Carcere, il governo cade e siamo all’ennesima riforma incompiuta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2022 La storia si ripete. Si attendevano i decreti legislativi della riforma Orlando ma il presidente del Consiglio Gentiloni si dimise. La ministra Cartabia aveva il carcere tra le sue priorità, ma non se ne è fatto nulla. Ancora una volta svanisce la possibilità di cambiare in meglio il sistema penitenziario. È già accaduto con la riforma Orlando, quando mancava il via libera ai decreti legislativi per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni si dimise e tutto si vanificò. Il governo Conte, quello pentastellato, approvò la riforma snaturandola dei contenuti decisivi. Ma anche con il governo Conte due, quello demostellato, non ci fu alcun cambiamento. Tutto rimase immutato: infatti quando arrivò la pandemia, fu la scintilla che scoperchiò il vaso di pandora delle carceri italiane, tanto da provocare delle rivolte senza precedenti con tanto di morti e pestaggi. La ministra Cartabia creò una commissione per elaborare una proposta - Poi è arrivato il governo Draghi, e la neo ministra della Giustizia Marta Cartabia promise che avrebbe reso le carceri vicino al dettato costituzionale, indicando la giustizia riparativa e l’allargamento delle pene alternative come pilastri fondamentali. Così come creò una commissione di lavoro presieduto dal giurista Marco Ruotolo tanto da elaborare una proposta innovativa. Ma il governo Draghi cade e tutto svanisce. L’eterno ritorno delle riforme incompiute. Si chiedeva un decreto carcere con misure deflattive e aumento dell’organico - Eppure, sulle pagine de Il Dubbio avevamo messo in guardia su tale rischio. Aumentano i suicidi in carcere, cresce il sovraffollamento come denunciato dal Garante nazionale delle persone private della libertà e dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. A questo si aggiunge il discorso sanitario e il problema della salute mentale. Gli stessi sindacati di polizia penitenziaria, come la Uilpa pol. pen., hanno chiesto da tempo un decreto carcere affinché si inseriscano misure deflattive e aumento dell’organico. Senza parlare del Partito Radicale, in particolar modo Rita Bernardini che ha intrapreso, per un lungo tempo, lo sciopero della fame. Da più parti, principalmente dalla popolazione penitenziaria proveniva un’unica parola d’ordine: “Qui e ora” - La ministra della Giustizia Marta Cartabia, indubbiamente sensibile alla questione penitenziaria e che, senza alcuna ipocrisia, non ha nascosto le criticità nelle quali riversano le carceri, com’è detto aveva messo in campo una commissione che ha elaborato proposte importanti e rivoluzionarie, ma la storia recente ci ha insegnato che le soluzioni a lungo termine rischiano di non concretizzarsi a causa dell’instabilità politica e del populismo penale che caratterizza il nostro tempo. Da più parti, principalmente dalla popolazione penitenziaria (detenuti e detenenti) proveniva un’unica parola d’ordine: “Qui e ora”. Non in un futuro incerto quindi, ma adesso. I detenuti, a differenza delle rivolte del 2020, hanno intrapreso azioni non violente - Nel corso di questa legislatura, a differenza delle rivolte del 2020, i detenuti hanno intrapreso una battaglia nonviolenta, chiedendo quei piccoli, ma efficaci accorgimenti, che avrebbero permesso di alleggerire la popolazione penitenziaria. Le prime ad attivarsi attraverso lo “sciopero del carrello” e altre forme di disobbedienza, sono state le ragazze della sezione Femminile del carcere delle Vallette di Torino. Lo hanno fatto con determinazione nonostante il silenzio e disinteresse. Finito l’effetto pandemia che, grazie soprattutto al lavoro della magistratura di sorveglianza, aveva contribuito a far diminuire il sovraffollamento, ora gradualmente si rischia di ritornare ai numeri allarmanti. Tutto questo, nonostante sia stato prorogato il decreto Ristori per quanto riguarda licenze premio, permessi premio e detenzione domiciliare. L’Italia non è un Paese per le riforme, soprattutto penitenziarie - Evidentemente le misure non sono bastate, perché sarebbe servito un decreto ad hoc. Una terapia d’urto che disinneschi il malessere che affligge sia gli operatori penitenziari che detenuti e detenute. Invece si è puntato alla riforma della Giustizia e alla promessa non mantenuta di attuare i punti indicati dalla commissione Ruotolo. La ministra Cartabia aveva detto che a gennaio scorso il carcere sarebbe stato la sua priorità. “Dovrò valutare le proposte contenute nella relazione che la Commissione mi ha consegnato e, sulla base di esse, elaborare con il Dap un piano di azione da proporre su tutto il territorio - ha specificato la Guardasigilli - perché Il carcere ha sterminati bisogni: il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto livello amministrativo allo scopo di migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere”. Sono passati sette mesi da allora, ma nulla di fatto. Ora il governo è caduto e qualsiasi formazione futura non farà nulla di innovativo e coraggioso su questo versante. In ogni caso ci sarà la Lega, fratelli d’Italia e il Movimento cinque stelle (con il Pd che tentenna a seconda gli equilibri) che avranno sempre un peso. Senza parlare dei soliti giornali che faranno il cane da guardia del populismo penale. L’Italia non è un Paese per le riforme, soprattutto penitenziarie. Decreti Cartabia negli affari correnti, il rebus del rapporto con le Camere di Valentina Stella Il Dubbio, 23 luglio 2022 La circolare Draghi salva le riforme della giustizia, sulle quali però il governo potrebbe dover forzare la mano. I decreti attuativi delle riforme sul processo penale e civile rientrano tra gli affari correnti che il governo Draghi porterà avanti fino alla nomina del nuovo esecutivo, dopo le elezioni del 25 settembre. È specificato nella Circolare della Presidenza del Consiglio relativa appunto al perimetro degli affari correnti: “Il governo rimane impegnato nell’attuazione legislativa, regolamentare e amministrativa del Pnrr”, a cui sono legate le riforme del processo. Lo avevano ribadito in questi giorni sia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sia il premier Mario Draghi. Quali dovrebbero essere i prossimi passaggi? I decreti legislativi sulla giustizia, come anticipato dal sottosegretario Sisto alla Camera, sarebbero dovuti arrivare all’attenzione a Palazzo Chigi entro fine luglio. Poi passaggio in Cdm per l’approvazione e invio alle commissioni Giustizia di Camera e Senato per i pareri non vincolanti, entro 60 giorni. Fino all’emanazione finale da parte del governo, a precise scadenze: il 19 ottobre per il penale, il 24 dicembre per il civile. Tutto questo tecnicamente si può fare, a patto che i partiti evitino di reclamare modifiche di rilievo, che metterebbero la guardasigilli Cartabia e l’esecutivo in una posizione complessa: recepirle per portare comunque a casa i decreti o ignorarle per salvare lo spirito della delega. Se entro il 19 ottobre non fossero in Gazzetta i testi attuativi del penale, rimarrebbe in vigore solo l’articolo 2 della legge delega, quello relativo all’improcedibilità, immediatamente vigente, mentre decadrebbe quanto previsto dall’articolo 1 che prevedeva i decreti. Nel caso del civile, è vero che la delega scade a dicembre e quindi sopravvivrebbe al cambio di legislatura, ma molto probabilmente il nuovo Governo non farebbe in tempo ad emanare i decreti. Dovrebbe invece saltare la riforma della giustizia tributaria, incardinata da poco al Senato. Così come salteranno quella del carcere, che si sarebbe dovuta sviluppare sulle basi della relazione Ruotolo, e quella dell’ergastolo ostativo, il che potrebbe costringere la Consulta al terzo rinvio della sentenza. Mentre per quanto concerne i decreti attuativi della riforma del Csm, spetterà al nuovo governo emanarli giacché la delega scade a giugno dell’anno prossimo. Rossomando: “Decreti sulla giustizia da varare ora, no a meline di stampo elettorale” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 luglio 2022 “Ma ci sono anche riforme che non potranno vedere la luce, come le modifiche al regolamento penitenziario suggerite dalla commissione Ruotolo e quella sull’ergastolo ostativo”. In questa lunga intervista la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti dei dem Anna Rossomando traccia la linea del suo partito sul tema della giustizia e nei rapporti col Movimento 5 Stelle. “Ci batteremo per l’approvazione dei decreti attuativi delle riforme del penale e del civile”, ci dice. Resta amareggiata per il fatto che non si sia riusciti a portare a casa la modifica del regolamento penitenziario. “La nostra linea era e resta la stessa: carcere come extrema ratio e tempi ragionevoli dei processi”. “La differenza emersa in questi giorni con il M5S lascia un segno e difficilmente sarà ricomposta. Lo dico molto francamente, il gesto di ieri e quello che è accaduto in questi giorni è sostanza e non forma”. Lo ha detto Enrico Letta al Tg3. La linea è decisa? Premessa indispensabile è che mentre oggi (ieri, ndr) i leader europei annunciano impegni forti su emergenza energetica e aiuti ai cittadini, l’Italia, che con Draghi era capofila e traino di questa linea, in queste ore è costretta a fare l’inventario di cosa sarà possibile salvare tra i provvedimenti in cantiere. Quindi confermo la linea del segretario: tutti quelli che hanno affossato il governo Draghi sono ugualmente responsabili. Aggiungo che le priorità per noi erano e sono l’agenda sociale, aumento dei salari, lotta alla precarietà, taglio delle tasse sul lavoro, e la transizione ecologica. Tutto questo è messo in pericolo, mentre fino a tre giorni fa era alla nostra portata, con le proposte del ministro Orlando in campo. Il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni, del M5S, ha detto: “Pare che Letta e il Pd abbiano già fatto la loro scelta, rinnegando una possibile prospettiva di alleanza elettorale con noi 5 Stelle: è una scelta che li colloca inesorabilmente dentro un centro politico amorfo e tendente a destra”. Prosegue: “Peraltro, il responsabile dell’attuale situazione non è certo il M5S ma va cercato da un’altra parte. Si chiama Luigi di Maio”. Come replica? Questa dichiarazione mi sembra ricada nel tormentato dibattito all’interno del Movimento. Noi