Suicidi in carcere: piani di prevenzione impeccabili, ma solo sulla carta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2022 Il numero dei suicidi dall’inizio dell’anno è in constante aumento, l’ultimo è avvenuto al carcere di Torino nella notte di domenica 24 luglio 2022. Un pakistano detenuto con l’accusa di violenza sessuale, è stato trovato morto impiccato nella sua cella dagli agenti della polizia penitenziaria, che hanno provato in ogni modo a soccorrerlo senza tuttavia riuscire a salvarlo. Siamo così giunto a 39 suicidi. Un numero che è destinato a salire, soprattutto nel prossimo mese di agosto quando la detenzione diventa ancora più rovente e la solitudine si accentua. Da sottolineare che nei penitenziari italiani vengono anche sventati centinaia di tentativi di suicidio grazie agli agenti penitenziari. Ma questo non fa che evidenziare ancor di più il problema di un piano di prevenzione dei suicidi che sulla carta è impeccabile, ma in mancanza di riforme strutturali, tutto diventa inutile. Il piano di prevenzione della Regione Lombardia - A questo proposito, l’11 luglio scorso, la regione Lombardia ha deliberato un aggiornamento del piano di prevenzione del rischio suicidario negli istituti penitenziari per adulti. In sostanza, prevede nell’ambito di ogni Piano locale un modello di lavoro interdisciplinare tra le diverse aree di intervento, penitenziario e sanitario, chiarendo al contempo, le specifiche competenze e gli snodi interprofessionali, per intercettare e trattare in modo coordinato, celere, adeguato e continuo, i momenti di criticità dei detenuti. Ciò fatto, la delibera specifica che occorre individuare gli ambiti e i segnali che si ritengono più importanti per valutare e monitorare il disagio sintomatico di un rischio suicidario, ripartendolo tra le varie competenze in campo e prevedendo gli strumenti e le modalità di confronto e di decisione integrata. Ferme restando le specifiche responsabilità del personale dell’Amministrazione penitenziaria e del personale dipendente dall’Asst di riferimento, l’obiettivo del Piano locale è quello di affinare costantemente lo scambio delle informazioni acquisite, al fine di migliorare la conoscenza della persona, e di consentire la costruzione degli interventi più adeguati al caso specifico, predisponendo procedure condivise. I Direttori delle strutture penitenziarie e sanitarie avranno cura di nominare per le rispettive competenze uno staff multidisciplinare, composto da rappresentanti del personale penitenziario (polizia penitenziaria, Funzionario giuridico pedagogico, psicologi, volontari, ecc..) e sanitario (medici della struttura penitenziaria, personale infermieristico, personale ASST del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze ecc.) qualificati e dotati di adeguati livelli di competenza e responsabilità. Lo staff multidisciplinare dovrà prendere in esame il caso nel più breve tempo possibile in modo da predisporre un programma individualizzato di presa in carico congiunta nel quale saranno indicati ulteriori interventi integrati degli operatori (sanitari, di sostegno e di sorveglianza), secondo le necessità determinate dalle problematiche rilevate. Previsto uno staff multidisciplinare - Sempre secondo la delibera, tale programma dovrà prevedere altresì la progressiva evoluzione delle misure terapeutiche e di sostegno, in ragione dell’andamento dei parametri presi in esame, sia in senso positivo che negativo. Gli interventi attuati da parte dello staff multidisciplinare andranno annotati in apposito registro documentale di verbalizzazione delle sedute, così da consentire il tracciamento delle decisioni adottate e garantire che la procedura di attenzione sul caso abbia un preciso inizio e una motivata conclusione. Lo staff multidisciplinare potrà essere unico o di reparto e dovrà essere costituito, ove non ancora presente, presso tutte le sedi penitenziarie. Interessante che la deliberi punti molto all’accoglienza di una persona che varca per la prima volta il carcere. Parliamo della fase più problematica, perché è il momento più alto della vulnerabilità. La delibera indica che il soggetto deve essere ubicato temporaneamente, e per il tempo strettamente necessario alle prime incombenze matricolari e di allocazione, presso le stanze di accoglienza. Tali locali dovranno essere adeguati alla specifica destinazione d'uso, allestiti e mantenuti con cura: pareti sane e tinteggiate, arredamenti dignitosi, sufficiente luce naturale, presenza di un bagno e agevole accesso alla doccia. Dovranno corrispondere alle esigenze di un clima circostante quanto più possibilmente positivo, tanto nel caso siano collocate nei piani detentivi, quanto nei pressi dell'infermeria o altrove. Fondamentale indagare sulla presenza di disagio psichico - Altro aspetto affrontato dalla delibera della regione Lombardia è la percentuale di detenuti con e senza disturbo mentale ma a rischio di suicidio e autolesivo: si stima infatti che circa il 6- 12% necessiterebbe di ospedalizzazione o di cure urgenti, il 30- 50% dovrebbe essere sottoposto ad assistenza da parte dei Servizi di Salute mentale, mentre il restante 40- 60% trarrebbe beneficio da interventi di prevenzione basati sulla promozione della salute. Risulta fondamentale, pertanto, indagare - fin dall’inizio del periodo di carcerazione - la presenza di disagio psichico, di problematiche psicopatologiche e di veri e propri disturbi mentali al fine di intervenire in tempi relativamente rapidi, favorendo poi l’adesione del paziente a programmi di cura, sia intra che extra-carcerari. Il piano di prevenzione dei suicidi è impeccabile. Ma inevitabilmente, ed è un problema di tutto il Paese, dovrà fare i conti con diverse carenze. Prima fra tutte quella di personale penitenziario e sanitario aggravata ancora di più dal sovraffollamento. Per personale sanitario non si intende solo i medici o infermieri, ma anche gli operatori socio sanitari, gli psicologi e psichiatri. La carenza è evidente e ciò rende di difficile attuazione la creazione, da parte dei direttori degli Istituti e i dirigenti sanitari, degli staff multidisciplinari indispensabili per entrare in relazione con un detenuto a rischio. Non parliamo delle celle che dovrebbero accogliere temporaneamente il detenuto che varca la prima volta il carcere. Difficile trovare locali adeguati. Necessità di sostegno psicologico per la re-immissione in libertà - Sempre nella delibera della regione Lombardia si coglie un altro aspetto spesso sottovalutato e che Il Dubbio lo ha evidenziato spesso. Non c’è quindi solo il problema dei nuovi giunti in carcere, ma c’è anche quello relativo alla scarcerazione. Se l’ingresso in carcere dalla libertà è un evento traumatico, non lo è meno la re-immissione, specialmente dopo lunghi periodi di carcerazione. La situazione psicologica del condannato a un lungo periodo di pena - quando viene rimesso in libertà - può creare criticità che derivano dalla perdita di abitudini ai ritmi della vita penitenziaria che, proprio per la sua invasività, “protegge”, almeno entro certi limiti, dagli eventi esterni: il timore di essere rimesso in libertà, a questo punto, potrebbe far riemergere nel soggetto senso di insicurezza, di precarietà o di preoccupazione per l’ignoto e per il futuro. La delibera osserva che nei confronti dei ristretti che nel corso della detenzione siano stati valutati a rischio suicidario medio- elevato e presentino un fine pena nei successivi 3-6 mesi andrà pertanto sviluppato un programma intensificato di valutazione e di sostegno psicologico propedeutico alla re- immissione in libertà che coinvolga i servizi territoriali e dell’U. E. P. E. di riferimento e, in particolar modo, il contesto familiare dove la persona farà ritorno all’atto della dimissione. Il carcere per i mafiosi e i diritti di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 26 luglio 2022 Lo Stato non può aver paura della polis, non può e non deve nascondere il funzionamento di un penitenziario relativamente al rispetto dei diritti umani. Esiste la mafia in Sardegna? Sicuramente esistono i mafiosi, quelli condannati in maniera definitiva per associazione di stampo mafioso e sottoposti al regime di carcere duro. Il carcere duro contemplato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Sono presenti nel carcere di Sassari e in quello di Nuoro e sono un centinaio circa. La recente politica scaturita da un partito (Lega) nei confronti di una visita autorizzata dal capo del Dipartimento, Carlo Renoldi, in alcuni istituti penitenziari sardi, è stata oggetto di una polemica che ha portato il sardo Renoldi a spiegarne le motivazioni davanti alla Commissione giustizia alla Camera. Mi occupo di carcere da ormai quarant’anni e sentire Renoldi illustrare le motivazioni e le scelte in linea con i principi costituzionali mi ha fatto piacere, ma se dopo svariati anni dalla nascita di una riforma si è costretti a giocare ancora in difesa significa una sola cosa: non siamo riusciti ad accettare che le persone presenti in un carcere facciano parte della comunità e il compito dello Stato è quello di favorire ogni integrazione con la comunità esterna. Con i mafiosi il discorso è diverso. Sono persone condannate per delitti indicibili: omicidi, traffici internazionali di stupefacenti, estorsioni, violenze sulle persone ed è necessaria la risposta dura dello Stato. Risposta apprezzata anche all’estero, tanto che moltissime delegazioni di stati europei chiedono sempre più spesso di poter visitare le sezioni dove sono ospitati i detenuti in regime di 41 bis e capire l’organizzazione interna. Renoldi, nel corso dell’audizione, ha ribadito che gli per operatori da anni: il carcere deve tornare a essere un problema politico, cioè un problema della polis, della comunità che deve preoccuparsi a portare dei servizi all’interno del carcere. È necessario aggiungere un ulteriore elemento: in Sardegna questa preoccupazione riguarda la mancanza di direttori ed educatori, figure necessarie per poter realizzare quelli che il capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria individua come tre pilastri: politiche adeguate per il personale, particolare attenzione del contesto detentivo, il carcere come parte della comunità. L’autorizzazione alla visita all’interno delle sezioni di detenuti sottoposti al regime di carcere duro nasce sotto questo auspicio: consentire alla comunità di conoscere come quel trattamento riservato a chi si è macchiato di orrendi delitti è all’interno di un contesto legislativo. L’associazione “nessuno tocchi Caino” e il partito radicale hanno visitato i penitenziari di Bancali e Nuoro per sentire i detenuti in base al loro vissuto quotidiano. Questa interlocuzione non prevede richieste di pareri sulla giustizia, sulla legislazione o su altri svariati argomenti ed è necessaria in quanto comporta una verifica da parte della polis sul trattamento riservato alle persone sottoposte alla detenzione, necessaria, giusta e ribadita da sentenze passate in giudicato. Lo Stato non può aver paura della polis, non può e non deve nascondere il funzionamento di un penitenziario relativamente al rispetto dei diritti umani. Conosco le sezioni del 41 bis e conosco chi ci lavora: il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria è un nucleo altamente specializzato, che svolge il proprio lavoro con serietà e senso dello Stato. La visita autorizzata dal Dr. Renoldi è stata accompagnata da uomini di quel reparto che relazionando ai propri superiori hanno affermato che durante la visita non hanno riscontrato nessuna anomalia. Le carceri sarde godono forse di poca attenzione da parte dei vertici sulla questione del personale, ma la professionalità di chi ci lavora quotidianamente è fuori discussione. I detenuti mafiosi sono trattati secondo le regole ed è giusto permangano all’interno di quelle sezioni. Esiste la mafia in Sardegna? Sicuramente esistono i mafiosi, quelli condannati in maniera definitiva per associazione di stampo mafioso e sottoposti al regime di carcere duro. Il carcere duro contemplato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Sono presenti nel carcere di Sassari e in quello di Nuoro e sono un centinaio circa. La recente politica scaturita da un partito (Lega) nei confronti di una visita autorizzata dal capo del Dipartimento, Carlo Renoldi, in alcuni istituti penitenziari sardi, è stata oggetto di una polemica che ha portato il sardo Renoldi a spiegarne le motivazioni davanti alla commissione giustizia alla camera. Mi occupo di carcere da ormai quarant’anni e sentire Renoldi illustrare le motivazioni e le scelte in linea con i principi costituzionali mi ha fatto piacere, ma se dopo svariati anni dalla nascita di una riforma si è costretti a giocare ancora in difesa significa una sola cosa: non siamo riusciti ad accettare che le persone presenti in un carcere facciano parte della comunità e il compito dello Stato è quello di favorire ogni integrazione con la comunità esterna. Con i mafiosi il discorso è diverso. Sono persone condannate per delitti indicibili: omicidi, traffici internazionali di stupefacenti, estorsioni, violenze sulle persone ed è necessaria la risposta dura dello Stato. Risposta apprezzata anche all’estero, tanto che moltissime delegazioni di stati europei chiedono sempre più spesso di poter visitare le sezioni dove sono ospitati i detenuti in regime di 41 bis e capire l’organizzazione interna. Renoldi, nel corso dell’audizione, ha ribadito che gli per operatori da anni: il carcere deve tornare a essere un problema politico, cioè un problema della polis, della comunità che deve preoccuparsi a portare dei servizi all’interno del carcere. È necessario aggiungere un ulteriore elemento: in Sardegna questa preoccupazione riguarda la mancanza di direttori ed educatori, figure necessarie per poter realizzare quelli che il capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria individua come tre pilastri: politiche adeguate per il personale, particolare attenzione del contesto detentivo, il carcere come parte della comunità. L’autorizzazione alla visita all’interno delle sezioni di detenuti sottoposti al regime di carcere duro nasce sotto questo auspicio: consentire alla comunità di conoscere come quel trattamento riservato a chi si è macchiato di orrendi delitti è all’interno di un contesto legislativo. L’associazione “nessuno tocchi Caino” e il Partito Radicale hanno visitato i penitenziari di Bancali e Nuoro per sentire i detenuti in base al loro vissuto quotidiano. Questa interlocuzione non prevede richieste di pareri sulla giustizia, sulla legislazione o su altri svariati argomenti ed è necessaria in quanto comporta una verifica da parte della polis sul trattamento riservato alle persone sottoposte alla detenzione, necessaria, giusta e ribadita da sentenze passate in giudicato. Lo Stato non può aver paura della polis, non può e non deve