Assistenza medica a rischio collasso: un solo medico per oltre 300 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2022 L’assistenza sanitaria in carcere è inadeguata, pochi medici e lavoro precario. Troppi sono i detenuti che attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena. A questo si aggiunge la differenza di qualità tra regione e regione, creando una situazione a macchia di leopardo. Accade così che le direzioni delle carceri stesse sono costrette a chiedere aiuto. C’è il caso del carcere di Benevento dove sussiste una grave carenza di medici generici e specialisti. A denunciarlo è Samuele Ciambriello, il garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale. A notiziarlo è stata la Direzione della Casa circondariale di Benevento, e il garante ha subito scritto una nota al dirigente dell’Asl di Benevento, il dottor Gennaro Volpe, al dirigente dell’Azienda ospedaliera “San Pio”, la dottoressa Maria Morgante e al Direttore sanitario del carcere, Gennaro Leone. Il Garante campano: il carcere di Benevento è senza medici - Il garante Samuele Ciambriello, rivolgendosi con una lettera alla Asl, denuncia di essere venuto a conoscenza da parte della Direzione della Casa circondariale di Benevento di fatti che lo allarmano particolarmente e che meritano di essere affrontati con una certa tempestività, prima che possano degenerare in altre più preoccupanti manifestazioni. Sottolinea di essere stato informato dalla Direzione che, da giorni, mancano anche medici generici e che ciò azzera di fatto l’assistenza sanitaria, già di per sé precaria. Scrive il Garante: “Tutto questo - è evidente - crea un clima all’interno del carcere che desta preoccupazione, oltre al fatto che tale situazione mette seriamente a rischio i detenuti, anche in ragione del fatto che, all’interno della struttura penitenziaria, vi è l’articolazione psichiatrica”. Il Garante campano, sempre nella lettera rivolta alla asl, osserva che sono tutti consapevoli della carenza di organico che affligge la sanità regionale campana e che questo si riflette inevitabilmente nel mondo penitenziario, ma anche dell’importanza di una collaborazione proficua, unica strada possibile per superare anche gli ostacoli più insormontabili. “Il diritto alla salute, quale attributo fondamentale della persona, non può essere mai compresso per ragioni organizzative e di gestione interna: questo dovrebbe essere il baluardo che muove le nostre azioni”, sottolinea Ciambriello. Si appella, in primo luogo, alla Dirigente dell’Asl competente, la dott.ssa Maria Morgante, professionista che ha avuto modo di conoscere sul campo e che si è adoperata per risolvere diverse problematiche legate ai detenuti affetti da disturbi psichici. “Mi permetto di suggerire l’istituzione di un tavolo di confronto per affrontare le questioni qui dibattute, nonché il più annoso problema della mancanza di un reparto ospedaliero con posti riservati ai detenuti. La provincia di Benevento è l’unica in Campania a registrare tale assenza”, conclude il garante nella lettera. Ricordiamo che dal primo aprile 2008 la salute delle persone detenute è divenuta formalmente una competenza del Servizio sanitario nazionale e si è venuta così a sanare, sulla carta, una delle tante anomalie normative che riguardano la gestione della vita penitenziaria. Ma se ci si cala nella realtà dei fatti, ci si accorge di come questa anomalia sia stata adeguatamente superata esclusivamente sul piano formale. Nella materialità della detenzione permangono sostanziali criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa. Il trasferimento del personale, strumentazioni e responsabilità alle Asl è stato generalmente vissuto come un ulteriore “peso” scaricato sulle spalle già fragile della sanità regionale (e dei suoi bilanci). I livelli di assistenza variano da Regione a Regione - Accade così che l’Italia penitenziaria appare infatti quanto mai “ghepardizzata” con livelli e qualità dell’assistenza sanitaria che variano molto da regione a regione e rispecchiano fedelmente le condizioni della sanità esterna al carcere. A questo si aggiunge il lavoro precario e i turnover da parte dei medici, con un rapporto di un medico ogni 315 detenuti. La denuncia arriva direttamente dal coordinatore nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale Fimmg- Medicina Penitenziaria Franco Alberti, che avverte: “Mancano medici nelle carceri, nonostante passate circolari del ministero della Giustizia stabilissero la presenza di 1 medico ogni 200 detenuti, e la situazione è grave”. Alberti spiega all’Ansa: “I detenuti sono oggi circa 65.000, ben più dei 40- 45.000 che potrebbero essere ospitati nelle strutture carcerarie. C’è una situazione nota di sovraffollamento alla quale è davvero difficile fare fronte. I medici che lavorano nelle carceri sono infatti 1.000, ma va detto che circa il 70% di questi è rappresentato da medici precari e sottopagati”. Fimmg-Medicina Penitenziaria: costretti a turni continuativi - Ovviamente, il numero dei medici varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media, sottolinea sempre il coordinatore di Fimmg-Medicina Penitenziaria, “oggi possiamo dire che ci sia un medico per ogni 315 detenuti. La nostra richiesta è che ve ne sia uno almeno ogni 150. I medici di base, che garantiscono l’assistenza ambulatoriale per 3- 4 ore al giorno, secondo il fabbisogno da noi calcolato dovrebbero essere 1.044; i medici di guardia, che fanno assistenza h24 a turno, dovrebbero invece essere 1.588, e va detto che attualmente in varie carceri i medici di guardia mancano del tutto”. A conti fatti dunque, rispetto al totale di 1.000 medici penitenziari oggi attivi, per garantire un’adeguata assistenza mancano all’appello 1.632 camici bianchi. In queste condizioni numeriche “è difficile lavorare anche considerando - sottolinea Alberti - che nei casi più gravi il 118 impiega non meno di 30 minuti per poter entrare nelle strutture carcerarie”. Insomma, denuncia Alberti, “manca personale medico e così i medici sono costretti in alcuni casi a turni continuativi, con i rischi connessi alla situazione di stress”. C’è poi anche un’altra criticità. Con il Dpcm 1 aprile 2008, l’assistenza sanitaria è transitata dal ministero della Giustizia a quello della Salute e quindi al Servizio sanitario nazionale. A distanza di 11 anni, rileva l’esponente Fimmg, “non è però ancora stato fatto un contratto collettivo per i medici penitenziari, contemplato nell’Accordo collettivo nazionale Acn della Medicina generale, creando situazioni paradossali e contratti legati alle interpretazioni delle varie Regioni”. L’incubo delle carceri senza acqua e affollate come poche in Europa di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 luglio 2022 Nelle carceri italiane affollate, dove il caldo estremo di questi giorni rende ancora di più la vita insopportabile, vivono 54.841 persone, di cui 2.314 donne e 17.182 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un tasso di affollamento ufficiale dunque del 107,7%, ben oltre la media dell’Ue del 92,1% (peggio di noi solo Romania, Grecia, Cipro e Belgio). A rilevarlo è il “Rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione” pubblicato dall’associazione Antigone. Carceri dove spesso l’acqua viene razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegato dalla rete idrica comunale. Istituti che al 44,4% hanno celle “con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria” e dove il 58% delle “camere di pernottamento” non ha la doccia “per cercare un po’ di refrigerio (anche se per il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che ci fossero in ogni cella entro il 2005)”. Dei tanti dati contenuti nel Rapporto, interessa in questo contesto evidenziarne due in particolare: “l’Italia detiene ancora il primato in Europa per numero di persone detenute per violazione della normativa sugli stupefacenti: il 34,8% del totale, quasi il doppio rispetto alla media europea (18%) e mondiale (21,6%)”. Vuol dire che è stato smantellato il business criminale della droga? Non proprio: infatti tra i 38.959 detenuti condannati in via definitiva al 30 giugno 2022, sono 7.658 quelli che scontano una pena inferiore ai 3 anni; 8.564 le persone con una pena inflitta tra i 3 e i 5 anni, 11.472 tra i 5 e i 10 anni, 6.816 tra i 10 e i 20, e 2.609 oltre i vent’anni. Le persone condannate all’ergastolo sono 1.840. “Rispetto a dieci anni fa, quando gli ergastolani erano 1.581, i condannati alla pena perpetua sono aumentati del 16,4%. Nel 2002 erano 990, nel 1992 erano 408. Una crescita enorme, nonostante il costante calo degli omicidi in Italia. Dei 1.822 ergastolani, ben 1.280 sono ostativi, ovvero difficilmente rivedranno la libertà”. In ricordo di Ernesto Balducci. Grazie a lui il carcere divenne più umano di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 28 luglio 2022 Gli incontri che portarono alla Legge Gozzini. Il religioso animò con David Maria Turoldo un ciclo di riunioni tra genitori dei terroristi e magistrati. Da quei dibattiti nacquero le pene alternative per i detenuti. contatti più stretti erano con i terroristi di Prima linea. Alla Badia fiesolana, vicino Firenze, padre Ernesto Balducci incontrava i loro genitori. Tutto era cominciato, come lui stesso ricordava in una lettera riservata all’allora ministro della Giustizia Mino Martinazzoli, quando “la madre di una detenuta nelle carceri speciali è venuta da me spinta dal bisogno di una comprensione umana. È bastato che io la accogliessi e l’ascoltassi con sincera attenzione perché nel giro di poche settimane l’intera diaspora dei familiari di detenuti per terrorismo convogliasse su di me le sue speranze”. All’inizio si presentano agli incontri che il venerdì sera il sacerdote tiene alla Badia, poi, sempre più numerosi, si costituiscono in un gruppo a parte che si incontra una volta al mese. Alle riunioni partecipano, oltre ai familiari, anche magistrati, uomini di cultura, persone impegnate nel sociale e nella politica. All’inizio c’è una certa perplessità sull’aprire un dialogo con chi è in carcere. I più rigidi sono i giudici Gian Paolo Meucci, Mario Gozzini e Alessandro Margara, che saranno poi, invece, fautori delle leggi sui pentiti e sulla dissociazione. In una delle sue ultime interviste Margara, che all’epoca presiede il tribunale di sorveglianza di Firenze, ci disse che “quei ragazzi, per i quali le madri chiedevano aiuto, non erano nostri amici, anzi. Nel momento in cui nel carcere si cercava di trovare una misura di diritto le loro azioni avevano buttato tutto all’aria. Avevano quasi costretto le istituzioni ad applicare rigidamente tutto, senza spiragli. E, in quel regime d’emergenza - nel quale non ci furono leggi speciali, ma furono applicate in modo speciale le leggi esistenti - sono successe cose gravissime. Negli istituti di massima sicurezza di allora avvenivano cose truci: omicidi, ferocie estreme”. Per questo Balducci tornava a scrivere a Martinazzoli elencando le ingiustizie e raccomandando: “La prego di prenderne atto con quel senso di responsabilità che tutti le riconoscono. Glielo chiedo come cittadino, ma anche come cristiano inorridito dinanzi a forme di pena che lei ha giustamente definito “inutilmente brutali”. In quegli anni, raccontava Margara, “quello che successe fu il peggio che si poteva vedere. Le carceri speciali sono state una cosa abbastanza vergognosa. Nel quadro d’insieme Balducci coglieva questo aspetto e insisteva perché trovassimo dei modi per intervenire anche a livello legislativo. Sull’onda di quelle discussioni e di vari ragionamenti il gruppo vinse le perplessità dell’inizio e fu poi un vero laboratorio per la legge Gozzini e per quella sui dissociati del 1986. Piano piano il sacerdote sciolse anche le nostre rigidità”. Con padre David Maria Turoldo, suo grande amico, Balducci promuove un movimento di opinione contro le leggi speciali e il carcere duro che definì “una violazione anche formale della Costituzione”. E avvia un processo che porterà molti ex terroristi a ripensare alle proprie posizioni e a ripudiare la lotta armata. Ergastolo ostativo, fine vita, ius scholae, omotransfobia: “Ultime ore per i diritti” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 luglio 2022 Parla la senatrice del Pd Monica Cirinnà, membro della Commissione Giustizia: “È necessario fare in modo che i cittadini abbiano chiara la posta in gioco: una vittoria della destra avrebbe come conseguenza la fine di ogni politica per i diritti”. I diritti al centro della campagna elettorale. Li ha rimessi ieri sera la senatrice dem Monica Cirinnà dal palco della Festa dell’Unità alle Terme di Caracalla, a Roma. Perché, se anche per una parte della sinistra la fine del governo Draghi è evento da festeggiare, per milioni di cittadini italiani o aspiranti tali le speranze e le attese lungamente serbate sfumano insieme alle ultime ore dell’attuale legislatura. Proprio mentre alcuni diritti stavano per trovare la strada del riconoscimento legale, che fosse per forza o per buona voglia. È il caso, per esempio, dell’ergastolo ostativo o del suicidio assistito, due proposte di legge imposte dalle decisioni della Corte costituzionale, che hanno già superato l’iter alla Camera e sono attualmente al palo al Senato, in commissione Giustizia, dove siede Monica Cirinnà. Senatrice, l’8 novembre 2022 scadrà (per la seconda volta) il termine concesso al legislatore dalla Consulta per riformare l’ergastolo ostativo, ritenuto illegittimo nell’attuale formulazione. Cosa succederà quel giorno? Se, per quella data, il Parlamento non avrà ancora accolto l’invito della Corte costituzionale ad adeguare alla Costituzione la normativa in materia, credo potremmo trovarci di fronte a una dichiarazione di incostituzionalità, salvo che la Corte prenda una diversa decisione, e fissi un ulteriore termine alle Camere. Non sta a me, ovviamente, fare il lavoro della Corte, ma il quadro è molto chiaro: lo scioglimento anticipato ha impedito alle Camere di portare a termine la discussione dei progetti di legge che dovevano dare risposta alle richieste della Corte, trovando un equilibrio tra conformità delle pene al senso di umanità ed efficace repressione dei reati più gravi. Sarà la Corte a valutare le conseguenze. Stessa sorte anche per il suicidio assistito (altro monito della Consulta) il cui ddl è stato licenziato dalla Camera a marzo ed era in attesa di concludere l’iter al Senato. Che fine faranno queste leggi secondo lei? Un’altra gravissima conseguenza dello scioglimento anticipato e, prima ancora, delle gravissime strumentalizzazioni ideologiche, in Senato, da parte della Lega e delle destre. Anche in questo caso è mancato l’ultimo miglio, l’ultimo sforzo per dare ai cittadini la risposta a una domanda di giustizia, diritti e dignità profondamente sentita, rispettando allo stesso tempo il monito della Corte costituzionale. Mi auguro che il prossimo Parlamento possa terminare il lavoro e anche per questo, è necessario fare in modo che i cittadini abbiano chiara - di qui al 25 settembre - la posta in gioco: una vittoria della destra avrebbe come conseguenza la fine di ogni politica per i diritti. Dare fiducia al Partito democratico significa invece contribuire a costruire un’Italia più libera e giusta. Quali altre leggi, riforme o decreti attuativi sono stati cestinati insieme al governo Draghi? Facciamo un elenco? Sono purtroppo moltissime. Per quel che riguarda gli atti legati all’azione di governo, è a rischio l’attuazione di tutte quelle riforme necessarie per il Pnrr. Il governo ha annunciato di voler fare di tutto per garantirne l’attuazione: mi auguro che tutte le forze politiche avvertano forte la responsabilità di continuare a contribuire a questo lavoro, nonostante la campagna elettorale. Per quel che riguarda i diritti, abbiamo già ricordato ergastolo ostativo e fine vita; ma penso anche al lavoro avviato sul cognome della madre, ai ddl di cui sono relatrice sul diritto all’affettività delle persone detenute, alla legge contro l’omolesbobitransfobia, fino alla riforma della legge sulla cittadinanza. Tutto il pacchetto sui diritti, ma anche il ddl cannabis, non fanno però parte della cosiddetta agenda Draghi. E questo non ha aiutato, non crede? Non fanno parte del programma di un governo di unità nazionale al quale il Pd ha aderito per affrontare due emergenze gravissime come la pandemia e la recessione, alle