abbiamo e avremo una linea netta che rappresenta un posizionamento molto chiara, ossia quella di una sinistra moderna e che è soprattutto in contatto con i bisogni, le speranze e anche le angosce degli italiani. Negli affari correnti ci sono i decreti attuativi della riforma del penale e del civile. Tecnicamente si può fare ma occorre anche la volontà politica. Da parte vostra sembra esserci tutta la volontà di portare a casa il completamento della riforma. Ma c’è il rischio che gli altri partiti si mettano di traverso? Mi auguro che questo non accada, soprattutto per l’importanza dei temi legati al Pnrr. Nessuno pensi di fare campagna elettorale a scapito dei diritti dei cittadini. Si tratta di riforme attese e indispensabili in uno Stato di diritto. La cultura delle garanzie è una questione seria e aggiungo che il termine garantismo non può essere usato come un brand pubblicitario. E non vorrei che il garantismo a corrente alternata di qualche partito si manifestasse nell’ultimo miglio per l’approvazione delle riforme. Poi le deleghe sono scritte molto chiaramente, il Parlamento le ha approvate. Dentro c’è molto del lavoro del Pd: noi ci batteremo affinché questi decreti attuativi vengano emanati, contengono interventi importanti sui tempi dei processi. Sarebbe paradossale aver approvato l’improcedibilità e poi buttare al macero tutta la restante parte della riforma che consente di velocizzare i processi per non far scattare l’improcedibilità stessa. E a proposito di garantismo non dimentichiamo il considerevole capitolo sulle pene alternative per condanne sotto i quattro anni che possono essere irrogate direttamente dal giudice di cognizione, e tante altre misure che vanno in questa direzione. Proprio quest’ultimo è un punto osteggiato dal M5S e Lega... Noi manterremo il punto e rimaniamo a quello che è stato approvato in Parlamento. Su questo abbiamo una linea chiara, carcere come extrema ratio insieme a tempi ragionevoli dei processi, e non la pieghiamo a usi elettorali. Che destino avrà il ddl sulla giustizia tributaria? Si tratta di una delle riforme fortemente a rischio per quanto accaduto in questi giorni e che quindi molto probabilmente non si potrà portare a termine. Eppure è necessaria per l’economia del Paese, collegata comunque al Pnrr e nella quale era nostra intenzione inserire previsioni per lo smaltimento dell’arretrato giudiziario. Insieme a questa saltano molte altre fondamentali riforme: ergastolo ostativo, suicidio assistito, violenza domestica, e tutti i disegni di legge contro la violenza sulle donne, quella sul cognome materno a seguito della pronuncia della Consulta, la legge sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro e le modifiche da noi proposte alla legge Severino. Anche la riforma del carcere salta... Purtroppo sì. Noi, che non ci svegliamo garantisti a seconda della luna, speravamo davvero che si potessero approvare almeno alcune misure prima della fine della legislatura. Una molto importante sarebbe stata la modifica del regolamento penitenziario, frutto dei lavori della Commissione Ruotolo. Non vedranno la luce anche una serie di interventi di struttura che noi avevamo proposto. Di questo, qualcuno che non si è mai dissociato dallo slogan ‘marcire in galera’ e ‘buttare la chiave’, si rallegrerà. Noto che lancia molte frecciate alla Lega. È così? Certo. I fatti parlano e nelle loro posizioni vedo molta strumentalità. Un Pd svincolato dai 5 Stelle come cambia sui temi della giustizia? Non cambia nulla: noi abbiamo avuto da sempre una linea molto limpida e non ci siamo mai sentiti frenati. Semmai rivendichiamo di aver spostato l’asse politico degli altri interlocutori che siedono in Parlamento. Per trovare delle soluzioni nelle Aule occorre avere innanzitutto idee molto chiare e noi le abbiamo sempre avute. Infatti quando siamo stati al governo sono state portate a casa riforme importanti, ultima delle quali quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario, rispetto alla quale nutro dei timori per i decreti attuativi, visto che la delega scade l’anno prossimo. Vorrei ricordare quanto abbiamo insistito sui tempi entro i quali venisse approvata e sui contenuti. Invece con il governo gialloverde, con la politica del ‘baratto’, sono state approvate la legge spazza-corrotti e quella sulla legittima difesa. Come vede non è certamente il Pd che deve temere condizionamenti in tema di giustizia. Lei crede che si riusciranno ad eleggere i laici del Csm il 21 settembre? Non credo sarà possibile a quattro giorni dalle elezioni. Sempre nel campo della giustizia, secondo lei sarebbe possibile costruire una nuova area garantista che tenga insieme voi progressisti con le forze moderate - Calenda, Italia Viva, i fuoriusciti di FI - e sia affrancata dai pregiudizi che hanno ostacolato il garantismo berlusconiano? Sarebbe forse la prima volta. La prossima settimana ci sarà una direzione, durante la quale ci sarà una discussione politica a tutto campo. Sicuramente non si parte dalle sigle o da approcci politicisti, ma dalla nostra agenda sociale, così come da quella dei diritti. Civile e penale, avanti le riforme dei processi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2022 Decreti legislativi a breve in Cdm, a rischio invece nuovo ordinamento e Csm. Nessuna battuta d’arresto sulle riforme del processo civile e di quello penale. Verosimile proroga dell’attuale Csm per dare modo al nuovo Parlamento di eleggere i consiglieri laici. Questi gli effetti immediati della fine anticipata della legislatura sull’attività di governo in materia di giustizia. Una conclusione che, quanto a timing, coincide quasi al millimetro con la presentazione in consiglio dei ministri dei decreti legislativi di attuazione delle deleghe sulle nuove misure di procedura. I testi dei due provvedimenti sono infatti ormai alle limature finali e già la ministra della Giustizia Marta Cartabia intendeva portarli in consiglio prima della pausa estiva. Il precipitare della situazione politica ha reso però indispensabile una riflessione sulla praticabilità giuridica di due interventi centrali per il rispetto degli impegni assunti dall’Italia con il Pnrr. Le due riforme infatti, di portata tale da ridurre in maniera significativa, del 40%nel civile e del 25% nel penale, la durata dei procedimenti sono state concordate con l’Europa e difficilmente potrebbero essere accantonate in attesa delle elezioni. Entro l’autunno, a ottobre il civile e novembre il penale, i testi devono essere definitivamente approvati ed entrare in vigore. Il tutto conduce alla conferma della tabella di marcia, sia pure in un contesto drasticamente cambiato, rendendo assai probabile la presentazione in consiglio dei ministri dei due provvedimenti nell’arco dei prossimi giorni, comunque entro l’inizio di agosto. Certo, ben difficilmente il Parlamento potrà esprimere i pareri previsti entro i canonici 6o giorni, ma questo non è un problema, si sottolinea in via Arenula, perché il via libera definitivo potrebbe arrivare anche senza l’intervento delle commissioni parlamentari. Determinante, in questa chiave, si osserva al ministero, c’è il fatto che si tratta nella sostanza di misure attuative di deleghe sulle quali il consenso politico dell’ormai dissolta maggioranza è stato espresso, sia pure con accenti e tempi diversi e faticosi (più tranquilli nel civile, molto più problematici nel penale, basti ricordare alla querelle sull’improcedibilità dell’estate scorsa). Discorso diverso per la riforma di ordinamento giudiziario e Consiglio superiore della magistratura. A essere stata approvata da poche settimane, anche in questo caso dopo un percorso tormentato, è stata infatti una legge delega, con misure però subito in vigore per rendere possibile il rinnovo del Consiglio con le nuove regole. Tanto che le elezioni dei nuovi consiglieri togati, 20 secondo la riforma, sono state appena fissate dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per i prossimii8 e 19 settembre, una settimana prima delle politiche. Pertanto, nella concreta improbabilità che l’attuale Parlamento possa trovare un’intesa sui nuovi consiglieri laici, che la riforma prevede siano io, è verosimile che si arrivi a una proroga contenuta dell’attuale consiliatura, in scadenza a settembre, per dare modo a Camera e Senato nella nuova composizione di procedere alle votazioni. Subito operativa, e già il banco di prova sarà costituito dalle elezioni politiche, la stretta sulle “porte girevoli”. A un incerto destino sono affidate tutte le altre misure confluite nella delega, peraltro non strettamente collegata al Pnrr, che dà un anno di tempo per l’attuazione. Con temi come la nuova disciplina dei fuori ruolo, le valutazioni di professionalità dei magistrati, con il tanto contestato fascicolo delle performances, i criteri di assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Sarà il nuovo Governo a decidere se esercitare la delega già approvata in questa legislatura. Giustizia, corsa contro il tempo per evitare riforme a metà di Angela Stella Il Riformista, 23 luglio 2022 Cala il silenzio su carcere e regolamento penitenziario, fuori dal disbrigo degli affari correnti. L’8 novembre finisce il tempo concesso dalla Consulta per modificare l’ergastolo ostativo. La delega per quella penale scade il 19 ottobre, per quella civile il 24 dicembre. A rischio i fondi del Pnrr. Riuscirà il governo dimissionario a portare a casa i decreti attuativi? “Serve volontà politica”, dicono da via Arenula. Prima della formazione del nuovo Governo, che avverrà dopo le elezioni del 25 settembre, è necessario portare a casa i decreti attuativi delle riforme della giustizia. Lo chiede l’Europa, lo impone la responsabilità politica. Lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso dopo lo scioglimento delle Camere ha detto: “A queste esigenze si affianca - con importanza decisiva - quella della attuazione nei tempi concordati del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cui sono condizionati i necessari e consistenti fondi europei di sostegno”. Ma lo aveva anticipato al Senato lo stesso Mario Draghi: “per quanto riguarda la giustizia, abbiamo approvato la riforma del processo penale, del processo civile e delle procedure fallimentari e portato in Parlamento la riforma della giustizia tributaria. Queste