Ora la Consulta deve bocciare l’ergastolo ostativo di Andrea Pugiotto Il Riformista, 27 luglio 2022 La riforma del regime ostativo non rientra tra gli affari gli correnti. Un nuovo rinvio della dichiarazione di incostituzionalità sarebbe imbarazzante. 1.280 detenuti scontano una pena illegale. 1. La crisi di governo e di legislatura - che rischia di far cadere l’Italia in un nodo scorsoio - ha molteplici effetti collaterali. Di uno, qui, intendo ragionare: il destino dell’ergastolo ostativo. Il destino, cioè, di 1280 detenuti (su 1822 condannati a vita) senza scampo e senza speranza per “quel manicheismo che esiste ancora” secondo cui “o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi” (così il Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, Corriere della Sera, 16 maggio). Lo ricordava giorni fa, su queste pagine, Angela Stella (Il Riformista, 23 luglio): 1’8 novembre 2022 scadrà il termine che la Consulta ha indicato al Parlamento per disinnescare il timer della sicura incostituzionalità - già accertata, ma non ancora formalmente dichiarata - di questo “fine pena mai” che della tortura giudiziaria replica il fine e della pena di morte la fine. Il conto alla rovescia per il suo superamento è iniziato quando la Corte costituzionale, in buona sostanza, ha detto al legislatore: “io non posso che accertare l’illegittimità dell’ergastolo ostativo perché non regge il confronto con gli artt. 3 e 27, comma 3, della Costituzione; tocca a te correre ai ripari entro un tempo congruo” (ord. n. 97/2021). Quel termine, originariamente fissato al 10 maggio scorso, è poi slittato di altri sei mesi (ord. n. 122/2022) per consentire al Parlamento di completare l’iter di formazione di una riforma in materia, già approvata alla Camera ma non ancora al Senato. Ecco perché la crisi in atto ha molto a che vedere con questa neverending story: nella corsa contro il tempo per evitare la decadenza di riforme in tema di giustizia, avviate ma non concluse, può trovare posto anche quella dell’art. 4-bis, ord. penit.? 2. L’interruzione anticipata della legislatura mette a bordo campo il Parlamento. Per prassi consolidata, in caso di scioglimento delle Camere, l’attività legislativa di indirizzo e di controllo si restringe a pochi ambiti, riconducibili alla natura d’urgenza di alcuni adempimenti quali - ad esempio - la conversione dei decreti-legge, l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, l’attuazione di obblighi e impegni derivanti dall’adesione all’Ue. Al di fuori di questo stretto perimetro, per l’esame e l’approvazione di un disegno di legge è richiesto - prima in Commissione, poi in Aula - il previo consenso unanime circa la sua particolare urgenza. Legislativamente parlando, dunque, la riforma dell’ergastolo ostativo non avrà un destino diverso da quello di altre riforme in itinere: suicidio assistito, cannabis, cittadinanza, patronimico, omotransfobia, violenza domestica, molestie sessuali sul lavoro (tra le altre). Tutte condannate a non vedere la luce. Ex malo bonum, verrebbe da dire pensando alla riforma legislativa in corso (A.S. n. 2574). A ragione, anche il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute, nella sua ultima relazione al Parlamento, ne ha criticato il disallineamento ai principi e ai parametri indicati nell’ord. n. 97/2021. Muore così una riforma che avrebbe avuto comunque vita breve. Requiescat in pacem, senza rimpianti. 3. In alternativa, potrebbe intervenire a riformare l’ergastolo ostativo il Governo Draghi, mediante un decreto-legge ad hoc? Qui le cose si fanno più complicate. L’art. 77 Cost. non esclude l’adozione di decreti-legge a Camere sciolte, prevedendo che queste “sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni” per la conversione in legge del provvedimento provvisoriamente assunto dal Governo, anche dimissionario. A precludere l’agibilità della decretazione d’urgenza nel caso in esame, però, è l’assenza di uno dei suoi presupposti costituzionali: la straordinarietà. Non basta, infatti, che il decreto-legge sia necessario ed urgente, dovendo anche fare fronte a “casi straordinari”, cioè imprevedibili. Ma ciò che è accaduto al Parlamento e in Parlamento è tutt’altro che imprevedibile. Non lo è lo scioglimento anticipato delle Camere: ipotesi espressamente prevista in Costituzione (art. 88, comma 1) perché esito sempre possibile, ancorché in ultima istanza, delle dinamiche di una forma di governo parlamentare. Lo attesta la nostra storia repubblicana: dieci legislature (su diciotto) si sono interrotte prematuramente. Non lo è, soprattutto, la necessità e l’urgenza di riformare l’ergastolo ostativo entro la data indicata dalla Consulta. Che la preclusione assoluta alla concessione della liberazione condizionale generasse una pena illegittima, perché perpetua de jure e de facto, non è scoperta di ieri. Era il 5 ottobre 2019 quando - in via definitiva - la Corte di Strasburgo condannò l’Italia per il “problema strutturale” di una “pena perpetua non riducibile” lesiva della dignità umana, obbligando il nostro Stato a risolverlo tempestivamente (Viola c. Italia n° 2). Era il 20 maggio 2020 quando la Commissione bicamerale antimafia, nella sua relazione sull’art. 4-bis orci. penit., riconosceva che “la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la CEDU”. Era 1’11 maggio 2021 quando la Consulta, per modificare un ergastolo ostativo altrimenti incostituzionale, concedeva alle Camere un “tempo congruo” di dodici mesi, poi dilatato di altri sei. In questo contesto, di straordinario - nel senso di sbalorditivo e stupefacente - c’è solo l’accidia di un legislatore che ha udito ma non ascoltato questi reiterati allarmi. Come il fatto e il mal fatto, così anche il non fatto è sempre espressione di una scelta politica, di cui il Parlamento - e le maggioranze da esso espresse nella XVIII legislatura - porta tutta intera la responsabilità. 4. In ipotesi, potrà accadere che nelle nuove Camere appena insediate la riforma dell’ergastolo ostativo riemerga con priorità assoluta, così da spingerle a legiferare in poche settimane entro la data indicata dalla Corte costituzionale. Ma è un pronostico da allibratore avventato. Più credibile è un altro scenario, da gioco dell’oca: l’8 novembre la quaestio dell’ergastolo ostativo tornerà alla casella di partenza di Palazzo della Consulta. Pur di schivarne la formale dichiarazione d’incostituzionalità, c’è da scommettere che qualcuno accarezzerà l’idea di chiedere alla Corte di disporre il rinvio dell’udienza per la terza volta consecutiva: “La nuova legge sarebbe stata approvata in tempo, ma lo scioglimento anticipato delle Camere lo ha impedito”, si proverà a questuare, magari con l’intercessione dell’Avvocatura dello Stato. Giuridicamente sarebbe una richiesta imbarazzante, tanto per chi la formula quanto per chi la riceve. La Corte costituzionale, infatti, è giudice di ciò che il legislatore ha fatto o non ha fatto. Già con i due precedenti rinvii, si è impropriamente inventata giudice di ciò che il legislatore potrebbe fare. Un terzo rinvio risponderebbe all’idea balorda che la Consulta decide o meno sulla base di ciò che il legislatore avrebbe voluto ma non ha potuto fare. La Costituzione, in realtà, dice tutt’altro, chiamandola a giudicare di leggi, non di congetture o di desiderata parlamentari: questioni meramente ipotetiche sono del tutto estranee al suo sindacato. Senza contare che un terzo rinvio priverebbe per sempre di qualsiasi credibilità i moniti rivolti al legislatore, rivelando che la prima a non prenderli sul serio è la stessa Consulta. L’8 novembre, quindi, i giudici costituzionali saranno soli e senza scuse. Perché, quando l’incostituzionalità di una legge è già stata accertata (e da tempo), la ragione giuridica deve prevalere sulla ragione politica, se non si vuole rendere volatile la legalità costituzionale. Cedendo alla tentazione di un ennesimo differimento della sua udienza, la Consulta sprofonderebbe invece di tirarsene fuori. Come nelle sabbie mobili. 5. Nel frattempo, qualcosa si muove ad erodere l’ambito di applicazione del regime ostativo penitenziario. È del 16 giugno scorso (ma depositata il 12 luglio) l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna con cui si riconosce ad un ergastolano ostativo l’accesso alle misure alternative - nel caso specifico, la semilibertà - pur in assenza di collaborazione con la giustizia. Si tratta di un approdo interpretativo che obbedisce alla più recente giurisprudenza costituzionale in tema di irretroattività della legge penale, ora inclusiva anche di quelle norme penitenziarie (le misure alternative) o ad esse analoghe (la liberazione condizionale) che comportino una trasformazione della natura della pena (sent. n. 32/2020). Si affaccia così una nuova regola generale: a tutti i condannati per reati ostativi inclusi nell’originaria formulazione dell’art. 4-bis, ord. penit., commessi prima dell’8 giugno 1992 (data di entrata in vigore del decreto-legge n. 362 che ha introdotto l’obbligo di un ravvedimento operoso), l’accesso a misure extra murarie non va subordinato ad un’esigibile condotta collaborante. È una regola che potrà favorire una riduzione della platea di ergastolani senza scampo (ma non più senza speranza), detenuti da oltre trent’anni: accertati l’assenza di collegamenti con il sodalizio criminale, il sicuro ravvedimento individuale e un pregresso detentivo di almeno ventisei anni, potranno beneficiare della liberazione condizionale. Come è già accaduto (cfr. Tribunale di sorveglianza di Firenze, ord. 29 ottobre 2020, n. 3341). Si va così a formare un diritto vivente costituzionalmente orientato, nel solco di quanto richiesto dalla stessa Consulta (sent. n.193/2020). 