quali poi si è aggiunta la guerra. Quindi era chiaro che questi temi non potevano trovare spazio e neppure una sponda, come invece deve succedere (ed è successo per esempio per la legge sulle unioni civili) in un governo politico. Ciò non toglie però che anche in questo caso il Parlamento debba lavorare in autonomia. Come è avvenuto nel ddl sui crimini d’odio o per la legge sul cognome della madre che aveva preso il via, con vari testi tra cui uno mio, ancora prima che la sentenza della Consulta ce lo imponesse. Potrebbero naufragare però anche i decreti attutivi delle riforme sulla giustizia o la riforma del diritto tributario, che fanno parte del programma di governo e sono necessarie per il Pnrr… Per il processo civile e penale qualcosa potremmo anche riuscire a fare, perché si tratta di decreti delegati, quindi spettano al governo: il Parlamento dovrà solo approvare. Il problema è che i tempi sono davvero finiti. Il Senato è convocato fino al 6 agosto. Il nuovo Parlamento si insedierà il 13 ottobre. La riforma Cartabia del processo penale rischia il fallimento di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 luglio 2022 I decreti attuativi della legge approvata un anno fa rischiano di essere bocciati in Consiglio dei ministri. I ritardi della Guardasigilli, le divisioni fra i partiti e il nodo Pnrr. Le riforme della giustizia targate Marta Cartabia, in particolare quelle del processo penale e del processo civile, rischiano di essere spazzate via dalla crisi di governo, di essere cestinate. L’ottimismo fatto trapelare negli ultimi giorni dal ministero della Giustizia rischia infatti di scontrarsi con la realtà politica, fatta di una spaccatura insanabile tra i partiti che fino a pochi giorni fa hanno sostenuto il governo Draghi. Il divorzio tumultuoso tra gli alleati di governo dovrebbe far sentire i suoi primi effetti concreti la prossima settimana, quando al Consiglio dei ministri dovrebbero approdare i tanto attesi decreti attuativi della legge delega di riforma del processo penale, approvata lo scorso anno dal Parlamento e i cui termini scadono il 19 ottobre. In teoria, il Cdm dovrebbe adottare i decreti e sottoporli alle commissioni parlamentari competenti per ottenere il loro parere non vincolante entro sessanta giorni. Il problema non riguarda solo i tempi tecnici strettissimi richiesti dall’operazione (qualora le commissioni avanzassero proposte di modifica, la Guardasigilli dovrebbe rielaborare i testi e risottoporli al Cdm, il tutto prima delle elezioni del 25 settembre). Il problema è a monte: immaginare che Pd, Lega, M5s, Forza Italia e Italia viva dicano sì a Cartabia e raggiungano un accordo sui contenuti dei decreti attuativi della riforma penale, che solo un anno fa già aveva rischiato di far saltare la maggioranza, al momento sembra pura utopia. Insomma, anche se da via Arenula continuano a dirsi pronti a presentare in Cdm gli schemi dei decreti legislativi, il fallimento sembra ormai essere dietro l’angolo. A essere venuto meno è l’accordo politico tra i partiti. Se un anno fa, al momento dell’approvazione della legge delega, Lega e M5s avevano abbozzato su alcune disposizioni non gradite, come l’accesso alle pene alternative al carcere per condanne sotto i quattro anni, ora che tra le forze politiche che sostenevano il governo sono volati gli stracci è difficile immaginare una simile predisposizione al compromesso, con la campagna elettorale già iniziata. Di certo, la situazione non è stata favorita dagli evidenti ritardi con cui la ministra Cartabia ha gestito la fase di elaborazione dei testi, istituendo ben sei gruppi di lavoro per la scrittura dei decreti legislativi nel settore penale e altri sette gruppi per il civile (la scadenza di questa delega è fissata al 24 dicembre), composti da magistrati, avvocati e docenti universitari. Agli inizi di maggio i gruppi di lavoro per la giustizia penale hanno completato il loro lavoro. Da allora, però, sui decreti attuativi è calato il silenzio, con una colpevole sottovalutazione degli sviluppi politici e dei continui scricchiolii attorno al governo. Il fallimento della riforma del processo penale non sarebbe da addebitare soltanto allo scarso tempismo del ministero, ma anche e soprattutto alla convinzione diffusasi nei partiti di centrodestra di prevalere alle prossime elezioni. In altre parole, perché - è la domanda che in queste ore si sta diffondendo in maniera silenziosa in diversi settori di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia - il centrodestra dovrebbe approvare i decreti attuativi delle riforme Cartabia (con alcune norme non gradite) quando, dopo il voto del 25 settembre, si ritroverà con molta probabilità a governare il paese e quindi a poter finalmente elaborare le proprie riforme del processo penale e civile? Ci sono le scadenze del Pnrr da rispettare, risponderà qualcuno. Vero: il piano concordato con Bruxelles prevede che entro la fine del 2022 il governo adotti i decreti attuativi delle leggi delega del processo penale e del processo civile. E’ altrettanto vero, però, che in caso di fallimento delle riforme Cartabia la Commissione europea non ignorerebbe la particolare fase politica vissuta dal nostro paese e i ritardi dovuti alle elezioni. Nel Pnrr, inoltre, il termine per l’entrata in vigore definitiva delle riforme del processo penale e civile è fissato alla fine del 2023. Nel frattempo, comunque, la figuraccia per la riforma Cartabia sarebbe assicurata. Giustizia: manca la volontà politica per attuare le riforme di Valter Vecellio lindro.it, 28 luglio 2022 È, più di sempre, l’estate dei suicidi in carcere: ufficialmente si è già raggiunto quota quaranta. Gli esperti e gli studiosi concordano, e gli operatori confermano, per l’esperienza quotidiana che vivono giorno dopo giorno: l’estate più di altre stagioni, e la pandemia che non accenna a diminuire accentuano le situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia; e all’interno delle carceri hanno ripercussioni ancora più gravi. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici”, osserva Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria. “L’incapacità è ancora più irresponsabile in questa nuova fase di diffusione della pandemia. Una realtà che segna un trend di contagi in forte aumento in questa estate destinato dunque ad avere conseguenze impattanti e ad aggravare la situazione già di eccezionale emergenza della gestione delle carceri. Sminuire o nascondere la verità può solo portare ad un’ulteriore sottovalutazione e a complicare le problematiche esistenti per la salute della popolazione carceraria e di chi lavora”. Giustizia, carcere, sono emergenze su cui è calato un inquietante silenzio; una situazione ulteriormente aggravata dalla crisi di Governo che può ormai solo occuparsi del cosiddetto disbrigo “degli affari correnti”; a ciò va aggiunta l’indifferenza delle forze politiche impegnate in una campagna elettorale dove il diritto e i diritti civili non sembrano avere spazio. Tuttavia ci sono scadenze precise, non eludibili. L’8 novembre, per esempio, finisce il tempo concesso dalla Corte Costituzionale per modificare l’ergastolo ostativo. La delega per la riforma penale scade il 19 ottobre; per quella civile il 24 dicembre. In serio rischio i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La domanda da un miliardo di euro è: riuscirà il governo dimissionario a portare a casa i decreti attuativi? Non sembra che molti abbiano prestato la dovuta attenzione alle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso dopo lo scioglimento delle Camere: “Alle molte esigenze si affianca quella della attuazione nei tempi concordati del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cui sono condizionati i necessari e consistenti fondi europei di sostegno”. Lo stesso Mario Draghi è stato chiaro ed esplicito: “Per quanto riguarda la giustizia, abbiamo approvato la riforma del processo penale, del processo civile e delle procedure fallimentari e portato in Parlamento la riforma della giustizia tributaria. Queste riforme sono essenziali per avere processi giusti e rapidi, come ci chiedono gli italiani. È una questione di libertà, democrazia, prosperità. Le scadenze segnate dal Pnrr sono molto precise. Dobbiamo ultimare entro fine anno la procedura prevista per i decreti di attuazione della legge delega civile e penale”. Draghi assicura che “Il governo rimane altresì impegnato nell’attuazione legislativa, regolamentare e amministrativa del PNRR”. Il problema sono i tempi, e soprattutto la volontà politica. Una vera e propria corsa contro le inesorabili lancette dell’orologio: lo schema di attuazione delle riforme devono innanzitutto arrivare sulla scrivania di Draghi; da lì, al Consiglio dei Ministri; poi l’invio alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato per i pareri non vincolanti entro sessanta giorni; infine la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale; il tutto, come si è detto, entro il 19 ottobre per il “penale”; il 24 dicembre per il “civile”. Volontà politica, si diceva. Movimento 5 Stelle e Lega, già prima dell’apertura della crisi, avevano manifestato l’intenzione di non accettare a scatola chiusa gli elaborati governativi nati da via Arenula. Nulla fa pensare che abbiano mutato opinione, anzi… Avranno da far sentire la loro voce anche i vertici dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e dell’Unione delle Camere Penali: entrambi i “sindacati” hanno già fatto sapere che vogliono essere ascoltati dalle Commissioni Parlamentari. Senza entrare nel merito delle loro proposte e osservazioni, sarà comunque un’ulteriore dilatazione dei tempi. Non mancheranno le richieste di modifiche e di “ritocchi”. Come e quanto incideranno, se accolti, con l’impianto generale? E quali reazioni, se non saranno accettate dal Governo? Ancora più impantanata, se possibile, la riforma del carcere. L’apposita commissione presieduta dal professor Marco Ruotolo ha inviato una sua pregevole relazione al ministro della Giustizia Marta Cartabia. Il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria ha elaborato circolari in linea con le direttive della commissione. Ma ora? Si tratta di mettere in cantiere sostanziose riforme del regolamento penitenziario. Una revisione, osserva il professor Ruotolo che non rientra nell’ambito “del disbrigo degli affari correnti”. Dunque? Ennesima occasione mancata per il miglioramento della qualità della vita negli istituti penitenziari? Tutto lo fa pensare. Ruotolo auspica “che le azioni amministrative suggerite dalla mia Commissione, alcune delle quali già intraprese, siano portate avanti. E spero che le revisioni del regolamento siano riprese dal prossimo Governo, insieme alle altre proposte suggerite nel nostro documento”. Un governo a trazione Meloni-Salvini-Berlusconi, come tutti danno per scontato? Ancora più ardua la riforma dell’ergastolo ostativo. La Corte Costituzionale ha posto l’8 novembre come data ultima per l’approvazione di una nuova legge. Impresa praticamente impossibile. A questo punto due le possibili strade: un nuovo rinvio, e sarebbe il terzo; oppure la Corte scioglie il nodo dichiarando incostituzionale l’ergastolo ostativo. A questo punto Parlamento e forze politiche sarebbero con le spalle al muro. I maxi-decreti Cartabia: oggi il sì del governo al “civile” di Errico Novi Il Dubbio, 28 luglio 2022 Provvedimento da 350 pagine. Danovi, vicecapo del Legislativo di via Arenula: “Più peso al Foro su Adr e istruttorie stragiudiziali”. C’è lavoro per il Parlamento. Anche in questo scorcio di legislatura “a Camere sciolte”. Lo si comprende dai numeri del decreto sul nuovo processo civile, discusso ieri in pre-Consiglio dei ministri insieme col testo sull’Ufficio per il processo (entrambi sono destinati a un quasi certo via libera nel Consiglio dei ministri vero e proprio in programma per oggi). Ebbene, i numeri dicono che la parte attuativa della prima delle riforme Cartabia consta di 51 articoli che sviluppano qualcosa come 140 pagine, con una relazione tecnica di altre 200 pagine. Dimensioni che sembrerebbero scoraggiare un esame puntiglioso e ultra zelante delle due Camere. C’è però da dire che qui parliamo della pur attesissima, per il Pnrr, riforma del civile. Servirà ancora qualche giorno perché arrivi su tavolo di Palazzo Chigi anche il decreto legislativo che attua la riforma penale. Sul quale, come riferito ieri su queste pagine in un articolo di Valentina Stella, Lega e grillini già avanzano riserve. Ai limiti del veto, in particolare sulla materia carceraria. Ma insomma, l’ambito civilistico si concretizza con particolare sveltezza rispetto al deflagrare della crisi. In aggiunta, appunto, il decreto “ibrido” a metà fra civile e penale, che riguarda il nuovo Ufficio per il processo. Rispetto al primo provvedimento, tra le tante misure, si possono segnalare due aspetti, spiega al Dubbio il professor Filippo Danovi, vicecapo del Legislativo di via Arenula, che ha seguito i lavori preparatoria con la numero uno dell’ufficio, Franca Mangano. “Nel campo della mediazione, della negoziazione, delle Adr in generale, si è ritenuto, in accordo col Cnf, di assegnare un ruolo decisorio diretto alle istituzioni forensi: l’entità dei compensi, ad esempio, per il patrocinio a spese dello Stato nelle soluzioni alternative sarà stabilito dall’Ordine degli avvocati, anziché dal giudice”. Sempre riguardo alle misure attuative che chiamano in causa il Foro, Danovi cita anche “la nuova istruttoria stragiudiziale, che può introdurre una svolta culturale vera: anche tale strumento a disposizione delle difese sarà in grado di indicare alla parte se e quanto deve retrocedere, in anticipo rispetto alla causa. La difesa potrà non più soltanto negoziare ma anche accertare i fatti, assumere dichiarazioni da terzi o dalle parti, in questo caso con efficacia confessoria. Può cambiare molto in termini di organizzazione, tempi e carico per gli uffici giudiziari. Dipende”, dice il vicecapo del Legislativo “anche da quanto gli avvocati tenderanno ad adeguarsi al nuovo scenario”. In generale, per il decreto legislativo sul civile, va segnalata innanzitutto l’ampiezza dell’intervento (dal codice alla procedura, con altri capi su Adr, Pct, impugnazioni, volontaria giurisdizione, minorenni e famiglia, lavoro). C’è una ovvia coerenza con la già dettagliata legge delega, con alcune scelte specifiche per la controversa riforma della fase introduttiva. Inclusa la possibilità di far ridecorrere da capo i termini in caso di chiamata del terzo da parte dell’attore. Ma il fine tuning di maggior rilievo riguarda le memorie integrative: termini non più conseguenti fra loro ma fissi e simmetrici, di 40, 20 e 10 giorni anteriormente alla prima udienza. Ìl terzo di questi limiti (per replica, precisazione e prova contraria) riguarda entrambe le parti, attore e convenuto. Uno schema che da una parte “raddoppia” le memorie, ma dall’altra mantiene, come previsto della delega, quell’idea di concentrazione di ogni attività difensiva in anticipo rispetto alla prima udienza. Idea che appunto, l’avvocatura considera disfunzionale e limitante. Riguardo alle Adr, il decreto tra l’altro quantifica gli incentivi fiscali: è uno dei pochi passaggi sottoposti in queste ore a ulteriori ritocchi in vista del Consiglio dei ministri di oggi. Li hanno chiesti il Mef e la Ragioneria dello Stato, con suprplus di lavoro per i tecnici di via Arenula e Palazzo Chigi. Ma sul via libera al testo attuativo della riforma civile non dovrebbero esserci sorprese. D’altronde come pure ricorda il professor Danovi, “la ministra Cartabia ha preso un impegno sulla tempistica a cui tiene molto”. Nel caso del decreto sul penale, atteso in Cdm per martedì prossimo, l’urgenza si intreccia come detto con le perplessità dei partiti. Ma da via Arenula si assicura che i 5 giorni di intervallo fra i testi per il civile e il penale non dipendono affatto da quelle tensioni politiche. Piuttosto, dalla mole dei provvedimenti, impossibili da esaminare a Palazzo Chigi contemporaneamente. Anche con il decreto sul penale, siamo già a 300 pagine fra articolato e relazione. Lo ha seguito in particolare Gian Luigi Gatta, consigliere della guardasigilli, sulla base dei lavori preparatori coordinati da Gianni Canzio. Il ministero non ignora la maggiore reattività della politica sul penale, ma può contare su un calendario che non