riforme sono essenziali per avere processi giusti e rapidi, come ci chiedono gli italiani. È una questione di libertà, democrazia, prosperità. Le scadenze segnate dal Pnrr sono molto precise. Dobbiamo ultimare entro fine anno la procedura prevista per i decreti di attuazione della legge delega civile e penale”. La Circolare della Presidenza del Consiglio relativa agli affari correnti lo ha ribadito due giorni fa, citando testualmente: “Il governo rimane altresì impegnato nell’attuazione legislativa, regolamentare e amministrativa del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr)”. Ora bisogna fare in fretta. Fonti di via Arenula fanno sapere che “tecnicamente si può, bisogna vedere poi se c’è la volontà politica”. Per capire spieghiamo bene i passaggi. Lo schema di attuazione delle riforme del penale e del civile, come anticipato dal Sottosegretario Sisto rispondendo durante un Question time alla Camera qualche giorno fa, prima della crisi, sarebbe dovuto arrivare all’attenzione della Presidenza del Consiglio entro fine luglio. Poi passaggio in Cdm per l’approvazione e poi invio alle commissioni giustizia di Camera e Senato per l’elaborazione dei pareri non vincolanti entro sessanta giorni. Step finale: pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, secondo precise scadenze, ossia 19 ottobre per il penale, 24 dicembre per il civile. È chiaro che questo Governo resterà in carica fino a quando non si insedierà il nuovo, dunque probabilmente entro la metà di ottobre. Ma sarebbe opportuno approvare tutto quanto prima. Cosa accadrebbe se entro il 19 ottobre non fossero in Gazzetta i decreti attuativi del penale? Rimarrebbe in vigore solo l’articolo due della riforma del processo penale, quello relativo all’improcedibilità, immediatamente vigente mentre decadrebbe quanto previsto dall’articolo 1 che prevedeva i decreti attuativi. Se ciò accadesse sarebbe un paradosso spiegano sempre fonti di via Arenula: “Per evitare che scatti l’improcedibilità si ha necessità che venga approvata la restante parte della norma per accelerare i processi. Sarebbe un atto irresponsabile non farlo”. Per quanto riguarda il civile, è vero che la delega scade a dicembre e che quindi sopravvivrebbe alla nuova legislatura ma il nuovo Governo non farebbe molto probabilmente in tempo ad emanare sempre i decreti attuativi. Dunque avremmo riforme mozze e non riceveremmo dall’Europa i soldi del Pnrr. Si manderebbe altresì a monte tutto l’enorme lavoro fatto dalle Commissioni di esperti istituite a Via Arenula. Ora sta ai partiti non vanificare tutto. Partiamo dal presupposto che il Parlamento ha approvato la legge delega, compreso quindi l’impianto che guida la specificazione dei decreti attuativi. Eppure già il Movimento Cinque Stelle e la Lega qualche settimana fa avevano fatto capire che non avrebbero accettato a scatola chiusa i decreti ma avrebbero voluto rivedere qualche punto, a partire dalle misure alternative per condanne con pene inferiori a quattro anni. La Ministra Cartabia ha tutto l’interesse sia personale sia in chiave di responsabilità politica per completare l’approvazione della riforma ma andrà tutto liscio? Difficile immaginare che i partiti possano fare una campagna elettorale, già di per sé complessa e compressa sotto l’ombrellone, sulla giustizia, trattandosi di temi anche molto tecnici. Tutto dipenderà da quando saranno resi pubblici i decreti attuativi: perché in quel momento anche l’Anm e l’Unione delle Camere Penali, oltre ai partiti, vorranno esprimere un loro parere e hanno già anticipato che chiederanno di essere audite in Commissione. Le eventuali richieste di modifica di partiti e gruppi di interesse saranno compatibili comunque con l’impianto generale e accettate dal Governo? In teoria un Governo in scadenza potrebbe anche ignorare i ‘capricci’ dei partiti e emanare i decreti senza modifiche. Insomma la partita è complicata e i tempi sono stretti. Per quanto concerne invece la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario se la vedrà il nuovo Governo perché in quel caso la delega scade a giugno 2023 e c’è la possibilità che buona parte della riforma venga rimaneggiata. In questi giorni invece silenzio assoluto sul destino della riforma del carcere. Come sappiamo a gennaio la commissione presieduta dal professor Marco Ruotolo aveva inviato alla Ministra la corposa relazione. Fino ad ora il Dap ha lavorato all’emanazione di alcune circolari interne in linea con le direttive della commissione ma adesso ci si chiede quanto possa andare avanti con questo clima politico e con la possibilità che la Ministra Cartabia, molto sensibile al tema carcerario, non ci sia più nel prossimo Governo. Per quanto riguarda la modifica del regolamento penitenziario abbiamo raccolto l’amarezza proprio del professor Ruotolo: “La revisione del regolamento penitenziario fuoriesce dal perimetro del disbrigo degli affari correnti. Purtroppo sarà l’ennesima occasione mancata per il miglioramento della qualità della vita negli istituti penitenziari. Il rammarico è ancora più grande perché avevo ricevuto notizia di una prossima sottoposizione del testo al Consiglio dei Ministri. Auspico che le azioni amministrative suggerite dalla mia Commissione, alcune delle quali già intraprese, siano portate avanti. E spero che le revisioni del regolamento siano riprese dal prossimo Governo, insieme alle altre proposte suggerite nel nostro documento”. E la riforma dell’ergastolo ostativo? Difficilissimo dare una risposta. La Corte Costituzionale aveva concesso al Parlamento un nuovo rinvio e posto l’8 novembre come data ultima per l’approvazione della nuova legge. Ma sono davvero minime le possibilità che questo avvenga. Cosa farà la Corte Costituzionale? Un nuovo rinvio? Il terzo? O finalmente dichiarerà incostituzionale l’ergastolo ostativo? Palamara in corsa per le politiche: “Ecco il mio programma per una giustizia giusta” di Simona Musco Il Dubbio, 23 luglio 2022 Oggi la presentazione di “Oltre il Sistema” a Roma: dieci i punti nel suo programma, tutto centrato sulla giustizia. Dieci punti programmatici, al centro dei quali c’è la giustizia: Luca Palamara è pronto ad annunciare la sua candidatura alle elezioni politiche del 25 settembre, con la sua creatura politica che verrà battezzata questa mattina alle 11, all’Hotel Baglioni, in via Veneto, a Roma. E non a caso il nome richiama tutte le vicende che lo hanno visto protagonista e che hanno sconvolto la magistratura negli ultimi tre anni: “Oltre il sistema”, l’associazione che fa capo all’ex capo dell’Anm, “determinatissimo sulla giustizia a non lasciare cadere la palla a terra”, si legge in una nota. “Una battaglia di verità e giustizia - prosegue la nota - che nasce da una forte esperienza personale, dalla quale è scaturita un’altrettanta forte reazione di impegno civico. Una battaglia per combattere dall’interno i meccanismi di un sistema di nomina all’interno della magistratura che favoriva carrierismi e appartenenze di corrente e non i curricula migliori. Da lì l’orizzonte è diventato più vasto”. Insomma, dopo aver tentato l’avventura delle suppletive a Roma ad ottobre scorso, adesso il percorso dell’ex zar delle nomine sembra più definito. Il primo punto del suo programma, che ammicca a destra, riguarda i rapporti tra toghe e politica, che necessitano di “una riforma “shock” anche a livello costituzionale”. Una riforma che “rimetta in discussione il ruolo e la presenza dei laici nel Csm; introduca il sorteggio temperato per l’elezione dei togati, preveda una sezione disciplinare sul modello del Tribunale dei ministri; introduca una effettiva separazione delle carriere”. Ma non solo: il programma prevede anche, tra le altre cose, la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari, come già prevede la riforma Cartabia. Il secondo punto riguarda l’uso politico dei processi, di cui l’ex pm ha ampiamente parlato nei suoi libri, in particolare in merito alle vicende giudiziarie che hanno interessato Silvio Berlusconi. E la giustizia, secondo Palamara, non dovrà più essere uno strumento “per eliminare questo o quel nemico politico”. Il che si traduce con l’intenzione di ripristinare l’autorizzazione a procedere, la cancellazione della legge Severino, a tutela del principio costituzionale dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Ma da rivedere non ci sono solo i rapporti con la giustizia. Anche l’informazione gioca il suo ruolo, come evidente dalle fughe di notizie “pilotate” per cambiare carriere politiche ma anche i destini della magistratura. L’intenzione è quella di dire basta alla gogna e tagliare il cordone ombelicale tra le redazioni e le procure. “Abbiamo bisogno di giornalisti che raccontano il lavoro del magistrato perché la criminalità si combatte anche informando con onestà l’opinione pubblica in modo che si rafforzi una coscienza civile”, afferma Palamara. Quindi niente più rapporti privilegiati, copia e incolla selvaggio delle ordinanze, individuando nella fase delle indagini preliminari “un momento in cui gli atti possano diventare ostensibili anche ai giornalisti senza pregiudicare il buon esito delle indagini”. C’è poi il rapporto con l’economia. E qui i fari si accendono sulla giustizia civile, che condiziona gli investimenti stranieri. “Il processo civile deve tornare ad essere il luogo nel quale si regolano i fatti provati dai contendenti e non una inutile palestra di sterili discussioni giuridiche”, questa l’idea di Palamara. Che vuole un processo più breve, regole più chiare e meno articolate. Un altro capitolo è occupato dalla giustizia sociale e dal diritto di difesa. Il che vuol dire che la possibilità di far valere i propri diritti non può essere appannaggio dei soli ricchi: “Occorrono effettive garanzie di difesa per tutti - si legge nel programma -, riproponendo con forza il potenziamento della difesa di ufficio e l’accesso al patrocinio gratuito”. Inoltre, in linea con i quesiti referendari, l’ex zar delle nomine vuole limitare l’utilizzo della custodia cautelare, diventata una “anticipazione della pena”. Ma l’intenzione è anche quella di riformare la pubblica amministrazione, semplificando, tra le altre cose, i procedimenti amministrativi “in chiave di salvaguardia dei diritti dei cittadini e delle imprese” e aumentando la retribuzione dei dipendenti non