6. C’è dell’altro, perché l’ergastolo ostativo è solo la cuspide di un problema più generale: l’eccedenza di automatismi legislativi ostativi in sede di esecuzione penale. La presenza, cioè, di troppe norme che - in forza di presunzioni assolute di pericolosità sociale - negano rilevanza agli esiti del trattamento penitenziario, spogliando così il magistrato di sorveglianza della sua funzione di giudice della persona ristretta in carcere. Se ne tornerà a parlare a Palazzo della Consulta, dove già pendono due questioni di costituzionalità di grande rilievo. La prima, promossa dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, riguarda il divieto di accesso all’affidamento in prova ai servizi sociali per i rei di delitti ostativi che non collaborino con la giustizia. La seconda, sollevata da quello di Firenze, mette in discussione l’obbligatoria applica zione, la durata fissa e predeterminata, nonché l’impossibilità di una revoca anticipata della libertà vigilata. Entrambe, ovviamente, richiamano l’ord. n. 97/2021. Sarà istruttivo seguirne gli sviluppi, ora che la palla è alla Corte costituzionale: la giocherà come deve o la rinvierà nella metà campo del legislatore? Caro Gratteri, le “casette dell’amore” sono una bufala di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 luglio 2022 Il procuratore di Catanzaro rilancia la notizia dei 28 milioni per le stanze dell’amore, già smentita dal ministero della Giustizia (e da noi). Il magistrato Nicola Gratteri, in un incontro tenutosi a Tropea, è ritornato ad attaccare la ministra della Giustizia Cartabia perché nella riforma sarebbero previste le “case dell’amore” per i detenuti. “Ben 28 milioni, ci costa!”, ha voluto sottolineare. Non si comprende come, un magistrato così attento, possa aver rievocato ancora una volta la bufala diffusa da un giornale e poi ripresa da altri personaggi disattenti come i deputati di Fratelli d’Italia e Lega. Su Il Dubbio abbiamo scritto ben due articoli per decostruire questa fake news. Anche lo stesso ministero della Giustizia è stato costretto a diramare un comunicato per smentire tale notizia. In realtà, ancora una volta, tocca ricordare che la Regione Toscana ha presentato nel 2020 un disegno di legge sull’affettività delle persone detenute (e anche la Regione Lazio) ed è tuttora rimasto nel cassetto della commissione giustizia. Nello scorso mese di marzo la 5a commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al ministero della Giustizia tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione. I tecnici del ministero, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento per rendere concreta la legge sull’affettività che serve per equipararci al resto dei paesi europei. In ogni caso i fondi rientrano già in quelli stanziati per l’edilizia penitenziaria. Però parliamo del nulla, visto che il disegno di legge è tuttora rimasto nel limbo Non si comprende perché Gratteri non si sia documentato, eppure continua a parlare delle carceri in chiave populista. Sicuramente conosce alla perfezione la mafia calabrese, ma è chiaro che non padroneggia allo stesso modo il sistema penitenziario. A sua discolpa bisogna dire che non è l’unico tra i colleghi. I soli che hanno le competenze sono i magistrati di sorveglianza. Bisognerebbe saperli ascoltare. Decreti sul penale a rischio: Lega e M5S ribadiscono il niet alle novità per il carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 27 luglio 2022 Se in questi giorni vogliamo parlare di giustizia dobbiamo porci due interrogativi. Primo: che fine faranno i decreti attuativi delle riforme del processo penale e civile? Secondo: come si posizioneranno le coalizioni sul tema durante la campagna elettorale? In merito alla prima domanda c’è molta attesa sia tra i partiti che tra gli addetti ai lavori. Fonti di via Arenula ci dicono che i testi arriveranno all’attenzione del Cdm nella prossima settimana, essendo stati inseriti tra gli “affari correnti”. Il legislativo del ministero della Giustizia starebbe facendo le ore piccole per ultimare il processo di armonizzazione, ma c’è il serio pericolo che la partita si riveli complicata per la guardasigilli Marta Cartabia. Se qualche giorno fa la responsabile Giustizia del Partito democratico Anna Rossomando ha detto chiaramente che i decreti vanno approvati senza se e senza ma, problemi potrebbero arrivare invece dagli altri partiti. Nel caso del Movimento 5 Stelle, la responsabile Giustizia Giulia Sarti sostiene infatti che “non ha alcun senso attuare in questo momento delle deleghe su materie divisive: la giustizia penale è già stata un terreno minato. Noi abbiamo portato avanti battaglie a tutela dei cittadini come quella contro l’istituto della improcedibilità in appello, ma adesso, con lo scioglimento delle Camere, l’unica cosa che si può fare è andare ad attuare quelle deleghe sulle quali non ci sono contrapposizioni, come ad esempio quelle relative alla digitalizzazione. Mi riferisco all’implementazione del processo telematico, sia civile che penale. Noi siamo dunque pronti ad approvare quelle deleghe che evitano lo scontro politico, non certamente quelle che, invece, potrebbero minare le esigenze di sicurezza dei cittadini e della tenuta del nostro sistema giudiziario”. Stessa indicazione arriva dal Carroccio: “Per una questione di buon senso - ci dice il deputato della Lega Jacopo Morrone, già sottosegretario alla Giustizia - la prima riforma da approvare sarebbe quella sull’equo compenso, su cui dovrebbe esserci una convergenza amplissima. Credo sia utile procedere con i provvedimenti sui cui c’è una larga intesa all’interno dell’attuale maggioranza, mentre sarebbero da evitare deleghe e materie più divisive. Poi è evidente che valuteremo con attenzione i decreti attuativi una volta che finalmente giungeranno sul tavolo del Consiglio dei ministri e poi delle Commissioni parlamentari di competenza”. I terreni più scivolosi sono quelli relativi alle pene alternative al carcere per condanne sotto i quattro anni irrogate direttamente dal giudice di cognizione; quindi le impugnazioni, i criteri di priorità dell’azione penale, le indagini preliminari. Per rispondere invece alla seconda domanda con cui abbiamo aperto questo articolo, abbiamo cercato di verificare se è vero che il principio del garantismo, come ci ha detto il sottosegretario alla Giustizia, l’onorevole di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, basterà a tenere insieme tutte le anime del centrodestra. Lo abbiamo chiesto ad Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia: “Ho letto l’intervista all’onorevole Sisto e sono d’accordo con lui sul tema del garantismo. Noi forse ci sentiamo ancora più garantisti di Forza Italia che, seppur al governo, non è riuscita a ripristinare la prescrizione, abolita dall’infausta e sgrammaticata parentesi bonafediana. È pur vero che noi contestiamo uno strano sistema del nostro Paese: quando sei indagato o imputato non esiste la presunzione di innocenza, però poi se subisci una condanna definitiva, grazie a misure alternative o benefici, i condannati trascorrono poco tempo in carcere. Noi riteniamo di essere più garantisti nel processo e decisamente più giustizialisti nell’esecuzione penale. Bisogna garantire la certezza della pena, soprattutto nei confronti dei mafiosi che non possono pensare di uscire di prigione senza aver prima collaborato”. Tuttavia, ci ha detto ancora il parlamentare, “a noi piacerebbe parlare anche di una giustizia civile lenta, che ci costa circa il 2% del Pil, e di una giustizia tributaria in cui il giudice che dovrebbe essere terzo è nominato invece dal Mef, ossia dalla controparte, facendo così ribaltare l’onere della prova a scapito del cittadino o dell’impresa”. Facciamo notare che proprio per via della crisi di governo, la riforma della giustizia tributaria rischia di saltare: “Meglio che non venga incardinata da questo esecutivo, se il risultato deve essere quello raggiunto nella riforma del penale”. Azione e + Europa hanno rilanciato la separazione delle carriere, promossa dall’Unione Camere penali: “Noi abbiamo presentato degli emendamenti in tal senso - conclude Delmastro Delle Vedove - ma è stato proprio il centrodestra al governo a non votarli”. Insomma, come già evidenziato nei giorni passati, non va affatto escluso che la giustizia rappresenti ancora una volta un elemento di scomposizione delle alleanze, anche nel futuro Parlamento. Toghe sui social, parole in libertà e il Csm se ne lava le mani di Iuri Maria Prado Il Riformista, 27 luglio 2022 Il Plenum archivia la pratica che chiedeva linee guida per garantire il rispetto dei principi deontologici nella comunicazione dei magistrati sui social network: “Non è competenza del Consiglio”. L’attuale Consiglio superiore della magistratura continua a contraddistinguersi per la scarsa attenzione nei confronti di tutto ciò che mette in discussione il prestigio delle toghe agli occhi dei cittadini. Nulla di nuovo. Ancora una volta, seguendo una tradizione ben consolidata in questi anni, il Csm ha preferito infatti nascondere il problema sotto il tappeto invece di trovare una soluzione”, dichiara al Riformista Pierantonio Zanettin, ex componente laico del Csm e attuale capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera. Per comprendere il motivo dell’amarezza di Zanettin è necessario tornare indietro di oltre cinque anni, alla primavera del 2017 per l’esattezza. All’epoca, dopo l’ennesima esternazione di un magistrato sui social, Zanettin aveva chiesto al comitato di presidenza del Csm l’apertura di una pratica per “individuare delle linee guida volte a garantire che la comunicazione sui social da parte dei magistrati avvenga nel rispetto dei principi deontologici e con forme modalità tali da non arrecare pregiudizio alla credibilità della funzione”. In quel periodo, prima dello scoppio del Palamaragate che ha annichilito le toghe, i magistrati erano infatti scatenati sui social. C’erano stati ‘sfoghi’ clamorosi che uno non si sarebbe mai aspettato da un magistrato. Il gip del tribunale di Trieste Giorgio Nicoli, ad esempio, aveva definito l’allora governatrice del Friuli Debora Serracchiani (Pd) “inconsistente e supponente” e “un errore della storia”. Il pm di Trani Marco Ruggiero, dopo essersi presentato in aula con la cravatta tricolore, aveva esternato la propria amarezza per essere stato lasciato solo dallo Stato nel processo agenzie di rating, finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il post era stato anche ripreso dal blog delle stelle ed era diventato virale. “È incredibile quanto si possa sentire soli a fare il proprio dovere”, si leggeva nell’incipit prima che alcuni esponenti del Movimento, ad iniziare da Luigi Di Maio, decidessero di seguire Mario Draghi, il banchiere per eccellenza. Il presidente del Tribunale di Bologna Francesco Caruso, poi, addirittura aveva paragonato chi votò Si al referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi a coloro che aderirono alla Repubblica di Salò. Senza considerare casi ‘trash’ come quello della pm di Imperia Barbara Bresci, titolare dell’ine chiesta sull’esplosione di una villetta di Sanremo nella quale alloggiava Gabriel Garko, incidente che costò la vita alla proprietaria dell’immobile. La magistrata si era lasciata andare ad apprezzamenti adolescenziali. “Era bello? L’hai guardato anche per me?”, le chiedeva un’amica. E Bresci: “Eccome...”