Decreti Cartabia negli affari correnti, il rebus del rapporto con le Camere di Valentina Stella Il Dubbio, 25 luglio 2022 La circolare Draghi salva le riforme della giustizia, sulle quali però il governo potrebbe dover forzare la mano. I decreti attuativi delle riforme sul processo penale e civile rientrano tra gli affari correnti che il governo Draghi porterà avanti fino alla nomina del nuovo esecutivo, dopo le elezioni del 25 settembre. È specificato nella Circolare della Presidenza del Consiglio relativa appunto al perimetro degli affari correnti: “Il governo rimane impegnato nell’attuazione legislativa, regolamentare e amministrativa del Pnrr”, a cui sono legate le riforme del processo. Lo avevano ribadito in questi giorni sia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sia il premier Mario Draghi. Quali dovrebbero essere i prossimi passaggi? I decreti legislativi sulla giustizia, come anticipato dal sottosegretario Sisto alla Camera, sarebbero dovuti arrivare all’attenzione a Palazzo Chigi entro fine luglio. Poi passaggio in Cdm per l’approvazione e invio alle commissioni Giustizia di Camera e Senato per i pareri non vincolanti, entro 60 giorni. Fino all’emanazione finale da parte del governo, a precise scadenze: il 19 ottobre per il penale, il 24 dicembre per il civile. Tutto questo tecnicamente si può fare, a patto che i partiti evitino di reclamare modifiche di rilievo, che metterebbero la guardasigilli Cartabia e l’esecutivo in una posizione complessa: recepirle per portare comunque a casa i decreti o ignorarle per salvare lo spirito della delega. Se entro il 19 ottobre non fossero in Gazzetta i testi attuativi del penale, rimarrebbe in vigore solo l’articolo 2 della legge delega, quello relativo all’improcedibilità, immediatamente vigente, mentre decadrebbe quanto previsto dall’articolo 1 che prevedeva i decreti. Nel caso del civile, è vero che la delega scade a dicembre e quindi sopravvivrebbe al cambio di legislatura, ma molto probabilmente il nuovo Governo non farebbe in tempo ad emanare i decreti. Dovrebbe invece saltare la riforma della giustizia tributaria, incardinata da poco al Senato. Così come salteranno quella del carcere, che si sarebbe dovuta sviluppare sulle basi della relazione Ruotolo, e quella dell’ergastolo ostativo, il che potrebbe costringere la Consulta al terzo rinvio della sentenza. Mentre per quanto concerne i decreti attuativi della riforma del Csm, spetterà al nuovo governo emanarli giacché la delega scade a giugno dell’anno prossimo. Nei “processi etici” interni all’Anm c’è un segreto ai limiti dell’incostituzionale di Rosario Russo* Il Dubbio, 25 luglio 2022 Da mesi probiviri e Parlamento negano alle toghe l’accesso agli atti. Incluso quello con cui si è deciso di archiviare le accuse contro il Pg Salvi. Il 3 luglio l’Anm ha deciso che nessuna violazione del codice cosiddetto “etico” (in realtà costituito da norme giuridiche) si può addebitare al dott. Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Suprema Corte, in relazione a presunte condotte di auto-raccomandazione risalenti al 2017, allorché tra l’altro egli avrebbe offerto una colazione al dott. Luca Palamara, allora influente componente del Consiglio superiore della magistratura. Posto che, secondo l’esternata accusa di costui, durante l’incontro il dott. Salvi si sarebbe raccomandato per essere favorito nella nomina a Procuratore Generale presso la Cassazione (condotta espressamente sanzionata dal codice cosiddetto etico), il Collegio dei Probiviri dell’Anm, all’esito dell’indagine, ha emesso il provvedimento di archiviazione. L’osservatore si muove a tentoni perché il relativo dibattito, davanti al Comitato direttivo dell’Anm, non è stato trasmesso da Radio Radicale: top secret! Lo Statuto dell’Anm prevede che l’archiviazione dei Probiviri sia vincolante per il Comitato direttivo centrale, restando per statuto accessibile a tutti i soci. Nulla da eccepire, dunque? Purtroppo no, perché il diavolo si nasconde nei dettagli e nella segretezza che li occulta. L’articolo 11 dello Statuto prevede che i Probiviri (ovviamente) devono acquisire le fonti di prova e sentire l’indagato; soltanto all’esito possono trasmettere al Cdc la propria motivata valutazione. Da qui le prime domande rivolte… a chi avverte il dovere di rispondere: sul punto è stato sentito dai Probiviri il dott. Palamara, interlocutore e confitente-accusatore del dott. Salvi? Deve convenirsi che, se la sua deposizione non sia stata raccolta, non si comprenderebbe di che cosa si siano occupati i Probiviri. Non era questo, soltanto questo, il thema inquirendi? Qualunque (auto o etero) “raccomandazione” tra pubblici ufficiali è un grave abuso necessariamente plurisoggettivo: nessuno si raccomanda… davanti allo specchio! Perciò la raccomandazione si scopre soltanto se risulti documentalmente accertata; ovvero se uno dei loquentes (autore o destinatario della raccomandazione) la riveli e la sua confessione- propalazione sia debitamente verificata. D’altronde lo stesso dott. Salvi ha convenuto in sede civile il dott. Palamara proprio per fare accertare la falsità e illiceità delle sue accuse. Dunque come avrebbero potuto invece i Probiviri decidere senza dare “voce” formale al dott. Palamara, limitandosi cioè a prendere atto delle sue accuse divulgate dalla stampa? Non avrebbero essi perso così una buona occasione per accertare i fatti, rilevanti all’interno dell’Anm, e imporre al Palamara di assumersi le connesse responsabilità (civili e penali)? Non avrebbe egli potuto perfino “ritrattare” ogni accusa? Non avrebbe potuto proprio l’indagine motivatamente smentire le gravi accuse eventualmente reiterate in sede propria dal Palamara? Al postutto, ignorando il testo della disposta archiviazione, forse l’osservatore dovrà interpellare il dott. Palamara per accertare se egli sia stato sentito dai Probiviri? Le conseguenze giuridiche sarebbero evidenti: il Cdc non può contestare l’archiviazione proposta dai Probiviri, ma soltanto se essi abbiano operato correttamente, cioè secondo le norme inderogabili previste dallo Statuto. La trasgressione di norme siffatte esporrebbe, in primo luogo, i Probiviri (che rispondono secondo le norme del mandato) all’azione di responsabilità, che può essere decisa dall’Assemblea, anche su deliberazione del Comitato direttivo centrale. Non a caso forse nella medesima seduta i Probiviri hanno chiesto al Cdc di essere assicurati a spese dell’Anm, ricevendone un netto rifiuto. In secondo luogo, la disposta archiviazione sarebbe impugnabile, per iniziativa di ciascun socio, davanti all’Assemblea generale dell’Anm. Queste sarebbero le conseguenze teoriche. Sennonché ancora una volta il diavolo si insinua nel diritto e tra i magistrati. Da parecchi mesi, infatti, il Cdc nega ai soci richiedenti il diritto di accesso ai provvedimenti disciplinari, e perfino alle archiviazioni, cioè il provvedimento normalmente più ambito e lusinghiero per i giudici indagati (una sorta di medaglia al valore professionale ed etico)! Ne consegue che, tolti i trentasei componenti del Cdc cui è stata comunicata l’archiviazione dei Probiviri, le migliaia di soci iscritti all’Anm (il 90% di circa 9.000 magistrati) possono esprimere dubbi e formulare domande, sperando in (doverose) risposte, ma non possono impugnare le decisioni dei Probiviri per la decisiva ragione che… non possono averne - e non ne hanno - ufficiale e sicura contezza. Un ultimo connesso quesito, passando dal disciplinare associativo a quello pubblicistico. Gli stessi documenti che hanno spinto i Probiviri ad indagare sono stati vagliati anche in sede propriamente disciplinare, cioè dall’Ufficio del Procuratore Generale presso la Suprema Corte, tenuto a esperire l’azione davanti al Csm ovvero ad archiviare? Non essendo ipotizzabile l’autoarchiviazione, ad opera cioè dello stesso dott. Salvi, chi ha provveduto a decidere la formale inazione propriamente disciplinare? Oppure non è stata emessa alcuna formale archiviazione? Domandare è lecito; rispondere è cortesia… ma sarebbe oltremodo rispettoso nei confronti del Cittadino, che ancora confida nei magistrati. Un fatto è certo: gli arcana imperii (i misteri del Potere) non hanno portato mai fortuna alle pubbliche istituzioni e la segretezza è espressamente bandita dalle associazioni private (art. 18 Cost.), qual è l’Anm, specialmente su circostanze di così imponente rilievo pubblico, perciò legittimamente divulgate dalla stampa. *Già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte Corruzione, lo “scambio” dopo l’accordo illecito non può essere un post factum privo di rilevanza penale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2022 La Cassazione smentisce che non concorra nel reato chi concretamente si adopera per la remunerazione finale. È penalmente rilevante la condotta di chi coadiuva o realizza la dazione di denaro oggetto dello scambio corruttivo. L’affermazione secondo cui il reato di corruzione si consuma alternativamente con il suggello della promessa dello scambio tra pubblico ufficiale e corruttore o con la materiale realizzazione dell’utilità illecita non consente di privare di rilevanza penale la fase finale attuativa del reato. In quanto, dice la Cassazione si arriverebbe al paradosso che la frazione di condotta più grave della corruzione sarebbe irrilevante di fronte al potere punitivo dello Stato contro il reato. La sentenza n. 28988/2022 della VI sezione penale della Corte di cassazione prende posizione sulla giurisprudenza