nascondere il funzionamento di un penitenziario relativamente al rispetto dei diritti umani. Conosco le sezioni del 41 bis e conosco chi ci lavora: il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria è un nucleo altamente specializzato, che svolge il proprio lavoro con serietà e senso dello Stato. La visita autorizzata dal Dr. Renoldi è stata accompagnata da uomini di quel reparto che relazionando ai propri superiori hanno affermato che durante la visita non hanno riscontrato nessuna anomalia. Le carceri sarde godono forse di poca attenzione da parte dei vertici sulla questione del personale, ma la professionalità di chi ci lavora quotidianamente è fuori discussione. I detenuti mafiosi sono trattati secondo le regole ed è giusto permangano all’interno di quelle sezioni. Giustizia riparativa: un bel passo avanti, ma adesso basta processi mediatici di Gianluca Gambogi* Il Dubbio, 26 luglio 2022 La legge n. 134/21 contiene la delega al Governo per l’efficacia del processo penale nonché per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa. Si tratta, più precisamente, di una delega che consentirà l’introduzione, nel rispetto delle disposizioni della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25/10/2012, di principi e criteri direttivi. La Direttiva è già stata attuata nel nostro ordinamento con interventi mirati nel 2017 e nel 2019, ma si ha la sensazione che le nuove norme saranno molto più significative. I principi che governeranno la giustizia riparativa possono brevemente riassumersi (ma non esaustivamente) come segue: - i programmi dovranno essere svolti e valutati circa gli esiti nell’interesse della vittima e dell’autore del reato; - la vittima non è soltanto la persona fisica che ha subito il danno, anche fisico, mentale o emotivo oppure la perdita economica, ma anche il familiare della persona la cui morte è stata causata da un reato ed anche la persona che convive con la vittima in una relazione intima nello stesso nucleo familiare; - il programma di giustizia riparativa potrà avvenire in ogni stato e grado del procedimento penale ed anche in fase di esecuzione pena; - la partecipazione è ovviamente libera e l’esito favorevole potrà essere valutato nel procedimento penale o anche in fase di esecuzione. La libera scelta di accedere alla giustizia riparativa non è sufficiente a superare alcune criticità che andranno affrontate con grande attenzione. La nuova giustizia riparativa, come noto, suscita perplessità tra i penalisti, per molteplici motivi ed anche con riferimento ai possibili effetti negativi correlati alle distorsioni della giustizia mediatica che, ovviamente, incide, non poco, sul processo penale. Un autorevole studioso, non a caso, parla espressamente, nell’ambito di una riflessione molto articolata sul rapporto tra media e processo, di una attenzione vittimocentrica dei media che si riflette sul processo penale (si veda, sul punto, la bellissima riflessione di V. Manes, Giustizia mediatica). Non v’è dubbio che siano in gioco valori importantissimi connessi alle garanzie ed è quindi auspicabile che l’intervento, che senz’altro arriverà, sia il più attento possibile a tutti gli interessi in gioco, come in effetti la legge delega sottolinea proprio con riferimento a imputato e vittima. D’altra parte come negare che talvolta più che la pena vera e propria ferisce e punisce quanto avviene in precedenza. L’attenzione alla vittima, quindi, deve sempre coniugarsi alla presunzione di innocenza, al contraddittorio tra le parti, ai valori del giusto processo e, ovviamente, all’imparzialità del giudice e del mediatore penale di cui diremo. Vi è infatti un ulteriore aspetto sul quale i penalisti dovranno probabilmente riflettere attentamente: la legge delega prevede la formazione di mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa che terranno conto delle esigenze delle vittime del reato e anche degli autori del reato e della capacità di gestione del conflitto nonché del possesso di conoscenze basilari del sistema penale. La deduzione è semplice: chi meglio di un avvocato penalista potrà svolgere le funzioni di mediatore penale? Difficile trovare una figura professionale con competenze superiori e pertanto è auspicabile che l’avvocatura cominci seriamente (e lo sta facendo già) a riflettere su questa attività futura del penalista al fine di prepararlo adeguatamente. Il difensore, quindi, onorerà la toga assistendo il proprio assistito nei processi che lo vedranno protagonista e potrà onorarla, se accetterà di fare il mediatore, anche in tale nuovo ruolo. In quest’ultimo dovrà garantire le scelte più opportune a soggetti (vittima e imputato) rispetto ai quali non avrà mai avuto un coinvolgimento professionale di nessun tipo e di nessun genere, e ciò per garantire la sua imparzialità al fine di consentir loro l’individuazione di programmi che consentiranno di sanare la frattura provocata dall’evento. Si tratta di un’opportunità o, più propriamente, di una necessità dell’avvocato del futuro? Difficile rispondere: forse si tratta di una necessità caratterizzata da un impegno professionale al quale sarà difficile sottrarsi non foss’altro perché è impensabile disperdere il patrimonio di cultura giuridica, di attaccamento ai valori del giusto processo e di tutto ciò che questa espressione contiene, ovverosia di tutti i valori propri del penalista. Davvero impensabile farne a meno! *Ordinario di Diritto penale presso l’Università Diritto internazionale Milano Il “patto repubblicano” di Calenda e Bonino per cambiare la giustizia di Valentina Stella Il Dubbio, 26 luglio 2022 Nel programma presentato da Azione e +Europa c'è anche un capitolo dedicato alla giustizia: la sfida maggiore è sulla separazione delle carriere. Nel patto repubblicano presentato ieri da Carlo Calenda e Emma Bonino c’è anche un capitolo sulla giustizia, illustrato dal vice-segretario di Azione Enrico Costa. Il deputato ha spiegato che in questo ultimo anno, grazie all’attività parlamentare di entrambi i partiti alla Camera e in Senato, “abbiamo segnato importanti vittorie: la legge sulla presunzione di innocenza, il fascicolo di valutazione di professionalità dei magistrati, il diritto all’oblio e le spese legali per gli assolti. Non solo: abbiamo fermato lo stop alla prescrizione di Bonafede”. Ora, ha proseguito Costa, “la caduta del Governo Draghi ha messo in pericolo i decreti attuativi della riforma del processo penale e di quello civile. Mi auguro che il premier e la ministra Cartabia riescano a metterli in sicurezza, per garantire una celebrazione più veloce dei processi ed un abbattimento dei 4,5 milioni di procedimenti civili e penali arretrati. Come sappiamo tra il 2015 e il 2021 lo stato ha pagato 644 milioni di euro per risarcire oltre 103 mila persone per irragionevole durata del processo”. Inoltre, nel programma si prevede di rafforzare la managerialità di chi ricopre incarichi direttivi negli uffici giudiziari e di realizzare l’unificazione delle piattaforme telematiche, che potrebbe essere utile anche per la raccolta delle statistiche sulle “performance” del magistrato in vista del neonato “fascicolo di valutazione” delle toghe. Tra le priorità in tema di giustizia anche quelle di “riformare la normativa sulla custodia cautelare al fine di eliminare gli abusi e rispettare il principio della presunzione d’innocenza, considerato che oggi circa un terzo dei detenuti non ha subito una condanna definitiva” e “effettuare una riforma del sistema penitenziario che garantisca il rispetto del principio della finalità rieducativa della pena”. Ma, la sfida più importante e allo stesso tempo più complessa, anche per i veti della magistratura associata, “sarà approvare la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione Camere Penali che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pm per assicurare la effettiva parità tra accusa e difesa”. Come sappiamo è dimenticata nei cassetti della Commissione affari costituzionali della Camera. Quello di Azione e +Europa sulla giustizia è dunque un programma in continuità da una parte con quello Cartabia, se pensiamo ad un carcere ad immagine e somiglianza della Costituzione, ma dall’altra parte anche con il referendum “giustizia giusta” se guardiamo alla questione dell’abuso delle misure cautelari. Durante la conferenza stampa abbiamo chiesto all’onorevole Costa con quali partiti si possa lavorare nella direzione tracciata: “Per noi questi sono temi che abbiamo da sempre messo sul tavolo con trasparenza - ci ha risposto -. Anche all’interno delle forze politiche ci sono delle divisioni, alcune personalità aderiscono a questi temi. Conterà a questo punto esprimersi in modo trasparente da parte di tutti”. La giustizia, in una campagna elettorale così difficile, molto probabilmente non rappresenterà uno dei temi principali di raccolta del consenso. Però la sua portata non è affatto da sottovalutare per le future alleanze ed equilibri in Parlamento perché a rifletterci bene si tratta di questioni che potrebbero spaccare le coalizioni. Basti pensare alla separazione delle carriere che vede più vicini Azione e +Europa a Forza Italia, mentre marca una grossa distanza dal Partito democratico con cui, come ha detto la Bonino, “stiamo cercando una interlocuzione da 24 ore”. Ma anche gli altri punti del patto repubblicano vedono più affinità con i forzisti e con una parte della Lega che però ora si troveranno a dover molto probabilmente scrivere un programma con Fratelli d’Italia che vorrebbe rimaneggiare persino l’articolo 27 della Costituzione e che quasi due mesi fa si è opposto al quesito referendario sulla custodia cautelare. Certo, poi bisognerà capire anche il destino del Movimento 5 Stelle che in questi anni ha giocato un ruolo importante nei due governi Conte sugli affari di giustizia e come dice Costa “ha bloccato la discussione in Commissione sulla separazione delle carriere”. Insomma, mentre il puzzle delle alleanze si fa sempre più complesso, la giustizia potrebbe diventare l’elemento primario per scomporre quelle stesse alleanze. Sisto (Fi). “Sul garantismo non c’è mediazione: sarà la chiave per il nostro governo” di Errico Novi Il Dubbio, 26 luglio 2022 “Si deve essere chiari: la richiesta di Forza Italia e Lega, andare avanti senza i 5 Stelle, era coerente con quanto emerso in quelle ore. I numeri e tutti i presupposti c’erano. È stata fatta dal presidente del Consiglio una scelta diversa, un po’ dissonante rispetto al tratto istituzionale che l’esecutivo Draghi aveva avuto fino a quel momento. Secondo aspetto: sulla giustizia c’è un riferimento che non potrà più essere abbandonato: il garantismo, cioè la Costituzione. Basta rispettarla”. Sono gli architravi del discorso che Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia e prima linea di Forza Italia sul fronte politico storicamente più “difficile”, squaderna a cinque giorni dallo “choc” che ha messo fine alla “salvezza nazionale”. Avverte rammarico per la fine di un governo al quale lei stesso ha dato, sulla giustizia, un contributo rilevante? Il rammarico per la fine del governo c’è, ma c’è innanzitutto la consapevolezza che le ragioni dell’epilogo sono legate a una logica che, per l’esecutivo, si è fatta improvvisamente politica. Decisiva è stata la scelta che è emersa dal discorso pronunciato, dal presidente del Consiglio, mercoledì scorso a Palazzo Madama. A cosa si riferisce in particolare? Anche alle critiche rivolte su punti qualificanti della proposta politica del centrodestra: dal catasto al tema dei balneari. Nel discorso del 20 luglio al Senato, sarebbe stato sensato ascoltare un intervento da embrassons nous, da allenatore che dà la spinta negli spogliatoi dopo il primo tempo. Non è stato così, si è avuta l’impressione di una scelta improvvisamente politica, appunto, impressione accentuata dalla presenza di Enrico Letta nell’incontro a palazzo Chigi del giorno prima. Ci sono state molte concause, insomma, nella fine del governo Draghi. Quindi dispiacere ma non rimpianto? Guardi, parliamo di un esecutivo fortemente voluto da Silvio Berlusconi, un governo a cui Forza Italia non ha mai fatto venire meno la fiducia, 55 volte, e ha anzi assicurato tutti gli sforzi di mediazione possibili in tanti passaggi delicati. Non c’era davvero motivo di respingere la proposta di andare avanti senza il Movimento di Conte, come chiedeva la mozione di FI e Lega. Ma sulla giustizia questo governo lascia una traccia incancellabile o no? In questo periodo si è prodotto tantissimo, nella direzione, per esempio, fondamentale della ragionevole durata e del giusto processo. Sono state significativamente superate, con decisione, le abnormità compiute nel 2019 con la spazza-corrotti sull’articolo 111, reintroducendo la prescrizione. Da un governo di salvezza nazionale, con mediazioni difficilissime, non si poteva ottenere di più. Un modello da non disperdere? Un governo politico, magari con Forza Italia in prima fila, avrà inevitabilmente maggiore forza e legittimazione per compiere scelte più chiare anche nel campo della giustizia. Ecco, ma ad esempio, nei decreti attuativi del penale, non rischiano di emergere distanze, nel centrodestra, che resterebbero anche in caso di vittoria nelle urne? Basti pensare alle misure alternative al carcere per condanne sotto i 4 anni: FdI e Lega non la pensano esattamente come FI… A parte il voto già favorevole della Lega in Aula, sull’applicazione dei principi costituzionali non ci saranno conflitti o perplessità. Ma come farete, in caso di vittoria, a mantenere una linea condivisa, innanzitutto con Meloni? C’è un punto su cui, come detto, non si media: il garantismo, il giusto processo. E su tutti i temi della giustizia, a cominciare dal carcere, mi pare che già in questo governo si sia seguita una linea chiara: non sono stati affatto messi in discussione pilastri come il 41 bis, come il principio di pericolosità che determina regole più severe, per certi reati, nelle misure cautelari e nell’esecuzione della pena. Sulla mafia non c’è stato e non ci può essere alcun arretramento. Dopodiché, ripeto: un governo di centrodestra non farà fatica a essere garantista in materia penale, basterà restare nel solco della Costituzione, nulla di trascendentale. Terrei a ricordare un’altra cosa. Prego... Molte delle misure introdotte con la riforma dell’ordinamento giudiziario realizzano alcuni obiettivi storici di Forza Italia, che li ha fortemente voluti. Dalla separazione delle funzioni, al nono anno di carriera dei magistrati, alla riduzione dei fuori ruolo, per durata e per numeri totali. Dallo stop alle porte girevoli fino alle valutazioni di merito sulle toghe. Nostri obiettivi che siamo almeno parzialmente siamo riusciti a realizzare: nelle riforme Forza Italia ha lasciato un’impronta, forte. È impossibile salvare la legge sull’equo compenso, in questo scorcio di legislatura? Non è impossibile e in queste