. Un’altra: “ti sei rifatta gli occhi?” E di nuovo la risposta positiva “Sì”, prendendone poi le difese con un appassionato intervento quando sui media si diffuse l’immancabile gossip sull’omosessualità dell’attore. Per Zanettin, in considerazione di questa ‘incontinenza’ social, da parte del Csm era indispensabile “un “solenne intervento” per richiamare i magistrati italiani a canoni di maggiore prudenza, sobrietà e riservatezza nell’uso dei social network e piattaforme digitali in genere, nel rispetto della libertà di pensiero”. Nel Plenum di questa settimana, l’ultimo prima della pausa estiva, il Csm, invece del “solenne intervento”, ha deciso di archiviare direttamente la pratica. Dopo cinque anni e perché l’argomento non sarebbe di sua “competenza”. Eppure anche l’ex numero uno dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte, si era speso al riguardo, affermando che “è opportuno per i magistrati del training sull’uso dei social network”. “Mi sarei aspettato di tutto da parte di questo Csm ma non una simile pietra tombale”, ha aggiunto uno sconsolato Zanettin. Ma a che servono le riforme se i tribunali sono “infrequentabili”? di Francesca Sorbi* Il Dubbio, 27 luglio 2022 Il caso emblematico di Monza, sesta sede giudiziaria d’Italia per bacino d’utenza: organico scoperto per il 30% e uffici dislocati in 10 immobili diversi: così tutelare i cittadini è un’utopia. La domanda che impegna gli operatori del settore giustizia dopo la caduta del Governo Draghi è che cosa accadrà dei decreti attuativi delle leggi delega in materia di giustizia, avendo ben presente - non foss’altro perché in Europa ci è stato ribadito e ribadito ancora - che le rimesse del PNRR dipendono dalla realizzazione delle riforme. Sul fronte della giustizia civile - con le positive eccezioni degli interventi nell’ambito del diritto di famiglia e delle ADR - Il Consiglio Nazionale Forense ha più volte denunciato che a nulla serve intervenire sulle regole del processo per accelerare la definizione delle liti, se non ci si preoccupa di potenziare strutture e personale, dotando le varie Corti di sedi, strumenti e risorse per svolgere il lavoro dignitosamente, coordinando interventi ed iniziative in modo coerente. Al lettore l’osservazione non può che risultare banale: come altrimenti si dovrebbe affrontare la gestione del lavoro? Peccato che non lo sia per chi ha il potere di assumere decisioni. Paradigmatica la situazione del sesto Tribunale d’Italia per bacino di utenza - oltre 1.000.000 di cittadini, 80.000 imprese - da cui proviene chi scrive: Monza, capoluogo della provincia più industrializzata del Paese, il cui declino in termini di efficienza sembra divenuto inesorabile nella apatia delle Istituzioni governative e della politica nazionale. Il tema delle risorse umane e della carenza di personale amministrativo (oggi l’organico è a - 29% tra cui il Dirigente e ben 19 Cancellieri) si intreccia con quello della sede degli uffici giudiziari, ormai dislocati in dieci - DIECI !!!- immobili distinti tra città e dintorni i quali, considerati come soluzioni temporanee, neppure vengono manutenuti tant’è che le condizioni ambientali di lavoro sono divenute intollerabili, al punto che la carenza di organico è ormai endemica persino sul fronte magistratura, dove ha raggiunto una scopertura superiore al 30%. E questo dato va letto insieme al breve periodo di permanenza nella sede da parte del personale dopo l’assegnazione. Insomma, un vero “fuggi fuggi”. Eppure Avvocatura e Magistratura locali hanno proposto molte soluzioni logistiche, sono stati elaborati almeno tre progetti edilizi giunti al dettaglio della suddivisione di spazi, altrettante le valutazioni economiche, è stato compiuto un lavoro propositivo immenso da parte degli operatori locali, sostenuto e coadiuvato dal Consiglio Nazionale Forense nelle interlocuzioni con gli uffici ministeriali, per i quali la soluzione è sempre prossima, addirittura ad un passo, almeno da quando è stata soppressa nel 2012 la sezione distaccata di Desio, che da sola sbrigava un quarto degli affari complessivi di Monza ed il cui carico di lavoro è stato riversato sulla sede principale. Due sono i punti da tener presente: il denaro e il tempo per ristrutturare, bonificare, rendere fruibili spazi vetusti o quelli per rilevare strutture già idonee “chiavi in mano”, in modo da non accumulare altri ritardi in una situazione già insostenibile. In questa prospettiva il Presidente del COA Avv. Vittorio Sala caldeggia il sì definitivo per l’acquisto di un edificio pronto ad ospitare l’intero settore civile, abbandonando l’ipotesi di recuperare un bene demaniale abbandonato da oltre dieci anni e sottodimensionato rispetto alle esigenze di spazi, e sottolinea come i costi di recupero stimati pari a 16 milioni di euro, siano oltre il doppio di quelli necessari per la soluzione immediatamente percorribile. Al di là della personale amarezza nel veder precipitare in fondo alle classifiche di efficienza un ufficio che sedeva nei primi venti posti, sovviene l’angoscia di veder coinvolti nella rovina la professionalità degli avvocati che a quell’ufficio rivolgono le istanze degli assistiti, costretti a giustificare rinvii annuali ed a difendersi dal becero detto causa che pende causa che rende, così come la reputazione dei magistrati che subiscono l’onta di non lavorare abbastanza. Ma soprattutto i diritti di cittadini ed imprenditori in attesa di tutela, con tutti le conseguenti ricadute sul tessuto sociale ed economico del territorio. Chi potrebbe mai pensare che in un territorio così fertile di attività produttive non vi sia alcuna considerazione per lo stato del sistema giudiziario? Si tratta di un quadro che ha numerosissime versioni nel territorio nazionale, come illustrato nei vari articoli di questo giornale dedicati al viaggio tra i Consigli dell’Ordine per tutto lo stivale. E per ogni situazione il Consiglio Nazionale Forense, con la Presidenza ed i Consiglieri di ciascun distretto interessato, si è fatto portatore di denunce, istanze, proposte, ponendosi quale testa di ponte nelle scelte strategiche per il funzionamento del sistema giudiziario, forte della piena consapevolezza dei problemi concreti in cui ogni singola realtà si dibatte. Eppure anche in questa situazione la voce dell’Avvocatura, finanche quella istituzionale, viene relegata al ruolo di Cassandra del 21° secolo. Vi è da sperare che l’impegno profuso dapprima per delineare i contenuti delle deleghe per attuare le riforme nel settore giustizia, e poi per definire il contenuto dei decreti, non vada disperso dalla crisi istituzionale e trovi sbocco nel percorso deliberativo che dovrebbe rientrare tra gli affari correnti al cui disbrigo il Governo uscente può attendere. Sarebbe tuttavia di conforto - oltre che indispensabile per la funzionalità degli interventi, ricevere prova concreta della capacità di ascolto di chi conosce le situazioni reali, e della reale volontà di cominciare l’opera di ripresa e resilienza affrontandole concretamente e tempestivamente. *Consigliere Cnf Firenze. “A Sollicciano diritti calpestati”, l’esposto di trecento detenuti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 27 luglio 2022 In Procura una lettera di 23 pagine: “Condizioni siano adeguate, oppure si chiuda”. Un esposto alla Procura della Repubblica per denunciare “le condizioni drammatiche” all’interno del carcere di Sollicciano e chiedere di valutare se si possano ravvisare comportamenti illeciti nella gestione della popolazione carceraria. A firmare l’esposto sono circa trecento detenuti del penitenziario fiorentino che, carta e penna, hanno scritto una lettera di ventitré pagine in cui passano in rassegna i maggiori problemi dell’istituto. “Chiediamo sia aperta un’inchiesta sulle carenze di Sollicciano - scrivono i reclusi in stampatello. Quando noi non rispettiamo le leggi veniamo puniti, dovrebbe valere altrettanto per coloro che hanno la responsabilità della gestione del carcere, dove avvengono torture psicologiche, maltrattamenti, abusi di potere, regolamenti calpestati. Chiediamo che le condizioni di detenzione all’interno del carcere siano adeguate ai regolamenti vigenti, in caso contrario Sollicciano deve essere chiuso”. Nella lunga missiva, i reclusi elencano e raccontano quelle che secondo loro sarebbero le violazioni al decreto del presidente della Repubblica numero 230 del 2000, ovvero il regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà. “Viviamo in luoghi inadeguati” è scritto nella lettera, luoghi dove si aggirano “topi e scarafaggi nelle sezioni, cimici e insetti nei letti, docce dove funghi e parassiti fanno ammalare, le celle sono piene di infiltrazioni che provocano muffe”. Raccontano i reclusi che nelle ore buie non ci sarebbe luce in parte delle sezioni del carcere. Per questo ci sono “detenuti che mangiano senza luci, detenuti che vivono in celle con cavi scoperti e il rischio di rimanere fulminati”. I carcerati lamentano anche la mancanza delle docce in cella e talvolta anche dell’acqua calda. E poi le condizioni del materiale a disposizione per dormire. “All’arrivo in carcere vengono fornite due lenzuola pulite e una coperta, polverosa, bucata e dall’odore sgradevole, i cuscini sono spesso strappati e non ignifughi, i materassi sono già pieni di cimici”. Tra i punti maggiormente critici c’è poi la carenza di attività sociali e sportive e soprattutto di quelle lavorative: “Nel mese di maggio hanno lavorato cinquantanove detenuti su circa seicento. Le attività alternative al lavoro sono solo il catechismo (trenta persone), l’attività teatrale (venti), l’attività musicale (dieci)”. I circa trecento detenuti firmatari hanno la sensazione che “in questo carcere si lavori con l’obiettivo di portarci a fine pena così come siamo entrati, senza progetti di reinserimento” e per questo “al momento dell’uscita non mancano le catastrofi” e la recidiva è alta. Senza giri di parole, i firmatari sostengono che le condizioni di questo carcere sono da terzo mondo: “Sovraffollamento, sporcizia, inedia, quando non addirittura violenza vera e propria, e poi suicidi, tentati suicidi, autolesionismo”. La lettera dei detenuti è il tentativo di riaccendere i riflettori su una piaga cittadina mai sanata. E sempre sul tema Sollicciano, nei giorni scorsi le sigle sindacali degli agenti penitenziari hanno incontrato il prefetto per chiedere un’ispezione sulle condizioni di vita nel penitenziario da parte del ministero della Giustizia. “Il signor prefetto - scrivono i sindacati - ci ha rassicurato, impegnandosi ovviamente per quanto nelle sue facoltà, di rappresentare le nostre istanze ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. Abbiamo ribadito la necessità che venga avviata un’attività ispettiva sulla gestione della struttura cosa questa che ci auguriamo avvenga al più presto”. Viste le “criticità irrisolte” di Sollicciano, gli agenti hanno deciso di mantenere “lo stato di agitazione di tutto il personale”. Benevento. Sos dal carcere: “Manca il personale medico” Il Mattino, 27 luglio 2022 Nei giorni scorsi, la direzione della Casa circondariale di Benevento ha inoltrato una lunga missiva al garante regionale dei detenuti, nella quale segnala la carenza di personale medico all’interno dell’istituto di pena. Il garante campano, Samuele Ciambriello ha scritto subito al direttore generale dell’Asl, Gennaro Volpe, al nuovo direttore generale del Rummo Maria Morgante e al direttore sanitario del carcere, per chiedere interventi immediati per risolvere le criticità esistenti. “I fatti di cui sono stato messo a conoscenza dalla direzione del carcere scrive Ciambriello in una nota - sono, a mio avviso, gravissimi. Ritengo che tale questione debba essere affrontata con tempestività perché non è accettabile che nella struttura penitenziaria non ci siano medici e che il diritto alla salute e alla cura sia messo a rischio. Tutto questo, è evidente, crea un clima all’interno della struttura che desta preoccupazione. Nella lettera, dove ribadisco che il diritto alla