che, partendo dal fatto che il reato di corruzione è consumato già all’atto dell’accordo illecito raggiunto, tendeva a non dar rilevanza penale all’atto materiale della dazione o dell’utilità promessi. Sarebbe illogica un’impostazione, che priva di rilievo la parte di condotta sicuramente più grave, per il solo fatto che l’ordinamento intende perseguire l’odioso reato già nel momento in cui il pubblico ufficiale mette a disposizione il proprio ufficio per il perseguimento di un fine illecito proprio e del privato. Quindi la Cassazione ha bocciato la decisione del tribunale del riesame che aveva cancellato i domiciliari per il ricorrente che, nell’ambito di un accordo corruttivo, si era adoperato per creare le provviste di denaro necessarie al corruttore per remunerare un funzionario del Miur. Il ricorrente provvedeva a ciò emettendo fatture per operazioni inesistenti verso società riconducibili al corruttore. La Cassazione ha rinviato la decisione sulla misura cautelare per il ricorrente imputato di concorso in corruzione propria. A giustificazione del fatto che non si può considerare irrilevante penalmente chi concorre a favorire lo scambio delle utilità promesse, la Cassazione cita la norma che prevede la causa di non punibilità per chi agisce sotto copertura realizzando il medesimo comportamento attribuito al ricorrente. Il che vuol dire, afferma la Cassazione, che se fosse stata per il Legislatore irrilevante penalmente una siffatta condotta (che porta a compimento lo scambio) non avrebbe avuto bisogno di scriminarla per gli “infiltrati”. Torino. Detenuto trovato impiccato in cella: quasi certo il gesto volontario di Davide Petrizzelli torinotoday.it, 25 luglio 2022 Un 38enne pakistano, detenuto nel carcere di Torino Vallette con l’accusa di violenza sessuale, è stato trovato morto impiccato nella sua cella dagli agenti della polizia penitenziaria, che hanno provato in ogni modo a soccorrerlo senza tuttavia riuscire a salvarlo, nella notte di domenica 24 luglio 2022. L’episodio è avvenuto nel padiglione C. Tutto lascia pensare a un tragico gesto volontario anche se sono ancora in corso gli accertamenti del caso. Napoli. Poggioreale cella 55bis, la più affollata d’Europa: 12 detenuti, una sola finestrina di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 25 luglio 2022 Nelle statistiche degli ultimi anni appare che ogni anno nel solo distretto di Napoli si contano circa cento casi di ingiusta detenzione. “Molte persone entrano in cella da innocenti - dice Samuele Ciambriello, Garante della Regione Campania - e da persone sane per poi uscire ammalate. Tante aggressioni ai danni degli agenti vedono protagoniste persone con problemi psichici. A Poggioreale c’è un Sert per i tossicodipendenti, ma le condizioni sono disumane: 8-10 persone in una stanza. Nella sezione dei cosiddetti sex offender c’è una stanza, la 55bis, che ospita 12 detenuti e ha solo una finestra”. La cella 55bis è, dunque, quella dei detenuti che si trovano in carcere per reati a sfondo sessuale. In questo luogo il cielo è ridotto a uno spazio di pochi centimetri quadrati, la luce praticamente non esiste. C’è una sola piccolissima finestra che dovrebbe dare ossigeno alle dodici persone che ospita. I letti sono posizionati uno sull’altro, un piccolo spazio sostituisce sia il bagno che la cucina, il frigorifero c’è grazie alle donazioni fatte dal garante dei detenuti così come un piccolo ventilatore; le blatte spuntano dai materassi, sgabelli che non bastano per tutti, niente spazio né tantomeno privacy. Anche telefonare ai familiari è un problema: un solo agente di polizia penitenziaria deve gestire il malumore di oltre cento detenuti esasperati che spesso non riescono a mettersi in contatto con i parenti a causa di guasti alle apparecchiature o di ritardi nella tabella delle prenotazioni. Sopravvivere è difficoltoso nella cella più affollata d’Italia e d’Europa e, con il terribile caldo di questo luglio, la cella è un vero inferno in terra. La Cassazione ha recentemente precisato che ogni detenuto ha diritto ad almeno tre metri quadrati calcolati al netto delle suppellettili. Ma il bilancio reale non è positivo. “Anni fa - spiega il garante Ciambriello - il Ministero della Giustizia stabilì che in ogni piano dei penitenziari ci fosse una cella vuota da destinare alla socialità. A Poggioreale, invece, tutti gli ambienti sono pieni e questo porta inevitabilmente all’annientamento fisico e psicologico dei detenuti. Un isolamento nell’isolamento che collide col divieto di trattamenti inumani previsto dalla Costituzione”. Muri alti e resistenti che il garante regionale, insieme al garante della città metropolitana di Napoli, Pietro Ioia, cercano di scavalcare, ma con estrema difficoltà. Tante parole sono state dette per migliorare il sistema penitenziario. La ministra Cartabia durante il suo mandato aveva espressamente detto che il carcere sarebbe stata la sua priorità, ma la realtà ci dice che il complesso degli edifici carcerari fa ancora acqua da tutte le parti, sia per i detenuti sia per chi in carcere ci lavora quotidianamente. Ora che il Governo è caduto si dovrà ricominciare da capo e sarà tutt’altro che facile definire una riforma penitenziaria che possa risollevare e migliorare le carceri italiane. Milano. “Troppe detenute incinte”, interrogazione parlamentare del Pd agi.it, 25 luglio 2022 Dopo che nei giorni scorsi il parto di un bimbo nato morto è stato oggetto di un’interrogazione parlamentare, ieri mattina 23 luglio una detenuta di San Vittore ha dato alla luce un maschietto che gode di buona salute. Stando a quanto appreso dall’Agi, la nascita è avvenuta nel giro di un’ora tra la chiamata al 118 e il cesareo. Nei giorni precedenti, la reclusa avrebbe rifiutato di essere mandata in ospedale. Nelle ultime settimane la Camera Penale di Milano e l’associazione Antigone, che aveva quantificato di recente in otto le detenute in attesa di un figlio solo nell’istituto di pena milanese, hanno portato l’attenzione sul tema chiedendo di evitare il carcere alle donne incinte. Alcuni parlamentari del Pd avevano chiesto chiarimenti alla ministra della Giustizia Marta Cartabia dopo la morte in ospedale di un bambino nato da una 34enne di origine rom portata a San Vittore per furto, assegnata all’istituto di custodia attenuata Icam, ma poi trattenuta in carcere “per un miglior monitoraggio clinico”. Questo accade dopo le polemiche per l’entrata in vigore il 30 maggio scorso di una circolare della Procura di Milano che rende obbligatorio l’ingresso delle donne incinte o con bimbi molto piccoli in presenza dell’ordine di esecuzione di un arresto. Una svolta giudicata negativamente dalla Camera Penale perché revoca una circolare del 2016 che invece raccomandava di non eseguire l’arresto. I legali milanesi sono intenzionati a chiedere alla Regione per trovare una soluzione. Enna. Rinnovato il piano per prevenire il suicidio dei detenuti Giornale di Sicilia, 25 luglio 2022 Rinnovato il piano locale per la prevenzione delle condotte autolesive e suicidarie e del protocollo prevenzione rischio suicidario tra l’Asp di Enna e le case circondariali di Enna e Piazza Armerina. Le modifiche sono state apportate di concerto con il coordinatore del presidio carcerario e il responsabile del dipartimento di salute mentale. Il rinnovo rafforza il proposito di disciplinare in maniera condivisa e integrata le modalità operative che gli operatori dell’istituto penitenziario afferente all’Asp di Enna dovranno adottare, per un’adeguata prevenzione dell’azione suicidaria e per la gestione del disagio psichico della popolazione detenuta, nonché per assicurare il servizio di assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica. Torino. Carcere e Museo Egizio insieme per la mostra “Liberi di imparare”. rainews.it, 25 luglio 2022 Fino al 21 agosto esposte le copie di alcuni reperti dell’antico Egitto, realizzate dai detenuti delle sezioni scolastiche della Casa Circondariale. Museo Egizio di Torino e Carcere Lorusso Cutugno insieme a Sestriere per la mostra “Liberi di imparare”. Fino al 21 agosto esposte le copie di alcuni reperti dell’antico Egitto, realizzate dai detenuti delle sezioni scolastiche della Casa Circondariale dell’Istituto tecnico “Plana” e del Primo Liceo Artistico, tra cui la Cappella di Maia, gli affreschi della tomba di Iti e Neferu, i ritratti del Fayyum, l’ostrakon della ballerina. “È una grande soddisfazione vedere che la mostra ‘Liberi di imparare prosegue il suo percorso presso i piccoli e i grandi comuni del Piemonte. Con Sestriere, paese che mi è particolarmente caro, in cui ho trascorso la mia infanzia e adolescenza con ricordi bellissimi, raggiungiamo il pubblico che ha scelto le nostre montagne per le vacanze estive, stimolando la curiosità per il Museo Egizio e testimoniando il valore non solo accademico e scientifico della nostra istituzione, ma anche l’impegno sociale, con particolare riguardo all’inclusione e all’accessibilità. Il patrimonio di cui ci prendiamo cura appartiene a tutti e sentiamo la responsabilità di promuoverlo e di farlo conoscere”, ha dichiarato la presidente del Museo Egizio, Evelina Christillin. Livorno. “Parole Liberate”: musica oltre le sbarre di Dario Serpan Il Tirreno, 25 luglio 2022 Al Surfer Joe il cd con le canzoni scritte dai detenuti. Apre l’album “Clown Fail” di Luca Faggella. È arrivato nella cinquina finalista della Targa Tenco 2022 nella sezione Album collettivo a progetto, piazzandosi infine al secondo posto. Fonda la vena