dovrebbe lasciare spazio a clamorose impuntature delle Camere (i cui pareri, come per tutti i decreti legislativi, sono consultivi e non vincolanti). Intanto, i 60 giorni di tempo per le commissioni parlamentari decorrono già dalla data in cui il governo presenta i testi. Certo se il penale fosse trasmesso martedì stesso, 2 agosto, si finirebbe per sforare rispetto alle elezioni politiche del 25 settembre. Ma in realtà la convocazione delle nuove Camere è prevista fin da ora per il 13 ottobre: fino a quella data restano in carica le vecchie. Se pure il Parlamento esigesse di consumare tutti i 60 giorni che le leggi delega mettono a disposizione, il governo attuale potrebbe contare anche sul fatto che il giuramento dei successori arriverebbe forse verso fine ottobre: prima, ci sarebbe dunque il tempo per emanare in via definitiva anche il decreto sul penale. Insomma, le riforme del processo attese dall’Europa sembrano sfuggire al conflitto politico. Il che forse a questo punto non guasta. Salta il voto per i laici, togati eletti e congelati: il caos del futuro Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 28 luglio 2022 Il 21 settembre il Parlamento in seduta comune, quello tuttora in carica, si sarebbe dovuto riunire per eleggere i componenti laici del Consiglio superiore della magistratura. Fonti della Camera ci dicono invece che la data non è più in calendario perché a Camere sciolte non sarebbe possibile procedere. E comunque quel voto sarebbe stato espresso a soli quattro giorni dalle elezioni politiche. Quindi quasi certamente spetterà ai nuovi deputati e senatori eleggere i laici di Palazzo dei Marescialli. Ci siamo chiesti se a questo punto sarebbe stata rimandata anche l’elezione dei togati prevista per i prossimi 18 e 19 settembre. Ma dal Csm ci dicono di no, perché c’è stato un decreto del presidente della Repubblica, la macchina è partita e quindi è tutto confermato. E adesso che succede? I 20 magistrati eletti rimarranno congelati fino all’elezione dei laici, e l’attuale Consiglio, che scade proprio il 25 settembre, verrà prorogato per qualche mese (articolo 30 della legge istitutiva del Csm: “Il Consiglio superiore scade al termine del quadriennio. Tuttavia finché non è insediato il nuovo Consiglio continua a funzionare quello precedente”). E però fino a quando? Occorre aspettare l’esito delle Politiche, la formazione del nuovo esecutivo, la definizione di maggioranza e opposizione a Montecitorio e a Palazzo Madama, le elezioni dei presidenti delle Camere. Ma lo scoglio più complesso sarà quello dell’accordo tra i partiti. “Per una legge non scritta”, ci spiega il professore emerito di Procedura penale alla Sapienza Giorgio Spangher, ex laico del Csm, “in passato alla maggioranza spettava eleggere 5 componenti, all’opposizione 3. Ora, con la riforma del Csm, il rapporto diventa 6 a 4”. Nell’attesa il fattore tempo ha un peso: “Si verrà a creare una situazione molto anomala”, riflette il professore, “in merito al funzionamento dell’organo di governo autonomo della magistratura. Fino al 25 settembre, giorno di scadenza dell’attuale consiliatura, gli attuali membri sarebbero legittimati ovviamente a operare. Ma poi da quella data, con i nuovi togati eletti, ma congelati in attesa dell’elezione dei laici, che attività potrebbero svolgere? Potrebbero ad esempio nominare nuovi direttivi? Non si dovrebbero tenere invece in considerazione i nuovi equilibri delle correnti?”. L’ulteriore aspetto singolare, per il professor Spangher, è che “avremmo magistrati eletti al Csm ma che continuerebbero ad esercitare le loro funzioni. Qualora esprimessero una opinione, lo farebbero da eletti al Csm o da magistrati in funzione?”. A questo punto, auspica Spangher , “sarebbe forse più opportuno congelare le candidature invece che gli eletti, e prevedere votazioni ravvicinate sia dei togati che dei laici”. In generale comunque “sarebbe stato anche inusuale, ma comunque legittimo, che il Parlamento che ha eletto gli attuali laici eleggesse anche i nuovi”. Infatti i non togati che siedono ora a Palazzo dei Marescialli sono stati eletti nell’estate 2018. Anche Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, esprime perplessità di fronte a questo scenario, sotto altri punti di vista: “Già per l’attuale consiliatura ci fu una prorogatio di due mesi perché i togati furono eletti a luglio ma il Csm si insediò a metà settembre. Adesso invece, a mio parere, si prospetta una forbice di tempo molto ampia dall’elezione dei togati a quella dei laici. Il nuovo Consiglio potrebbe insediarsi in prossimità di Natale, se non addirittura all’inizio del nuovo anno. Si tratta di una previsione estremamente negativa dal mio punto di vista”. Soprattutto, per il pm della Procura di Roma, “un dato è rimasto molto tra le pieghe: c’è il rischio che i partiti vadano a nominare coloro che sono rimasti fuori dai giri delle poltrone dopo le prossime elezioni politiche”. A maggior ragione con un numero minore di parlamentari: “Invece”, prosegue Albamonte, “i laici da eleggere dovrebbero essere professionisti che si caratterizzano per un curriculum particolarmente qualificato. Se tutti condividono questa idea non c’è bisogno di aspettare il nuovo Parlamento. Al contrario, se si pensa di dover dare uno strapuntino a chi è rimasto fuori dalle elezioni, vorrebbe dire continuare a snaturare la funzione del Consiglio, a maggior ragione dopo tutto quello che è emerso dal 2019 in poi. La funzione della politica dovrebbe essere quella di contrastare questa utilizzazione strumentale dell’incarico al Csm, che è un organo di rilievo costituzionale, di garanzia per i magistrati e i cittadini, ma anche di protezione nei nostri confronti verso le eccessive ingerenze della politica”. Considerato tutto questo, per Albamonte “bisognerebbe procedere velocemente per l’elezione dei laici, secondo i tempi originariamente previsti”. Rispetto alla questione delle attività che il Csm in proroga potrebbe svolgere, Albamonte conclude: “È molto difficile stabilire cosa sia attività ordinaria e cosa attività straordinaria. Penso comunque che tutte le funzioni ordinarie, ossia quelle previste dalla Costituzione, come la nomina dei direttivi e dei semidirettivi, possano continuare ad essere esercitate, così come l’attività di normazione secondaria”. Disciplinari farsa, Italia Viva interroga la ministra Cartabia di Simona Musco Il Dubbio, 28 luglio 2022 La deputata Frate, iscritta al partito fondato da Matteo Renzi, ha chiesto chiarimenti sulle circolari emesse dall’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. La deputata di Italia Viva Flora Frate interroga la ministra Marta Cartabia sulla gestione dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati da parte dell’ex procuratore generale Giovanni Salvi. Una gestione che avrebbe generato - a dire dei magistrati di Articolo 101, la corrente “dissidente” delle toghe, e Autonomia & Indipendenza - due pesi e due misure nella valutazione delle toghe coinvolte nelle chat con Luca Palamara, ex consigliere del Csm, radiato dalla magistratura dopo lo scandalo della cena all’Hotel Champagne. Dalla quale emerse l’esistenza di un “sistema” di cui avrebbero fatto parte in tanti, a dire dello stesso ex zar delle nomine, ma per il quale a pagare sono stati in pochi. Ora, a volerci vedere chiaro, prendendo spunto dal documento inviato dall’ex sostituto procuratore generale della Cassazione Rosario Russo ai vertici delle istituzioni e reso noto dal Foglio, è anche la deputata renziana, secondo cui Salvi - ormai però in pensione - avrebbe “statuito tramite circolare cosa è configurabile come illecito, nonostante solo la legge, la giurisprudenza delle Sezioni unite o al limite il Consiglio superiore della magistratura, ex articolo 105 della Costituzione, possono stabilirlo”. Ma non solo: le circolari dell’ex pg sarebbero “in conflitto di interesse, poiché da numerosi articoli di stampa emerge che il dottor Salvi si sarebbe in più occasioni autopromosso per l’incarico di procuratore generale presso la Corte di Cassazione con il presidente della quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura”, ovvero proprio Palamara, all’epoca gestore indiscusso delle nomine, dal quale le toghe si recavano per questuare i posti desiderati. Tutto ruota attorno alle famose regole stabilite da Salvi, sulle quali anche i 101 e A & I hanno tentato di fare chiarezza in seno all’Anm presentando diverse mozioni rimaste però inascoltate. La prima è quella firmata dall’allora pg, dal suo braccio destro e ora “erede” Luigi Salvato e dall’allora avvocato generale Piero Gaeta, che escludeva l’attività di autopromozione dall’alveo dei comportamenti disciplinarmente rilevanti. Una scelta che fece molto discutere, dal momento che i loro tre nomi erano ricorrenti nelle chat di Palamara. In particolare, l’ex toga aveva raccontato nel suo libro “Il Sistema” che lo stesso Salvi avrebbe caldeggiato la propria nomina a pg, circostanza che spinse 97 magistrati a chiedere pubblicamente le sue dimissioni nel caso in cui non avesse smentito Palamara. La smentita è arrivata però soltanto dopo il suo pensionamento in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, con la quale ha annunciato querela nei confronti di Palamara e Alessandro Sallusti, autori del libro incriminato. Un annuncio che ha suscitato la reazione dell’ex toga, decisa a sua volta a sfidare Salvi in tribunale. Ma non si tratta dell’unico atto che, secondo i critici, avrebbe condizionato la gestione degli illeciti nello scandalo toghe: il pg ha adottato anche una seconda circolare, che salva anche coloro che si sono macchiati di “condotte scorrette gravi”: l’illecito disciplinare, si legge infatti, può “risultare non configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”. E sulle pratiche archiviate è stato apposto un sigillo di segretezza che rende impossibile conoscere le motivazioni. In questo modo, dunque, sono stati diversi i magistrati graziati senza che ciò fosse reso noto, mentre a gisunti traditori del giuramento di fedeltà alla Costituzione sono stati diversi personaggi coinvolti, in un modo o nell’altro, nelle vicende che hanno destato scandalo. Un circolo vizioso che, alla fine, ha prodotto solo un’enorme confusione. Tutti questi elementi, secondo Frate, rischiano di appannare ulteriormente la credibilità della magistratura, che ha trovato in Palamara e negli altri consiglieri del Csm presenti all’Hotel Champagne i capri espiatori ideali. E ciò, secondo l’ex sostituto procuratore generale della Cassazione Russo, proprio grazie alle regole di Salvi, che avrebbero “consentito che si realizzasse un’amnistia di fatto per tanti magistrati coinvolti nello scandalo Palamara, e anche che su questa amnistia calasse una coltre impenetrabile di segretezza”. La deputata si rivolge dunque alla Guardasigilli, titolare, assieme al pg della Cassazione, del potere disciplinare, chiedendo “quali siano state le iniziative disciplinari e/o informative assunte dal ministro”, nonché “quali effetti si ricolleghino alle citate circolari con riferimento ai poteri” della stessa Cartabia, in particolare in relazione alla possibilità “di non analizzare ogni singola condotta potenzialmente illecita, ma ricorrere a una sorta di archiviazione preventiva generalizzata, nonché della possibilità di distinguere tra la gravità della condotta specifica e la rilevanza del fatto concreto”. Ma quel che interessa è anche capire se ci sia stata qualche comunicazione delle archiviazioni secretate, che di fatto hanno coperto buona parte dello scandalo. Il tutto sulla base di regole che, secondo le toghe di 101, sarebbe in “contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia”, dal momento che la sentenza delle Sezioni Unite n. 741/ 2020 “ha chiaramente ricondotto la cosiddetta autopromozione nell’alveo dei “comportamenti abitualmente e gravemente scorretti” di cui all’art. 2, comma 1, lett. d) del dlgs 109 del 2006”. Da destra a sinistra tutti d’accordo: non toccare lo strapotere dei magistrati di Iuri Maria Prado Il Riformista, 28 luglio 2022 La lotta contro la prepotenza del sistema giudiziario è affidata perlopiù a iniziative individuali anche meritorie, insomma al contributo pur lodevole di questo o quell’esponente - spesso non di prima fila, il che la dice lunga - che da destra o da sinistra si impegna sul fronte di questa causa dimenticata. Ma nessuna forza politica, né di destra né di sinistra, pone al centro della propria azione e sulla cima dei propri programmi non - si badi - la “riforma della giustizia”, che è un semplice modo di dire, ma appunto la necessità di contrastare quel potere usurpato, quel flusso di arbitrio e malversazione che si è immesso illegittimamente nel corso repubblicano facendolo sfociare nella palude cui è ridotto il nostro Stato di diritto. Nessuna forza politica sente l’urto antidemocratico di quel potere, il quale non si produce per il moltiplicarsi di indagini sbagliate e sentenze discutibili, ma per la pretesa sovraordinata di sorvegliare l’indirizzo generale del Paese rieducandone le propensioni alla corruzione dal pulpito dell’azione penale obbligatoria, dell’infallibilità togata, delle mani pulite certificate via concorso pubblico. È una turbativa che non interferisce con questo o quel governo per il fatto che esso è colorato in un modo o nell’altro, ma con la stessa idea che un governo abbia ambizioni di autonomia da quella sorveglianza: e non sarà un caso se le più scomposte e aggressive reazioni della magistratura militante e corporata si sono registrate a contestazione di un governo partecipato pressoché da tutti. Perché la cosiddetta “politicizzazione” della magistratura non risiede se non episodicamente nell’atteggiamento di favore verso alcuni o di pregiudizio verso altri, ma nel costituirsi del potere giudiziario in una specie di contro-governo perenne che si giustappone ai poteri legittimi e ne contesta l’esercizio non perché pendono a destra, non perché pendono a sinistra, ma se e perché si azzardano a reclamare il diritto di agire senza pagare il pizzo del benestare giudiziario. Sui motivi per cui nessuna forza politica ritiene di doversi opporre in modo convinto e sistematico a questo andazzo si potrebbe ragionare a lungo, ma non è azzardato osservare che le classi parlamentari e di governo che si sono avvicendate negli ultimi decenni, tutte nessuna esclusa, sono dopotutto il multiforme ma sostanzialmente omogeneo risultato di modellazione del sistema politico secondo lo stampo giudiziario. Perché anche a destra, davvero non solo a sinistra, riscuoteva consenso la palingenesi repubblicana appaltata al potere della magistratura. Perché nemmeno a destra, esattamente come a sinistra, si comprendeva che nemico di quella magistratura non era il potere precario di uno o dell’altro ma, ben più forte e temibile, il diritto dell’ordinamento democratico. Quando le vittime sono donne anche la giustizia si affida agli stereotipi di Alessandro Calvi L’Essenziale, 28 luglio 2022 I risultati di un’indagine della Commissione del Senato sulla violenza di genere. Quando ci si trova di fronte a donne assassinate neanche i numeri sono neutri. Le parole lo sono ancora meno. E questo vale anche per il linguaggio delle sentenze. Non è raro, infatti, che tra commi e articoli del codice penale si facciano largo stereotipi e pregiudizi. E quindi può capitare che il “delirio di gelosia” diventi addirittura un’attenuante in un caso di omicidio. A rivelarlo è un’indagine svolta dalla commissione del Senato sul femminicidio e la violenza di genere, che ha analizzato i casi che si sono verificati nel biennio 2017-2018 prendendo in considerazione non soltanto i numeri del fenomeno, ma anche il linguaggio usato nei verbali della polizia giudiziaria e nelle sentenze dei giudici. “Calmare gli animi” - Una delle criticità più evidenti negli atti della fase investigativa è l’insufficiente ricerca del movente di genere, ossia di un eventuale rapporto di sopraffazione dell’assassino nei confronti della vittima. In alcuni dei casi considerati emerge che chi fa le indagini non riesca a distinguere tra violenza domestica e lite familiare e così, nelle annotazioni di servizio, capita di leggere che l’intervento è servito a “calmare gli animi”. Insomma, le violenze sono spesso ridimensionate a conflitti familiari, e accade che le forme ossessive di controllo da parte degli uomini nei