dirigenziali; e di garantire maggiore sicurezza sul territorio - una “priorità” - destinando maggiori risorse alle forze dell’ordine, con uomini, mezzi ed equipaggiamenti e leggi migliori per garantire “la certezza della pena”. E ciò implica una rimodulazione della “scriminante dell’adempimento del dovere, in modo da trovare un equilibrio che tuteli il legittimo svolgimento dei poteri autoritativi di pubblica sicurezza”. C’è spazio anche per l’ambiente, attraverso la realizzazione della transizione ecologica e la ripartizione dei fondi del Recovery per promuovere iniziative che garantiscano il riequilibrio di equità ambientale; e i giovani, garantendo un esame di abilitazione all’esercizio della professione forense rapido, trasparente ma altamente selettivo, ma anche più occasioni per le micro e le piccole imprese. L’ultimo capitolo riguarda il Pnrr: “La necessità di avere Tribunali moderni ed efficienti impone anche un serio e costante monitoraggio sul conseguimento degli obiettivi” del Piano nazionale di ripresa e resilienza, “per valutare ulteriore investimento sull’ufficio per il processo; chiarezza normativa e contrattuale per le figure professionali di ausilio al giudice per evitare precariati senza fine; non abdicare alla funzione formativa negli uffici proponendo il tirocinio con borse di studio”. Un’assoluzione basta da sola a creare il ragionevole dubbio di Gian Domenico Caiazza* Il Dubbio, 23 luglio 2022 La vicenda Eni dà un ulteriore spunto per riflettere sul potere delle Procure di impugnare le sentenze assolutorie: l’azione penale non è una scommessa da vincere a ogni costo. Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori. Nel nostro sistema il pubblico ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di accusa di grado superiore, cioè la procura generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello). Nella larghissima maggioranza dei casi la procura generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il procuratore generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il procuratore generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal pubblico ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria. La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’accusa in appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni. La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la procura generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale. Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili. Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pubblico ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole. Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il pubblico ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione. *Presidente dell’Unione Camere penali italiane Sardegna. Caligaris (Sdr): “Necessarie strutture alternative per detenuti psichiatrici” cagliaripad.it, 23 luglio 2022 La rappresentante dell’associazione: “La presenza di detenuti psichiatrici è incompatibile con una struttura chiusa, specie se gestiti quasi esclusivamente con i farmaci”. “Le continue, quasi quotidiane, segnalazioni di atti di autolesionismo da parte di detenuti con gravi disturbi mentali, hanno un’unica vera causa: l’assenza di strutture alternative al carcere. È improcrastinabile mettere a disposizione dei pazienti psichiatrici detenuti residenze attrezzate per garantire la loro incolumità e quella di chi lavora. Non si può continuare a far finta di niente”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme sottolineando che “la maggior parte di questi gesti inconsulti, particolarmente numerosi nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta com’è emerso anche oggi, impongono l’intervento salvifico e rischioso degli Agenti Penitenziari nonché le cure dei Sanitari facendo venire meno la funzione riabilitativa del carcere”. “La presenza di detenuti psichiatrici - ricorda Caligaris - è incompatibile con una struttura chiusa e dove la gestione rischia di diventare prevalentemente, se non esclusivamente, di carattere farmacologico o comunque non adeguato a curare e gestire situazioni così complesse. Giunta e Consiglio regionale si attivino per affrontare un problema che riguarda non solo le carceri ma l’intera società”. Pavia. Quinto suicidio a Torre del Gallo in nove mesi di Maria Fiore La Provincia Pavese, 23 luglio 2022 Michel Mangano era in attesa del processo d’appello. È il quinto suicidio in nove mesi nella casa circondariale di Pavia. Lo hanno trovato ieri mattina nel letto della sua cella a Torre del Gallo, privo di vita. Micheal Mangano, 33 anni, di Vigevano, ha aspettato che il compagno dormisse per mettere in pratica il suo gesto di disperazione. Ad aprile era stato condannato in primo grado a otto anni per omicidio preterintenzionale in relazione alla morte dell’amico Filippo Incarbone, il camionista di 49 anni deceduto nella casa di Mangano, in via Buccella a Vigevano, e ripescato cadavere dal Ticino il 16 febbraio 2021. La pena, che sarebbe terminata nel 2029 ma che doveva passare al vaglio del processo di appello, era stata di molto contenuta, rispetto alla richiesta della procura, che aveva chiesto 18 anni per la diversa accusa di omicidio volontario. Non è da escludere che proprio la vicenda giudiziaria abbia aggiunto peso alla sofferenza della detenzione, anche se Mangano non aveva manifestato segnali di disagio particolari. È il quinto suicidio in nove mesi nel carcere di Pavia. Doppia indagine - Sull’accaduto, come atto dovuto, la procura ha aperto un fascicolo, che è stato assegnato al magistrato Camilla Repetto. Oggi dovrebbe svolgersi l’autopsia, per chiarire le cause della morte. Accanto al corpo del detenuto è stato trovato un sacchetto di plastica. L’altro ieri, mercoledì, aveva ricevuto la visita della zia e nei giorni precedenti era andato a trovarlo la moglie. Il dramma si è consumato nelle prime ore della mattinata di ieri, quando gli agenti della polizia penitenziaria hanno eseguito il controllo della cella, nella sezione aperta. L’allarme è subito scattato, con l’intervento anche di un medico, ma per l’uomo non c’era più nulla da fare. Anche i vertici della struttura carceraria hanno avviato un’indagine interna. Accertamenti che dovranno stabilire se la sua situazione fosse seguita in modo adeguato dal servizio di medicina interna del carcere oppure se possa esserci stata una sottovalutazione delle condizioni di salute psicologica del recluso. Il suo avvocato, Fabio Santopietro, preferisce non rilasciare dichiarazioni. Il garante dei detenuti - La vicenda sembra confermare alcune criticità già emerse mesi fa sulle condizioni dei detenuti all’interno del carcere di Pavia. Sul caso (il 37esimo suicidio nelle carceri italiane) è intervenuto anche il garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà, Mauro Palma. “Questo ennesimo episodio di suicidio ci deve fare riflettere - ha spiegato -. Il 37esimo suicidio significa che siamo ora a più di un suicidio a settimana. Non è questione di attribuire delle colpe, perché il suicidio è sempre un elemento non valutabile. Piuttosto, l’alto numero di suicidi in carcere in Italia deve far riflettere sul perché il carcere trasmetta un’immagine di stigma perenne da cui non si può tornare indietro. Le persone che si suicidano - ha aggiunto - sono persone spesso entrate da poco oppure che sono prossime all’uscita. Non si sono stancate di stare in carcere, piuttosto hanno spesso paura dello stigma sociale che il carcere proietta”. Benevento: Detenuto “incompatibile con il carcere, e ha istinti suicidari” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2022 La denuncia dei familiari tramite l’associazione Yairaiha Onlus. Si chiama Francesco Domenico Sposato. È stato trasferito presso la Casa Circondariale di Benevento, nella sezione di Osservazione Psichiatrica. Come si evince da copiosa documentazione medica che i familiari hanno inviato all’associazione Yairaiha Onlus, è affetto da crisi di ansia e disturbi di natura depressiva di livello moderato/ grave, oltre ad essere soggetto a un progressivo scadimento delle funzioni cognitive e da deperimento fisico. Il complessivo stato di salute di Sposato, in particolare i problemi di natura psicologica, costituiscono segnali importanti da non sottovalutare, in relazione a condotte suicidarie dello stesso. Si segnala infatti, all’interno della documentazione, l’ossessiva tendenza a pensieri di morte da parte del detenuto. Il problema è che, secondo la perizia, pur emergendo un miglioramento delle condizioni di salute grazie alle terapie farmacologiche, viene evidenziato che si evincono ancora dubbi sulla compatibilità del suo stato di salute con la detenzione, suggerendo la prosecuzione del percorso terapeutico in un contesto diverso da quello carcerario. Già a maggio, l’associazione ha chiesto al Dap di trovare una soluzione per scongiurare un suicidio, l’ennesimo che poi si dirà che poteva essere evitato. Ma nulla. Per tale ragione Yairaiha ha rinnovato le sue preoccupazioni, temendo un tragico capovolgimento verso un esito infausto. Sottolinea che è attuale anche il monito della Corte Europea di Strasburgo che, nella recente sentenza Citraro e Molino c. Italia del 2020, dove richiede agli Stati di adottare maggiori ed elevati standard di tutela del diritto alla vita della persona, tanto più se la stessa è privata della libertà personale: per la Corte, la violazione convenzionale è integrata se l’autorità preposta, a fronte di elementi dai quali si possa inferire la sussistenza di un rischio concreto di gesti autolesivi ( la sentenza enumera, esemplificativamente, la presenza di anamnesi positiva per disturbi della sfera psichica, precedenti specifici, ideazioni suicidarie già espresse dal soggetto, etc.), non adotti tutte le “misure ragionevolmente utili” a prevenire la verificazione dell’evento anticonservativo. Napoli. Detenuto obeso (250 kg), cardiopatico e infartuato, nuovo caso a Poggioreale di Andrea Aversa Il Riformista, 23 luglio 2022 Pesa 250 chili, ha diverse fratture, è cardiopatico e ha già avuto quattro infarti. E’ il profilo del detenuto arrivato nelle scorse ore nel carcere di Poggioreale a Napoli. Prima era ristretto nella Casa circondariale di Lecce e, su disposizione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, adesso