ore mi batto per arrivarci. Domani (oggi per chi legge, ndr) ci sarà al Senato una conferenza dei capigruppo decisiva, in cui mi auguro si possa arrivare alla decisione unanime di inserire il provvedimento fra quelli da trattare. È una legge importante per i professionisti, ciascuno dovrà assumersi le proprie responsabilità: confido nella unanimità della richiesta di trattazione. I decreti attuativi del penale e del civile sono urgentissimi: e se dalle commissioni Giustizia emergessero dissensi? Il governo cercherà di accelerare a ogni costo? Ci sarà una parlamentarizzazione piena, il parere delle Camere avrà il peso dovuto. È chiaro che il fattore tempo a questo punto è essenziale, e il governo non mancherà di considerarlo. Il decreto sul civile non era così avanti quanto il penale, nella stesura: davvero ce la si fa? Sicuramente: manca in realtà poco, parliamo di tempi davvero limitati, a breve i provvedimenti attuativi sul penale e sul civile saranno presentati alle Camere. Anteprime sui punti più “caldi” del penale, come le impugnazioni? Non è possibile farne, se non con l’eccezione del testo sulla giustizia riparativa: ho seguito i lavori della commissione e posso dire che il professor Gian Luigi Gatta ha compiuto un lavoro eccellente. Sono accelerazioni da cardiopalmo... Evitiamo catastrofismi. Vista la data delle elezioni, si potrà avere già il 13 ottobre un nuovo Parlamento in grado di licenziare la legge di Bilancio. Parliamo di un tempo di stasi quasi fisiologico, visto il periodo estivo: si andrà avanti spediti. Giorgia, non ti bere le baggianate del partito dell’antimafia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 luglio 2022 Su “Libero” la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni mette insieme falsità e banalità sulla morte del giudice Borsellino. Si impegna a difendere l’ergastolo ostativo nel nome di Falcone, che però non c’entra. Ci sono atti e sentenze: perché non leggerli? Strana campagna elettorale, questa dell’estate 2022. Non si è ancora asciugato l’inchiostro -come dicono quelli colti- con cui ho difeso Giorgia Meloni dalla stupidità dell’antifascismo militante che l’ha colpita, che la stessa presidente di Fratelli d’Italia mette insieme, con una bella pagina su Libero, almeno dieci buone ragioni per non essere votata da tutti quelli che hanno a cuore lo Stato di diritto. Strana campagna elettorale. Da sinistra fanno sapere che l’Occidente intero, a partire dagli Stati Uniti, è preoccupato dalla possibilità (per ora solo nei sondaggi) che la prima donna nera, di presunto animus più che di colore della pelle, possa accedere a Palazzo Chigi. E lei che risponde con un sacco di cose false e banali sulla morte di Borsellino e la necessità di “trovare i colpevoli”. Cioè risponde all’antifascismo militante con la più stupida e antistorica antimafia militante. Neanche fosse una di una certa sinistra. Giorgia Meloni è una dirigente politica prestigiosa e con le idee chiare. Il suo scritto di ieri merita una risposta seria, a prescindere dal fatto che è innanzi tutto molto disinformato. Oltre che molto pieno di omissioni, come quando si dice “Abbiamo il dovere morale e materiale di contribuire alla ricostruzione di fatti che la mafia ha volutamente insabbiato, anche trovando ignobili sponde in pezzi deviati dello Stato”. Eh, no. La mafia non ha insabbiato proprio niente, e lo Stato non si è espresso tramite “pezzi deviati”, ma è entrato dentro le porcherie dei vari processi Borsellino con tutti i piedi e le scarpe. L’articolo inizia con un ricordo personale di una Giorgia ragazzina davanti al cui sguardo si snodano le immagini televisive della bomba di via D’Amelio. E un impegno, preso quel giorno, quel 19 luglio del 1992, quello di entrare in politica per lottare contro la mafia. Commendevole, soprattutto per una giovane donna non siciliana, persa in questi ricordi trent’anni dopo e con un’uscita forte a inizio di campagna elettorale. Il primo impegno, sancito in Parlamento anche con due proposte di legge, di cui una importante a modifica dell’articolo 27 della Costituzione, è per la difesa dell’ergastolo ostativo. Cioè quella condanna che non solo noi del ma anche la Corte Costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo considerano una forma di pena di morte, di morte sociale. So di dire una cosa forte, ma chi difende una pena eterna senza vie d’uscita, deve avere il coraggio di sostenere anche la pena capitale, che del resto esiste non solo nel mondo islamico ma anche in alcuni degli Stati americani. Conosco l’obiezione: se il condannato all’ergastolo ostativo vuol vedere una via d’uscita, basta che si trasformi in “pentito”. Ancor più facile la contro-obiezione. Non tutti hanno qualcosa da dire, esistono anche gli innocenti, poi esiste la paura delle ritorsioni nei confronti dei familiari, poi non tutti se la sentono di accusare altri. E comunque, per sostenere qualunque tesi, non è necessario aggrapparsi sempre al santino di Giovanni Falcone. Soprattutto perché il suo provvedimento lasciava la possibilità di accedere ai benefici penitenziari anche senza la collaborazione. Ipotesi che venne poi esclusa da un Parlamento, l’ultimo della prima repubblica, disorientato non solo per le stragi mafiose ma anche per l’assalto dei pubblici ministeri di Mani Pulite. Ma il più debole fu il governo, che non riusciva a sconfiggere Cosa Nostra sul piano militare, visto che i boss erano tutti latitanti, e pensò di dare un segnale di quella forza che non aveva con le leggi speciali e le torture nelle carceri di Pianosa e Asinara. Non amo scrivere in prima persona, ma questa volta lo faccio, perché c’ero in quel Parlamento e anche in quelle carceri. Ho assistito giorno dopo giorno alla costruzione, a suon di botte e minacce, del falso pentito Scarantino. La seconda morte di Borsellino, il famoso “depistaggio più grande della storia”, è stato voluto e creato in quei giorni, insieme all’ergastolo ostativo e all’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. Cara Giorgia, consentimi la confidenza, se vuoi davvero impegnarti sulla verità per Borsellino, devi partire da lì. Perché ci sono gli atti processuali e le sentenze. Non è cosa da campagna elettorale, mi rendo conto. Ma ci sono i nomi e i cognomi dei magistrati e dei dirigenti di polizia che hanno partecipato al banchetto del depistaggio. Non sono “corpi separati”, ti assicuro. C’è la frettolosa archiviazione del “processo mafia-appalti”, su cui indagavano Falcone e Borsellino. C’è la sentenza del processo “trattativa”, altro depistaggio di Stato, che ha assolto gli ex generali dei Ros Mori, Subranni e De Donno, le cui divise furono per anni e anni infangate dalla subcultura dell’antimafia militante, e che oggi noi tutti insieme abbiamo il dovere di onorare. E c’è anche l’ultima sentenza, quella che ha dovuto constatare la prescrizione dei reati contestati ai “pesci piccoli” delle forze dell’ordine. Tutto scritto, nero su bianco. E lasciamo perdere, per favore, la fantasia di quel “papello” di Totò Riina che non è mai esistito, se non nella fantasia di un personaggetto come Ciancimino junior, che è stato per questo anche condannato. Anche in questo caso ci sono le sentenze. Mi spiace davvero che tu sia così disinformata. Su fatti lontani, ma anche su quelli più vicini, come quelli degli anni scorsi, quelli infausti della pandemia. Qui mi appello al tuo senso di umanità. Mentre tutti eravamo chiusi nelle case e se al supermercato una persona sternutiva veniva guardata e allontanata come un untore della peste seicentesca, puoi capire come ci si sentisse nel chiuso di un carcere, di una cella? Sicuramente saprai che l’Europa (visto che sei anche presidente del partito conservatore) ha più volte condannato l’Italia per la ristrettezza fisica delle sue celle nelle carceri. Puoi quindi immaginare come si sentisse un detenuto in quei giorni? Sto parlando di un detenuto, un essere umano, uomo o donna, non di un mafioso o un rapinatore. Un essere umano, impaurito per il morbo e per la vita, come lo eravamo tutti noi. Un essere rinchiuso può reagire anche con la violenza, che va condannata e sanzionata. E così è stato. Ma nelle rivolte delle 50 carceri in quei giorni di marzo ci furono anche 14 morti, e molti prigionieri picchiati dagli agenti. Non c’è nessuna inchiesta che abbia portato la prova di una regia mafiosa su quelle rivolte. Perché insisti? Mi tocca infine anche difendere il ministro Bonafede, chiedo scusa ai miei pochi lettori, perché il decreto “cura Italia” non ha affatto scarcerato, come scrisse Repubblica e come tu sembri credere, 376 mafiosi. I condannati per mafia erano solo tre, due dei quali malati terminali. Si trattava di sospensioni temporanee della pena chieste da decine di giudici di sorveglianza. Nessuno è scappato, quando il decreto è stato ritirato. Il mio spazio è finito. Vuoi fare una commissione d’inchiesta sulla strage di via D’Amelio? Benissimo, ma partiamo dal più grande depistaggio della storia e chiedi a chi sarà il presidente di convocare subito il magistrato Nino Di Matteo. Così entriamo nel vivo. E lascia perdere quel migliaio di detenuti al carcere ostativo. Hanno fatto tanto male, ma dopo trent’anni sono in gran parte persone diverse, ti assicuro. Cerca di credermi, è così. Buona campagna elettorale. Dello scandalo al Csm restano pochi capri espiatori sanzionati tra conflitti di interessi di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 luglio 2022 Di fronte a uno dei più gravi scandali della sua storia, la magistratura ha agito realizzando una sorta di amnistia generalizzata nei confronti delle toghe coinvolte, fatta eccezione per pochi casi, puniti attraverso procedimenti non proprio cristallini. Nelle ultime settimane abbiamo raccontato di come, attraverso una serie di circolari, l’ormai ex procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi (andato in pensione il 9 luglio), titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, abbia reso non procedibili sul piano disciplinare numerose condotte scorrette praticate da decine di toghe coinvolte nelle famose chat di Luca Palamara. Attraverso l’adozione di due circolari, infatti, Salvi ha stabilito che le “attività di autopromozione” praticate dai magistrati non integrano illecito disciplinare e che “anche con riguardo a condotte scorrette gravi l’illecito disciplinare può tuttavia risultare non configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”. Questa gestione “morbida” dello scandalo ha generato diverse critiche da parte dei componenti laici del Consiglio stesso. L’articolo del Foglio ha anche spinto la deputata di Italia Viva, Flora Frate, a depositare un’interrogazione alla ministra della Giustizia Marta Cartabia per chiedere chiarimenti sulla vicenda. Le direttive di Salvi, si legge nell’interrogazione di Frate, sarebbero infatti anche “in conflitto di interesse, poiché da numerosi articoli di stampa emerge che il dottor Salvi si sarebbe in più occasioni autopromosso per l’incarico di procuratore generale presso la corte di Cassazione con il presidente della quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura” (cioè Palamara). A ben vedere, è l’intera vicenda a essere segnata da incredibili conflitti di interessi. È sufficiente osservare ciò che è accaduto con i pochi capri espiatori che sono stati sanzionati in seguito allo scandalo. A dispetto dell’amnistia realizzata nei confronti dei “magistrati chattatori”, la giustizia disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’incontro all’Hotel Champagne è stata rapidissima. Palamara è stato radiato, mentre gli altri cinque magistrati (nel frattempo dimessisi dal Csm) sono stati sanzionati con la sospensione dalle funzioni. Il procedimento nei confronti di Cosimo Ferri, deputato ma magistrato in aspettativa, anch’egli presente all’incontro, è ancora in corso. Nel suo libro “Il Mostro”, Matteo Renzi rivela che all’Hotel Champagne, luogo degli incontri tra Palamara, Ferri e tanti altri, “andavano personaggi di ogni colore politico”. All’Hotel, “in processione da Cosimo Ferri”, si sarebbe recato anche il professore Filippo Donati, eletto membro laico del Csm su indicazione dei grillini, che all’epoca ambiva al ruolo di vicepresidente del Csm (ruolo che poi sarebbe stato assegnato a David Ermini). “Ironia della sorte - scrive Renzi - sarà proprio lui a presiedere il disciplinare contro Ferri”. In effetti, proprio Donati presiede la sezione disciplinare che sta valutando le condotte di Ferri. Non risultano sue smentite rispetto a quanto riportato nel libro di Renzi. Ironia della sorte, aggiungiamo noi, Donati è anche colui che ha presieduto il collegio che ha sanzionato i cinque magistrati presenti all’incontro all’Hotel Champagne: Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Luigi Spina. Non è tutto. Di quel collegio hanno fatto parte anche i togati Carmelo Celentano e Michele Ciambellini. Celentano, fedele esponente di Unicost, non solo chattava anche lui con Palamara sponsorizzando colleghi e chiedendo notizie sulle nomine, ma ha fatto il suo ingresso al Csm nell’ottobre 2020 dopo l’uscita di scena, per raggiunti limiti di età, di Piercamillo Davigo, essendo risultato primo dei non eletti alle precedenti elezioni. Prima di sostituire Davigo, Celentano ricopriva il ruolo di sostituto alla procura generale della Cassazione, cioè dell’ufficio retto da Salvi chiamato a esercitato l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Insomma, Celentano ha ricoperto prima l’incarico di accusatore e poi di giudice. Non proprio il trionfo dello stato di diritto. Persino più incredibile è il caso di Ciambellini. Nelle motivazioni della sentenza con cui il collegio disciplinare del Csm ha sanzionato i cinque magistrati dell’Hotel Champagne, a sostegno delle accuse viene citata una conversazione tra Spina e Palamara che chiama in causa proprio Ciambellini. Un elemento che avrebbe potuto (dovuto?) quantomeno spingere Ciambellini a interrogarsi sull’opportunità di astenersi dal procedimento. Alla fine, tre membri su sei del collegio disciplinare risultano circondati da sospetti di conflitti di interessi. Insomma, di fronte a uno dei più gravi scandali della sua storia, la magistratura ha agito realizzando una sorta di amnistia generalizzata nei confronti delle toghe coinvolte, fatta eccezione di pochi capri espiatori, alcuni puniti attraverso procedimenti segnati da svariati conflitti di interessi. Non una bella figura per un Csm che, a causa dello scioglimento anticipato del Parlamento, sarà pure prorogato. Se difendere i lavoratori costa la galera. La Procura di Piacenza mette nel mirino i sindacalisti di Fausto Mosca Il Dubbio, 26 luglio 2022 Da che mondo è mondo i diritti si conquistano, non vengono elargiti per gentile concessione. A maggior ragione quelli sul lavoro, dove il legittimo profitto dell’impresa non sempre coincide con la giusta retribuzione del lavoratore. Una