Carcere, 38 suicidi dall’inizio dell’anno redattoresociale.it, 24 luglio 2022 “È l’estate dei suicidi in carcere: con il suicidio di Michael Mangano, 33 anni, che si è tolto la vita nella notte nel carcere di Pavia (avrebbe utilizzato un sacchetto di plastica), il trentottesimo suicidio dall’inizio dell’anno, salgono a nove quelli avvenuti in penitenziari lombardi, (2 a Monza, a Milano San Vittore e a Pavia, 1 rispettivamente a Como, Milano Opera, Sondrio)”. Ad affermarlo è il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo, che sottolinea come l’estate si confermi “stagione problematica da gestire nelle carceri, mentre si è in attesa dell’avvio del piano di prevenzione della Regione Lombardia che contiene aspetti decisamente importanti come un programma individualizzato di presa in carico congiunta nel quale saranno indicati ulteriori interventi integrati degli operatori sanitari, di sostegno e di sorveglianza, secondo le necessità determinate dalle problematiche rilevate. Significativa, inoltre, la costituzione di uno staff multidisciplinare composto da rappresentanti del personale penitenziario e sanitario. Piuttosto come dimostra l’emergenza suicidi - dice Di Giacomo - si acceleri l’iter attuativo del piano”. Continua Di Giacomo: “Come sostengono gli esperti, la pandemia se in generale ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza, ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid. Come sindacato è da tempo che abbiamo proposto l’istituzione di Sportelli di sostegno psicologico, tanto più contando su almeno 3 mila laureati in psicologia che nel nostro Paese non lavorano con continuità”. “Come per il personale penitenziario che continua a dare prova di impegno civico è sicuramente utile attivare corsi di formazione ed aggiornamento per essere maggiormente preparati ad affrontare casi di autolesionismo e suicidio, oltre naturalmente a provvedere rapidamente all’atteso potenziamento degli organici”. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici. L’incapacità - continua Di Giacomo - è ancora più irresponsabile in questa nuova fase di diffusione della pandemia. Una realtà che segna un trend di contagi in forte aumento in questa estate destinato dunque ad avere conseguenze impattanti e ad aggravare la situazione già di eccezionale emergenza della gestione delle carceri. Sminuire o nascondere la verità - conclude - può solo portare ad un’ulteriore sottovalutazione e a complicare le problematiche esistenti per la salute della popolazione carceraria e di chi lavora”. Toghe, i processi come alibi per non decidere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 luglio 2022 Un anno dopo il caso Amara e l’apertura delle inchieste penali sui vari pm, la magistratura non ha fatto chiarezza al proprio interno e nulla è accaduto. Nella primavera-estate 2021, a partire dai contraccolpi in Procura a Milano della sentenza Eni-Nigeria e dei verbali di Amara, e accanto alle inchieste penali sui vari pm, sembravano voler fare fuoco e fiamme la Procura Generale di Cassazione (per i disciplinari), il Ministero della Giustizia (con l’Ispettorato) e la I commissione Csm (sulle incompatibilità ambientali). Dopo un anno il Ministero nulla ha comunicato; il Csm - dopo audizioni un anno fa a Roma, e un scenografico bis in trasferta a Milano - si è inabissato, in silenzio optando per ritenere le pratiche sovrapponibili ai processi a Brescia e dunque attenderne l’esito; e la “pregiudiziale penale” applica pure il pg di Cassazione a congelamento dei disciplinari avviati (l’ultimo l’altro giorno) solo a ricalco delle imputazioni penali. È vero, ma non è vero. È vero che lo stop in attesa del penale su uno stesso fatto è imposto da norme. Non è invece vero, e anzi sembra interpretazione estensiva delle accuse penali come alibi per non decidere altrove, che le condotte sanguinosamente rinfacciatesi dai pm rientrino nel perimetro dei rispettivi processi. Il che nuoce tre volte. Lascia irrisolti nodi che non ammetterebbero soluzioni differenti da vero o falso, con la sanzione o di chi abbia calunniato i colleghi o di chi abbia invece davvero compiuto scorrettezze. Posticipa le decisioni a quando fra anni saranno esauriti i vari gradi dei giudizi penali, i cui parametri di reato ben possono magari finire esclusi senza che ciò elida la gravità sotto gli altri profili. E soprattutto - proprio mentre il pm radiato Palamara si candida a quel Parlamento che nulla è stato capace di dire sui due suoi onorevoli compagni di Hotel Champagne (Ferri e Lotti) - contraddice quanto la magistratura giustamente rinfaccia alla politica: non fare autonoma chiarezza al proprio interno con la scusa del dover aspettare le sentenze. “C’è ancora tanto bisogno di ragione per non spargere veleni e morte nelle nostre città” di Liana Milella La Repubblica, 24 luglio 2022 Nella piazza che si allarga tra i palazzi garanti della Costituzione italiana - il Quirinale da una parte, la Consulta dall’altra - il presidente della Corte Giuliano Amato saluta Sergio Mattarella e un migliaio di persone venute qui per ascoltare il concerto “Il sangue e la parola” eseguito in prima assoluta dal maestro Nicola Piovani, con l’Orchestra e il coro del teatro dell’Opera di Roma, le due voci da soprano Maria Agresta e Maria Rita Combattelli e la voce recitante di Andrea Pennacchi. Un concerto nato, come spiega subito lo stesso Amato, “dall’idea di Piovani di comporre e musicare questa cantata, che segue il percorso delle Eumenidi di Eschilo e lo connette a quello della nostra Costituzione”. Amato racconta perché la Consulta ha preso quest’inedita iniziativa, che non rappresenta affatto un unicum nella sua storia più recente, ma è la naturale prosecuzione del nuovo ruolo che i giudici hanno voluto assumere, testimoni della Carta costituzionale, e di un’istituzione che vuole portare nella società, con la sua testimonianza, i valori della Carta. Tutto questo è in corso da tempo, ma assume un ruolo ancora più significativo adesso mentre è in corso la guerra della Russia contro l’Ucraina. Amato spiega l’origine e il perché del concerto del maestro Piovani. “Le Eumenidi narrano la celebrazione, 2.500 anni fa, del primo processo fondato non sulla vendetta, ma sulla ragione, non sulla maledizione, ma sulla giustizia, non sul sangue che chiama sangue, ma sul logos, che convince e placa. Le Erinni, orribili portatrici del vecchio, saranno sconfitte dal giudizio dell’Areopago; non solo, esse stesse accetteranno il nuovo mondo e diverranno benedicenti, eumenidi”. Amato prosegue il suo racconto: “Nasceva così lo stato di diritto, nasceva la civiltà che la nostra Costituzione, insieme ad altre, ha contribuito a costruire in Europa dopo la seconda guerra mondiale, dopo che, ancora una volta, lo straripare vendicativo dei nazionalismi feriti, la violenza delle armi, la selvaggia follia del razzismo antiebraico avevano fatto scorrere il sangue di milioni di innocenti”. Una storia che pareva chiusa per sempre. “Quando l’iniziativa del concerto fu concepita - dice Amato - sapevamo che le Erinni non erano scomparse, ma pensavamo che fosse saldo nel mondo, soprattutto nella nostra parte di mondo, il primato del logos, della parola al posto del sangue. Poi è venuto il sangue ucraino e il senso delle Eumenidi è divenuto ancora più tragicamente attuale. C’è ancora tanto, tanto bisogno di ragione affinché le erinni cessino di spargere veleno e morte nelle nostre città”. Ecco, il concerto assume questo valore. Ma rappresenta anche una tappa del cammino della Consulta come istituzione che si apre all’esterno e, come scrive la stessa Corte presentando le ragioni e il senso di questa serata, “per incontrare la società civile, conoscere, farsi conoscere e promuovere la cultura costituzionale, anche con una cantata, come in questo caso”. Alle spalle del concerto di Piovani c’è una Consulta che negli ultimi anni, con una serie di iniziative inedite, dal “Viaggio in Italia”, prima nelle scuole e poi nelle carceri, fino alla Libreria dei podcast, ha lavorato ben oltre le sentenze per riaffermare i valori costituzionali e far crescere, attraverso la conoscenza, una “mentalità costituzionale” tra i cittadini italiani. L’obiettivo è quello rafforzare un legame con la società civile che in piazza del Quirinale è rappresentata da un migliaio di persone. A parte i volti noti, di cui diremo, a partire da quello di Mattarella, ci sono molti giovani, anche protagonisti di lavori precari. E poi alcuni dei ragazzi del carcere minorile di Nisida, dove Amato è tornato anche quest’anno dopo il suo “viaggio” proprio tra quei giovani. E poi ex detenuti, tra cui Sasà Striano, che ha lavorato nel film “Aria ferma” di Leonardo Di Costanzo. E ancora poliziotti penitenziari, direttori degli istituti di pena, ma anche parenti delle vittime di reati. Tra gli altri, Agnese Moro e Manlio Milani, protagonisti del primo percorso di giustizia riparativa con i condannati per il sequestro Moro e per la strage di piazza della Loggia. E Olga D’Antona, la vedova di Massimo, l’ultima vittima delle nuove Brigate rosse. Accanto a giovani magistrati ci sono i volti noti del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, dell’ex pm di Roma Betta Cesqui, dei giuristi di via Arenula. E poi giuristi come Gaetano Azzariti, Glauco Giostra, Giovanni Maria Flick, Marilisa D’Amico, Marco Ruotolo, Massimo Luciani, Marco Clementi, Alfonso Celotto. Molti giornalisti stranieri hanno chiesto di poter seguire il concerto, tra loro ci sono pachistani, inglesi, spagnoli e anche russi. Pronti a segnalare la presenza di Roberto Benigni mentre il maestro Piovani suona anche “La vita è bella”. E poi Monica Guerritore e Lina Sastri, e il regista Gianfranco Rosi, Palma d’oro a Venezia con Sacro GRA e orso d’oro a Berlino con Fuocammare. Luca Palamara si candida alle politiche: “Serve uno choc per ripensare la giustizia” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 24 luglio 2022 Si presenta con l’associazione “Oltre il sistema”. A Perugia dove è imputato per corruzione deve ancora essere ascoltato in aula, il suo difensore: “Vogliamo la verità”. Luca Palamara, il pm sospeso dalla magistratura in seguito agli scandali, oggi a processo per corruzione, si candida alle elezioni del 25 settembre con l’associazione da lui voluta “Oltre il sistema”. “Il senso di questa associazione - ha spiegato nel corso di una presentazione del proprio programma elettorale- è molto chiaro. C’è bisogno di uno choc: deve finire l’idea che il tema della giustizia e del processo penale possa essere utilizzato per colpire questo o quel nemico politico. No all’uso politico della giustizia. Insomma, tutto quello che non è stato fatto con la riforma Cartabia”. A suo dire l’associazione può trovare terreno fertile tra elettori con simpatie di centrodestra: “Io penso - ha spiegato - che questo sia un tema che storicamente ha interessato il mondo del centrodestra. Ma non solo. Penso che sul tema della giustizia abbia diviso il paese in due tra garantisti e giustizialisti sia stata la vera sconfitta”. Secondo indiscrezioni Palamara sta facendo fronte a una nuova inchiesta giudiziaria nata dalle controverse dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara. Si tratta di un filone sopravvissuto alla richiesta di archiviazione del procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, nel quale sarebbe indagato per istigazione alla corruzione. Secondo quanto affiora