stampa il Segretario di Stato Anthony Blinken ha dichiarato che il governo Usa e quello russo hanno discusso “direttamente e ripetutamente” della proposta di scambio, e che a breve la questione verrà sottoposta al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. Blinken non ha dato dettagli e non ha nominato Bout come parte nella trattativa, ma gli analisti politici danno per certo il suo coinvolgimento. Da giugno 2012, Bout è detenuto nella prigione di Marion, Illinois, dove sta scontando una pena di 25 anni per aver venduto enormi quantità di armi a terroristi e criminali di guerra. Paradossalmente l’informazione più solida che si ha su di lui riguarda il suo soprannome “Mercante di morte”, per il resto la maggior parte delle informazioni su di lui sono avvolte in una foschia di incertezza. Si ritiene che abbia sui 55 anni, dovrebbe essere nato a Dushanbe, in Tagikistan, ai tempi governato dai sovietici, o forse in Ucraina. Secondo i rapporti, suo padre era un meccanico di automobili e sua madre una contabile, e dovrebbe avere almeno un fratello. “Viktor era il figlio avventuroso - ha scritto il settimanale tedesco Der Spiegel nel 2010 - che copiava canzoni pop vietate per guadagnare un po’ di soldi e imparava da autodidatta l’esperanto nella convinzione che sarebbe tornato utile più avanti nella vita”. Bout parla una mezza dozzina di lingue, è stato un traduttore militare sovietico e ha iniziato la sua carriera nel trasporto aereo all’inizio degli anni 90 dopo il crollo dell’Urss. Durante la sua permanenza nell’esercito, fu mandato in Mozambico e in Angola per lavorare come traduttore, ma non ci sono informazioni certe sulla sua carriera militare. Bout ha avuto relazioni commerciali con capi ribelli, presidenti, i libici di Gheddafi, i mujaheddin afghani, emiri sunniti, e con chiunque avesse bisogno di cannoni, munizioni, bombe ma anche prodotti legali e cibo: secondo gli Usa ha fatto da sponda ai servizi segreti russi. L’accusa ufficiale per cui è detenuto è una fornitura di armi ai guerriglieri marxisti colombiani delle Farc. Nel 2005 pare abbia ispirato il personaggio protagonista del film di Andrew Niccol Lord of War, interpretato da Nicolas Cage, la storia di un trafficante di armi figlio di rifugiati ucraini. Poco dopo la sua condanna nel 2011 con l’accusa di aver cospirato per uccidere cittadini americani, Bout ha trasmesso un messaggio provocatorio attraverso il suo avvocato: “Credeteci, questa non è la fine”. Stati Uniti. Giornalisti dietro le sbarre di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 29 luglio 2022 John J. Lennon (non è il famoso cantante) è in carcere dal 2002: è un detenuto americano diventato giornalista durante la prigionia. “Sedici anni fa, ho sparato e ucciso un uomo a Brooklyn e ho finito la mia vita di spaccio. Sono stato condannato a 28 anni di detenzione”. Oggi vive e scrive in una cella spoglia della prigione di Sing Sing a nord di New York City. Un suo amico voleva mandargli “Just Mercy”, un libro di Bryan Stevenson sulla disuguaglianza razziale nel braccio della morte. Ma poiché i detenuti non possono ricevere copertine rigide, l’amico ha dovuto fotocopiare le pagine e piegarle cinque alla volta e mandarle in buste. Dopo la lettura Lennon decide di diventare cronista delle storie del carcere. Conduce molte sue interviste nel cortile della passeggiata, tra detenuti jogger e palestrati e racconta da dentro come si vive da reclusi. All’inizio i suoi pezzi li batte su una macchina da scrivere di plastica trasparente in una cella senza sedia. Non potendo accedere a Google usa il sistema telefonico del carcere accessibile per poche ore al giorno che lo collega a 15 contatti pre-approvati con cui detta alle redazioni le sue storie. Il suo primo reportage è apparso sul sito web di “The Atlantic” e uno dei suoi servizi stampati è apparso su “Esquire”. John è cresciuto all’estremità