contraddizione ancora molto forte nel settore della logistica, considerata dagli analisti come una sorta di buco nero della contrattazione collettiva, dove spesso a turni di lavoro molto duri corrispondono salari da fame e senza molte garanzie. Non stupisce, dunque, la notizia pubblicata dal Fatto quotidiano su quanto sta accadendo a Piacenza, dove la Procura ha chiesto e ottenuto gli arresti domiciliari per sei dirigenti sindacali - tutti di Si Cobas e Usb e tutti impegnati nelle lotte che da anni interessano il polo logistico piacentino - accusati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di numerosi reati, tra cui violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, interruzione di pubblico servizio. Scopo criminale dei due sindacati si legge sul quotidiano diretto da Marco Travaglio che punta i riflettori sulle anomalie dell’inchiesta - nientepopodimeno che “ricattare” le aziende costringendole a cedere alle richieste dell’organizzazione. Praticamente lo scopo di ogni attività sindacale: utilizzare gli strumenti di protesta, a volte anche duri, per ottenere migliori condizioni di lavoro. Tanto che la Procura accusa i sindacalisti, secondo quanto riporta il Fatto, di avere “la capacità di far terminare gli scioperi” quando venivano accolte le loro richieste. Addirittura! Tra gli arrestati figurano anche nomi eccellenti, come quello di Aldo Milani, coordinatore nazionale dei Si Cobas, finito già in cella nel 2019 con l’accusa (poi smontata integralmente dalla sentenza di assoluzione) di aver intascato mazzette per sospendere un picchetto. Ma quello di Piacenza è solo uno degli innumerevoli episodi che negli ultimi tempi hanno messo nel mirino il sindacalismo di base: perquisizioni, arresti e blitz dietro “segnalazioni anonime” sono ormai all’ordine del giorno. E mentre dirigenti e delegati finiscono in galera, le condizioni dei lavoratori della logistica rischiano di peggiorare. Una norma contenuta nel dl Aiuti, infatti, modifica in maniera sostanziale l’Art. 1677 bis del Codice civile relativo alla responsabilità in solido dei committenti. In poche parole, d’ora in poi un lavoratore della logistica a cui non sono stati pagati stipendi, contributi o straordinari non potrà rivalersi più sul committente, in genere le grandi multinazionali che subappaltano il servizio a cooperative, ma potrà bussare solo alle porte del proprio datore di lavoro diretto, spesso e volentieri piccole società che nascono e muoiono nel giro di pochi anni. Una modifica che preoccupa parecchio anche i sindacati “tradizionali” come Cgil, Cisl e Uil. Ma attenzione a minacciare scioperi per cambiare la norma. Il rischio di finire in galera è più che concreto. Sardegna. Salute detenuti, la Regione attivi reparti ospedalieri dedicati di Elisabetta Caredda quotidianosanita.it, 26 luglio 2022 Persiste la richiesta alla Regione di attivazione di reparti ospedalieri detentivi dedicati alla salute dei detenuti. Già, nel mese di marzo di questo anno, su questa criticità segnalata dai sindacati della Polizia penitenziaria si era fatto portavoce il vice capogruppo dei Riformatori Michele Cossa. Al collega di Consiglio gli fa seguito oggi, su nuova istanza dei sindacati del comparto penitenziario, la Segretaria della commissione Salute Carla Cuccu (Idea Sardegna) che già nell’aprile 2020, in piena emergenza epidemiologica da Covid-19, aveva sollevato il problema relativo all’assistenza sanitaria penitenziaria e richiesto interventi mirati. “Per la sicurezza degli agenti di Polizia penitenziaria, dei medici e pazienti, e degli stessi detenuti - spiega a Quotidiano Sanità la consigliera - è indispensabile che almeno nei principali ospedali sardi sia prevista una camera di sicurezza riservata agli stessi detenuti che, accompagnati dagli agenti, devono sottoporsi a visite mediche; allo stato attuale infatti, nei reparti, in mancanza di stanze di sicurezza dedicate, i detenuti sono in continuo contatto con il personale sanitario ed i pazienti con tutti i rischi che ne conseguono”. “Occorre infatti che sia garantita la massima sicurezza quando i detenuti vengono portati nelle strutture pubbliche - prosegue la Segretaria - perché i sindacati riferiscono anche di tentativi di suicidio e di evasione proprio in occasione delle visite negli ospedali. Un piantonamento oggi richiede fino a 10 unità di agenti al giorno, e ciò determina un forte disagio organizzativo per il carcere di appartenenza. Ovviamente sono assolutamente convinta che il Servizio sanitario sia chiamato a garantire alle persone in stato di detenzione lo stesso diritto alla salute al pari dei cittadini in stato di libertà”. “Ecco perché rinnovo il mio appello nuovamente all’assessore alla Sanità ad intervenire affinché sia preservata la riservatezza dei pazienti e degli stessi detenuti, e sia consentita agli istituti di pena una migliore gestione delle forze appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria. Una importante istanza quella del Sindacati del suddetto comparto più volte segnalata in Consiglio nel corso della legislatura, che ha pienamente diritto a trovare comprensione e concretezza. Negli interventi strutturali dei reparti e presidi che si stanno attuando, è necessario dare anche a loro risposte in tempi congrui”, conclude Cuccu. Torino. Detenuto trovato morto impiccato nella sua cella, era in carcere per molestie Quotidiano Piemontese, 26 luglio 2022 Ancora non si conosce il motivo che ha portato N.K., 38enne pakistano, a suicidarsi nella sua cella nel padiglione C del carcere Lorusso e Cotugno, a Torino. Dopo aver preso il lenzuolo dal suo letto, prima ne ha ricavato una corda, poi lo ha legato alle sbarre della finestra e infine si è impiccato. L’uomo, in carcere dal 22 gennaio, è stato trovato domenica mattina dagli agenti della polizia penitenziaria. N.K., arrivato da poco in Italia, era accusato di molestie. Un giorno, mentre era su un treno sulla tratta Torino-Pinerolo, ha prima infastidito un gruppo di ragazzine alla stazione; poi ha messo le mani addosso a una di loro. Bolzano. Caldo estremo, niente ventilatori: peggiora l'emergenza in carcere di Simona Peluso rainews.it, 26 luglio 2022 In estate le temperature si fanno roventi: nelle celle mancano le prese e non si possono usare ventilatori, l'impianto elettrico non può supportare condizionatori. E con la crisi di governo, i tempi per la nuova struttura rischiano di slittare ancora. Struttura obsoleta, spazi inadeguati. 106 detenuti per 86 posti, spesso si arriva anche a 120. La situazione nel carcere di Bolzano è emergenziale da anni e in estate, peggiora ancora. Impossibile installare condizionatori perché l'impianto elettrico, vecchio di decenni, non li supporterebbe. Nelle celle mancano prese e interruttori, non si possono usare neanche i ventilatori. Nei corridoi - spiega Elena Dondio, Garante per i diritti dei detenuti di Bolzano - ci sono delle ventole, ma sono vecchie e rumorose e non riescono davvero a dare sollievo. Nelle celle in cui vivono insieme anche sei o sette persone, le condizioni sono insostenibili. Difficile dire di preciso che temperature si raggiungano, non ci sono neanche i termometri; nonostante gli sforzi, è impossibile garantire condizioni igieniche adeguate. Finché si resterà in via Dante, la situazione non potrà migliorare; è un problema anche per il personale, ancora alle prese con la cronica carenza di organico. Anche loro, ribadisce la garante, hanno diritto a lavorare in condizioni dignitose. Poco più di un mese fa, la visita della ministra Cartabia. Sembrava potesse muoversi qualcosa, con la crisi di governo i tempi rischiano di slittare ancora: “spero non si congeli il progetto della nuova struttura - conclude Dondio - tenere delle persone in queste condizioni non può che renderle ancora più fragili una volta che saranno fuori”. Monza. Tribunale al collasso, il grido degli avvocati: “Così è insostenibile” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 luglio 2022 Il presidente del Coa Vittorio Sala sollecita una risposta dal ministero della Giustizia sulle condizioni in cui versano gli uffici giudiziari. Si uniscono all'appello anche l'Aiga e i presidenti di Camera penale e civile. Gli avvocati di Monza chiedono di avere risposte dal ministero della Giustizia in merito alla “situazione tragica” in cui versano gli uffici giudiziari della città lombarda. Per questo motivo il presidente del Coa, Vittorio Sala, ha indetto una conferenza stampa nell’aula magna delle udienze penali (con una temperatura di 38 gradi e senza aria condizionata) per lanciare ancora una volta un appello a via Arenula affinché provveda quanto prima a mettere mano alla pianta organica e a concentrare in un unico luogo tutti gli uffici giudiziari brianzoli. Il presidente del Coa di Monza ha sottolineato che ormai la situazione è insostenibile e mortificante per tutti (avvocati, magistrati e cittadini) e ha chiesto interventi in tempi rapidi. Gli ha fatto eco la presidente della Camera penale, Noemi Mariani, che invece si è soffermata sulla fuga dei magistrati dal Tribunale di Monza. Un luogo di passaggio, dove i magistrati sono destinati a restarvi solo per poco tempo, scoraggiati anche dall’assenza di personale di supporto. I numeri parlano chiaro: dodici i giudici monocratici; di questi ben otto hanno chiesto ed ottenuto il trasferimento negli ultimi mesi. Una precarietà ed un’incertezza che si ripercuotono su tutte le attività giudiziarie, ogni giorno, e che non consentono di lavorare bene. Il grido di dolore lanciato dagli avvocati Sala e Mariani è stato condiviso dai presidenti della Camera civile, Stefano Parravicini, e dell’Aiga, Giulia Somaschini. “Da qualche anno ormai la sezione monzese di Aiga - dice la presidente Giulia Somaschini - continua ad esprimere forte preoccupazione per la situazione degli uffici giudiziari locali, incapaci di ben gestire e sopportare il carico di lavoro che il tessuto sociale della nostra provincia genera, per carenza di organico ormai patologica, effetti della pandemia e problematiche logistiche. Questo territorio, che è il motore della nostra bella Italia, merita una macchina giudiziaria all’altezza dei suoi cittadini e dei suoi imprenditori. Quanto alla giovane avvocatura del nostro Foro, Aiga chiede con forza di poter tornare a vivere il nostro Tribunale come quando la maggior parte di noi ha iniziato a muovere i primi passi nella professione, tanti nell’eccellenza della sede distaccata di Desio, dove abbiamo imparato ad essere avvocati giorno dopo giorno anche proprio grazie al rapporto quotidiano con magistrati e funzionari”. L’Aiga chiede che gli uffici giudiziari di Monza, tornino “ad essere accessibili senza preclusioni per gli operatori della giustizia, ad essere luogo di vivo confronto e arricchimento reciproco”. “Le difficoltà di accesso alla professione - conclude l’avvocata Somaschini - unite al distacco con le figure dei giudici e dei cancellieri hanno comportato una palpabile disaffezione verso un sistema del cui malfunzionamento dobbiamo pure dare giustificazione alla clientela, con gli inevitabili disagi del caso. Innegabile è inoltre che il protrarsi di questa situazione di incertezza ed immobilismo abbia un impatto evidente sullo sviluppo delle competenze, specialmente dei praticanti, che sono sempre meno. Auspichiamo di poter tornare quanto prima a sentirci a casa negli uffici giudiziari di Monza e rinnoviamo la più ampia disponibilità a collaborare con le istituzioni. Solo così potremo cercare di garantire qualità e continuità della nostra professione”. Nel 2021, secondo le elaborazioni del ministero della Giustizia, il Tribunale di Monza si è collocato al sesto posto per bacino di utenza e per affari trattati. Un altro dato che esprime l’esigenza di avere uffici giudiziari a pieno organico ed efficienti. Latina. Al via il corso di formazione per il volontariato nelle carceri di Angela Rossi interris.it, 26 luglio 2022 Saranno aperte fino a venerdì 10 maggio le iscrizioni al corso per il volontariato in carcere organizzato dalla Caritas diocesana di Latina. Il percorso di formazione, come spiega la Caritas sul suo sito, è rivolto a tutti coloro che sono già impegnati in attività di volontariato ma anche a coloro che siano interessati ad entrare in questo mondo. Gli obiettivi del corso - Dopo aver sottolineato come il percorso riabilitativo di un detenuto sia la conseguenza di una serie di azioni che coinvolgono tutta la società, la Caritas di Latina ha spiegato che gli obiettivi del corso sono quelli di: comprendere il funzionamento di un istituto penitenziario; favorire l'acquisizione dei principali strumenti per gestire in maniera efficace la relazione con i detenuti; acquisire informazioni in merito alle azioni e alle attività messe in atto per favorire il reinserimento socio-educativo e lavorativo dei detenuti; formare volontari capaci di operare all'interno e all'esterno di una struttura detentiva, in collaborazione con educatori e operatori penitenziari. Gli incontri - Il corso è stato suddiviso in quattro sessioni che si svolgeranno di lunedì, dal 13 maggio al 3 giugno. Il primo incontro sarà lunedì 13 maggio, dalle 15.30 alle 17.00, presso la sala Santa Maria Goretti, nel palazzo della curia vescovile di Latina e verrà affrontato il tema dell'organizzazione del sistema carcerario; i relatori saranno la dottoressa Nadia Fontana e don Nicola Cupaiolo. Il secondo incontro, sempre nella sala S. Maria Goretti della curia vescovile di Latina, è fissato per lunedì 20 maggio. Le principali problematiche all'interno del carcere saranno il fulcro della lezione, che sarà affidata al dottor Rodolfo Craia, affiancato da alcuni operatori della Caritas. Dal carcere al territorio sarà il tema dell'incontro di lunedì 27 maggio che avrà come relatore il dottor Rodolfo Craia, mentre il 3 maggio don Nicola Cupaiolo e alcuni operatori della Caritas spiegheranno ai partecipanti cosa significa essere volontari in carcere. La conclusione della formazione - Al termine del progetto - i cui responsabili sono Fiorina Tatti e Pietro Gava - ci si auspica che i volontari siano in grado di far conoscere alla comunità locale un quadro maggiormente realistico e concreto della realtà carceraria spesso nascosta o prefigurata da pregiudizi e stereotipi; gestire con consapevolezza la relazione con i detenuti; farsi promotori di iniziative di volontariato sulla base degli effettivi bisogni dei detenuti e del contesto carcerario in cui si trovano. Palmi (Rc). Donato un ambulatorio odontoiatrico al carcere Corriere della Calabria, 26 luglio 2022 L’iniziativa di solidarietà è nata dalla collaborazione tra l’associazione Prometeus e l’azienda Henry Schein Italy. Una grande e significativa impresa targata Prometeus ha visto la luce pochi giorni fa, con l’istituzione di un ambulatorio odontoiatrico donato dall’associazione di Palmi Prometeus e dalla Henry Schein Italy alla Casa