espressiva dei detenuti con quella di una serie di artisti italiani. Così è nato “Parole Liberate”, album che stasera (domenica 24) verrà presentato al Surfer Joe con un evento che animerà lo spazio esterno del locale che si trova ai piedi della Terrazza Mascagni. Appuntamento alle 21.30 per questa iniziativa nata da Baracca & Burattini, Surfer Joe e Radio Folk concerti & eventi. Ci saranno musicisti e ospiti di profili culturale e istituzionale: da Carlo Alberto Mazzerbo (già direttore casa circondariale di Livorno e Gorgona isola) a Marco Solimano (garante delle persone private della libertà Comune di Livorno), da Francesca Ricci (operatrice di progetti culturali presso il carcere di Livorno) a Riccardo Monopoli e Duccio Parodi in rappresentanza dell’associazione “Parole liberate: oltre il muro del carcere”, e poi Paolo Bedini di Baracca & Burattini (l’etichetta per cui è uscito quest’anno il disco) e Alessandro Riccucci di Magicaboola Brass Band. Parole Liberate è un progetto partito con un bando dell’omonima associazione di promozione sociale, emanato dal Ministero della Giustizia: si propone ai detenuti di scrivere un testo che diventa canzone, grazie al contributo di importanti artisti della scena musicale italiana. Quattordici (e molti più artisti) sono i brani di questo album pubblicato da Baracca & Burattini e distribuito nei Digital Store da The Orchard (Sony Music Entertainment). La versione cd è disponibile tramite il sito bandcamp di B&B. L’immagine di copertina è di Oliviero Toscani e il progetto grafico è stato realizzato da Oliviero Toscani Studio. La presentazione di questo lavoro è una occasione per parlare di altri progetti di integrazione e reinserimento che si operano nelle carceri di Livorno e Gorgona e per discutere più in generale, di alcuni aspetti della condizione carceraria. Ma nel corso della serata ci saranno anche degli interventi musicali con i Nuovo Normale (Andrea Imberciadori alla chitarra elettrica, Andrea Pasciuti alla voce, Lorenzo Eva alla tromba, Simone Fioravanti al flauto), con la cantautrice Teresa Plantamura (voce e chitarra acustica), Davide Bellazzini (chitarra acustica) e il cantautore livornese Luca Faggella, la cui traccia “Clown Fail” (con il featuring di Giorgio Baldi) apre l’album “Parole Liberate”. Per info e prenotazioni: 0586 809211. Maria Paola Guarino: “Vi racconto la vita in carcere in un romanzo” di Stefano Bini Giornale d’Italia, 25 luglio 2022 Ne “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto”, Vittoria Iguazu Editora, la docente e scrittrice ha saputo, giorno dopo giorno, tirare fuori l’anima dei detenuti e le loro emozioni. Maria Paola Guarino, docente della Casa Circondariale di Livorno, è l’autrice di un romanzo particolare, unico nel suo genere. In quest’opera, intitolata Il Tempo è la Sostanza di cui sono Fatto, la scrittrice ci conduce all’interno del carcere nel quale lavora. Con l’occhio di una donna, di una docente, di un essere umano, capacissima di puntare dritto al cuore di chi legge e offrire tanti spunti di riflessione. Oltre a descrivere, con dovizia di particolari, qual è la vera vita dietro le sbarre con un linguaggio Da cosa è scaturita l’esigenza di scrivere un libro così delicato? “Dopo poche settimane di lezione in carcere, quando ho iniziato a leggere particolari elaborati e quando il dialogo in classe, pur essendo formale, veniva sempre più improntato alla sincerità di opinione e valutazione sociale, mi sono resa conto che non l’anima dei detenuti, ma quella degli uomini, stava emergendo. Ho pensato allora che le percezioni che arricchivano la mia conoscenza non potevano rimanere nel chiuso del carcere, ma dovevano essere oggetto di considerazioni esterne. Chiaramente non è stato semplice, ma è stato più facile essere accolta dai detenuti che dissipare le perplessità di chi, prima di questa esperienza, mi diceva: ma chi te lo fa fare?”. Perché raccontare la vita dietro le sbarre del carcere? “Il mondo del carcere è per tutti noi misterioso, a volte magari crediamo di sapere che cosa vi accade, ma ascoltando le parole delle persone semplici che vivono nella C.C., o di ideologi colti, o di coloro che cercano di rendere progettuale il tempo della prigionia acquisendo la cultura che da giovani non hanno conosciuto, possiamo molto avvicinarci alla vera vita dietro le sbarre”. Tra le righe del suo libro, si ben comprende che un detenuto è molto di più. Cosa? “Il mio alunno detenuto con cui da moltissimi anni ho una corrispondenza talvolta intensa, talvolta rarissima, è per me una persona che ho conosciuto pochissimo, ma che con le sue parole ed il suo comportamento, mi ha manifestato l’importanza e la valenza del mio lavoro di insegnante nella C.C.”. Cosa vuole dimostrare con questo libro? “Evidentemente tutti noi abbiamo molte anime anche se poi, chi ha modo di conoscerci, ci cristallizza con l’immagine di un episodio che ha caratterizzato la nostra vita. Dobbiamo capire, invece, che la nostra personalità ha molte sfaccettature e valori diversi. A volte i nostri comportamenti sono determinati dal condizionamento sociale, dall’ambiente esistenziale, ma anche da una valida cultura e dalla ribellione verso una società ingiusta. Lo studio può essere davvero per un carcerato la possibilità, una volta scontata la pena, un reinserimento nella vita di tutti i giorni più completo”. È un messaggio anche per le istituzioni? “Non voglio avere la presunzione di dare un messaggio alle Istituzioni, ma penso che possa rappresentare uno spunto di riflessione per tutti coloro che leggeranno il libro”. Vista l’impronta, definisce il suo libro più un romanzo epistolare o d’informazione? “Anche se la II parte del libro è composta essenzialmente da lettere, preferisco definire il mio testo un romanzo di informazione, perché sia attraverso la corrispondenza epistolare che attraverso le riflessioni dei miei alunni detenuti si può ben capire quanto la presenza della scuola favorisca l’apertura del carcere, perché qui il tempo è prezioso e la progettualità e la cultura ci fanno emergere da una vita vuota e routinaria, permettendo al nostro spirito di “evadere”. Carcere, il “mondo sconosciuto” che cela molti paradossi della nostra democrazia di Paolo Borrometi agi.it, 25 luglio 2022 “Lo Stato dovrebbe essere presente in ogni fase della vita detentiva e invece sembra avere fatto un passo indietro”. “Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere” è un viaggio senza sconti che, il consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura, Sebastiano Ardita, fa per i tipi di “Solferino”. Ma e anche un atto di accusa sui limiti della classe politica e sulla condizione delle nostre prigioni che sono, ancora troppo spesso, i luoghi in cui comincia una carriera criminale. “Ho cercato di raccontare un mondo sconosciuto, quello del carcere, perché al suo interno si celano molti paradossi della nostra democrazia. Un mondo che dovrebbe mantenere in equilibrio civiltà della pena e sicurezza dei cittadini e che invece - avvolto nella retorica e spesso nella incompetenza - finisce per fallire entrambi gli obiettivi e consegnare tutto nelle mani della mafia”. Lo afferma all’Agi, Sebastiano Ardita. Ardita, entrato in magistratura all’età di 25 anni, ha iniziato la carriera come sostituto procuratore presso il Tribunale di Catania, divenendo poi componente della Direzione distrettuale antimafia. Ardita come consulente della Commissione parlamentare antimafia ha redatto il documento relativo all’indagine sulla mafia a Catania. È stato direttore generale dell’Ufficio detenuti, responsabile dell’attuazione del regime 41bis e poi procuratore aggiunto presso il Tribunale di Messina e quello di Catania. “Ricordare le stragi, il dominio di Cosa nostra dentro e fuori dal carcere, è un modo per tornare alla attualità. Lo Stato - spiega Ardita - dovrebbe essere presente in ogni fase della vita detentiva e invece sembra avere fatto un passo indietro. L’apertura indiscriminata delle celle, anche per coloro che sono mafiosi e pericolosi ha consegnato a questi ultimi il governo delle nostre prigioni, sostituendo al potere dello stato quello delle gerarchie criminali. Adesso tutti stanno peggio - annota l’autore - gli agenti ma soprattutto la stragrande parte dei detenuti la cui vita viene consegnata nelle mani di altri recusi. E così è iniziata la campagna contro l’ergastolo ostativo, il 41bis; così è iniziato il braccio di ferro con lo Stato; sono stati sconfitti gli strumenti di pacificazione della legge Gozzini e si è tornati alle rivolte che ci hanno fatto ripiombare nel caos degli anni 70. Eppure tutto era nato per dare più libertà ai detenuti. Come se le libertà fossero delle caramelle lasciate su un tavolo in attesa che essi si servissero, ma senza spiegare come, quanto e con quale criterio. È così che è partita anche nelle carceri la battaglia di delegittimazione dello Stato che serve ai potenti del mondo criminale; così - come se si trattasse di una questione di civiltà - si cerca di far tornare liberi i mafiosi stragisti; così ci si presta a realizzare il papello di Riina, il programma dei Corleonesi”. Poi l’inevitabile riferimento a ciò che accadde con le rivolte incendiarie del marzo 2020, con decine di morti ed evasi e con le scarcerazioni di boss in circuiti di alta sicurezza. “Dopo le rivolte post Covid - spiega Ardita - non c’è stato nessun intervento tempestivo per ripristinare l’ordine negli istituti. Il personale abbandonato ha operato interventi tardivi ed illegali