confronti delle loro partner siano banalizzate come “gelosia”. Altro fattore non secondario è che spesso i metodi investigativi utilizzati sono gli stessi applicati a qualsiasi omicidio e hanno l’obiettivo di verificare la dinamica della morte come fatto singolo, come un episodio, e non come esito di una lunga sequenza di aggressioni. Nei verbali di polizia giudiziaria le violenze sono spesso ridimensionate a conflitti familiari - Così, anche se nella maggior parte dei casi analizzati l’uomo ha dichiarato alla polizia giudiziaria che la moglie non voleva cucinare o voleva chiedere la separazione, queste affermazioni non sono state considerate come segni di un clima di violenza e sopraffazione. Nell’indagine viene per esempio raccontato il caso di un agente delle forze dell’ordine che, sollecitato ad assumere provvedimenti, ha pensato che bastasse prendersi un caffè con l’uomo e invitarlo “ad avere pazienza” per evitare che si verificasse un dramma. E, invece, a distanza di pochi mesi l’autore delle violenze ha ucciso le due figlie e sparato alla moglie. Nella relazione di servizio redatta dopo la strage, la polizia giudiziaria, per descrivere quanto accaduto nei mesi precedenti, ha continuato a usare termini come parti in dissidio, conflittualità coniugale, e “comunque non oltre la media riscontrabile in controversie di questo tipo”. Le sentenze - Nelle successive fasi del procedimento le cose non cambiano. Di alcuni casi si è parlato perché le sentenze hanno fatto molto discutere. Nell’ottobre 2018 Cristina Maioli è stata uccisa dal marito a coltellate. L’accusa ha chiesto l’ergastolo, ma la corte di assise di Brescia ha assolto l’uomo perché incapace di intendere e volere a causa di quello che l’avvocato della difesa ha definito “un delirio di gelosia”. Nel marzo 2019 la corte d’appello di Bologna ha quasi dimezzato la pena a Michele Castaldo, omicida reo confesso di Olga Matei, strangolata, perché ha agito “in preda a una tempesta emotiva”. In questo caso a cambiare l’esito della vicenda è stata la cassazione, che ha annullato lo sconto di pena. L’analisi della commissione del senato dimostra che non si tratta di casi isolati. Dalla lettura di gran parte delle sentenze esaminate, per esempio, emerge che la passata condotta violenta dell’uomo nei confronti della donna viene derubricata a “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, difficile, instabile, non tranquilla, caratterizzata da conflittualità domestiche, tutt’altro che felice”, e questo anche se in precedenza la vittima aveva presentato denunce per maltrattamenti. C’è poi un uso distorto della sfera dei sentimenti. In alcune sentenze il femminicidio viene considerato una conseguenza di un impulso spiegato facendo ricorso a un linguaggio emotivo. Spesso, poi, capita che le vittime siano chiamate per nome, mentre gli imputati per cognome: una differenza di trattamento che ha implicazioni non solo linguistiche e che non ha alcun fondamento giuridico. Le donne assassinate inoltre non vengono descritte quasi mai in relazione al contesto sociale o professionale, ma per lo più in relazione al ruolo familiare e dunque come madri, mogli o figlie. Le vittime di femminicidio che svolgevano attività di prostituzione spesso vengono indicate soltanto come prostitute, senza nome né cognome. Per l’autore dell’omicidio le cose funzionano al contrario. Così, se c’è una condizione di disagio sociale, come per esempio tossicodipendenza o dipendenza da alcol, ludopatia, perdita del lavoro o malattia, questa circostanza viene messa in evidenza, quasi a voler giustificare i gesti del colpevole. Un altro dato interessante che emerge dall’analisi della commissione del senato è l’utilizzo frequente di un linguaggio fortemente vittimizzante nei confronti delle madri anziane uccise dai figli, spesso definite simbiotiche o oppressive. Valentina Giunta uccisa dal figlio 15enne perché voleva tagliasse i ponti con il padre in carcere di Alessia Candito La Repubblica, 28 luglio 2022 “Papà sei il mio leone, presto ci riabbracceremo”, scriveva il ragazzo. La donna non voleva che seguisse le sue orme, ma il ragazzo era ossessionato dalla figura del genitore, arrestato nel 2018. Per lui il padre, da anni in galera, era “un leone”. E quell’immagine se l’era tatuata anche sul braccio, facendosi ritrarre cucciolo, da proteggere adesso, ma destinato in futuro a essere come il genitore. “Il mio pilastro”, scriveva sui social. “A breve ci riabbracceremo”, diceva. E quando la madre, per l’ennesima volta, gli ha chiesto di troncare quel rapporto, minacciando un trasferimento, ha reagito. Male, come sempre. Ma lunedì sera non ci sono state solo urla o spinte, è spuntata anche una lama. È con quella che il figlio quindicenne ha ucciso Valentina Giunta, colpendola anche quando gli ha dato le spalle, magari per proteggersi o per tentare la fuga. Ne sono certi gli investigatori della squadra mobile che, per ordine della procura per i minorenni di Carla Santocono, hanno fermato il ragazzo a poco più di 36 ore dall’omicidio della madre. A inchiodarlo, anche dei vestiti sporchi di sangue e qualche parziale ammissione, scappata di bocca quando è stato rintracciato. Non era nell’appartamento in cui Valentina Giunta viveva con il fratello più piccolo. Ma quella sera è stato lì. Lui e la madre hanno urlato. Qualcuno ha sentito, ha capito che stava succedendo qualcosa di grave. E ha chiamato la polizia, ma senza identificarsi. Gli investigatori ipotizzano sia stato un familiare della donna, forse la sorella, ma toccherà alle indagini accertarlo. Nel quartiere San Cristoforo, a Catania, nessuno parla. Geograficamente non è periferia, dista meno di dieci minuti a piedi da via Etnea e dal centro. Ma è ghetto esistenziale, zona di vecchie e nuove povertà, dove la comunità di Sant’Egidio, durante la pandemia, ha visto più che raddoppiare i beneficiari dei pacchi alimentari. Prima che finisse in carcere per una storia di auto rubate e ricettate, come di “sgarbi” a cui si rimedia pistola alla mano, San Cristoforo era il regno di Angelo, il “genitore-eroe” dell’adolescente fuggito via mentre la madre agonizzava. È stata trovata in fin di vita, con addosso un rosario di ferite, fra la schiena e il collo. Subito le indagini si sono indirizzate sulla pista familiare. Con l’ex compagno la donna non aveva una relazione serena, ma è stato subito escluso dalla rosa dei sospetti: mentre Valentina Giunta veniva uccisa, lui era nella cella in cui è da tempo detenuto. I due sono stati insieme per anni, il primo figlio lo hanno avuto da adolescenti, il secondo è arrivato quando lei aveva poco più di vent’anni. Poi sono ci sono state le violenze e i maltrattamenti, per cui la donna aveva denunciato Angelo, salvo poi ritirare la querela. E gli anni di incontri solo dietro il vetro del parlatorio del carcere, che Valentina Giunta tollerava solo per accontentare quel figlio adolescente, quasi ossessionato dalla figura del padre. “Non ti abbandonerò mai”, prometteva il quindicenne post dopo post sui social. “Saremo invincibili”. La madre si è stancata. Di quella vita e di quella forma di venerazione che ha iniziato a combattere frontalmente. E contro di lei il ragazzo è diventato “rabbioso, aggressivo”, dice chi li conosceva. Per il 15enne esisteva solo la famiglia paterna: il nonno che con il papà operava gomito a gomito e che con lui è finito in carcere; la nonna che definiva “la donna della mia vita”. Alla madre, sulle sue bacheche social, soltanto qualche velenoso accenno. Affetto e devozione erano solo per il padre, a cui prometteva: “Arriverà il nostro momento”. Ma se il giudice per le indagini preliminari dovesse convalidare il fermo, potrebbe non essere tanto presto. Detenzione Giulio Petrilli, “Venga fatto valere il diritto di risarcimento” marsica-web.it, 28 luglio 2022 Il consigliere regionale abruzzese Pierpaolo Pietrucci scrive al Ministro della Giustizia Cartabia per richiedere il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione per Giulio Petrilli, accusato di essere uno dei capi di Prima Linea, organizzazione terroristica di estrema sinistra. Illustre Ministra, ci sono vicende che non hanno tempo e che meritano sempre la più profonda attenzione, anche a distanza di anni, e anche in momenti in cui - come adesso - rivolgersi al Governo potrebbe sembrare inopportuno o pretenzioso. Ma la storia di Giulio Petrilli, della sua ingiusta detenzione e del sacrosanto diritto ad un risarcimento per il danno enorme subìto da innocente, meritano il doveroso impegno, mio e di tutti coloro che possono fare qualcosa. Per rispetto di Giulio e per la consapevolezza di tutti, riepilogo brevemente la vicenda. Nel 1980 Giulio Petrilli (allora ventenne) viene accusato dai magistrati di essere uno dei capi di Prima Linea, organizzazione terroristica di estrema sinistra. Con la pesantissima accusa di “banda armata” Giulio viene arrestato. L’imputazione gli costa sei anni di carcere, in un regime simile al 41 bis. Qualche tempo dopo, la tesi dell’accusa viene smontata. Nel 1986 la Corte d’Appello di Milano lo assolve e, tre anni dopo, anche la Cassazione conferma la sua innocenza. Petrilli deve attendere molto tempo prima di poter chiedere i danni per ingiusta detenzione (poiché la norma non era considerata retroattiva) e infine la sua istanza di risarcimento viene rigettata dalla Corte d’Appello di Milano (giudizio confermato dalla Cassazione) perché le “cattive compagnie” che frequentava ai tempi avrebbero indotto l’accusa a ritenere che fosse giusto tenerlo in carcere. Insomma: quei semplici rapporti consentivano ai magistrati di pensare - pur senza prove - che anche Petrilli fosse colpevole. Il vulnus sta in una norma primo comma dell’art. 314 del c.p.p. che rende ostativo il risarcimento per ingiusta detenzione per “dolo e colpa grave”. Una norma che allarga le maglie della discrezionalità del giudice e che si ritorce contro un innocente anche se un imputato - e non è questo il caso di Petrilli - si è avvalso, come pure è suo diritto, della facoltà di non rispondere. La civiltà giuridica deve garantire che chi è assolto in via definitiva venga risarcito per il periodo ingiustamente trascorso in carcere. Sempre e senza altri paletti. Petrilli, inoltre, dopo essere andato davanti al giudice italiano, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dichiarato la sua richiesta inammissibile. A oltre quarant’anni dal giorno in cui è entrato in cella, Giulio non ha ricevuto un euro e non lo riceverà mai perché l’istanza può essere fatta una volta sola. Ma resta l’ingiusta detenzione e il diritto al risarcimento per tutti coloro che vivono o vivranno la sua condizione: e questo rende ancora più giusta, necessaria e sacrosanta la sua battaglia di principio. Per questo motivo, illustre Ministra, mi rivolgo a lei per chiederle di verificare alla Consulta la costituzionalità’ del primo comma dell’art. 314 del c.p.p. Qualunque sarà il pronunciamento della Corte Costituzionale, si sarà raggiunto un punto di certezza a tutela dei diritti di persone innocenti ingiustamente detenute e in attesa di pronunciamento. Le chiedo scusa per averla sollecitata in questo delicato e straordinario frangente della nostra politica nazionale. Ma conosco la sua sensibilità e confido che anche in questa fase lei farà tutti i passi che sono in suo potere. La ringrazio dell’attenzione e le invio i miei più cordiali saluti. Abruzzo. Inclusione: pubblicato avviso per percorsi formativi nelle carceri regione.abruzzo.it, 28 luglio 2022 L’inclusione sociale nelle carceri abruzzesi è al centro dell’ultimo bando pubblicato dal Dipartimento della Presidenza della Regione Abruzzo nell’ambito della programmazione europea dell’FSE 2014-2020. Il bando è rivolto agli Organismi di Formazione (OdF) accreditati dalla Regione che sono chiamati a elaborare 17 progetti formativi che avranno come destinatari detenuti, internati e soggetti in esecuzione di misure alternative alla detenzione. L’Autorità di gestione dei fondi europei che è il Servizio regionale che ha promosso il bando ha elaborato, in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, un’analisi dei fabbisogni che ha permesso di individuare le aree professionali sulle quali gli OdF sono chiamati a presentare i progetti. Le carceri interessate sono: Avezzano dove è previsto un percorso formativo di assistente famigliare; Sulmona con percorsi di auto cuoco, fiorista e assistente famigliare; Chieti con percorsi di pizzaiolo (sezione maschile) e operatore di confezione (sezione femminile); Lanciano con percorsi di aiuto cuoco, operatore edile e manutentore del verde; Vasto con percorsi di addetto al laboratorio di sartoria e manutentore del verde; Pescara con percorsi di operatore edile, posatore pavimenti e rivestimenti e manutentore del verde; e infine Teramo con percorsi di panettiere (sezione maschile) e manutentore del verde per entrambe le sezioni. Gli OdF che andranno ed elaborare di progetti formativi sono chiamati a selezionare i partecipanti, presa in carico e formazione. Al termine del percorso formativo i partecipanti avranno la relativa qualificazione della figura professionale secondo il Repertorio regionale. La dotazione finanziaria dell’Avviso ammonta a 800 mila euro. Gli Organismi di Formazione hanno tempo fino al 12 agosto 2022 per presentare la candidatura all’indirizzo dpa011@pec.regione.abruzzo.it. Sassari. Bancali, detenuto muore dopo l’aggressione di un altro recluso di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 28 luglio 2022 Vittima un sassarese di 51 anni. Il colpevole rinchiuso in isolamento: su di lui l’accusa di omicidio volontario. Non ce l’ha fatta Graziano Piana, il detenuto ferito gravemente in cella da un altro recluso che lo aveva colpito con violenza alla testa con uno sgabello prima di essere bloccato dagli agenti della polizia penitenziaria. Sassarese, 51 anni, Piana è deceduto nel primo pomeriggio di oggi mercoledì 27 luglio 2022 nel reparto di Rianimazione del “Santissima Annunziata” dove era ricoverato da ieri notte. Il grave fatto si è verificato martedì intorno a mezzanotte nel carcere di Bancali. La procura della Repubblica di Sassari ha aperto una inchiesta per accertare l’accaduto e tutte le responsabilità. L’aggressore è stato rinchiuso in una cella di isolamento: per lui l’accusa di omicidio. All’esame degli inquirenti le immagini delle telecamere del sistema di sicurezza. I primi elementi utili per le indagini sono stati raccolti dagli agenti della polizia penitenziaria. Messina. Cadavere carbonizzato a Fiumedinisi, è di un detenuto in semilibertà lecodelsud.it, 28 luglio 2022 Riccardo Ravidà, 34 anni, pastore di Mandanici (Messina) detenuto nelcarcere di Messina, ma in regime di semilibertà, doveva rientrare nella struttura circondariale ieri sera, ma è stato trovato carbonizzato la scorsa notte all’interno della sua auto, nelle campagne di Fiumedinisi, in contrada Ferreri. Visto il mancato rientro in carcere, per il giovane erano scattate le ricerche battendo il territorio nel quale si muoveva abitualmente. Nel corso dei sopralluoghi, la macabra scoperta: i resti della sua auto bruciata e, all’interno, un corpo carbonizzato, presumibilmente quello di Riccardo Ravidà. I Carabinieri, cui la Procura di Messina ha affidato le indagini, dalla scorsa notte stanno cercando di ricostruire ogni mossa compiuta ieri dal giovane durante le ore di libertà concessegli. Intanto, gli uomini del Ris stanno esaminando la vettura, anche per capire se un corto circuito potrebbe averne determinato l’incendio e il conducente vi è rimasto intrappolato dentro o se la vittima sia stata uccisa prima, poi caricata in auto e con essa data alle fiamme. Gli accertamenti sul cadavere lo stabiliranno. Napoli. Dramma nel carcere Secondigliano, detenuto 72enne si accascia e muore di Viviana Lanza Il Riformista, 28 luglio 2022 Morire di carcere. È successo ancora. È accaduto nel penitenziario di Secondigliano. Un detenuto 72enne, Salvatore, originario del quartiere Sanità, è stato stroncato da un malore. All’improvviso si è piegato su se stesso, è caduto a terra. I soccorsi sono stati tempestivi. Anche gli altri detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria hanno provato a prestare aiuto, ma è stato tutto inutile. Per il detenuto non c’è stato nulla da fare. Ennesimo dramma. L’uomo soffriva di problemi cardiaci ed era ricoverato nell’infermeria del