circondariale “Filippo Sansalone” della cittadina pianigiana. “Un obiettivo ambizioso, - si legge in una nota - che rientra nell’ambito dei progetti per il bene comune e la solidarietà sociale realizzati dal gruppo di soci guidato dal Presidente Saverio Petitto. Un obiettivo raggiunto con la determinazione e la sensibilità di sempre, allo scopo di dare risposte concrete ai bisogni del territorio e della comunità. L’associazione Prometeus e la Henry Schein Krugg, azienda internazionale per le forniture odontoiatriche e odontotecniche, di nuovo insieme per un importante gesto di solidarietà. Una forma moderna di partnership pubblico-privato per il bene comune avviata nel 2016 - con la donazione di uno strumento medicale (Riunito odontoiatrico) all’Ambulatorio di Odontoiatria dell’Ospedale di Palmi - attraverso l’accordo stipulato tra i rappresentanti delle due organizzazioni, Saverio Petitto, presidente dell’associazione e Walter Pozzolini, regional manager della multinazionale. Oggi, in campo la donazione al carcere di Palmi di un riunito odontoiatrico “Anthos” di ultima generazione: un’iniziativa nata dall’esigenza di ripristinare nella Casa circondariale uno studio odontoiatrico, da tempo in disuso, per soddisfare le esigenze sanitarie-dentarie dei detenuti”. “Un pensiero ai detenuti che hanno bisogno di cure e assistenza” - “Ancora una volta, la nostra Associazione - afferma il Presidente Saverio Petitto - in silenzio e senza clamori, fissa degli obiettivi mirati e poi li concretizza. Stavolta, il nostro pensiero è stato rivolto ai detenuti che, pur avendo commesso degli errori nella vita, hanno bisogno di cure e assistenza”. Il Presidente della Prometeus ha ringraziato Federico Volpi, director marketing della Henry Schein Krugg e il regional manager Walter Pozzolini, presenti alla cerimonia di inaugurazione, tenutasi il 22 luglio scorso. “Siamo orgogliosi di essere un partner privilegiato di questo colosso mondiale - ha sottolineato Saverio Petitto - le cui attività di assistenza sanitaria si concentrano nel far progredire il benessere, sviluppare competenze per l’erogazione di servizi sanitari, nonché assistere gli operatori negli interventi umanitari”. Il Presidente Petitto, accompagnato da una rappresentanza di soci Prometeus, alla presenza di autorità civili e militari, ha ringraziato altresì per la collaborazione e la disponibilità il direttore della Casa Circondariale di Palmi Mario Antonio Galati, e il Comandante e dirigente del reparto della Polizia Penitenziaria di Palmi Domenico Paino, che sono intervenuti all’incontro inaugurale. Un’altra operazione di rilievo, messa in campo dall’associazione Prometeus di Palmi, conosciuta oltre i confini regionali per le sue innumerevoli attività culturali e sociali e per le idee innovative e “rivoluzionarie”. L’associazione Prometeus, utilizzando un sistema di partnership e cooperando con il servizio pubblico, senza mai sostituirsi ad esso, ha infatti raggiunto in questi anni - nel campo sociale, di cura del bene e del bello architettonico e di servizi di utilità sociale - risultati inimmaginabili, ricevendo il sostegno e l’ampio consenso della popolazione. Verbania. Nuovi spazi sportivi per il carcere, allestiti con il progetto “L’ora dello sport” vconews.it, 26 luglio 2022 Saranno inaugurati il 4 agosto i nuovi spazi sportivi del carcere di Verbania. La casa circondariale è stata attrezzata con canestri da basket, una rete da pallavolo, porte da calcio e due palestre grazie al lavoro delle associazioni di volontariato e al sostegno di Fondazione Comunitaria, del club Rotary Stresa Pallanza, dell’ordine degli avvocati verbanese e di molti cittadini che hanno contribuito con le loro offerte. L'iniziativa è nata dopo uno scambio di idee tra la direttrice Stefania Mussio, la Garante dei detenuti Silvia Magistrini e il sindaco Silvia Marchionini. L’associazione di volontariato Camminare Insieme si è poi fatta carico del coordinamento del progetto, chiamato 'L’ora dello sport’. Al taglio del nastro sarà presente anche la Paffoni, con il suo presidente e una rappresentanza della prima squadra e delle squadre giovanili. La cooperativa il Sogno preparerà un piccolo aperitivo. “La Casa circondariale - spiega la direttrice Stefania Mussio - è un piccolo istituto nel cuore di Verbania, che nel tempo la città ha conosciuto, sostenuto e incoraggiato. Ha bisogno di interventi e iniziative per fare in modo che la quotidianità penitenziaria non diventi un “tempo fermo”, ma un'occasione per crescere. Poter fruire all’interno dell’istituto di spazi per l’attività sportiva e culturale è fondamentale per recuperare valori sociali. Lo sport interiorizza norme collettive, insegna la convivenza e la capacità di sapersi sacrificare per il raggiungimento di un obiettivo. È espressione di valori educativi importanti e aiuta a incanalare l’aggressività: più lo sport è faticoso e impegnativo, tanto più si recupera equilibrio”. “Un ringraziamento particolare, oltre alle associazioni di volontariato che operano nella struttura e al personale penitenziario - conclude la direttrice - deve essere rivolto anche alle persone detenute che hanno realizzato gli spazi lavorando duramente”. Como. Un libro dal carcere: “L’incontro con don Roberto mi ha rimesso in cammino” di Martina Toppi La Provincia di Como, 26 luglio 2022 Sabato 23 luglio Zef Caraci ha parlato del suo libro dedicato all’esperienza del carcere e all’incontro fondamentale con don Roberto Malgesini insieme al vescovo Oscar Cantoni. Quando qualcuno si lascia dietro di sé una testimonianza veramente incancellabile, nemmeno la morte è capace di far sbiadire il suo ricordo dalla mente di chi ha avuto la fortuna di incontrarlo. È sicuramente così per don Roberto Malgesini, la cui vita si spegneva in quel fatidico 15 settembre del 2020 a causa delle coltellate ricevute da uno di quei senza dimora che aiutava ogni giorno. Eppure, a distanza di quasi due anni, il suo nome e la sua storia sono ancora accesi in molti comaschi: la sua impronta ha segnato per sempre il nostro territorio. Dall’Albania all’Italia in gommone - Lo ha dimostrato ancora una volta l’incontro, tenutosi lo scorso sabato 23 luglio a Rebbio, alla presenza del vescovo Oscar Cantoni, con Zef Caraci e con la mediazione della giornalista Laura d’Incalci. Zef è nato in Albania, nel 1983, e in Italia è arrivato su un gommone partito dalle coste di Valona. Dopo aver vissuto per 4 anni nell’area di Bergamo, nel 2005 viene arrestato e dopo meno di due anni viene trasferito al carcere di Como. La sua vita, che sembrava destinata a rimanere chiusa tra le quattro mura del carcere dopo gli errori compiuti, si apre grazie a diversi incontri e soprattutto grazie a quello con don Roberto. La storia di questa amicizia nata in una cella e durata dieci lunghi anni, è raccontata in “Don Roberto Malgesini. “Vai e prendi loro per mano”, un libro uscito quest’anno per Edizioni Cantagalli con una prefazione a firma del vescovo Oscar Cantoni. “Don Roberto è stato questo con tutta la sua vita, il profumo fragrante e sottile dell’Amore di Dio per gli uomini - scrive il vescovo - E incontrarlo nelle pagine di questo libro sembra un’esperienza vitale: parrebbe di poterlo ancora abbracciare”. L’amicizia in carcere con don Roberto - Un’amicizia che ha fatto sentire Zef fuori dal carcere mentre ancora vi era dentro e che lo ha spinto a mettere a frutto quel tempo sospeso della condanna per rifiorire, guardare indietro e cambiare, profondamente. Tra l’amore per la lettura, riscoperto nella solitudine della cella, la riflessione sugli errori del passato, il racconto della durezza del carcere che non cancella la gioia degli incontri capitati o cercati, il libro di Zef Caraci si fa strada fino a presentare al lettore lo sguardo di don Roberto, limpido e vivo come non mai. Reggio Calabria. Ad Arghillà concluso il progetto “Duru cu duru… non fabrica muru” calabria.live, 26 luglio 2022 Si è concluso, all’Istituto Penitenziario di Arghillà a Reggio Calabria, il progetto “Duru cu duru... non fabbrica muru”, ideato dai funzionari dell’area giuridico pedagogica Caterina Maria Freno e Patrizia Cosmano. Il progetto è frutto della creatività e della volontà di mettersi in gioco di un gruppo di detenuti e ha coinvolto diverse discipline (musica, scrittura, poesia, pittura e teatro) che, in un contesto come quello penitenziario, hanno come fine primario non solo quello di rendere più sereno l’ambiente, ma soprattutto quello di ridurre i conflitti interni. Queste attività, infatti, nel carcere rappresentano non solo un fotte strumento di cambiamento per i detenuti, ma anche e soprattutto un sostegno al sistema penitenziario per una maggiore conoscenza dei soggetti in ordine ai loro comportamenti e orientamenti di vita. Del gruppo dei detenuti partecipanti, alcuni si sono occupati della realizzazione ed organizzazione dei canti, altri della redazione di poesie, altri ancora della realizzazione di brevi scenette teatrali da loro stessi ideate e, infine, un ulteriore gruppo della realizzazione della scenografia con materiale da riciclo (carta, cationi e altro) per creare uno spettacolo finale nel quale tutte le predette discipline sono confluite armonicamente. Si è pensato di utilizzare quale filo conduttore delle quattro discipline la tematica della Calabria da qui il titolo del presente progetto in dialetto calabrese. “Lo scopo di questa iniziativa - ha spiegato la dott.ssa Freno - è stato quello di creare un ambiente di reale collaborazione e inclusione, per andare oltre la “rigidità” dell’ambiente carcerario. Collaborazione che ha contribuito efficacemente a “liberare e organizzare” le capacità di ciascun partecipante che ha avuto un ruolo ben definito all’interno del gruppo. Si è cercato di costruire un ambiente educativo sereno e le attività (pratiche, tecniche, intellettuali), intimamente legate tra foro, hanno assunto una funzione importante: quella di promuovere comportamenti di collaborazione e confronto. Da qui il senso del titolo in dialetto calabrese, “Duru cu duru non fabbrica muru”, che vuol significare che abbattendo gli aspetti spigolosi e duri del proprio carattere si possono creare positive relazioni”. “Tutta la fase progettuale - ha aggiunto la dott.ssa Cosmano caratterizzata dalla scelta delle tematiche oggetto sia dell’attività poetica che teatrale che musicale è stato gestito dagli stessi detenuti che sono stati seguiti comunque dagli operatori dell’area trattamentale. Attraverso tale progetto si è mirato a far tirare fuori l’impegno e la determinazione di voler essere persone libere, che sognano un futuro fatto di bellezza”. Catania. Genitori e figli giocano a calcio in carcere: “Spazi di umanità per i detenuti” di Luisa Santangelo fanpage.it, 26 luglio 2022 Dall’inizio di giugno si tengono, in 82 carceri, le “partite con papà”. Un evento organizzato da Bambinisenzasbarre con il ministero della Giustizia. Un’occasione in più, oltre alle sei ore al mese di colloqui, per stare in famiglia. Giulia festeggia il suo decimo compleanno dentro a un carcere. E si commuove quando suo padre, detenuto, le porta una ciambella vaniglia e cioccolato con le candeline accese, per farle esprimere un desiderio. “Fortunati che il giorno è quello giusto”, si sente dire. Catania, casa circondariale di Piazza Lanza. I cancelli del carcere a due passi dal centro della città si aprono per la “Partita con papà”, organizzata dall'associazione Bambinisenzasbarre in collaborazione con il ministero della Giustizia. Nel cortile di Piazza Lanza c'è un campo da calcio in erba sintetica. Sono stati messi alcuni tavoli, su cui sono state poggiate le bottiglie d'acqua fresche e lungo le linee di bordo campo sono state preparate delle sedie. Compagne, mogli e bambini di 14 detenuti sono attesi per le 17. Loro sono tutti pronti già in cortile, ma non sono autorizzati a farsi intervistare. Coi completini da calcetto, fanno qualche passaggio col pallone di cuoio sotto l'occhio vigile di alcuni agenti della polizia penitenziaria. Uno sarà l'arbitro. I controlli per entrare nella casa circondariale ci mettono parecchio tempo, alle 17.30 ancora nessun parente è riuscito a varcare i cancelli. “Così perdiamo mezz'ora”, si lamenta un detenuto. Ma sembra dimenticare ogni protesta quando sua figlia gli corre incontro e lo abbraccia, mostrandogli le treccine colorate appena fatte ai capelli. Piazza Lanza è un carcere di media sicurezza. Normalmente, dentro ci sono soprattutto detenuti che non hanno ancora un giudizio definitivo sulle spalle: chi è appena stato arrestato, chi non ha una condanna in Cassazione, chi ha fatto ricorso. Ma c'è anche chi deve scontare gli ultimi cinque anni di una condanna più lunga. Nel gruppo dei 14 ci sono persone accusate di reati violenti, furti, rapine, anche traffico internazionale di droga. Tutti partecipano ai laboratori che, a piazza Lanza, organizzano e gestiscono le volontarie dell'associazione Officina SocialMeccanica. Fanno un percorso, insomma, per gestire meglio i propri rapporti con figli e figlie, pur essendo temporaneamente privati della propria possibilità di essere genitori nel mondo che c'è fuori dal carcere. La “Partita con papà” è un'occasione in più, oltre alle sei ore al mese di colloqui, per stare in famiglia. Che non siano abbastanza si capisce guardando le coppie che non si lasciano mai le mani. E i bambini che restano attaccati alle gambe dei padri. “È un evento molto sentito e atteso dalla popolazione detenuta”, spiega a Fanpage.it Giuseppe Avelli, responsabile dell'Area trattamentale del carcere di piazza Lanza. “Noi facciamo i salti mortali per riuscire a garantire questo genere di attività. Per l'area femminile è più facile: qui ci sono circa una cinquantina di donne, riusciamo a trovare gli spazi più adatti. Per gli uomini, che sono circa duecento, è un poco più complicato - prosegue Avelli - Ma sono cose importanti, bisogna garantire ai detenuti spazi di normalità”. E di umanità. In Italia la “Partita con papà” si svolge dal 2015. Quando è partita, gli istituti penali aderenti erano 12. Adesso sono 82. Piazza Lanza aderisce dal 2016. “Gli effetti collaterali della pena si riverberano, in maniera importante, sui familiari e sui bambini. Che però non sono autori di reato”, interviene Elisabetta Zito, direttrice della casa circondariale etnea. “L'obiettivo è quello di fare sì che gli effetti negativi di avere un papà detenuto siano, per quanto possibile, almeno stemperati - aggiunge Zito - Devo ammettere che in questo i volontari ci aiutano moltissimo. Sono circa cento a lavorare con questo istituto, nell'organizzazione delle varie attività”. Tra loro c'è anche Maria Chiara Salemi, di Officina SocialMeccanica: “La prima volta che sono entrata qui dentro è stata proprio per una partita coi papà - ricorda - Ed era stato un pugno nello stomaco: i cancelli, le sbarre, questi bambini che al momento di andare via avevano