salute non può essere compresso per ragioni organizzative, propongo l’istituzione di un tavolo di confronto per discutere di tale questione e della possibilità di riservare dei posti di degenza nell’ospedale di Benevento ai detenuti, anche perché è la sola provincia in cui non esiste un reparto ospedaliero per chi è privato della libertà personale. Siamo tutti consapevoli della carenza di organico che affligge la sanità campana che, inevitabilmente, si riflette sulla realtà penitenziaria. Per questo, ritengo sia di vitale importanza instaurare una collaborazione proficua, unica strada da percorrere per superare anche gli ostacoli più insormontabili”. La vicenda della carenza di medici nel carcere di contrada Capodimonte era stata già evidenziata, nei giorni scorsi, dagli infermieri che prestano servizio nell’istituto di pena ma, al momento, non ci sono state risposte al riguardo dall’azienda sanitaria e dall’ospedale cittadino dove non c’è ancora stato l’avvicendamento dei direttori generali, previsto per il 9 agosto. Ovviamente, la Morgante potrà occuparsi della vicenda quando prenderà in mano le redini dell’azienda ospedaliera. Per quanto riguarda l’Asl, c’è un provvedimento dei giorni scorsi che prevede l’immissione in servizio di quattro medici della continuità assistenziale da destinare al carcere, a far data da lunedì della prossima settimana. Quindi, il problema dovrebbe essere parzialmente risolto perché quattro medici dovrebbero essere sufficienti a garantire il servizio di guardia medica anche se, con molta probabilità, le carenze riguardano soprattutto gli specialisti che scarseggiano per motivi di disponibilità, e il servizio di psichiatria che dovrebbe essere potenziato. Sul fronte Covid, si conferma il trend in calo della curva pandemica ma, la conferma su un’effettiva eventuale regressione del virus sarà possibile averla nei prossimi giorni. I nuovi contagi emersi dal bollettino quotidiano della Protezione civile sono 109, non fedelissimi alla realtà, in quanto frutto di una scarsa attività di testing nel weekend. Giornata di tregua al Rummo dove si registra solo un nuovo ingresso in area Covid che fa salire a 38 il numero dei pazienti in degenza. Tuttavia, secondo gli esperti, il picco della pandemia è in fase di superamento perché, tra due settimane al massimo, la discesa dei casi dovrebbe consolidarsi anche se, con molta probabilità, non si arriverà al loro azzeramento, com’è accaduto l’estate scorsa. La fondazione Gimbe riferisce che, il 14 luglio l’ondata aveva raggiunto il numero più alto di contagi in 7 giorni, con 97.924 casi, oggi scesi a 73.458. Sono 220 le quarte dosi somministrate tra l’hub dell’ex caserma Pepicelli e la sede distrettuale di Morcone. Intanto, il deputato Pasquale Maglione interviene per accendere i riflettori sui disagi dell’ospedale di Sant’Agata de’ Goti. “Faccio mio scrive in una nota il grido di allarme del Movimento civico per sottoporre, appena possibile, le criticità all’attenzione del nuovo dirigente dell’azienda ospedaliera Maria Morgante”. Torino. Protesta dei detenuti, manca l’acqua nel carcere lavocetorino.it, 27 luglio 2022 Protesta dei detenuti la scorsa notte al carcere Lorusso e Cotugno di Torino, dove un’intera sezione si è rifiutata di rientrare in cella fino alle 23 per problemi riconducibili alla mancata erogazione dell’acqua dovuto a un disguido tecnico. Nei giorni scorsi inoltre è stato inviato a Torino un detenuto con 41bis per osservazione psichiatrica, nonostante il carcere del capoluogo torinese sia “fuori dal circuito del regime carcerario rigoroso”, denunciano in una nota congiunta i sindacati della polizia penitenziaria Sappe, Osapp, Sinappe, Uil Pa Pp, Fns Cisl e Cgil Pp. “Il detenuto - proseguono - ha creato non pochi problemi di gestione interna tanto che, nei giorni scorsi, si è reso anche protagonista di un’aggressione in danno di un agente della polizia penitenziaria”. L’agente è dovuto ricorrere alle cure del Pronto Soccorso con alcuni punti di sutura all’occhio. Problemi anche per far rientrare il detenuto in cella, dove sta provocando anche problemi di gestione interna. “Rivolgiamo un accorato appello alle autorità affinché, ognuno per la propria parte di competenza, intervengano in aiuto della polizia penitenziaria, oramai allo stremo delle forze”, concludono. Albenga (Sv). Morì a 33 anni nella caserma dei Carabinieri, per il Gip non ci sono colpevoli di Giò Barbera La Stampa, 27 luglio 2022 A scrivere la parola fine è stato il giudice Emilio Fois che ha deciso di archiviare la storia della morte di Emanuele Scalabrin (a carico di ignoti), il trentatreenne albenganese trovato senza vita a dicembre del 2020, in una cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga, dopo essere stato arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti I risultati dell’autopsia, ma anche le dichiarazioni non riscontrate di un detenuto e della compagna di Scalabrin che sostenevano come l’uomo fosse stato malmenato dai militari, hanno indirizzato il giudice a chiudere il caso. Resta aperta, ed è pendente presso la procura di Imperia, la vicenda per calunnia nei confronti di un detenuto e della compagna di Scalabrin. A chiamare in causa i due sono stati 11 carabinieri che si sono rivolti all’avvocato Antonio Marino, già noto per le sue battaglie legali contro il clan Spada di Ostia, e in questo caso intervenuto a difendere i militari che avevano partecipato all’arresto dell’uomo, al trasferimento nella cella di sicurezza della caserma e alla sua vigilanza. Già ad aprile dell’anno scorso il medico legale incaricato dalla procura aveva dichiarato che Scalabrin era morto per problemi cardiaci forse provocato anche dall’uso di sostanze stupefacenti. Si è trattato dunque di una morte naturale con il medico legale che aveva escluso lesioni da percosse o da fatti riconducibili ad azioni violente. I tossicologici avrebbero inoltre escluso problematiche legate alla somministrazione della dose di metadone da parte dei medici dell’ospedale Santa Corona dove era stato trasportato la notte prima del decesso proprio in preda ad una crisi di astinenza. Già il sostituto procuratore Chiara Venturi, che aveva coordinato insieme alla collega Elisa Milocco l’inchiesta per omicidio colposo, aveva deciso di chiedere l’archiviazione alla quale però si erano opposti i familiari di Scalabrin. Ma i militari che erano stati accusati di aver percosso l’uomo, a loro volta, avevano giocato la carta della difesa con una querela per calunnia nei confronti di un detenuto e della compagna di Scalabrin. “Da parte mia - sottolinea l’avvocato Antonio Marino- non posso che esprimere soddisfazione per come si è conclusa la vicenda che ha generato a catena enormi problemi alla caserma dei carabinieri di Albenga. Ma anche esprimere un laconico commento per l’ennesimo episodio di giustizia mediatica a cui abbiamo assistito. Il caso Cucchi, al quale va il mio massimo rispetto, non può diventare il paradigma di riferimento di qualsiasi circostanza che coinvolga le forze dell’ordine nell’esercizio del proprio operato. Va sempre lasciato il doveroso spazio alle indagini senza un pregiudizio cavalcato troppo facilmente dai media. Noto una pericolosa saldatura tra un clima generale di affievolito rispetto per le istituzioni e la sommarietà con cui viene esercitato il nobile esercizio della pubblica informazione”. Viterbo. Le farine dell’O.R.T.O: nuovi “prodotti dal carcere” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 27 luglio 2022 Quattro new entry arrivano nel catalogo degli “articoli artigianali, creazioni e prodotti agricoli curati dai detenuti”. Si tratta di farine integrali prodotte nel carcere di Viterbo che a seguito dei progetti - conclusi o ancora in corso - che hanno permesso di formare e inserire persone private della libertà in un ciclo di lavorazione che comprende, oltre alla produzione, anche la trasformazione delle materie prime. In particolare, si tratta di farine di ceci, di cereali, di grano duro e tenero e di riso rosso. Grazie alla Cooperativa sociale agricola O.R.T.O., impegnata in formazione e inserimento di persone disagiate nel settore dell’agricoltura multifunzionale, nella casa circondariale di Viterbo ci sono la serra e il tenimento agricolo, per la produzione, mentre il laboratorio, dove viene trasformata la materia prima e si procede al confezionamento, é in Strada Santissimo Salvatore 14. Inoltre, il raggio di azione della cooperativa si sta allargando con una rete di partenariati a livello locale e regionale, e una distribuzione dei prodotti che comprende alcuni punti vendita a Viterbo e Roma. Tramite l’e-commerce di Economia Carceraria, i prodotti della gamma ‘Oltre l’orto’ possono essere acquistati in tutta Italia. Oltre le mura del carcere la cooperativa, inoltre, ha spazi polifunzionali dove ospita attività di formazione volte all’inserimento lavorativo e al reinserimento sociale di persone svantaggiate, occasioni divulgative, educative e di socialità per la rigenerazione del territorio, la vendita delle produzioni di aromatiche, officinali e dei prodotti della gamma ‘Oltre l’orto’. Terzo Settore, Pallucchi: “Senza pacchetto fiscale la riforma rischia di fallire” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 27 luglio 2022 Appello della portavoce del Forum in una lettera sottoscritta dalle associazioni di promozione sociale e di volontariato. “Vanno tutelate le realtà sociali dalle dinamiche elettorali”. “Servono norme fiscali giuste o scompariremo”. Con queste parole Vanessa Pallucchi, portavoce del Terzo Settore, ha sollecitato a lungo una riforma adeguata, ormai inderogabile. Poi il decreto Semplificazione (definito una “buona notizia”) ha aperto uno spiraglio di speranza dopo anni di attese. Ma quello che ieri era un appello - frutto di un forte preoccupazione -, oggi è diventato un grido d’allarme, con la caduta del governo Draghi. “Se non venisse approvato l’emendamento al decreto Semplificazioni che disciplina la fiscalità degli enti di Terzo settore, l’intero impianto della riforma iniziata ormai 5 anni fa rischierebbe di fallire. È uno scenario che va scongiurato a ogni costo”, ammonisce Pallucchi in una lettera sottoscritta dal lungo elenco di realtà sociali che ancora una volta vedono in pericolo il loro futuro. Questa incertezza (“paradossale”) delle norme fiscali, a cui gli enti devono essere assoggettati, crea una grave precarietà per le associazioni di promozione sociale e di volontariato. Da qui l’ennesimo appello alle forze politiche, in vista della prossima campagna elettorale: “A tutte le forze politiche. Perché non deve essere dimenticata, in questa fase ormai pre-elettorale, l’importanza del Terzo settore per la coesione sociale e lo sviluppo economico del Paese, da questa norma dipende buona parte della sua sorte”. I venti della crisi estiva dei palazzi romani hanno accresciuto il rischio che l’intero meccanismo, dopo tante promesse e speranze, si inceppi. “Il testo sulla normativa fiscale per il Terzo settore - continua la Portavoce del Forum -,cui