allocato nel reparto Sai (Servizio di assistenza intensificato) del carcere di Poggioreale. “Non capisco la logica di questo trasferimento - dichiara il Garante campano, Samuele Ciambriello - Già è per me inconcepibile che Francesco, un uomo di 48 anni, che pesa 250 chili, ha diverse fratture, è cardiopatico ed ha già avuto quattro infarti, stia ancora in carcere e non in detenzione domiciliare in una struttura sanitaria o ospedaliera. Ancor più inaccettabile è che adesso stia in un istituto di pena come Poggioreale”. Il caso di Francesco è solo l’ultimo di una serie episodi analoghi, primo tra tutti quello di Mario, l’uomo di 270 chili che da Poggioreale, proprio nei giorni scorsi, è stato mandato ai domiciliari dopo vari appelli e ben tre anni in cella. “Troppi ammalati, anziani, detenuti con disturbi psichiatrici che riempiono le nostre carceri. Per loro dovrebbero essere pensate soluzioni diverse, misure alternative, anche in ragione del fatto che nelle carceri campane mancano medici, sia generi che specialistici, infermieri, psichiatri e psicologi. Lo Stato non può rimanere inerme davanti a storie come quelle di Francesco, che merita di scontare la sua pena in maniera dignitosa e soprattutto avendo le necessarie cure e non lontano da casa, da sue familiari, sapendo -per esempio - che la Casa circondariale di Bari ha un reparto Sai ben attrezzato e già anche collegato con il locale ospedale e con la facoltà di Medicina dell’Università barese. Le strutture carcerarie, così come Poggioreale, non possono farsi carico di un caso clinico così delicato. Si corre un rischio troppo alto”. Airola (Bn). Le cose non cambiano finché non cambierà il carcere di Giorgia Zoino cronachedelsannio.it, 23 luglio 2022 Il 6 luglio, nel carcere minorile di Airola, un detenuto psichiatrico minorenne di origini albanesi si è procurato più volte tagli in tutto il corpo con oggetti rudimentali. L’episodio non è, però, isolato. Già il 29 giugno, stando alla denuncia di Sabatino De Rosa, vice responsabile regionale del settore minorile del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), lo stesso detenuto “continua a lesionarsi il corpo, ha anche aggredito un altro ristretto e provocato una rissa in mensa. Sono continue le minacce di morte agli agenti, contro i quali ha lanciato anche una scrivania”. Ci sono altri due casi denunciati da De Rosa come quello di un ristretto che più volte ha ingoiato le pile del telecomando, “mentre altri due hanno tentato di aggredire il barbiere”. L’IPM di Airola è il secondo carcere minorile sul territorio campano dopo quello di Nisida. I ragazzi ospitati provengono per la maggiore dal napoletano e dal salernitano, solo raramente da altre regioni o paesi. Attualmente il numero dei ristretti è di 35 su una capienza di 46. Qui la gestione dei detenuti minorenni con disturbi psichiatrici è sempre più complessa e complicata ed “è grave che - secondo quanto riferisce Donato Capece, segretario generale del Sappe - pur essendo a conoscenza delle problematiche connesse alla folta presenza di detenuti psichiatrici, le autorità competenti non siano ancora stati in grado di trovare una soluzione. Ogni giorno nelle carceri italiane, per adulti e minori, succede qualcosa ed è quasi diventato ordinario denunciare quel che accade tra le sbarre”, guardando sia dal lato dei detenuti che da quello del sotto organico penitenziario. Il problema della gestione dei detenuti psichiatrici - che sono in carcere dopo la chiusura degli O.P.G. con la legge 81/2014 - resta, però, aperto sia a livello locale che nazionale, ed è una questione che “merita attenzione ed una urgente e compiuta risoluzione”, riferisce Capece. Il caso dell’IPM di Airola è infatti uno dei tanti esempi a livello nazionale di disinteresse della politica e dell’opinione pubblica che accolgono la “questione carcere” come un sistema il cui fine è quello di rieducare i detenuti, quando la rieducazione deve coinvolgere la stessa opinione pubblica. Quindi, chi fa il punto dalla legge 81/2014 alle residenze delle misure di sicurezza (Rems)? E chi sulle attuali condizioni di detenzione e sul numero di capienza effettivo? Quali sono le condizioni e la gestione dei disturbi psichiatrici negli istituti? In che modo si affronta il diritto dell’affettività in carcere? Perché la legge Siani è stata bloccata per anni? Questioni riconducibili ad una domanda: cosa accade al detenuto - e ai suoi affetti - dopo la sentenza della pena? Il presidente di Antigone Campania, Luigi Romano, con il suo Potere e violenza nelle carceri italiane, presentato all’ex Convento San Felice lo scorso 6 luglio, ha tentato di innescare un dibattito sul tema insieme agli avvocati Stefania Pavone, Nico Salomone, Andrea De Longis e Riccardo Polidoro. Il carcere - scrive Romano - è un “enorme laboratorio sociale” che sperimenta strategie normative su questioni sociali complesse: “cosa accade al corpo recluso quando si riducono le ore d’aria da quattro a due? Fino a che punto posso stressare l’emotività di una particolare tipologia di detenuti?”. Pensate alla mancanza di un’ora d’aria e il sovraffollamento in carcere, in cella, durante una pandemia e alla dimensione e cura degli spazi interni ed esterni, “la cura medica delle dipendenze, il contenimento chimico delle ansie reattive e dei disturbi mentali, il funzionamento della sorveglianza a distanza, la reazione psicofisica ai molteplici regimi di chiusura”. Parlare del carcere, per quanto sia un sistema autoreferenziale, significa parlare delle condizioni di detenzione dei ristretti, della macchina legislativa che c’è dietro, del rapporto tra genitorialità e sistema, e dello status delle tante strutture; tutte questioni affrontate solo dagli “addetti ai lavori” e che trovano poco spazio nelle narrazioni mediatiche. Ci si chiede, a questo punto, se le cose cambieranno se, però, a cambiare è il carcere. Ivrea (To). Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla di Pierangelo Scala rossetorri.it, 23 luglio 2022 Gherardo Colombo e il suo libro nell’incontro organizzato allo Zac per Ivreaestate. Per mettere a fuoco questa serata, che si è svolta martedì 12 luglio alle ore 18 su iniziativa di Associazione Rosse Torri, La Fenice, lo Zac e la libreria Mondadori di Ivrea, mi sono occorsi due passaggi. Il primo, ovviamente, è stato quello di partecipare alla serata, il secondo, altrettanto fondamentale, è stato quello di discuterne a posteriori con la dr.ssa Olivia Realis Luc, insegnante e fondatrice della rivista “La Fenice”. Il progetto di questo giornale è stato concepito e realizzato per dare voce ai detenuti del carcere di Ivrea e aprire un punto di confronto tra il mondo all’interno della struttura penitenziaria e quello esterno, ponendosi domande sempre più dirette sulla condizione di vita dei carcerati, su cosa significhi la perdita della libertà, sull’utilità della pena, sulla giustezza della giustizia, sulla tutela dei diritti ecc. Gherardo Colombo, come il titolo del suo libro perentoriamente indica, non ha dubbi sul fatto che, così come è concepito, il sistema carcerario non funzioni. La sua esperienza di magistrato, giurista e saggista, gli ha conferito una visione assai diversa da quella che registra il pensiero comune. La sua è un’ottica che ribalta completamente il modo di interpretare il rapporto tra i reati commessi e le pene comminate. Il che vuol dire, innanzitutto, non identificare il condannato con la colpa di cui si è macchiato. Se questa cosa avviene, e purtroppo avviene, lo stigma della colpevolezza marchia a vita anche il detenuto che ha pagato il suo debito con la società, spingendolo, in certi casi, all’estrema ratio del suicidio. Accennando alla sua biografia, Colombo ricorda la sua decisione di abbandonare la professione di magistrato nel 2007, per entrare alla Garzanti come presidente e girare nelle scuole per svolgere un ruolo di formazione proprio su queste tematiche. La vera giustizia, dice, dovrebbe sempre essere riparativa e non ripagare il male con la pena. Si tratta di uscire dallo schema binario “colpa e punizione” per seminare il nascere di una società più equa, in cui vengano gradualmente meno le condizioni che avviano al crimine. Le basi di questo progetto puntano massivamente sull’educazione preventiva, unica strada verso il miglioramento civile. Per essere ancora più chiaro, Colombo usa, come esempio, la storiella dell’idraulico che, prima di cambiare il rubinetto sgocciolante della cucina, dovrebbe controllare quello centrale del condominio onde verificare se il guasto non parta dalla fonte. Curare le cause invece dei sintomi è un principio universale che vale anche in altre settori come quello della salute o della guerra, sempre inquadrata attraverso il metodo manicheo della restituzione del colpo su colpo. In pratica, siamo ancora tutti in preda agli istinti più grossolani della nostra condizione umana, uomini più desiderosi di vendetta che non di giustizia. “Tutti noi, dice Colombo, non facciamo altro che ergerci a giudici infallibili del prossimo, lapidando i colpevoli come se noi fossimo immuni dalla possibilità di sbagliare. Fondamentalmente si punisce, aggiunge ancora Colombo, non per redimere il reo, ma per ottenere da questi ubbidienza”. Lo schema diventa: colpa, punizione, ubbidienza, controllo. Del riscatto morale del colpevole, del suo ricupero sociale e dei suoi diritti, non importa nulla a nessuno. L’importante è che, nell’organizzazione sistemica vigente, chi è in galera righi dritto senza infrangere le regole e senza dare fastidio. Questa situazione si combina con la condizione di degrado delle carceri, che non contribuisce certo all’emancipazione e al recupero dei detenuti. Naturalmente si parla anche di altre società, come quella scandinava, dove le condizioni di vita della popolazione carceraria rappresentano per noi modelli futuristici, dove le carceri sono strutture moderne più similari a dei confortevoli hotel che non a luoghi di detenzione. E qui si potrebbe aprire qualche riflessione sul perché certe società o certe culture o certi processi educativi siano più sviluppati. Ma come si realizza una società più giusta? Nell’incertezza della risposta, dal momento che individuare ciò che è giusto non è semplice, si dovrebbe cominciare a puntare l’attenzione su ciò che è sbagliato. Quindi per prima cosa