nei confronti di detenuti, come quelli di Santa Maria Capua Vetere, per i quali giustamente saranno puniti i responsabili. Ma le rivolte sono rimaste impunite nella massima parte, non accertate e senza conseguenze sui benefici”. “Lo Stato - denuncia duramente il consigliere Ardita - si è piegato al vertice e ha processato la sua stessa base abbandonata. Forse però non tutti comprendono che giocare a far venire meno il monopolio della forza dello Stato, rischia di portare a sospensioni dei diritti e della democrazia. L’incapacità di garantire la sicurezza bilanciandola con trattamenti civili, ed il ribaltamento dell’equilibrio costituzionale, può portare ad autoritarismi come ieri portava alla tirannide. Far travolgere i diritti degli innocenti, per non avere saputo dosare i benefici ai criminali, spinge i cittadini a fidarsi di chi vuole sicurezza senza diritti. Quando questo dovesse accadere - conclude Ardita -, poi non dite che non l’avevamo detto”. L’emergenza sociale deve essere la priorità, altrimenti vinceranno non voto e populismo di Chiara Saraceno La Repubblica, 25 luglio 2022 Affossando il governo con l’aiuto della destra i Cinque Stelle sono riusciti a bloccare ogni possibilità di affrontare quell’agenda sociale che pure avevano dichiarato essere non negoziabile, pur nelle loro plateali contraddizioni (perché non si può sostenere insieme il salario minimo e la lotta al precariato e il bonus edilizio del 110 per cento). Anzi, se alle elezioni vincerà la destra è altamente probabile che verrà smantellata anche la misura più identitaria del M5s: il reddito di cittadinanza, che, pur con i difetti di disegno e la sola parziale implementazione delle misure di accompagnamento, ha sottratto alla povertà assoluta milioni di persone in un periodo molto difficile. Del resto, non è la prima volta che i Cinque Stelle contribuiscono a indebolire le misure che loro stessi hanno promosso. Sono stati loro a fornire fin dall’inizio il destro per la narrazione tutta negativa del Reddito e dei suoi beneficiari: con le norme definite (da Di Maio in persona) “anti-divaniste”, insieme alla scarsa, quando nulla, attenzione per i meccanismi che regolano la domanda e offerta di lavoro e per quanto è necessario per realizzare una politica attiva del lavoro così come per una vera politica di inclusione. E la resistenza opposta ad ogni proposta che rendesse la misura insieme più equa ed efficace ha di fatto consentito che venissero introdotte solo modifiche peggiorative. Da ultima quella che, nel Decreto aiuti convertito in legge proprio mentre il Movimento rifiutava la fiducia al governo con il pretesto del termovalorizzatore a Roma, dà in mano ai datori di lavoro un enorme potere di ricatto, in quanto possono denunciare direttamente un beneficiario che non accetti un lavoro “congruo”, la cui definizione e accertamento rimane nel vago. Chi prenderà seriamente in mano l’agenda sociale - precarietà, lavoro povero, povertà materiale e povertà educativa, vecchie e nuove forme di diseguaglianza - ora che siamo sotto elezioni, provando a costruire un discorso pubblico in cui la questione delle disuguaglianze inaccettabili possa essere affrontata contestualmente a quella dello sviluppo e dell’innovazione? La “corsa al centro” in cui tutti i partiti, incluso il Pd, sembrano impegnati e la ricerca (soprattutto nell’area del centro-sinistra) di più o meno improbabili o affidabili alleanze rischia di relegare il tema ancora una volta ai margini, lasciando senza rappresentanza una buona fetta di elettorato, sempre più sfiduciato, quando non tentato da sirene populiste. Conte potrà cercare una ennesima reincarnazione in un Mélenchon nostrano, ma la sua, e del M5S, credibilità mi sembra scarsa, non solo per le troppe giravolte, ma anche per la sostanziale contraddittorietà della sua agenda. Ciò che è riuscito nel 2018 non riuscirà nel 2022. Ma anche il Pd deve recuperare credibilità sui temi sociali. Più attivo, anche se in modo tardivo e senza risultati, sull’agenda dei diritti civili, su quelli sociali è stato infatti abbastanza reticente nei due governi cui ha partecipato, accodandosi da ultimo ad una “agenda Draghi” abbastanza nebulosa e in qualche caso controversa, anche a motivo dell’eterogeneità della maggioranza che la sosteneva. Fanno parziale eccezione il progetto di riforma degli ammortizzatori sociali e il programma di politiche attive del lavoro, che pure con la crisi di governo rischiano lo stallo. Ora è il momento di uscire allo scoperto. Se si pensa di fare una campagna elettorale basata solo sulla paura della vittoria delle destre si rischia di rafforzare la motivazione al non voto tra chi è già sfiduciato. Un programma preciso e definito nei particolari è troppo e forse inutile. Ma qualche punto chiaro che segnali la consapevolezza dei problemi sul tappeto e indichi la direzione in cui si intende andare, in un contesto in cui le cause di vulnerabilità sono in aumento, mi sembra altrettanto importante della professione di atlantismo e europeismo. Torniamo ad ascoltare ultimi e invisibili, il riscatto parte da un lavoro dignitoso di Marco Bentivogli La Repubblica, 25 luglio 2022 Il nostro welfare va rafforzato e ripensato se vuole essere davvero universale. Purtroppo (si fa per dire), neanche questa volta un governo è caduto per l’importanza che ha assegnato alla questione sociale. Certo, il Pil al 3% è più che mangiato dall’inflazione. Siamo all’8%, un prelievo netto su salari, pensioni e risparmi. Ma se, come l’Istat ci ricorda, dal 2005 gli italiani in povertà assoluta sono triplicati, risparmiamo almeno loro la propaganda. Neanche le misure supplementari di protezione sociale, i “ristori” varati per la pandemia hanno intercettato né contenuto le nuove povertà, le cui mappe sono cambiate: Bankitalia ci dice che le famiglie più povere sono sotto i 40 anni e quelle che detengono la maggiore quota di ricchezza sono tra i 41 e i 65. Nei prossimi 30 anni avremo, in età da lavoro, 8 milioni di italiani in meno. Dati che ricordano come una gestione delle transizioni fatta di slogan, senza politiche, rischia di ampliare i divari. La povertà si batte con il lavoro e con uno Stato Sociale efficace e giusto. Il nostro welfare va urgentemente rafforzato e ripensato perché le marginalità sociali crescono, le persone in difficoltà, soprattutto invisibili allo Stato, sono in aumento. Serve un “welfare umano”, perché anche se le prestazioni fossero efficienti (e non lo sono), non bastano. L’universalità dei servizi non è messa in discussione solo da alcune dottrine economiche privatistiche, ma in primo luogo da uno Stato in cui la scuola fallisce la missione educativa, i ritardi della sanità fanno crescere il ricorso al privato o la rinuncia a curarsi, e manca una politica abitativa. Il reddito di cittadinanza, in troppi casi è stato l’unico intervento. Va migliorato, contrastando gli abusi e dando corpo alle politiche attive. I poveri hanno, da sempre, molti nemici: quelli che negano le estreme difficoltà delle condizioni di vita, i garantiti che si spacciano per ultimi e chi finge di ricordarsene per posizionamenti politici, totalmente innocui (quando va bene) sulla vita delle persone. Il welfare elettorale è stato questo, confondere i furbi con i poveri. Il populismo si nutre del racconto della questione sociale ma l’ha sempre confusa con la politica clientelare del consenso, nell’indifferenza delle categorie più forti che riescono a tutelarsi meglio e da sole. Gli ultimi e i penultimi hanno più bisogno di buona politica, di far presto. Sono quelli che veramente non possono aspettare. La sinistra (progressista e riformista) tornerà a rappresentare la domanda sociale se saprà mettersi in ascolto. Solo così si potrà far scuola di una virtù fondamentale: il discernimento. I tassisti, i balneari sembrano più i veri “poteri forti” che gli eredi della classe operaia. Il perno di ogni politica economica e sociale deve essere l’occupazione dignitosa. Occorre fare riforme profonde, ridurre le aliquote Irpef. Uno stato sociale giusto, si fonda su un sistema efficace di accertamento dei redditi. Non si costruiscono politiche senza riportare nel monitor tutto il lavoro povero vero, quello che preclude ogni disponibilità di un reddito adeguato ai propri bisogni. Nel 2020 su più di 41,2 milioni di dichiarazioni dei redditi, 11,8 milioni sono risultate inferiori a 10.000 euro. In quei numeri, ci sono tanti evasori ma anche tanti lavoratori poveri. Che fare? Non chiamiamolo salario minimo, ma serve una “soglia di decenza” sotto la quale non si può pagare un’ora di lavoro. Il “giusto salario” lo devono fissare i contratti collettivi ma indipendentemente dal lavoro (dipendente o autonomo) ci deve essere una soglia sotto cui nessuno può andare. La questione sociale e la produttività, l’occupazione e i salari si tengono. Nelle aree di lavoro scarso, povero o precario ci sono sempre due spie: i compro oro e le slot machine. Sono le bandiere del fallimento della comunità e della resa dello Stato. Nella consapevolezza che gli ultimi non votano e spesso non han voce, si punta sul rancore e la difesa corporativa degli altri. Per questo serve una politica che sappia dare continuità alle cose ben fatte, ricostruire i legami di solidarietà, e che non faccia sentire gli ultimi “scarti” o “merce elettorale”. Il loro riscatto ci rende umani. Paolo Picchio: “In nome di mia figlia Carolina aiuto i ragazzi a non morire di web” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 luglio 