le lacrime agli occhi. Così ho deciso di impegnarmi in prima persona”. “Forse quello che manca - aggiunge la direttrice del carcere - è l'impegno dell'imprenditoria di questo territorio”. Cioè la possibilità che i detenuti, una volta usciti dal carcere, possano trovare un lavoro regolare e ricevere gli strumenti per cambiare la propria vita. “Il fatto è che questo territorio soffre enormi difficoltà nell'inserimento del mondo del lavoro già in casi normali, quindi in condizioni svantaggiate è ancora più complesso”. Qualcosa, però, si deve fare: “E quello che si deve fare non può essere uguale per tutta la nazione: ogni area ha le sue specificità, ogni comunità ha il suo modo di rispondere alla pena - conclude Elisabetta Zito - In primo luogo è necessario che sia chiaro che luoghi diversi hanno bisogno di soluzioni diverse” Salvini torna al passato: “Basta immigrati, difenderò i confini” di Leo Lancari Il Manifesto, 26 luglio 2022 Per la campagna elettorale il leader leghista rispolvera vecchi slogan e annuncia una visita a Lampedusa. Ma rischia di arrivare tardi. Fino a pochi giorni fa, quando ancora faceva parte della maxi maggioranza che sosteneva Mario Draghi a Palazzo Chigi, per Matteo Salvini le priorità riguardavano l’inflazione, le bollette e i salari degli italiani. Adesso che il vento della campagna elettorale ha ricominciato a spirare, e anche veloce, il segretario della Lega preferisce tornare a spingere sui vecchi e sempre buoni cavalli di battaglia del Carroccio, parlando alla pancia dell’elettorato leghista: “Basta clandestini, appena al governo faremo nuovi decreti sicurezza e difenderemo i confini dell’Italia”, ha promesso durante un comizio tenuto a Domodossola. Parole d’ordine riprese ieri anche dal sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni: “37 mila sbarchi dall’inizio dell’anno in Italia, 9 mila nel solo mese di luglio, il centro di accoglienza (di Lampedusa, ndr) è in emergenza. La priorità per la Lega di Salvini è il ripristino dei decreti sicurezza”. Parole d’ordine semplici, rese ancora più facili dall’aumento di sbarchi registrato negli ultimi giorni a Lampedusa dove ieri mattina si contavano ancora 1.700 uomini, donne e bambini ammassati nel centro di Contrada Imbriacola. Nei prossimi giorni Salvini sarà sull’isola delle Pelagie invitato dal vicesindaco della Lega. Il segretario dovrebbe farsi vedere il 4 e 5 agosto, ma rischia di arrivare tardi. Come già successo nei giorni scorsi, anche in questo caso Viminale e ministero della Difesa hanno disposto l’invio della nave Diciotti della Guardia costiera per trasferire i migranti nei porti siciliani, dove poi verranno smistati. Entro questa mattina - assicurano fonti del ministero dell’Interno - verranno trasferiti mille migranti, 600 dei quali sono partiti ieri sera dall’isola a bordo della Diciotti. Le operazioni di trasferimento proseguiranno stasera e domani con l’impiego di traghetti di linea e di unità navali della Marina militare e della Guardia costiera, mentre sempre al Viminale si sta mettendo a punto il noleggio di una nave da utilizzare per eventuali emergenze future. Il paradosso è che a Lampedusa governa da giugno scorso una giunta di centrodestra che negli anni scorsi non ha certo risparmiato critiche alla passata amministrazione. Ma che adesso - messa alla prova dei fatti - sembra avere difficoltà a gestire la situazione. “Rispetto a prima la macchina dell’accoglienza si è inceppata”, accusa non a caso l’ex sindaco Totò Martello, oggi capogruppo del Pd in consiglio comunale. “Sono preoccupato nel leggere alcune dichiarazioni in cui si ricomincia a parlare di difesa dei confini: il tema della gestione dei flussi migratori è troppo serio e delicato per essere sfruttato per la propaganda elettorale”. Difficile dare torto all’ex sindaco. Sole e mare piatto da soli non bastano a spiegare il numero di barche e barchini che da giorni attraversano il Mediterraneo e le tragedie che troppo spesso le accompagnano (ieri la procura di Messina ha confermato la morte per il caldo e la sete di cinque uomini che si trovavano a bordo di un peschereccio soccorso domenica dalla Guardia costiera). Dietro l’afflusso di migranti (ieri sull’isola ci sono stati altri nove sbarchi) ci sono le crisi politiche di Libia e Tunisia, l’emergenza alimentare e quella climatica, solo per citare alcuni dei motivi che spingono centinaia e centinaia di disperati a prendere il mare ogni giorno. E per quanto si vogliano difendere i confini, come promette la Lega, è difficile, se non impossibile fermarli. Non a caso, fanno notare al Viminale, ad arrivare in gran numero sono soprattutto tunisini ed egiziani. In tutto questo qualcosa di buono che si muove c’è. La piattaforma europea - frutto dell’accordo del 10 giugno scorso sulla distribuzione dei migranti e che deve incrociare la domanda con le offerte di accoglienza, è ormai pronta e dovrebbe cominciare a funzionare nei prossimi giorni. I Paesi che si sono detti pronti ad accogliere i migranti - sia richiedenti asilo che economici - sono 21 per complessivi 10.000 posti l’anno. Sono ancora in mare in attesa di un porto, infine, le navi delle ong. La Ocean Viking di Medici senza frontiere, ieri ha soccorso altre 80 persone che si trovavano a bordo di un gommone quasi sgonfio, a 40 miglia dalle coste libiche. Al momento a bordo ci cono in tutto 387 naufraghi. “Un centinaio di migranti - denuncia invece Sea Watch - salvati da nave Von Triton è stato trasferito su una motovedetta della Guardia Costiera libica e riportato nel paese nord africano”, compresi i “cadaveri di 4 persone che non sono sopravvissute alla traversata”. Ma chi crede più alla “sicurezza” formato Salvini? di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 26 luglio 2022 Sarebbe incredibile se ancora ci fosse qualcuno che si fa imbrogliare da ricette facili che parlano alla pancia delle persone. “Difendiamo chi ci difende”. Così si è espressa nel 2018 Giorgia Meloni sui social proponendo di cancellare l’attuale legge sulla tortura in quanto impedirebbe alle forze dell’ordine di svolgere il proprio lavoro. Ancora più esplicito Edmondo Cirielli, Questore della Camera per Fd’I e autore di quella infausta legge sulla recidiva che produsse a partire dal 2006 eccessi di sovraffollamento carcerario: “Cancelleremo questa orribile norma sul piano giuridico che criminalizza e discrimina le Forze dell’Ordine”. E lo dichiarò, non a caso, dopo il rinvio a giudizio di cinque agenti della Polizia Penitenziaria accusati di tortura nei confronti di un detenuto di nazionalità straniera nel carcere di San Gimignano. Il tutto mentre Matteo Salvini li andava a incontrare fuori dal carcere toscano, definendo l’incontro interessante e commovente. Nel 2022, in un Paese solidamente democratico, dunque, c’è chi ritiene che si debba empatizzare con i presunti torturatori e non con i torturati. Giusto per capire cosa rischia il nostro ordinamento giuridico, sempre Fd’I ha proposto, addirittura, una modifica dell’articolo 27 della Costituzione aggiungendo il seguente periodo: “La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Altro che funzione rieducativa della pena. Dunque, se mai la coalizione di destra dovesse vincere con maggioranza ampia, ci si deve attendere che metta mano a quella norma scritta da personalità straordinarie della storia italiana che avevano vissuto l’onta e il terrore delle carceri fasciste. Sarebbe una rottura drammatica che ci porrebbe fuori dalla legalità internazionale e dalla storia del pensiero giuridico liberale, nel nome di un populismo penale dai contorni pericolosi. La sicurezza è tornata, in modo truffaldino, a essere al centro della campagna elettorale. Non è la prima volta. Non sarà l’ultima. Ne siamo tristemente abituati. L’errore tragico sarebbe quello di inseguire la destra su questo terreno, essendo un falso problema, oltre che scivoloso e pieno di insidie. Chiunque si collochi dentro la cultura liberale, democratica, progressista deve fondare le analisi di politica criminale sui numeri, sulle statistiche e non sui giochi emotivi. Non esiste un’emergenza sicurezza nel nostro Paese e chi lo dice afferma il falso. Gli omicidi, unico delitto che non ammette cifre oscure, sono stati 303 nel 2021 ed erano 314 nel 2019, quando il Ministro degli Interni era Matteo Salvini. I dati del Ministero dicono che nel 2021, in confronto al 2019 (quando lui governava), c’è stato un calo significativo degli indici di delittuosità di oltre il 12%. Sono aumentati solo i femminicidi e le truffe online. E a Milano, presa di mira dalla Ferragni per la poca sicurezza in città, nel 2016 avevamo 123 rapine ogni 100 mila abitanti contro le 78,3 del 2021. Chiunque abbia a cuore la sicurezza delle città diffidi da chi fondi scelte di politica criminale prescindendo da analisi serie. Sarebbe incredibile se ancora ci fosse qualcuno che si fa imbrogliare da ricette facili che parlano alla pancia delle persone. Meglio sarebbe usare anima e cervello. Qualche giorno fa ero a Pontremoli in un istituto penitenziario minorile femminile. Poliziotte molto brave ci hanno raccontato le storie di alcune ragazzine accusate di essere parte di una baby gang. Storie emblematiche di fallimenti educativi. Educare, non punire: questa è sicurezza e non le chiacchiere da social. Su questo bisogna investire risorse umane, sociali ed economiche. *Associazione Antigone Migranti, quel cimitero liquido che interroga le coscienze di Cecilia Strada La Stampa, 26 luglio 2022 “Ci sono tre tipi di persone: i vivi, i morti, quelli che vanno per mare”. Forse negli ultimi anni sono diventati quattro: i vivi, i morti, quelli che vanno per mare, quelli che guardano chi finisce in mare. Le cronache dal Mediterraneo e i racconti di chi c’era ci parlano di sbarchi, morti sui pescherecci, persone che annegano gridando il proprio nome - così chi rimane vivo può dire a tua madre che sei morto - di bambini nati su un gommone in mezzo al mare, una tanica come culla, di persone strappate all’acqua ma riportate in una cella, parlano di pescatori che non mangiano più pesce perché hanno trovato troppi morti nelle reti. Le cronache ci parlano, sì, ma noi le ascoltiamo? E la parola “emergenza” riempie le cronache, usata ovunque a sproposito: non c’è alcuna “emergenza migranti”, l’unica emergenza è quella dei migranti. Dei naufraghi, di chi è costretto a rischiare la vita in mare - perché rischiare di morire in mare è meglio della certezza di morire a casa. O in una cella puzzolente in Libia dove vieni svegliata ogni notte dai tuoi stupratori. Perché finiscono in mare? Perché “morire andando avanti è sempre meglio che morire tornando indietro”. Ci sono cinque tipi di persone: anche quelli che trasformano il Mediterraneo in un cimitero liquido e lo rivendicano, ci costruiscono carriere politiche, o accettano che sia così per ragione di Stato, o semplicemente se ne fregano. Il mare in cui porteremo i nostri figli domani, il mare dolce che abbraccia i nostri figli con i loro braccioli di plastica colorati, è pieno di cadaveri dei figli degli altri. Va bene così? Non solo. Il cimitero liquido viene costruito con i soldi delle nostre tasse - e sarebbe molto più economico salvare persone anziché chiudere le porte della fortezza Europa e ammazzarle sulle frontiere. Avanzerebbero anche soldi per la sanità pubblica, per la scuola pubblica, per i sussidi di disoccupazione - per i braccioli colorati. Ci sono sei tipi di persone: quelli che scelgono da che parte stare. Perché finiremo tutti sui libri di Storia: come quelli che hanno riempito il mare di cadaveri, gridando “non possiamo accogliere tutti!” mentre sappiamo che ovviamente possiamo accoglierli, ce l’ha insegnato la guerra in Ucraina, o silenziosamente strillando “non è più una priorità parlare di Mediterraneo, visto che il nostro avversario non ne parla più ce ne freghiamo pure noi” (sì, “centro sinistra”, sto parlando proprio di voi). Ci sarà anche un capitolo su “chi ha scelto di stare dalla parte giusta, quella dell’essere umano”. Ognuno di noi, oggi, sta scegliendo come sarà ricordato. Su quale pagina vogliamo finire? “Quante vicende, tante domande”. “Immigrati in condizioni disumane”, indagine della Procura sull’hotspot di Lampedusa di Fabio Tonacci La Repubblica, 26 luglio 2022 Cibo cattivo, poche cure e letti tra l’immondizia. Oggi la Diciotti trasferirà 1.200 persone. Il Viminale: una nave in più al giorno per il trasporto. Stordito dalla canicola africana che sale dal deserto e ingolfato di umanità disperata, l'hotspot di Lampedusa appare per quello che è da troppo tempo. Il non luogo più fatiscente d'Italia. La ferita purulenta nel sistema di accoglienza del Paese. Che non è al collasso, si badi bene. Sono lontani i numeri degli sbarchi del 2014-2015 (quasi 200 mila all'anno) e, ancor prima, della Primavera araba: gli arrivi via mare sinora sono 36 mila, 9 mila in più del luglio 2021. Gestibili. E tuttavia, sui sassi di contrada Imbriacola è sempre il giorno dell'emergenza. Col caldo e con il freddo. Col mare mosso o con la calma piatta. Come una ferita che si chiude la sera e si riapre la mattina dopo. “Troppi immigrati per questo hotspot” - Quanti, oggi? La domanda se la pongono i pochi che, sfidando la calura, si arrampicano alla recinzione per chiedere a chi è di là. La risposta è sempre la stessa, maledizione per chiunque debba organizzare il centro sullo scoglio più a Sud d'Italia: “Troppi, per questo hotspot”. Certamente più dei posti letto, che non si sa nemmeno veramente quanti siano: il Viminale dice 370, chi è stato dentro parla di 500. Altri sostengono che in realtà quelli veri, dotati dei servizi che il bando di gara impone di fornire, non siano più di 228. Quanti oggi, dunque? Stesi su materassini lerci di urina e abitati dagli scarafaggi, assopiti accanto a residui di cibo, appoggiati a mucchi di spazzatura, si contano 1.871 migranti mormoranti aiuto. Sono duecento i minorenni soli e cento i bambini - “Duecento i minorenni soli, cento i bambini, diversi i neonati”, segnala Save The Children, che ha operatori dentro all'hotspot, fortezza inaccessibile da quando è stata rifatta la recinzione e tappato il buco nella rete da cui si entrava e si usciva. Provengono dal Bangladesh, dalla Tunisia e dall'Egitto. Erano più di duemila fino a qualche ora fa, poi qualcuno è stato portato via, qualcun altro è entrato. Un uomo, Saleh, si è fabbricato un paio di scarpe utilizzando bottiglie di plastica. Le condizioni igienico-sanitarie sono da vergogna nazionale. “Lo Stato ha perseguito Mimmo Lucano, che col suo impegno aveva creato un esempio virtuoso di convivenza”, si infervora l'ex sindaca dell'isola Giusi Nicolini. “E possibile che nessuno venga a controllare quel che accade qui?”