si è giunti dopo lunghi mesi di confronto, è parte determinante del successo della riforma del Terzo settore e il Dl Semplificazioni potrebbe essere l’ultima occasione in questa legislatura per la conclusione di un percorso che migliaia di realtà sociali - associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative e imprese sociali - ad oggi in grave difficoltà, attendono da anni. Se non si sostiene adeguatamente il Terzo settore, l’economia e il tessuto sociale di questo Paese saranno inevitabilmente indeboliti - conclude Pallucchi -. Non si possono fare passi falsi, lasciamo fuori il Terzo settore dalle dinamiche della imminente campagna elettorale”. Fridays, seminate utopie raccoglierete realtà di Carlo Petrini La Stampa, 27 luglio 2022 Ho incontrato i Fridays for Future al loro meeting europeo al Campus Einaudi, e sono convinto che la vivacità di questo movimento, malgrado abbia attraversato il periodo pandemico, sia la vera novità dal punto di vista politico degli ultimi quattro anni. Sono convinto che la serietà con la quale i ragazzi e le ragazze del movimento affrontano questi temi sia da guardare con molta attenzione: loro si impegnano nello studio e soprattutto applicano il proprio vissuto con comportamenti virtuosi. Il mio augurio è che i Fridays possano diventare protagonisti sulla scena politica, non solo italiana ma mondiale, e adesso sono pronti a farlo, è arrivato il momento. È nella natura delle cose che le giovani generazioni si affaccino prima o dopo alla politica, e anche quella più classica, quella che vive rispetto all’elettorato e pensa ogni volta alla prossima elezione, a settembre dovrà fare i conti con loro e con le loro domande. È giusto che i giovani attivisti sognino di cambiare il mondo, ed è bello che alla loro età abbiano visioni anche utopiche. Chi semina visioni e utopie raccoglie realtà. Purtroppo oggi la reazione del mondo politico è invece fortemente inadeguata all’emergenza del clima che stiamo attraversando. La politica dovrebbe ispirarsi al movimento ambientalista, cambiare atteggiamento, avviare comportamenti virtuosi. Ma non lo fa. E non lo fa neanche il mondo produttivo, che non modifica il modo di coltivare, produrre, trasportare, distribuire. Sono sconcertato perché avverto che stiamo entrando in un periodo di irreversibilità sul fronte climatico e sarà difficile invertire la rotta perché non sono in atto comportamenti adeguati e incisivi. È già tardi per agire e salvare il nostro pianeta, ma i giovani guardano nella direzione giusta. Io faccio parte di un movimento associativo, Slow Food, sensibile alle battaglie dei Fridays, e secondo me oggi è il tempo in cui la società civile deve prendere iniziative indipendentemente dalla politica. Da decenni assistiamo a incontri delle governance internazionali dove a tante parole non fanno seguito azioni decise e quei pochi impegni, di circostanza, presi vengono poi puntualmente disattesi. Bisogna passare all’azione, supplire all’assenza della politica e adottare comportamenti virtuosi che possano rigenerare quel nostro modo di stare al mondo che non è più praticabile. Cosa possiamo fare? Mettere in pratica azioni quotidiane come la riduzione del consumo di carne e degli sprechi, evitando la plastica monouso. Sono comportamenti che all’apparenza possono sembrare irrilevanti ma assumono un’importanza impressionante nella misura in cui vengono adottati da milioni di persone. In questa fase storica questa è la vera politica. E la vediamo al raduno dei Fridays, che anche senza Greta Thunberg hanno imparato a camminare con le loro gambe. Greta è stata per loro un elemento importante perché ha catalizzato l’interesse, ma c’è una moltitudine di giovani che superano anche i confini nazionali, e che continuano a crescere contando sulle proprie forze. Anche la rete di Terra Madre è molto vicina a queste istanze, e per questo vogliamo partecipare allo sciopero dei Fridays del 23 settembre: immagino una manifestazione in cui anche i delegati di Terra Madre provenienti da tutto il mondo apporteranno il loro contributo. D’altronde il sistema alimentare ha questo duplice ruolo di fautore e vittima del cambiamento climatico, soprattutto ai danni dei più umili della terra che molto spesso coincidono con chi il nostro cibo lo produce. E bene che il movimento dei Fridays sia sensibile anche a queste tematiche perché in un pianeta pulito e sano anche il cibo che mangiamo è migliore. Diritto d’asilo, per i migranti in coda alla questura scatta il daspo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 luglio 2022 A Milano sanzioni di 100 euro per “bivacco” a chi resta in fila per interi giorni nel tentativo di presentare domanda di protezione internazionale. Alla questura di Milano, a via Cagni, viene ostacolato l’accesso al diritto di asilo. A denunciarlo già sei mesi fa è stata l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Ma ad oggi la situazione è addirittura peggiorata. Assenza di interpreti, meno di 10 procedure al giorno, mancanza di un sistema di prenotazione. Nel contempo, come se non bastasse, le persone costrette in coda anche per giorni - e notti - vengono sanzionate per bivacco. Non solo con una multa di 100 euro, ma anche con l’applicazione del daspo urbano. Code e attese infinite: l’accesso alle domande d’asilo è una corsa ad ostacoli - Secondo l’associazione, tale sanzione, oltre ad essere illegittima, ha l’effetto di scoraggiare ulteriormente lo straniero che intende presentare domanda di protezione internazionale. Nella lettera inviata alla questura il 26 novembre 2021, l’Asgi e l’associazione Naga lamentavano in particolare che l’accesso fosse consentito unicamente a una decina di persone al giorno e che spesso fosse negato per assenza di interpreti. Si richiedeva quindi alla questura di Milano di rilasciare direttamente a chi si presenta in via Cagni un appuntamento, entro un termine ragionevole e nel rispetto delle tempistiche prescritte dalla vigente normativa, per la presentazione della domanda di protezione, oppure di rilasciarlo - come opzione alternativa e non esclusiva - su richiesta inviata ad esempio a mezzo email o pec, al pari di quanto avviene in territori di competenza di altre questure lombarde. In risposta a tali richieste, la questura aveva reso pubblico sul sito istituzionale il calendario della presenza degli interpreti (tutt’oggi pubblicato ma riferito solo al mese corrente); aveva al contrario affermato l’impossibilità di concedere appuntamenti e la conseguente necessità che i richiedenti accedessero personalmente, quindi dopo diverse ore (spesso giorni e notti) di coda, come anche accaduto a persone con situazioni specifiche di vulnerabilità (pur segnalate alla stessa Questura tramite i legali). Ma oggi, a distanza di sei mesi dalla segnalazione, la situazione è addirittura peggiorata. Gli ingressi sono contingentati a meno di dieci persone al giorno e i richiedenti sono costretti a restare in coda anche per settimane. Asgi e Naga ribadiscono che le difficoltà nell’accesso alla domanda di protezione internazionale, che si traduce spesso nell’impossibilità di fatto di presentarla, costituisce una grave violazione delle norme europee ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Il decreto legislativo n. 25 del 2008 infatti sottolinea l’importanza di un tempestivo accoglimento della manifestazione della volontà di richiedere protezione internazionale e prescrive a tal fine dei precisi termini. L’Asgi sottolinea che la formalizzazione dell’istanza di protezione internazionale è un adempimento indispensabile non solo per l’autorizzazione alla permanenza sul territorio ma di fatto, sebbene la norma preveda diversamente, anche per l’accesso alle misure di accoglienza per richiedenti asilo previste dal decreto legislativo n.142 del 2015. Il ritardo nell’avvio della procedura, quindi, comporta non solo il disagio di code interminabili ma anche il protrarsi di situazioni di grave indigenza. A ciò si aggiunge il daspo. Daspo più sanzioni di 100 euro: migranti accusati di “bivaccare” - Nelle scorse settimane, infatti, si sono verificati alcuni episodi che hanno reso la situazione ancora più allarmante. Gli stessi agenti della Questura di Milano hanno notificato a diversi stranieri che si trovavano in coda avanti agli uffici di via Cagni degli ordini di allontanamento ai sensi degli articoli 9 e 10 del decreto legge n. 14 del 2017 convertito con modificazioni in legge n.48 del 2017. I provvedimenti risultano così motivati: “bivaccava unitamente ad altre numerose persone con masserizie tra cui materassi ed effetti personali impedendo la libera fruizione dell’area verde pubblica”. Gli ordini di allontanamento si accompagnano a sanzioni di 100,00 euro per le violazioni contestate. Il primo comma dell’articolo 9 di cui sopra, rubricato “Misure a tutela del decoro di particolari luoghi”, dispone che “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300”. Il terzo comma prevede poi la possibilità per i regolamenti di polizia municipale di prescrivere l’applicabilità del divieto e della relativa sanzione a luoghi diversi da quelli indicati, quali le aree adibite a verde pubblico. Così fa il regolamento di polizia urbana del Comune di Milano all’articolo 135, richiamato dalla Questura. La denuncia delle associazioni: “Daspo illegittimo” - Ma secondo l’Asgi e il Naga, il Daspo è illegittimo e ha l’effetto di scoraggiare ancora di più lo straniero che intende presentare domanda di protezione internazionale. “Provvedimenti illegittimi - denunciano le associazioni - non solo perché emessi in violazione delle minime garanzie procedurali (non sono tradotti né danno atto della presenza di un interprete al momento della comunicazione) ma anche perché la condotta dei richiedenti asilo in coda avanti agli uffici della Questura non configura in alcun modo un danno al decoro delle aree adibite al verde pubblico, né tantomeno ne impedisce l’accesso e la fruizione come invece prescrive la norma”. Si tratta, in effetti, di un comportamento reso necessario delle inadempienze e dai disservizi già ampiamente denunciati per esercitare un diritto fondamentale garantito da norme costituzionali e sovranazionali. Oltre al paradosso di una situazione in cui le persone in attesa in coda al fine di richiedere la protezione internazionale hanno avuto accesso agli uffici della Questura per vedersi consegnare un provvedimento sanzionatorio mentre è stato loro negato l’accesso agli stessi uffici al fine di esercitare i loro diritti fondamentali, l’Asgi e Naga aggiungono che “preme rilevare la gravità e la pericolosità del comportamento della pubblica amministrazione che ha certamente l’effetto di scoraggiare ulteriormente lo straniero che intenda richiedere la protezione internazionale”. Il risultato è questo: al migrante che vuole richiedere il diritto d’asilo si prospetta non solo il disagio di una fila di giorni con l’incertezza del riuscire ad accedere agli uffici per presentare finalmente la domanda, ma anche il rischio di vedersi sanzionare per il tentativo. La