2022 Per la serie “I diritti non vanno in vacanza” intervista al papà della 14enne suicida nel 2013 per cyberbullismo. “Nella lettera d’addio scrisse ai suoi persecutori: sapete che le parole fanno più male delle botte? Voleva che raccontassi la sua storia e ho capito che mi aveva lasciato il compito di difendere i suoi coetanei, oggi è la mia ragione di vita”. Paolo Picchio dice che la sua ragione di vita sono i ragazzi che incontra nelle scuole. “Anche salvarne soltanto uno mi avrebbe dato la forza per sostenere l’assenza di Carolina. Per fortuna, invece, riusciamo a salvarne tanti”. Una grande cascina alle porte Novara. Prati, fiori, alberi da frutto nel concerto di grilli e cicale nonostante l’assedio della siccità. “Carolina giocava sotto quel salice, quella era la sua altalena”. I giorni felici di una bambina. Paolo Picchio, manager in pensione, ha la mitezza di chi è andato oltre la soglia - umana - del dolore. Divide la vita in questa corte antica con la sorella Maria Giovanna. Se oggi c’è una legge in Italia che definisce e sanziona il cyberbullismo, se oggi esiste “il diritto a navigare in sicurezza” lo dobbiamo a lui, alla sua battaglia perché nessuno debba più patire le persecuzioni subite da sua figlia Carolina. È la notte tra il 4 e il 5 gennaio del 2013 quando Carolina detta “Caro”, 14 anni, campionessa di atletica e di sci, allegra, solare, bravissima a scuola e, anche, bellissima, si uccide buttandosi dal balcone della sua cameretta di adolescente. Lascia una lettera di addio, grazie alla quale Paolo scopre l’abisso di sofferenza di una figlia diventata bersaglio, per un video diffuso su quei primi social, di una campagna di odio. Paolo, cosa c’era scritto in quella lettera? “In quella lettera, in gran parte secretata dalla procura di Torino, la mia Carolina spiega perché si è uccisa. “Volevo soltanto dare un ultimo saluto...Perché il bullismo, tutto qui? Siete così insensibili? Ma voi lo sapete che le parole fanno più male delle botte? Cavolo se fanno male. Ma a voi cosa ne viene in tasca a farmi soffrire? Spero che adesso siate più sensibili con le parole”. E sotto indica i responsabili di chi le aveva distrutto la vita”. È doloroso raccontare, lei però ne ha fatto testimonianza di vita creando la Fondazione Carolina contro il cyberbullismo. Perché quel video sconvolge così tanto sua figlia? “Ad una festa in casa di amici, circa un mese prima, Carolina si era ubriacata. Non lo faceva mai, teneva alla sua salute, al suo fisico, quella sera evidentemente è successo qualcosa. Ricordo che intorno a mezzanotte le amiche di Carolina mi chiamarono spaventate perché mia figlia non riusciva a riprendersi. La trovai in bagno, priva di sensi. Soltanto dopo la sua morte ho capito cosa era accaduto davvero. Mentre era incosciente in cinque avevano mimato atti sessuali su di lei, uno di loro aveva filmato la scena e quel video sul web era diventato virale. Sotto insulti terribili, ingiurie, una valanga di odio”. Un mese dopo, a gennaio, qualcuno segnala a Carolina quel video che circolava in rete... “Erano le tre di notte, mi svegliarono i carabinieri. La finestra della sua camera era aperta. In strada c’era un’ambulanza. Capii subito. Tutto era finito in un attimo. Il suo sorriso, la sua allegria, la sua voglia di vivere, la sua dedizione agli altri, le nostre notti a guardare le stelle. Quella sera aveva visto il video di cui tutti parlavano e si era spezzata dentro. Le avevano violato l’intimità. Avevo già perso un figlio di quattro anni, poi Carolina, a volte chiedo ancora a Dio il perché di tanta sofferenza”. Chi tormentava Carolina? “Per il video sono stati condannati in sei, all’epoca cinque erano minorenni, con pene alternative al carcere. Per l’unico maggiorenne ci fu un processo a parte. Arrivare alla sentenza, nel 2018, è stato difficilissimo, non solo per l’omertà che a lungo ha coperto gli autori di quella violenza, ma anche perché non esisteva la coscienza della gravità del cyberbullismo. Devo ringraziare la procura per i minorenni di Torino e la mia avvocata Anna Livia Pennetta, se quei ragazzi sono stati obbligati a riflettere su ciò che avevano fatto a Carolina”. Sono cambiati? Le hanno chiesto scusa? Paolo sorride e guarda lontano. “Spero di sì. Non ne sono certo”. Nel 2017 intanto era stata approvata in Italia la prima legge sul cyberbullismo. Dove ha trovato la forza di “combattere” per sensibilizzare il Parlamento? “In un passaggio della lettera di Carolina: “Voglio che si sappia la mia storia, perché in giro non sono solo io a soffrire di bullismo”. Per mesi dopo la sua morte sono rimasto immobile, sotto shock, incapace perfino di parlare. Potevo solo piangere. Leggevo e rileggevo le sue parole. Ho capito che mi aveva lasciato un compito: occuparmi dei suoi coetanei, delle vittime di bullismo. Per un diritto fondamentale: poter navigare in sicurezza”. La legge è firmata dall’ex senatrice del Pd, Elena Ferrara... “Era la professoressa di Musica di Carolina, poi eletta in Senato. Ci incontrammo a una fiaccolata, anche lei voleva impegnarsi a fondo perché la tragedia di “Caro” non si ripetesse. E’ una legge di diritto mite rivolta ai giovani: punta alla prevenzione e alla rieducazione. Perché finalmente la Camera approvasse la legge ho dovuto però scrivere una lettera aperta a Laura Boldrini. Che la calendarizzò subito”. Cosa è la Fondazione Carolina? “Una Onlus che ho voluto fortemente con la quale facciamo prevenzione del cyberbullismo, supporto e formazione nelle scuole. Il segretario generale è Ivano Zoppi. Abbiamo un team di psicologi ed educatori con i quali interveniamo direttamente nei casi più gravi, dai ricatti sessuali in rete alle minacce, allo stalking”. Cosa dice ai ragazzi quando li incontra? “Racconto loro la storia di Carolina, quasi sempre hanno gli occhi lucidi. Dico loro che hanno il diritto di essere felici e sicuri sui social, ma che i rapporti umani sono insostituibili. Hanno diritto a connettersi con il mondo ma anche con se stessi, come dice Zoppi. Parlo della parità di genere. In questi cinque anni ne ho incontrati più di centomila. Molti poi mi cercano in privato. Penso a una ragazza che stava per compiere lo stesso gesto di Carolina. Dopo settimane di colloqui al telefono e in chat, mi ha detto che ne era uscita. Oggi sta benissimo. Un ricordo di sua figlia... “Quando mi chiedeva di andare a vedere e contare le stelle. Era innamorata dell’astronomia fin da bambina. Ogni agosto salivamo in montagna perché in alto il cielo è più pulito. “Caro” oggi è una stella che brilla per noi”. Salvini torna all’attacco su frontiere e migranti: “Basta finti profughi” di Niccolò Carratelli La Stampa, 25 luglio 2022 Lui si vede già di nuovo al Viminale. Basta ascoltare il ritornello con cui ha iniziato la campagna elettorale o scorrere gli ultimi cinque tweet sul suo profilo, per capire che l’obiettivo di Matteo Salvini è tornare a fare il ministro dell’Interno. Riprendersi il posto che ha perso nell’estate del 2019 sulla spiaggia del Papeete, il posto che negli ultimi tre anni è stato occupato da Luciana Lamorgese, sul cui operato non ha mai risparmiato critiche, chiedendone le dimissioni almeno una volta a settimana. Promette anche la pace fiscale, la flat tax, la riforma delle pensioni con “quota 41”, ma il leader della Lega resta convinto che i tasti da toccare per provare a recuperare consensi e risalire nei sondaggi siano i soliti: sicurezza, difesa dei confini, rimpatrio dei migranti. Il repertorio classico, quello che gli ha consentito di prendere un partito ridotto al 4% e portarlo in pochi anni oltre il 30%. Altri tempi, ma è inutile inventarsi altro, ragionano nello stato maggiore leghista: chi vota (o votava) Lega si aspetta questo. La sceneggiatura non originale è già scritta, con un crescendo di dichiarazioni nelle ultime ore: “Se andremo al governo porteremo come prima proposta un nuovo decreto sicurezza e l’impegno a zero clandestini in giro per le nostre strade. Per i clandestini biglietto di sola andata per tornarsene a casa”, ha scandito Salvini sabato sera dal palco della festa della Lega a Domodossola. Ieri, poi, quattro tweet a poca distanza uno dall’altro. Il primo a commento della notizia di una violenza sessuale subita da una tredicenne vicino a Genova, per cui è stato denunciato un 17enne migrante egiziano: “Clandestini e finti profughi, spacciatori e stupratori: dal 25 settembre tutti a casa!”