ripetiamoci che il colpevole non è la sua colpa; un furto o un crimine non fanno di un uomo un ladro o un criminale in eterno. L’inferno non è luogo di residenza definitiva nemmeno per Hitler. Chi sbaglia, chi cade, è un uomo che fa da specchio a noi stessi e il suo errore, il suo crimine, se elaborati con onestà intellettuale e sincera autocritica, possono addirittura renderlo migliore di tanti integerrimi cittadini sempre pronti a scagliare la prima pietra. Detto questo, occorre perseguire la conoscenza, l’unica possibilità che ci rende liberi di scegliere. Nella maggior parte dei casi è proprio la mancanza di conoscenza che porta a una scelta sbagliata. In definitiva, fronteggiare la trasgressione con la punizione non porta a nessun risultato. Ma allora qual è l’alternativa? Il punto è che bisogna costruire una società che non discrimini in quanto è proprio la discriminazione ad aver operato nei secoli come elemento di disgregazione. I reati sono spesso figli dell’ingiustizia sociale. Nella maggior parte dei casi, il tossico delinque per procurarsi la droga, l’affamato ruba per procurarsi il pane. L’autore di un reato, a guardarlo bene, è a sua volta una vittima. Certo, su questa lunghezza d’onda, sulla scia di queste considerazioni, il pubblico presente fa i conti con le sue perplessità. Viviamo in un contesto di insicurezza dove una realtà sanguinante di atrocità ci circonda. Non si può non pensare alla devastazione delle periferie cittadine, con i quartieri emarginati dal dominio della delinquenza. Non si può non pensare alle molteplici forme del male, agli spacciatori che avvelenano i nostri ragazzi agendo indisturbati, ai morti sul lavoro perché si eludono volontariamente le misure di sicurezza, non si può non pensare ai vecchietti raggirati e borseggiati, agli stupri, a certi crimini di fronte ai quali anche un santo perderebbe la pazienza. E allora che fare, nell’immediato, di fronte all’indignazione della gente, che fare di fronte all’insicurezza di chi si sente sotto minaccia? Come rispondere, nel breve, alle istanze di una giustizia a misura d’uomo evitando che le paure del cittadino comune si esasperino? Naturalmente, chi si rende responsabile di un reato grave deve essere allontanato dal contesto sociale, ma non dobbiamo scordare che, in ogni caso, la persecuzione del reo non paga. Questo è il concetto cardine del cambiamento possibile, il concetto da incasellare nella memoria. Le tematiche affrontate sul tema della carcerazione sono molto importanti dunque perché indicano il nostro raggiunto livello di civiltà. Ritornando a casa, chiedendomi cosa principalmente mi avesse spinto a partecipare a questo incontro, la risposta che mi sono dato era che volevo incontrare qualche carcerato, perché sono attratto da chi sta male e convinto che la maggior parte di loro possano aver intrapreso un cammino per uscire fuori dal tunnel. Chi acquista coscienza dei propri errori è sicuramente una persona di qualità. In fondo io non ho mai imparato nulla dalle mie vittorie, ma solo dalle mie sconfitte e così succede per tutti gli uomini. Qualche tempo dopo la serata, mi ha telefonato Olivia chiedendomi di scrivere un pezzo ed io ero già di nuovo in preda ai miei dubbi sulla giustizia non punitiva finché lei non ha detto che per cambiare, per migliorarsi umanamente, bisogna compiere un cammino e che per intraprendere il cammino, bisogna compiere il primo passo. E non importa se tutte le altre voci ti urlano contro. Quel primo passo cambia la vita. E così mi è venuto in mente Jean Valjean, il protagonista dei Miserabili di Victor Hugo, lui che viene compreso nella sua debolezza, lui che dà una sberla e riceve una carezza, lui che è il simbolo di riferimento per tutti quelli che, dopo aver fatto il male, incontrano il bene e imparano a coltivare uno spirito caritatevole. Certo dobbiamo lavorare tanto per elevarci tutti insieme, e per farlo dobbiamo anche toglierci dal naso i pesanti occhiali con le lenti del pregiudizio. Sono un paio di antiestetici occhiali neri che non donano per niente al nostro aspetto. Non è facile rinunciarci perché abbiamo condizionamenti sedimentati nel profondo ma con l’osservazione del loro potere negativo, e anche con l’aiuto di chi è andato più avanti nella nuova direzione, possiamo farcela. Allora anche l’incontro su tematiche complesse e difficili come quello della serata con Colombo, l’incontro con gli errori degli altri che ci fanno riconoscere i nostri, sarà più completo, maturo ed educativo. Rimini. La ministra Cartabia dai detenuti senza carcere della “Papa Giovanni” di Nicola Strazzacapa Corriere della Romagna, 23 luglio 2022 “Desideravo conoscervi personalmente”. Si è presentata così, alla Casa del perdono di Montecolombo di Taverna di Montecolombo, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli si è approcciata in punta di piedi a modello di accoglienza per detenuti che, lo testimoniano i numeri, serve realmente a non fare commettere nuovamente reati. Ieri ha visitato la casa di accoglienza per carcerati della Papa Giovanni XXIII, accolta da Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità di don Benzi. Qui, lungo la strada che da Morciano porta in Carpegna, vivono al momento ventiquattro detenuti che stanno scontando la pena con misure alternative al carcere. Niente sbarre, tanta comprensione fin dal cartello che accoglie i nuovi arrivati “L’uomo non è il suo errore”, come amava ripetere il parroco dalla tonaca lisa. Le Comunità per Carcerati - Quella di Rimini è una delle 8 Comunità Educanti con i Carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle strutture e nelle cooperative dell’associazione. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 241 tra detenuti ed ex detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 1.865 persone. L’ascolto e le parole della Ministra - La Ministra Cartabia, dopo aver ascoltato i detenuti ospiti della casa di accoglienza, ha dichiarato: “Sono qui per conoscervi di persona e toccare con mano una ricchezza di cui tanto ho sentito parlare, anche prima che ci incontrassimo su progetti comuni, come l’accoglienza a madri detenute con figli piccoli. Questo è un luogo dove accadono cose importanti: essere qui oggi è un momento per coltivare il rapporto tra realtà positive della società civile e le istituzioni. Essere qui è per me come una boccata d’ossigeno. Soprattutto in ambito penitenziario, le istituzioni funzionano bene soprattutto quando c’è una sinergia con realtà che funzionano bene, come la vostra”. I risultati concreti - La recidiva crolla. “Per noi è molto importante questa visita perché come comunità abbiamo sempre scelto di collaborare con le istituzioni. Le persone che hanno sbagliato devono giustamente pagare per i loro errori, ma devono anche essere rieducate - spiega Ramonda. È quello che facciamo nelle nostre comunità. Per chi esce dal carcere la tendenza a commettere di nuovo dei reati, la cosiddetta recidiva, è il 75% dei casi. Invece nelle nostre comunità, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli, i casi di recidiva sono appena il 15%”. Taranto. Detenuti in visita al museo con le famiglie: “La bellezza fa cambiare vita” di Peppe Aquaro Corriere della Sera, 23 luglio 2022 Un fine settimana di “permesso” in uscita per otto detenuti del carcere di Taranto, e la scelta di come spenderlo l’hanno fatta loro: “Al Museo archeologico con le famiglie”. È il progetto “Detenuti-figli” dell’associazione Troisi Project. Per alcuni è il primo incontro con i figli fuori dal carcere. La tomba dell’Atleta, la statua di un giovane togato e Persefone rapita da Ade. Ma l’elenco potrebbe continuare. Non c’è che l’imbarazzo della scelta entrando al Marta, il Museo archeologico nazionale di Taranto, dove la cultura classica, dall’antica Grecia ai Romani, fino alle collezioni più recenti, è un continuo racconto in mostra, di sala in sala. Ma cosa piace vedere alle famiglie e di che cosa vanno alla ricerca, una volta varcata la soglia del museo, nel cuore della città, al numero 10 di via Cavour, nel Borgo ottocentesco? “Cercano un momento di pace e libertà. Contenti di poter visitare il museo con i propri figli; per una giornata intera. E non è sempre una cosa scontata”, racconta Maria Teresa Liuzzi, presidente dell’associazione “Troisi Project”, parlando del progetto “Detenuti-figli” rivolto dal 2015 ai “permessanti”, i detenuti della Casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto ai quali è stato concesso di poter trascorre un weekend al mese in compagnia della propria famiglia. “Escono dal carcere il venerdì, per rientrarvi il lunedì mattina: naturalmente sotto il consenso della direzione dell’Istituto di pena di Taranto, del Garante per i diritti dei detenuti e della Magistratura di sorveglianza”, spiega Liuzzi. Per questo oggi, sabato 23 luglio, otto detenuti possono visitare il Museo Marta, dalle 10,30 del mattino, in compagnia dei loro famigliari. “L’hanno chiesto loro: avevano voglia di vedere qualcosa di diverso, Anche perché, nella loro vita, pur essendo di Taranto non avevano mai visitato il museo. Sì, siamo rimasti spiazzati: avremmo voluto proporre come uscita una visita agli ipogei funerari, le tombe ellenistiche della città, ma la richiesta è stata secca e precisa”. A quel punto, in questo progetto un ruolo importante l’ha svolto anche l’associazione “Amici dei Musei di Taranto”, la cui presidente Patrizia De Luca ha riconosciuto subito l’importanza del progetto: “Ne ho parlato con la direttrice del Marta, Eva Degl’Innocenti, e abbiamo deciso di finanziare l’iniziativa: non abbiamo fatto altro che provvedere al pagamento dei biglietti d’ingresso”. Le storie degli otto visitatori per un giorno sono tutte diverse. Se non fosse per il fatto che molti di loro hanno motivato la visita al Marta col fatto che i loro stessi genitori, 30 o 40 anni fa, avevano partecipato come aiutanti degli studiosi e ricercatori agli scavi archeologici nel Borgo di Taranto. Accennando poi alle occasioni irrinunciabili e da prendere al volo, quando passano, c’è, per esempio, la storia di un papà detenuto, il quale, grazie al progetto “Detenuti-figli” alla scoperta della bellezza nei weekend (“Un progetto unico in tutta la Puglia”, ricorda Liuzzi) è uscito per la prima volta con suo figlio, un bambino di otto anni: “Non si erano mai