carcere. La domanda che sorge è questa: perché una persona anziana e malata era reclusa in carcere? Possibile che non ci fosse altro modo per fargli scontare la pena? Le carceri di Poggioreale e di Secondigliano sono particolarmente piene di detenuti ultrasettantenni e ultraottantenni (a Poggioreale ce n’è anche uno novantenne addirittura): devono morire tutti in carcere? È questa quella che noi tutti chiamiamo giustizia? La questione è stata al centro di tante battaglie del garante regionale Samuele Ciambriello, insieme alla battaglia per il diritto alla salute in cella h24. “Sia a Poggioreale che a Secondigliano mancano medici di reparto”, denuncia Ciambriello. E con il 72enne deceduto ieri a Secondigliano, sale a otto il numero delle morti di carcere dall’inizio dell’anno: due sono morti suicidi, cinque per cause naturali e una morte è ancora al centro delle indagini della Procura di Salerno. “Tutte queste morti devono far comprendere il lato oscuro del carcere”, aggiunge Ciambriello. I familiari del 72enne morto a Secondigliano hanno contattato anche il garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia. “Non sembra che ci siano stati ritardi negli interventi, in tanti mi hanno detto che il detenuto è stato prontamente soccorso, purtroppo non è stato possibile salvarlo. È una notizia che addolora”, commenta il garante cittadino. Ed è una notizia che riporta sotto i riflettori la vita all’interno delle celle, soprattutto in questo periodo. L’afa appesantisce ogni movimento, la poca aria che filtra dalle piccole finestre della cella sembra non bastare nemmeno per respirare e tenersi in vita. “La situazione nel carcere di Secondigliano è la stessa che si vive in tutte le carceri - spiega Pietro Ioia. La polizia penitenziaria, che già normalmente scarseggia, ora è ridotta ulteriormente perché molti agenti sono in ferie. Si arranca e le istituzioni si disinteressano di questi problemi”. Ci risiamo. Come ogni volta che ci scappa un morto, come ogni volta che accade un dramma, ci troviamo a fare l’elenco delle criticità ma poi nulla cambia. Secondo i dati ministeriali aggiornati al mese scorso, nelle carceri campane si contano 6.687 detenuti. Circa un terzo è recluso nel carcere di Poggioreale, 2.231 presenze che equivalgono a circa 700 detenuti in più rispetto a quelli che la struttura può ospitare. Anche a Secondigliano le celle sono sovraffollate, seppure in percentuale minore: si contano 1.122 detenuti a fronte di una capienza di 1.075 posti. Mentre nel carcere femminile di Pozzuoli, tanto per prendere come riferimenti le maggiori strutture penitenziarie della città di Napoli, si contano 157 detenute a fronte di una capienza di 105 posti. Nelle celle si boccheggia. E la tensione è più alta del solito. Anche i rischi sono più accentuati, come quello di sentirsi male o di compiere gesti estremi. Proprio ieri a Torino un detenuto si è tolto la vita e il sindacato della polizia penitenziaria ha sottolineato in una nota proprio questa criticità: “L’estate si conferma la stagione problematica da gestire nelle carceri. Il personale di sostegno psicologico come quello sanitario - sottolinea il sindacalista Aldo Di Giacomo - in genere ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid”. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti - conclude - testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici”. Firenze. Sollicciano, Giani scuote il ministero: “La ristrutturazione spetta a loro” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 luglio 2022 Dopo l’esposto dei 300 detenuti, la direttrice accusa: qualcuno vuol metterci i bastoni fra le ruote. Cimici in cella. Da mesi, soprattutto nel periodo estivo, i detenuti di Sollicciano denunciano l’incuria del carcere, adesso anche con un esposto alla Procura della Repubblica firmato da trecento reclusi di cui ieri ha dato notizia il Corriere Fiorentino. Ma chi deve occuparsi della pulizia dei locali? Quel che è certo è che la Asl dovrebbe monitorare costantemente la situazione, per poi riferire al ministero della giustizia che avrebbe la competenza delle disinfezioni. “Più volte le ispezioni della Asl hanno rilevato problemi di incuria a Sollicciano, ma la Asl può limitarsi soltanto a segnalare la problematica, gli interventi di risanamento sono invece a carico del ministero della giustizia”. Queste le parole del presidente della Regione Eugenio Giani. E poi: “La questione che è stata sollevata è giusta e va risolta prima possibile, il carcere deve essere un ambiente decorso per l’igiene e per l’ambiente perché tutto questo corrisponde a un principio di costituzionalità verso queste persone che sono tali ancor prima di essere detenuti”. Proprio su questo, conclude il governatore, “ho ricevuto rassicurazioni dal ministero per rendere Sollicciano un luogo più decoroso”. Ma se per Giani le ispezioni Asl avvengono regolarmente, qualche dubbio lo esprime invece il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: “La Asl dovrebbe visitare semestralmente il carcere ma non mi risulta che queste ispezioni avvengano regolarmente”. Ecco perché Palma si appella a tutte le istituzioni per procedere ad una “disinfestazione che non sia provvisoria ma definitiva”. In che modo? “Svuotando progressivamente piccole parti dei reparti, spostando decine di detenuti in altre carceri della Toscana, affinché quel pezzo di sezione venga pulito e sanificato a fondo per poi far tornare i detenuti”. Un’idea condivisa anche dallo stesso Giani: “Mi sembra une riflessione di buon senso”. Secondo Palma, “Sollicciano vive una situazione di grande degrado ma nell’ultimo anno sono stati avviati lavori che fanno ben sperare, anche se c’è una certa lentezza”. Tra i dati positivi, spiega Palma, il fatto che nell’ultimo anno si sono dimezzati gli atti di autolesionismo, tra quelli negativi il fatto che sono raddoppiate le aggressioni agli agenti da parte dei reclusi. Sul tema è intervenuta anche la direttrice Antonella Tuoni, che valuta la lettera dell’esposto “eccessivamente pesante”. E poi dice: “La condizione strutturale non è da carcere modello, ma la Direzione, il Provveditorato e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria stanno spendendo risorse per migliorarlo. Magari c’è qualcuno che vuole mettere i bastoni tra le ruote al lavoro che si sta facendo, per impedire che Sollicciano possa essere rilanciato e diventare un istituto dignitoso oppure è soltanto l’iniziativa di un detenuto livoroso al quale sono stati negati i benefici richiesti”. Tuoni evidenzia la “carenza importante di personale di polizia penitenziaria” e le “carenze manutentive che, però - spiega - non dipendono dalla direzione del carcere, perché c’è un contratto con una ditta che è gestito a livello di Provveditorato rispetto al quale è stata richiesta l’applicazione di penali”. Quanto alle condizioni igieniche, la direttrice ha sottolineato che recentemente “ci sono stati due sopralluoghi Asl. Gli operatori, pur rilevando problematiche, hanno attestato un netto miglioramento del settore femminile e una situazione migliorata nel reparto maschile”. Per quanto riguarda il tema delle cimici “abbiamo pubblicato un bando di gara per 39 mila euro per la risoluzione”. Roma. Io, celiaco in carcere. O pago o mangio riso di Giuseppe Fabiano* Il Riformista, 28 luglio 2022 Se l’istituto non li fornisce e non hai i soldi per acquistare i costosi alimenti senza glutine, devi mutare la tua dieta. E comunque il rischio contaminazione è alto nelle cucine di una prigione. Un problema da affrontare. Se sei in carcere e hai la celiachia sono affari tuoi. Come è noto, non esiste una cura per la celiachia, ma una scrupolosa alimentazione senza glutine può aiutare a gestire i sintomi. In libertà, farcela dipende da te. In carcere, dipende da altri. Io me la sono cavata e me la cavo perché ho mia figlia che mi segue e può sostenere economicamente i costi degli alimenti che mi servono per vivere. Il problema non è però solo di natura economica, ma riguarda l’impostazione delle cucine delle carceri italiane che - lo posso dire dall’alto della mia lunga esperienza carceraria - non sono concepite per soddisfare le esigenze di coloro che soffrono della mia stessa malattia e pertanto non hanno gli spazi adeguati e distinti nei quali preparare i cibi. L’isolamento dello spazio cucina è necessario per evitare la contaminazione con i cibi che contengono glutine. Come tutti, anche io ho alla base della mia dieta il pane, la pasta e i biscotti per la colazione. Resta il fatto che questi beni devono essere senza glutine. Quando non te li fornisce il carcere, vanno acquistati a proprie spese e il loro costo è piuttosto alto. Ne consegue che chi non ha la possibilità economica o una famiglia che gli può acquistare questi beni necessari, è costretto a mutare la sua dieta, passando dalla pasta al riso. Non è che mangiare il riso faccia male, ma doverlo mangiare per l’intera carcerazione è ben altra cosa. A tale problema si aggiunge quello della contaminazione, perché, come ho detto, i locali delle cucine delle carceri non sono distinti e tutto è preparato in un ambiente unico. L’assunzione di cibi contaminati può provocare nei celiaci finanche il tumore allo stomaco. Mentre ordinariamente si hanno arrossamenti della cute con prurito, mal di stomaco e diarrea. Non importa quanti siamo - dieci, cento, mille - noi celiaci detenuti. Quel che rileva è la tutela dei loro diritti, la cura della salute fisica delle persone recluse che rischia di essere compromessa, non dalla malattia, ma dallo Stato che, avendole private della libertà, ha la responsabilità della loro custodia. Per chiarezza, non è che la materia sia sfornita dì norme o che non esistano le procedure sanitario-amministrative per andare incontro alle persone celiache. È un fare farraginoso dell’amministrazione e alcuni equivoci sulle incombenze del caso a rendere più difficile se non impossibile la vita delle persone celiache in carcere. Non so se è noto che il celiaco percepisce un ticket mensile di 110 euro, al di là se questi stia in carcere o no. Tale somma equivale a una mini-pensione per la patologia che non basta per mangiare neanche una settimana. Così, a prescindere dal percepimento del ticket, le incombenze sul fornire i tre pasti quotidiani ricadono sull’amministrazione penitenziaria. Tuttavia, l’elevato costo dei prodotti per celiaci rende recalcitranti le locali amministrazioni che lamentano una mancanza di fondi appositi. Non spetta a me sapere se esiste o meno un capitolato dì spesa per celiaci. Quel che so è che al di là del problema prettamente economico, resta sul tavolo e tocca tutti i malati di tutte le carceri la questione delle strutture inadeguate alla preparazione dei cibi. Dato che è in corso la discussione di provvedimenti volti a migliorare le condizioni di vita detentive, approfitto dell’occasione per sollevare la domanda: nel caso in cui tali provvedimenti non contenessero migliorie delle condizioni dì vita per i celiaci, perché non provare ad allargare il bacino di applicazione delle norme che prevedono la detenzione domiciliare o gli arresti domiciliari per gli affetti da celiachia? La speranza è che questo mio appello possa raggiungere le persone giuste e di buona volontà, sensibili e competenti sulla questione che ho posto, che è solo un esempio della dimenticanza cronica e del grado di generale abbandono delle persone carcerate. A onor di cronaca ricordo che la Garante dei Detenuti del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, si è fatta carico della mia situazione, ma la soluzione definitiva e complessiva è rimasta aperta. Ringrazio il Riformista che mi dà oggi l’opportunità di rendere pubblico questo fatto, di far sapere a chi di dovere e di potere l’urgenza di risolvere il problema dei celiaci in carcere. *Detenuto a Rebibbia Livorno. Caldo e afa, donati 4 congelatori ai detenuti delle Sughere livornotoday.it, 28 luglio 2022 Il Garante: “Accolta la loro richiesta”. Il gesto per evitare che generi alimentari provenienti da colloqui o da acquisti aggiuntivi al vitto debbano essere buttati via. Nella mattina di ieri, mercoledì 27 luglio, il garante dei detenuti Marco Solimano ha consegnato quattro pozzetti congelatori ai detenuti della sezione media sicurezza del carcere cittadino. Un gesto di conforto in questa situazione di caldo eccezionale, per evitare che generi alimentari provenienti da colloqui o da acquisti aggiuntivi al vitto debbano essere buttati via. “La Casa circondariale di Livorno sta senza dubbio attraversando una contingenza difficile e delicata. Sono molteplici le cause che stanno pesantemente minando il delicato equilibrio che faticosamente si cerca di raggiungere in un luogo contraddittorio e complesso come l’istituzione totale carcere. La mancanza di una direzione stabile, infatti dopo il pensionamento del direttore Mazzerbo non è stato ancora assegnato un nuovo direttore, ma si va avanti a reggenze”. La richiesta dei congelatori è arrivata direttamente dai detenuti di media sicurezza: “Si tratta dei soggetti - sottolinea Solimano - più particolarmente esposti e più fragili dal punto di vista economico. Ora sarà possibile conservare generi alimentari che altrimenti sarebbero stati inevitabilmente destinati al macero viste le alte temperature. Si tratta di un piccolo conforto in una situazione di caldo eccezionale, un segno di attenzione nei confronti di quanti sono totalmente sprovvisti di forme di difesa nei confronti di questo caldo opprimente”. Siracusa. Detenuti protagonisti della raccolta alimentare per le famiglie ucraine webmarte.tv, 28 luglio 2022 “Gli ultimi aiutano gli ultimi”: potrebbe essere questo lo slogan da utilizzare per l’iniziativa promossa dalla Caritas diocesana rivolta alle famiglie ucraine che sono ospitate nel nostro territorio. Una raccolta alimentare per le famiglie ucraine che ha visto come protagonisti i detenuti della casa circondariale Cavadonna a Siracusa che hanno raccolto alimenti a lunga conservazione (latte, zucchero, pasta, legumi e cibi in scatola). I giovani Missionari della Madonna delle Lacrime, inseriti nella rete YoungCaritas, hanno aiutato i volontari della Caritas diocesana ad effettuare la raccolta e a portare una parola di sostegno ai detenuti. “È stato un bel momento. I detenuti ci aspettavamo ed abbiamo raccolto tanti alimenti” ha detto don Marco Tarascio, direttore della Caritas diocesana. Sono circa una settantina al momento le persone che sono state prese in carico dalla Caritas che dall’inizio del conflitto in Ucraina si è adoperata con diverse iniziative per cercare di aiutare i tanti profughi che sono fuggiti dalla loro terra. Diverse le raccolte di denaro, di alimenti che sono state promosse e le iniziative di accoglienza rivolte a questi fratelli e sorelle che stanno soffrendo. “La guerra continua anche se sembra non importare più - ha detto don Marco Tarascio. Dopo un entusiasmo iniziale, che è sempre bello da riscontare nelle persone, purtroppo notiamo che adesso il conflitto ed il dramma di tante persone sembra essere ormai un problema che non ci appartiene più. Questa volta sono stati i detenuti a ricordarci di aiutare il prossimo che soffre”. Lecce. Dal buio di una cella alla “luce” del teatro: detenuti-attori nel carcere di Borgo San Nicola di Toti Bellone Gazzetta del Mezzogiorno, 28 luglio 2022 Un’esperienza di grande interesse sociale dopo un corso dell’Accademia Mediterranea. Detenuti, volontari, giornalisti, amministratori, dirigenti: tutti insieme, per celebrare la forza della civiltà. Siamo nel supercarcere di Borgo San Nicola, e la civiltà da declinare, è l’educazione. Nel caso specifico, l’educazione alle pratiche teatrali - ed umane -, che un gruppo di detenuti, ha maturato frequentando il Laboratorio dell’Accademia mediterranea dell’attore diretta da Franco Ungaro. Il risultato complessivo, è una maturazione a tutto tondo. Durante i mesi di attività, oltre che con i diplomati dell’Accademia (Veronica Mele, Lorenzo Paladini, Benedetta Pati, Carmen Ines Tarantino), gli aspiranti attori si sono misurati prima di tutto con se stessi. E solo per fare un esempio, il successo della meritoria iniziativa dell”Ama e dell’amministrazione carceraria (la direttrice Mariateresa Susca ed il responsabile dello staff educativo Fabio Zacheo), può essere riassunto nelle parole di uno di loro, Mario: “Prima di fare il Laboratorio, avevo difficoltà a farmi