meridionale di Brooklyn e, dopo il suicidio del padre, la mamma lo mandò in un collegio privato a Garrison da cui si godeva un magnifico panorama sul fiume Hudson. “È la stessa splendida vista che guardo ora”. A Sing Sing, seduto sull’armadietto della prigione, sbirciando attraverso le sbarre John può vedere l’Hudson. E “Ci penso spesso. È un po’ straziante”. Daniel A. Gross, giornalista del “Washingthon Post”, “The Guardian” e del sito web del “New Yorker”, conosce John e lo aiuta a pubblicare le sue storie sui più prestigiosi giornali americani. Così John inizia a rendersi conto che il suo successo gli dava un vantaggio sui giornalisti “liberi”: “È una corsia aperta per il giornalista della prigione. C’è un sacco di storie intorno a me e dentro di me perché io vedo semplicemente la sofferenza che la maggior parte di voi ‘fuori’ non vede”. “A differenza della maggior parte dei prigionieri e di molti scrittori freelance” dice Daniel Gross “John si guadagna da vivere dignitosamente. Non è timido nel chiedere ai suoi editori la stessa tariffa dei giornalisti non carcerati. Ha un modo per convincere anche le persone più improbabili ad aiutarlo” Ma non è così semplice: “Un mio amico infettivologo” prosegue Gross “mi confidò che uomini come John avrebbero meritato la sedia elettrica. Con il tempo disse che non avrebbe mai pensato di provare simpatia per individui del genere”. Nella sua storia, John ha scritto con sensibilità del dolore che aveva causato a sua madre, malata di Parkinson. “Mamma ed io ci confortiamo a vicenda dal disagio delle nostre rispettive prigioni e ha ancora una forza audace da cui traggo la mia. Una citazione di James Baldwin: “La creazione più pericolosa di qualsiasi società è l’uomo che non ha nulla da perdere” anima il saggio di Lennon pubblicato su “Times Opinion” sulla riforma carceraria, l’istruzione e la speranza. All’inizio della sua carriera, prima di avere accesso a un tablet, Lennon dettava le bozze agli editori dal cortile della prigione al telefono. Nei giorni scorsi ha scritto sul New York Times: “Quando lunghi periodi di tempo in prigione ti permettono di allontanarti dal vecchio te stesso, guadagnare diplomi, acquisire intelligenza emotiva, c’è un nuovo tipo di straziante disperazione che si instaura”. Quindi propone che il presidente Biden consideri quello che chiama un disegno di legge di riforma carceraria “speranza e guarigione”. Lo sforzo di mettere in stampa le sue parole ne vale la pena. “Quando vivi in una cella, ma le tue parole appaiono sul New York Times, beh, è un’incredibile sensazione di gratitudine che ti pervade. Per davvero”. Haiti assediata dalle gang di Emiliano Guanella La Stampa, 29 luglio 2022 Studenti barricati nelle scuole, autobus assaltati. l’uccisione del premier Moïse ha scatenato il caos: a migliaia cercano di scappare verso gli Stati Uniti. Nell’inferno di Haiti centinaia di ragazzi vivono barricati da settimane nella scuola più prestigiosa della città, stretti nel mezzo di una guerra fra gang che ha causato più di trecento morti in pochi giorni. Il Saint-Louis de Gonzague è un liceo cattolico più prestigioso della disastrata nazione dei Caraibi, sui suoi banchi hanno studiato l’ex presidente Michel Martelly, lo scrittore Jacques Roumain ma anche il “Baby Doc” Jean-Claude Chevalier, il leader autoritario in carica dalla morte del padre nel 1971 fino alla cacciata per mano americana a fine anni Ottanta. Oggi i docenti rimasti in classe cercano di tranquillizzare gli studenti, ma cibo e acqua scarseggiano e nessuno sa fino a quando si potrà andare avanti. “La situazione - ha spiegato alla Bbc suor Rosemiline - è tragica, non ha senso lasciarli andare a casa, ma abbiamo difficoltà a sfamarli”. Si cerca di distrarli, ma l’eco degli spari e il film degli scontri visti con i propri occhi non dà pace. Per molti di loro l’uniforme della scuola è stato un lasciapassare