misura del Daspo Urbano introdotta dal decreto legge n. 14 del 2017 diventa così una sanzione discriminatoria, strumentalmente motivata da ragioni di sicurezza ma finalizzata in realtà a colpire e ulteriormente aggravare situazioni di disagio e vulnerabilità. L’appello al sindaco Sala - Alla luce di tutto ciò che è emerso, Asgi e Naga chiedono che il Sindaco del Comune di Milano intervenga in quanto titolare del potere sanzionatorio non soltanto annullando i daspo e le sanzioni già emesse, ma altresì escludendo espressamente dall’ambito di applicazione delle norme sanzionatorie lo spazio urbano in prossimità degli uffici di via Cagni. Nel contempo, alla Questura si chiede di modificare le modalità di accesso agli uffici in modo da rimuovere gli ostacoli ad una formalizzazione tempestiva delle richieste di protezione internazionale e quindi a garantire l’accesso in condizioni di sicurezza e dignità alla procedura conformemente a quanto disposto dalla normativa europea e nazionale. La sinistra, i migranti e il modello Riace di Luigi Manconi La Repubblica, 27 luglio 2022 Non erano passate ancora ventiquattr’ore dalla formalizzazione della crisi di governo, che già si poteva cogliere un segnale inequivocabile di quali saranno temi e toni della campagna elettorale. La questione dell’immigrazione è stata trascinata a forza all’interno del dibattito politico ed è certo che sarà una delle principali risorse elettorali del centro-destra. Se, come è indubbio, l’immigrazione rappresenterà un cavallo di battaglia privilegiato di sovranisti e xenofobi, quale sarà in proposito l’atteggiamento del centro-sinistra? Se decidesse di subire - come troppo spesso è accaduto - l’offensiva reazionaria semplicemente rimuovendo il problema, occultandolo o differendolo, temo proprio che la sconfitta sarà inevitabile. Penso, al contrario, che il tema dell’immigrazione - che è economico, giuridico e sociale, oltre che di politica internazionale - vada assunto come un punto essenziale del programma di centro-sinistra, per il quale si dispone di strategie adeguate e politiche conseguenti. Ma serve anche un po’ di fantasia e di coraggio. Il 30 settembre del 2021, il Tribunale di Locri condannò l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, e i suoi collaboratori a una pena abnorme: 13 anni e 2 mesi di reclusione e una ingente sanzione pecuniaria. Vi fu, in Italia e all’estero, una estesa reazione dovuta al grande consenso che aveva ottenuto il cosiddetto “Modello Riace”: un progetto di accoglienza diffusa che valorizza le comunità locali, ridà energia e vitalità a territori in via di abbandono, crea reti di convivenza pacifica tra vecchi residenti e nuovi arrivati. Mentre si celebra il processo di appello, nel territorio di Riace continua l’attività di accoglienza che l’azione giudiziaria avrebbe voluto piegare: oltre quaranta persone già sono state ospitate e altre sono attese, tra profughi afghani, nigeriani, eritrei e di altre nazionalità. Serve denaro per la sistemazione degli alloggi, le vettovaglie, le attività di inserimento socioculturale che erano state brutalmente interrotte. Servono risorse ora, subito, nell’immediato. Per questo è stata promossa una raccolta di fondi, finalizzata al pagamento delle spese che richiede l’importante opera di accoglienza e integrazione in corso. Questa iniziativa non è altra cosa rispetto alla elaborazione di un programma sistematico, su base nazionale, per l’accoglienza e l’inclusione degli stranieri. Sostenere il “Modello Riace” significa dimostrare che una politica per l’immigrazione richiede, per un verso, la mobilitazione di risorse pubbliche in grado di governare con razionalità e intelligenza il fenomeno e, per altro verso, la partecipazione diretta dei cittadini: ovvero di tutti coloro che ritengono che gli stranieri regolari, inseriti in un contesto sociale e lavorativo, possano rappresentare un prezioso contributo per l’economia nazionale. E, di conseguenza, un importante fattore di sviluppo. Come a Riace. Migranti. “Espulsioni e più agenti”, Salvini e la campagna delle promesse a vuoto di Fabio Tonacci La Repubblica, 27 luglio 2022 Dall’impegno di rimpatriare 500mila migranti a quello di bloccare le navi Ong: il leghista torna a cercare voti sfruttando gli sbarchi, ma il suo piano fu un flop. Lampedusa - Volano gabbiani sul mare dove si sono inabissati i decreti sicurezza di Matteo Salvini. Passa un motoscafo con un gruppo di ragazzi in costume che ascolta l’ultima di Elodie a volume esagerato, sul molo commerciale di Lampedusa un rimorchio pieno di scaldabagni da smaltire aspetta di essere portato via. Fanno 36 gradi a mezzogiorno. Il mare è calmo, come lo era il 29 giugno di tre anni fa quando la Sea Watch di Carola Rackete con 40 naufraghi a bordo attraccò proprio qui, forzando il divieto dell’allora ministro dell’Interno. “Atto di guerra!”, tuonò lui, esultando per l’arresto della comandante. “La nave fuorilegge ha finito di andare in giro per il Mediterraneo”. Quella notte, invece, segnò l’inizio della fine della sua politica sull’immigrazione, l’esempio forse più clamoroso di un rosario di promesse securitarie propinate durante la campagna elettorale e, a conti fatti, mai mantenute. “Centomila espulsioni l’anno” - Salvini comincia presto, e col botto. Già a fine 2017, in visita al quartiere Sant’Elia di Cagliari, assicura che imprimerà ai rimpatri di chi non ha il permesso di soggiorno una svolta mai vista prima. “L’impegno del centrodestra deve essere quello di fare centomila espulsioni all’anno, mezzo milione di clandestini riportati al loro Paese in cinque anni: mezzo milione di persone che non scappano da guerre” (26 novembre 2017). Comizio dopo comizio, la cifra salirà a 600 mila. Farà inserire l’obiettivo anche nel Contratto di governo con i 5 Stelle. Ma il leader della Lega non sa, o finge di non sapere, che qualsiasi operazione di rimpatrio degli irregolari presenti sul territorio italiano non può prescindere da accordi bilaterali con i Paesi di provenienza. E non è esattamente una passeggiata convincere regimi, governi in guerra, stati in pieno collasso economico a riprendersi i propri cittadini. Alla fine del mandato al Viminale, i dati saranno impietosi: da giugno 2018 a giugno 2019 vengono rimpatriati 7.289 migranti, meno che con il governo Gentiloni (7.383) e neanche un decimo dei centomila annui con cui ha convinto gli elettori. L’unico accordo siglato nelle vesti di ministro in nome di quello slogan “aiutiamoli a casa loro” che tanto piace ai sovranisti è con la Costa d’Avorio. La vittoria delle Ong sul ministro - “Aumentare le espulsioni e ridurre gli sbarchi” (1 giugno 2018), ribadisce nel giorno del giuramento al Colle. “Per colpa della mia ossessione, gli sbarchi sono diminuiti” (15 agosto 2019), rivendicherà poi, dopo aver affossato il Conte I con la mossa del Papeete. Vediamo. Nel 2017, ministro dell’Interno Marco Minniti, gli arrivi via mare sono 119 mila. Nel 2018, 23 mila. Un crollo drastico, che Salvini si intesta e di cui si vanta. I dati scorporati mese per mese, tuttavia, dimostrano che il primo calo si ha a partire dal febbraio 2018, col ministro Pd: la sua politica di governo dei flussi migratori - accordi con le tribù libiche, costruzione della zona Search and rescue sotto la responsabilità di Tripoli, finanziamento della guardia costiera libica - provoca l’aspra reazione di ong, operatori umanitari e movimenti per i diritti umani ma dimezza gli sbarchi. Tanto che a maggio 2018, alla vigilia dell’esecutivo giallo-verde, sono 3.963 quando nello stesso mese dell’anno precedente avevano raggiunto quota 23 mila. Salvini, dunque, non fa altro che proseguire nel solco scavato dal predecessore. Porta a casa, però, i decreti sicurezza, ben due, che hanno tra le finalità l’opposizione alle imbarcazioni della solidarietà. “L’Italia ha già chiuso i suoi porti, le navi straniere in Italia non toccheranno più terra”, (30 giugno 2018). Continueranno invece ad attraccare, ma solo dopo inutili lungaggini per l’assegnazione del porto e pretestuosi ostracismi che porteranno all’apertura di diverse inchieste penali sull’ex ministro e al prolungamento delle sofferenze dei naufraghi a bordo. Fino al caso Rackete, scagionata da ogni accusa e liberata da giudice per le indagini preliminari di Agrigento con un provvedimento che fa a pezzi la norma sovranista. “Il decreto sicurezza bis non si può applicare alle azioni di salvataggio”, “Rackete ha adempiuto al dovere di salvare la vita dei naufraghi”. Il dl è stato cancellato. “Assumo 10mila poliziotti”: ma il saldo finale è negativo - Prima della fine del Conte I, Salvini fa in tempo a deludere poliziotti e carabinieri, di cui indossa volentieri le felpe in pubblico. “Promettiamo un piano di assunzione straordinario nelle forze dell’ordine, per circa 10.000 uomini e donne” (3 ottobre 2018). Nella legge di bilancio 2019, si trova traccia di sole 7 mila assunzioni, spalmate in cinque anni (ma questo Salvini non lo dice) perché è inverosimile pensare che le scuole di polizia possano addestrare così tanti agenti in pochi mesi. E comunque, con le uscite per i pensionamenti, il saldo sarà negativo (Salvini non dice neanche questo). Il leader della Lega ha inaugurato la campagna elettorale per le Politiche ripartendo dal tema a lui più caro. “Basta immigrati, difenderò i confini”, torna a dire oggi, il déjà vu del 2017. Annuncia una visita il 4 agosto a Lampedusa, dove l’hotspot è in condizioni drammatiche. Troverà il molo della sua sconfitta. Il mare del naufragio delle sue promesse. E i gabbiani. Fake news e mezze verità, così la disinformazione sopprime i fatti di Alan Friedman La Stampa, 27 luglio 2022 La società occidentale è sempre più esposta a una continua propaganda populista. “Una prospettiva completa, o tutto il resto è desolazione”. È questa la massima con cui si apre Daniel Martin, il romanzo introspettivo e semi autobiografico pubblicato nel 1977 da John Fowles. “Una prospettiva completa, o tutto il resto è desolazione”. Desolazione, sì, perché con una prospettiva solo parziale non possiamo comprendere il contesto né del nostro universo né della nostra società. Senza una prospettiva completa siamo afflitti da una distorsione automatica e spesso miope della realtà, della fattualità. La nostra capacità di percepire quella che un tempo veniva chiamata realtà è pesantemente limitata. È come essere ciechi, in pratica. Il raggiungimento della “prospettiva completa”, nel romanzo di John Fowles, era incentrato sulla ricerca e sulla realizzazione di un quadro esistenziale. Sulla possibilità di recuperare ciò che era stato omesso, per caso o per un preciso disegno. Per omissione o per azione. Oggi, più che in qualsiasi altro periodo della storia recente, c’è bisogno di vedere con chiarezza, di parlare di un’informazione che sia basata su fatti documentati, e poi di comunicare con la più nuda trasparenza che il linguaggio possa garantirci. Oggi, nell’età dell’intelligenza artificiale e delle proxy-realtà alternative come il Metaverso, il peccato di omissione è