. Poco dopo viene postato un cartello, con la foto di un barcone di migranti e la faccia di Lamorgese, accompagnati da un appello eloquente: “15 sbarchi con 411 arrivi, Lampedusa di nuovo nell’emergenza. Ridateci Salvini a difendere i confini”. Un paio d’ore dopo, altro cinguettio a rafforzare il concetto: “Più morti, più sbarchi, più soldi per i trafficanti significa più sofferenze per tutti. Bisogna cambiare, si può cambiare. Col voto degli Italiani, dal 25 settembre tornano sicurezza e coraggio”. Infine, il video dell’aggressione subita da un ragazzo per strada a Napoli, pare a opera di due giovani africani, e la facile invettiva: “Immagini che dimostrano quanto le nostre città siano insicure con un ministro non all’altezza. Basta! Con il voto del 25 settembre il nostro Paese deve tornare a essere sicuro: basta buonismo di sinistra”. Il segnale è arrivato forte e chiaro, da Nord a Sud. “Dal 25 settembre torniamo a controllare i confini e riportiamo l’ordine a Milano e nelle altre città”, dice Fabrizio Cecchetti, vice capogruppo leghista alla Camera e coordinatore della Lega lombarda. Mentre da Napoli, commentando l’incendio scoppiato ieri mattina in un campo rom a Scampia, il coordinatore partenopeo della Lega, Severino Nappi, avverte: “Con Salvini al governo smantelleremo quel campo”. Il ritorno alla ruspa, insomma, all’epoca dei porti chiusi per fermare gli sbarchi. Il cui lascito è anche un processo con l’accusa di sequestro di persona per il caso Open Arms: la prossima udienza a Palermo è prevista il 16 settembre, una settimana prima del voto, e c’è da scommettere che Salvini proverà a trasformarla in un altro appuntamento della sua campagna elettorale. “L’idea è quella di ripristinare i decreti Salvini nella loro versione originaria”, spiegano dallo staff del segretario leghista. Per capirci, ad esempio, una probabile nuova stretta sulle condizioni per chiedere la protezione umanitaria e un’altra crociata contro le Ong che si occupano dei soccorsi in mare: i decreti prevedevano sanzioni a loro carico, fino al sequestro delle navi, misure poi abolite dal secondo governo Conte. “Ma l’impegno è anche sull’ordine pubblico, per garantire la sicurezza nelle città, con un’altra tornata di assunzioni straordinarie nelle forze dell’ordine, che Salvini aveva già fatto”, precisano dalla Lega. Sul tema della sicurezza e del contrasto all’immigrazione, del resto, la compattezza del centrodestra è abbastanza granitica. Basti ricordare che Giorgia Meloni, di fronte ai porti chiusi da Salvini, aveva rilanciato con la proposta del blocco navale. E sempre la leader di Fratelli d’Italia ieri ha pubblicato un tweet perfettamente sovrapponibile a quelli dell’alleato leghista: un video dell’aggressione davanti alla stazione di Milano, autore sempre un migrante africano, e una domanda retorica: “A quante altre aggressioni e violenze dovremo assistere per ammettere che in Italia c’è un enorme problema sicurezza? Non c’è più tempo da perdere”. Almeno su questo punto, nel caso, Giorgia e Matteo avranno poco da discutere. Migranti. Cinque morti nel maxi sbarco in Sicilia. Cadaveri buttati in mare di Giacomo Galeazzi La Stampa, 25 luglio 2022 Cinquecento migranti abbandonati dagli scafisti senza acqua né cibo su un peschereccio. Soccorso dalla capitaneria di porto di Messina “boat people” al largo della Libia. Trenta i minori non accompagnati. Ocean Viking in aiuto di un altro gommone stracarico Abbandonati in mare dagli scafisti senza acqua né cibo. Due mezzi della Capitaneria di Porto sono approdati sul molo Norimberga di Messina, dopo avere soccorso un peschereccio al largo della Libia con a bordo 500 migranti. A Messina ne sono sbarcati solo 179, oltre alle salme di cinque persone decedute per cause non ancora accertate. Gli altri sono stati dirottati a Portopalo di Capo Passero, Catania e Crotone. I migranti, tra i quali trenta minori non accompagnati, sono stati accolti da personale della polizia, della prefettura, del comune e dell’azienda sanitaria provinciale e si sta procedendo delle loro condizioni e a rifocillarli. “Questa mattina, Ocean Viking ha avvistato un gommone stracarico in acque internazionali al largo della Libia. 87 persone, tra cui 57 minori non accompagnati, sono state soccorse. Nessuna aveva un giubbotto di salvataggio”. Lo scrive in un tweet Sos Mediterranee Italia. Cadaveri in mare - “Dopo i 4 soccorsi effettuati ieri, a bordo di #SeaWatch3 abbiamo a bordo 428 persone, tra cui donne, bambini, una donna incinta di 9 mesi e un paziente con gravi ustioni costantemente monitorati dal team medico. Se non fossimo stati presenti quale sarebbe stata la loro sorte?”. Lo scrive in un tweet Sea-Watch Italy. Intanto nella giornata di ieri, un peschereccio alla deriva con oltre 600 migranti è stato soccorso, a circa 124 miglia dalla Calabria, da una nave mercantile, da 3 motovedette della Guardia Costiera e da un’unità della Guardia di Finanza. A bordo del peschereccio, sono stati rinvenuti anche 5 corpi priva di vita. 674 in totale le persone tratte in salvo - alcune recuperate direttamente dall’acqua - dalle MM/VV CP323, 332 e 309, dalla PV3 della Guardia di Finanza e dalla nave mercantile Nordic - fatta dirigere anche essa in area per l’emergenza - che poi le ha trasbordate su nave Diciotti della Guardia Costiera, presente nell’area del soccorso. Sono intervenuti inoltre un velivolo da pattugliamento marittimo P72A impiegato dalla Marina Militare, che ha effettuato il primo avvistamento, e un aereo di Frontex che ha seguito l’evento. I migranti salvati sono stati trasferiti nella mattina di oggi nei porti calabresi e siciliani. Soccorso - Le operazioni di soccorso sono avvenute in area di responsabilità SAR italiana, sotto il coordinamento della Centro Operativo Nazionale di soccorso della Guardia costiera italiana. Le ultime ore sono state particolarmente impegnative per le motovedette della Guardia Costiera, che in precedenza avevano soccorso, insieme a nave Diciotti, altri migranti che si trovavano su imbarcazioni in precarie condizioni di navigazione, anche queste in area SAR italiana. In una di queste attività, è stato necessario l’intervento di un elicottero partito dalla base aeromobili della Guardia costiera di Catania, per effettuare l’evacuazione medica di una donna Lavrov apre la “campagna d’Africa”: “Via le sanzioni e arriverà il grano” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 25 luglio 2022 La prima tappa del ministro degli Esteri russo è in Egitto. Mosca ammette il raid sul porto di Odessa: “Colpiti obiettivi militari”. L’Africa è al tempo stesso il granaio della politica estera russa e la vittima principale della guerra russa del grano. “Alcune delle sanzioni illegittime che ci hanno imposto, come quelle che riguardano le compagnie assicurative, l’accesso ai porti stranieri delle nostre navi e viceversa, sono di ostacolo alla piena attuazione dell’accordo sullo sblocco delle forniture di frumento ucraino”. Non è un caso che Sergej Lavrov abbia pronunciato al Cairo queste frasi a metà tra la proposta di baratto e le scuse non richieste, durante la prima tappa della sua trasferta africana, facendo appello anche al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres di facilitare la revoca delle misure decise dall’Occidente. Era il 2 marzo 2022, una settimana dopo l’inizio della guerra, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite propose una risoluzione con la quale si chiedeva alla Russia di cessare “con effetto immediato” l’uso della forza contro l’Ucraina. Quel testo venne approvato da 141 Paesi membri e respinto da altri 5, tra cui l’Eritrea. Ad astenersi furono in 35, tra cui 25 Stati africani. Il Cremlino raccoglieva così i frutti concreti dei legami creati negli ultimi vent’anni attraverso una serie di accordi commerciali con quel continente. Ma lo sguardo al sud del mondo non è una novità introdotta dagli attuali vertici del Cremlino. Il primo a investire sull’Africa e sul suo malcontento verso l’Occidente fu Nikita Kruscev alla fine degli anni 50, come reazione alla Guerra fredda con gli Usa. L’Unione Sovietica impegnò gran parte dei fondi destinati all’estero per finanziare progetti in Algeria, Libia, Angola, Guinea. Con Putin, i legami si sono fatti più stretti. Fu lui a proporre la cancellazione “come gesto di amicizia” del debito da quasi 5 miliardi di dollari dell’Algeria nei confronti della Russia. Poi venne firmato tramite Gazprom un accordo sul gas “molto conveniente” dall’allora Fronte di liberazione nazionale. La politica africana della Russia è diventata una branca a sé della politica estera, con la nomina a partire dal 2011 di un rappresentante speciale per la Cooperazione che ha gli stessi poteri di un ministro, capace di siglare accordi in campo metallurgico, minerario e diamantifero, ma anche militare e della sicurezza. Nel 2019, si è tenuto il primo vertice Russia-Africa a Sochi. Ma oggi proprio quei Paesi africani a cui fa di continuo riferimento Putin nei suoi discorsi sulla costruzione di un nuovo ordine mondiale, svincolato dall’Occidente, sono i più colpiti dalla guerra in Ucraina. In primo luogo, per la carenza di beni alimentari, e poi per via del fatto che gran parte delle risorse europee destinate all’aiuto dei Paesi poveri sono state indirizzate all’accoglienza dei profughi ucraini. “L’Ucraina sminerà i porti e lascerà che le navi prendano il mare, mentre Russia, Turchia e un’altra parte, determinata in seguito, scorteranno le navi”, ha spiegato ieri Lavrov alla Lega Araba, affermando che il memorandum Russia-Onu firmato in concomitanza con gli accordi di Istanbul “vincola il segretario generale dell’Onu ad avviare il processo, persuadendo i Paesi occidentali a revocare tutte le restrizioni” all’esportazione di grano russo. Dopo l’iniziale diniego, Mosca ha riconosciuto ieri di aver bombardato sabato il porto di Odessa, affermando che si tratterebbe di un attacco “di alta precisione” che avrebbe distrutto “una nave da guerra ucraina e missili anti-nave Harpoon forniti dagli Usa”. In un articolo a sua firma pubblicato sui principali quotidiani africani, Lavrov scrive che il suo Paese supporta l’Africa “nella sua lotta per sottrarsi all’eterno giogo coloniale” e respinge l’accusa di “esportare la carestia”, definendo quest’affermazione come un frutto avvelenato della propaganda occidentale. Però è costretto ad aggiungere che le sanzioni occidentali hanno esasperato “tendenze e dinamiche negative” del mercato internazionale dei beni di prima necessità. Le prossime tappe del suo viaggio saranno in Etiopia, Uganda e Congo. Tutti alleati, tutti allo stremo, e perplessi sulla strategia russa. “Rispetteremo i nostri obblighi con voi” ha promesso il navigato ministro degli Esteri. Chissà se può bastare. Attenzione all’Africa. “I miei 15 mesi in cella ad Abu Dhabi: dormivo per terra, ho perso 30 chili” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 25 luglio 2022 Il trader Andrea Costantino, ancora bloccato negli Emirati: serve un intervento politico, non ho i 550.000 euro richiesti per liberarmi, ho perso tutto, è stato un incubo. “È stato un incubo lungo quindici mesi. Credo non si possa nemmeno immaginare cosa sia una cella di massima sicurezza di un carcere del genere. Mi ha mangiato dentro...”