prezioso; a vederli così vestiti i cecchini appostati sulle case li hanno lasciati passare, altrimenti avrebbero potuto ucciderli pensando si trattasse di baby soldati delle organizzazioni rivali. L’epicentro degli scontri è a Cité Soleil, uno dei sobborghi più grandi di Port au Prince. L’ultima battaglia campale tra la potente coalizione di bande G9 e gli “emergenti” criminali della G-Pèp è di due settimane fa; secondo Rete nazionale per i diritti umani (Rndhh) e l’ufficio locale delle Nazioni Unite i morti sarebbero stati 300, sono quasi mille dall’inizio dell’anno. La polizia nazionale, corrotta e mal pagata, non entra nemmeno nelle zone di conflitto; gli agenti sanno che verrebbero spazzati da delinquenti che conoscono il territorio a memoria. La morte, del resto, è alla portata di tutti; un colpo di mitragliatrice può trafiggerti mentre sei in strada e quando si sente sparare meglio star lontani dalle finestre perché i proiettili perduti, così come in alcune favelas di Rio, possono ucciderti anche dentro casa. L’Onu ha bandito la vendita di armi sull’isola, ma è come raccogliere il mare con un cucchiaio, visto che di armi, munizioni e voglia di sparare Haiti è piena come non mai. Il Paese più povero delle Americhe è sotto pressione da tempo, ma nell’ultimo anno la situazione è degenerata tra violenza armata, caos istituzionale e crisi economica. La notte tra il 6 ed il 7 luglio del 2021 il presidente in carica Jovenel Moïse fu trucidato in casa da un commando di sicari locali e colombiani. Gli assassini sono stati arrestati ma le indagini per risalire ai mandanti sono bloccate nei meandri di una giustizia tra le più corrotte al mondo. L’attuale primo ministro Ariel Henry ha inaugurato recentemente un mausoleo per Moïse ma i famigliari del defunto, tra cui l’ex moglie miracolosamente scampata al blitz, hanno snobbato la cerimonia perché lo considerano fra i responsabili dell’omicidio. Nell’ultimo anno la situazione economica è precipitata, l’inflazione è passata dal 12% al 28%, il prezzo del pane è raddoppiato, la metà degli undici milioni di haitiani vive in uno stato di completa insicurezza alimentare. La guerra per il controllo di Cité Soleil ha peggiorato tutto, perché lì si trova il principale porto per le navi cisterna che portano il carburante sull’isola. La benzina scarseggia e quel che poco che c’è viene venduta al mercato nero, al triplo del prezzo normale. Per comprare armi, munizioni e carburante le bande armate si sono specializzate sui sequestri estorsivi, rapimenti effettuati alla luce del giorno e senza particolare “pianificazione” si ferma un autobus e si catturano tutti i passeggeri, anche se spesso si tratta di persone provenienti da famiglie che non hanno soldi per pagare il riscatto. I bersagli privilegiati sono gli stranieri, siano essi cooperanti, religiosi, volontari; le gang sanno che qualcuno per loro pagherà. I diplomatici e il personale delle organizzazioni internazionali si muovono scortati da security formata in contesti di guerriglia urbana, ma in questo scenario diventa sempre più difficile pianificare un aiuto umanitario su larga scala. Chi può, scappa. Via terra, verso la Repubblica Domenicana o per mare su imbarcazioni precarie che naufragano al largo di Cuba o delle Bahamas o vengono spedite indietro dalla guardia costiera americana. C’è chi sbarca sulla costa caraibica colombiana per attraversare a piedi la fitta e pericolosa foresta del Dairen verso Panama; molti si perdono e muoiono assettati e senza cibo, altri vengono intercettati dalle bande di narcotrafficanti che li lasciano senza nulla. Non c’è molta speranza, ormai, per chi vive ad Haiti. Port Au Prince, la capitale più pericolosa al mondo, è un calderone a cielo aperto dove anche muoversi diventa una scommessa con la morte. I ragazzi del Saint-Louise de Gonzague sanno che il loro futuro è appeso ad un filo e per questo afferrano