mortale, tanto quanto l’intenzione volontaria di disinformare, diffondere fake news e mezze verità, o post verità, o propaganda. Maturare la “prospettiva completa” è di importanza critica, oggi che buona parte della società occidentale è sotto attacco, esposta al fuoco di sbarramento di una deliberata propaganda populista, tra teorie del complotto, esplosioni di vera e propria follia e talvolta un ritorno di mentalità che possono essere definite quasi medievali. E fin qui parliamo più di opere che di omissioni. È il peccato di non limitarsi a non sapere o ignorare, ma invece di spingersi a sopprimere, distorcere, mascherare i fatti, fino a smarrire i valori più fondamentali su cui è stata costruita la nostra civiltà, almeno nelle democrazie occidentali. Viviamo oggi in una fase epocale di guerra, demagogia, populismo ed estremismo, persino di negazione della scienza stessa da parte di una fetta consistente della società. Un momento che vede la degradazione degli standard morali e istituzionali più rinomati e stabili, quelli che hanno caratterizzato la democrazia liberale di stampo occidentale negli ultimi 75 anni. Sotto certi aspetti sembriamo instradati verso un ritorno al futuro: dritti dritti agli anni Trenta della Germania, dell’Italia. Com’è successo? Com’è possibile che solo una minoranza relativamente esigua in seno alle società occidentali, in particolar modo negli Usa e in Italia, sia sufficientemente istruita e goda di privilegi sufficienti da avere una prospettiva completa del mondo in cui viviamo? Perché un terzo dell’elettorato americano - diciamo una cinquantina di milioni sui 150 che hanno votato alle elezioni del 2020 - non si fa scrupoli ad abbracciare le teorie del complotto di QAnon o la retorica razzista e nativista di Trump e dei suoi lacchè, che ormai rappresentano la maggioranza del partito repubblicano del mio Paese? Di solito sono no-mask e no-vax. E sono anche grandi fan di Orbán e Putin. A causa dell’omissione di fatti e informazioni chiave, a causa della diffusione di notizie adulterate, questa gente accoglie con favore la decisione della Corte suprema di rimuovere i diritti civili del 50 per cento della popolazione - ovvero il diritto di una donna di decidere da sola cosa fare del proprio corpo. Questa stessa gente, una parte influente e attiva del corpo politico americano, spera adesso che la Corte si adoperi per rendere illegale il matrimonio gay e la contraccezione. Questa sostanziosa minoranza della popolazione statunitense crede che l’insurrezione del 6 gennaio non sia stata davvero un’insurrezione, e che in realtà non ci fosse proprio nulla di sbagliato in quei disordini; crede che Trump dovrebbe ancora essere presidente, che non sia un problema se poliziotti bianchi sparano a teenager neri disarmati, che dovrebbe essere ancora più facile acquistare fucili d’assalto, e che tutti quei sudici immigrati vengono spediti in America a ondate, una dopo l’altra, di continuo, perché fa tutto parte di una sinistra cospirazione per la sostituzione etnica dei bianchi cristiani con gente di colore. È un utilizzo cruciale delle politiche identitarie e della strategia delle guerre culturali da parte dei suprematisti bianchi e di Steve Bannon, per esempio. L’omissione di informazioni, naturalmente, non porta solo all’incapacità di inquadrare un’argomentazione basata sui fatti, ma mina le fondamenta stesse di un dibattito intelligente su un qualsiasi argomento. Nel giornalismo, nei quotidiani, nei siti web, sui social o nei talk show televisivi, la credula accettazione di un’informazione parziale e faziosa comporta la perdita della prospettiva completa. O, come accade spesso, la deliberata falsificazione o distorsione dell’informazione. E insomma eccoci qui: siamo arrivati alla terza decade del ventunesimo secolo in un mondo in cui si ha spesso l’impressione che nulla più abbia importanza. Abbiamo perso la capacità di restare scioccati. Obnubilati dall’ininterrotta sequenza di violenza in tempo reale e di malattia che si è diffusa nel mondo intero. In questo contesto globale Vladimir Putin ricorda il cattivo di un film di James Bond, intenzionato a tenere il mondo intero sotto scacco, prigioniero del suo ego e delle sue insicurezze. Purtroppo Putin è molto più pericoloso di qualsiasi supermalvagio che abbia mai impreziosito la saga di 007. E non sto parlando delle armi nucleari. I contributi finanziari che con grande efficacia Putin ha garantito a vari partiti di estrema destra in tutta Europa; le spese che ha sostenuto per riempire i social di news, pubblicità e bot fake; la sua decennale guerra cibernetica; l’interferenza costante che prosegue ancora oggi e che la Commissione europea ha smascherato; la campagna di disinformazione; gli sforzi documentabili e documentati per utilizzare fattorie di troll a San Pietroburgo per polarizzare gli elettori americani e incitare alla violenza: tutto ha contribuito all’attuale stato di confusione e sovraccarico di informazioni. Noi americani siamo arrivati a un punto della nostra breve storia in cui l’omissione di informazioni, di fatti e di qualsiasi nozione di storia hanno creato decine di milioni di fanatici, pericolosamente antidemocratici e neofascisti all’interno del partito repubblicano. Ormai dominano il partito. I pazzi hanno preso il controllo del manicomio. Nel frattempo a Berlino ci si deve chiedere: un’omissione fatale di portata storica può essere frutto di seduzione? È questa la domanda che gli storici del futuro dovranno porsi quando si accingeranno a rivalutare l’era di Angela Merkel e le sue conversazioni con Vladimir Putin. Merkel ha omesso qualsiasi considerazione relativa ai rischi insiti nel bloccare fisicamente buona parte della dipendenza energetica nazionale in un gasdotto con la Russia. È stata sedotta o manipolata da Putin, con le sue lusinghe e il suo raffinato tedesco? Come ha potuto la cancelliera sbagliare così clamorosamente i calcoli? E come ha potuto l’Europa intera omettere dalle proprie riflessioni la terribile realtà che la fissava dritto negli occhi da Mosca? E che dire dell’Italia? Gli ultimi eventi hanno dimostrato che molti dei leader di partito hanno omesso qualsiasi preoccupazione relativa agli interessi nazionali nelle loro pensose ponderazioni e nella decisione di accoltellare alla schiena lo statista più illustre che l’Italia abbia avuto dai tempi di De Gasperi. Conte, Salvini, Berlusconi. La storia li ricorderà come i tre che hanno fatto cadere Mario Draghi, mettendo l’ego al di sopra degli interessi nazionali, per risentimento o per gelosia, per paura o per insicurezza, o per un desiderio ostinato e vendicativo di riscattarsi. Nel caso di uno dei tre, per ritrovarsi senatore in quel Senato che una volta l’ha espulso, se non addirittura il presidente, la seconda carica dello Stato - sarebbe un bel tocco nella trama di quel glorioso film che narra la storia della sua vita e scorre in loop all’interno della mente di quell’uomo. Prospettiva completa; o il resto è desolazione. Temo che l’Italia sia giunta a un bivio, al momento della verità per molti cittadini. Vogliono che a guidarli siano coloro che urlano più forte, che promettono di dare mille euro a ogni pensionato, di stracciare le cartelle esattoriali di chi ha difficoltà col Fisco, di cancellare la legge Fornero e tenere Quota 100 forever? Se il 40 percento dell’elettorato non vota non è certo perché non è intelligente. Il vero motivo dev’essere che si tratta di persone ciniche, rassegnate, disgustate. Persone, inoltre, a cui mancano gli strumenti per capire la politica, che a loro non interessa proprio. Se il restante 60 per cento che è chiamato alle urne il 25 settembre riuscirà a ottenere una prospettiva più ampia della realtà concreta della loro nazione, forse una maggioranza di italiani non voterà per una visione oscurantista e reazionaria. Il caso di Griner nella war on drugs tra Putin e Usa di Marco Perduca Il Manifesto, 27 luglio 2022 Il 17 febbraio 2022 Brittney Griner, cestista statunitense, è stata arrestata in Russia per possesso di droghe. Campionessa Ncaa e Wnba, 2 volte miglior marcatrice Wnba con le Phoenix Mercury, Griner dal 2015 gioca anche per la squadra Ummc di Ekaterinburg, per coprire il gap salariale con gli stipendi del professionismo maschile. L’arresto è avvenuto all’aeroporto internazionale di Sheremetyevo, quando le sono state trovate cartucce di vaporizzatori contenenti olio di cannabis, illegale nella Federazione russa. Esattamente una settimana prima della guerra all’Ucraina. Fin da subito alcuni diplomatici Usa hanno ipotizzato che la detenzione sia usata come leva contro le sanzioni occidentali imposte alla Russia per l’invasione dell’Ucraina. Griner è stata considerata un “ostaggio di alto profilo”. A conferma di questi timori, dai primi di luglio circola la voce che la Russia sarebbe pronta a scambiarla con Viktor Bout, noto come “merchant of death” (mercante di morte) che nel novembre 2011 è stato condannato a Manhattan per cospirazione per uccidere cittadini e funzionari Usa, traffico di missili antiaerei e fornitura di aiuti a ‘organizzazioni terroristiche. Deve scontare 25 anni. Il 7 luglio, seguendo il parere del team legale che la assiste, Griner si è dichiarata colpevole malgrado il suo medico curante avesse testimoniato di averle prescritto la cannabis per uso medico. Griner era stata sottoposta al test antidoping risultando negativa. Nel frattempo i cestisti Usa più famosi hanno lanciato una campagna dal titolo #BringHerHome. La dichiarazione di colpevolezza non pone fine al caso, anzi! Potrebbe addirittura accelerare il procedimento a suo carico e creare le condizioni per lo scambio di prigionieri tra Mosca e Washington. Tutto dipende però dall’umore delle autorità russe perché l’ammissione di un’attività criminale rende difficile la qualifica di “ostaggio”. Tra i precedenti più recenti che potrebbero lasciare ben sperare, c’è il caso di Trevor Reed. Condannato a 9 anni per aver “aggredito” un poliziotto russo nel 2019, Reed è stato rilasciato il 27 aprile 2022 in cambio del pilota russo Konstantin Yaroshenko, condannato per narcotraffico. Se da subito l’arresto dell’olimpionica di basket era sembrato politicamente motivato, sia dal fatto che il proibizionismo russo ha bisogno di pene esemplari sia perché si tratta di una cittadina statunitense, la richiesta di scambio di “prigionieri” conferma la qualità e le intenzioni del regime russo. La “guerra alla droga” non è solo una guerra contro le persone ma permette anche la creazione di motivi per ricattare. Per quasi 15 anni, a partire dai primi anni Novanta, Viktor Bout ha venduto armi in tutto il mondo. In alcuni periodi le forniva a gruppi terroristici e ai governi che li combattevano. Dalla Liberia al Kirgizistan, dal Congo all’Angola, dalla Bosnia alla Colombia, passando sempre per gli Emirati Arabi e la Moldavia, Bout è stato il corriere di riferimento per chi avesse bisogno di ottenere armi. Armi che arrivavano da ex-repubbliche sovietiche che svuotavano arsenali e dalla Bulgaria. Dall’intervento