incontrati dal vivo: il bambino non sa che suo papà è agli arresti. Gli unici contatti finora erano avvenuti su whatsapp: è stato emozionante vederli insieme, mano nella mano”, ricorda la presidente dell’associazione Troisi. I figli degli otto ospiti del museo avranno la possibilità di partecipare ai laboratori sull’arte, la cultura e la natura: “Stiamo riscrivendo la favola di Pinocchio, insieme ad alcuni ospiti della Casa circondariale di Taranto: vorremmo realizzare un cortometraggio su questa esperienza”. L’attenzione al bello e a ciò che fa star bene sia il corpo che l’anima è uno dei fili conduttori degli interventi sociali dell’associazione Troisi: “Nelle nostre uscite poniamo molta attenzione al bello, a tutto ciò che si perdono negli anni de carcere, ma che va la pena di recuperare”, dice Liuzzi, la quale ricorda quanta strada è stata fatta in tutti questi anni trascorsi a rivalutare l’importanza della persona partendo dall’esperienza con la bellezza: “Nelle prime uscite molti dei detenuti ci chiedevano di accompagnarli nei migliori ristoranti della città: era la prassi. È chiaro che entrare oggi in un museo archeologico - perché lo hanno chiesto loro, animati da quel desiderio profondo di far capire, prima di tutto alle loro famiglie, di essere cambiati - significa che il potere rigenerante della cultura, esiste, eccome”. Sulla stessa lunghezza d’onda la padrona di casa del Marta, la direttrice Degl’Innocenti: “Studiare, approfondire, ricordare, educare al bene comune, permette a tutti non soltanto di ritrovare le proprie radici e sviluppare la propria sensibilità, ma anche di recuperare la propria identità e sentirsi parte integrante della storia delle civiltà”. Roma. “Favorire il lavoro per i detenuti in messa alla prova” Il Messaggero, 23 luglio 2022 Firmato protocollo tra ministero Giustizia e Telefono Rosa. Promuovere la stipula di convenzioni locali per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità ai fini della messa alla prova per adulti fra i Tribunali ordinari e le strutture e/o le sedi operative territoriali del Telefono Rosa, i centri antiviolenza, le case rifugio e le case di semi-autonomia e delle associazioni che ad esso fanno capo. È questo l’obiettivo del protocollo nazionale sottoscritto dalla Ministra Marta Cartabia con la presidente del Telefono Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli e curato dalla Direzione generale per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità. Il Telefono Rosa è un’associazione di volontariato che si occupa di prevenire, segnalare e offrire supporto alle donne che subiscono violenze fisiche o psicologiche, maltrattamenti e stalking ed è presente in tutto il territorio nazionale con importanti sedi e servizi in Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia. L’Associazione inoltre assicura consulenza specialistica di tipo legale, attraverso avvocate penaliste, civiliste e cassazioniste; consulenza psicologica; attività di mediazione linguistico- culturale; gruppi di auto mutuo aiuto; sostegno alla genitorialità; segretariato sociale e orientamento informativo/ formativo ai servizi e al lavoro. Tali attività vengono offerte alle utenti italiane e straniere, comunitarie ed extracomunitarie. Il Telefono Rosa da diversi anni si occupa anche di educare e formare i giovani al rispetto e alla parità di genere, ritenendo necessario partire dalle nuove generazioni per combattere la violenza di genere, gli stereotipi e qualsiasi forma di discriminazione. Il protocollo nazionale consentirà di affrontare meglio la crescente richiesta di ulteriori posti per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità in settori a forte impatto sociale e soprattutto con l’entrata in vigore della riforma del processo penale rappresentando pertanto un ulteriore e significativo progresso verso il potenziamento - anche in Italia - di un modello di giustizia di comunità in linea con le principali tradizioni europee. “Grazie a protocolli come questo, il tempo speso nell’esecuzione della pena diventa un tempo costruttivo: al lavoro di restituzione e di recupero degli autori di reato si accompagna il lavoro su se stessi”, commenta la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “La legge delega di riforma del processo penale - di cui stiamo perfezionando i decreti attuativi - intende sviluppare ulteriormente la possibilità di ricorrere alla “messa alla prova”. In quest’accordo con Telefono Rosa, particolare attenzione è rivolta alle donne, in linea con gli interventi già previsti nella riforma”. “Questo accordo - commenta la Presidente del Telefono Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli - ci consentirà di aiutare meglio le persone a comprendere il significato del loro comportamento, come si può arrivare ad uno stesso obiettivo senza violenza ma attraverso la parola e il dialogo. Un sostegno concreto, facendo loro vivere la realtà del Telefono Rosa, senza mai oltrepassare il limite del rispetto e della solidarietà. Alla luce di questo nostro incontro è emerso il grande lavoro che la Ministra Cartabia sta facendo con la riforma del processo penale. Il protocollo sarà uno strumento utile nella battaglia contro la violenza sulle donne. I soggetti che parteciperanno alla messa alla prova acquisiranno consapevolezza attraverso la formazione”. Roma. Rugby oltre le sbarre: rinnovata l’intesa Fir-Dap federugby.it, 23 luglio 2022 Nuovo accordo quadriennale punta a intensificare le occasioni di pratica agonistica e amatoriale con la palla ovale in favore di detenuti e personale. Sarà potenziata la sinergia già in atto fra Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Federazione Italiana Rugby per attivare percorsi di pratica sportiva e formativa in favore di detenuti e personale. È quanto prevede il protocollo d’intesa “Rugby oltre le sbarre”, sottoscritto dal Capo del Dap Carlo Renoldi e dal Presidente della Federazione Italiana Rugby Marzio Innocenti, con il quale è stato rinnovato per altri quattro anni, fino a marzo 2025, l’accordo già siglato nel 2018. La collaborazione, peraltro già attiva da diversi anni in alcuni istituti penitenziari, intende innanzitutto contribuire a migliorare la condizione psico-fisica dei detenuti attraverso l’avviamento alla pratica del rugby, considerato il valore fortemente educativo e formativo dello sport della palla ovale. Viene rinnovata la partecipazione di squadre formate da detenuti ai campionati ufficiali federali - attualmente sono iscritte le squadre “Dozza” a Bologna, “Drola” a Torino e “Pecore Nere” a Livorno, che disputano gli incontri sempre in casa - nonché l’organizzazione di attività sportive non agonistiche. Con l’intesa si punta inoltre a programmare corsi per arbitri e tecnici destinati sia alla popolazione detenuta che al personale dell’Amministrazione, attraverso l’impiego di tecnici qualificati della Federazione coadiuvati da personale del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre della Polizia Penitenziaria. La FIR tra gli altri impegni collaborerà all’attuazione di un programma sportivo annuale in favore del personale dell’Amministrazione Penitenziaria finalizzato a favorirne il benessere psico-fisico. Un apposito Comitato tecnico-scientifico, composto da due delegati FIR e due del Dipartimento, si occuperà di verificare la realizzazione degli obiettivi del protocollo e di pianificare gli interventi programmati. “Lo svolgimento di attività sportive in carcere” ha sottolineato il Capo del Dap Renoldi, “costituisce un aspetto trattamentale di primaria importanza per la popolazione detenuta e al tempo stesso un fattore importantissimo per il benessere psico-fisico del personale dell’Amministrazione. Sono grato alla Federazione Italiana Rugby per aver accettato con entusiasmo di continuare sulla strada già intrapresa anni fa che, oltre alla pratica sportiva, vuole rendere vivi e ben visibili nei nostri istituti i valori di rispetto e senso di appartenenza che sono propri di questa disciplina”. “Siamo fortemente determinati a garantire continuità a “Rugby oltre le sbarre” perché abbiamo sempre creduto in un progetto che può aiutare la società civile attraverso i valori che il nostro sport incarna.” - ha dichiarato Marzio Innocenti - “Abbiamo trovato da parte del Dap altrettanto entusiasmo e determinazione ad aiutare chi ha sbagliato a crescere come individuo in un contesto di comuni intenti e rispetto delle regole naturale in una squadra di rugby e che, da sempre, consideriamo uno dei traguardi più prestigiosi che possiamo raggiungere attraverso questa peculiarità. Con Rugby oltre le sbarre e con la collaborazione che rinnoviamo oggi con il Dipartimento proseguiamo un lungo un cammino che, negli anni, ci ha portato a modificare le norme federali per consentire una partecipazione attiva e reale dei tesserati detenuti all’attività agonistica e per permettere l’inquadramento nella categoria arbitrale a coloro che hanno sostenuto il corso federale durante la propria permanenza negli istituti raggiunti dal progetto. Inoltre, insieme al DAP, siamo al lavoro per sviluppare un programma sportivo per il personale dell’Amministrazione che siamo certi potrà rappresentare una pietra miliare nell’evoluzione dei rapporti tra il personale stesso ed i detenuti, accomunati dalla passione per uno sport che fa della capacità di aggregazione un proprio tratto distintivo”. Vasto (Ch). All’ingresso del carcere un murales che parla di libertà di Roberta Barbi vaticannews.va, 23 luglio 2022 È stato inaugurato nei giorni scorsi “Solo chi sogna può imparare a volare”, l’opera di street art che abbellisce l’entrata della casa di lavoro della cittadina abruzzese. A realizzarla l’artista Lorenzo Faini con due clown dell’associazione promotrice Ricoclaun e detenuti in semilibertà. C’è un aeroplanino di carta che segna la propria rotta puntando verso l’alto, simbolo di quella libertà che se non è reale può diventarlo almeno con la fantasia. E poi c’è quel richiamo forte, diretto, ai sogni, nutrimento essenziale di ogni anima che voglia imparare a volare, o almeno reimparare a camminare con le proprie gambe. È la nuova opera di street art appena inaugurata sul muro esterno adiacente all’ingresso della casa di lavoro di Vasto, in provincia di Chieti, ideata dall’artista Lorenzo Faini, progettata assieme a due volontari