l’ex togato sarebbe intervenuto impropriamente per agevolare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e già imputato di abuso di ufficio (in seguito condannato e a sua volta spogliato della toga). Ebbene per aiutarlo Palamara avrebbe tentato pressioni sul giudice di Cassazione ed ex capo di gabinetto del ministro Clemente Mastella, Stefano Mogini. Pressioni in seguito fallite, secondo quanto ha riferito lo stesso Mogini. Ma su tutta la vicenda sono in corso verifiche e approfondimenti che potrebbero portare a una archiviazione. Nei confronti di Palamara, 53 anni, ex numero uno di Anm, si sta celebrando il processo a Perugia. L’ex pm della Procura di Roma, assistito dal difensore Benedetto Marzocchi Buratti (“Ben vengano approfondimenti vogliamo semplicemente la verità” ha ribadito quest’ultimo), ipoteticamente corrotto dall’imprenditore Fabrizio Centofanti con cene, vacanze e altre utilità, non è ancora stato ascoltato ma dovrà esserlo a breve. Nel frattempo ha scritto due libri e si è dedicato alla politica. Tanto che lanciando la sua nuova associazione ha commentato la crisi attuale: “La crisi di governo? Tipico di quello che accade nei palazzi del potere: spesso prevalgono giochini di palazzo per calcoli elettorali su quello che è il reale interesse dei cittadini. La metà dei cittadini non vota più” ha sottolineato. Parma. Nuovi accertamenti sulla morte del boss in carcere di Arcangelo Badolati Gazzetta del Sud, 24 luglio 2022 In cella, solo. Stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Mario Serpa, ergastolano, il più temuto tra i boss del Paolano, è morto nelle scorse settimane per un malore avvertito nel carcere di Parma. Sul decesso indaga la procura della città emiliana: all’autopsia compiuta nei giorni successivi alla scoperta della salma si aggiungono adesso altri mirati accertamenti disposti dai pubblici ministeri. La ragione? Serpa pare avesse da giorni una condizione fisica compromessa: avvertiva dolori al petto forse legati ad anomalie cardiache poi rivelatesi fatali. Ed è questo il punto su cui i congiunti del padrino chiedono - attraverso i loro avvocati, Giuseppe Bruno del foro di Paola e Giovanni Galeota di Fermo - verifiche e accertamenti. I sintomi lamentati da Serpa e testimoniati da altri detenuti sono stati colpevolmente sottovalutati? Una domanda alla quale i pubblici ministeri parmensi pare siano intenzionati a dare una risposta. La storia criminale di Mario Serpa è connessa alla presenza della ‘ndrangheta nella zona di Paola. “Don Mario” - così lo chiamavano con terrore e rispetto i suoi accoliti - era stato condannato al carcere a vita dalla Corte di assise di Cosenza per l’uccisione di un piccolo imprenditore della cittadina tirrenica, Luigi Gravina, che s’era ribellato alla richiesta di pagamento del “pizzo” che gli era stata fatta. L’omicidio, compiuto nel marzo del 1982, venne ricostruito grazie alle confessioni rese da Sabino Peccatiello, picciotto di origine campana diventato “azionista” del clan, che arrestato dopo il fatto di sangue vuotò il sacco. Il sicario campano fu in quegli anni l’unico pentito fuoriuscito dalle file della cosca. Peccatiello ammise la paternità del crimine e fece ritrovare agli investigatori le armi del gruppo mafioso. L’uomo è morto nei mesi scorsi per Covid proprio qualche settimana prima che il comune di Paola intitolasse una via pubblica al coraggioso Gravina. Cuneo. Blackout nel carcere, scoppia la protesta fra i 245 detenuti al buio di Lorenzo Boratto La Stampa, 24 luglio 2022 Quasi un’ora di blackout elettrico al carcere di Cuneo, con i 245 detenuti al buio (chiusi nelle loro celle) e le telecamere fuori uso. Così sono iniziati tensioni, proteste, atti vandalici dentro il carcere più grande della provincia, tra fogli di carta dati alle fiamme, lancio di cibo nei corridoi, l’esplosione intenzionale di alcune bombolette del gas (di quelle usate in genere per cucinare). I disordini sono successi mercoledì notte e l’episodio è stato segnalato da tutti i sindacati della polizia penitenziaria, che hanno scritto una lettera indirizzata tra gli altri al prefetto di Cuneo Fabrizia Triolo, alla sindaca Patrizia Manassero, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Rita Russo e al capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria di Roma. Nella lettera i sindacati ricordano che solo pochi giorni fa tre agenti erano stati aggrediti da un detenuto marocchino (doveva cambiare cella, ha attaccato i tre agenti e nella perquisizione successiva è stato trovato un microcellulare per comunicare con l’esterno) e spiegano: “Alle 21,30 del 20 luglio, a seguito di alcuni malfunzionamenti all’impianto elettrico del padiglione, si è verificato un blackout generale che ha causato l’interruzione della corrente elettrica nelle camere e nella sala video, il locale dove sono presenti i monitor della videosorveglianza, presidiato h24 da un operatore. Nell’arco di pochi minuti è scattata la protesta nella quarta sezione”. Secondo i sindacati i “reclusi hanno tentato di prendere il controllo delle sezioni. La situazione è degenerata in atti di violenza mediante lanci di frutta, uova, olio bollente e cibo nel corridoio, nei confronti degli agenti. Sono state scagliate violentemente bombolette di gas che hanno causato esplosioni simili alle bombe carta, tipiche degli “ultras” negli stadi di calcio. Non contenti per la dimostrazione di forza, hanno pensato bene di incendiare anche alcuni fogli di carta e lasciarli cadere fuori dalle finestre, causando un principio di incendio nelle sterpaglie intorno alla struttura”. I sindacati denunciano che nei 4 piani della struttura erano presenti solo tre poliziotti penitenziari, “considerato che nel frattempo altre unità erano impegnate a salvare la vita ad un recluso che ha tentato il suicidio”. Ancora: “Con un enorme sforzo e solamente grazie alle loro capacità e professionalità, sono riusciti a sedare la protesta. Testimoni dell’accaduto nonché vittime di un sistema penitenziario ormai al collasso, il medico di guardia e il personale infermieristico in servizio che, al pari di un agente di pubblica sicurezza, sono costretti a operare in condizioni ormai non più accettabili”. I sindacati segnalano che “i principali uffici cosiddetti “essenziali” nel carcere di Cuneo, quali Ufficio Segreteria e Ufficio Comando, sono chiusi per mancanza di personale e l’Ufficio Matricola è costretto a chiudere nelle ore pomeridiane in contrasto con la disciplina del settore”. Secondo indiscrezioni al carcere di Cuneo sono in arrivo nuovi agenti, ma intanto i sindacati annunciano “che si attueranno a breve tutte le forme di protesta sindacale possibili”. Il garante dei detenuti di Cuneo è Alberto Valmaggia: “Mi informerò su questo episodio, posso solo rilevare che la carenza di personale della penitenziaria è cronica e si fa sentire ancora di più in estate tra strascichi del Covid e ferie”. Acireale (Ct). L’istituto Penale Minorile al servizio della comunità di Carmelo Lombardo meridionews.it, 24 luglio 2022 “Cerchiamo di dare un modello di cambiamento”. La scerbatura della spiaggetta di S. Maria la Scala è solo l’ultima di una serie di attività tra cui corsi di cucina, volontariato e realizzazione delle mascherine. “Il percorso di pena deve essere tradotto in una prospettiva di vita nuova”, afferma il Cappellano. “Bisogna tradurre il percorso di pena in una prospettiva di vita nuova. Io, insieme agli altri operatori, dobbiamo cercare di offrire un modello di cambiamento concreto, che non rimanga soltanto a parole”. Don Francesco Mazzoli ha da poco salutato i ragazzi dell’istituto penale minorile di Acireale. Oltre a essere il parroco di Santa Maria la Scala, borgo marinaro dell’acese, dal primo luglio del 2017 è anche il cappellano della struttura che attualmente ospita 13 persone di sesso maschile: di questi, tre sono detenuti in semilibertà e possono anche prestare del lavoro esterno. Così, per il secondo anno consecutivo, hanno ripulito parte della spiaggetta di Santa Maria la Scala che funge anche da parcheggio. Un’azione concreta per quella che dovrebbe essere la rieducazione dei soggetti che devono scontare una pena detentiva. In questo caso sono minori e soggetti con un’età che va fino ai 25 anni (nei casi in cui si debbano scontare reati commessi in età minorile). Non soltanto siciliani, ma anche stranieri che sono arrivati ad Acireale da oltre i confini europei. Mazzoli sta accanto ai detenuti, cercando di “far riabbracciare la vita, una nuova vita”. Ci sono percorsi di catechesi, con attività rivolte non soltanto ai cristiano-cattolici, visto che ci sono diverse culture e confessioni religiose a contatto. Accanto alla catechesi, poi, ci sono le attività a servizio della comunità. “I ragazzi si sono impegnati due giorni, lo scorso 20 e 21 luglio - afferma il cappellano a MeridioNews - Hanno fatto l’opera di scerbatura che non era scontata, e bisogna dire loro grazie per questa attività, che non è di loro competenza: è un appello che io come parroco ho rivolto all’istituto, quindi ai ragazzi, nel venire in soccorso a quella che è una mancanza della società civile. Con questa azione hanno fatto sì che quell’area non possa essere soltanto preda degli incendi ma che possa risultare nociva o interdetta per le condizioni in cui si trova”. Le attività all’esterno dell’istituto, inoltre, comprendono anche la collaborazione con la parrocchia, dove i ragazzi in semilibertà offrono il loro servizio di volontariato, fornendo non soltanto il loro aiuto materiale, ma raccontando anche le loro esperienze di vita ai più giovani. Alle iniziative esterne poi si affiancano quelle interne, sebbene negli ultimi due anni la pandemia abbia condizionato inevitabilmente alcune cose. “Prima del Covid i ragazzi facevano volontariato alla mensa della Caritas di San Camillo, ad Acireale - continua Mazzoli - Poi hanno iniziato anche un percorso interno, che ha durata di tre anni: si tratta di un progetto che vede coinvolti anche altri istituti siciliani in cui si svolgono percorsi professionali dedicati alla cucina. Dalla fase iniziale fino alla formazione con l’obiettivo del pieno inserimento nel mondo del lavoro dopo la detenzione”. Nel frattempo, scoppiata la pandemia, anche se certe abitudini inevitabilmente sono cambiate, i ragazzi, guidati da padre Mazzoli hanno imparato a cucire attraverso dei video tutorial e hanno realizzato delle mascherine. “Ho lanciato un appello sui social per recuperare tessuto ideale per fare le chirurgiche, aghi e fili - racconta - Abbiamo realizzato 5mila mascherine che abbiamo distribuito ai poveri della Caritas, alle parrocchie e a chiunque ha bussato alla porta dell’istituto chiedendoci una mano”. Sono passati cinque anni da quando padre Francesco Mazzoli è stato nominato cappellano dalla direttrice Carmelina Leo. Da allora, nell’istituto a tre piani tra laboratori e aule scolastiche e momenti di preghiera ha visto passare diversi ragazzi. “Mi è capitato di accompagnare diversi ragazzi che, scontata la pena, tornavano dalle proprie famiglie, alcuni hanno dei bambini. Con qualcuno mi sento settimanalmente, il legame è indissolubile - conclude Mazzoli - Mi auguro che la società possa riaccoglierli e che possano avere un lavoro onesto e si possano affermare, perché questo percorso all’interno non resti vano. Al momento i ragazzi in semilibertà sono solo tre. Ma credo che se ne aggiungeranno altri a breve”. Rimini. La ministra Cartabia incontra i detenuti della Comunità di don Benzi di Monica Fabbri sanmarinortv.sm, 24 luglio 2022 “In questo luogo si coltivano rapporti positivi tra società civile e istituzioni”. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia, in visita alla casa di accoglienza per carcerati di Saludecio, curata dall’associazione Papa Giovanni XXIII. Ad accoglierla Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità di don Benzi. Nella struttura vivono 24 detenuti ammessi alle misure alternative al carcere. Quella di Rimini è infatti una delle 8 Comunità Educanti con i Carcerati, avviati a percorsi di rieducazione attraverso esperienze di servizio ai più deboli. “Questo è luogo speciale dove accadono cose importanti - ha dichiarato la Guardasigilli - Per questa ragione è stato prioritario per me venire qui oggi: una boccata d’ossigeno in un momento difficile. Desideravo conoscervi personalmente, ascoltare le testimonianze e poter toccare con mano una realtà di cui ho sempre sentito parlare bene. Lasciatemi dire un’ultima cosa: da Ministra della Giustizia posso dire che le istituzioni hanno bisogno di voi”. “Le persone che hanno sbagliato devono giustamente pagare per i loro errori, ma devono anche essere rieducate. È quello che facciamo nelle nostre Comunità”, ha dichiarato Ramonda, sottolineando per chi esce dal carcere la tendenza - nel 75% dei casi - a ricommettere reati. “Invece nelle nostre comunità, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli - afferma - le recidive sono appena il 15%”. Pisa. Lo sport per sentirsi liberi, partita di calcio a 5 al Don Bosco La Nazione, 24 luglio 2022 Un torneo per i detenuti organizzato dall’Ansmes: “così si può tornare a vivere”. Liberi dentro, tra sport e aria aperta. È cominciato così il primo Torneo dell’Amicizia di calcio a 5, riservato ai detenuti del carcere di Don Bosco di Pisa. Organizzato dal Comitato provinciale dell’Ansmes (Associazione Nazionale Stelle Palme e Collari d’Oro al Merito del Con e del Cip), presieduto da Michele D’Alascio, il comitato è impegnato da oltre un anno in attività sportive all’interno della casa circondariale pisana. La kermesse sportiva è stata organizzato di concerto con la direzione ed il supporto dell’area pedagogica. Già lo scorso anno, nell’ambito del Progetto nazionale “Lo Sport abbatte i muri”, l’Ansmes ha allestito iniziative riservate agli ospiti ed alle ospiti della casa: partite di “calcio a 5” tra una formazione di detenuti pisani e l’altra di studenti e partite di Pallavolo tra le ospiti e studentesse pontederesi. Inoltre, da oltre un mese, il Ansmes e Fipav hanno organizzato un corso di pallavolo riservato alle ospiti della casa circondariale che ha riscosso un particolare apprezzamento da parte di tutte le interessate che di buon grado hanno aderito all’iniziativa. La finale del torneo di Don Bosco invece è prevista per lunedì 8 agosto al termine della quale seguirà la cerimonia di premiazione. “Questo ulteriore progetto - dichiara il presidente pisano Ansmes Michele D’Alascio - nasce con lo scopo di poter offrire ai detenuti la possibilità di praticare attività sportiva e di partecipare a momenti formativi su tematiche legate allo sport. L’attività fisica nei luoghi di detenzione è una sfida che deve essere affrontata e risolta per le molte implicazioni e ricadute positive sulla rieducazione. L’ozio e l’inattività legati alla permanenza in carcere producono effetti devastanti sul fisico dei detenuti che determinano un ostacolo al processo di rieducazione che rappresenta l’obiettivo primario del sistema penitenziario. Lo Sport, l’esercizio fisico abbassano le tensioni emotive, riducono le malattie ed aiutano il detenuto a vivere meglio in un ambiente spesso sovraffollato e privo di risorse e stimoli. Lo Sport, a mio avviso, rappresenta per il detenuto uno strumento di crescita soprattutto umana, un momento di confronto con persone di origini cultura e nazionalità diverse”. Il libro che spiega perché e come è possibile abolire il carcere di Manuela D’Alessandro agi.it, 24 luglio 2022 Un pensiero scabroso che può diventare un orizzonte tangibile. Giuristi e costituzionalisti provano a immaginare un mondo senza più prigioni. Non è una provocazione, non è un’utopia, non è il sogno di un criminale incallito. ‘Abolire il carcere’ nelle intenzioni degli autori Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federico Resta per Chiarelettere, è un libro sul perché e sul come. Perché si debba osare un pensiero così scabroso e come si possa farlo diventare realtà. Il carcere funziona? Intanto, si mette il naso dentro per capire chi ci stia: “per la maggior parte poveri, tossicomani e stranieri, categorie deboli che non hanno la forza economica di sostenere un processo e sono quindi private di una difesa legale adeguata; individui ai margini che avrebbero bisogno di cure. Si stima che i detenuti davvero pericolosi, quelli incarcerati per omicidi, reati associativi, traffico internazionale di stupefacenti, rappresentino a malapena il 10 per cento del totale”. E’ utile il carcere? “La risposta è davvero semplice: il carcere non funziona. Il dato fondamentale è quello sulla recidiva”. Vengono citati due studi: uno dice che “sette condannati su dieci commettono un nuovo reato dopo avere scontato la pena in carcere, l’altro che “chi ha beneficiato dell’indulto ha un tasso di recidiva molto inferiore rispetto a chi era detenuto in carcere”. Inoltre, il tasso di suicidi è “17 volte più alto di quello delle persone libere”. Dunque, il carcere non costituirebbe un deterrente, né sarebbe strumento di rieducazione, come Costituzione comanda. Il Paese con gli indici di recidiva più bassi è la Svezia “grazie al lavoro all’esterno e alle pene non carcerarie”. In Italia “il 55% dei condannati sconta la pena in carcere, in Germania solo il 28%, in Francia il 30%, in Inghilterra il 36%”. Le alternative possibili - Quindi, se non il carcere, cosa? La risposta degli autori è tante risposte che dovrebbero consentire dei passaggi intermedi verso l’abolizione: utilizzare meno il diritto penale, depenalizzando i reati minori e sostituendo la sanzione penale con quella amministrativa o civile; abolire l’ergastolo “che contrasta con il principio rieducativo a cui deve ispirarsi la pena”; tenere fuori dal carcere chi è in attesa di giudizio, attualmente “un terzo dei detenuti”, con la possibile introduzione di cauzioni; potenziare le misure alternative alla detenzione”. Per i reati più gravi la soluzione sarebbe quella di far diventare il carcere “un luogo presidiato di diritti e garanzie, unica condizione affinché svolga una funzione in qualche modo rieducativa. Andrebbero poi aboliti il carcere per i minori “dandogli altre opportunità di sostegno nel loro percorso” e le misure di sicurezza per chi è stato prosciolto col riconoscimento di un disagio psichiatrico. Da incentivare invece la giustizia riparativa capace di risarcire la vittima o, nel caso in cui non ci fosse, di “reintegrare il bene giuridico leso dal reato con una sorta di risarcimento indiretto alla collettività”. Scrive il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione: “La commissione di un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di pagare il suo debito alla società. Il carcere è un modo efficace di pagarlo? Evidentemente no. È il solo modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il dolore”. Pericolose acrobazie e promesse di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 24 luglio 2022 La campagna elettorale rischia di svolgersi, complice la fretta e il periodo estivo, sotto una campana di vetro. Con molta fantasia e una vacanza dai problemi reali del Paese. A giudicare dalle prime battute non sarà una campagna elettorale noiosa. Tutt’altro. E nemmeno arida di promesse, anche acrobatiche. La fantasia italica è inimitabile. Il caldo fa già la sua parte. Del resto - come notava ieri sul Corriere Antonio Polito - nessuno ha avuto il coraggio, nel mercoledì della viltà repubblicana, di prendersi la responsabilità diretta della caduta del governo. La colpa è sempre dell’altro. Anzi dello stesso Draghi che non ne aveva più voglia e ha fatto di tutto per far saltare il tavolo. Ora gli stessi autori preterintenzionali della crisi si presenteranno davanti agli italiani assumendo, con la dovuta solennità, una serie di impegni per la prossima legislatura. È curioso notare come il discorso (d’addio) del presidente del Consiglio sia stato al centro di infinite discussioni sui toni scelti e sui destinatari delle sue critiche. Assai meno, se non del tutto, sui contenuti, sulle grandi questioni aperte del Paese. Se c’è una critica che possiamo rivolgere a Draghi è forse quella di averlo fatto, quel discorso di verità, un po’ tardi. E di aver lasciato che i partiti della rissosa maggioranza di unità nazionale interpretassero per estensione alcune sue frasi legate strettamente all’emergenza. Come “è il tempo di dare e non di prendere” o la necessaria distinzione tra debito buono e cattivo. Alla domanda, ripetuta più volte, (“Siete pronti?”) la risposta negativa era già stata data nei fatti. Purtroppo. Tutto si è svolto come se il Paese vivesse in uno splendido isolamento, protetto da una campana di vetro. Gli stranieri, non capendo perché sia stato fatto fuori l’italiano di maggior prestigio e credibilità al mondo, proprio in questo momento, con una guerra in corso e le tante emergenze, si rifugiano nei peggiori pregiudizi. Anche la campagna elettorale rischia di svolgersi, complice la fretta e il periodo estivo, sotto una campana di vetro. Con una vacanza dai problemi reali del Paese. E allora quel “Siete pronti?” può avere un significato diverso ma ugualmente importante. Sono pronte le forze politiche ad affrontare con realismo e onestà i temi sollevati in Senato da Draghi con una sincerità al limite della durezza? La domanda è rivolta anche a quei partiti che si richiamano assai genericamente all’Agenda Draghi. Una formula, quella dell’agenda, apparsa in passato più una discriminante, un confine politico, che un vero e proprio programma. La guerra in Ucraina sembra dimenticata. La caduta del governo è stata accolta con soddisfazione al Cremlino. Le ambiguità nei rapporti con Putin andrebbero sciolte davanti agli elettori, ammettendo eventuali errori. Non si può far finta di niente. La solidarietà con l’Ucraina - ricordava Draghi - si esprime anche e soprattutto con l’invio di armi. “Il solo modo per difenderla”. Dite sì o no, su questo punto, non forse o si vedrà. Nessun altro governo è riuscito a ridurre la dipendenza dal gas russo, dal 40 al 25 per cento, in tempi così brevi. A palazzo Chigi c’era Berlusconi quando l’Eni, con il progetto del gasdotto South Stream (che tagliava fuori l’Ucraina), prevedeva di arrivare addirittura al 55 per cento. Non si può dire sì ai rigassificatori a livello nazionale e no a livello locale come accade a Piombino (tutti eccetto Azione e Italia Viva) ma per fortuna non a Ravenna. Oppure approvare entusiasticamente le rinnovabili e gestire regioni, come la Sardegna (che va a carbone) o la Sicilia, che le ostacolano o non le vogliono. Tutti sono d’accordo (e ci mancherebbe altro) sulla necessità di non perdere i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La prossima rata di 19 miliardi è a rischio. Quelle dopo ancora di più. Sono soldi europei (sussidi e prestiti). C’è chi lo ha furbescamente