. I trasferimenti sui traghetti turistici - I trasferimenti, ecco un punto da cui partire per capire. Da Lampedusa alla Sicilia li fanno con i traghetti dei turisti, mettendo insieme gente che vuole andare al mare e gente che, da quello stesso mare, è appena scampata. Ce ne sono solo due, uno la mattina, uno la sera. Con la Sansovino ne possono trasportare un centinaio alla volta, con il traghetto Siremar una cinquantina. “Per ogni gruppo da 50 migranti, i carabinieri di scorta devono essere dieci. Quando gli scortati sono solo gli uomini, però, serve un militare ogni quattro. Siamo pochi”, denuncia Antonio Serpi, del sindacato carabinieri Sim. Appalti alle cooperative per 2,9 milioni - Il ministero dell'Interno ha inviato la nave Diciotti per decongestionare il centro: seicento ne hanno caricati di notte, altri seicento questa mattina. Qualche ora di respiro, non certo la soluzione definitiva visto che arrivano anche quindici barchini al giorno, incagliati sulle coste di Lampedusa dove i vacanzieri prendono il sole o siedono ai tavoli dei ristoranti. Il Viminale ha deciso di mettere a disposizione un traghetto aggiuntivo che sarà utilizzato solo per accompagnare i migranti a Porto Empedocle, Pozzallo o Catania. Basta a suturare la ferita? No. A sentire infatti le testimonianze di alcuni lavoratori della Grande Badia, la cooperativa trapanese che si è aggiudicata l'appalto da 2,9 milioni di euro (ma con flussi così intensi e 18,50 euro a ospite, vale molto di più), non tutto gira come dovrebbe. “Si lavora in maniera disumana, a chi è addetto alla pulizia dei bagni viene chiesto di andare a dare una mano in cucina, non consegnano il kit (indumenti, prodotti per l'igiene) ai nuovi arrivati”. “La direttrice ci impediva di dare caramelle ai bimbi”: avviata inchiesta - A parlare è Piera Magnolia, si è licenziata ad aprile. “La direttrice ci impediva di dare le caramelle e le merendine ai bambini, sosteneva che potevano farli ammalare. Io dico che ci si ammala se si beve l'acqua del rubinetto: quando cucinavano con quella avevamo il mal di pancia”. Stesse circostanze raccontate alla redazione palermitana di Repubblica da un altro dipendente, tuttora in servizio. “Capita che chi ha appena finito di ritirare l'immondizia venga mandato in cucina senza le autorizzazioni per farlo. Il cibo a volte è poco, a volte è cattivo”. La procura di Agrigento ha appena avviato un'indagine sull'hotspot. Il fascicolo, per ora senza indagati e senza ipotesi di reato, è nato dopo che gli ispettori del Viminale a giugno hanno scoperto inadempienze contrattuali a carico della cooperativa, i cui manager sono già sotto inchiesta a Bari per frode allo Stato. Storia travagliata, quella della Badia Grande, asso pigliatutto degli appalti dell'accoglienza. Fondata nel 2007 da don Sergio Librizzi, l'ex numero uno della Caritas di Trapani condannato per induzione alla corruzione, ha gestito in passato il complicato Cara di Mineo e il Cpr di Milo. “Siamo in regola”, ribadiscono. Ma i migranti dormono all'aperto nella loro pipì. E la ferita non si rimargina “Migranti uccisi da sete e caldo”, cinque arresti. Altri quattro morti durante un salvataggio di Alessia Candito La Repubblica, 26 luglio 2022 Oltre cento persone deportate in Libia, denuncia Sea Watch. A Lampedusa, hotspot ancora al collasso. Per Save the children: “Urgente tutelare bambini e ragazzi”. Il sindaco di Pozzallo, Ammatuna: “Musumeci taccia, la regione siciliana ha fatto la bella addormentata”. Per tutta la traversata sono stati picchiati con cinghie e bastoni, costretti a viaggiare insieme ad altre 674 persone su un peschereccio troppo piccolo per contenerli, senza neanche acqua a sufficienza per tutti. Sono stati sete e di stenti a uccidere i cinque migranti che gli uomini di Capitaneria e Guardia costiera hanno trovato senza vita a bordo del barcone intercettato nei giorni scorsi. E fra i sopravvissuti a quella traversata da incubo, per la polizia e la guardia di finanza di Messina c'erano anche gli scafisti, cinque egiziani che adesso dovranno rispondere anche di quelle morti. A indicarli sono stati i migranti che hanno visto morire sotto i loro occhi i loro compagni e per giorni - hanno raccontato- hanno subito angherie di ogni tipo. Bastava chiedere cibo e acqua per scatenare la furia dei cinque uomini, che picchiavano tutti senza pietà. Incluso il migrante che avevano obbligato a distribuire la pochissima acqua fra i passeggeri. Era troppo generoso, dicevano. L'acqua contenuta in un bicchierino da caffè doveva bastare a dieci persone. Alcuni, disperati, hanno provato a dissetarsi con acqua di mare o addirittura quella del motore. In cinque non hanno resistito a quel viaggio infernale, sono morti a un passo dall'Europa. E a poco più di due giorni da quella tragedia, la lista delle vittime si allunga ancora. Altre quattro persone sono morte mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo insieme a circa cento persone soccorse dalla nave Vos Triton. “Durante il salvataggio almeno quattro persone sono morte e la situazione medica dei sopravvissuti era molto preoccupante”, ha fatto sapere Sea Watch 3, dopo essere stata contattata dalla Vos Triton. Ulteriori notizie sulle condizioni di quei naufraghi non ne arriveranno. Raggiunta da una motovedetta della guardia costiera di Tripoli, la Vos Triton è stata costretta a trasferire tutti i migranti a bordo dell'imbarcazione libica, che ha riportato tutti indietro. In un Paese che i più considerano un inferno di detenzioni, torture e abusi “da cui - sottolineano da Sea Watch - avevano rischiato la vita nel tentativo di fuggire”. Da lì sono partiti gli ottanta naufraghi salvati nel pomeriggio da Sos Mediterranée, che li ha intercettati al largo delle coste libiche mentre erano alla deriva su un gommone sgonfio. da lì spesso fugge chi riesce autonomamente a raggiungere Lampedusa. Fra loro, molti sono bambini, persino neonati, ancora di più gli adolescenti che viaggiano da soli. “Una situazione particolarmente critica per le condizioni ambientali estreme e il sovraffollamento oltre a ogni limite dell'hotspot di Contrada Imbriacola”, spiega Lisa Bjelogrlic, responsabile degli interventi di protezione minori in frontiera in Italia di Save the Children. Attualmente ospiti del centro di Lampedusa ci sono cento bambini, inclusi neonati, e duecento bambini e ragazzini, tutti minori di 15 anni, che la traversata l'hanno affrontata da soli e da soli sono in un hotspot pieno di adulti. “Molti di questi minori soli, mamme e bambini, hanno già affrontato grandi sofferenze e violenze nella fuga dal loro paese, nel viaggio attraverso le frontiere, nei centri gestiti dai trafficanti, e nell'attraversamento del Mediterraneo, spesso assistendo alla morte di familiari, parenti, amici o compagni di viaggio, e sono in una pesante condizione di prostrazione o fragilità psicologica, e devono ricevere subito assistenza e protezione adeguate. La situazione di questi giorni a Lampedusa - afferma Bjelogrlic - dimostra, ancora una volta, la necessità di affrontare l'arrivo dei migranti e la gestione dell'hotspot di Lampedusa in modo strutturato”. Domani, fa sapere il Viminale, in mille verranno trasferiti. Altri seicento sono partiti nel pomeriggio a bordo della nave Diciotti. Ma per il sindaco di Pozzallo, un altro dei comuni impegnati sul fronte dell'accoglienza, non basta. Senza tanti giri di parole, chiede “una politica estera degna di questo nome e un pattugliamento di una flotta europea nel mediterraneo” il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna. E del governatore Musumeci, che ieri era tornato a parlare di “difesa dei confini”, dice “è l'ultima persona che può parlare di questo tipo di problematiche”. E attacca “La Regione Siciliana, in questi ultimi anni, mesi e settimane è stata totalmente assente nell'affrontare una questione importante, abbandonando e se stessi i Comuni dell'Isola interessati al fenomeno senza dare alcun supporto, ha fatto la bella addormentata nel bosco”. Migranti. Crisi e referendum innescano la grande fuga dalla Tunisia di Leonardo Martinelli La Repubblica, 26 luglio 2022 Aumentano le partenze per il disastro dell’economia e la mancanza di controlli sulle spiagge: gli agenti sono impegnati nei seggi per il referendum costituzionale. È uno degli effetti secondari del referendum, che potrebbe determinare il ritorno della Tunisia alla dittatura: troppo prese dal controllo dei seggi, le forze dell'ordine disertano le spiagge, dove un mare appiattito dalla calura di luglio si offre a chi vuole salire sui barconi verso l'Italia. “Si segnala un forte aumento delle partenze, che continueranno massicce anche i prossimi giorni”, sottolinea Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes). Ma poi, se il presidente Kais Saied riuscirà (come appare scontato) a imporre la sua nuova costituzione, sottoposta al referendum di ieri (i risultati non sono ancora noti ma il sì è dato vincente), aprendo la strada a un “iperpresidenzialismo” in odore di regime autoritario, il nuovo uomo forte di Tunisi avrà la forza di frenare il flusso migratorio attraverso il Mediterraneo? Tale eventualità appare altamente improbabile. Oltre 20mila i tunisini sbarcati sulle coste italiane - Eletto nel 2019, Saied sospese le attività del Parlamento esattamente un anno fa, in attesa della nuova costituzione. “E negli ultimi dodici mesi sono più di 20mila i tunisini sbarcati sulle coste italiane - continua Ben Amor. Nell'intero 2021 erano stati 15mila e quasi 13mila l'anno precedente. Con lui (e dopo il suo colpo di mano del 25 luglio 2021) la migrazione clandestina è aumentata”. Ben Amor non nega che tanti giovani lo sostengano e siano andati a votare sì per la sua costituzione. “Ma è solo un voto di protesta - continua - perché lui si pone contro la classe politica, giudicata corrotta e incompetente, che ha monopolizzato il Paese dal 2011, dopo l'avvento della democrazia. Saied, però, non dà una speranza reale a questi giovani”. Per farlo dovrebbe migliorare la situazione economica e sociale, “ma lui non ha un progetto in questo senso. Ne ha solo uno di potere per sé stesso”. Il salario medio sotto i 300 dollari - E così sono i frutti del disastro dell'economia negli ultimi undici anni a spingere i tunisini a sfidare la morte sulle onde del Mediterraneo. Il salario medio è appena sotto i 300 dollari (è anche quello di un ingegnere informatico al momento dell'assunzione), assolutamente insufficiente per una vita dignitosa, con un'inflazione annua oltre l'8%. La disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento. “Ad appoggiare Saied è soprattutto una parte della popolazione dal livello educativo modesto e dalle aspirazioni molto forti - sottolinea l'economista Ezzedine Saidane. Pensano che la nuova costituzione risolverà tutti i loro problemi, che porterà più soldi e occupazione. Ma non sarà così, perché Saied non ha un reale progetto economico. La delusione in un futuro non troppo lontano potrebbe essere forte e accelerare addirittura la migrazione clandestina”. Tanto più che la situazione è degenerata prima con il Covid (da allora i turisti stranieri sono rarissimi) e poi con la guerra in Ucraina, che da sola rappresentava la metà delle forniture di grano tenero, per il quale il Paese non è autosufficiente. La Tunisia a rischio default - Intanto la Tunisia, con un debito pubblico che ha superato il 100% del Pil, è a rischio default. “Allo Stato manca liquidità - continua Saidane - e questo ha provocato carenze di prodotti alimentari di base, come quelli derivati dal grano, lo zucchero, gli olii vegetali. Due settimane fa si è dovuto attingere alle riserve strategiche degli idrocarburi”. Saied sta negoziando un nuovo prestito con il Fondo monetario internazionale, ma le trattative stagnano e la cifra promessa è già stata ridimensionata dai quattro miliardi di dollari richiesti da Tunisi a due. E l'Fmi, per sganciarli, pretende riforme, tagli alle sovvenzioni pubbliche e nuovi sacrifici ai tunisini. Ancora prospettive negative per le classi sociali più deboli, che alimentano le fughe disperate in mare. Colombia. Mario Paciolla sarebbe morto per strangolamento di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 26 luglio 2022 Le rivelazioni del quotidiano colombiano “El Espectador”. La famiglia denuncia 2 funzionari dell'Onu e 4 poliziotti. A due anni dalla morte del funzionario Onu Mario Paciolla, la giornalista colombiana Claudia Duque ha pubblicato un nuovo reportage che rende pubblici alcuni dettagli degli esami medici legali svolti in Italia sul corpo dell’italiano. Nell’inchiesta diffusa sul quotidiano El Espectador si legge che le ferite sul polso sinistro di Paciolla sarebbero state inflitte quando era in fin di vita, o addirittura post mortem. Sempre secondo le informazioni raccolte da Duque, l’autopsia eseguita dal dottor Fineschi determinerebbe che Mario sarebbe morto per strangolamento, e solo successivamente il suo corpo sarebbe stato sospeso e impiccato a un lenzuolo, nella posizione in cui è stato ritrovato. Queste informazioni, non ancora ufficiali e sulle quali i legali della famiglia Paciolla fanno trapelare cautela, si aggiungono alla lunga lista di incongruenze e manomissioni della scena del crimine da parte di ufficiali delle Nazioni unite. La famiglia Paciolla ha esposto denuncia nei confronti di Christian Thompson, il capo della sicurezza della squadra dell’Onu dove lavorava il funzionario italiano, il collega Juan Vásquez García e i 4 poliziotti che hanno permesso l’inquinamento delle prove. Thompson, infatti, ha ripulito la stanza dove è stato trovato il cadavere del funzionario italiano e ha fatto sparire alcuni oggetti presenti sulla scena, tra cui due pentole e un materasso intrisi di sangue. Per il padre del funzionario, Pino Paciolla, la denuncia “parte dal fatto che sia i due individui dell’Onu che i quattro poliziotti erano sicuramente al corrente dei protocolli da adottare in caso di morte di una persona; è assolutamente anomalo introdursi in un appartamento privato, ripulire lo stesso con la candeggina e gettare in discarica tutto ciò che sarebbe potuto servire per ulteriori indagini sulla morte di Mario”. Secondo Claudia Duque, Mario avrebbe pagato con la vita il suo impegno professionale a favore della giustizia nel contesto della Missione Onu per cui lavorava, che si occupa di verificare l’implementazione degli Accordi di Pace tra Farc e governo colombiano. Le tensioni interne alla stessa Missione delle Nazioni unite avrebbero, secondo Duque, esposto l’italiano come uno dei presunti autori di un report che denunciava un’uccisione di minorenni perpetrata dall’esercito colombiano. Il report sarebbe finito nelle mani del senatore Roy Barreras, che lo utilizzò per far saltare la poltrona dell’allora ministro della difesa Guillermo Botero. Malgrado Barreras sostenga di avere ricevuto il report da alte cariche dell’esercito e non da membri della Missione, la giornalista Duque sarebbe in possesso di alcuni audio di riunioni interne all’Onu che dimostrerebbero il contrario. Nonostante il clamore