dell’associazione Ricoclaun da anni presente nell’istituto di pena, e realizzata assieme a un gruppo di detenuti in semilibertà. “Il giorno dell’inaugurazione erano presenti molti volontari e un gruppo di internati appena ammessi alle licenze, che per noi sono il primo passo verso la libertà vigilata, quindi è stato un momento molto simbolico e toccante”, è la testimonianza di Maria Giuseppina Rossi, funzionario giuridico pedagogico della struttura. Un messaggio di bellezza che hanno voluto regalare agli ospiti della casa di lavoro le associazioni Ricoclaun - promotrice dell’iniziativa - ma anche Un Buco nel tetto e Avi Alzheimer, che accanto a loro vivono e lavorano, o semplicemente che i detenuti li portano nel cuore, segno che la comunità vastese ha una grande sensibilità e molto da insegnare. “Quando nel 2013 fu inaugurata la casa lavoro - racconta ancora la funzionaria - ci fu un primo momento di difficoltà legato al pregiudizio. I detenuti di qui sono in una situazione particolare: a Vasto abbiamo una piccola sezione circondariale, ma è soprattutto una casa di lavoro, perciò chi arriva da noi ha già scontato quasi tutta la pena e ricomincia pian piano a lavorare, a ricostruirsi un futuro pensando al dopo, al fuori”. E tra le tante esperienze di lavoro che i detenuti sono stati chiamati a vivere, anche questo murales e un altro realizzato davanti alla sezione dei semiliberi lo scorso anno. Ora le fotografie di entrambi andranno a impreziosire una pubblicazione sulla street art realizzata dal Club Unesco di Vasto. Un lavoro impegnativo, fatto di sudore anche a causa del grande caldo che non molla, in questa estate italiana: “Ognuno ci ha messo qualcosa di sé, perciò questi murales sono così belli e hanno suscitato tanto interesse - ha detto Maria Giuseppina Rossi - si tratta di riqualificazione, anzi di più, di rigenerazione urbana attraverso i colori, che sono la sintesi della vita”. Nella casa di lavoro di Vasto, come rivela la stessa denominazione, sono molte le esperienze a disposizione dei detenuti che stanno qui concludendo il loro percorso prima di reinserirsi nella società: “Abbiamo un’azienda agricola che speriamo di rilanciare al più presto, poi una sartoria che al momento si occupa di confezionare biancheria come lenzuola e federe per le esigenze interne - spiega in conclusione la funzionaria - stiamo completando i primi due corsi di formazione per pizzaioli e inoltre, a breve, dovrebbe aprire un birrificio. Sono tutte attività interne, ma che per essere gestite hanno bisogno di collaborazioni esterne ed è proprio questo ponte tra dentro e fuori a rivelarsi fondamentale per il futuro degli internati anche in termini di diminuzione della recidiva. Abbiamo bisogno di puntare su questo: la prosecuzione del lavoro una volta fuori di qui”. E non c’è dubbio che ancora una volta la comunità di Vasto ci sarà, presente e disponibile come sempre. Suicidio assistito, il Consiglio delle Marche sarà il primo a discutere una legge regionale di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 luglio 2022 Suicidio assistito, il Consiglio delle Marche sarà il primo a discutere una legge regionale. “Un timing preciso che serve anche ad aiutare l’Asur ad assumere decisioni in sicurezza e ad evitare le battaglie in tribunale, come è stato nel caso di Federico Carboni (“Mario”) e “Antonio”, rispettando gli obblighi imposti dalla Corte costituzionale con la sentenza Cappato n. 242/19”. Così il capogruppo Pd del consiglio regionale delle Marche, Maurizio Mangialardi, descrive sinteticamente la proposta di legge regionale sul suicidio assistito di cui è primo firmatario e che attende - lunedì prossimo - la nomina dei relatori per iniziare l’iter in commissione. Il testo è stato messo a punto dall’Associazione Luca Coscioni ed è stato trasmesso anche a tutti gli altri governatori attraverso la Conferenza Stato-Regioni, per sollecitare analoghe iniziative consiliari. Anche la Puglia aveva presentato una propria proposta un mese fa circa, ma il testo sul quale dovrà confrontarsi ora l’assemblea marchigiana (maggioranza di destra) è più puntuale nel formalizzare tempi e procedure per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito. Il terzo dei cinque articoli di cui è composta la legge infatti prevede che l’azienda sanitaria (regionale o delle province autonome) a cui la persona ha presentato richiesta, ai sensi della Sentenza Cappato, effettui le verifiche nel termine di 10 giorni dalla richiesta e poi, entro 5 giorni, trasmetta le relative relazioni al Comitato etico competente che dovrà emettere il suo parere entro i successivi 5 giorni ed inviarlo all’azienda sanitaria che immediatamente informa la persona interessata. Una legge dunque che non allarga lo spettro dei diritti già riconosciuti dalla Consulta ma tenta di superare il vulnus che mette a rischio il lavoro degli stessi operatori sanitari, spiega Mangialardi. “Per questo - dice - mi auguro che anche la destra, sia pur distratta dalle ormai prossime elezioni, la voti”. Brasile. 18 morti durante un’operazione di polizia in una favela di Rio di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 23 luglio 2022 È la quarta strage per numero di vittime nella storia moderna del paese e la terza nella città. Un’altra incursione della polizia, un’altra strage. Rio de Janeiro vive 10 ore di battaglia furibonda tra oltre 400 agenti dei corpi d’élite d’intervento (Core e Bope) e i miliziani asserragliati nel Complexo do Alemão, una grande favela a est della capitale carioca. Si contano 18 morti e secondo le organizzazioni che seguono la violenza in Brasile è la quarta strage per numero di vittime nella storia moderna del paese e la terza nella sola Rio. Morti anche un agente, il caporale Bruno de Paula Costa, 38 anni colpito da un proiettile nei locali della Upp, l’Unità di Pacificazione della Polizia e una donna di 50 anni, Letícia Marinho Salles. È stata raggiunta da un proiettile al viso mentre era alla guida della sua auto. Operazione contro una gang - L’obiettivo delle squadre di intervento era arrestare i membri della gang che domina il quartiere, specializzata in assalti ai camion, rapine alle banche e furti di auto di lusso. Ma in realtà, secondo sostiene la stessa Polizia militare, si voleva impedire al gruppo di espandersi nelle vicine favela, scontrarsi con gli avversari e allargare il volume d’affari. Grazie a un lavoro di intelligence, racconta chi ha guidato l’incursione, si erano raccolte informazioni precise sul numero e i posti di controllo degli affiliati al gruppo. Ma la voce sull’imminenza di un assalto è presto circolata nella favela e la banda si è preparata allo scontro. I 400 agenti si sono sparpagliati nei vicoli che formano la ragnatela del complesso, sostenuti da dieci mezzi blindati e guidati dall’alto da 4 elicotteri. Guerriglia nella favela - L’effetto sorpresa è svanito. I miliziani hanno iniziato la battaglia con traccianti che hanno colpito gli elicotteri e poi hanno dato fuoco alle barricate che punteggiavano i principali ingressi. L’intero quartiere era deserto. Tutti tappati in casa, scuole e negozi sbarrati, uffici chiusi. Nessuno si avventurava all’esterno. Echeggiavano solo le raffiche di fucili automatici e le grida che si lanciavano da un punto all’altro sia i poliziotti sia i miliziani. Si è combattuto per dieci ore, mentre bruciavano le strade con alte barriere di fuoco per il petrolio dato alle fiamme che scendeva come un fiume verso valle. È stato difficile capire quante persone avessero perso la vita. Chi seguiva le operazioni delle centrali indicava 5 morti. Ma ben presto il numero è aumentato fino a contare 18 vittime. L’ufficio del difensore pubblico ha espresso sconcerto e preoccupazione. “Riceviamo molte segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani”, scrive in una nota, “è molto probabile che questa sia una delle operazioni con il più alto tasso di morti a Rio de Janeiro”. Diversa la ricostruzione del governatore Claudio Castro, alla guida dello Stato di Rio. “Le nostre forze di sicurezza sono state attaccate vigliaccamente durante un’operazione per arrestare alcuni criminali”, scrive su Twitter. Al termine dell’incursione la polizia ha annunciato di aver sequestrato quattro fucili, due pistole e una mitragliatrice .50, in grado di abbattere un elicottero, e 50 ordigni esplosivi. Nessun accenno al numero degli arrestati. Molti dei banditi indossavano divise simili a quelle della polizia. È stato difficile distinguere gli uni dagli altri. Un’escalation di violenza - Lo scontro ben presto è diventato furibondo, con i proiettili che schizzavano da tutte le parti. Uno ha colpito l’auto della donna morta sul colpo. Tornava da una colazione che aveva voluto fare con la zia e i nipoti. Più tardi, lo stesso Ufficio del difensore pubblico è entrato nei dettagli delle segnalazioni che sono arrivate dagli stessi abitanti di Alemão. “Denunciano invasioni domestiche, aggressioni, feriti lasciati morire, esecuzioni sommarie, smantellamenti della scena del crimine. La situazione non è ancora del tutto stabilizzata, è quindi difficile confermare i fatti”. Le testimonianze raccolte dai media e la rabbia degli abitanti che vagavano trasportando i feriti da una casa all’altra raccontavano la serie di episodi su cui sarà difficile indagare. La morte di un poliziotto - Quando muore un poliziotto, come è accaduto anche questa volta, si scatena un vero inferno. I colleghi reagiscono con rabbia, sparano a vista, non si curano certo dei feriti e fanno fuoco su chi incrociano durante il blitz. Il presidente Jair Bolsonaro ha avuto parole di cordoglio per l’agente ucciso. “È un giorno sfortunato per Rio”, ha detto durante un collegamento sui social, “un agente è stato colpito da uno dei banditi. Lascia una moglie e due figli autistici”. Nessun accenno alla vittima civile. Anche lei lascia un compagno e quattro figli. Non c’entrava nulla. È noto che la polizia brasiliana è la più letale al mondo. L’anno scorso oltre 6 mila persone sono morte durante le incursioni. La violenza a Rio è purtroppo una costante con cui si è obbligati a convivere. Nello stesso complesso di favela ci sono state altre due incursioni letali in poco più di un anno: nel Complexo da Penha, con 24 morti, appena due mesi fa e a Jacarezinho, nel maggio del 2021, con 28 vittime.