dimenticato. Chi è al governo degli enti attuatori, in particolare le Regioni, forse qualche spiegazione in più, su tanti ritardi, dovrebbe darla agli elettori. E sciogliere l’enigma su come si concili l’autonomia regionale, ancorché differenziata, con gli obiettivi, necessariamente nazionali, della transizione energetica e digitale. Nel campo sanitario il quesito riguarda, per esempio, il funzionamento del fascicolo sanitario digitale e della rete di telemedicina. E poi ci sarebbe (l’argomento è sempre accolto con noia e fastidio) un “piccolo” debito pubblico a cui badare. Dopo le ultime decisioni della Banca centrale europea, con i tassi in crescita e la riduzione progressiva degli acquisti di titoli pubblici, ogni proposta di scostamenti di bilancio avrà un costo immediato (sui mercati e sulla percezione del rischio Italia) anche se poi resterà lettera morta. E visto che il prossimo esecutivo dovrà porre mano in fretta alla legge di Bilancio 2023, sarebbe un atto di onestà politica dire già in campagna elettorale come si ridurrà progressivamente il deficit, non fare a gara per ampliarlo con promesse - sulle pensioni per esempio - prive di copertura. Se si è responsabili si è più credibili. Va sciolto l’enigma della delega fiscale e del suo incerto destino in Senato, soprattutto da parte di chi nel centrodestra era in maggioranza e l’ha votata. Chi propone, come la Lega, la fantasmagorica rottamazione delle cartelle esattoriali, forse avrebbe il dovere di rispondere a quel passaggio del discorso di Draghi in cui si ricordavano i 1.100 miliardi di crediti residui del Fisco. Quelli aggredibili, per la verità, sono molti meno. Che facciamo strizziamo ancora gli occhi agli evasori? Tutti d’accordo nel voler ridurre le tasse sul lavoro. Ci sarà anche qualcuno che avrà il coraggio politico di spiegare che, per farlo, sarà necessario aumentare altri tributi? E, inoltre, di affermare che senza concorrenza, nella difesa delle corporazioni grandi e piccole, non c’è crescita. Né spazio per i giovani che hanno torto di non essere una lobby. Il declino demografico si contrasta poi con una seria e realistica politica sull’immigrazione, di cui abbiamo bisogno. Non con inutili e dannosi slogan sovranisti. L’Italia - ha detto Draghi - è un grande Paese libero e democratico sorretto dalla forza dei suoi valori e del suo convinto europeismo. Ha compiuto un “miracolo civico” reagendo bene - con il suo immenso capitale sociale fatto di comunità coese e virtù diffuse - alle emergenze che l’hanno colpita. Merita una campagna elettorale seria e responsabile. All’altezza del disgraziato momento storico che stiamo vivendo. Una legislatura sprecata e adesso arrivano le destre: addio diritti civili di Stefano Iannaccone Il Domani, 24 luglio 2022 Zero risultati dopo cinque anni di polemiche e promesse: niente ddl Zan sull’omotransfobia, niente legge sullo ius scholae, niente suicidio assistito. Con le elezioni si blocca tutto e, visti i sondaggi, non ripartirà mai. Il bilancio della legislatura si chiude con lo zero alla voce diritti civili. Un dato inappellabile. Dalla riforma della cittadinanza per gli stranieri alla legge sul fine vita, nessuna norma è stata approvata. E questo non lascia presagire cambiamenti almeno per i prossimi cinque anni: se il parlamento, come annunciano i sondaggi, sarà a maggioranza di centrodestra, la loro approvazione è impensabile. Del resto non è stato fatto niente negli ultimi anni in cui c’è stato prima il governo Conte bis, con un’alleanza di centrosinistra più il Movimento Cinque stelle, e poi l’esecutivo di Mario Draghi, che all’interno aveva comunque al suo interno tutte le forze progressiste. Un’occasione persa, anzi una serie di chance non sfruttate, soprattutto dal Partito democratico che si presenterà agli elettori sventolando queste bandiere. Ma con un consuntivo deficitario. Pantano parlamentare - La legge sul fine vita è uno degli esempi principali: licenziata dalla camera, è finita su un binario morto al senato. Il testo introduceva il suicidio assistito (comunque lontano dall’eutanasia legale chiesta dal referendum bocciato dalla Corte costituzionale) con la possibilità di scegliere una morte volontaria dopo aver terminato un percorso di cure palliative e in presenza di una “prognosi infausta”. Il provvedimento ha avviato l’iter in commissione a Montecitorio nel giugno dello scorso anno, mentre la discussione in Aula è iniziata a dicembre. Solo il 10 marzo c’è stato il via libera con il passaggio a palazzo Madama, dove si è però fermato alla fase delle audizioni informali. L’ultima è datata 4 luglio. La crisi di governo ha affossato il tutto. Sul tema c’era anche la proposta di legge popolare del 2013, ma dall’associazione Luca Coscioni fanno sapere che “non sarà più valida, perché sono passate due legislature senza alcuna discussione”. Così c’è chi adesso prova a fare da sé, come la Regione Marche: il gruppo del Pd ha raccolto l’appello lanciato proprio dall’associazione Coscioni per dare piena esecuzione alla sentenza sul caso di dj Fabo e sul ruolo di Marco Cappato. Una sfida che rischia di diventare l’esempio di cosa potrà accedere nella prossima legislatura: la giunta marchigiana è guidata dal centrodestra, a trazione Fratelli d’Italia. Sui diritti civili un’altra sconfitta, l’ennesima, si è materializzata sulla riforma della cittadinanza per gli stranieri: non è arrivata l’approvazione dello ius soli né dello ius scholae. La legge è stata presentata nel 2018 da Laura Boldrini e l’esame in commissione è cominciato nell’ottobre di quell’anno. Ma per oltre tre anni e mezzo il dibattito è finito in stand-by. In mezzo c’è stata l’esperienza della maggioranza giallorossa, che ha ignorato la riforma, nonostante avesse i numeri per portarla avanti. Solo a marzo 2022 il relatore del testo Giuseppe Brescia, deputato del Movimento 5 Stelle, ha tentato una soluzione più condivisa possibile, introducendo il principio dello ius scholae. L’obiettivo era quello di consentire la richiesta per la cittadinanza ai bambini arrivati in Italia prima di aver compiuto 12 anni, con alle spalle un ciclo scolastico di almeno 5 anni. Il provvedimento è approdato in assemblea a Montecitorio solo a fine giugno, trovando il ferreo ostruzionismo del centrodestra, con la Lega capofila. Così, nonostante le promesse del Pd di portare avanti la battaglia, era stato rinviato tutto a settembre. I tempi sarebbero stati troppo stretti e il via libera una missione impossibile. Pure la cannabis - Stesso destino è stato condiviso dalla legge sulla cannabis: dietro l’impulso delle firme raccolte per il referendum, il parlamento si era dato una mossa. La proposta iniziale, del 2019, è stata firmata dal deputato di +Europa, Riccardo Magi, ma l’adozione del testo è maturata nel 2021, sotto la spinta del testo predisposto dalla deputata del Movimento, Caterina Licatini. Durante il Conte bis, quindi, né il Pd né il Movimento hanno pensato di mettere mano al dossier. Il voto in commissione alla camera c’è stato solo a giugno 2022, poche settimane fa. L’approdo in aula ha però incrociato il fuoco di fila leghista, che ha segnato un altro ko per il partito di Enrico Letta e l’intero centrosinistra, incluso il M5s. Il confronto è stato rimandato sine die. Il mosaico del fallimento della legislatura sui diritti civili si completa con un altro pezzo, il ddl Zan che inaspriva sulla violenza o la discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere. L’iter alla camera è iniziato nel maggio 2018 con il deposito della proposta e l’approvazione in prima lettura nel novembre del 2020. Ma quando è arrivato al senato, c’era già la maggioranza di unità nazionale. Con il centrodestra ostile alla proposta. Così nell’ottobre del 2021 l’iniziativa del deputato del Pd è stata affossata a causa dei franchi tiratori che hanno colpito con precisione. Mandando in frantumi la possibilità di far passare almeno una legge sui diritti civili in questi anni. Il decreto del ministero dell’Interno che azzera la trasparenza sulle frontiere di Duccio Facchini altreconomia.it, 24 luglio 2022 A metà marzo 2022 la ministra Lamorgese ha firmato un decreto che dichiara “inaccessibili” gli atti relativi alla “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, inclusa la cooperazione con Frontex. Gli effetti, cioè i dinieghi agli accessi civici, si vedono. “Si vanifica un diritto dei cittadini”, denuncia l’avvocata Giulia Crescini di Asgi. Il ministero dell’Interno vuole azzerare la trasparenza in tema di gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi gli atti che riguardano le forniture alla Libia o la collaborazione tra l’Italia e l’Agenzia Frontex. Con il pretesto di voler aggiornare la “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”, il Viminale ha infatti incluso le materie più disparate, strumentalizzando il concetto di “sicurezza” o “difesa” nazionale e sopprimendo, di fatto, il diritto all’accesso civico. Prendiamo ad esempio l’articolo 2 del decreto ministeriale. Nelle categorie dei documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” sono stati inclusi anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Quella generica aggiunta finale - “inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione” - fa la differenza. Altreconomia ha già potuto sperimentarne l’effetto. Il 21 luglio 2022 l’Agenzia industrie difesa (Aid), ente pubblico nato nel 2001 e “vigilato” dal ministro della Difesa, ha infatti negato l’accesso all’accordo di collaborazione firmato il 21 ottobre 2021 con la direzione centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere, insediata proprio presso il ministero dell’Interno, e finalizzato alla fornitura di mezzi e materiali alla Libia. “La valutazione è sostenuta normativamente anche dal decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022”, ha scritto nel diniego il direttore generale dell’Agenzia, l’ex senatore Nicola Latorre. La categoria “sensibile”. Nel decreto c’è poi un’altra categoria “sensibile” che riguarda Frontex. Si tratta cioè di tutti quei “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia Europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Tradotto: qualsiasi atto che riguardi Frontex e il suo operato in Italia o con l’Italia potrà essere ritenuto “inaccessibile” e quindi negato. Le categorie di documenti inaccessibili. L’avvocata Giulia Crescini, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e in prima linea in tema di trasparenza degli atti del governo (e delle conseguenti battaglie legali per ottenerla), denuncia il tentativo di “vanificare il diritto all’accesso del cittadino”. “Le categorie di documenti inaccessibili sono state così ampliate nel decreto da frustrare profondamente lo spirito del Freedom of information act. Un limite interpretato poi in maniera assoluta dalla Pubblica amministrazione che invece non dovrebbe applicarsi per l’accesso civico”. Possibili interpretazioni restrittive. Un’altra categoria del decreto che potrebbe prestarsi a interpretazioni restrittive è quella delle “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”. Si tratta del confine italo-sloveno dove nel 2020 si verificarono le (illegali) “riammissioni informali attive”? O della frontiera alpina? O della zona di Ventimiglia? O degli hotspot? Resta sottratto all’accesso civico. Nel frattempo l’accordo tra l’Aid e il ministero resta sottratto all’accesso civico, così come un altro “patto” interno di cui abbiamo dato conto qualche mese fa, ovvero la convenzione dell’8 novembre 2021 tra il Viminale e la Guardia costiera per la cessione di tre “unità navali Sar classe 300” realizzate dal Cantiere Navale Vittoria e dal valore di 6,3 milioni di euro a beneficio della Libyan coast guard and port security. Anche su quello è chiusura totale. Come a dire, forniture d’oro ma a luci spente. Il caso Bakayoko dimostra che anche l’Italia ha un problema con la profilazione razziale di Simone Alliva L’Espresso, 24 luglio 2022 Nello stesso Paese che applaude Paola Egonu, le forze dell’ordine fermano il calciatore del Milan solo perché nero. L’identificazione etnica è un problema ma non lo raccontiamo. “Rappresentare la comunità in maniera diversa, è l’unico modo per rompere i pregiudizi che alimentano il razzismo”. Sembra il fermo immagine di un video che arriva dagli Stati Uniti. C’è un uomo nero che viene fermato dalla polizia mentre si trova sulla sua auto, mani ben in vista. L’uomo viene perquisito da un poliziotto mentre un’altra agente punta la propria pistola all’interno dell’auto, dove si trova un’altra persona. A un certo punto un terzo poliziotto si avvicina al collega che sta effettuando la perquisizione e gli rivela l’identità del perquisito. Termine dell’operazione. Siamo a Milano, pieno centro. L’uomo è il calciatore del Milan, Tiémoué Bakayoko. “Nella stessa Italia in cui si elogia Paola Egonu, avviene la profilazione razziale per Tiémoué Bakayoko (e molte altre persone non famose il cui nome non è altisonante, benché condividano la stessa melanina)” è il commento secco di Oiza Queens Day Obasuyi, ricercatrice e giornalista- Ci troviamo di fronte a un caso di profilazione razziale confermata dal fatto che la polizia pensava che Bakayoko fosse coinvolto in una sparatoria/rissa avvenuta molto prima tra cittadini di origine africana”. Con profilazione razziale si indica la pratica delle forze dell’ordine di procedere a operazioni di controllo o sorveglianza mosse soprattutto da pregiudizi fondati su colore della pelle, lingua, nazionalità. L’accusa non è mossa soltanto dalla saggista Obasuyi. Sui social molti utenti hanno criticato l’operato degli agenti accusandoli anche di “razzismo”, o al contrario, di “mollare tutto” appena scoperto che il perquisito era un calciatore. “Sono commenti fuori luogo - spiegano in Questura - il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava”. Secondo quanto precisato dalla Polizia di Stato, infatti, la notte precedente c’erano state risse, anche con colpi d’arma da fuoco (poi rivelatasi non di pistola) tra stranieri, e si cercava un suv scuro con a bordo due uomini, uno dei due di colore con una maglietta verde” Non è la prima volta. A fine giugno 2021, intorno all’alba, un gruppo di ragazzi e ragazze poco più che maggiorenni e per la maggior parte afrodiscendenti si trovava fuori dal McDonald’s di Piazza XXIV Maggio, a Milano. All’improvviso sul posto era arrivato un gran dispiegamento di carabinieri, alcuni in tenuta antisommossa. Ne è seguito un intervento di identificazione piuttosto violento, documentato da diversi video pubblicati sui social. “L’identificazione etnica è poco trattata in Italia ma è reale. Molto spesso le persone nere vengono fermate dalla polizia senza aver commesso nulla, camminano per strada, viaggiano in macchina e vengono fermate perché sono nere”. A spiegarlo a L’Espresso è Triantafillos Loukarelis ex Direttore generale dell’UNAR (Ufficio Antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri) e presidente del comitato direttivo Antidiscriminazione, diversità e inclusione del Consiglio d’Europa. “Non facciamo tutta l’erba un fascio rispetto ai corpi di polizia ma è una questione che esiste. A livello mondiale si è creata una certa sensibilità e anche voglia di affrontarla, pensiamo al movimento Black Lives Matter. La Commissione Europea con il nuovo piano di azione europeo contro il razzismo chiede agli Stati membri azioni specifiche per contrastare l’identificazione etnica. L’UNAR da un paio di anni sta lavorando a un piano nazionale italiano e abbiamo previsto. in collaborazione con 120 associazioni in Italia, un lavoro specifico che tramite l’OSCAD attivi corsi di formazione presso tutte le forze dell’ordine affinché si capisca che questi tipi di stereotipi sono inaccettabili”. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) parla di “pratica persistente,” compiuta dalle forze dell’ordine senza “alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole” quando procedono a operazioni di controllo o sorveglianza, mosse soprattutto da “pregiudizi fondati sulla razza, il colore della pelle, la lingua, la nazionalità. Dalla ricerca - condotta tra il 2015 e il 2016 attraverso interviste mirate a quasi seimila afrodiscendenti in dodici diversi Paesi, Italia inclusa - emerge infatti che un quarto del campione era stato fermato da forze di polizia nei cinque anni precedenti, e in quattro casi su dieci legava il fermo più recente a profilazione. Tra le persone fermate nei 12 mesi prima dell’indagine, il 70 percento del campione italiano parlava di profilazione razziale. “È la generalizzazione verso la comunità nera in Italia che porta, non solo forze dell’ordine, ma anche altri cittadini ad avere un atteggiamento che discrimina” a spiegarlo Mehret Tewolde Direttrice Esecutiva presso IABW - Italia Africa Business Week. “Dovremmo riflettere su questo episodio e chiederci: avrebbe avuto lo stesso impatto mediatico se invece di Tiémoué Bakayoko fosse capitato uno studente nero italiano al 100 per cento? In Italia non c’è il riconoscimento di una cittadinanza che non sia bianca. Questo è uno dei problemi. Poi c’è una crescente rassegnazione nei confronti di aggressioni e micro-aggressioni, non si denuncia mentre si dice troppo che soffriamo di vittimismo, così serpeggia questo sentimento di arrendevolezza alle discriminazioni, non ci si sente tutelati, ascoltati ma neanche rappresentati. La rappresentazione è fondamentale. Raccontare l’Italia multiculturale e non parlare di persone nere solo come persone che hanno bisogno di essere accudite o che delinquono. Bisogna uscire da questi ghetti mentali. Allarghiamo lo sguardo, interroghiamoci su come mai la società plurale e multiculturale ben presente nelle nostre scuole, scompare finito il ciclo scolastico. Tutta una questione di narrazione. I mass media chiamano le persone nere soltanto quando si tratta di questioni che riguardano principalmente la comunità nera: migranti, razzismo, cittadinanza. Possibile che in due anni di pandemia non siamo riusciti a vedere scrittori o medici di origine diversa da quella caucasica? Eppure ce ne sono. Rappresentare la comunità in maniera diversa, aderente al reale è l’unico modo che abbiamo per rompere stereotipi e pregiudizi che alimentano il razzismo”. Dello stesso parere Kwanza Musi Dos Santos, co-fondatrice di “Questa è Roma-associazione di giovani di seconda generazione” e consulente in Diversity Management: “Quello dell’under-reporting è un problema reale. Inoltre bisogna dire che la polizia in Italia gode di uno status abbastanza protetto e quindi è difficile denunciare un sistema che continua ad autoassolversi. Quello del razzismo e della profilazione razziale è la realtà dei fatti. Non abbiamo bisogno ogni volta di episodi così eclatanti per aprire gli occhi. C’è una questione di mancanza di formazione, sensibilità, valori condivisi. E dentro questo scenario il problema è sistemico: c’è una categoria principale che definisce i principi e valori per tutti”. La guerra di Kirill di Nona Mikhelidz* La Stampa, 24 luglio 2022 La chiesa ortodossa russa è l’alleata più vicina a Putin nell’invasione dell’Ucraina. Soldati benedetti e identità, così il patriarca crea le giustificazioni morali alle bombe. Il patriarca Kirill è l’alleato più importante del presidente Putin nella guerra contro l’Ucraina. Una guerra che ha appoggiato fin dall’inizio, come una battaglia contro “forze oscure esterne e ostili”. Kirill ha addirittura benedetto i soldati russi inviati in Ucraina. A marzo, papa Francesco ha tenuto una videoconferenza con il capo della chiesa ortodossa russa mettendolo in guardia sull’uso della religione per giustificare il conflitto. Il papa ha detto a Kirill di non essere il “chierichetto di Putin”. “Il Vaticano non cesserà mai gli sforzi diplomatici per una mediazione che porrebbe fine alla guerra contro l’Ucraina”, ha detto successivamente papa Francesco. Purtroppo, questa mediazione è destinata a fallire. Ed ecco perché. Tra Stato e chiesa - L’interdipendenza tra lo Stato e la chiesa russi rende la seconda un attore sociale privilegiato. La chiesa russa ha sempre promosso questa idea di interdipendenza, che ha un peso importante nel discorso ideologico di Putin. Già dalla fine degli Anni 90 Putin aveva iniziato a rafforzare le posizioni della chiesa nella società, imponendolo dall’alto: lo Stato aveva identificato nella chiesa russa un alleato nella diffusione della sua idea di una civiltà russa distinta. Di conseguenza, negli ultimi 20 anni la chiesa russa è riuscita ad assicurarsi una posizione di influenza nella Russia post-sovietica, diventando il simbolo più potente di statualità russa, della tradizione e della cultura. Il rapporto Stato-chiesa è stato rianimato, e oggi lo Stato gode della legittimità derivata dalla chiesa mentre la chiesa aumenta la propria autorità diventando un elemento dell’amministrazione statale. Se nell’epoca sovietica la chiesa russa era stata un’istituzione repressa, nel regno di Putin è diventata un’entità forte che gode di privilegi elargiti dallo Stato, tra cui la capacità di reprimere altri gruppi religiosi presenti nello Stato laico della Russia. La posizione privilegiata della chiesa ortodossa russa viene garantita anche dall’assistenza finanziaria che riceve dallo Stato, sia direttamente che indirettamente. Negli anni, la chiesa ortodossa è stata il più grande beneficiario delle sovvenzioni elargite dalla presidenza alle organizzazioni della società civile. Parlando al consiglio dei vescovi qualche anno fa, il patriarca Kirill aveva annunciato che la chiesa ortodossa russa conta oggi 34.764 chiese, 361 vescovi, quasi 40.000 sacerdoti e diaconi, 455 monasteri e 471 conventi. La Duma aveva approvato già nei primi anni della presidenza Putin una legge che restituiva alla chiesa tutte le sue proprietà sequestrate dal regime sovietico. In cambio, sotto Putin, il patriarcato di Mosca ha sostenuto in maniera esplicita la politica interna ed estera della Russia, e la sua politica militare. Una civiltà distinta - Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, la chiesa era entrato in un territorio “sconosciuto”, percependolo come minaccia. Per affrontare questa “minaccia”, era diventata diffidente e critica verso i valori occidentali associati alla libertà individuale e ai diritti umani. Sotto il patriarca Kirill, la chiesa russa si è legata inestricabilmente al discorso sull’egemonia della civiltà distinta della Russia, creato nell’era putiniana. Oggi è la chiesa ortodossa russa che fornisce la narrazione essenziale sull’identità russa, piena di miti e simboli. La nozione della “civiltà russa” utilizzata dal presidente Putin e dal suo establishment politico era stata introdotta da Kirill ancora all’epoca in cui, come metropolita di Smolensk, era a capo del Dipartimento delle relazioni esterne della