mediatico sulla vicenda, la linea comunicativa del primo responsabile della Missione Onu, Carlos Ruiz Massieu, rimane quella del silenzio. Contattati per un’intervista, i vertici della Missione hanno declinato le domande specifiche sulle responsabilità di Thompson e delle Nazioni unite nella settimana intercorsa tra il litigio del funzionario italiano con alcuni colleghi, il 10 luglio 2020, e la sua morte improvvisa cinque giorni dopo. Tramite Francesc Claret, capo dell’ufficio di rappresentanza speciale della segreteria generale della Missione, hanno risposto ai nostri interrogativi con la seguente dichiarazione: “Vorrei assicurarvi che il tema è di grande preoccupazione per la Missione. Mario Paciolla è stato un amico per tante persone della Missione. Continueremo a seguire ogni aggiornamento riguardante le due indagini in corso in Italia e in Colombia, alle quali non abbiamo accesso. La Missione ha collaborato pienamente con entrambe le procure. Tutti noi speriamo che le circostanze della morte di Mario si risolvano il prima possibile. Ribadiamo la nostra solidarietà ad amici e familiari di Mario Paciolla”. Nel frattempo, la svolta politica delle recenti elezioni, che hanno celebrato la vittoria dell’alleanza progressista del Pacto Historico, sembra avere delle ripercussioni anche sui rappresentanti della Colombia ai vertici dell’Onu. Dopo la vittoria di Gustavo Petro, Alicia Arango, ex segretaria di Uribe e ministra del lavoro con Ivan Duque, ha rinunciato al suo incarico come ambasciatrice colombiana presso l’Onu a Ginevra; il suo collega Guillermo Fernández, che rappresentava il Paese nella sede centrale delle Nazioni unite a New York, già ministro degli esteri durante il governo conservatore di Pastrana, ha terminato il suo mandato. Al suo posto, il neoeletto presidente ha affidato l’incarico alla leader indigena Leonor Zalabata Torres, attivista arhuaca impegnata da decenni nella difesa dei popoli nativi colombiani. La speranza è che la nuova classe politica che si è battuta in questi anni per la pace e la giustizia sociale ponga tra le Caos Libia, si combatte e si tratta allo stesso tempo di Emanuele Giordana Il Manifesto, 26 luglio 2022 Elezioni impossibili. Fragile tregua dopo i sanguinosi scontri armati tra milizie rivali a Misurata e nella capitale. L'ambasciatore d’Italia a Tripoli: “Status quo insostenibile”. Il rinnovato tutti-contro-tutti libico da cui fuggono i migranti, negli ultimi giorni ha prodotto un’escalation a Tripoli e Misurata con un numero di vittime anche civili imprecisabile. Si parla di 16 morti solo nella capitale, dove la scorsa settimana si sono scontrate le Forze di deterrenza speciale (Rada) e la Guardia presidenziale. Domenica si è combattuto anche a Al Sarraj, 12 km a ovest della città, tra membri della Brigata Fursan Janzour - lo riferisce Al Wasat - e un gruppo armato affiliato alle forze della regione ovest guidate dal generale ed ex capo dei servizi segreti militari Osama al Juwaili. Ieri sembrava comunque reggere una sorta di tregua, mentre il caos si trasferiva sul piano politico, circa il modo per arrivare alle elezioni che tutti invocano: tra le tante questioni divisive in sospeso si è discusso di candidati con doppia cittadinanza e assetto costituzionale all’Alto consiglio di Stato di Tripoli: in ballo la divisione del potere legislativo tra questo (ovest) e la Camera dei rappresentanti di Tobruk (est). Domani a Bengasi - riferisce Agenzia Nova - il capo di Stato maggiore del Governo di unità nazionale (Gun) Mohamed Haddad e il suo omologo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), Abdelrazek Nadori, parleranno di unificazione dei due eserciti anche con i membri del Comitato militare congiunto 5+5. Sul piano diplomatico, l’ambasciatore italiano in Libia, Giuseppe Buccino, ha vistto il premier tripolino Dabaiba e ne ha dedotto che “lo status quo è insostenibile”. Preoccupa in particolare la trasparenza gestionale della compagnia statale National Oil Corporation. Poi c’è la Russia, con i suoi tentacoli africani. Da Brazzaville, toccata ieri dal tour nel continente del ministro degli Esteri russo Serguej Lavrov, che benedice l’idea, il presidente congolese Denis Sassou Nguesso, capo della Commissione di alto livello dell’Unione africana sulla Libia, annuncia l’intenzione di organizzare un forum sulla risoluzione del conflitto nel paese nordafricano, con al tavolo tutti gli attori. Auguri. Ora in Tunisia governa il presidente-re di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 26 luglio 2022 Un referendum (senza quorum) ha approvato la nuova Costituzione che affida tutti i poteri a Kais Saied, in una sorta di monarchia presidenziale. La Tunisia è sempre più una sorta di monarchia presidenziale, legittimata dalla paura popolare per l’Islam politico e ormai lontana dalla ventata di speranze di rinnovamento democratico innestata dalla primavera araba del 2011. Dire restaurazione è ancora poco: a un anno esatto dal golpe non violento condotto dal presidente Kais Saied con l’acquiescenza dei militari e di larga parte delle forze laiche dello stesso Paese che anticipò le rivolte in Egitto, Libia e Siria, in Tunisia oggi si torna a imporre un sistema autoritario centralizzato tutto sommato non troppo diverso da quello dell’ex dittatore Zine el-Abidine Ben Ali fuggito all’estero sotto la pressione delle piazze il 14 gennaio 2011. Con molto ritardo rispetto alle promesse di “riforme rapide” annunciate da Saied il 25 luglio 2021, mentre dimetteva l’ex premier Hichem Mechichi e congelava il Parlamento, la Tunisia ieri si è recata alle urne per il referendum sulla nuova Costituzione che de facto cancella il sistema parlamentare nato nel 2014 e impone il presidenzialismo assoluto. Nel nuovo contesto, il presidente può scegliere e dimettere a suo piacimento sia il premier che i ministri; oltre a ciò, l’esecutivo non necessita della fiducia dei deputati. Al Parlamento resta una pallida possibilità di fare cadere il governo, ma necessita della maggioranza di almeno due terzi. A Tunisi prevale la certezza che la nuova carta costituzionale sarà approvata: non è stato fissato un quorum, le opposizioni hanno in gran parte fatto appello al boicottaggio, ma sarà sufficiente una semplice maggioranza di sì. Non è ancora chiaro quando saranno resi noti i risultati, ma nei giornali locali in serata si prevedeva una quota di votanti attorno al 30 per cento. Si ripropone così lo scenario emerso già un anno fa, con i partiti e gli intellettuali legati al fronte laico certo critici del golpe di Saied, eppure ancora pronti a sostenerlo per combattere i partiti religiosi, la crisi economica e la corruzione cresciuta negli ultimi anni. Myanmar. La giunta golpista uccide 4 attivisti democratici di Emanuele Giordana Il Manifesto, 26 luglio 2022 Un nuovo episodio si è aggiunto alla brutalità della giunta militare birmana che dal febbraio 2021 ha preso il potere in Myanmar: l’applicazione delle prime sentenze capitali contro quattro dei quasi 11.800 oppositori al colpo di Stato che da un anno e mezzo riempiono le prigioni del Paese. “Lunedì il popolo del Myanmar si è risvegliato in uno stato di shock, rabbia e dolore - scriveva ieri il quotidiano clandestino birmano Irrawaddy - quando ha appreso dell’uccisione da parte della giunta di quattro oppositori del regime, accusati di atti terroristici, tra cui due eminenti oppositori democratici Kyaw Min Yu (detto Ko Jimmy) e Ko Phyo Zeya Thaw”. Con l’ex parlamentare Thaw e lo scrittore e attivista Ko Jimmy sono stati giustiziati anche Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw. Le esecuzioni - le prime dal 1988 - erano state annunciate per la prima volta dai militari a giugno e avevano suscitato una forte reazione internazionale. L’atto era dunque annunciato quando i quattro oppositori hanno perso l’appello ma si poteva pensare che la sentenza sarebbe stata quanto meno rinviata anche perché, la settimana scorsa, i giudici dell’Alta corte di giustizia dell’Onu hanno aperto la strada a un procedimento che vede sotto accusa per genocidio il governo del Myanmar per la vicenda dell’espulsione di quasi un milione di Rohingya tra il 2016 e il 2017. La Corte internazionale di giustizia dell’Aja (Icj) ha infatti respinto le obiezioni preliminari del Myanmar sul dossier aperto su richiesta del Ghana davanti alla Corte per i fatti avvenuti quando ancora c’era il governo civile di Aung San Suu Kyi. Nemmeno questo però ha fermato i generali birmani che si sentono in uno stato di garantita impunità. In un annuncio pubblicato sui giornali di ieri (tra cui il Global News Light of Myanmar in inglese), la giunta ha semplicemente reso noto che “la punizione è stata eseguita” per ideazione e coinvolgimento nella resistenza armata e in altre attività anti-regime. Si ritiene - commentava ieri sempre Irrawaddy - che le esecuzioni siano state eseguite durante il fine settimana, poiché i membri delle famiglie li avevano potuti vedere (i prigionieri) per via telematica venerdì. La decisione colpisce tutto l’arco delle forze anti-giunta: persone collegate alle autonomie etniche armate, membri della Lega per la democrazia, artisti. I quattro sono stati presumibilmente impiccati, un’eredità coloniale applicata però solo fino alla fine degli anni Ottanta. Phyo Zeya Thaw, l’ex parlamentare del partito di Suu Kyi (Nld), e il noto scrittore attivista Kyaw Min Yu sono stati giudicati colpevoli di reati ai sensi delle leggi antiterrorismo. Thaw, un artista che era stato precedentemente trattenuto per i suoi testi, era accusato di aver condotto attacchi alle forze di sicurezza, inclusa una sparatoria su un treno di pendolari a Yangon ad agosto che aveva provocato la morte di cinque poliziotti. Quanto agli altri due attivisti, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, sono stati condannati alla pena capitale per l’omicidio di una donna accusata di essere una collaborazionista di Tatmadaw, l’esercito che fa capo alla giunta installatasi nel febbraio 2021 con un colpo di Stato. “L’esecuzione da parte della giunta birmana è stato un atto di assoluta crudeltà”, ha affermato Elaine Pearson, direttrice ad interim per l’Asia di Human Rights Watch. “Queste esecuzioni sono seguite a processi militari grossolanamente ingiusti e motivati politicamente. Questa notizia orribile - ha aggiunto - è stata aggravata dalla mancata notifica da parte della giunta alle famiglie che hanno appreso delle esecuzioni attraverso i resoconti dei media governativi”. Medio Oriente. Btk-gate, sorveglianza di massa in Turchia di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 26 luglio 2022 Le autorità ottengono dai fornitori di servizi internet una mole indiscriminata di dati sui cittadini che ne consente la profilazione. Una violazione dei loro diritti consentita dalla legge. Accesso a siti web, l’uso di applicazioni di messaggistica, gli indirizzi IP collegati, data e ora di inizio e fine di ogni comunicazione e la quantità di dati scambiati, attraverso computer o dispositivi mobili. Il tutto accompagnato da nome e cognome, senza alcuna anonimizzazione. Tutte queste informazioni sono raccolte dai fornitori di servizi Internet (Isp) e inviate ogni ora all’Autorità turca per le telecomunicazioni e le tecnologie informatiche (Btk), che dipende dal Ministero dei Trasporti e Infrastrutture. Che lo stato turco fosse coinvolto in attività di sorveglianza di massa, come del resto buona parte degli stati nazione, era un sospetto da tempo più che fondato. Almeno dalla promulgazione della legge 5651, la cosiddetta “Legge Internet”. Oggi sappiamo almeno in parte come questo avviene, grazie ai documenti ottenuti dal portale turco Medyascope, in quello che è stato già battezzato il Btk-gate. Si tratta di una sorveglianza di massa preventiva e indiscriminata perché diversamente da quanto accade in altri paesi, non è mirata a un’utenza specifica oggetto di un’indagine, dietro ordine di un giudice e una valutazione legale. Btk richiede e raccoglie dai provider tutta la mole di dati, senza supervisione giudiziaria alcuna. Non si conoscono gli scopi specifici di utilizzo di questa massa enorme di dati, che riguarda circa 9 milioni di utenze. In una delle lettere che l’autorità ha inviato ai fornitori si parla di “ottenere informazioni più dettagliate in merito alle attività che si svolgono su internet per finalità forensi e preventive”. La costruzione di uno o più dataset collegati a questa raccolta dati può rispondere a diverse esigenze, che vanno dall’analisi statistica alla raccolta di intelligence. Tanto meno ci sono informazioni su come questi dati vengano conservati, con chi vengano condivisi, per quanto tempo vengano conservati, chi vi abbia accesso, chi sia responsabile della loro supervisione. I dati raccolti sono per lo più i cosiddetti metadati: riguardano il come, quando e dove avviene una data comunicazione. Non è raccolto quindi nessun contenuto effettivo di messaggi e comunicazioni, se protette da crittografia. Tuttavia, già queste informazioni bastano per la profilazione di ciascun cittadino, delle sue abitudini digitali, delle sue reti sociali. Non è impensabile poi ottenere altri dati sui contenuti, da comunicazioni non crittografate oppure violando la crittografia attraverso vari metodi, come l’infezione mirata con malware, l’ispezione approfondita dei pacchetti dati, o la confisca materiale dei dispositivi. Mezzi che le autorità turche hanno sviluppato, o per i quali hanno acquisito la tecnologia necessaria. Inoltre, i dati non anonimi possono essere aggregati con altri dati per identificare e profilare ulteriormente gli utenti di internet. Ciò che rende ulteriormente oscuro lo scenario è che tutto ciò è perfettamente legale. Gli articoli 6 e 10 della Legge Internet definiscono infatti i doveri degli Isp: tra questi la conservazione dei dati degli utenti tra un minimo di sei mesi e un massimo di due anni, la loro trasmissione alle autorità, i rapporti di collaborazione tra Isp e autorità nell’ambito della cybersicurezza nazionale e, naturalmente, le sanzioni per inadempienza. Certo, compare anche un obbligo per gli Ispdi tutela della confidenzialità delle informazioni raccolte. Resta da vedere come ciò sia compatibile con le informazioni non anonimizzate che Btk ha richiesto ai fornitori. Insomma, se la prassi spaventa, il nocciolo della questione riguarda le diffuse politiche autoritarie e le e conseguenti leggi a cui molti governi si sono “affezionati”, che dall’11 settembre 2001 in poi vedono nel controllo capillare la comoda chiave per la sicurezza dello stato, anche a scapito di quella degli individui. Lo scandalo Btk è uno sviluppo preoccupante, ma in fondo atteso, di un ente pubblico impegnato nella sorveglianza di massa in violazione dei principi che tutelano i diritti individuali e collettivi, e un altro tassello nella soffocante rete di controllo che le autorità stanno costruendo attorno a noi.