. Quindici mesi ad Al Wathba non si dimenticano. Soprattutto se si arriva da un mondo come quello di Andrea Costantino, milanese, imprenditore, trader. Arrestato il 21 marzo del 2021 in un hotel di Dubai, dove si trovava con la compagna Stefania e la loro figlia per qualche giorno di vacanza, è stato scarcerato lo scorso 30 maggio e da allora si trova all’ambasciata italiana di Abu Dhabi. Il tribunale degli Emirati Arabi l’ha condannato a una pena pecuniaria di 550 mila euro, condizione minima e indispensabile per lasciare il Paese arabo. Dopo 15 mesi di forzato silenzio Costantino ha deciso di raccontare l’anno nero delle sue prigioni. Come sta intanto? “Sono vivo e questa è la cosa più importante. Ma è stata dura, durissima, da tutti i punti di vista. Sono successe tante, troppe cose. Ogni giorno passato lì dentro mi ha tolto un pezzo di umanità. Ero entrato empatico, ne sono uscito prosciugato, cambiato”. A cosa si riferisce? Violenze? Ambiente? “Non voglio, non me la sento di scendere nei particolari. Comunque, quando sono arrivato qui e mi sono guardato allo specchio per la prima volta mi sono spaventato. Avevo perso 30 chili... ho dormito a lungo per terra, trascorrevo le giornate contando il tempo che mi separava dai pochi minuti di telefonata concessi due volte alla settimana per parlare con Stefania... sentivo la bambina che chiedeva alla mamma “ma non torna mai papà?”. Uno strazio. Mi mancano molto loro e mi manca mio figlio”. Dov’è ora esattamente? “Sono in una piccola dépendance della struttura dell’Ambasciata d’Italia, una stanzetta con bagno. Mi cucino, faccio la spesa online, mi gestisco in totale autonomia e silenzio... sono praticamente invisibile, come richiesto”. Lei è stato condannato a una pena pecuniaria. Come si è arrivati a questa sentenza? “Pochi istanti prima dell’udienza finale del processo il Procuratore generale di Abu Dhabi ha depositato un suo atto nel quale applicava l’articolo 228 del loro codice penale che riporta la vicenda a “maggiori interessi di Stato e della Nazione”, ordinando la mia scarcerazione e demandando alla Corte di esprimersi sul quantum della sanzione. L’intero caso è stato cioè ricondotto a questioni politiche. Negli ultimi anni le relazioni diplomatiche fra Italia ed Emirati sono degradate. Parliamo di scambi commerciali che non hanno soddisfatto le aspettative”. Come si legherebbe la sua vicenda a queste relazioni degradate? “Non lo so”. Ma qual è l’accusa? Si era parlato di collaborazione con il terrorismo per alcune forniture, di armi... “Dal 2012 io ho un’attività commerciale negli Emirati, un trading di vari prodotti, anche petroliferi e derivati. Tra la fine del 2015 e il 2016, previa autorizzazione della coalizione Saudita ed Emiratina, avevo concluso una vendita di gasolio destinata a un’azienda, in realtà la compagnia petrolifera nazionale yemenita (nello Yemen era in corso la guerra civile nella quale intervenne anche Abu Dhabi contro gruppi considerati terroristici, ndr). Questa vendita avvenne a normalissime condizioni economiche di mercato. La nave che trasportava il gasolio fu controllata, tutto regolare. Tutto alla luce del sole. Sinceramente ignoro la ragione dell’accusa (che tira in ballo questa transazione, ndr). Ma io non ho fatto nulla! La vicenda delle armi, poi, è inesistente”. Deve versare 550 mila euro per rientrare. Se non paga che succede? “Confido in un intervento della diplomazia e della politica. Mi appello alle più alte cariche dello Stato, al presidente Mattarella, al premier Draghi, alla ministra Cartabia, che hanno già fatto molto. Manca solo l’ultimo miglio alla liberazione, forse basta una telefonata. Tra l’altro devo dire che in questi brutti mesi ho avuto la chiara percezione della grandezza del nostro Paese, della nostra civiltà, dei nostri valori. Noi viviamo in un paradiso e non ce ne rendiamo conto, anzi, spesso lo infanghiamo. A un certo punto mi hanno informato che era venuto Mattarella per esprimere le condoglianze dell’Italia per la scomparsa dello sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan. Una cosa grandissima per loro. Mi hanno detto “Andrea, è venuto il tuo Presidente, ti rendi conto?”. Come dire, sei italiano, sei speciale. In carcere, fra assassini e terroristi bordati di rosso, ero l’unico europeo”. Lei non può pagare? “No, ho perso tutto, l’azienda, i risparmi. Mi è rimasta la mia famiglia, che attende il mio rientro... Dovrò ripartire da zero, il mio patrimonio sono queste quattro magliette che indosso, ma so che posso contare sui miei affetti... Ce la farò... ce la faremo. Anche se i mesi di Al Wathba resteranno incisi nella mia carne”. Caso Mario Paciolla, i genitori: “Non si è ucciso. Scarso aiuto da Onu e Italia” di Marta Facchini Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2022 Per le autorità colombiane e le Nazioni Unite, il cooperante si sarebbe tolto la vita con un lenzuolo ma sono molti i punti della vicenda che continuano a non essere chiari. Dal rapporto emergono altri particolari, cioè che alcune ferite potrebbero essere state inflitte quando il cooperante era in uno stato agonizzante oppure già morto. “Mario era un amante della vita, mai avrebbe fatto un gesto autolesivo. Non abbiamo mai creduto all’ipotesi del suicidio sin dai primissimi istanti in cui ci fu comunicata la notizia della morte di nostro figlio”. Così parlano a Ilfattoquotidiano.it Anna Maria e Giuseppe Paciolla, i genitori di Mario Paciolla, il cooperante italiano ritrovato morto il 15 luglio 2020 nella sua casa a San Vicente del Caguán, nel dipartimento di Caquetá, in Colombia. Dipendente operativo della missione di verifica delle Nazioni Unite nel Paese, era stato trovato impiccato al soffitto della sua casa con un lenzuolo in un apparente scenario di morte autoinflitta. “Abbiamo capito che l’Onu voleva chiudere la partita immediatamente, chiedendoci da subito se volevamo la restituzione del corpo”, proseguono. Per le autorità colombiane e le Nazioni Unite, il cooperante si sarebbe tolto la vita con un lenzuolo ma sono molti i punti della vicenda che continuano a non essere chiari. Nuovi dettagli sono emersi grazie a un articolo, pubblicato sul quotidiano colombiano El Espectador: la giornalista, che conosceva Paciolla e ha seguito l’evoluzione del caso sin dai primi momenti, ha riportato alcuni elementi contenuti nel rapporto della seconda autopsia fatta in Italia dal medico legale Vittorio Fineschi e dalla tossicologa forense Donata Favretto. Il rapporto era stato consegnato alla procura di Roma, che sta conducendo le indagini, nell’autunno 2020 e le autorità italiane hanno mantenuto il riserbo. Questi dettagli certificano che “alcune prove non trovano nessuna spiegazione alternativa nel contesto dell’ipotesi del suicidio, (mentre) supportano prevalentemente l’ipotesi di strangolamento con successiva sospensione del corpo”. Da uno dei documenti sono emersi altri particolari, cioè che alcune ferite potrebbero essere state inflitte quando Paciolla era in uno stato agonizzante oppure già morto. Su quanto trapelato, la famiglia del cooperante mantiene il riserbo. A non rendere convincente l’ipotesi del suicidio c’è la pulizia della casa di Paciolla, coordinata personalmente dal responsabile sicurezza della missione ed ex membro dell’esercito Christian Thompson che sarebbe entrato nell’appartamento, facendosi consegnare le chiavi dal proprietario colombiano. Il suo nome - insieme a quello del collega Onu Juan Vasquez e dei quattro agenti presenti sul posto - figura nella denuncia che il 15 luglio 2022, a due anni dalla scomparsa del cooperante, la famiglia ha presentato alla Procura generale di Bogotà. “Ci sembra assolutamente anomala e ingiustificabile la scelta dei due funzionari Onu di introdursi in un appartamento, tra l’altro privato perché era concesso in locazione a nostro figlio che ne pagava regolarmente il canone, ripulire la scena del crimine con la candeggina, per gettare poi in discarica prove fondamentali per le indagini. Tutto ciò ha provocato la distruzione e l’occultamento di prove che erano indispensabili per accertare l’omicidio di Mario”, spiegano i genitori di Paciolla. “Ci auguriamo che il nuovo presidente della Colombia possa dare un’accelerata alla risoluzione del caso. Speriamo anche che persone che sanno e che finora non hanno osato farsi avanti, possano collaborare sentendosi più sicuri e liberi di parlare”. Sulla morte di Paciolla, le Nazioni Unite hanno aperto un’indagine interna ma la famiglia denuncia di “non sentirsi assolutamente supportata dall’Onu” né di “essere al corrente del risultato né se l’indagine è mai stata fatta”. Le Nazioni Unite, inoltre, erano a conoscenza dell’imminente ritorno in Italia del cooperante. Paciolla sarebbe dovuto partire da Bogotà il 20 luglio 2020 e “aveva già un biglietto in tasca e una valigia