chiesa. Secondo lui, l’unicità della “civiltà russa” la rendeva culturalmente superiore all’Occidente. Il discorso dell’ortodossia russa sulla diversità russa di solito comprende un atteggiamento critico verso l’Occidente e il liberalismo politico che vi viene associato. Questa critica prende di mira soprattutto il secolarismo diffuso delle società occidentali: il patriarca Kirill sostiene che è impossibile separare l’essere umano dai valori spirituali, e di conseguenza anche creare una società secolarizzata che tolleri “molteplici forme comportamentali”. Secondo il patriarca, un modello del genere distruggerebbe inevitabilmente le fondamenta morali della vita. Più in generale, il discorso della difesa dei valori cristiano tradizionali coincide con una severa critica dei concetti sociali occidentali ed è legato al discorso della minaccia costante alla moralità. Oltre al secolarismo, la chiesa russa colloca nella sfera dei valori occidentali anche l’individualismo e il pluralismo, considerati entrambi frutti dell’Illuminismo europeo, nella visione secondo la quale “i valori occidentali vengono sempre più emarginati, e Dio viene spinto alla periferia dell’esistenza umana”. Nel suo discorso al Club di Valdai del 2013, Putin ha usato una argomentazione sostanzialmente simile quando ha dichiarato che nel mondo scarseggiava sempre più la decenza, e le persone “prive dei valori cristiani... di norme morali ed etiche formate nel corso di millenni... stanno perdendo la loro dignità umana”. Di conseguenza, la Russia deve riconoscere che “non può avere successo su scala globale senza una autodeterminazione spirituale, culturale e nazionale”. Il “mondo russo” - Il discorso della Russia come civiltà distinta, portato avanti sia dalla chiesa che dallo Stato, va a braccetto con la narrativa del “mondo russo” come centro della civiltà ortodossa. Uno dei discorsi del patriarca Kirill getta luce sulla narrativa creata dalla chiesa a riguardo: “Si tratta di capire chiaramente cosa significa oggi il mondo russo. Credo che se consideriamo come unico suo centro la Federazione Russa nei suoi confini attuali andiamo a peccare contro la verità storica e ne tagliamo fuori artificialmente milioni di persone che avvertono la loro responsabilità per le sorti del mondo russo e considera la sua costruzione la missione della loro vita. Il cuore del mondo russo sono oggi la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia... Questa è la Santa Russia. È questa la visione del mondo russo inerente alla autoidentificazione della nostra chiesa oggi... Gli Stati indipendenti che esistono nelli spazio della Rus’ storica, consapevoli della loro affiliazione a una civiltà comune, possono continuare a costruire insieme il mondo russo e considerarlo un progetto sovranazionale comune. Possiamo addirittura introdurre una nozione nuova, il “Paese del mondo russo”. Io credo che soltanto un mondo russo legato strettamente insieme possa diventare un potente soggetto della politica globale internazionale, più forte di qualunque alleanza politica”. In un altro discorso, il patriarca Kirill ha sostenuto che gli Stati indipendenti del “mondo russo” devono articolare la propria sovranità non come motivo di separazione dai vicini, ma semmai come uno strumento per rinforzare il loro senso di appartenenza a una comunità della stessa civiltà. Nello stesso discorso, il patriarca ha ipotizzato la trasformazione di Kiev in un altro centro politico e sociale del “mondo russo”, non meno importante di Mosca, in quanto Kiev era la culla della civiltà russa, “la madre delle città russe”. Tutto il discorso del patriarcato russo sulla “Santa Rus’” e la fratellanza ortodossa degli slavi storicamente era servito al Cremlino come strumento di influenza sul “vicino estero” e di opposizione agli attori occidentali che volevano entrare nello spazio post-sovietico. La promozione dei valori tradizionali da parte di Kirill ha ulteriormente consolidato l’ideologia del “mondo russo” e il concetto di “sicurezza spirituale”, che gradualmente ha aiutato la Russia di Putin ad assumere una identità messianica basata sulla narrativa dell’identità russa come quella di una civiltà ortodossa a sè stante. Giustificazioni morali - Lo stretto rapporto tra il presidente Putin e il patriarca Kirill ha fornito alla politica estera e alla sicurezza russa una cornice morale; anzi, la chiesa ortodossa russa ha definito la visione morale e il senso dell’onore dell’intero Stato e della nazione. Durante la guerra cecena, per esempio, l’allora patriarca Aleksij aveva esortato lo Stato a “difendere la madre patria dai nemici esterni oltre che interni”. Nel 2008, l’arcivescovo Ignazio, dopo una visita nell’Artico dove era stato portato dagli aerei dei servizi segreti russi (Fsb), ha espresso la sua soddisfazione per la cooperazione tra la chiesa e le forze armate, notando che i soldati russi stavano aiutando la chiesa a portare il verbo di Dio anche alla fine del mondo. Nel 2010, la chiesa ortodossa russa aveva addirittura proposto di assistere i russi etnici nelle campagne elettorali, e aiutare il governo a stabilire un dialogo tra il partito putiniano Russia Unita e le forze conservatrici in Europa e negli Usa. Nel 2015, la chiesa ortodossa russa ha dato la sua approvazione all’ingresso dei militari russi nella guerra in Siria, e dichiarato di appoggiare la decisione di Putin di lanciare laggiù una “guerra santa”. Sulla Crimea, padre Vsevolod Chaplin aveva dichiarato che le truppe russe stavano svolgendo una missione di peacekeeping in Ucraina, e che “il popolo russo ha il diritto di venire riunito nello stesso corpo politico”. Questi sono solo alcuni esempi dello stretto rapporto tra lo Stato e la chiesa in Russia. La chiesa stessa va fiera del suo spirito di cooperazione con le forze armate: il patriarca e il Santo Sinodo hanno creato il Dipartimento del Sinodo per la cooperazione con le forze armate e gli organismi della sicurezza. Un rapporto consolidato da una serie di accordi scritti sul rinnovamento spirituale e morale delle forze armate russe; il clero ortodosso benedice regolarmente i soldati, gli armamenti e i mezzi militari, e i sacerdoti hanno benedetto le nuove armi russe, i caccia e perfino i missili usati nella guerra contro l’Ucraina. La facoltà di legge dell’Università ortodossa russa ha inserito un corso di “sicurezza spirituale”, mentre per i soldati sono stati introdotti corsi speciali di cultura ortodossa. Il patriarca Kirill ha dichiarato al riguardo: “Quanto per il popolo arriva il momento di fare il proprio dovere ed ergersi a difesa della madre patria, diventa l’attività più importante delle loro vite... Uno dei compiti della chiesa perciò è il ministero speciale di insegnare e rafforzare nel popolo i principi spirituali e morali che renderanno le persone valorosi e inflessibili difensori della patria”. Il patriarca ha anche espresso la speranza che i corsi di ortodossia all’accademia militare avrebbero “fatto rivivere modelli di uno stile di vita organici alla Russia”. Dalla fine degli Anni 90, il governo russo ha preso provvedimenti per includere la visione della chiesa ortodossa russa nelle concezioni della sicurezza nazionale e della politica estera. La chiesa è stata chiamata a contribuire a redefinire la Russia, e a crearle una nuova missione da portare nel mondo. Il concetto di sicurezza spirituale è stato ampiamente utilizzato nei documenti ufficiali dello Stato come la Concezione della sicurezza nazionale e la dottrina della sicurezza informativa della Federazione Russa, entrambe risalenti al 2000. Nella narrativa ufficiale russa, le norme che lo Stato vuole imporre insieme alla chiesa giustificano l’assertività del Cremlino nel “vicino estero”. Lo Stato e la chiesa hanno lavorato in tandem per promuovere la loro politica estera e i loro obiettivi nello spazio post-sovietico e sulla scena internazionale. La cristianità ortodossa è stata dichiarata una componente fondamentale dell’essere russi, e la chiesa russa di conseguenza è stata elevata a protettrice degli interessi nazionali, delle tradizioni e dei valori russi. *Traduzione Anna Zafesova Tunisia. Protesta nelle strade di Tunisi, ultimo atto della democrazia di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 24 luglio 2022 Tre manifestazioni in due giorni contro le due tornate elettorali che da domani ratificheranno l’avvento del regime ultra presidenziale di Kais Saied. Tre manifestazioni in due giorni, mille persone in totale e la netta sensazione che non serva aspettare la giornata di domani per vedere compiuti i piani del presidente della Repubblica Kais Saied: l’accaparramento totale dei poteri in Tunisia. Da un anno a questa parte il responsabile di Cartagine mantiene un controllo fermo sul Paese dopo avere sciolto il governo, congelato il parlamento ed esautorato di fatto la magistratura. Domani 25 luglio, anniversario della festa della Repubblica, ci sarà il primo dei due turni elettorali che sanciranno la fine del processo democratico in corso da undici anni nel paese, il referendum costituzionale pensato e strutturato per seppellire il testo del 2014 e imporre un regime ultra presidenziale. Il secondo è fissato per il 17 dicembre con le elezioni presidenziali e legislative, giorno dell’immolazione di Mohamed Bouazizi nel 2010 e data simbolo delle cosiddette primavere arabe. Dalla sua elezione nel 2019 Saied ha dimostrato la non apertura verso un dialogo nazionale che potesse portare soluzioni alla crisi economica e sociale che da anni affligge la popolazione tunisina valutando, forte del suo consenso popolare, di potere risolvere da solo i problemi strutturali del piccolo Stato nordafricano. Sempre da un anno a questa parte le opposizioni non hanno invece trovato una sintesi comune per manifestare il loro dissenso, divise tra chi ha governato undici anni la Tunisia in maniera pessima secondo i suoi cittadini (il partito di ispirazione islamica Ennahda), il partito di Abir Moussi, avvocata e volto nostalgico del regime autoritario di Zine El-Abidine Ben Ali e la sinistra insieme alla società civile che si era costruita dopo la Rivoluzione della libertà e della dignità del 2011. Sono stati proprio i ricordi legati ai momenti rivoluzionari a portare questi ultimi a scendere per la prima volta in avenue Habib Bourguiba dopo il colpo di forza di Saied. Venerdì scorso poche centinaia di persone tra rappresentanti di partiti politici e organizzazioni come il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt) o della Lega tunisina dei diritti dell’uomo (Ltdh) non hanno fatto in tempo a cominciare una marcia verso il ministero dell’Interno che è arrivata la pesante reazione della polizia. Gas urticanti, manganellate e cariche hanno occupato la via centrale di Tunisi disperdendo la folla. “Dopo l’approvazione della costituzione sappiamo bene che non sarà più possibile scendere per strada e non ci sarà più alcun tipo di controllo - le parole di Jouda Ayachi, attivista queer di Damj, associazione tunisina per la giustizia e l’uguaglianza di genere - oggi siamo venuti qui perché stiamo entrando in una dittatura. Noi siamo contro chiunque rappresenti un pericolo per la democrazia, compresi Ennahda e Abir Moussi. Dobbiamo sbrigarci e difendere i nostri diritti e le libertà che abbiamo conquistato”. Venerdì gli organi di stampa hanno parlato di almeno nove arresti accertati e diverse aggressioni a giornalisti tra cui il