uscire le parole di bocca. Non parlavo con nessuno. Adesso potrei andare avanti per ore”. Il Saggio che potremmo definire di fine anno, si tiene nella grande stanza adibita a Laboratorio. Addossati alle pareti sovrastate dai colorati dipinti realizzati da altri ristretti, banchetti come a scuola e sedioline. Sullo sfondo, aldilà di un finestrone, un campetto coltivato. Detenuti ed ospiti, fra i quali l’assessora comunale Silvia Miglietta, siedono a cerchio. Il compito assegnato è di scrivere il proprio sogno su un foglietto di carta. Una volta mischiati, i sogni vengono distribuiti a caso e letti da chi li ha ricevuti. Eccome alcuni: “Studiare in una Università americana”; Avrei voluto un’infanzia felice”; “Quando esco dedicherò più tempo alla mia famiglia”; “Lasciare l’Italia”; “Nuotare in apnea con una balena”; “Una famiglia unita sino alla fine dei miei giorni”; “Nessun sogno è ancora perso”. Il volto coperto da maschere bianche, i detenuti-attori li interpretano con i gesti del corpo. In primo piano hanno tutti le mani. Che s’alzano, s’abbassano, s’intrecciano, ruotano: alla fine, e senza seguire un comando, si chiudono tutte in un abbraccio. Ad una donna, ad un figlio, alla libertà? Sì, è così. Quando le maschere volano via ed i volti riappaiono, le parole-chiave sono: solitudine, felicità, vita. Oltre ai sogni, il Laboratorio dell’Accademia ha mantenuto l’aderenza alla realtà. Lo testimonia il teatrino, che con quattro personaggi politici di due Paesi presi in prestito da altrettanti detenuti, Montenegro e Senegal, viene improvvisato sulla vendita del gas. Proprio come avviene con e per la guerra in Ucraina, i due Pesi non raggiungono un accordo, litigano, e si dichiarano guerra. L’atto finale del Saggio è la scrittura creativa. Una favola creata ex novo dalle frasi concatenate, partorite dalla fantasia di chi, fra detenuti ed ospiti, riceve una carta illustrata. Un successo. Viene fuori la storia - guarda caso - di un sogno di libertà, nel quale figura anche un gatto nero che si perde in una grotta. E’ ora di lasciare la sezione R2 dove si trova la sala-Laboratorio. Come per l’andata, il percorso è lungo e tortuoso. Cancelli che s’aprono e chiudono elettronicamente. Anonimi corridoi ingentiliti dai disegni mille colori fatti da chissà quale detenuto. Scorci d’esterno con in alto le finestrelle delle celle ed i panni stesi. Qualcuno urla qualcosa che la distanza non consente di comprendere. Aldilà dell’ultimo cancello, la certezza di aver vissuto un’esperienza giusta. Giusta soprattutto per gli aspiranti attori del supercarcere di Borgo San Nicola. Che al contrario di altri, ora potranno contare su una chance in più per affrontare la vita. Napoli. Cinema e carcere: De Raho incontra i detenuti di Poggioreale di Alessandro Bottone lastampadelmezzogiorno.it, 28 luglio 2022 Si evade, figurativamente, dal carcere grazie alla settima arte. Al via “Cinema dentro e fuori” nella Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli, un ciclo di incontri curato dall’associazione Arci Movie e dal Cpia, Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, Napoli Città 2. Tra i numerosi appuntamenti anche l’incontro dei detenuti con il magistrato Federico Cafiero De Raho. Fino a 30 agosto 2022 le persone private dalle libertà ospitate nel carcere “Giuseppe Salvia” di Poggioreale partecipano alle lezioni tenute da Roberto D’Avascio e Maria Teresa Panariello, rispettivamente Presidente e responsabile della progettazione dell’associazione Arci Movie Napoli. L’obiettivo è parlare e raccontare di cinema così da far immergere i reclusi in uno scenario diverso dalla realtà che vivono quotidianamente e affrontare, grazie all’arte del grande schermo, tematiche di stringente attualità. Il leitmotiv scelto per questa edizione del progetto è il “Cinema di resilienza”, qualità emersa e condivisa da milioni di persone nel recente periodo storico che ha visto tutti privati delle proprie libertà in virtù di beni comuni da tutelare quali la salute pubblica e la sicurezza di ognuno di noi. In particolare, i due laboratori si svolgono nella sezione delle “Lavorazioni” con i detenuti del “reparto Napoli” e nel “reparto Genova” e coinvolgono persone di ogni età. Tra gli appuntamenti anche alcuni ospiti. Venerdì 22 luglio i detenuti incontrano Federico Cafiero De Raho, magistrato ed ex Procuratore Nazionale Antimafia e attuale Presidente del Teatro di Napoli - Teatro Nazionale. “Ripartiamo dal carcere e dai detenuti per parlare di cinema. Lo abbiamo fatto per tanti anni qui a Poggioreale con l’idea che il cinema sia un detonatore di sogni e un moltiplicatore di relazioni umane. E tutto questo si fa in modo avventuroso e sperimentale dentro un reparto, in mezzo a detenuti e sbarre, che ha mostrato grande simpatia e curiosità per il linguaggio delle immagini in movimento”, così Roberto D’Avascio, presidente dell’associazione Arci Movie. Il (nostro) mondo dopo la pandemia non è migliore di Sergio Harari Corriere della Sera, 28 luglio 2022 Avevamo sperato. Avevamo sperato che il virus se ne sarebbe andato presto. Avevamo creduto che tutto alla fine sarebbe andato bene, così come avevamo sognato che il mondo dopo la pandemia sarebbe stato migliore, sebbene alcuni ci avessero avvertito che forse non sarebbe stato così. In una bella intervista al Corriere di due anni fa, in piena prima ondata pandemica, Giorgio Cosmacini, il più importante storico della medicina italiano, l’aveva predetto: la storia è magister vitae e ci insegna che dalle pandemie il mondo esce sempre peggio di quanto non fosse prima. Ma noi avevamo comunque voluto credere che la prima pandemia del nuovo millennio sarebbe stata diversa dal passato. Così non è stato. Sognavamo che il nostro Paese, colpito così duramente, avrebbe approfittato di questo momento quasi catartico per rinascere diverso, ma anche qui ci siamo sbagliati. Stiamo assistendo a una tempesta quasi perfetta: la guerra, la crisi finanziaria, la pandemia, la siccità, mancano solo le cavallette e il quadro da apocalisse sarebbe completo ma intanto litighiamo come se nulla fosse accaduto, facciamo cadere il governo più prestigioso degli ultimi anni e mettiamo a rischio i fondi del Pnrr. Si fatica a immaginare un futuro per un Paese così. La sanità è stremata, sono due anni e mezzo che con risorse limitate fa l’impossibile, medici e infermieri sono sfiniti, demotivati, delusi e ora il futuro è ancora più dubbio con risorse di cui non abbiamo più certezza. Il Servizio sanitario nazionale ha dato una prova straordinaria di sé e dei valori di universalità e eticità sui quali si basa ma esce a pezzi da questi anni. Non abbiamo più medici, non abbiamo più infermieri, il personale che è rimasto è stanco, frustrato, non riconosciuto e sottopagato (abbiamo gli stipendi più bassi di tutta Europa). Tra gli operatori sanitari aumentano le malattie causate dal post Covid e dagli stress di questi due anni e mezzo di lavoro a ritmi assurdi. Si continua a chiedere sempre agli stessi che rispondono per senso di responsabilità ma l’elastico rischia di rompersi, mentre già si contano le defezioni per pensionamenti anticipati, o chi sceglie di lasciare l’ospedale per fare il medico di medicina generale o il libero professionista. In tutto questo la qualità dell’assistenza si riduce progressivamente anche nelle migliori regioni del Paese. Nessuno però sembra accorgersene o preoccuparsene seriamente. Aveva ragione Cosmacini, il mondo è uscito decisamente peggiore dalla pandemia. “L’anestesia delle emozioni dei nostri giovani tra social, pandemia e disgregazione” di Luca Muleo Corriere di Bologna, 28 luglio 2022 Lo psicologo: la violenza diventa una modalità di relazione. I social, la pandemia, gli elementi di disgregazione, sempre più difficili da contrastare, del senso di comunità da ritrovare. Elementi che isolano i ragazzi e praticano loro “l’anestesia delle emozioni”. Anche se “non conosco il caso specifico, sul contesto possiamo fare molte riflessioni”. Gabriele Raimondi è il presidente dell’ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna. “Siamo di fronte a un tema importante, centrale. La violenza come modalità di relazione con l’altro. Violenza tra i giovani, violenza di genere. In tutto questo una cosa positiva mi ha colpito”. Quale? “Il commento dignitoso del padre di Chiara alla sentenza. Dice di aver comunque ottenuto giustizia, e in questo modo ci ricorda il fatto di essere una comunità capace di utilizzare gli strumenti corretti, magari migliorabili come vuole fare la famiglia, per affrontare anche queste situazioni tragiche come questa. Poi c’è un altro aspetto, è importante non colpevolizzare la rete famigliare del ragazzo, che sia pure in modo totalmente diverso, vive in ogni caso un dramma. Vale come messaggio generale, si rischia che le persone non si rivolgano più alla comunità nel timore di essere giudicate”. L’ultima perizia ricostruisce nella rabbia la possibile radice della violenza di un 16enne, cosa dobbiamo chiederci? “Dobbiamo sentire la necessità di ricostruire i legami sociali, l’attenzione all’altro, non farlo sentire solo il prossimo. Riscoprire quel senso di collaborazione in grado di farci avvertire l’altro come un osservatore pronto a sostenerci e non a giudicarci”. C’è un’emergenza giovanile... “Perché questo aspetto manca di più e viene mediato dal ricorso ai social, dove però spesso si estremizzano le posizioni. Così manca l’abitudine quotidiana alla relazione, viene meno la consapevo lezza della presenza di una comunità protettiva”. Nelle perizie si parla di freddezza, distacco. C’è chi lo ha raccontato lontano anche in aula... “C’è un tema legato ancora al web. Parlo fuori dal caso specifico: si fa fatica a vivere le emozioni, lo schermo mette distanza. I ragazzi perdono il contatto con le emozioni forti, condividono l’immagine, l’esperienza, ma non entrano nel vissuto emotivo di questa. Perciò faticano a mettersi in contatto con le proprie emozioni e a gestirle, la definisco un’anestesia emotiva. Certo non posso dire se sia questo il caso”. Sedici anni da scontare in carcere per un ragazzo di 17, il recupero è possibile? “È soggettivo. Il nostro necessario obiettivo deve essere un pena capace di renderlo consapevole delle motivazioni che l’hanno spinto a un gesto così estremo. Tutto il sistema dovrà aiutarlo, vale in generale. Una situazione del genere non si supera, ma la si può utilizzare per crescere e restituire alla società una persona migliore. È questo a cui si deve puntare. A volte si riesce altre no”. L’effetto della guerra in Ucraina: l’Italia aumenterà le spese militari di Floriana Bulfon La Repubblica, 28 luglio 2022 Presentato il Documento programmatico triennale, il ministro Guerini annuncia un miliardo e 200 milioni in più l’anno e l’invio di altre forniture all’Ucraina. L’effetto dell’invasione dell’Ucraina arriva nel budget della Difesa: l’Italia quest’anno spenderà un miliardo e duecento milioni in più per le Forze armate. Il governo Draghi lancia una serie di programmi per acquistare gli armamenti che si sono rivelati fondamentali sul campo di battaglia: dai sistemi per intercettare i missili balistici a quelli per abbattere i droni, dai cingolati da combattimento alle scorte strategiche di munizioni. Il Documento programmatico triennale firmato dal ministro Lorenzo Guerini porta la spesa per il 2022 a 18 miliardi, contro i 16,8 dello scorso anno. L’incremento finisce tutto nel procurement, ossia i nuovi strumenti bellici, con 5,42 miliardi: si tratta del 34% in più rispetto al 2021. In compenso c’è una lieve diminuzione dei fondi messi a disposizione dal ministero dell’Economia che finanzia alcuni progetti industriali militari. Complessivamente, tra Difesa, Mef e costi delle missioni internazionali quest’anno si arriverà a 21 miliardi e mezzo. La lista della spesa vede imporsi il futuro caccia Tempest, realizzato con la Gran Bretagna e la Svezia: un velivolo chiamato di sesta generazione a cui vengono destinati subito 200 milioni in più. C’è poi il piano per una serie di veicoli corazzati che vede crescere la dote di oltre un miliardo e mezzo: si prevede un investimento di 3,74 miliardi in tredici anni. Questo programma è presentato in chiave di collaborazione europea e influenzerà le trattative per la vendita di Oto Melara: nel Documento si specifica che le risorse serviranno pure per gli studi del nuovo “carro armato europeo”. Un altro elemento chiave è la task force navale per gli interventi dei “marines” italiani: la brigata San Marco della Marina e i Lagunari dell’Esercito. C’è uno stanziamento di 1.200 milioni per costruire due navi anfibie per le operazioni di sbarco. Le altre voci più rilevanti riguardano le quote annuali per i sottomarini U-212 (510 milioni), gli intercettori Eurofighter (1,4 miliardi) e i caccia invisibili F35 (1.270 milioni). Ai piani già messi in cantiere negli scorsi anni si aggiungono le priorità dettate dal conflitto in Ucraina, che mettono in luce l’esigenza di modernizzare le forze pesanti come i carri armati, i mezzi cingolati e l’artiglieria: in attesa di trovare fondi per sostituirli, si vuole aggiornare quelli risalenti alla Guerra Fredda come i tank Ariete, i blindati Dardo e i vecchi M113. Uno dei punti salienti è la creazione di “riserve strategiche” di munizioni per la prospettiva di battaglie come quelle del Donbass che richiedono migliaia di colpi ogni giorno: si conta di comprare entro il 2032 proiettili per oltre 2,5 miliardi. Una novità sono le “loitering munition”, i droni kamikaze, acquistati in piccola quantità per le forze speciali. Nelle 256 pagine del Documento si elenca anche una lunga lista di strumenti che vengono ritenuti necessari dagli Stati maggiori ma non sono coperti da finanziamenti. Questioni che dovrà affrontare il prossimo governo: nell’introduzione Guerini parla di “shock sistemico” causato dalla guerra che “modificherà radicalmente l’ordine mondiale e la sicurezza europea che abbiamo conosciuto finora”. E ieri il ministro in un’audizione al Copasir ha dichiarato che presto verrà approvato il quarto decreto per l’invio di armi all’esercito di Kiev. Le forniture sono segrete ma si ipotizza che saranno ceduti altri fuoristrada blindati Lince, mitragliatrici e munizioni. Il nodo restano le artiglierie: l’Italia ha già consegnato diversi cannoni da 155 millimetri, gli Ucraini però ne domandano di più e vorrebbero da Roma anche i lanciarazzi mobili MLRS già donati da Germania e Olanda. La tratta di esseri umani è ancora un’emergenza umanitaria di Luca Attanasio Il Domani, 28 luglio 2022 C’è il traffico di lavoro forzato (compravendita di esseri umani a scopo lavorativo), il traffico di migranti, lo sfruttamento del lavoro (domestico, agricolo, alberghiero, minerario e/o manifatturiero etc), il traffico sessuale, il traffico di bambini (venduti o forzati al matrimonio), l’utilizzo di minori nei conflitti (bambini soldato, usati come scudi umani, suicide bombers, schiavi/e sessuali delle truppe etc.), lo sfruttamento di bambini per l’accattonaggio, il traffico di organi e di feti. La lista delle schiavitù moderne, dell’utilizzo di esseri umani per scopi meramente commerciali, dello sfruttamento grave dell’uomo sull’uomo, si aggiorna e allunga di anno in anno. Con una creatività diabolica, si aggiungono “mansioni” e categorie che rendono un numero sempre maggiore di persone schiave in ogni latitudine del mondo. La tratta di esseri umani è il processo attraverso il quale le persone sono forzate, attirate da false prospettive, reclutate e trasferite in un altro luogo, e costrette a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento o di abuso. Un fenomeno ramificato e complesso che coinvolge milioni di persone e che trova sempre nuove forme di perpetuazione e collaborazione, in alcuni casi anche da parte degli stati che hanno leggi non sufficienti a prevenirle. Le statistiche attorno al traffico degli esseri umani sono quanto mai aleatorie, è un fenomeno che si allarga e restringe a seconda delle aree, che vive nel sommerso e che gode di una profonda refrattarietà all’emersione anche da parte delle stesse vittime, terrorizzate per la propria vita e quella dei propri cari. Gli ultimi dati confermano un aumento a livello mondiale e si calcola che le vittime di tratta siano circa 25 milioni, 1/3 dei quali sono bambini. A questo quadro drammatico si aggiunge il rapporto Unicef 2020, in cui si denuncia che un bambino su dieci nel mondo, in questo momento, è impiegato in un lavoro di sfruttamento. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stima, inoltre, che il traffico di persone valga più di 150 miliardi di dollari l’anno, di cui oltre 50 provengono dallo sfruttamento del lavoro. Il 46 per cento degli individui sono donne, il 20 per cento uomini, il 19 per cento bambine e il 15 per cento bambini. Nel 2013, con la Risoluzione A/RES/68/192, l’Assemblea generale ha istituito il 30 luglio quale Giornata mondiale contro la tratta di persone al fine di sensibilizzare la comunità internazionale sulla situazione delle vittime e promuovere la difesa dei loro diritti. Il tema di quest’anno è “Uso e abuso della tecnologia” e mira a evidenziare come la tecnologia sia uno strumento perfettamente ambivalente, che può favorire oppure ostacolare la tratta di esseri umani. L’esigenza di riflettere su quest’ultimo aspetto deriva dall’espansione globale dell’uso della tecnologia, amplificato anche dalla pandemia e dall’irrompere globale nella nostra vita quotidiana delle piattaforme online. Il crimine dello human trafficking ha conquistato il cyber-spazio e il web offre ai trafficanti sempre più strumenti per reclutare, sfruttare e controllare le vittime, organizzarne il trasporto e l’alloggio e raggiungere sempre più potenziali clienti. Si aggiunga a tutto questo anche la progressiva capacità di eludere l’individuazione con facilità. Allo stesso tempo, l’uso della tecnologia offre anche grandi opportunità, e il successo nella lotta alla tratta di esseri umani passa attraverso le modalità con cui le forze dell’ordine, i sistemi di giustizia penale e altri soggetti potranno sfruttare la tecnologia, come, peraltro, sta già ampiamente avvenendo. Tra le realtà internazionali più attive nel contrasto alla tratta, che oltre a fare un lavoro capillare sul campo, dalle strade fino ai grandi hub di concentramento di schiavi nel mondo, svolge attività di lobby politica e opera in coordinamento con forze di polizia, di giustizia locali e internazionali, c’è Talitha Kum, il network di donne consacrate completamente dedicato al fenomeno. Talitha Kum è presente in 92 paesi, con 55 reti nazionali e 6.039 persone coinvolte attivamente in azioni anti-tratta in tutti i continenti. 336.958 persone sono state raggiunte dal network in tutto il mondo nel 2021, mentre 258.549 persone hanno beneficiato di attività di prevenzione e sensibilizzazione in scuole, università, gruppi sociali e religiosi; 19.993 sono le vittime e i sopravvissuti accompagnati dalla rete a guarire dal trauma subito e a usufruire di un sostegno per evitare di essere nuovamente trafficate. Chi viene raggiunto dalla rete, ottiene formazione scolastica o professionale per il reinserimento sociale e professionale e molti degli operatori o operatrici sul campo, sono ex vittime riabilitate. “Il perdurare della difficile situazione sanitaria globale causata dal Covid-19”, spiega Suor Yvonne Clémence Bambara, referente di Talitha Kum per l’Africa, “ha limitato i nostri spostamenti ma siamo riuscite ugualmente a svolgere un’azione capillare. Per quanto riguarda l’Africa, 1.002 membri attivi di Talitha Kum, appartenenti a 12 reti che comprendono 132 congregazioni religiose e attivi in 21 paesi, hanno potuto collaborare con 46 organizzazioni cattoliche, 39 agenzie governative e 39 organizzazioni internazionali. L’azione di prevenzione e informazione ha raggiunto 147.406 scolari di scuole primarie e secondarie oltre che centri nodali per il contrasto come i media e le strutture ecclesiastiche. In Africa oltre 4mila vittime e sopravvissute alla tratta hanno ricevuto assistenza e protezione in strutture di accoglienza o in famiglie ospitanti, abbiamo inoltre accompagnato le vittime nei processi, facilitando l’accesso alla giustizia”. Le suore, in alcuni paesi, sono assurte a vero e proprio ruolo politico e svolgono attività di advocacy e, nel corso del 2021, hanno organizzato seminari di formazione in tutto il mondo per garantire i diritti delle persone trafficate e assicurare alla giustizia i trafficanti. L’Africa, l’Asia sud orientale e l’America Latina sono luoghi da cui si origina in buona parte il fenomeno e sono i luoghi che esportano nuovi schiavi in tutto il mondo. Ma se il traffico di esseri umani prospera e aumenta lo si deve alla crescita della domanda, anche sotto casa nostra. “In provincia di Latina, per citare un esempio, migliaia di indiani impiegati come braccianti nelle relative campagne arrivano mediante trafficanti indiani in combutta con imprenditori locali, avvocati e anche leader della relativa comunità”, spiega Marco Omizzolo, sociologo Eurispes, docente dell’Università La Sapienza, presidente di Tempi Moderni, “per un giro d’affari di diversi milioni di euro l’anno. Forze dell’ordine e procura, insieme ad alcune associazioni, sono fortemente impegnate contro questo crimine, ma senza una radicale revisione delle normative sulle migrazioni, a partire dalla vigente Bossi-Fini, questo sistema di violazione dei diritti umani e del lavoro non terminerà. Non bisogna dimenticare, poi, che la denuncia è importante ma non basta, quello che chiedono le vittime è giustizia e un percorso di riconoscimento e tutela degno di un paese civile. È l’unico modo per evitare di continuare ad avere vittime di tratta internazionale e grave sfruttamento nella nostra società e nel nostro mercato del lavoro, alle dirette dipendenze di criminali e mafiosi”. “Sue”, un film di Elisabetta Larosa - Tra i contributi interessanti che affrontano il delicato tema del traffico di esseri umani, c’è Sue, un film documentario di Elisabetta Larosa, prodotto e distribuito dalla Movie Factory, con Joy Ezekiel, Rita Aghoghovwia e Isoke Aikpitanyi che interpretano loro stesse. Il lavoro parte dalla storia vera di tre donne uscite dallo stato di schiavitù che “osano una speranza” restituendosi la dignità depredata. Il film documentario esplora i sentimenti di tre donne profondamente ferite che hanno avuto la forza, il coraggio di ricominciare a essere felici. Singolare nel suo genere, si scosta dai reportage sulle violenze, sul disagio, sulla solitudine, sui diversi tipi di sfruttamento, puntando a far emergere la rinascita, la gioia, l’affermazione della propria indipendenza, le fragilità, i sogni e le aspettative future. Joy, 28 anni, Rita 36 e Isoke, 40, tutte in viaggio dalla Nigeria, rappresentano tre generazioni e tre vite diverse, tutte, però, accomunate dalla volontà di riscatto, frustrata e umiliata dagli schiavisti moderni. Tutte troveranno una via originale di libertà, si occuperanno di altre donne schiave, dimostreranno al mondo che al di là della violenza, del dramma e del dolore, ci sono la bellezza, la cultura, la passione. Sue è il primo film tra quelli riconosciuti dal ministero della Cultura come film d’essai per valore artistico. È visibile sulla piattaforma Chili. Tunisia. Saied ora è il “re”. La rivoluzione non ha futuro di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 28 luglio 2022 Critiche dalla Ue e dagli Usa: “La nuova costituzione compromette i diritti umani”. Che ne sarà della Tunisia nei prossimi mesi? Una domanda che si stanno ponendo in molti nel paese (e non solo) e a cui è difficile dare una risposta. È certo invece che da lunedì 25 luglio il piccolo Stato nordafricano ha una nuova costituzione dopo il referendum imposto dal presidente della Repubblica Kais Saied dopo un anno di pieni poteri. È altrettanto certo il tasso di partecipazione a una consultazione che ha di fatto posto fine alla transizione democratica dopo la Rivoluzione del 2011: 30 per cento. Un dato decisamente più rilevante del 94 per cento con cui chi è andato a votare ha dato il suo avallo a rendere il regime tunisino ultra presidenziale con prerogative importanti a favore del responsabile di Cartagine e poche tutele rispetto al ruolo delle due camere e alla reale separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Quello che è successo nel paese in questi giorni non è casuale. Parte da una lunga crisi politica, economica e sociale in corso da anni; tocca il suo apice il 25 luglio 2021 con il colpo di forza di Saied con cui scioglie il governo e congela il parlamento; prosegue a settembre dello stesso anno con l’accaparramento dei poteri e si conclude (per ora) lunedì scorso con il referendum costituzionale e l’inizio della terza Repubblica dopo i regimi di Habib Bourguiba e Ben Ali e la fase di transizione democratica post 2011. Una nuova fase politica e istituzionale che ha già richiamato l’attenzione di almeno due attori internazionali. In primis gli Stati uniti attraverso il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price: “La nuova costituzione include dei meccanismi di contropoteri indeboliti che potrebbero compromettere la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali”. Contropoteri che nel caso della Tunisia erano già indeboliti almeno dal 2014 in quanto, nonostante il vecchio testo la prevedesse, non è mai entrata in funzione la corte costituzionale. Successivamente è arrivato il turno dell’Unione europea, vicino strategico del paese anche per questioni non necessariamente legate alla politica interna come il fenomeno migratorio: “L’Ue prende nota dei risultati del referendum che si è tenuto in Tunisia il 25 luglio e che è stato segnato da una partecipazione bassa. Un largo consenso tra le diverse forze politiche, compresi i partiti e la società civile, è essenziale per la riuscita di un processo che preservi le conquiste democratiche e necessario per tutte le riforme politiche ed economiche che prenderà in futuro il paese. L’Unione europea continuerà a seguire da vicino gli sviluppi e resterà al fianco del popolo tunisino e all’ascolto dei suoi bisogni in questo momento cruciale”. Anche gli attori politici interni hanno fatto sentire la loro voce. Il leader del partito di ispirazione islamica Ennahda, Rached Ghannouchi, ha rilasciato un’intervista ad Al Jazeera dove dice di temere per il futuro della sua forza politica, la più colpita dal colpo di forza di Saied: “Il prossimo passo del presidente è pensato per escluderci dalle prossime elezioni”. Un timore che potrebbe trasformarsi molto presto in realtà, anche se i sostenitori del responsabile di Cartagine sono convinti che questo sia solo un bene per il futuro del paese dopo undici anni di malgoverno, corruzione e crisi economica. Nella notte di lunedì, i festeggiamenti avvenuti a Tunisi nella centrale avenue Bourguiba si sono focalizzati tutti sulla “fine del regime islamico”. La rete di partiti di sinistra che ha invitato la popolazione a boicottare il referendum da parte sua ha denunciato brogli elettorali da parte di Saied con la complicità dell’Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie). Tutti elementi che non sembrano interessare al presidente della Repubblica che già guarda al prossimo appuntamento elettorale. In un incontro al palazzo di Cartagine ha invitato la premier Najla Bouden Romdhane a preparare le elezioni presidenziali e legislative del prossimo 17 dicembre. Iran. Pena di morte, almeno 251 esecuzioni nei primi sei mesi di quest’anno La Repubblica, 28 luglio 2022 Il totale delle impiccagioni del 2021 (314) sarà presto superato. La denuncia del Centro Abdorrahman Boroumand per i diritti umani e Amnesty International. Gli orrori nelle prigioni di Zahedan e di Raja’i Shahr, con uno dei bracci della morte più ampi del Paese. Il Centro Abdorrahman Boroumand per i diritti umani e Amnesty International hanno reso noto che in Iran, nei primi sei mesi del 2022, sono state messe a morte almeno 251 persone. Di questo passo, hanno ammonito le due organizzazioni, il totale delle esecuzioni del 2021, 314, sarà superato ben presto. La maggior parte delle esecuzioni nel primo semestre del 2022 - 146 - hanno riguardato il reato di omicidio. Come già documentato in passato, le condanne a morte sono state eseguite al termine di processi gravemente irregolari. Almeno 86 prigionieri sono stati impiccati per reati di droga per i quali, secondo il diritto internazionale, non dovrebbe essere inflitta la pena capitale. In sei mesi una condanna a morte al giorno. “Nei primi sei mesi del 2022 le autorità iraniane hanno eseguito in media almeno una condanna a morte al giorno - ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord - questa macchina della ‘morte di Stato’ mette in atto un abominevole assalto al diritto alla vita. Si rischia di tornare al 2015, quando vi fu un’altra scioccante ondata di esecuzioni”. “Questa nuova crescita delle esecuzioni, comprese quelle in pubblico - ha aggiunto Roya Boroumand, direttrice generale del Centro Abdorrahman Boroumand, un’organizzazione iraniana per i diritti umani - mostra ancora una volta quanto l’Iran non stia al passo col resto del mondo, dove 144 stati hanno abolito nelle leggi o nella prassi la pena di morte. Chiediamo all’Iran di istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni in vista della completa abolizione della pena capitale”. Le fonti delle notizie. I dati raccolti dal Centro Abdorrahman Boroumand e da Amnesty International sono stati tratti da varie fonti: prigionieri, familiari di persone messe a morte, difensori dei diritti umani, giornalisti, organizzazioni per i diritti umani, resoconti degli organi di stampa di stato e di quelli indipendenti. Il numero reale è probabile che sia più alto, data la segretezza che circonda la pena di morte in Iran, sia dal punto di vista delle condanne a morte comminate che delle esecuzioni. Nel braccio della morte nella prigione di Raja’i Shahr . Sulla base delle informazioni raccolte, nel 2022 le autorità iraniane hanno compiuto con scadenza regolare esecuzioni di massa nelle prigioni del paese. Il 15 giugno nel carcere di Raja’i Shahr, situata nella provincia di Alborz, sono stati messi a morte almeno 12 prigionieri. Il 6 giugno come minimo altri 12 prigionieri erano stati messi a morte nella prigione di Zahedan, situata nella provincia del Sistan e Balucistan. Il 14 maggio erano stati messi a morte altri nove prigionieri in quattro diverse carceri iraniane: ancora Zahedan, Vakilabad (provincia del Khorasan-e Razavi), Adelabad (provincia di Fars) e Dastgerd (provincia di Esfahan). Secondo una fonte ben informata, dall’inizio del 2022 la direzione del carcere di Raja’i Shahr, che ha uno dei bracci della morte più ampi dell’Iran, ha messo a morte in media cinque prigionieri alla settimana, a volte il doppio. Solo in questa prigione, alla fine dell’anno le esecuzioni potrebbero aver superato quota 200. L’opzione del perdono dei familiari delle vittime. La stessa fonte ha dichiarato che il procuratore associato al carcere di Raja’i Shah ha recentemente annunciato di aver scritto alle famiglie di 530 vittime di omicidio, chiedendo loro di scegliere, entro la fine del marzo 2023, se perdonare l’assassino o chiederne l’esecuzione. Più volte, infine, il capo del potere giudiziario Gholamhossein Mohseni e ulteriori alti funzionari della magistratura hanno parlato della necessità di ridurre il sovraffollamento delle prigioni e ciò ha seminato il terrore tra i detenuti. Il Centro Abdorrahman Boroumand ha notato che, in passato, ondate di esecuzioni erano state precedute da dichiarazioni del genere. L’aumento delle esecuzioni per reati di droga. Le almeno 86 esecuzioni per reati di droga del primo semestre del 2022 ricordano le strategie di contrasto al narcotraffico attuate dalle autorità iraniane tra il 2010 e il 2017, quando la maggior parte delle esecuzioni aveva riguardato quel genere di reati. Nel novembre 2017, dopo forti pressioni internazionali e il taglio, da parte di vari stati europei, dei fondi destinati alle operazioni antinarcotici, le autorità iraniane avevano intrapreso riforme per cancellare la pena di morte per alcuni reati di droga. Tra il 2018 e il 2020, di conseguenza, le esecuzioni erano diminuite. Nel 2021, tuttavia, sono tornate a salire: almeno 132 (il 42 per cento del totale), un numero cinque volte superiore alle 23 esecuzioni registrate nel 2020. Il richiamo all’Unione Europea e all’ONU. Il Centro Abdorrahman Boroumand e Amnesty International hanno pertanto sollecitato la comunità internazionale, inclusi gli stati dell’Unione europea e l’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e criminalità a intervenire ai più alti livelli nei confronti delle autorità iraniane in modo che sia posta fine all’uso della pena di morte per i reati di droga e che ogni forma di collaborazione con le strategie di contrasto al traffico di droga non contribuisca, direttamente o indirettamente, alla negazione arbitraria del diritto alla vita, che è l’elemento cardine delle politiche antinarcotici dell’Iran. I beluci colpiti in modo sproporzionato dalle esecuzioni. Almeno 65 delle persone messe a morte dall’inizio del 2022, ovvero il 26%, appartenevano alla minoranza emarginata dei beluci, in tutto il 5% della popolazione dell’Iran. Abitano nella regione del Belucistan, nell’Asia sud-occidentale, macro-area che comprende la parte orientale dell’Iran, oltre alle zone meridionali di Afghanistan e Pakistan. E’ una popolazione prevalentemente montanara, consizione che ha permesso loro di preservare una propria identità culturale. Sono prevalentemente musulmani, ma la maggior parte di loro sono sunniti hanafiti (e l’Iran, com’è noto è prevalentemente sciita). Oltre la metà di quelle esecuzioni dei cittadini beluci - 38 - hanno riguardato reati di droga. Sono riprese le esecuzioni in pubblico. Il numero delle esecuzioni del 2021 è stato il più alto registrato dal 2017. L’aumento è iniziato nel settembre 2021 quando il capo del potere giudiziario, Ebrahim Raisi, è salito alla carica di presidente della Repubblica e il leader supremo ha nominato al suo posto un ex ministro dell’Intelligence, Gholamhossein Mohseni. Nel 2022 sono anche riprese le esecuzioni in pubblico: almeno una, ma altri due prigionieri nelle province di Esfahan e del Lorestan sono stati condannati a essere messi a morte in pubblico. Nel 2020 c’era stata un’esecuzione in pubblico, nel 2019 e nel 2018 erano state 13. Si finisce impiccati per rapina o per offesa al profeta dell’Islam. In Iran la pena di morte è imposta al termine di processi sistematicamente irregolari, in cui vengono di norma utilizzate come prove “confessioni” estorte con la tortura. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’Iran ha parlato di “problemi intrinsechi nelle leggi, ciò che significa che nella maggior parte dei casi, se non in tutti i casi, di esecuzione siamo di fronte a una privazione arbitraria della vita”. La legislazione iraniana prevede la pena di morte per numerosi reati, compresi quelli di natura finanziaria, lo stupro e la rapina a mano armata. Atti protetti dal diritto internazionale dei diritti umani come le relazioni omosessuali tra persone adulte e consenzienti, le relazioni extraconiugali e i discorsi ritenuti “offensivi nei confronti del profeta dell’Islam”, così come reati descritti in modo del tutto vago come quello di “inimicizia contro Dio” e “diffusione della corruzione sulla terra”, possono a loro volta essere puniti con la pena capitale. Giappone. Il boia uccide Tomohiro Kato, autore della strage di Akihabara di Serena Console Il Manifesto, 28 luglio 2022 La seconda esecuzione capitale da quando è in carica il governo di Funio Kishida. Il ministro della Giustizia giapponese Yoshihisa Furukawa ha firmato una nuova esecuzione capitale, la seconda da quando è entrato in carica il governo del conservatore Fumio Kishida. Con un colpo di penna, è stata decisa la sorte di un uomo. Nella giornata di ieri, Tomohiro Kato, 39 anni, è stato giustiziato per impiccagione nel carcere in cui era detenuto a Tokyo. Kato è stato ritenuto responsabile di uno dei più gravi attacchi compiuti in Giappone, che causò la morte di sette persone e il ferimento di dieci. È l’8 giugno del 2008, quando Kato, all’epoca 25enne, si lancia con un camion sulla folla che passeggia nel famoso e affollato quartiere Akihabara di Tokyo, uccidendo tre persone e ferendone due. Dopo essere sceso dal mezzo, Kato impugna un coltello e accoltella a morte quattro persone, compreso un uomo investito solo pochi istanti prima. Arrestato sul posto, il giovane dichiara di non avere avuto ragioni particolari per compiere le violenze, ma confessa di essere vittima di cyberbullismo e di aver scelto il famoso quartiere commerciale per “uccidere qualcuno, non importa chi”. La strage ha provocato un forte choc in Giappone e un inasprimento delle leggi sul possesso di armi da taglio. Durante il processo, l’avvocato difensore di Kato ha invocato l’infermità mentale del suo assistito, ma la corte distrettuale di Tokyo ha deciso di condannarlo a morte nel 2011. L’accusa, infatti, ha mostrato le immagini del giovane - che allora faceva il meccanico dopo aver fallito i test di ingresso all’università - mentre faceva dei sopralluoghi nel quartiere prima dell’attacco. L’uomo, secondo i pubblici ministeri, aveva presentato sul web il suo folle piano omicida, ricevendo solo commenti negativi. Nel 2015, la Corte suprema del paese ha confermato la decisione della condanna con l’aggravante della premeditazione. In carcere, in attesa della pena capitale, Kato ha chiesto perdono per la strage: in una lettera inviata a un 56enne rimasto ferito durante l’attacco, ha ricordato come le vittime “si stavano godendo la vita e avevano sogni, un futuro luminoso, famiglie cordiali, amanti, amici e colleghi”. La confessione è probabilmente l’effetto della funzione rieducativa del carcere, in cui il giovane ha passato troppo tempo, fino al suo ultimo giorno di vita. È prassi che in Giappone i condannati trascorrano molti anni in celle di isolamento in attesa della pena capitale, che molto spesso viene loro comunicata con pochissimo preavviso, anche poche ore prima. La pena di morte, di solito applicata per casi di omicidio plurimo in base a un’ultima revisione del Codice penale del 1873, è condannata da diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International. Le ong per la tutela dei diritti umani definiscono crudele e incostituzionale il trattamento riservato ai detenuti nel braccio della morte, perché non darebbe loro sufficiente tempo per contattare gli avvocati e presentare ricorso contro l’ordine di esecuzione. Il velo sulla pena capitale in Giappone - il secondo paese del G7, oltre gli Usa, ad applicare tale condanna - è stato sollevato nuovamente nel 2021, proprio durante il governo Kishida: dopo una moratoria di due anni, il ministero della Giustizia ha firmato per l’esecuzione di tre impiccagioni. Nel novembre dello stesso anno, due detenuti nel braccio della morte avevano citato in giudizio il governo per essere stati avvisati con poche ore di anticipo della loro esecuzione. Rimangono però inascoltati gli appelli delle ong: il paese democratico va avanti per la sua strada, forte del sostegno popolare. I sondaggi d’opinione rivelano che oltre l’80 per cento della popolazione approva la pena di morte, interpretata come forma di rispetto per i familiari delle vittime e come uno strumento per combattere la recidività dell’omicida. Attualmente ci sono 106 detenuti nel braccio della morte, in attesa del boia last minute. Torna la forca in Birmania, ma l’odio non è la risposta di Sergio D’Elia Il Riformista, 28 luglio 2022 Un anno fa una piccola suora, in ginocchio davanti alla polizia, riuscì almeno per un giorno a far tacere le armi. Il suo gesto non va dimenticato adesso che violenza e morte sembrano trionfare nuovamente. Alla fine l’imperativo “ordine e disciplina”, che per ottanta anni - manu militari - ha dominato la vita dei birmani, ha raggiunto l’apice della violenza e della morte di Stato, di uno Stato che nel nome di Abele è diventato Caino. Dopo il colpo di stato del gennaio 2021, la giunta militare si è dedicata alla repressione cruenta delle manifestazioni antimilitariste, ai processi farsa nei tribunali militari e alle condanne a morte per reati detti di “terrorismo” ma talmente vaghi e vasti nella definizione da poter includere qualsiasi critica al regime militare. Così, in un anno e mezzo, più di 2.100 persone sono state uccise per strada dalle forze di sicurezza; almeno 117 sono state condannate a morte da tribunali militari. Dopo le condanne a morte sono arrivate anche le esecuzioni. Il 25 luglio scorso, come promesso, i militari hanno giustiziato quattro prigionieri politici, tra cui due figure molto popolari in Birmania, simboli per l’opinione pubblica della fiera resistenza al regime militare. Kyaw Min Yu era meglio conosciuto come “Jimmy” ed era diventato famoso durante la rivolta studentesca del 1988 contro il precedente regime militare. Per il suo attivismo a favore della democrazia era entrato e uscito di prigione per una dozzina di anni. Era stato arrestato di nuovo lo scorso ottobre, all’età di 53 anni, durante un raid notturno. Phyo Zeya Thaw era stato eletto al parlamento nel 2015, alle elezioni che avevano inaugurato un periodo, purtroppo, breve di transizione al governo civile. Era un fedele alleato di Aung San Suu Kyi, ma era anche noto come un artista hip-hop. Le sue rime “sovversive” davano fastidio alla giunta militare che lo aveva messo in prigione nel 2008 per appartenenza a un’organizzazione illegale. Insieme ad altri due uomini, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, tra gennaio e aprile, erano stati condannati a morte da un tribunale militare in processi illegali svolti segretamente. Avrebbero compiuto “atti terroristici brutali e disumani come l’omicidio di molte persone innocenti”, secondo la voce del regime, il quotidiano in lingua inglese Global New Light of Myanmar. Sono stati giustiziati “secondo le regole carcerarie” hanno detto le autorità militari, senza dire però dove, quando e con quale metodo. Forse sono stati impiccati, se è stato seguito il metodo consueto e ormai in disuso nel Paese dopo oltre trent’anni di moratoria di fatto delle esecuzioni. Di certo è stato un atto di assoluta crudeltà volto a paralizzare il movimento di resistenza civile ai militari che un anno fa, col colpo di stato, hanno spento la luce in Birmania, seminato il terrore e fatto terra bruciata delle speranze di democrazia, giustizia e libertà. Ai famigliari che, appresa la notizia dai giornali, si erano precipitati davanti alla prigione non è stato permesso di raccogliere i resti dei loro cari per dargli una degna sepoltura. “Li hanno uccisi e hanno occultato i cadaveri”, come fanno gli assassini comuni per coprire i loro crimini, ha detto Thazin Nyunt Aung, moglie di Phyo Zeyar Thaw. I parenti dei condannati erano andati alla prigione Insein di Yangon anche la settimana prima per fare loro visita, ma i funzionari della prigione hanno permesso a un solo parente di parlare con i detenuti tramite videochiamata. Era il segno che quello sarebbe stato il loro ultimo colloquio. Alla violenza del potere costituito in disordine, alla disciplina ordinata dalla paura, i familiari dei detenuti hanno risposto con il coraggio, la determinazione, la forza della nonviolenza. “Dobbiamo essere tutti coraggiosi, determinati e forti”, ha scritto Nilar Thein, la moglie di Kyaw Min Yu, in un post pubblicato su Facebook. È la forza degli inermi. È la forza gentile della nonviolenza, di chi non ha potere, ma non smette di lottare, di chi ama comunque, con speranza e contro ogni speranza, il proprio avversario disperato. E con ciò lo disarma. Un anno fa, una piccola suora, genuflessa dinnanzi alla polizia, riuscì almeno per un giorno a far tacere le armi e bloccare la legge marziale. In quella giornata felice, la nonviolenza dell’amore, della buonafede e della speranza trionfò sull’odio, la malafede e la disperazione del disordine costituito. Ora, in questa giornata triste in cui sembra trionfare invece la prepotenza e la morte della pena, non malediciamo, non criminalizziamo, non condanniamo a morte questi torturatori di vite umane ed esecutori di sentenze capitali. Torniamo a inginocchiarci davanti a loro e a invocare, innanzitutto per loro, non sanzioni e stati di emergenza, ma l’emergenza di stati di coscienza, di diritto, di umanità. Il nostro “Nessuno tocchi Caino” vale anche per loro. Afghanistan. La “morte al rallentatore” delle donne sotto il regine dei talebani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 28 luglio 2022 Un rapporto di Amnesty International. Kabul rassicura i paesi confinanti: “Dall’Afghanistan nessuna minaccia terroristica”. All’aeroporto di Fiumicino, a Roma, arrivano i primi trecento afghani attraverso i corridoi umanitari da Pakistan e Iran. All’aeroporto di Kabul, invece, le donne sole, prive di un uomo che le accompagni e faccia loro da “custode”, non possono partire: vietato lasciare il Paese. Così hanno deciso i Talebani, i quali, secondo un rapporto di Amnesty International reso pubblico ieri, “in meno di un anno hanno decimato i diritti delle donne e delle ragazze”, da quello all’educazione a quello al lavoro e, appunto, alla libera circolazione, fuori dal Paese ma anche dentro. Oltre una certa distanza da casa, occorre essere accompagnate da un guardiano/custode. Ma c’è altro, come lascia intendere il titolo del rapporto: Death in Slow Motion. Women and Girls under the Taliban Rule (Morte al rallentatore. Donne e ragazze sotto il regime talebano). Il sistema di protezione e sostegno alle donne e alle ragazze in fuga dalla violenza domestica è stato distrutto, le donne vengono incarcerate in modo arbitrario se infrangono le nuove regole che le discriminano, quelle tra loro che hanno protestato in modo pacifico sono state minacciate, arrestate, detenute, in alcuni casi torturate o sono sparite per giorni. E aumentano i matrimoni precoci e forzati. Questa la sintesi del rapporto di Amnesty International, che andrebbe letto integralmente e che restituisce un’immagine dell’Afghanistan molto diversa da quella presentata il 25 e 26 luglio a Tashkent dal ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi. Nel corso di una conferenza internazionale organizzata dal governo uzbeco e alla quale hanno partecipato più di 20 rappresentanti speciali e inviati per l’Afghanistan, esponenti di organizzazioni internazionali e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, Muttaqi ha usato toni consueti, rassicurando l’uditorio ed elencando i risultati raggiunti in soli 11 mesi di governo: sicurezza in tutto il Paese, amnistia, politica di tolleranza, “annunciata per la prima volta nella storia del Paese”, reclutamento di nuovi soldati e poliziotti, e via dicendo. Per Muttaqi, i Talebani credono nelle riforme politiche, rispettano i diritti di tutti i cittadini, a partire dalle donne, alle quali è garantito anche il diritto al lavoro: “dove ci sono le condizioni, lavorano, dove non ci sono, stiamo facendo in modo che ci siano in futuro”. Così Muttaqi, uomo della vecchia guardia. Che è poi passato alle questioni che più stanno a cuore agli attori regionali, specie quelli che, come l’Uzbekistan, confinano con l’Afghanistan: “Garantiamo la sicurezza in tutto il Paese, dal nostro territorio non arriverà nessuna minaccia terroristica”. Sul territorio afghano, infatti, sono presenti alcuni gruppi jihadisti, che per Kabul rappresentano insieme un vulnus e una risorsa. Un pericolo se gli “scappano di mano”, una risorsa se, come avviene ora, vengono usati come moneta di scambio con gli attori regionali. Anche con l’Uzbekistan, che ha subito alcuni attacchi dal territorio afghano rivendicati dalla “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico. Anche da queste preoccupazioni sulla stabilità del Paese nasce la conferenza di Tashkent, a cui hanno partecipato tra gli altri rappresentanti di Cina, Iran, Pakistan, Russia, Stati uniti, Unione europea. E anche da qui nasce l’appoggio di Tashkent a una delle richieste centrali dei Talebani: il rilascio degli assett della Banca centrale afghana congelati all’estero (circa 9 miliardi di dollari, di cui 7 alla Federal Reserve di New York). Il ministro di fatto Muttaqi lo ha detto chiaro e tondo: “Abbiamo rispettato tutte le promesse fatte. Ora chiediamo che gli Usa rispettino le loro: il rilascio deve essere incondizionato”. Rispetto a soli tre mesi fa, su questo fronte il negoziato tra Washington e Kabul è molto progredito. Ma è difficile che Muttaqi venga soddisfatto. Più probabile, invece, che i fondi scongelati passino per un mediatore-terzo, figura di garanzia e controllo. Ma la questione delle riserve rimane centrale: secondo un’agenzia di stampa locale, per il ministro degli Esteri uzbeco, Vladimir Norov, “lo scongelamento delle riserve afghane e la rimozione delle sanzioni è un passaggio fondamentale verso la normalizzazione delle relazioni” tra Kabul e Washington.