USA in Afghanistan e dall’invasione dell’Iraq, grazie alla cronica rivalità interna all’amministrazione americana e al sistema di sub-contractor istigato dall’Amministrazione Bush, Bout forniva aerei alla FedEx e ad altri gruppi che muovevano materiali per Washington nel “grande Medio Oriente”. Come mai un governo intento a “de-nazificare” uno stato vicino vorrebbe scambiare un’atleta arrestata per possesso illegale di sostanze “leggere” sotto controllo internazionale con qualcuno che, per almeno un paio d’anni, ha trasportato cocaina dalle Ande e oppio o eroina dall’Afghanistan? La domanda è retorica ma è anche la risposta a chi ritiene che con Putin si possa, anzi si debba, negoziare la “pace” e a chi pensa che il proibizionismo abbia fallito. Dopo 20 anni torna libero Khalid Ahmed Qasim, “l’artista” di Guantanamo di Anna Lombardi La Repubblica, 27 luglio 2022 Detenuto nel supercarcere dal 2002 con l’accusa di aver fatto parte di Al Qaeda, non era mai stato formalmente incriminato. Nel campo di prigionia ha scoperto la pittura. E ora spera di poter vivere di quella. Dopo vent’anni a Guantanamo senza mai essersi visto formalizzare un’accusa anche lo yemenita Khalid Ahmed Qasim - che nel frattempo ha imparato a dipingere riuscendo anche ad esibire a New York alcune sue opere - esce dal supercarcere sull’isola di Cuba. Sì, il campo di prigionia nato nel gennaio 2002, quattro mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, per ospitare una tipologia di detenuti davvero speciali: “Combattenti nemici illegali”, secondo la definizione coniata all’epoca dagli uomini di George W. Bush per definire quei presunti terroristi di matrice islamica, trattenuti senza processo in palese violazione della Convenzione di Ginevra. Nel tempo Guantanamo è diventato il simbolo degli eccessi della “guerra al terrore”: per le condizioni di detenzione dei sospetti e le disumane tecniche di interrogatorio messe in pratica sui detenuti. Barack Obama non riuscì a chiuderlo ma lo ha praticamente svuotato, visto che nei giorni più cupi ospitava 779 persone e oggi ne restano 39, di cui solo 12 formalmente incriminati. Donald Trump fermò le revisioni delle singole posizioni pur di mantenerlo aperto. Joe Biden si è impegnato a chiuderlo entro la fine del suo mandato presidenziale nel 2024. Ma di sicuro la liberazione degli ultimi prigionieri sta avvenendo a rilento. Qasim, il “prigioniero 242” che oggi ha 45 anni e ha passato quasi metà della sua vita in quella struttura di massima sicurezza, dicono i suoi avvocati che non ci credeva più. Nel 2001 era stato catturato in Afghanistan (dove era approdato dal nativo Yemen un anno prima) dagli uomini dell’Alleanza del Nord dopo la morte del loro leader, Ahmed Shah Massoud. Furono proprio loro, ha sempre raccontato Qasim, a consegnarlo agli americani dopo avergli estorto una falsa confessione con la tortura. A Guantanamo è approdato nel maggio 2002 e da allora ha sempre sostenuto di non essere lui l’esperto di esplosivi di Al Qaeda: ma suo fratello. Vent’anni di carcere dopo, il Periodic Review Board, la commissione voluta appunto da Obama che periodicamente rivede la posizione dei prigionieri, ne ha finalmente deciso il rilascio in un Paese non specificato, dove seguirà “un programma di riabilitazione e reintegrazione”. E pazienza se già in passato il Board na aveva riconosciuto il “basso livello di pericolosità, non essendo stato inquadrato nella leadership di al Qaeda”. Finora ne avevano rigettato la scarcerazione a causa di una presunta sua “incapacità a gestire le emozioni” e la “mancanza di piani per il futuro”. Ora quei piani li ha: i suoi avvocati hanno infatti raccontato a Cbs News che un sogno concreto se lo è costruito: vivere della sua arte. Quella vocazione per la pittura scoperta proprio in prigione nel 2009. All’epoca, l’appena insediata amministrazione Obama aveva spinto il carcere a organizzare corsi d’arte che tenessero occupati quegli uomini isolati dal mondo. “Un passo importante in un luogo dove dalle lettere ai familiari si cancellavano cuori e fiori con inchiostro nero e nei primi anni perfino forme di mollica di pane venivano sequestrate e analizzate nel timore che fossero messaggi per Al Qaeda”, aveva raccontato a Repubblica Erin Thompson, professoressa di Art Crime a Columbia e curatrice nel 2017 dell’unica mostra che ha permesso al mondo esterno di vedere i lavori prodotti dai prigionieri. Naturalmente, i temi dei quadri erano controllati: vietato ritrarre persone e animali, non restavano che paesaggi. Da allora marine e grandi navi sono diventate il tema prediletto di Qasim. “Khalid è ancora giovane”, ha detto a Cbs l’avvocato Mark Maher che lo rappresenta: “Ed è entusiasta delle opportunità di rifarsi una vita che ha davanti”. Myanmar. Eseguite quattro condanne a morte: sono le prime in oltre 30 anni di Carlo Pizzati La Repubblica, 27 luglio 2022 Tra i giustiziati, un dirigente del partito di Aung San Suu Kyi e un noto attivista pro-democrazia. “Quando ci siamo visti su Zoom venerdì scorso mio figlio era in forma, sorrideva. Mi ha chiesto di portagli gli occhiali da vista, il vocabolario e un po’ di denaro per gli acquisti in prigione. Allora, dopo il fine settimana ci sono andata. Ma anche per questo non pensavo potessero averlo ucciso. Non riuscivo a crederci quando mi hanno detto che l’avevano impiccato il giorno dopo la nostra chiamata”. Khin Win Tint, madre del parlamentare pro-democrazia Phyo Zeya Thaw, giustiziato sabato scorso assieme ad altri tre militanti anti-giunta con l’accusa di terrorismo, è incredula. Condanna a porte chiuse, tribunale militare senza avvocati presenti, sentenza svolta in segreto e annunciata solo lunedì. Erano tutti incarcerati nella malfamata prigione di Insein, alla periferia della metropoli più grande di Myanmar, Yangon. È la prima volta dal 1988 che si applica la pena di morte a Myanmar. L’orrore di questa notizia sorprende il mondo intero, scuote il portavoce dell’Onu che chiede l’intervento delle democrazie, Unione europea in testa. Due dei quattro militanti giustiziati erano visi noti, anzi molto noti nella resistenza all’oppressione della giunta militare che il febbraio dell’anno scorso con un colpo di Stato ha rifiutato i risultati elettorali, gridando a brogli mai dimostrati, arrestando il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, condannata a undici anni con una serie di accuse tra il ridicolo e l’improbabile e che deve affrontare altri 13 processi che potrebbero portare a una condanna cumulativa di 180 anni. Altri 12 mila prigionieri politici languono nelle carceri perché non vogliono piegarsi ai militari. Il più famoso delle quattro vittime giustiziate è proprio quel figlio quarantunenne che non pensava di morire, che credeva di poter leggere in carcere ancora per un po’ e che chiaramente non sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima conversazione con la madre. Phyo Zeya Thaw inizia la carriera da ragazzo come cantante hip-hop, musica che gli consente di esprimere la sua rabbia. Viene arrestato e processato per i testi. In prigione gli cresce la coscienza politica e fonda l’organizzazione giovanile Generazione Onda. Questo lo porta ad essere eletto come parlamentare per la Lega Nazionale per la Democrazia e si avvicina molto ad Aung San Suu Kyi. L’accusa è d’aver guidato attacchi ai militari, compresa una sparatoria in un treno di pendolari a Yangon in cui sono morti cinque poliziotti. Prove, dibattiti, possibilità di confutare le accuse? Niente. Anche l’altro giustiziato famoso, soprannominato Ko Jimmy, ma il cui nome è Kyaw Min Yu, era avvezzo alle ingiustizie dei militari. Ormai aveva 53 anni ed era un veterano del gruppo studentesco Generazione 88, movimento birmano pro-democrazia famoso per la sua militanza contro la giunta fin dalle rivolte del 1988. Da allora si era abituato ad entrare e uscire di prigione, fino al suo rilascio nel 2012. Ma nell’ottobre scorso era stato arrestato di nuovo con l’accusa d’aver nascosto armi e munizioni in un appartamento di Yangon e di essere un consulente del Governo di unità nazionale. Le sorelle non hanno ancora avuto i suoi resti. Gli altri due militanti sono Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw. L’accusa del tribunale militare è che avrebbero ucciso un’informatrice della giunta. Ma non si conoscono i dettagli, proprio perché il processo non si è svolto nei parametri di una democrazia, ma in quelli di un’autocrazia militare. Sono numeri che si aggiungono ai 14 mila e 847 arresti fatti dal primo golpe e alle 2114 vittime uccise dalle forze militari, secondo l’associazione per l’assistenza dei prigionieri politici Aapp. Da un anno e mezzo la giunta militare di Myanmar cerca di soffocare il dissenso arrestando i capi dell’opposizione, sparando sulla folla di manifestanti disarmati, bombardando gli accampamenti della resistenza e bruciando migliaia delle loro case. Eppure, non è riuscita a sottomettere le forze pro-democrazia che si sono alleate a gruppi etnici, in lotta con i militari da anni, e, assieme, sono riusciti a controllare quasi metà del territorio. Appena saputa la notizia, i capofila dell’opposizione, i gruppi internazionali e il portavoce Onu per i diritti umani, Thomas Andrews, hanno subito invitato i leader di tutto il mondo ad agire con più fermezza contro il regime. “Questi atti depravati devono essere un punto di non ritorno per la comunità internazionale”, ha dichiarato Andrews. Il ministro degli Esteri giapponese Yoshimasa Hayashi ha dichiarato che queste condanne isoleranno ulteriormente Myanmar dalla comunità internazionale. Ma il mondo dovrebbe fare ora gesti più concreti per evitare che queste quattro impiccagioni non siano solo il preludio di una lunga mattanza di repressione. Egitto. Detenuti e diritti umani, una scarcerazione e una sparizione pressenza.com, 27 luglio 2022 L’avvocato Khaled Ramadan, dal 2018 in carcere, è stato liberato ieri per ordine della procura, in seguito all’interessamento al suo caso da parte della commissione parlamentare per l’amnistia. Quattro anni in cella per un selfie, postato sui social, con addosso un giubbotto giallo. La polizia lo aveva arrestato e sequestrato dal suo studio legale l’arma: un giubbotto giallo. Le accuse confezionate erano drammaticamente ancora più ridicole: appartenenza ad un’organizzazione terroristica, diffusione di notizie false e incitamento alle manifestazioni contro il governo. Non ha mai ottenuto un processo. Rimane in carcere, invece, Alaa AbdelFattah che da 116 giorni prosegue nel suo sciopero della fame. Si teme per la sua salute, perché il giorno 23 luglio non era presente alla visita che ha compiuto sua madre nel carcere di Wadi Natroun. Le autorità carcerarie sostengono che il detenuto si è rifiutato, ma la versione ufficiale non è credibile. Alaa infatti non ha scritto una lettera alla madre, che ha intrapreso un viaggio di 150 km per vederlo e assicurarsi della sua salute. Continua la campagna internazionale per la liberazione sua e quella di tutti i detenuti di coscienza in Egitto.