pronta”. Poco prima di morire, Paciolla aveva riferito ai genitori di essersi scontrato con i capo missione e di non sentirsi sicuro, e proprio Christian Thompson, secondo le ricostruzioni, sarebbe stata una delle ultime persone sentite prima della morte. Paciolla aveva fatto ricerche su un bombardamento, avvenuto il 29 agosto 2019 ad opera dell’esercito colombiano, sull’accampamento di Rogelio Bolivar Cordova, il comandante di una cellula di dissidenti delle Farc, nel quale erano morti anche sette minorenni. Secondo la ricostruzione di El Espectador la notizia della morte dei bambini sarebbe arrivata nelle mani del senatore Roy Barreras, che ha poi ottenuto le dimissioni del ministro della Difesa Guillermo Botero, tramite Raul Rosende, direttore della missione di verifica di Mario. Questo esito avrebbe creato tensioni anche all’interno delle Nazioni Unite. “Ci sentiamo scarsamente supportati dallo Stato italiano e non abbiamo certezza se davvero si stiano interessando alla triste vicenda di Mario. Solamente il presidente della Camera, Roberto Fico, ci ha incontrati dimostrandoci la sua vicinanza e l’interessamento al caso e il direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie Luigi Vignali ci raggiunge sempre il 15 luglio”, proseguono Anna Maria e Giuseppe Paciolla. Nell’anniversario della sua scomparsa, in molti hanno partecipato alla mobilitazione che la famiglia ha organizzato a Napoli per chiedere verità e giustizia. “Nostro figlio amava Napoli e Napoli amava nostro figlio. Del sacrificio della sua giovane vita resta la testimonianza di un uomo leale che non ha accettato compromessi”. Myanmar. La giunta golpista esegue 4 condanne a morte La Stampa, 25 luglio 2022 Human Rights Watch: “Atto di massima crudeltà”. Amnesty International: “Processi segreti e profondamente iniqui”. Quattro condanne a morte sono state eseguite in Myanmar, dove a seguito di un golpe è al potere una giunta militare. In quelle che sono le prime esecuzioni nel Paese asiatico da decenni, sono stati giustiziati, tra gli altri, Phyo Zeya Thaw, ex parlamentare della Lega nazionale per la democrazia, il partito dell’ex leader Aung San Suu Kyi e Kyaw Min Yu, anche conosciuto con il nome di Ko Jimmy, noto attivista pro-democrazia. Come ha riferito il Global New Light of Myanmar, i quattro erano stati condannati per “atti di terrorismo brutali e disumani” e le esecuzioni sono state eseguite “secondo la procedura carceraria”, senza aggiungere dettagli in merito. Le quattro condanne a morte, così come le altre 111 emesse dai tribunali della giunta tra il colpo di Stato del primo febbraio 2021 e il 19 maggio di quest’anno, hanno suscitato critiche da parte delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Per Human Rights Watch si tratta di un atto di “massima crudeltà”. “Queste esecuzioni sono un altro esempio dell’atroce situazione dei diritti umani in Myanmar. I quattro uomini sono stati condannati da un tribunale militare in processi segreti e profondamente iniqui. La comunità internazionale deve agire immediatamente poiché si ritiene che più di 100 persone siano nel braccio della morte dopo essere state condannate in procedimenti simili”, ha commentato il direttore regionale di Amnesty International, Erwin van der Borgt. Tunisia. La democrazia tradita: oggi il referendum sulla nuova Costituzione di Domenico Quirico La Stampa, 25 luglio 2022 Il presidente Saied se la è cucita addosso per legittimare la sua presa di potere. Per noi abitati da un servilismo indefettibile e ottuso verso i nostri (presunti) interessi occidentali oggi è giorno da segnare sul calendario: salvo impossibili sorprese si ricompone la vecchia, a noi cara, obbediente Tunisia dei tempi di Ben Ali, che i guastafeste della rivoluzione del 2011 si illudevano, tapini, di aver mandato in pezzi per sempre. Ritorna grazie al metodo classico degli arruffapopoli autoritari, ovvero un referendum che deve sancire una nuova Costituzione, la figura del rais, del capo, della guida suprema, del super-presidente. Maledizione che azzoppa la crescita civile e politica degli arabi dal tempo dei califfi e dei sultani; ma che noi, democratici europei molto sbadati quando siamo in trasferta, giudichiamo perfetta per stringer mani di “amici fidati” sulla quarta sponda, dall’Egitto all’Algeria alla Libia. Kais Saied golpista in giacca e cravatta, sussiegoso, saccente “in utroque iure”, completa con una Carta reazionaria e con pennellate teocratico-populiste il percorso autoritario avviato il 25 luglio del 2021 quando con il pretesto dell’emergenza sanitaria, ovvero il Covid, sospese il parlamento e si attribuì i pieni i poteri. Rischia di sparire miseramente l’eccezione tunisina, la più tenace e fragile delle esperienze democratiche sopravvissute stentatamente alla grande illusione rivoluzionaria e giovanile del 2011. Si tirerà nelle cancellerie democratiche un gran sospiro di sollievo e partiranno subito le felicitazioni di rito: anche a Tunisi finalmente qualcuno che garantirà ordine e affidabilità. Di una cosa non si può accusare Saied, di tartuferia. Il suo credo esposto teorizzato applicato è l’avversione furibonda al sistema parlamentare considerato come lo strumento diabolico di tutti i mali, le perversioni, le piaghe di cui il popolo, umile e bisognoso di un dotto pastore, soffre. Teorizzazione che deve esser sfuggita agli illustri giuristi della Sapienza romana (o forse avevano già capito tutto?), che gli hanno tributato un paradossale e mai ritirato dottorato honoris causa in diritto romano e democratico! Lui risponde solo a “dio, alla Storia e al popolo” che evidentemente non possono che esser, tutti e tre, d’accordo con lui. Il percorso di Saied verso i pieni poteri merita di esser studiato con attenzione e preoccupazione: è la versione modernizzata della tecnica per il colpo di Stato soffice, con cui si affossa una democrazia smangiata dalle approssimazioni e la si converte in tirannide. È un modello che purtroppo rischia di aver imitatori anche in sistemi politici ben più solidi di quello tunisino, una tentazione che occhieggia anche in Europa dove oltre che ai populisti di grana più o meno grossolana abbondano aspiranti salvatori della patria, uomini o omini provvidenziali, sostenuti di malaccorti caudatari e agit prop specializzati nella denigrazione per filo e per segno di partiti e parlamenti, ridotti a forfora e cascame. In guardia: il metodo tunisino è tutt’altro che stramberia esotica. Saied non ha fatto altro che indirizzare la rabbia popolare contro i partiti e il parlamento che hanno mal amministrato il dopo dittatura. Purtroppo compito facile visto come, in un abbaio confuso, tra corruzione e inefficienza, hanno trascinato il Paese nel disastro economico e nel caos sociale. Tutti colpevoli: gli islamisti di Hennadha, convertitisi dal terrorismo allo sfruttamento di poltrone e poltroncine, al partito in ascesa dei nostalgici di Ben Ali (un sintomo che doveva allarmare, quando si comincia dire si stava meglio quando si stava peggio la controrivoluzione è vicina); a una sinistra in emorragia di consensi e di idee. Il presidente ha chiesto al popolo di scendere in piazza per rafforzare il solo capace di porre riparo alle ruberie e ai particolarismi egoisti degli eletti. Il suo golpe dello scorso anno è stato salutato infatti da manifestazioni d’entusiasmo molto fitte e in gran parte spontanee. Sparute le proteste di chi aveva subito compreso che, con tutti i limiti e la mediocrità di coloro che la incarnano spesso immeritatamente, i partiti sono la democrazia. Chi si annuncia come il profeta di “una nuova era nella Storia” chiedendo deleghe in bianco cavalca la tirannide. In questo anno il presidente ha svitato, approfittando della solitudine del regime di eccezione, tutti i bulloni che tengono insieme la fondamentale divisione dei poteri. Manca solo una sanzione costituzionale che dovrebbe ottenere oggi. Una Costituzione che si è cucita addosso da solo, dove gli è garantita una totale irresponsabilità, la possibilità di prolungare il mandato e viene creato un nuovo ramo del parlamento, l’assemblea delle regioni. Sarà il contenitore perfetto della sua nuova obbedientissima élite che dovrà applaudire il potere monocratico. Il popolo più sensibile all’adescamento di Saied il salvatore è formato dai dimenticati delle regioni dell’interno, afflitte da una eterna miseria, serbatoio di giovani senza futuro. Lo detestano e ne denunciano le trame gli intellettuali, i magistrati (ne ha revocati senza appello 57, hanno fatto inutilmente sciopero per tre settimane), i sindacalisti, i sempre devoti alla mobilitazione democratica, reperibili sulla costa, un’altra Tunisia degna ma purtroppo minoritaria. Undici anni dopo la rivoluzione la speranza che non schiumi di nuovo l’autocrazia paternalistica alla ben ali è affidata alla situazione economica, La Tunisia nonostante il salvatore della patria è in fallimento, il “rating” è pari a quello di Ucraina e Sri Lanka. Non ci sono i soldi per pagare gli stipendi alla armata burocratica dei 700 mila dipendenti pubblici. E soprattutto c’è il fattore farina. La banca mondiale ha già concesso un prestito di 130 milioni di dollari per comprare grano tenero. Ne occorrono altri 370 per le scorte di quest’anno. Il Fondo monetario, la sigla più odiata nel mondo non occidentale, valuta. Provate a indovinare: a Saied non dirà di no. Nel 2011 la rivolta popolare che noi deformammo nel melenso slogan di “rivoluzione dei gelsomini” scoppiò perché la gente aveva fame.