presidente dell’Snjt Mehdi Jelassi, il quale ha bollato come “fasciste” le pratiche utilizzate dalle forze dell’ordine. Nonostante il basso tasso di partecipazione e i numerosi casi di violenza della polizia, chi c’era ha dichiarato di non volere alzare bandiera bianca. Non lo farà sicuramente il segretario del partito dei lavoratori Hamma Hammami, volto storico dell’opposizione a Ben Ali che oggi si prepara a fare altrettanto con Saied: “Avenue Bourguiba è la via della rivoluzione e appartiene a chi ha deciso di manifestare. Quello che è successo ha mostrato il vero volto del presidente. In Tunisia abbiamo vissuto undici anni di crisi, corruzione e un processo democratico distorto. Ora però Saied vuole imporre un nuovo regime autoritario ma sono sicuro che farà la stessa fine di Ben Ali. Noi siamo contro questo referendum che è un’operazione di facciata e non ha alcun tipo di valore, d’altronde già oggi sappiamo quale sarà l’esito della consultazione”. Archiviata la giornata di venerdì, ieri è stato il turno dei militanti di Ennahda e di Abir Moussi, avversari storici dal 2011. Tuttavia si sono ritrovati a poche centinaia di metri, i primi in avenue Bourguiba, i secondi in Rue de Rome di fianco alla cattedrale cristiana della capitale per esprimere il loro dissenso a Kais Saied. Lo hanno fatto per motivi diversi: il partito di ispirazione islamica per rientrare nella legittimità costituzionale e nel suo ruolo di protagonista della fase post rivoluzionaria; Abir Moussi e i suoi sostenitori per cercare di non perdere i panni di favoriti alle ipotetiche elezioni presidenziali che si sarebbero dovute tenere nel 2024 se non ci fosse stato il colpo di forza presidenziale un anno fa. La Tunisia ha quindi vissuto una due giorni di mobilitazione generale e divisa che non sembra bastare, con Saied che dall’alto del palazzo di Cartagine è in attesa di vedere compiuto domani il suo disegno ultra presidenziale. Etiopia alla fame: le ragioni di una crisi complessa di Fabrizio Floris Il Manifesto, 24 luglio 2022 Dove quei carichi di cereali erano più attesi. Si intrecciano più cause e più livelli di responsabilità, politici e speculativi. Ben prima della guerra in Ucraina, la fame colpiva a fondo in Etiopia. “In un Paese dove la stampa è libera non c’è la carestia” affermava Amartya Sen. Il premio Nobel per l’economia in un meticoloso lavoro di ricerca ha dimostrato che un Paese con “un regime democratico e una stampa relativamente libera non ha mai sofferto una carestia”. Quindi com’è possibile che la regione nord dell’Etiopia sia affetta da una gravissima crisi alimentare? Com’è possibile che delle 750 mila persone che il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ritiene che siano prossime a rischiare la vita per fame (o in conseguenza di fame) ben 400 mila si trovino nella regione etiope del Tigray? E poi, al di là degli aiuti internazionali, un Paese di oltre 100 milioni di abitanti, com’è possibile che non sia in grado di soccorrerne 400 mila? Il Tigray (ma anche alcune zone di Afar e Amhara) sembra essere l’epicentro di una cr secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) “le aree del Tigray lungo il confine eritreo, alcune aree della zona orientale e occidentale rimangono difficili da raggiungere per i partner umanitari. Allo stesso modo, nella regione di Amhara, la situazione generale della sicurezza rimane instabile e imprevedibile, soprattutto nelle aree al confine con il Tigray. L’impatto della siccità è peggiorato e si stima che almeno 8,1 milioni di persone siano colpite dalla crisi idrica” che ha effetti a cascata sull’alimentazione, sulla salute, sulla sicurezza e anche sull’istruzione. Nel Tigray, tra il 21 e il 28 giugno 652 camion che trasportavano rifornimenti umanitari (tra cui 2 cisterne di carburante per operazioni umanitarie) hanno raggiunto Mekelle, portando il totale a 3.642 camion dalla ripresa del movimento dei convogli stradali dallo scorso 1 aprile. Il problema è che gli aiuti passano dal solo corridoio stradale Semra-Macallè e secondo Adrian Van der Knaap direttore del Programma alimentare mondiale per l’Etiopia settentrionale bisognerebbe aprirne altri: “né etiopi né tigrini stanno fermando i camion in questo momento, ma l’aiuto è ancora insufficiente”. Infatti, Abba Abraha Hagos della diocesi di Adigrat ha dichiarato che “attualmente i beni di prima necessità e i servizi di base non sono disponibili sul mercato o sono molto costosi e inaccessibili alla maggior parte della popolazione”. A questo si aggiungono le restrizioni dei movimenti bancari che secondo il missionario spagnolo Ángel Olaran impediscono alle chiese e alle organizzazioni umanitarie di accedere ai fondi necessari per fornire gli aiuti. Il PAM evidenzia la necessità “di un movimento completo e illimitato dei rifornimenti attraverso le linee di controllo. Questo include l’apertura di altri due corridoi nel Tigray, il modo più efficace per massimizzare la consegna di aiuti nell’Etiopia settentrionale”. Come ha dichiarato Brian Lander vice direttore del PAM “non c’è assolutamente alcun motivo per cui le persone muoiano di fame oggi. C’è abbastanza cibo nel mondo per sfamare tutti, ed è per questo che è fondamentale agire ora per prevenire la fame”. Nel Tigray nell’ultimo anno, secondo il PAM, “è arrivato solo il 10% degli aiuti richiesti, la recente tregua sta migliorando la condizione, ma la situazione resta imprevedibile”. Una crisi complessa che intreccia più cause e più livelli di responsabilità stanno agendo diversi fattori politici e speculativi che alimentano anziché ridurre il problema come spiegano gli operatori umanitari “i prezzi dei carburanti e del cibo hanno iniziato a salire prima della guerra in Ucraina”. Già 20 anni fa il professor Girma Kebbede aveva chiarito che in Etiopia “la carestia storica del contadino etiope è spesso spiegata dal maltempo o da altri fenomeni naturali avversi. Sebbene nessuno possa negare gli effetti negativi del maltempo, tuttavia, il tempo da solo non può essere considerato un fattore importante in nessun resoconto delle frequenti carestie dell’Etiopia. Dietro ogni calamità naturale avvenuta in Etiopia si nascondono fattori istituzionali o strutturali (sociali, economici e politici) che hanno esacerbato i fattori nnaturali. In altre parole, i fattori istituzionali sono un elemento primario della vulnerabilità della popolazione. Si devono esaminare il contesto socioeconomico e le condizioni politiche in cui si verificano i disastri per capire perché le persone sono vulnerabili”. Ma come sempre la stampa libera può svegliare uno che dorme, non uno che fa finta di dormire. Afghanistan. Un anno dopo il ritorno dei talebani le donne sono sparite di Giuliano Battiston L’Espresso, 24 luglio 2022 Gli islamisti rivendicano il consenso del popolo e la presa di Kabul contro il caos. Soffocano il dissenso con il sangue e la paura. E istituiscono un’apartheid di genere chiudendo le scuole e impedendo a donne e ragazze di studiare o farsi vedere. “Il vecchio regime aveva il sostegno dell’America, ma non quello della gente. Per questo era debole. La nostra resistenza è stata forte grazie al sostegno della popolazione: rappresentiamo 40 milioni di afghani”. La versione dei Talebani, tornati al potere il 15 agosto scorso dopo vent’anni di guerriglia, è nelle parole di Noor Ahmad Saeed. Barba lunga, profonde occhiaie e un abito bianco, è il responsabile del dipartimento per l’Informazione e la Cultura della provincia di Kandahar. Il suo ufficio non è lontano da Shaheedan chowk, la “rotonda dei martiri” e una delle vecchie porte di Kandahar, città-simbolo nella storia del Paese. I martiri della rotonda sono i mujahedin che, nell’Ottocento, combatterono contro gli inglesi. Per i Talebani, non sono poi così diversi dai militanti del gruppo che quasi un anno fa hanno cacciato gli eserciti occupanti. Rendendo possibile la restaurazione dell’Emirato islamico, già proclamato nel 1996 proprio qui a Kandahar dallo storico leader mullah Omar e poi crollato sotto le bombe dei cacciabombardieri Usa, nell’inverno 2001. Quella del mawlawi Noor Ahmad Saeed è una voce unica e tipica. Unica per l’adesione precoce al movimento: “Sono passati così tanti anni che non mi ricordo bene. Forse 25, forse 28 anni fa. Gli anni non contano: conta l’impegno, la militanza, l’obbedienza”. Tipica perché nelle sue parole passano molti dei temi che, ci siamo accorti viaggiando da Mazar-e-Sharif a Ghazni, da Herat a Lashkargah, da Farah a Kabul, ricorrono tra i funzionari dell’Emirato, ora liberi di rivendicare, di gridare vittoria e spiegare le proprie ragioni. Noor Ahmad Saeed la prende larga. È un’altra pratica ricorrente: per spiegare quel che è venuto dopo - i 20 anni di guerriglia, i tremila morti civili ogni anno, gli 80 mila soldati afghani uccisi, le stragi nelle città - molti esponenti del movimento jihadista partono dal 2001, l’anno spartiacque. Offrendo ricostruzioni storiografiche contestabili, ma istruttive. Per Saeed nel 2001 tutto andava bene, “il Paese era unito dopo anni di conflitti interni, non c’erano divisioni tra Nord e Sud, la sicurezza garantita. Ma poi gli americani non hanno voluto negoziare su Osama bin Laden”, il responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 architettati in Afghanistan, “e hanno distrutto l’Emirato, portando guerra e distruzione contro il popolo: tutta colpa del presidente Bush e di Rumsfeld”, il segretario alla Difesa Usa che l’1 maggio 2003, di fronte ai soldati statunitensi a Kabul, dichiara “conclusi i combattimenti maggiori”, annunciando “un periodo di stabilizzazione e ricostruzione”. Per Rumsfeld è stabilità e ricostruzione, per il religioso di Kandahar un’inutile farsa: “Gli americani hanno messo al potere i signori della guerra, hanno edificato un sistema che provocava uccisioni e stupri e l’hanno chiamato democrazia. Per capire che la resistenza dei Talebani è la resistenza del popolo afghano, ci hanno messo venti anni. Poi se ne sono andati”. L’ultimo soldato straniero ad abbandonare il Paese è il maggiore Chris Donahue, comandante della 82esima divisione aerea degli Stati Uniti. Nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2021 il portellone del cargo militare Boeing C-17 si chiude dietro di lui, nel buio dell’aeroporto di Kabul, dove nei giorni precedenti era andato in scena lo spettacolo-simbolo della debacle ventennale: migliaia di afghani costretti a calpestarsi e a trascorrere giornate intere nei canali di scolo pur di lasciare un Paese dal futuro più incerto che mai. Due settimane prima, i Talebani erano entrati a Kabul. Anche in questo caso, la loro versione è pressoché unanime. La si sente a Kandahar, culla del movimento, ma anche a Farah, a diverse ore di strada infuocata più a ovest, una delle province che i soldati italiani, per anni responsabili dell’area occidentale rivolta verso l’Iran, non sono mai riusciti a “stabilizzare”. Qui la voce ufficiale del movimento è del mawlawi Abdul Hai “Sabawoon”, un religioso di bassa statura e dallo sguardo sospettoso. Prima reticente, dopo ore di colloquio, tazze di tè e una gita in città tra strade in ricostruzione e resti archeologici da tutelare, diventa loquace. “Non volevamo entrare a Kabul, ma siamo stati costretti a farlo: l’alternativa era il caos”, spiega Sabawoon con parole simili a quelle che avevamo sentito pochi giorni prima a Herat: “Lo abbiamo fatto per proteggere la popolazione, non