a quel poco che hanno, proteggendosi nella loro scuola-rifugio mentre tutto crolla intorno a loro. Messico. Crimini di pace in Chiapas di Daniele Nalbone e Ylenia Sina Il Manifesto, 29 luglio 2022 Reportage dal Messico. Padre Marcelo, parroco indigeno di San Cristobal de las Casas, difensore degli ultimi e del dialogo, deve affrontare l’assurda accusa di aver fatto sparire 21 persone. “La mia vita è a rischio, ma resto qui”. “Per me la pace è più importante della morte. Per questo, anche se la mia vita è in pericolo ho deciso di restare al mio posto”, dice Padre Marcelo Pérez Pérez, prete indigeno tzotziles e parroco della Diocesi di San Cristóbal de las Casas, nello stato messicano del Chiapas, riferendosi al fatto che, all’inizio di luglio, la Fiscalía General del Estado, l’equivalente della Procura italiana, ha emesso un ordine di arresto nei suoi confronti con l’accusa di aver partecipato alla sparizione forzata di 21 persone. Padre Marcelo parla senza fretta, anche se fuori dalla canonica della chiesa di Guadalupe, che sorge su una collina dalla quale si vede tutta la cittadina, lo attendono una decina di parrocchiani del vicino municipio di Simojovel, allarmati dalla notizia del suo arresto, velocemente smentita con un video sui social per evitare proteste e mobilitazioni in tutta la regione. Padre Marcelo è una figura conosciuta nella zona di Los Altos de Chiapas, una regione rurale tra le più povere del Messico. Per le sue battaglie a fianco delle comunità indigene, le sue denunce contro corruzione e criminalità e il suo ruolo di mediazione in situazioni di violenza, è stato minacciato, aggredito e diffamato. Nelle scorse settimane, però, la sua storia ha sollevato la preoccupazione di associazioni locali e internazionali per un altro motivo: padre Marcelo rischia l’arresto. “Siamo profondamente preoccupati per l’intento di criminalizzazione nei suoi confronti”, scrivono in una nota una serie di realtà internazionali, tra le quali Amnesty International e Frontline Defenders, che hanno chiesto al governo messicano di “archiviare processi giuridici senza fondamento contro difensori dei diritti umani avviati per reprimere, sanzionare e punire”. Le organizzazioni locali, tra le quali anche il Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de las Casas (Frayba), parlano di un “sistema giudiziario imparziale e privo di obiettività”, manifestando preoccupazione per il “possibile arresto, sparizione o omicidio” di padre Marcelo. Una storia che si è ripetuta più volte nelle ultime settimane e che ha sollevato la condanna del vescovo della Diocesi di San Cristóbal de las Casas, Rodrigo Aguilar Martìnez, che con una nota ha denunciato l’impennata di violenza in Chiapas e puntato il dito contro la criminalizzazione subita dagli “agenti della pastorale” per il loro lavoro in difesa delle comunità indigene e di mediazione dei conflitti. “È chiara la strategia del sistema economico-politico che ci governa quando una comunità si organizza per difendere la sua terra, quando si denunciano le ingiustizie che commettono, a volte, le stesse autorità. Sembra il motivo per cui si risponde con persecuzioni, intimidazioni, minacce e arresti”, si legge in un passaggio della nota. Solo il 29 maggio, infatti, Manuel Santiz Cruz, presidente del Comitato per i diritti umani della parrocchia di San Juan Evangelista nel municipio di San Juan Cancuc, sempre a Los Altos de Chiapas, e altre quattro persone erano state arrestate prima con l’accusa di possesso di marijuana e poi per omicidio. Secondo quanto spiegato dal Frayba, i conflitti in quel territorio erano sorti perché le comunità indigene si erano opposte prima alla realizzazione della Carretera de las Culturas, una strada tra San Cristóbal de las Casas e Palenque collegata al megaprogetto turistico del Tren Maya, poi contro la militarizzazione della zona. Per Carlos Ogas Del Frayba “la vicenda di padre Marcelo può essere compresa solo nel contesto più generale di ciò che sta accadendo in Chiapas dove, negli ultimi anni, abbiamo assistito a un aumento della presenza di gruppi di civili armati che si contendono il controllo economico e politico del territorio”. Secondo il Frayba “c’è una continuità tra la nascita di questi gruppi, che ha portato a un incremento della violenza in Chiapas, e la strategia contro-insurrezionale legata all’Ezln operata dai gruppi paramilitari negli anni ‘90 e promossa dal governo messicano. Di fronte a questa violenza - conclude Ogas - le autorità sono assenti o partecipi e il sistema di giustizia che criminalizza i difensori dei diritti umani toglie degli ostacoli ai gruppi criminali”. Anche padre Marcelo nel 2014, quando era parroco nel municipio di Simojovel, a circa due ore da San Cristobal, ha denunciato e organizzato manifestazioni pubbliche con migliaia di persone contro alcolismo, prostituzione e traffico di droga, armi e persone da parte dei potentati locali. L’anno seguente, a causa delle minacce ricevute, la Commissione interamericana dei diritti dell’uomo aveva chiesto allo stato messicano misure di protezione per lui e per altri membri del consiglio parrocchiale. Negli anni, ricorda padre Marcelo, “ho sostenuto migliaia di desplazados (profughi, ndr) a causa delle violenze subite in questi territori e ho cercato sempre la pace facendo da mediatore in molti conflitti”. Come quella scoppiato nell’estate del 2021 nel municipio di Pantelhó dove il 7 luglio era nato un gruppo di autodifesa formato da civili armati, chiamato El Machete, nelle intenzioni dichiarate dai suoi membri con lo scopo di allontanare una rete criminale locale che aveva il controllo delle istituzioni locali e dell’economia del territorio e lo esercitava con violenza, tra aggressioni, trasferimenti forzati, sparizioni e omicidi. Due giorni prima, il 5 luglio 2021, in un mercato era stato ucciso con un colpo alla testa Simón Pedro, il presidente della storica comunità pacifista Las Abejas di Acteal che il 22 dicembre 1997, nel contesto della guerra del governo contro l’Ezln, aveva subito l’attacco di un gruppo di paramilitari terminato con il massacro di 45 persone, in maggioranza donne e bambini. Come ricostruito da un report del Frayba, nove giorni prima dell’omicidio Simón Pedro e altri esponenti della comunità avevano denunciato formalmente al governo del Chiapas le violenze che erano costretti a subire a causa della presenza dei gruppi armati legati al crimine organizzato. Nei giorni seguenti, l’azione del gruppo di autodifesa armata aveva fatto impennare la violenza: saccheggi, case bruciate, oltre tremila persone costrette a fuggire e la militarizzazione del territorio con l’arrivo in massa di agenti di polizia statale e della guardia nazionale. In questo contesto, il 26 luglio, 21 uomini accusati di far parte dell’organizzazione criminale sono stati radunati nella piazza centrale dal gruppo di autodifesa e poi fatti sparire. “I familiari mi accusano di essere responsabile di quella sparizione, ma io sono arrivato a Pantelhó solo il giorno seguente. Ero stato chiamato per mediare e costruire un tavolo di dialogo con il governo statale e federale”, spiega padre Marcelo. “Ci sono molti testimoni che sostengono che padre Marcelo non era a Pantelhó quel giorno - conferma Vico Galvez, avvocato del Fryba e legale del prete -. A dicembre dell’anno scorso la procura lo ha già sentito in merito. Nonostante questo, senza alcuna prova, lo si accusa di un fatto molto grave come la sparizione forzata che oltre a essere un reato è definito dalle convenzioni internazionali come un crimine contro l’umanità”, conclude l’avvocato. Padre Marcelo si dice sereno e pronto ad affrontare le conseguenze delle sue azioni: “Sono un costruttore di pace, anche se per il governo in Chiapas questo sembra essere un delitto”.