c’era più ordine e controllo”. Una versione che combacia con quella di Zalmay Khalilzad, l’ex inviato speciale per la riconciliazione in Afghanistan del governo Usa. L’uomo che ha condotto i negoziati che hanno portato all’accordo di Doha tra americani e Talebani del febbraio 2020. Presentato come preludio alla pace, si limitava a garantire la sicurezza dei soldati americani nel ritiro. Tante concessioni ai Talebani, la garanzia più importante per gli americani, il governo di Kabul tagliato fuori: una vera manna per Haibatullah Akhundzada, l’Amir ul-mumineen, la guida dei fedeli e leader supremo dei Talebani. I quali, secondo Khalilzad, il 15 agosto 2021 si trovano spiazzati. “Fino alla fine”, ha sostenuto in un’intervista al Financial Times, “avevamo un accordo con i Talebani per non farli entrare a Kabul”. Il presidente Ashraf Ghani sarebbe dovuto rimanere al suo posto fino a quando non si fosse raggiunto un accordo sul nuovo governo. Ghani, però, il 15 agosto fugge. E il mullah Abdul Ghani Baradar, artefice dell’accordo di Doha, chiama il generale statunitense Frank McKenzie, proponendogli di assumersi la responsabilità di tutta Kabul o del solo aeroporto. Il presidente Biden sceglie la seconda ipotesi. I Talebani conquistano Kabul. “Per volere del popolo afghano”, ribadiscono ora i funzionari dell’Emirato da Herat a Kandahar. È su questo punto, e su quello che viene dopo, una volta inaugurato il governo provvisorio, che le versioni non combaciano. A divergere non sono soltanto le versioni di Kabul e di Washington, che ha congelato i fondi della Banca centrale afghana, di cui circa 7 miliardi custoditi alla Federal Reserve di New York, e portato all’isolamento del sistema bancario ed economico, finito sotto sanzioni. Ma quelle tra i Talebani e buona parte della società, soprattutto nelle aree urbane. “Consenso? Ma quale consenso, quale rappresentanza del popolo! Il loro potere si regge sulla violenza, sulle armi, sulle intimidazioni”. Così ci dice un’interlocutrice a Kandahar. Donna di mezza età, anni di attivismo tra associazioni della società civile e organizzazioni umanitarie, non vuole più metterci la faccia, preferendo l’anonimato. A dispetto dell’amnistia proclamata nel settembre 2021, nell’Emirato si rischia troppo. Gli spazi di libertà si sono ristretti, fin quasi all’asfissia. Venire rintracciati è molto più facile. I rischi sono enormi. Non vale solo a Kandahar, dove risiede con grande segretezza la “guida dei fedeli” Haibatullah Akhundzada, che qualche giorno fa, in una grande assemblea a Kabul, ha rivendicato l’autarchia come via privilegiata per l’Emirato. Vale ovunque. Anche al Nord. A Mazar-e-Sharif, per esempio, nella provincia settentrionale di Balkh, abbiamo incontrato attiviste costrette a rimanere in casa per timore di ritorsioni; giornalisti divenuti elettricisti per evitare guai; giovani poeti sbattuti in carcere per aver manifestato per strada; genitori alla ricerca dei propri figli, prelevati da uomini del nuovo regime e spariti. A Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, drenando un canale in cui era precipitato un ragazzo, i residenti hanno trovato cento corpi in decomposizione, qualcuno senza testa, altri legati a pesanti mattoni: secondo un recente rapporto di Human Rights Watch, sono le vittime della campagna dei Talebani contro i presunti membri dello Stato islamico. Tra le minoranze non pashtun, l’etnia maggioritaria del Paese e quella da cui provengono i Talebani, abbiamo registrato molti timori, oltre alle denunce su terreni e case sottratti con la forza e sulla distribuzione iniqua degli aiuti della comunità internazionale. Nelle aree rurali, per esempio nella provincia meridionale dell’Helmand, non mancano contadini che apprezzano la fine delle ostilità, delle incursioni aeree, del conflitto intorno e sui loro terreni. Ma la pretesa del mawlawi Noor Ahmad Saeed, responsabile del dipartimento dell’Informazione di Kandahar, non regge: “Rappresentiamo 40 milioni di afghani”, ripete convinto. Di fronte alle nostre obiezioni, corregge il tiro: “In un governo, non tutti possono essere rappresentanti. Funziona così anche in America, con i democratici e i repubblicani: è normale”. A non essere rappresentate, però, qui in Afghanistan sono le donne, per le quali i Talebani hanno edificato un vero e proprio apartheid di genere. Ne sono un simbolo le scuole superiori, chiuse da circa 300 giorni. Da quasi un anno le studentesse dagli 11-12 anni in su non possono andare a scuola. È l’unico caso al mondo, ma al mawlawi Nawed non sembra così anormale: “Risolveremo presto anche questo problema”, assicura. Haiti. Governo del caos: le bande uccidono, rapiscono le persone, prendono il controllo dei tribunali di Carlo Magni La Repubblica, 24 luglio 2022 L’ondata di violenze aggrava la crisi. Una banda, la “5 Seconds”, ha preso il controllo del Palazzo di Giustizia di Port-Au-Prince e costretto magistrati e funzionari ad andarsene. Distrutti i file con le prove di reati. Una nuova ondata di violenze tra le numerose bande armate ad Haiti ha provocato la morte di centinaia di persone nelle ultime settimane ed ha ulteriormente inasprito la crisi umanitaria, politica e dei diritti umani nell’isola caraibica, la stessa isola dove sorge la Repubblica ispanofona Dominicana, a est, e che si trova al 170° posto nell’indice dello sviluppo umano redatto dall’ONU, con una sparanza di vita di 64 anni. Un Paese che non si è ancora ripreso dall’immane catastrofe provocata dal terremoto del 2010. Il quadro della situazione è stato diffuso da Human Rights Watch (Hrw), l’organizzazione umanitaria impegnata nella difesa dei diritti umani, che indaga e denuncia gli abusi avvenuti in ogni angolo del mondo, attraverso il lavoro di circa 450 persone di oltre 70 nazionalità, tra esperti nazionali, avvocati, giornalisti. “Garantire agli haitiani protezione e accesso alla giustizia”. I governi interessati, anche dell’America Latina, dell’Europa e degli Stati Uniti - si legge nella nota divulgata da Hrw - dovrebbero smettere di espellere le persone nel Paese e sostenere urgentemente gli sforzi dei gruppi locali della società civile e delle agenzie delle Nazioni Unite per garantire che gli haitiani abbiano protezione e accesso alla giustizia. Dall’inizio di luglio 2022, hanno riferito gli organismi delle Nazioni Unite, le bande hanno ucciso e rapito centinaia di persone a Port-au-Prince, la capitale, e hanno preso il controllo del Palazzo di Giustizia, dove si trova il Tribunale principale della città, aggravando ulteriormente la violenza e ostacolando l’accesso alla giustizia nel Paese. Il 15 luglio scorso, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha esteso il mandato dell’Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti fino a luglio 2023, espandendo il numero di funzionari della sicurezza nel paese. 540 rapimenti e 780 persone assassinate. Secondo l’Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti, 540 persone sono state rapite e più di 780 sono state uccise tra gennaio e maggio 2022. Negli ultimi cinque mesi del 2021, 396 persone sono state rapite e 668 uccise. Dal 7 luglio, una coalizione di bande nota come “G-9 an Fanni e Alye” sta compiendo attacchi al quartiere di Nan Brooklyn nella zona Cité Soleil di Port-au-Prince, con l’apparente obiettivo di prendere il controllo dell’area da un’altra banda. Secondo quanto riferito, circa 300 persone sono state uccise, tra cui 21 i cui corpi sono stati apparentemente bruciati, e 16 persone sono state segnalate come scomparse, secondo il National Human Rights Defense Network, un gruppo per i diritti umani. Le bande hanno anche bruciato case e usato macchinari pesanti per demolirle, ha detto il gruppo, con 125 case distrutte. Preso il controllo del Palazzo di Giustizia. Il 10 giugno, una banda conosciuta come “5 Seconds” prese il controllo del Palazzo di Giustizia di Port-Au-Prince. Hanno costretto i funzionari giudiziari ad andarsene, ferito un pubblico ministero e rubato computer, scrivanie e altri beni, ha detto il presidente dell’Associazione nazionale degli impiegati legali haitiani. La mancanza di udienze al Palazzo di Giustizia e in alcuni altri tribunali di Haiti significa che migliaia di persone in detenzione preventiva non sono state portate davanti a un giudice o non sono state in grado di far rivedere i loro casi. Oltre il 90% delle persone detenute nei centri di detenzione di Port-au-Prince sono in detenzione preventiva e alcune sono detenute arbitrariamente, poiché non sono mai state portate davanti a un giudice. Altri non hanno sentito parlare dei loro casi per oltre un anno. I magistrati avevano chiesto il trasferimento. Funzionari giudiziari e avvocati avevano messo in guardia per anni sui crescenti livelli di violenza delle bande nell’area circostante il palazzo, che si trova in un quartiere controllato da bande, e chiedevano che il tribunale fosse spostato altrove. L’Associazione dei magistrati haitiani e l’Ufficio per la protezione dei cittadini hanno identificato un edificio in cui il tribunale potrebbe essere allestito e hanno ripetutamente chiesto al governo di trasferirlo, ma non hanno ricevuto alcuna risposta dalle autorità, ha detto il presidente dell’associazione. Il Palazzo di Giustizia era stato in gran parte inoperante dal 2018 a causa di rischi per la sicurezza. I funzionari erano andati in tribunale solo per fare copie di documenti o ricevere nuove prove, ma le udienze erano state per lo più sospese. “Se i funzionari andavano al tribunale, dovevano farlo a proprio rischio e schivando i proiettili”, ha detto un membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Disrutti i file con le prove di casi molto gravi. Le bande sembrano aver rubato o distrutto file di casi e prove che, ha detto il presidente dell’Associazione dei magistrati haitiani, sarebbero impossibili da recuperare poiché i tribunali haitiani non hanno copie digitali dei file. I tribunali hanno conservato prove e file riguardanti molteplici massacri commessi dal 2018 da bande, nonché corruzione, crimini finanziari e omicidi. La polizia non è stata in grado di recuperare il controllo del tribunale, che la banda sta pattugliando e sorvegliando con droni, ha detto il difensore civico haitiano. Il National Human Rights Defense Network ha detto che “5 Seconds” non ha permesso agli estranei di entrare nel quartiere. “Le autorità haitiane - si legge nella nota di Hrw - dovrebbero adottare misure urgenti per recuperare i file, trasferire il tribunale e proteggere i funzionari della giustizia in modo che possano tornare al loro lavoro e valutare i danni” Carceri sovraffollate e frequenti maltrattamenti. Le carceri di Haiti sono sovraffollate, forniscono poco o nessun accesso a cibo, acqua e medicine, e ci sono state molteplici segnalazioni da parte di gruppi per i diritti haitiani e dell’Ufficio del Difensore Civico di casi di maltrattamenti o torture da parte delle guardie carcerarie e di stupri da parte di altri detenuti. L’Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti ha documentato 54 casi in cui i detenuti sono morti per cause legate alla malnutrizione tra gennaio e aprile. Otto detenuti sono morti per queste cause il 23 giugno nella prigione di Les Cayes, nel sud di Haiti. La prigione contiene 833 detenuti, tre volte la sua capacità, e ha poco cibo e acqua perché le bande hanno ripetutamente bloccato la strada tra Port-au-Prince e Les Cayes.